Welfare, uguaglianza, crescita: ecco la Svezia

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INCHIESTA
Welfare, uguaglianza, crescita: ecco la Svezia
senza crisi
[Gabriele Catania:13872]
8 aprile 2012
Nel 2010 è stata l’economia che è cresciuta di più in tutta Europa. Il welfare è un modello, i servizi efficienti,
l’università gratuita. Le tasse sono alte, ma lo Stato usa bene i soldi dei contribuenti e l’idea è che le
disuguaglianze siano ridotte il più possibile. Il paese è aperto ad innovazione e concordia fra le parti sociali.
Qualche problema c’è, ma la Svezia è un modello. Da imitare.
(Flickr - kaj bjurman)
«La nostra società è più egualitaria di quella italiana. Anche qui, però, non mancano i ricchi». La voce di
Verner Egerland, ordinario di lingue romanze presso l’Università di Lund, è rilassata. Si capisce che è in un
momento di riposo. Raggiunto al telefono da Linkiesta, parla dall’arcipelago di Stoccolma, dove «il mare non
è molto salato: la foresta arriva quasi sino all’acqua». Italianista, il professor Egerland parla con franchezza
della sua patria: la Svezia, che nel 2005 un autorevole columnist de The Guardian ha definito “la società più
di successo che il mondo abbia mai conosciuto.” «Sono nato nel 1966. Ho trascorso l’infanzia e la gioventù in
Svezia, fino agli anni Ottanta. Poi, per larga parte degli anni Novanta, sono stato in Italia, a Firenze, e sono
tornato qui nel 1999. E al mio ritorno ho trovato una società molto cambiata. – racconta Egerland – Oggi la
Svezia è molto meno egualitaria rispetto a vent’anni fa. Negli ultimi vent’anni, e soprattutto negli anni
Novanta, si sono create significative differenze sociali». Sia chiaro: la Svezia non è una giungla liberista.
Tutt’altro. Le diseguaglianze sono ben più accentuate in Italia. O in Francia, Regno Unito, Spagna e, in
misura minore, Germania. In un mondo dove il divario tra ricchi e poveri si allarga, la classe media svedese
regge. Tuttavia molte cose sono cambiate dai primi anni Novanta, quando il regno precipitò in una profonda
crisi, con il Pil in calo per tre anni consecutivi.
Oggi lo Sveriges socialdemokratiska arbetareparti (SAP), il partito socialdemocratico, è debole. Primo
ministro è il conservatore Fredrik Reinfeldt, al potere dal 2006. I giovani tornano a usare il “voi” con gli
estranei, e la popolazione urbana conduce uno stile di vita sempre più “americano”. Gli svedesi credono
ancora in valori come l’uguaglianza e la solidarietà. Tuttavia li coniugano, più che in passato, con maggior
efficienza e dinamismo economici. I risultati si vedono. Nel 2010 la nazione dell’Unione Europea con il miglior
tasso di crescita non è stata la Germania (+3,6%). O la Finlandia (+3,6%). Neanche la Slovacchia (+4%) o la
Polonia (+3,8%). No. L’economia che ha fatto meglio di tutte è stata la Svezia: +5,7%. Certo, l’anno prima il
Pil svedese si era contratto del 5,3%: un dato lievemente peggiore di quello tedesco (-5,1%) e italiano (5,2%). Si trattava però del 2009, quando la crisi dei mutui subprime aveva investito l’Europa, facendo
affondare il Pil di Stati ritenuti economicamente di successo come l’Islanda (-6,9%) o l’Estonia (-13,9%). Tra il
2003 e il 2008, secondo le statistiche de The Economist, la crescita media annuale del Pil svedese è stata
pari al 2,8%. Più della Germania (+1,8%), del Regno Unito (+2,2%) o degli Stati Uniti (+2,4%). Sono dati che,
oggettivamente, colpiscono. «La Svezia mette al primo posto la sua gente». A dirlo è Eric Maskin, Nobel
dell’economia 2007. Lo studioso, che Linkiesta ha incontrato a Venezia a dicembre, in occasione dei Nobels
Colloquia, trova «molto interessante» che l’economia svedese riesca a crescere più della Germania o del
Regno Unito. E infatti da decenni economisti da ogni parte del mondo si recano in Svezia per studiarne il
modello economico. Stoccolma
(Flickr - Alexandra VV)
«La Svezia non è stata colpita così duramente dalla recente crisi finanziaria, in parte a causa delle
riforme varate dopo la crisi che ha sperimentato nei primi anni Novanta. – racconta a Linkiesta David Landes.
Americano dei sobborghi di Minneapolis, Landes è editor de The Local, quotidiano sulla Svezia in lingua
inglese. «Inoltre la rete di sicurezza sociale ha funzionato, impedendo che la distruzione di posti di lavoro
riducesse i consumi. Il settore immobiliare, a sua volta, è rimasto forte: qui il valore delle case non ha smesso
di salire. Inoltre le aziende stanno continuando a investire e a crescere in vari settori». Nel 2011, secondo le
stime (da rivedere al ribasso) del Fmi, il tasso di crescita svedese avrebbe toccato il 4,4%. Quest’anno si
parla di oltre il 3,8%, ma si tratta di un dato vecchio di sei mesi, che non tiene conto dell’aggravarsi della
situazione economica europea: come ha dichiarato a fine marzo Anders Borg, “miglior ministro delle finanze
d’Europa” secondo il Financial Times, quest’anno la crescita della Svezia sarà probabilmente “lieve”. Nel
complesso però l’economia del regno funziona. «È vero: in questo momento, nonostante un settore pubblico
pesante, l’economia svedese sta facendo abbastanza bene rispetto agli altri Paesi d’Europa – spiega il
professor Tommy Bengtsson, del Centre for Economic Demography di Lund – Tuttavia la disoccupazione è
piuttosto alta, in particolare tra certi gruppi. Trovare un modo per uscire da questa situazione è molto
importante, ma alzare le tasse ed espandere ulteriormente il settore pubblico non sembra la soluzione.
Piuttosto dovremmo puntare di più su istruzione e flessibilità, così da poterci adattare in fretta alla
competizione internazionale in continuo cambiamento».
I mercati si fidano della Svezia: lo spread tra titoli di stato decennali svedesi e bund di analoga durata
si colloca intorno allo zero. Ancora più ottimista è chi, in Svezia, abita e lavora. È il caso di Mauro Boffardi,
informatico modenese in un’importante azienda ICT di Stoccolma. «Per quanto riguarda l’economia svedese
io sono molto ottimista. – dice a Linkiesta. Da buon emiliano Boffardi è cordiale ed espansivo. Racconta
volentieri della sua esperienza di quattro anni in Svezia. «A fronte di un costo della vita simile a quello
italiano, e di una tassazione non così diversa, gli stipendi qui sono molto superiori». In Svezia, fa notare
Boffardi, gli investimenti pubblici non mancano. «A Stoccolma ci sono cantieri ovunque: dall’ampliamento
della metropolitana alla costruzione di un nuovo polo ospedaliero, qui gli investimenti si fanno. E i consumi
vanno, la gente è ottimista, i servizi sono davvero validi».
(Flickr Georgios Karamalis)
Un Paese con un’economia competitiva e un buon welfare. Sembra un paradosso. Nel 2000 l’allora primo
ministro, il socialdemocratico Göran Persson, ha paragonato l’economia della Svezia a un calabrone. «Con il
suo corpo troppo pesante e le sue piccole alette, il calabrone non dovrebbe essere in grado di volare. E
invece vola». Dodici anni dopo, la metafora di Persson conserva molta attualità. Capire come possa volare il
“calabrone” svedese è arduo. Il welfare, malgrado i tagli e le riforme, resta generoso. Contribuendo a fare
della Svezia uno dei luoghi migliori al mondo dove vivere. Il regno scandinavo è ottavo nella classifica globale
dell’indice di sviluppo umano. E in base alla Better Life Initiative dell’Ocse «la Svezia fa eccezionalmente
bene quanto a benessere generale, come dimostra il fatto che è tra i migliori Paesi in un grande numero di
voci del Better Life Index». Non a caso l’83% dei residenti è soddisfatto della propria vita, contro una media
OCSE del 59 per cento.
Naturalmente le differenze economiche crescono. Tuttavia la Svezia è ancora uno dei Paesi meno
diseguali al mondo. In Europa solo la Danimarca fa meglio. Un simile livellamento non sembra però impedire
l’arricchimento individuale: nella lista elaborata da Forbes delle persone e famiglie miliardarie, la Svezia ha 11
rappresentanti; considerando che il regno ha oltre 9 milioni di abitanti, e un Pil di circa 600 miliardi di dollari,
in proporzione è un risultato migliore di quello francese o italiano. Ci sono però dati più significativi del
numero di ultraricchi. La Svezia investe in istruzione il 6,6% del proprio Pil, oltre un punto e mezzo in più
dell’eurozona. L’università è gratis, non solo per gli svedesi, ma per tutti i cittadini europei. È il quarto miglior
posto al mondo dove essere madri, l’aspettativa di vita è tra le più alte del pianeta, le infrastrutture sanitarie
sono ottime. A confermarlo a Linkiesta è il dottor Antonio Romano, che da qualche mese lavora al Karolinska
Institutet di Stoccolma, punta di diamante della sanità scandinava. «Il sistema sanitario svedese mi sembra
ottimo, sia per chi ci lavora sia per chi ne usufruisce – racconta Romano – Io e mia moglie siamo arrivati qui
in Svezia a ottobre, abbiamo un bambino piccolo, e subito ci hanno inserito nel sistema: il bimbo ha avuto la
sua visita dal pediatra, mia moglie è stata invitata a fare degli screening di controllo… C’è un ottimo sistema
di prevenzione, e un facile accesso ai medici. Il tutto quasi gratuitamente». Palermitano, chirurgo dei trapianti,
Romano ha lavorato prima a Modena e poi a Miami. Gli si può dunque chiedere di tentare un confronto tra
sistemi sanitari. «Personalmente penso che il servizio offerto agli svedesi sia ottimo, paragonabile
probabilmente a quello che si può ottenere negli Stati Uniti. La differenza è che quello americano si muove
molto più velocemente. Il problema con gli Stati Uniti, però, è che lì il servizio sanitario non è così facilmente
accessibile per tutti; se sei malato e povero è davvero una disgrazia». Anche la moglie di Romano, Simona
Andronaco, è palermitana. Giornalista con un passato al Sole24Ore e Radio24, racconta le sue impressioni
sulla condizione femminile in Svezia. «Quando una donna svedese fa un figlio, non viene penalizzata a livello
di carriera. Non sulla carta, almeno». Poiché la legge prevede che 60 dei 480 giorni di congedo parentale
siano riservati a ciascun genitore, e anzi incoraggia i neo-padri ad accudire i figli quanto le neo-madri, i datori
di lavoro sono meno restii ad assumere personale femminile (la pratica italiana delle “dimissioni in bianco” per
le donne qui è res incognita, o quasi). «Ti fermi a un caffè e vedi papà che danno da mangiare
l’omogeneizzato ai figli di pochi mesi – racconta Andronaco – Vai in biblioteca e li vedi cambiare i pannolini».
(Flickr Johan Lindstrom)
(Flickr - von
schnauzer)
La vita dei genitori, in Svezia, sembra essere meno difficile che altrove. Lo conferma Eva Cederholm,
madre di due bambine, e insegnante di svedese e inglese a Uppsala. «Quando tuo figlio è malato puoi
rimanere a casa a carico dello Stato. Ciò è consentito finchè il bambino non compie i 12 anni. Ovviamente è
meglio che sia il genitore a prendersi cura del figlio malato, piuttosto che affidarlo ai nonni». La Cederholm ha
vissuto per qualche tempo in Lombardia. Attivissima, parla un buon italiano, è membro della redazione di
Svedesidentro.it (“il portale di chi si sente svedese nell’animo”) e dell’associazione italo-svedese Caravaggio.
«Da quanto ho capito, le famiglie italiane che hanno traslocato in Svezia o stanno pensando di farlo vengono
qui perché in Italia è difficile trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia. – racconta – Da voi tutti e due i genitori
devono spesso lavorare a tempo pieno, e ogni settimana trascorrono tantissime ore in ufficio. Inoltre l’asilonido e la scuola costano molto di più, e non si può stare troppo tempo a casa se si vuole conservare il posto
di lavoro».
“Uomini che odiano donne” è il titolo del fortunato romanzo dello svedese Stieg Larsson. Ma come la
protagonista del libro Lisbeth Salander, le svedesi sembrano saper lottare per i loro diritti. Nell’aprile del 2011,
al Riksdag di Stoccolma, sedevano più parlamentari donne che nelle assemblee di ogni altra nazione
europea. In base al Global Gender Gap Index 2011 del World Economic Forum, la Svezia è la quarta nazione
al mondo più amica del sesso femminile. «In Svezia c’è effettiva parità tra uomo e donna, però la parità è
come la democrazia: non la si conquista mai una volta per tutte, bisogna sempre riconquistarla, e
salvaguardarla. – dice a Linkiesta Ruth Jacoby, ambasciatore di Svezia a Roma. La maggiore attenzione
dello Stato per la condizione della donna contribuisce a migliorare il tasso di occupazione femminile: il 70,3%
nel 2010, tra i più alti d’Europa (la media OCSE tocca il 56,7%, l’Italia il 46,1% e la Germania il 66,1%). Il 76%
delle madri svedesi riesce ad avere un lavoro dopo che i figli iniziano la scuola. Il che significa che
generalmente a casa non arriva un solo stipendio, ma due. Ovviamente non sono tutte rose e fiori: ad
esempio gran parte dell’occupazione femminile si concentra nel settore pubblico, dove le paghe e le
possibilità di carriera sono più basse che nel settore privato. «Credo che la Svezia, insieme a Norvegia e
Danimarca, sia il Paese al mondo dove l’uguaglianza tra i sessi è a uno stadio più avanzato. – continua
l’ambasciatore Jacoby – Tuttavia la questione femminile è ancora presente nel nostro dibattito pubblico,
perché ci sono ancora delle differenze nel settore del business, dell’economia. Abbiamo fatto enormi
progressi, ma si deve continuare a lavorare». Gli svedesi sembrano essere giunti alla conclusione che
nell’ambito dei rapporti tra i sessi (così come in altri ambiti), politiche serie a favore dell’uguaglianza rendano
più competitivo il Paese. Per citare le parole del governo (conservatore) svedese, “l’uguaglianza di genere,
accrescendo le competenze e le capacità creative di tutti, contribuisce anche alla crescita economica.”
Tutelando di più le donne si tutela di più anche la famiglia. Che nella Svezia dei matrimoni gay è importante.
Le statistiche sono positive: per esempio in Svezia il tasso di fecondità sfiora i 2 figli per donna, contro gli 1,4
dell’Italia o della Germania. «Dagli anni Settanta in poi qui si è investito molto denaro nel sostegno alle
giovani coppie e all’infanzia, stimolando la crescita demografica. – racconta il professor Egerland – Al
contrario tra gli anni Ottanta e Novanta in Italia si spendeva tanto nel sistema pensionistico, così generoso da
apparire folle a noi svedesi».
Una sanità generalmente di buon livello. Scuole ben finanziate. Sostegno alla famiglia e ai giovani. Il
welfare svedese non piace solo alla piccola e media borghesia. Riscuote un certo consenso persino tra i più
abbienti. Nel suo “The Evolution of Modern States” (Cambridge University Press) il politologo Sven Steinmo
ha raccolto la testimonianza un alto dirigente della Volvo felice di vivere in Svezia: è vero, negli Stati Uniti si
pagano molte meno tasse e gli stipendi sono più alti; ma lì non si torna a casa prima delle sette di sera, ci
sono poche vacanze e tempo libero, il college dei figli è un salasso, l’assicurazione sanitaria costa molto. Il
welfare universalistico svedese arriva pure nei centri abitati più remoti. Come Funäsdalen, villaggio di poche
centinaia di persone in un’area popolata soprattutto da pastori sami. Luisa Trojanis, toscana, vive lì. O
meglio: vive a Tänndalen, frazione di 22 anime, tra foreste di betulle e volpi artiche. «Qui puoi davvero vivere
a contatto con la natura. Lo scioglimento dei ghiacchi, per esempio, è un evento drammatico e bellissimo».
Altrettanto suggestiva è la transumanza delle renne, animale importantissimo per i sami. «Le renne migrano a
valle in primavera, ti svegli la mattina e ce ne sono centinaia di fronte a te». Tour operator di frontiera, con la
sua RedFox Adventure, la Trojanis propone escursioni nella tundra, pesca sui laghi ghiacciati, giri con slitte
trainate dai cani e (d’estate) bagni nelle cascate. «Anche qui a Funäsdalen sei tutelato, abbiamo un presidio
medico, e poi c’è l’ospedale a Östersund. – spiega – Se all’ospedale ti fanno aspettare ed è troppo tardi per
tornare a casa, ti fanno dormire in un hotel di 4 stelle lì vicino rimborsandoti la notte. Il sistema funziona».
Il welfare svedese ha un difetto: costa parecchio. E infatti le tasse, in Svezia, sono tra le più alte del
mondo. Nel 2009 le entrate fiscali hanno rappresentato il 46,4% del PIL, un dato inferiore solo a quello della
Danimarca (48,2%) ma superiore a quello dell’Italia (43,5%). Eppure i contribuenti svedesi non si lamentano
troppo. Perché lo Stato chiede molto, ma in cambio offre altrettanto. Anche le aziende riescono a essere
competitive. Non deve essere troppo difficile: la Svezia è il quattordicesimo posto migliore al mondo per fare
affari (la Germania è ventiduesima, l’Italia ottantesima). Nell’indice di creatività economica è quinta, e
addirittura quarta per competitività globale. Nella FT Global 500 2011, graduatoria delle cinquecento società
più capitalizzate del pianeta, la Svezia vanta dieci presenze: dalla H&M, ben nota alle patite dello shopping,
alla Volvo; da banche come Nordea al colosso della tecnologia Ericsson.
«La Svezia, ricca di risorse e materie prime, si fonda su una base industriale solida, tecnologicamente
molto avanzata e aperta alla concorrenza mondiale. Si punta a essere i migliori nei settori d’avanguardia per
sopravvivere: infatti il mercato interno svedese non è sufficientemente grande per basarsi solo su di esso.
L’alternativa è chiudere le industrie e svilupparsi da altre parti. – spiega a Linkiesta Angelo Persiani,
ambasciatore d’Italia a Stoccolma – Da nazione un tempo agricola la Svezia si è trasformata in un Paese
leader prima nel settore dell’industria, e poi in quello dei servizi. Ha inoltre dato priorità ad alcuni settori
specifici in cui ha raggiunto l’eccellenza mondiale, abbandonando invece quelli in cui non poteva essere
competitiva, come la cantieristica e, ultimamente, l’industria automobilistica». L’ambasciatore cita poi la crisi
che ha colpito il regno una ventina di anni fa: «Coraggiose decisioni sono state prese all’inizio degli anni
Novanta, quando la Svezia ha attraversato un periodo economico molto difficile, con un alto debito estero. Le
finanze pubbliche sono da allora in ordine, tanto che la Svezia gode di un’alta credibilità finanziaria. Sono
state attuate riforme del sistema pensionistico, ed effettuati tagli drastici al welfare». Parole simili le pronuncia
l’ambasciatore Jacoby. «Noi abbiamo avuto una gravissima crisi nei primi anni Novanta. Non fu così grave
per l’Europa perché era limitata ai Paesi nordici, e soprattutto alla Svezia, che all’epoca non era molto
globalizzata. I problemi erano gli stessi dell’Europa d’oggi: abbiamo avuto una crisi bancaria, tassi d’interesse
alle stelle… Un vero caos, che abbiamo affrontato con ristrutturazioni bancarie, la creazione di una bad bank
per i bad loan, il controllo statale di alcune banche e così via. Insomma ci fu un grande consolidamento
fiscale e finanziario. Fu molto doloroso, per la popolazione e per il governo. Abbiamo però imparato molte
cose: la Svezia è uscita dalla crisi più forte, e con i conti in ordine».
Un’economia forte, dove operano grandi brand. Come i citati Ericsson, Volvo e H&M. O Ikea, Scania,
Electrolux, Tetra Pak. Multinazionali che vendono in tutto il mondo prodotti ad alto contenuto tecnologico (o
creativo: si pensi solo al successo del design svedese). L’export vale quasi la metà del Pil svedese: più
dell’Italia (24%), della Francia (23%) e perfino della Germania (41%). Il manifatturiero da solo genera il 16%
del Pil: un dato più alto di quello francese, e pari a quello italiano, seppur inferiore a quello tedesco.
«Vendiamo moltissimi prodotti manifatturieri. – spiega a Linkiesta il professor Per Krusell, che ha insegnato a
Princeton e ora è docente di economia all’Università di Stoccolma – È un fenomeno, penso, iniziato agli albori
del Ventesimo secolo, ma che è stato sostenuto soprattutto dalla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda
Guerra Mondiale. Poiché la nostra industria non era stata danneggiata, e anzi aveva potuto crescere durante
il periodo bellico, potemmo partecipare alla ricostruzione della Germania». Svedese, ma di origini siciliane da
parte di padre, Mauro Gozzo è chief economist presso lo Swedish Trade Council. «L’export è il settore che
guida l’economia svedese. – ammette – C’è stato però un forte incremento dei consumi privati. Inoltre i nostri
conti sono in ordine. Ed essendo meno indebitato lo Stato ha potuto ridurre le tasse, soprattutto per le
famiglie con i redditi più bassi».
Gran parte delle imprese svedesi sono piccole e medie imprese. Anzi, piccolissime, dato che le
microaziende superano il mezzo milione. Le grandi società, invece, sono poco meno di un migliaio, ma
generano più occupazione (35,8%) e valore aggiunto (43,2%) della media europea (rispettivamente 33,1% e
41,6%). E se le grandi aziende svedesi sono fortemente internazionalizzate, ciò in parte può dirsi anche per
le pmi: quasi il 5% di esse esporta fuori dalla UE; ancora una volta un risultato superiore alla media europea.
«La Svezia è una piccola economia aperta che dipende molto dalle esportazioni. – spiega a Linkiesta il
professor Henry Ohlsson, economista dell’Università di Uppsala in trasferta in Australia – La Germania è il
nostro partner commerciale più importante, e finché le cose vanno bene lì, vanno bene anche in Svezia».
(Flickr Gustav Gullberg)
I legami tra Svezia e Germania non sono solo economici, ma culturali. Come in Germania, anche in
Svezia si dà grande rilievo agli studi tecnico-professionali, e i politecnici svedesi (su tutti il KTH) formano
giovani qualificati, futuri dirigenti di colossi come Sandvik o Atlas Copco. Tanta lungimiranza sembra
premiare. Secondo l’Istituto Nazionale di Ricerca Economica (NIER), una delle ragioni della buona
prestazione economica della Svezia dai primi anni Novanta a oggi è stata la crescita della produttività nel
settore privato. Quest’ultima, a sua volta, ha avuto la sua principale causa nel rapido sviluppo tecnologico, in
particolare nel settore dell’ICT. «Una delle più importanti forze dell’economia svedese è il settore high-tech. –
rileva il professor Olof Arwidi, che per dodici anni è stato preside della facoltà di economia dell’Università di
Lund. E in effetti nella classifica dei Paesi che più investono in ricerca e sviluppo in percentuale al Pil, la
Svezia è seconda (3,7%), preceduta solo da Israele (4,9%). I risultati si vedono: non solo il regno è uno dei
poli d’attrazione mondiali dei cosiddetti “cervelli in fuga”, ma è primo per capacità tecnologica, e sesto per
brevetti in vigore ogni centomila abitanti. Capitale tecnologica ed economica del regno è la sua capitale
politica, Stoccolma. Come dice a Linkiesta Olle Zetterberg, CEO della Stockholm Business Region, «gli
investimenti stranieri diretti (FDI) cercano la crescita economica», e quanto a crescita e opportunità
Stoccolma è difficile da battere. Quarta nella prestigiosa classifica Cities of Opportunities 2011 della PwC,
Stoccolma è un polo continentale delle tecnologie pulite, delle biotecnologie e soprattutto dell’ICT. Sede di
atenei e centri di ricerca autorevoli, la metropoli ha la sua Silicon Valley in Kista, distretto high-tech che ospita
oltre mille imprese ICT, e dà lavoro a più di 24mila persone. Tuttavia è l’intera Svezia, patria di successi come
Skype o Spotify, a scommettere sulle tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione: la banda larga
è diffusissima, internet è usato perfino dai più anziani e c’è un computer per ogni abitante.
Dietro il successo svedese, però, non ci sono solo aziende che esportano e tanta tecnologia. Ci sono
buone infrastrutture. Un forte rispetto dei contratti. Una burocrazia trasparente, amica delle imprese e dei
cittadini. Un mercato del lavoro flessibile (in Europa solo Regno Unito e Danimarca fanno di più). E appunto
un welfare valido. Che forgia cittadini istruiti, dal forte senso civico e, soprattutto, capaci di guardare alle sfide
del futuro senza troppo timore. Grazie alla consapevolezza di poter contare sul sostegno dello Stato.
«Sappiamo che le condizioni dell’economia cambiano in continuazione. Così abbiamo bisogno di spostare la
forza-lavoro da settori in calo a quelli in ascesa. – spiega il professor Ohlsson – Allo stesso tempo abbiamo
bisogno di far sentire le persone sicure ovunque esse lavorino. Combinare flessibilità e sicurezza è una
buona idea. Il welfare giova all’economia, la gente che si sente sicura è più preparata ad accettare il
cambiamento».
Per Lundström ha 33 anni. Laureato in Svezia, vive a Treviso, dove ha famiglia e lavoro, e studia
economia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Proviene da Piteå, bella cittadina sul Golfo di Botnia, a cento
chilometri a sud del Circolo polare artico. Dell’Italia Lundström ammira la creatività e il talento artistico, ma
ammette che «manca quel senso di sicurezza che c’è in Svezia. Se qualcosa va storto in Svezia sai che ti
aiuteranno, mentre qui in Italia non si ha la stessa impressione». Una società più sicura è anche più
dinamica, come sottolinea il professor Krusell. «Avere un sistema di welfare ragionevolmente forte aiuta il
mercato del lavoro perché rende più facile la mobilità. I lavoratori accettano il rischio di trasferirsi, o di provare
un nuovo lavoro, perché il sistema di welfare consente a chi non ha successo di rimanere disoccupato per un
po’».
Naturalmente anche gli svedesi hanno i loro guai: ad esempio una disoccupazione giovanile sempre più
alta, o gli sprechi di certe aziende pubbliche. Tuttavia il forte welfare li rende più fiduciosi, ottimisti e flessibili.
Perfino i conservatori, che governano dal 2006, se ne sono accorti, abbandonando le posizioni ultra-liberiste
che in passato gli avevano alienato molte simpatie popolari. Il primo ministro Reinfeldt, leader dei
Moderaterna (i Moderati), negli anni si è spostato al centro, e viene descritto dall’italianista Egerland come
«un democristiano non-cattolico». Per il giornalista Landes il primo ministro «è alla buona ma intelligente,
senza pretese… come politico ha fatto bene, i risultati elettorali e i sondaggi lo confermano».
Per le vie di
Stoccolma (Flickr)
Gli esperti sentiti da Linkiesta concordano su un punto: gli svedesi sono, nel complesso, ben
governati. E infatti secondo il Corruption Perceptions Index 2011 la Svezia è la quarta nazione meno corrotta
al mondo. «Mi è stato detto che molti italiani sono sorpresi della possibilità che il loro nuovo governo sia
piuttosto serio – dice Krusell – In Svezia la gente crede davvero che i politici abbiano buone intenzioni. È
davvero possibile che un politico sia onesto. Molti elettori, in Italia e Spagna, hanno gettato la spugna, non
credono in nulla, ma è un peccato, perché nel nostro sistema la gente è piuttosto ottimista». Contribuisce a
tale sentimento pure il fatto che la società svedese cerca di procedere per consenso. Rispetto ad altri Paesi
europei c’è meno conflittualità, politica ma anche sociale. Lo conferma a Linkiesta Anna De Geer, segretario
generale della Camera di Commercio Italiana per la Svezia. «Qui lo sciopero è considerato uno strumento
vecchio, del passato». La De Geer ha trascorso l’infanzia a Milano, e parla un ottimo italiano. Racconta di
una Svezia dove libertà e responsabilità procedono di pari in passo, e dove «c’è molto rispetto e dialogo tra
sindacati e management. I sindacati vengono coinvolti, fanno parte dei consigli di amministrazione, e anche
se non sono forti come in passato, conservano ancora un certo potere. Il nostro modello è quello del dialogo,
lo è sempre stato». O almeno lo è dal 1938, anno dello storico Accordo di Saltsjöbaden. «Si tratta di un
accordo che la Confederazione sindacale svedese e l’Associazione dei datori di lavoro svedesi firmarono nel
1938 – spiega a Linkiesta Tommy Bengtsson – L’accordo lanciò un’era di consenso e cooperazione nel
mercato del lavoro svedese che contraddistinse la nostra politica del lavoro almeno sino ai tardi anni
Sessanta, quando un conflitto nei distretti minerari del nord segnò l’inizio di un periodo di scontro e calo del
consenso. Nei primi anni Ottanta le parti tornarono di nuovo al consenso, che esiste ancora oggi».
Cercare il più ampio consenso possibile, e affrontare le sfide tutti uniti, sembra essere la regola in
Svezia. Come spiega l’ambasciatore Persiani, «una “Commissione per il Futuro” è stata lanciata dal governo
per discutere dei problemi che attendono la società: integrazione, segregazione, immigrazione,
invecchiamento demografico. Questo dimostra, come chiaro esempio, la capacità della Svezia di proiettarsi
nel futuro anticipando le emergenze, e non limitandosi ad arginarle una volta scoppiate. Il tutto, per di più, nel
contesto di un dibattito politico che tende all’inclusione piuttosto che alla lacerazione, per giungere a proposte
che possano essere più o meno accettate da politici, società e popolo».
Solidarietà. Merito. Consenso. Partecipazione. Il modello svedese, basato su questi principi, piace anche
all’estero. «Non si può mai esportare il modello tout court, ma le idee sì. – commenta l’ambasciatore Jacoby –
Per esempio l’idea di un’amministrazione pubblica onesta, efficiente, non corrotta, al servizio dei cittadini, è
certamente un’idea che si può esportare anche altrove».
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