La fotometria astronomica

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La fotometria astronomica
La fotometria astronomica e' la misura della luce emessa da una sorgente celeste. Essa fa uso di un
insieme di procedimenti ottici, fotografici ed elettronici, per misurare il flusso luminoso (cioè
l'energia che investe un rivelatore nell'unita' di tempo). Già gli astronomi dell'antichita' avevano
suddiviso le stelle in classi a seconda della loro brillantezza apparente, ma soltanto sulla base di
osservazioni compiute ad occhio nudo. Con l'avvento degli strumenti astronomici, delle pellicole
fotografiche e in seguito dei rivelatori fotoelettrici e poi elettronici, e' stato possibile ottenere delle
misure quantitative.
La fotometria astronomica si basa sul concetto di magnitudine, che e' la misura dell'intensità' della
luce emessa da un astro. Essa deriva il suo nome dal termine latino "grandezza", perché anticamente
si pensava che le stelle piu' luminose fossero anche le piu' grandi. Per questo motivo, gli antichi
astronomi avevano suddiviso le stelle in 6 classi di grandezza: le stelle di 1a grandezza erano le più
luminose, quelle di 6a le più deboli.
La scala delle magnitudini odierna rispecchia questa terminologia, così il numero che indica la
magnitudine cresce col diminuire dello splendore. La magnitudine dei corpi celesti più luminosi
(come il Sole, Venere o Giove) viene indicata addirittura con un numero negativo.
La scala delle magnitudini non e' lineare, ma geometrica: due stelle il cui rapporto di intensità
luminosa è 100 differiscono di 5 magnitudini, mentre differiscono di una magnitudine quando il
loro rapporto di luminosità e' pari a 2,512. Ad occhio nudo si possono osservare solo astri fino alla
sesta magnitudine, mentre al telescopio si vedono oggetti di intensità molto minore, cioè di
magnitudine maggiore, fino ad oltre 23.
Queste considerazioni si riferiscono all'energia luminosa di un astro che giunge a Terra, cioè alla
sua magnitudine apparente: se due stelle uguali sono poste a distanze diverse da noi, la più vicina ci
appare più luminosa. A parità di luminosità intrinseca, la magnitudine apparente di un oggetto e'
inversamente proporzionale al quadrato della distanza dell'oggetto stesso. Per stabilire una scala di
luminosità reale, indipendente dalla distanza, si pongono idealmente tutti gli astri ad una stessa
distanza, pari a 10 parsec (32.6 anni luce), e si definisce magnitudine assoluta di tali astri la
magnitudine apparente che avrebbero a quella distanza. Per esempio, il Sole ha una magnitudine
apparente di -26.5, a causa della sua vicinanza, ma se fosse posto a 10 parsec da noi, ci apparirebbe
una stella di magnitudine 4.8, che e' infatti la sua magnitudine assoluta. La magnitudine assoluta di
un astro (che viene indicata con M) e quella apparente (indicata con m) sono legate alla sua distanza
d dalla relazione
M = m - 5 Log (d/10)
dove d e' espressa in parsec.
La magnitudine, inoltre, dipende dallo strumento con il quale viene misurata: un astro emette a tutte
le lunghezze d'onda, anche se più intensamente in certe bande spettrali e meno in altre. I rivelatori,
invece, sono sensibili solo in un determinato intervallo: certi sono sensibili alla luce rossa, altri nel
blu, altri nell'infrarosso, ecc... Spesso in astrofisica ci si riferisce alla magnitudine di una stella in
una data banda spettrale, piuttosto che a quella totale. Per misurare la magnitudine di una stella in
una banda, occorrono un rivelatore e dei filtri che blocchino la radiazione al di fuori di
quell'intervallo di lunghezze d'onda.
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