“romantici in erba” progetto didattico al palazzetto bru zane

“ROMANTICI IN ERBA”
PROGETTO DIDATTICO
AL PALAZZETTO
BRU ZANE
Materiale destinato agli insegnanti
Stagione 2013-2014
INDICE
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Il Palazzetto Bru Zane – Centre de musique romantique française
7 La corrente artistica del Romanticismo
13 La musica da camera nell’Ottocento in Francia
17 Le famiglie di strumenti musicali
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L’edificio del Casino Zane
IL PALAZZETTO BRU ZANE
CENTRE DE MUSIQUE ROMANTIQUE
FRANÇAISE
L’istituzione culturale
Il Palazzetto Bru Zane – Centre de musique romantique française ha come
vocazione la riscoperta del patrimonio musicale francese del grande Ottocento
(1780-1920). Ricerca ed editoria, programmazione e diffusione internazionale di
concerti, sostegno alla registrazione discografica, queste le principali attività del
Palazzetto Bru Zane, il quale ha aperto le sue porte nel 2009.
L’attività del Palazzetto Bru Zane declina nel loro complesso tutti i mestieri della
musica:
RICERCA
Grazie a costanti indagini, la ricerca consente di riscoprire partiture dimenticate
o inedite. Realizzata in partenariato con musicologi e presentata da istituzioni
internazionali, privilegia il contatto diretto con i discendenti dei compositori
ottocenteschi. L’attività scientifica si concretizza nell’organizzazione di convegni
e giornate di studio, nonché nella digitalizzazione e catalogazione di preziose
collezioni.
EDIZIONI&DISCHI
L’attività editoriale consente di trasmettere al più ampio pubblico una conoscenza e
un’analisi sempre più affinate del repertorio romantico. Grazie alla pubblicazione di
testi scientifici e volumi tascabili, il Centro consente di condividere la riflessione di
studiosi anche in ambiti diversi dalla musicologia: letteratura, arti dello spettacolo,
storia dell’arte. In parallelo, l’edizione di partiture musicali, la maggior parte delle
quali non sono mai state pubblicate, rende possibile la programmazione di opere
rare e originali. Infine, un’intensa politica di registrazione discografica fissa l’esito
artistico dei progetti sviluppati.
PROGRAMMAZIONE
La scelta di contattare artisti di ogni paese per elaborare assieme a loro programmi
attraenti e originali, rispettando al tempo stesso le specificità interpretative
di ciascun musicista, consente al Palazzetto Bru Zane di ideare delle stagioni
spaziando dalla musica da camera alle grandi opere sinfoniche e liriche. Ogni
anno alcuni temi conduttori tracciano un panorama rappresentativo di un’epoca,
di un genere musicale o dell’opera di un compositore sconosciuto. La diffusione
internazionale dei concerti programmati dal Palazzetto allarga notevolmente il
pubblico e le istituzioni culturali coinvolte, valorizzando contemporaneamente il
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lavoro degli artisti. I programmi “fuori città”, ideati in collaborazione con altre
istituzioni, rafforzano e arricchiscono la rete dei partenariati dalla Cina al Canada
fino ai paesi dell’Europa dell’Est.
A Venezia il Palazzetto Bru Zane organizza una stagione composta da due festival
e una serie di concerti su tutto l’arco dell’anno. In autunno e in primavera i festival
sviluppano un tema specifico quale può essere un periodo storico o la riscoperta
dell’opera di un compositore. Inoltre conferenze, presentazioni di dischi e visite
guidate arricchiscono e scandiscono la stagione veneziana.
CONCORSI&DIDATTICA
Giovani talenti vengono associati alla programmazione del Palazzetto attraverso
progetti didattici e concorsi internazionali al fine di essere un trampolino di
lancio per l’inserimento professionale. Attraverso questi progetti, i giovani artisti
si confrontano con le realtà del mondo musicale contemporaneo, sviluppando al
tempo stesso il proprio senso critico e la propria personalità: il contatto con opere
per le quali non esiste ancora alcuna tradizione interpretativa li impegna a trovare
in se stessi ispirazione e convinzione.
Il Palazzetto Bru Zane con il patrocinio dell’Ufficio Scolastico Regionale per il
Veneto ha intrapreso nella stagione 2012-2013 il progetto “Romantici in erba”, ciclo
didattico gratuito rivolto alle scuole primarie e finalizzato all’avvicinamento dei
bambini alla musica e al repertorio romantico francese.
Per questa stagione 2013-2014 le iniziative rivolte a un pubblico più giovane si
estendono alla sfera famigliare con concerti e laboratori la domenica,
per i bambini da 6 anni in su!
Informazioni su bru-zane.com
nella sezione “Didattica e concorsi” > Concerti per le famiglie
o allo 041 52 11005 / [email protected]
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Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia
LA CORRENTE ARTISTICA DEL
ROMANTICISMO
Il Romanticismo: il ritorno del sentimento
Con il tempo, tutto cambia: persino le parole. Ma quando qualcosa cambia, di
solito non lo fa per caso. Immaginiamo ora di fare un salto indietro nella storia,
e di raggiungere il diciannovesimo secolo (1801-1900). Siamo sempre nel nostro
continente, l’Europa: immergiamoci nel mondo della sua cultura e della sua
arte. Frequentiamo i grandi teatri delle capitali come Vienna, conosciamo i
ricchi dilettanti che suonano nei salotti di Parigi, leggiamo i libri e gli articoli
scritti da uomini sapienti. Se veramente potessimo fare tutto ciò, sicuramente ci
accorgeremmo di una parola usata molto spesso, che riecheggia di stato in stato
con insistenza: romantico.
Oggi, nel nostro linguaggio corrente, chi dice “romantico” si riferisce a qualcosa che
ha a che fare con l’amore e il sentimento. Anche a quell’epoca, in fondo, era così:
ma c’era anche qualcosa in più. Prima del diciannovesimo secolo, la parola d’ordine
era “classico”: nell’arte e nella musica aveva valore ciò che era proporzionato,
elegante ed equilibrato. Scultori come Antonio Canova prendevano a modello
la bellezza levigata delle antiche sculture greche, pittori come Jacques-Louis
David rappresentavano grandi uomini del passato in scene severe e imponenti, e
musicisti come Wolfgang Amadeus Mozart portavano l’architettura musicale a
vette raffinatissime, perfezionando forme di composizione chiamate, ad esempio,
“sinfonia”, “quartetto” o “sonata”. Poi, all’avvicinarsi del 1800, qualcosa mutò.
Nei pensieri degli artisti si fece strada una crescente inquietudine: in Germania
questo “vento” di novità venne chiamato Sturm und Drang, “tempesta e impeto”. Si
cominciò a dire “romantico”, dall’inglese romantic, per indicare tutto quello che era
sentimentale, fantasioso e con un “non so che” di inspiegabile, in contrasto con il
chiaro splendore dell’arte classica.
Lentamente, ciò che era “romantico” trasformò il “classico”, e nel cuore del
diciannovesimo secolo l’ispirazione degli artisti si arricchì di spunti prima
inaspettati. Non si osservava più solo la perfezione delle grandi civiltà antiche
(delle quali ora si ammiravano di più le malinconiche rovine, invece di idealizzare
il loro splendore lontano), ma anche la natura, con tutte le sue contraddizioni.
Ci si sentiva parte di un mondo più grande e sconosciuto, da rappresentare con
stupore e timore al tempo stesso, percependo un qualcosa di sublime nel mondo.
Nei quadri (come quelli di Caspar David Friedrich) cominciarono ad apparire
atmosfere nebbiose in cui gli uomini si perdono, contemplando gigantesche cascate
o distese marine interminabili. La musica, parallelamente, si avventurò verso
Jacques-Louis David,
Il giuramento degli Orazi
Caspar David Friedrich
Le scogliere di gesso di Rügen
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territori prima inesplorati: le composizioni si fecero più lunghe e complesse, e
soprattutto si mescolarono con altri tipi di arte. I musicisti decisero di ispirarsi
alla letteratura, scegliendo storie da far raccontare all’orchestra o a singoli
strumenti, come il pianoforte, mediante le sole emozioni descritte dai suoni.
Iniziò l’era dei “poemi sinfonici”, delle “ballate” e di tante altre composizioni
narrative senza parole.
Anche il mestiere degli artisti si rinnovò. Prima, era normale che essi
lavorassero al servizio di una corte, celebrando con il loro ingegno la grandezza
dei potenti. Nell’epoca romantica, invece, l’artista si fa solitario. Già Mozart e
Beethoven, nel classicismo, si erano resi indipendenti dal potere, vivendo solo
con sovvenzioni di committenti e benefattori, tra grandi difficoltà. Lentamente,
il musicista divenne consapevole del proprio genio: comporre non significava
più svolgere un mestiere, ma affidare “messaggi” al futuro, sfidando le
convenzioni e le regole, anche a costo di non essere capiti e rimanere soli. Isolarsi
in questo modo, nel Romanticismo, permetteva anche di affermare la propria
unicità. Non è un caso che diverse nazioni d’Europa, durante quel secolo,
cercarono con forza sempre maggiore di dimostrarsi l’una “diversa” dalle altre
a livello artistico. Così, poterono nascere una musica “veramente” francese, una
“veramente” russa, e così via.
Ma unicità significava anche esaltare la straordinarietà: ecco perché il
diciannovesimo secolo diventa anche l’epoca dei virtuosi, cioè degli esecutori
in grado di sbalordire con il loro talento folle numerosissime. Nascono i concerti
dei solisti, personalità attorno alle quali sorsero volentieri storie e dicerie che ne
alimentarono la leggenda: si immaginava per esempio che il violinista Niccolò
Paganini, per raggiungere la sua bravura apparentemente inverosimile, avesse
stretto un patto con il diavolo.
Ma allora, in fondo, il Romanticismo fu un’epoca di cupezza e solitudine, dove si
celebravano l’incomprensione, l’ignoto e la paura? No, decisamente no: in realtà
tali elementi sono quelli che stimolano di più l’immaginazione, ma sarebbe
ingiusto considerarli l’unica eredità lasciata da quel ricchissimo secolo. Per
capire meglio cosa significò realmente il Romanticismo, forse è più utile un’altra
immagine: quella di una tavolozza a cui, a poco a poco, si aggiungono colori mai
visti prima, o dimenticati. I colori sono le emozioni che possono essere espresse
dagli artisti. E allora, è facile che le tinte più misteriose o fiammeggianti ci
possano cogliere di sorpresa, lasciando impressioni più forti. Ma a guardare
con attenzione, si possono scoprire dall’altra parte della tavolozza anche tinte
delicatissime prima invisibili, di serenità celestiale. Il Romanticismo aggiunse
emozioni nuove a ciò che aveva scoperto il mondo del Settecento: e se da una
parte emersero l’angoscia e la sofferenza più nere, dall’altra sorsero la felicità
universale e la gioia sfrenata. Al mondo “diabolico” e tragico di un musicista
come l’ungherese Franz Liszt si contrapponevano le sorridenti composizioni del
tedesco Felix Mendelssohn, che era felice di nome e di fatto!
Una cosa è sicura: in ogni autentica opera d’arte romantica, ancora oggi, c’è
molto più di quello a cui il nostro senso comune ci prepara. Forse è proprio
nella differenza tra quello che ci attendiamo e quello che ci viene donato che si
nasconde il vero significato della parola “romantico”.
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PER APPROFONDIRE
•la pittura dell’Ottocento
•può esistere il genio senza
studio ed esercizio?
•l’antichità classica e la sua
eredità
Il Romanticismo musicale francese o l’epopea del sentimento
nel XIX secolo
«Gluck e Luigi XVI faranno dei nuovi francesi». Con questa affermazione dagli
accenti profetici Voltaire esprimeva, nel 1774, la sensazione diffusa dell’avvento di
una nuova era: un profondo cambiamento di gusti e di modi si stava preparando.
Ciononostante, la nozione di “Romanticismo” non si è imposta – né all’epoca né ai
giorni nostri – per caratterizzare la musica francese composta tra il 1780 e il 1830.
Sebbene la Nouvelle Héloïse di Rousseau (1760), i Canti di Ossian di Macpherson
(1765) o I dolori del giovane Werther di Goethe (1774) preannuncino già una nuova
sensibilità “preromantica”, bisognerà aspettare la generazione di Berlioz e dei suoi
contemporanei perché si affermi, indicandone la Symphonie fantastique (1830)
come manifesto, l’esistenza di un “Romanticismo” musicale francese.
Jean-Louis Théodore Géricault
Paesaggio con tomba romana
Eppure, soffermandosi sugli scritti dell’inizio del XIX secolo – il periodo dell’Impero
e della Restaurazione – ci si accorge che il termine vi è impiegato senza riserve
per definire lo stile degli ultimi classici, i contemporanei di Beethoven. È il caso di
Stendhal, per cui la musica di Haydn è «piena di un’immaginazione romantica»,
oppure di Hoffmann, quando si esprime su Mozart, o infine di Berlioz che sentenzia:
«Gluck è il primo dei Romantici».
A uno sguardo attento, il breve regno di Luigi XVI (1774-1792) porta già in sé le
caratteristiche essenziali del XIX secolo: innumerevoli scoperte ed esperimenti
in tutti i campi dell’arte preparano il gusto del secolo successivo. È realmente
esistito un classicismo “alla maniera di Mozart” in Francia? Di fatto, l’orgoglio
della generazione romantica è già presente in pagine composte ben prima della
Rivoluzione. Il teatro lirico rifiuta il meraviglioso e le passioni, elementi tipici
del barocco, per immergersi nel cuore del sentimento, la nozione romantica per
eccellenza. Iphigénie en Tauride di Gluck (1779), Les Danaïdes di Salieri (1784)
o Œdipe à Colone di Sacchini (1786) si inseriscono e perdurano nel repertorio
dell’Opéra come opere fondatrici di una nuova estetica.
Al tempo stesso, il vento orchestrale che soffia su Parigi vede nascere le prime
ambiziose sinfonie che vanno da Gossec e Méhul a Reber o David. Il virtuosismo
dei concerti di Saint-Georges, Kreutzer o Davaux viene presto trasceso da
Jadin, Hérold, Liszt e Alkan, mentre i generi più intimisti – romanze, sonate,
trii, quartetti – fioriscono nei salotti e fanno la fama di Onslow o Panseron.
Tutti aspetti che avvicinano questo periodo di genesi al futuro piuttosto che al
passato. L’anno 1830 segna una tappa che non è solamente simbolica. Durante la
Monarchia di Luglio, il Romanticismo – fino ad allora tenuto a bada – produce
le sue manifestazioni più eclatanti: citare Hernani di Victor Hugo, La Mort
de Sardanapale di Delacroix, Robert le Diable di Meyerbeer, Giselle di Adam
et la Symphonie fantastique de Berlioz è certamente riduttivo, ma comunque
abbastanza eloquente. Simultaneità singolare e inquietante.
Parigi, terra d’accoglienza, diventa il modello dell’Europa. Chopin, Liszt, Paganini,
Rossini, Meyerbeer vi incrociano Berlioz, Halévy o Auber. Questa emulazione,
unica nella storia musicale, apre al Romanticismo nuovi orizzonti. Il grand
opéra francese si presenta come un crogiolo di stili. Lo spettacolo parigino si fa
poliedrico, sintesi di melodie italianizzanti, di armonie tedesche, di declamazione,
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di macchine e balletti alla francese. L’opéra-comique, sua sorella, risponde alle
stesse esigenze, coltivando il mezzo carattere nella scrittura di un Boieldieu e la
comicità schietta nell’immaginario di Offenbach. Al tempo stesso, coadiuvata
dallo sviluppo della manifattura di strumenti (Érard, Sax...), la musica
strumentale diventa veicolo di un’espressione fino ad allora inusitata, all’origine
di nuove pratiche come il recital solista. Secondo alcuni è addirittura capace
di superare la musica scenica nell’evocazione dei sentimenti e delle atmosfere,
e deve essere “parlante”. Questa percezione teatrale della musica strumentale
sarà all’origine di nuovi generi, come il famoso “poema sinfonico”. Nel 1905
La Mer di Debussy incorona tardivamente un cinquantennio di ricerche in
questa direzione: la musica è diventata un’arte “seria”. Lontano dall’idea di
un gradevole intrattenimento, vuole essere ascoltata e non si accontenta più
di essere solo sentita. Passati gli anni Cinquanta dell’Ottocento, il termine
“Romanticismo” fa ormai parte del vocabolario musicale.
Con Gounod, Saint-Saëns, Massenet e Bizet, un’intera generazione di
compositori consolida lo stile, cesella il linguaggio e raffina l’espressione. Faust,
Samson & Dalila, Manon e Carmen – il «raggio di luce mediterranea che dissipa
la nebbia e l’ideale wagneriano» di cui parla Nietzsche – sono tutti monumenti
innalzati alla gloria del gusto nazionale.
Al tempo stesso lo statuto del compositore evolve, e ormai anche le donne
possono rivendicare la loro appartenenza a un mondo fino ad allora riservato
agli uomini: le musiche di Louise Farrenc, Cécile Chaminade, Augusta Holmès
e Pauline Viardot sono suonate in pubblico e ampiamente pubblicate. Tuttavia,
nel 1870, il conflitto franco-tedesco semina l’inquietudine negli animi e scuote
l’arte stessa.
Stravolto dal simbolismo di un Debussy o dal wagnerismo di un Vincent
d’Indy, il post-Romanticismo approfitta ancora per qualche tempo del
sostegno delle sociétés de concerts, del Conservatorio e dell’Accademia di
belle arti, irrigidendosi nell’affermazione veemente di uno “stile nazionale”
paradossalmente molto influenzato da Wagner e dai suoi compatrioti. All’alba
del XX secolo si spegne irrimediabilmente e deve cedere il posto ad una
sfaccettata modernità: commuovere e sorprendere, valori tenacemente difesi
un secolo prima, richiedono ormai altri linguaggi. Quando l’Europa lacerata
sprofonda nel primo conflitto mondiale, è ormai tempo di voltare pagina.
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James Tissot, Il concerto
LA MUSICA DA CAMERA
NELL’OTTOCENTO IN FRANCIA
I salons francesi: nelle case della musica
Anche la musica ha una sua “geografia”: e, come quella di nazioni e continenti,
con il tempo tende a cambiare. Tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, nella
transizione tra l’epoca della musica “classica” e il mondo del Romanticismo, i
luoghi dei concerti e dell’ascolto musicale in Europa cominciarono una singolare
“migrazione”. Prima, la “mappa” era disegnata soprattutto dalle sedi del potere
nobiliare e religioso. Le corti degli imperatori, di conti e marchesi, o delle alte
cariche ecclesiastiche, accoglievano al loro interno i compositori più geniali e li
mettevano in condizione di scrivere opere destinate a essere eseguite nelle grandi
sale o nei teatri privati delle regge. La potenza del genio di questi musicisti, le cui
creazioni potevano in fondo essere ascoltate solo da pochi eletti, diventava un
riflesso della grandezza del nobile che aveva permesso a quell’arte di esistere.
Ma già verso la fine del 1700 altre forme di potere avevano cominciato a farsi
strada nella società: quello economico e quello intellettuale. Uno dei luoghi più
importanti dove questi mutamenti germogliarono fu la Francia. Da un parte, il
tardo diciottesimo secolo portò in quella terra un fermento culturale che rivalutò
il valore e la forza della ragione umana: l’Illuminismo. Dall’altra, il dominio della
nobiltà subì un duro colpo a seguito della Rivoluzione francese, culminata nel
1789 con la presa della Bastiglia. All’interno di questo movimentato panorama
presto apparvero nuovi “poli di attrazione” della società: non più gli sfarzosi
palazzi dei nobili, ma le abitazioni di una classe sociale in costante crescita, la cui
rilevanza dipendeva non dal titolo e dalla stirpe, ma dall’intraprendenza nel lavoro
e nel commercio: la borghesia.
Questi mutamenti indussero un lento spostamento del gusto artistico. L’esibizionismo lussuoso andava tramontando: i nuovi tempi sembravano favorire la riflessione
nell’intimità, specialmente per chi era di origini nobili e educazione raffinata. Così, i
salotti delle eleganti dimore aristocratiche, identificati in Francia (ma spesso anche
nel resto d’Europa) con il nome di salons, già nel diciottesimo secolo avevano aperto
le loro porte a uomini colti di ogni tipo. Questi dotti ricevimenti potevano concentrarsi ad esempio su dibattiti filosofici, politici e letterari, oppure prevedere la presentazione di nuove opere d’arte agli invitati, come dipinti, copioni teatrali o composizioni musicali. Spesso, chi organizzava il ritrovo e conduceva il dibattito era la padrona
di casa: la nuova società borghese aveva infatti favorito una valorizzazione del ruolo
della donna, per lunghi secoli relegata a ruoli subordinati e passivi.
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L’esperienza musicale del Romanticismo francese fu costellata di eventi
organizzati nei salons, che divennero dei veri e propri “incubatori” di cultura.
Si trattava di piccoli mondi per eletti, dove l’artista di talento poteva incontrare
degli interlocutori capaci di comprenderlo e dargli soddisfazione. Nella musica,
il salon francese fu un ambiente di sperimentazione ed espressione profonda: al
pubblico dei concerti tenuti nei teatri, sempre più frequentati dalla borghesia, i
musicisti offrivano invece opere di virtuosismo più spettacolare e di lunghezza
considerevole. Ma non per questo la “musica da salon” (espressione che finì
anche per avere una connotazione dispregiativa, come se si trattasse di musica
“da poco”) fu di qualità inferiore.
Il salon fu invece determinante per definire alcuni caratteri importanti della
musica del Romanticismo, francese e non solo. Per cominciare, il contesto stesso
del ritrovo permetteva la presenza di un numero limitato di musicisti. Per
questo, i salons furono luoghi dove poterono svilupparsi e fiorire ulteriormente
la tradizioni della musica solistica e “da camera”, ossia suonata da pochi
interpreti in un luogo di dimensioni limitate. Inoltre, quei ritrovi intellettuali
lasciavano spesso spazio a discussioni, riguardanti anche discipline diverse
tra loro. Di conseguenza, i compositori portavano solitamente nei salons
pezzi brevi. In essi vi era virtuosismo, ma esso stava nella capacità di essere
espressivi con mezzi e durate limitate. Esempi splendidi di questo tipo di
composizioni sono i Notturni, le Mazurche e i Valzer per pianoforte con cui un
giovane polacco incantava i parigini negli anni successivi al 1830: si chiamava
Fryderyk Chopin. Ma poteva trattarsi anche di brani da camera, o di romanze
per voce e pianoforte: nel tardo Romanticismo, fu anche questo repertorio, fra
le altre cose, a garantire a un compositore geniale come Gabriel Fauré l’accesso
ai salons più prestigiosi. Comunque, la necessità di identificare un’emozione
profonda in modo chiaro ed efficace favorì la nascita di brani detti proprio “di
carattere”, poiché la loro efficacia sentimentale guidava la loro struttura più di
ogni altro elemento: cominciarono a circolare titoli come improvviso, ballata,
preludio, romanza senza parole…
PER APPROFONDIRE
•la Rivoluzione francese
•la condizione della donna
attraverso i secoli
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Le “limitazioni” di spazio dei salons ebbero anche un’altra interessante
conseguenza. Poiché in essi non era in alcun modo possibile ospitare
un’orchestra, e dato che gli intenditori avevano piacere di conoscere e riascoltare
le grandi pagine sinfoniche e operistiche che si eseguivano nei teatri, ecco che
ben presto alcuni musicisti iniziarono a realizzare riduzioni, trascrizioni
e parafrasi di brani che avrebbero richiesto spiegamenti di esecutori ben
più imponenti. Con un piccolo gruppo di esecutori, o addirittura con un solo
pianista, era dunque possibile risentire nella quiete del salon le possenti note
delle sinfonie di Beethoven o le melodie che avevano fatto celebre il teatro
musicale di Giuseppe Verdi, ad esempio. Maestro di parafrasi e trascrizioni
fu l’ungherese Franz Liszt, che fu difatti un assiduo frequentatore dei salotti
parigini: le sue composizioni, benché spesso brevi, possedevano però una
difficoltà tecnica “manuale” che solo pochissimi potevano affrontare con
disinvoltura! È questa un’ ulteriore prova della ricchezza del mondo dei salons,
che ben prima dell’avvento del suono registrato e dei dischi rese possibile una
rinnovata circolazione, un tempo impensabile, delle partiture che stavano
facendo la Storia della musica.
10 BRANI DA ASCOLTARE PER SCOPRIRE LA MUSICA ROMANTICA FRANCESE!
Per familiarizzare con la musica romantica francese vi consigliamo in classe
l’ascolto su Youtube di alcuni di questi brani.
Camille Saint-Saëns: Le Cygne
Camille Saint-Saëns: Samson et Dalila (« Bacchanale »)
Paul Dukas: L’Apprenti sorcier
Georges Bizet: Carmen (« Ouverture » oppure « Habanera »)
Maurice Ravel: Boléro
Charles Gounod: Faust (« Air des bijoux » de Marguerite)
Hector Berlioz: Symphonie fantastique (« Un bal »)
Léo Delibes: Coppélia (« Valse lente »)
Gabriel Fauré: Pavane
Claude Debussy: Clair de lune (versione per pianoforte solo)
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LE FAMIGLIE
DI STRUMENTI MUSICALI
Perché si suona assieme? Gli strumenti della musica da camera
Una grande orchestra è uno spettacolo imponente, per l’udito ma anche per la
vista: decine di musicisti, guidati da un direttore, si impegnano simultaneamente
a estrarre dai loro strumenti un’armonia colossale. Chi è tra il pubblico, qualunque
sia la musica eseguita, non può che sentirsi colpito e ammirato di fronte a
tanta grandezza. Eppure, questo significa veramente che l’importanza di una
composizione musicale aumenta con il numero di persone coinvolte nell’esecuzione?
In fondo, noi oggi ricordiamo ancora una partitura monumentale come la Sinfonia
“Dei mille” di Gustav Mahler (1910, si chiama così perché richiede quasi mille
musicisti!) ma anche i Preludi e le Fughe del Clavicembalo ben temperato (17221744) di Johann Sebastian Bach, brani per strumento a tastiera destinati a un solo
esecutore e della durata di pochi minuti l’uno. Eppure, per la storia della musica
questi ultimi sono probabilmente più importanti, rispetto a quella Sinfonia di
Mahler!
In realtà, la quantità di strumenti in gioco non è affatto un elemento che decide
il valore della musica. La fantasia di un compositore virtuoso può benissimo
scoprire il bisogno di esprimersi con raffinatezza altissima tramite pagine che
richiedono la presenza di sole due, tre, quattro persone o poco più, che potrebbero
suonare anche in una piccola stanza (per questo si parla, in tali occasioni, di
musica da camera). Ma anche in quelle circostanze possiamo arrivare a percepire
potenza e grandiosità: non quelle “fisiche” del suono che ci travolge, ma quelle
dell’intelligenza. E poi, non è vero che sia più semplice suonare in pochi. Dei piccoli
“organismi” musicali possono basarsi su equilibri delicatissimi, che solo una
perfetta intesa tra gli esecutori può mantenere intatti. Uno sguardo incerto o un
respiro al momento sbagliato, in quei casi, possono essere molto più catastrofici che
all’interno di un gigantesco meccanismo sinfonico.
Gli strumenti che diventano protagonisti delle miniature “da camera” sono
comunque gli stessi che vediamo nelle orchestre. Tuttavia, alcuni di essi riescono
a esprimersi da soli senza difficoltà; altri invece tendono a venire accompagnati,
da altri strumenti simili oppure da un pianoforte. Per capire la ragione di questo
fatto, consideriamo per un attimo proprio il pianoforte. Si tratta di uno strumento
a tastiera: i suoi tasti azionano dei martelletti ricoperti in feltro, che percuotono
delle corde d’acciaio tese al suo interno. Fu inventato attorno al 1700 da un italiano,
Bartolomeo Cristofori, sostituendo a poco a poco altri strumenti a tastiera molto
diffusi a quel tempo (come il clavicembalo e il clavicordo). Con la giusta pratica è
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possibile far nascere dal pianoforte sonorità variegate. Guardiamo attentamente
la sua tastiera: è facile intuire che il pianoforte è in grado di produrre un
grande quantitativo di suoni, visto che a ognuno dei suoi ottantotto tasti
corrisponde una diversa nota musicale. I suoni che nascono dall’estremità
destra della tastiera sono circa sette volte più alti di quelli che si trovano
all’estrema sinistra. La “quantità” di suoni che uno strumento sa emettere è
detta estensione. Pochi altri strumenti ne hanno una ampia quanto quella
del pianoforte: per questo esso è di solito un “solista”. Le sue capacità sonore gli
permettono di essere autosufficiente.
Ora, invece, andiamo a soffermarci su un altro strumento celebre: il violino. È
molto diverso dal pianoforte, non solo per forma e dimensioni, ma soprattutto
per il tipo di suono che emette. Le sue quattro corde non vengono percosse,
ma sfregate con un archetto. Ciò che sfrega, in particolare, e che si trova teso
sull’archetto, è crine di cavallo. Questo non deve sorprenderci: sin dall’antichità
gli strumenti hanno fatto uso di parti di animali, e non dobbiamo dimenticarci
che il primo strumento musicale è stato sicuramente il corpo umano, che
ciascuno di noi può far “suonare” in molti modi, battendo ad esempio le mani
tra loro e così via. Le stesse corde degli strumenti ad arco sono state per lungo
tempo fatte di budello animale, per poi venire progressivamente ricoperte
dall’acciaio. Comunque, tutti questi elementi sono parte del modo in cui un
violino “fa musica”. La “qualità” di un suono, ovvero quella sensazione che
vi permette di distinguere senza sbagliarvi mai se una certa nota musicale
proviene da un pianoforte oppure da un violino o da un altro strumento, si
chiama timbro. Esso è un elemento prezioso a disposizione dei compositori: la
combinazione di più timbri arricchisce la musica, così come una tavolozza con
molte tinte diverse dà maggiori possibilità espressive al pittore di un quadro È
il caso di dire che il timbro è come il “colore” del suono. Ma il violino, nonostante
la sua bella differenza musicale dal pianoforte, non ha altrettante note: le sue
possibilità sono limitate ad un’estensione corrispondente più o meno alla metà
destra della tastiera del pianoforte.
Ecco perché, di preferenza, nella musica da camera il violino lo troviamo in
compagnia di qualche “collega”. Può trattarsi, ovviamente, del pianoforte: ma,
in altri casi, il compositore preferisce che “lavorino” assieme strumenti dal
timbro simile. Proprio per via delle limitazioni nell’estensione, infatti, nel corso
dei secoli gli strumenti hanno creato attorno a sé delle vere e proprie “famiglie”.
Se uno strumento ha solo un numero ridotto di suoni, è facile che ne esista un
altro dalla forma simile, ma in grado di produrre le note musicali che mancano
al primo strumento. E se anche questo non ha tutte le note che servirebbero
al compositore, ecco che ne esiste un altro ancora che va a “rimediare” al
problema con ulteriori note. E così via. Il violino appartiene alla famiglia degli
archi (si suonano tutti con l’archetto). Al suo suono acuto si affiancano dunque
spesso quelli più gravi della viola, che è un poco più grande, e del violoncello,
che si spinge nella regione “bassa” delle note musicali. Per farlo ha corde più
lunghe, tese su un corpo voluminoso che infatti non si regge su una spalla,
come per violino e viola, ma sta contro le gambe dell’esecutore, appoggiato a
terra con un puntale. All’estremità grave della famiglia sta il contrabbasso,
tanto grande da dover essere suonato in piedi. Nella musica da camera per soli
archi, tuttavia, la tradizione ha privilegiato un raggruppamento denominato
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quartetto. Le quattro voci che lo costruiscono sono quelle di due violini, con una PER APPROFONDIRE
viola e un violoncello: si tratta di uno “strumento di strumenti” che solo i più
•la “natura” della musica:
grandi compositori sono stati in grado di usare in maniera efficace. Perché è facile le piante e gli animali
scrivere una composizione dove una voce suona la melodia, e le altre tre si limitano utilizzati nella costruzione
degli strumenti.
ad accompagnare, ma è anche banale. Molto più complicato è invece far sì che
•
Un suono, tanti suoni:
ciascuno dei quattro esecutori abbia pari dignità: è con questa mentalità che artisti cantare e suonare “a una
fondamentali come Mozart e Beethoven hanno consegnato alla storia i loro più
sola voce” o “a più voci”.
Cosa significa veramente
grandi quartetti.
Esistono tuttavia anche altre famiglie di strumenti dotati di tradizione illustre.
Una è senz’altro quella dei fiati, detti così perché in loro il suono nasce grazie
al respiro umano: si soffia dentro di essi. Nel loro ambito, un raggruppamento
importante è quello dei legni, il cui nome deriva dal materiale di cui sono fatti.
Quattro sono i suoi membri più frequentemente usati: il flauto traverso, l’oboe,
il clarinetto e il fagotto. È curioso che uno dei rappresentanti fondamentali della
famiglia (e quello che sa spingersi più in alto tra i quattro nominati sopra), il flauto
traverso, sia invece oggi fabbricato in metallo. Il suono viene emesso soffiando di
taglio in un’apertura laterale che sta ad un’estremità dello strumento, che viene
retto poi sulla destra dell’esecutore, il quale con le dita apre o chiude dei dispositivi
che coprono i fori del flauto: le chiavi. L’oboe, dal suono dolce e un po’ “nasale”,
ha anch’esso delle chiavi, ma l’aria entra da un tubicino che sta sul fondo dello
strumento. All’imboccatura sta una doppia lamella che, stretta fra le labbra, viene
messa in vibrazione dall’aria: si chiama ancia. Ne è dotato anche il clarinetto,
strumento agilissimo che “lavora” nelle estensioni medio-acute: ma la lamella è
una sola (ancia singola) montata su una speciale imboccatura. Infine, il fagotto
si occupa delle parti “basse”: le dimensioni più massicce del suo tubo ripiegato
fanno sì che però esso venga retto lateralmente, come “in verticale”. Per questo la
cannula dove si soffia, che ospita un’ancia doppia, è curvata in modo da sporgere
lateralmente, per essere più facilmente raggiunta dalla bocca del musicista.
cantare “a più voci”? Se
cantiamo in tanti la stessa
melodia, la “voce” resta
sempre una!
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L’edificio del Casino Zane
Che cos’è un casino?
L’origine etimologica della parola casino (piccola casa) o ridotto (“ridursi”, cioè
recarsi) dà già un’idea di cosa fossero questi locali: luoghi piccoli, facilmente
riscaldabili, accoglienti e intimi, dove recarsi per incontrare amici, dopo il caffè o il
teatro.
Già dal Cinquecento sorgono in città numerosi casini, dapprima nei mezzanini
dei palazzi nobiliari, e poi in appartamenti appositamente allestiti, separati dai
palazzi di residenza; ma è il Settecento che decreta il vero successo di questi ritrovi:
un censimento del 1744 ne conta ben 118. Quasi tutti sono dislocati nelle vicinanze
di piazza San Marco, attorno alla quale si trovano i teatri della città, svago
principale per la nobiltà, e non solo, della Venezia del XVIII secolo.
Sono luoghi di ritrovo, di divertimento, talvolta di dissolutezza, ma anche
veri e propri salotti letterari: si gioca d’azzardo, si balla, si fanno incontri
galanti, ma si discute anche di teatro e della nuova filosofia proveniente dalla
Francia. L’esistenza dei ridotti è perciò continuamente osteggiata da moralisti e
benpensanti dell’epoca, che vedono in questa, che è ormai diventata una moda
dilagante, un pericolo per la moralità pubblica, soprattutto perché i ridotti
permettono l’allontanamento della donna dalla famiglia, la promiscuità dei sessi,
lo sperpero delle sostanze e, non da ultimo, la circolazione di idee sovversive. Si
arriverà a proibire alle donne, causa di licenziosità, l’ingresso nei ridotti, e molti
di questi ritrovi tenuti da donne verranno chiusi, tranne quelli noti per l’onesta
conversazione e frequentati dai letterati dell’epoca, la cui sopravvivenza sarà
tollerata dal governo.
L’affermarsi dei casini, nonostante le continue avversioni del governo, è
testimoniato dalla nascita del primo casino pubblico (l’attuale Teatro Ridotto), dove
si gioca d’azzardo e che garantisce alla Serenissima Repubblica ingenti entrate. La
chiusura del Ridotto, avvenuta per decreto alla fine del 1774, non ferma però né il
gioco, né gli incontri, al contrario ha per conseguenza proprio un nuovo successo dei
casini privati, che alla caduta della Repubblica sono ben 136.
Nel XVIII secolo, come accennato, il ridotto diventa una vera e propria moda a cui
non si sottraggono neppure gli ambasciatori presenti a Venezia. Ed è proprio nei
casini, non solo privati, che vengono spesso ricevuti i visitatori di riguardo della
città, come nel Casino dei Filarmonici, famoso appunto per i fastosi balli offerti agli
ospiti illustri.
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Esistono vari tipi di casini, a seconda non solo delle attività che
principalmente vi si svolgono (salotto letterario e di conversazione anche
frivola, casino da gioco, musica, casini più libertini, ecc.), ma anche delle
persone che lo frequentano. Si hanno così casini per soli nobili, per avvocati
o mercanti, per cuochi o artigiani, aperti o chiusi alle donne, e addirittura
di sole donne, come il Casino delle Amazzoni, frequentato dalle più ricche
nobildonne della città.
Il casino è organizzato per lo più come un vero e proprio circolo, composto da
soci paganti, la cui ammissione è deliberata dall’assemblea generale, i quali
comunque possono portare con sé chi meglio credono.
Il Casino Zane
La storia del Casino Zane inizia nel 1695 quando Marino Zane decide di far
erigere una “piccola casa” destinata allo svago a pochi metri da Palazzo
Zane, abitazione della famiglia. Discendenti dai “Vipzanii nobilissimi”
dell’antica Roma, gli Zane si trasferiscono prima a Padova e poi in laguna,
dove entrano a far parte della classe dominante veneziana. Domenico Zane,
soprannominato “Pericle della patria intelligentissimo”, ambasciatore in
Austria e Spagna, commissiona a Baldassare Longhena nel 1665 il rifacimento
della facciata di Palazzo Zane, dimora della famiglia; morto senza discendenti
diretti, lascia erede il nipote Marino, bibliofilo appassionato, collezionista di
porcellane, dipinti e amministratore del Teatro San Moisé.
Per questa inclinazione all’arte e alla cultura, Marino Zane progetta, a pochi
metri da Palazzo Zane, un complesso “casino-biblioteca”, affidandone la
costruzione all’architetto barocco Antonio Gaspari, con l’obiettivo di creare
uno spazio intimo e raccolto, separato materialmente e idealmente dagli
spazi di ufficialità e di rappresentanza del palazzo principale. Al di là di un
rigoglioso giardino alla francese (che oggi purtroppo non esiste più), a pochi
metri da Palazzo Zane, vengono dunque fatti erigere il casino e la biblioteca;
quest’ultima costeggia il lato sinistro del giardino disegnando insieme al
casino una struttura a L. Per la decorazione degli interni, Marino Zane
coinvolge i più rinomati artisti dell’epoca.
Sebastiano Ricci, pittore attivo in ambito europeo e amato dai patrizi
veneziani per il suo raffinato gusto del Barocchetto, è l’autore dei due
affreschi principali: “Il Tempo che rapisce la verità”, nella scalinata
d’ingresso, ed “Ercole tra la Gloria e la Virtù” sul soffitto a volta della sala
principale. Entrambi i soggetti sono allegorie dei meriti e della forza d’animo
del committente. Opera di Ricci anche i medaglioni a monocromo ai quattro
lati del soffitto, rappresentanti le figure mitologiche simboli dei quattro
elementi: Mercurio e Diana (terra), Anfitrite e Nettuno (acqua), Giunone e Pan
(aria), Ercole e Giove (fuoco). La decorazione pittorica viene quindi arricchita
dagli affreschi del quadraturista bolognese, Ferdinando Fochi: architetture
“trompe l’oeil”, colonne, vasi di fiori e in particolare nel vano della scala,
due statue, personificazioni della Giustizia e della Prudenza. I ricchi stucchi
sono opera dell’artista ticinese Abbondio Stazio e del suo allievo Andrea
Pelli. La balaustra in legno del salone principale, decorata esternamente con
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inserti floreali, è probabilmente opera del bellunese Andrea Brustolon, definito il
“Michelangelo del legno”: concepita come archetipo del palcoscenico, essa ospitava
gruppi musicali che potevano disporsi ai due lati di essa. La sala principale riprende
la tipica struttura del “portego” veneziano costituita da un pezzo centrale, di
dimensioni notevoli in cui affluiscono le altre camere.
Dopo gli Zane e vari passaggi di proprietà, il casino viene separato dal palazzo,
oggi sede dell’Istituto Tecnico Livio Sanudo. Entrato in possesso dei marchesi
Taliani, a esclusione di quella parte un tempo destinata a biblioteca (oggi abitazioni
private), il Palazzetto viene acquisito all’arciduca Domenico di Asburgo Lorena
per essere infine acquistato nel 2006 dalla Fondation Bru. Nel 2007 la Fondation
Bru ha intrapreso quindi un importante lavoro di restauro perseguendo un duplice
obiettivo: far ritrovare all’edificio lo spirito dell’epoca e creare un luogo dedicato alla
musica, arte che fu la sua vocazione originaria. La fondazione Palazzetto Bru
Zane – Centre de musique romantique française è stata creata nel 2008 proprio
per infondere a questo luogo un nuovo soffio vitale grazie alla musica. I lavori di
restauro si sono svolti attraverso un articolato programma in cui hanno avuto un
ruolo primario l’acustica e la necessità di aprire l’edificio al pubblico e agli artisti
per concerti, conferenze, registrazioni, ecc.
Il restauro dell’edificio ha affrontato tutti gli aspetti: dalla ripulitura degli affreschi
sino all’adeguamento delle strutture (in particolare le fondazioni e il tetto). È stata
creata una sala prove con una parete a pannelli mobili ricoperti internamente
di velluto per regolare l’assorbimento del suono in funzione delle necessità dei
musicisti. La sala da concerto dotata di una capienza di 99 posti è diventata un
luogo musicale ideale per i concerti cameristici.
Un altro esempio di casino a Venezia: il Casino Venier
Per quanto riguarda l’architettura e la decorazione interna dei casini, il Casino
Venier ne riassume le caratteristiche principali. Si tratta di un ridotto da gioco e
di conversazione di proprietà del procuratore Venier, ma usato dalla moglie Elena
Priuli, nobildonna colta e raffinata.
Situato a mezza strada fra Rialto, il cuore commerciale, e San Marco, il centro
politico della città, nel mezzanino di un edificio poco appariscente, il Casino Venier
mostra solo all’interno tutta la sua ricchezza. La disposizione delle stanze ripete in
piccolo la tipologia dei palazzi veneziani: un salone centrale da cui si dipartono
simmetricamente le altre stanze; a sinistra, una stanza di servizio, verosimilmente
la cucina, e la sala da pranzo, a destra due stanze, probabilmente adibite al gioco
e al salotto. Nella seconda stanza di destra di affaccia il liagò, sorta di poggiolo
coperto in ferro battuto con lo stemma Venier, che permette di vedere dall’alto,
inosservati, il passaggio nella strada. La decorazione interna, che risale al 1750 – 60
circa, si è incredibilmente conservata intatta fino ai nostri giorni: originali sono
dunque i pavimenti in marmo commesso, in luogo dei più diffusi “terrazzi”,
cioè pavimenti a mosaico veneziano, originali anche gli stucchi e gli affreschi, gli
specchi e i camini, le porte in prezioso palissandro e le maniglie e le serrature in
bronzo.
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Non si sono trovati finora documenti pubblici relativi al Casino Venier. L’unica
notizia ufficiale giunta fino a noi è il rapporto di un agente, Marco Barbaro, che
informa di aver incontrato e seguito un tale messer Giacobi, accompagnato da
un’attrice, e di averlo visto entrare nel casino situato sopra il ponte dei Bareteri
(e qui la descrizione precisa non lascia dubbi che si tratti del Casino Venier).
Ripassato lì sotto in piena notte, osserva che la luce è ancora accesa e sente un
gran numero di voci maschili parlare francese.
L’interno del Casino Venier ha necessitato di molte opere di consolidamento e
di ripulitura, che sono state possibili grazie all’intervento del Comité français
pour la sauvegarde de Venise, che negli anni ottanta ha finanziato i lavori di
restauro, e dell’Unesco, il cui contributo ha permesso di riportare alla luce gli
affreschi, ormai quasi illeggibili, nel 1992.
Dal 1987 il Casino Venier è sede dell’Alliance française di Venezia. E nelle sue
stanze, ancora oggi, si può sentir parlare francese.
Per una più esauriente storia dei ridotti di Venezia, si rimanda alla
pubblicazione di Emanuela Zucchetta, Antichi ridotti veneziani, Roma, Palombi,
1988, che qui è stata parzialmente riassunta.
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I seguenti testi, nonché i rispettivi spunti di
approfondimento, sono di Marco Bellano:
Il Romanticismo: il ritorno del sentimento
I salons francesi: nelle case della musica
Perché si suona assieme? Gli strumenti della musica da
camera
Redazione degli altri testi a cura del Palazzetto Bru Zane
Il Palazzetto Bru Zane ringrazia l’Alliance française di
Venezia per la gentile messa a disposizione del testo sul
Casino Venier
Palazzetto Bru Zane
Centre de musique romantique française
San Polo 2368
30125 - Venezia
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BRU-ZANE.COM