Carla Locatelli Un dialogo ancora aperto con Umberto. “A Carla, grazie per il libro, per le citazioni, e bèccate qualcosa più difficile di Beckett! Umberto”. (Dedica autografa su Il fascino discerto dell’Apocalisse) Il frastuono mediatico intorno alla morte di Umberto Eco rende difficile aggiungere a ciò che della sua figura pubblica è già noto, o ampiamente accessibile sui media. Dunque parlerò brevemente di lui parlando di me; forse è questo l’unico modo di parlare di lui che rispetti le sue ultime volontà, espresse alla famiglia: “non organizzate eventi o simposi su di me per almeno 10 anni”. Dunque non mi presento qui come speaker accademico, ma come una amica di Umberto. Sono contenta di partecipare a questo evento in suo onore, e ne ringrazio gli organizzatori ed organizzatrici. Parlerò del privilegio di averlo conosciuto personalmente fin dagli anni Settanta, di essere stata sua lettrice, sua ammiratrice, sua “allieva” nel momento della fondazione della Associazione Italiana di Studi Semiotici (AISS), e poi sua collega all’Università di Bologna, nonché sua concittadina a Milano, con altri due grandi: Cesare Segre e Maria Corti. Il mio direttore di tesi, Alessandro Serpieri, ed un altro dei miei mentori accademici, Marcello Pagnini (nomino tutti perché hanno fatto la storia della ricerca letteraria e della critica italiana a partire dagli anni Sessanta) mi sollecitarono, fin dal primo anno di Università, da undergraduate, a leggere Opera aperta (già pubblicata nel 1962 e che ispirò anche il “Gruppo 63”), per rompere dogmatismi interpretativi e normatività ermeneutiche, a favore di interpretazioni multiple del testo, e dei testi che – se studiati in quanto comunicativi, potevano benissimo essere sia quelli della cultura “popolare” che quelli esclusivamente e restrittivamente eruditi della “storia letteraria” canonica. Non ero ancora all’università quando fu pubblicato anche La struttura assente (1968), ma lo lessi qualche anno più tardi, con l’entusiasmo di chi si affranca da una tradizione di ‘ipse dixit’ crociani, che – malgrado i superlativi meriti di Croce- instauravano un prevalente dogma ermeneutico italiano per chi si voleva occupare di letteratura, da critico o da insegnante. All’epoca, storicisti e strutturalisti si sfidavano in accesi dibattiti e duelli agonici. Quello che i miei mentori mi suggerivano mi parve un incoraggiante avvio sulla strada dello strutturalismo italiano e dei suoi futuri sviluppi. La fondazione della Associazione Italiana di Studi Semiotici a Milano, nei primi anni Settanta, vide la partecipazione di studiosi di diverse discipline: antropologia, estetica, letteratura, sociologia, linguistica, psicanalisi, e consentì lo sviluppo di rapporti interpersonali immediati. Ero molto giovane, consapevole della grandezza di studiosi presenti all’evento, quali: Eco, Segre, Corti, Serpieri, Pagnini, Butitta, Paioni, ma anche Kristeva, Lacan, Greimas, Thom, Searle, e più tardi Lotman, e molti altri, che ci accoglievano in questo cenacolo senza formalismi, senza supponenza, con benevolenza e rassicuranti nei nostri sforzi sulla via del sapere. Umberto Eco fu immediatamente aperto, incoraggiante. Come lo vidi allora, così rimase: Annientava l’imbecillità con umorismo e nascondeva il rigore intellettuale con un’amena curiosità onnivora. Umberto Eco convocava alla complicità dell’intelligenza. Così lo ricordo, e non cambiò, anche se negli anni la nostra amicizia divenne più solida e la nostra frequentazione più assidua, specie negli anni del mio insegnamento a Bologna, dal 1987 al 1990. A partire dagli anni Settanta, le mie letture dei suoi lavori “accademici” si svilupparono con metodo e regolarità sull’ampio ventaglio dei suoi saggi, ma anche secondo le mie idiosincratiche preferenze. Ricordo qui solo poche di quelle letture: Le poetiche di Joyce (1966), visti i miei interessi di studio sui Modernismi europei; e poi Lector in fabula (1979), che arricchì le mie conoscenze sulle teorie della ricezione con un contributo italiano; Kant e l’ornitorinco (1997), che mise a fuoco aspetti cognitivi di denotazione e iconicità; I limiti dell’interpretazione (1990), che ancor oggi utilizzo tra i libri consigliati nei corsi per la preparazione degli insegnanti; e Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003) che us didatticamente per affrontare le complesse problematiche della teoria della traduzione. Inoltre, tralasciando i riferimenti ai romanzi, che lo resero famoso nel mondo a un enorme pubblico di lettori, restano per me ricordi significativi i lavori di Umberto “opinionista”, un pensatore complesso, originale: penso, non solo alle “bustine di Minerva” (Nomen indicativo del fatto che la mente non ha sesso, come diceva Virginia Woolf), ma penso anche, ad esempio, a Sette anni di desiderio (1983-2004), che formula la sua lettura degli anni 1977-83 come “anni di rabbia e di desiderio” nella storia italiana, che si “privatizza” dopo il Sessantotto; penso a Diario minimo (1992) e agli esilaranti “rapporti di lettura all’editore” ivi contenuti, in cui Umberto passa in rassegna il canone eurocentrico, da Omero, a Proust, passando per Dante, Cervantes, de Sade, Manzoni e altri. Mi chiedo sempre: perché non usare a scuola queste note piene di arguzia per invogliare alla lettura dei classici? Negli anni in cui fummo colleghi all’università di Bologna lo ammiravo anche per sua dedizione autentica all’insegnamento. Avrebbe potuto farsi sostituire per assenze giustificate dalla sua fama e dai suoi impegni internazionali, ma invece onorava gli impegni istituzionali e le ore della didattica. Inoltre, instancabilmente immaginava nuovi percorsi formativi per i giovani, curricula consoni alle esigenze di una società di massa in evoluzione mediatica. Così nacquero il DAMS, e la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Viveva l’Università come comunità scientifica dove liberi erano la discussione ed il confronto pacifico delle idee, e molto ampia la rosa dei saperi: dal medioevo ai media, dall’estetica all’antropologia, dalla linguistica alla storia della teologia. Era genuinamente interessato al lavoro scientifico dei colleghi e delle colleghe e si rallegrava dei loro successi. Sono contenta di testimoniarlo, con la dedica che mi ha lasciato su una sua pubblicazione “Il fascino discreto dell’Apocalisse” (in un’edizione fuori commercio) in risposta al volume su Beckett che avevo scritto negli Stati Uniti e che gli avevo mandato: “A Carla, grazie per il libro, per le citazioni, e bèccate qualcosa più difficile di Beckett! Umberto”. Qui ho sentito la sua voce, il suo rilanciare la posta del conoscere, incessantemente, con l’allegria propria del sapere, con la curiosità del cercare. Innovare gli era proprio, fin dagli anni della RAI, e con un lungimirante sguardo da intellettuale libero e impegnato: tutti i suoi scritti lo testimoniano. Oggi manca a tutti gli allievi e le allieve che ha lasciato, che ha arricchito, che ha incoraggiato. Per concludere: credo che gli farebbe molto piacere che una qualche leggenda metropolitana si aggiungesse ora alla comunque straordinaria, strabiliante e meravigliosa storia della sua vita. Vogliamo cominciare?!