ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
La psicoterapia del disturbo
borderline di personalità
Dalla teoria dell’attaccamento
all’Approccio Centrato sulla Persona
Maria Luisa Verlato
Il disturbo borderline di personalità è da tantissimi anni oggetto di studio
e controversie in ambito psichiatrico e psicoterapeutico; le varie teorie sono
purtroppo arrivate a visioni diverse di questa sofferenza e come
conseguenza a modelli di intervento terapeutico poco integrabili fra di loro.
Problematica è stata la diagnosi differenziale rispetto ad altri disturbi
come quelli schizotipici della personalità o maniaco-depressivi, mentre
attualmente l’ipotesi di esperienze traumatiche infantili nella sua eziogenesi
lo avvicina piuttosto al Disturbo Post Traumatico da Stress.
Anche i criteri diagnostici del DSM IV (American Psychiatric Association,
1994) non sempre sono di aiuto. Secondo Paris ad esempio non discriminano
con esattezza da altri disturbi della personalità dello spettro impulsivo
(Paris, 1993). I nove criteri, e ne bastano cinque per formulare la diagnosi,
hanno comunque permesso di focalizzare gli aspetti fenomenologici di tale
sofferenza, che le principali teorie avevano evidenziato con maggiore o
minore rilievo.
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Essi sono : - drammatica incertezza ed instabilità 1- rispetto alla propria
identità (“chi sono io? questa cosa mi piace o no? quali sono i miei valori?
sono omosessuale o eterosessuale?”) 2- rispetto alle relazioni affettive, con
l’alternarsi delle polarità di idealizzazione e svalutazione (“ho incontrato una
persona meravigliosa […] ieri si è comportata in modo tale che la odio, non la
voglio più vedere”) e 3- rispetto all’umore e alla reattività emotiva; ed ancora
4- angoscia e vulnerabilità all’abbandono e sforzi per evitarlo; 5- sentimenti
cronici di vuoto e noia; 6- frequenti esplosioni di rabbia e collera immotivata;
7- comportamenti impulsivi ed autolesivi (sessuali, alimentari, di abuso di
sostanze, comportamenti pericolosi in genere); 8- minacce o tentativi di
suicidio; 9- transitori sintomi di tipo paranoide o dissociativi.
Paolo Migone in Terapia Psicoanalitica (1995) propone un excursus storico
di questa patologia, in particolare all’interno del mondo psicoanalitico; la
definisce come il secondo grande paradigma teorico della psicoanalisi (dopo
quello dell’isteria) e sottolinea che non rispondendo bene né alle
psicoterapie, né alla farmacoterapia, essa ha messo in evidenza alcuni dei
limiti della psicoanalisi e ha reso necessario modificare alcuni aspetti della
terapia tradizionale, si veda ad esempio il lavoro di Kohut e di Kernberg.
Degli sviluppi molto interessanti rispetto a questo disturbo sono nati a
partire dalla teoria dell’attaccamento di J. Bowlby, e più di recente dalle
ricerche sulle competenze autoriflessive e metacognitive di M. Main e di P.
Fonagy.
È rispetto a questi sviluppi che desidero portare delle riflessioni o
interrogativi all’interno della psicoterapia centrata sulla persona, di C.
Rogers.
Già da alcuni anni vari esponenti del costruttivismo italiano (Lorenzini e
Sassaroli 1995) e del cognitivismo stanno approfondendo lo studio e la
terapia dei disturbi ‘gravi’, compreso il disturbo borderline di personalità
(Semerari, 1999; Liotti, 1993, 1994, 1999, 2001) tenendo conto dei contributi
della teoria dell’attaccamento.
Ipotesi di un modello integrato ed unitario
del DBP
Giovanni Liotti, in particolare, dopo aver considerato le correlazioni fra
patterns di attaccamento e continuità o discontinuità della coscienza (Liotti,
1993, 1994), delinea la possibilità di «intravedere un modello unitario ed
integrato del nucleo del Disturbo Borderline di Personalità, il quale considera
le varie descrizioni che psicoanalisti e cognitivisti hanno tentato di fornire di
tale nucleo come aspetti diversi di un unico processo di sviluppo morboso»
(Liotti, 1999).
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Ricorda che in ambito psicoanalitico Kernberg ha spiegato con lo splitting
la scissione fra immagini positive e negative di sé e dell’altro, come estrema
difesa da esperienze traumatiche non integrabili da parte del bambino; Adler
ha parlato di vulnerabilità alla paura, dolore, abbandono ecc. a causa
dell’impossibilità per la persona, dovuta ad un vero e proprio deficit, a
richiamare alla mente il ricordo di come potersi consolare e tranquillizzare,
non avendo fatto esperienza di cosa significhi ricevere cura e sostegno, ad
esempio dalla propria madre; Masterson ha invece individuato i deficit
rispetto ai bisogni di autonomia ed individuazione del bambino con un
conseguente conflitto fra autonomia e bisogno di protezione; Fonagy si è
soffermato sulle lacune e difficoltà metacognitive che impediscono di
comprendere il proprio pensiero e quello dell’altro, la propria mente e quella
dell’altro, distinguendo fra apparenza e realtà.
In ambito cognitivo e cognitivo-comportamentale sono stati significativi i
contributi di A. Beck e di M. Linehan. Secondo il primo il disturbo borderline
è caratterizzato da tre assunti: la pericolosità del mondo, la convinzione di
essere fragile e vulnerabile e la certezza di essere abbandonato per la propria
inaccettabilità.
Il modello di Marsha Linehan riferisce invece il nucleo del disturbo al
deficit di regolazione delle emozioni. Potrebbe essere causato
dall’interazione di fattori temperamentali, che rendono alcune persone più
vulnerabili sotto il profilo emotivo, con fattori legati all’apprendimento
sociale, in particolare a situazioni di invalidazione dell’esperienza emotiva di
origine relazionale, o traumatica. Ricordiamo che ogni trauma o abuso,
inflitto da un essere umano ad un altro, implica la negazione ed il disprezzo,
cioè il peggior tipo di invalidazione, delle emozioni di paura o terrore di chi
subisce, della vittima.
Liotti considera che
i vari modelli proposti per identificare il nucleo centrale del Disturbo Borderline di
Personalità convergono, sia pure con linguaggi teorici diversi, su tre problemi fondamentali:
1- la risposta emotiva abnorme ad eventi reali o immaginati di abbandono, separazione e
solitudine (Adler, Beck, Masterson); 2- la difficoltà a modulare le reazioni emotive a causa di
un deficit dei processi mentali superiori deputati a tale funzione (Adler, Fonagy, Linehan); 3la rappresentazione molteplice, contraddittoria e non integrata che il paziente ha di sé e
degli altri (messa in rilievo soprattutto dal modello di Kernberg). Al clinico che segua
pazienti borderline in psicoterapia, tutti e tre questi problemi possono apparire come
ragionevoli candidati al ruolo di disturbo nucleare. Nel lavoro psicoterapeutico concreto […]
è spesso vantaggioso ascoltare il proprio paziente borderline avendo in mente che il nucleo
centrale del suo disturbo è tanto una rappresentazione contraddittoria e non integrata di sé
e degli altri, quanto una particolare reattività all’abbandono e insieme una difficoltà a
regolare e modulare l’esperienza emotiva (Liotti, Il nucleo del DBP, 1999).
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DBP ed attaccamento disorganizzato
Nello stesso articolo l’autore ipotizza che sia oggi
possibile identificare un processo mentale ed interpersonale unitario, che si svolge nel
contesto delle relazioni di attaccamento (interessando dunque direttamente le dinamiche di
separazione), e da cui emergono tanto una rappresentazione molteplice e dissociata di sé
quanto una difficoltà a riconoscere e regolare gli stati mentali (incluse le emozioni). Questo
processo unitario è noto come disorganizzazione dell’attaccamento.
In una relazione incoerente e disorganizzata il genitore può, se sta bene ed
è sereno, essere affettuoso col bambino; o in altri momenti spaventarlo a
causa della propria paura, della propria assenza o collera, di abusi; altre volte
può essere così vulnerabile da chiedere egli stesso aiuto al figlio, o da
lasciarsi vittimizzare, impersonando così in modo alterno il ruolo di
salvatore, persecutore o vittima. Questa alternanza così inspiegabile ed
imprevedibile è molto angosciante e dolorosa per il bambino. Oltre a
togliergli ogni sicurezza, causerà una analoga dissociazione nel suo sé; in
modo complementare si percepirà a sua volta come degno di amore, oppure
vittima, salvatore e persecutore della propria figura di attaccamento. Queste
difficoltà sono affini agli effetti della scissione ipotizzata da Kernberg.
La disorganizzazione dell’attaccamento compromette anche lo sviluppo di
corrette competenze autoriflessive e metacognitive (Flavell, 1979; Main, 1991,
1995; Fonagy, 1995).
Un serio deficit nel monitoraggio metacognitivo- cioè della capacità di osservare le
operazioni mentali del pensiero e dell’affettività mentre si svolgono, così da poterne
controllare il decorso- è caratteristico delle relazioni al cui interno compare il DA
(attaccamento disorganizzato) (Main,1991, 1995; Main & Hesse,1992; Main & Morgan, 1996).
Anche un’altra funzione dipendente dalla metacognizione, la capacità del sé di riflettere
sugli stati mentali (pensieri, emozioni, convinzioni, ricordi) come entità discrete, relative e
soggettive, sembra particolarmente compromessa nelle relazioni di attaccamento insicuro, e
quindi anche di attaccamento disorganizzato (Fonagy et al., 1995).
Ora è evidente che il monitoraggio metacognitivo e la capacità di riflettere sugli stati
mentali propri ed altrui sono pre-condizioni essenziali per regolare e modulare l’esperienza
emotiva tanto in solitudine che durante gli scambi interpersonali. La metacognizione e la
‘Teoria della Mente’, sono dunque al centro di quel sistema mentale di regolazione
dell’esperienza emotiva che Linehan (1993a, 1993b) considera deficitario nel suo modello di
Disturbo Borderline di Personalità. Solo grazie ad un efficiente monitoraggio metacognitivo è
possibile, nel corso dello sviluppo cognitivo-emotivo: 1- comprendere la natura contestuale,
relazionale e transitoria delle emozioni ( come pure di tutti gli altri stati mentali); 2costruire una ‘teoria’ efficiente della relazione fra emozioni e precisi eventi ambientali; 3assegnare a ciascuna emozione un nome appropriato (Liotti, 1999).
Altri studi hanno constatato una maggior frequenza di esposizione a
traumi nella storia di chi svilupperà un DBP e una analoga maggior frequenza
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di traumi, abusi e mancanza di sostegno all’interno di famiglie con modello
di attaccamento disorganizzato.
Partendo da tutte queste osservazioni Liotti propone un’ipotesi sullo
sviluppo del DBP a partire dall’attaccamento disorganizzato. Esso potrebbe
spiegare:
• la molteplicità delle rappresentazioni di sé e degli altri, con la tendenza
alla divisione fra gli estremi dell’idealizzazione e della svalutazione, su cui
si è soffermato Kernberg;
• la grande difficoltà di regolazione emotiva e contenimento sottolineata da
M. Linehan;
• la particolare vulnerabilità ai traumi ed alla separazione, non mediata dal
sostegno che solo l’attaccamento sicuro fornisce.
La psicoterapia
Questo modello esplicativo
permette un avvicinamento alla psicoterapia dei pazienti borderline che integra tecniche
ugualmente utili nonostante siano basate su modelli ritenuti reciprocamente incompatibili,
come quello psicoanalitico di Kernberg e quello cognitivo comportamentale di Linehan. Il
terapeuta può cioè, aderendo ad un unico e coerente modello, mirare tanto all’aumento delle
capacità metacognitive del suo paziente (ad esempio procedendo alla sistematica validazione
dell’esperienza emotiva come suggerito da Linehan), quanto mirare all’integrazione di
rappresentazioni scisse di sé (come proposto da Kernberg) (Liotti, 1999).
Il terapeuta potrà inoltre comprendere il cliente ed il suo comportamento
osservando come esprime nella relazione terapeutica il sistema
motivazionale dell’attaccamento, con l’alternanza delle rappresentazioni di
sé e dell’altro come persecutore, vittima o salvatore; M. Linehan ha scelto di
lavorare sia con la terapia individuale che con gruppi psicoeducativi, ed
anche Liotti suggerisce l’utilità della coterapia e del doppio setting per
ridurre il rischio molto frequente di drop-out. Infatti quando ad esempio il
cliente, concentrando verso una sola persona le sue modalità disorganizzate
di attaccamento, tende a vedere il terapeuta come persecutore o vittima
impotente dei propri attacchi, rischia di interrompere la terapia; la presenza
di un altro terapeuta o gruppo può allora aiutarlo a comprendere ed
elaborare, quanto ha vissuto col primo terapeuta, di cui in quel momento non
si fida più, in modo da potersi riavvicinare. In altri momenti sarà il primo
terapeuta ad aiutare il cliente rispetto a vissuti negativi relativi al secondo
collega o al gruppo.
Nel linguaggio cognitivo evoluzionista, si può dire che un dialogo organizzato
prevalentemente dal sistema motivazionale cooperativo o di attaccamento sicuro (col
secondo terapeuta) permette di esaminare le emozioni che si producono in un altro dialogo
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(col primo terapeuta), nel quale la disorganizzazione dell’attaccamento impone che le
emozioni siano espresse ed agite, ma non pensate (Liotti, 2001).
Già nel 1993 Liotti aveva scritto che la psicoterapia dei disturbi dissociativi
deve tendere a ripristinare la continuità della coscienza - memoria
articolandosi su tre temi centrali:
Il primo tema riguarda la ricostruzione della storia personale di sviluppo, colmando le
lacune o discontinuità della memoria che impedivano, prima del trattamento, una narrazione
coerente, da parte del paziente della propria esperienza di vita. Il secondo tema riguarda la
costruzione di relazioni interpersonali, e in primis della relazione terapeutica, che
permettano esperienze di sé con l’altro non minacciose e non frammentate. Il terzo tema
riguarda la rinuncia, da parte del paziente, all’uso inconsapevole di processi dissociativi
come difesa di fronte ad eventi traumatici, o di fronte alla rievocazione di situazioni
interpersonali che in passato hanno avuto il valore di traumi psichici intollerabili (Liotti,
1993, p. 188).
La difficoltà nel trattamento del Disturbo Borderline viene condivisa anche
da Gabbard (1990); egli sottolinea la pericolosità sia di agire sentimenti
controtransferali non sufficientemente monitorizzati e riconosciuti, sia di
avere un atteggiamento terapeutico passivo, che può alimentare vissuti di
rifiuto e malevolenza. Ribadisce a sua volta l’utilità di focalizzarsi sul qui ed
ora; di facilitare la comprensione delle connessioni fra sentimenti ed azioni ;
di dare contenimento rispetto alla rabbia o agli atteggiamenti pericolosi,
impulsivi e autodistruttivi; di rafforzare l’io della persona al fine di
controllarsi meglio e tollerare meglio l’ansia; di operare per l’integrazione
delle rappresentazioni scisse di sé e dell’altro. E tutto ciò grazie anche ad una
corretta strutturazione del setting e formulazione del contratto terapeutico.
In tal modo il terapeuta potrà costituire, in termini psicodinamici, l’introietto
contenente-confortante che la persona non ha potuto integrare a partire dalle
figure di riferimento del suo passato.
Molte delle riflessioni sulla psicoterapia del DBP convergono
nell’affermare l’importanza di una relazione terapeutica, simile alla base
sicura di Bowlby, dove la persona che soffre possa ricevere una convalida
emotiva a partire dalla quale potrà cominciare a dare significato e costruire
nessi e collegamenti fra quanto avviene in sé, nel rapporto con gli altri e con
la realtà; e questo sia nel momento presente che nel corso della propria
storia. Sperimentando una relazione caratterizzata da continuità, coerenza e
cooperazione, potrà vivere un’esperienza emozionale correttiva e conoscersi
proprio a partire dal qui ed ora della relazione psicoterapeutica.
Sarà determinante trovare il giusto equilibrio rispetto al contatto evitando
una vicinanza emotiva eccessiva (il salvatore?), che potrebbe essere confusa
con intenti seduttivi o manipolativi, e anche al contrario l’eccessiva distanza,
che lasciando il cliente troppo solo e privo di sostegno, può favorirne la
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
tendenza a percepirsi come vittima del terapeuta persecutore, o abbandonato
a se stesso.
Alcune riflessioni sulla persona con DBP
e l’Approccio Centrato sulla Persona
Mi sembra interessante mettere a confronto le ipotesi relative
all’insorgenza e alla psicoterapia del Disturbo Borderline di Personalità
riportate nei paragrafi precedenti con il nostro modello teorico.
Partendo da alcuni assunti di base dell’Approccio Centrato sulla Persona,
della teoria della personalità e della terapia di C. Rogers, propongo una
riflessione circa:
• gli aspetti della relazione terapeutica che più facilitano il processo di
cambiamento del cliente con DBP o che hanno bisogno di essere modulati
con attenzione per evitare il drop-out;
• alcuni elementi di forza o di debolezza del nostro approccio.
In ambito Umanistico e Fenomenologico, l’uomo viene visto come agente di
scelta libero e responsabile, e la patologia come un abbassamento della
soggettualità.
Essere soggetti ha a che fare con il senso di identità che emerge via via
che il bambino nella sua interazione con l’ambiente e con gli altri inizia a
percepire e simbolizzare l’esperienza, divenendo cosciente di alcuni aspetti,
che verranno organizzati e concettualizzati come sé: «un insieme fluido ma
coerente di percezione di attributi e di relazioni dell’io e del ‘me’ e dei valori
annessi a quegli attributi e relazioni» (Rogers, Terapia Centrata sul Cliente,
1997).
Un concetto di sé coerente permette il costituirsi di una identità al cui
interno le nostre azioni e la nostra vita psichica si organizzano in un insieme
altrettanto coerente; se così non fosse l’individuo vedrebbe compromessa la
propria integrità, e rischierebbe la disgregazione. Per questo motivo se
un’esperienza non è coerente con il concetto di sé intervengono i meccanismi
di difesa e non viene simbolizzata, non diviene cosciente.
Ogni essere umano nasce con la possibilità di svilupparsi pienamente e di
accedere a tutti i propri bisogni, accompagnati dalle emozioni che facilitano
maggiormente il perseguimento dello scopo. Tale possibilità si realizza però
solo quando i genitori, sani e congruenti, sono capaci di amare ed accettare
incondizionatamente il bambino ed i suoi bisogni fondamentali. Quelli non
accettati o negati non vengono integrati nel concetto di sé, che diventerà
incongruente rispetto alla vera natura della persona. Non tutte le esperienze
allora potranno essere simbolizzate, ed in alcuni casi verranno distorte, per
non mettere in pericolo l’identità. I bisogni negati e le compensazioni che
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ognuno tenterà di trovare per vivere potranno poi essere all’origine delle
varie espressioni della sofferenza psichica.
Possiamo pertanto dire che l’incongruenza del genitore si trasforma nella
distorsione del concetto di sé del figlio, con una trasmissione
intergenerazionale dell’incongruenza e quindi della patologia. Questo tipo di
trasmissione intergenerazionale della patologia ricorda molto da vicino le
ipotesi della teoria dell’attaccamento (Anfossi, 1999).
Il genitore che per proprie difficoltà non può accogliere alcune esperienze
del figlio limiterà necessariamente le sue possibilità soggettuali, non
aiutandolo a percepirsi e distinguersi come individuo autonomo, altro da sé;
il bambino non troverà un atteggiamento sano di accoglienza e
riconoscimento dei propri bisogni ed emozioni, ma modelli relazionali
alterati, manipolativi, simbiotici, invasivi o proiettivi che lo espropriano del
suo senso di sé e ne riducono la libertà e responsabilità. Il controllo prenderà
il posto della valutazione organismica della propria esperienza,
dell’autoregolazione e della fiducia. I costrutti saranno disfunzionali, quindi
poco efficaci per comprendersi, e dare significato a ciò che accade fuori di sé,
per regolarsi e agire guidati dalle emozioni che non siano però scollegate da
una chiara percezione degli altri e della realtà. La possibilità di prevedere
cosa succederà viene compromessa, e l’ansia e l’angoscia nate da tale
insicurezza confonderanno sempre più la persona, oltre che farla soffrire.
A differenza dei costrutti elaborati partendo dalla propria valutazione
organismica e frutto della propria esperienza, e pertanto flessibili, quelli che
sono stati veicolati dalla non accettazione delle figure criterio saranno rigidi,
ed infrangerli comporterà il pericolo di perdere l’amore delle persone care.
Per questo motivo la simbolizzazione di esperienze nuove, dissonanti
rispetto allo schema di riferimento interno (l’insieme operativo dei costrutti)
non sarà possibile o porterà a delle distorsioni.
Un altro concetto basilare dell’Approccio Centrato sulla Persona riguarda
la relazione terapeutica che deve essere il più possibile democratica e
rispettosa della soggettualità della persona, che chiameremo cliente, non
paziente, proprio per partire da un’ottica differente da quella che richiama il
ruolo tradizionale medico-paziente. Il cliente viene visto come soggetto
attivo, capace di auto direzione e di assumersi responsabilità.
Non è in linea col nostro paradigma partire da un atteggiamento di tipo
diagnostico, da un quadro di riferimento esterno, per capire il cliente. Si
cercherà invece di partire dalla cornice di riferimento interna della persona,
da come si percepisce e percepisce la propria esperienza e sofferenza.
La CCT non possiede niente di simile ad una teoria etiopatogenetica e cerca invece di
descrivere il cliente a se stesso, focalizzandosi intensamente sul suo mondo fenomenico.
L’importante, secondo Rogers, è cogliere il modo unico ed originale con cui la persona vive
se stessa ed il mondo e questo non è possibile se non calandosi profondamente dentro la
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sua personale prospettiva, che è tutt’uno con la sua ‘realtà’ (V. Vaccari, in Monti, Note su
alcuni percorsi della personalità, 1993).
Solo così,
in determinate condizioni, e soprattutto in completa assenza di minaccia alla struttura del
sé, le esperienze incongruenti con tale struttura possono diventare oggetto di percezione e
di analisi e la struttura del sé può venire corretta in modo da accogliere queste esperienze
(Rogers, Terapia Centrata sul Cliente, 1997).
Il modello Rogersiano della personalità, e della terapia, sicuramente può
spiegare con molta chiarezza e quindi essere efficace nella grande
maggioranza dei percorsi psicoterapeutici; quindi, per fare qualche esempio,
con chi desidera ritrovare se stesso ed il senso della propria vita, con chi si
sente bloccato nelle varie forme con cui la depressione o l’ansia, o l’angoscia
e la paura si manifestano; con chi ha tentato di proteggersi e controllare le
paure con la chiusura, la solitudine, l’evitamento; con chi si protegge con
l’illusione del non aver bisogno degli altri o al contrario cerca la sicurezza
nella dipendenza o nella prigione dei sintomi fobici o ossessivi; con chi ha
perso il contatto con il proprio sentire e somatizza il dolore delle emozioni
non riconosciute.
Il nostro orientamento è stato applicato e studiato anche rispetto a
disturbi più gravi, si pensi alla ad esempio alla ricerca di Rogers nel
Wisconsin del 1967 con gli schizofrenici. Ma in questi casi il lavoro ed anche
la riflessione teorica diventano più difficili e complessi.
Lo stesso Rogers, in Psicoterapia e relazioni Umane, scrive che «l'efficacia
della tendenza attualizzante dipende dal carattere realistico della nozione
dell'IO», e che «in caso negativo, cioè se la nozione dell'Io comporta delle
lacune e degli errori, la tendenza attualizzante sarà mal definita».
Cosa fare quando nella psicoterapia si incontrano clienti con queste
caratteristiche?
Il concetto di sé della persona incongruente descritta da Rogers, pur
indebolito da lacune rispetto alla simbolizzazione di bisogni importanti, ha
ancora quel minimo di coerenza interna, ed organizzazione per cui possono
allertarsi le difese se un’esperienza è minacciosa per la propria integrità
psichica. Inoltre, in presenza di una relazione caratterizzata da accettazione,
congruenza ed empatia, il cliente può cominciare ad aprirsi ad una nuova
immagine di sé più autentica e profonda, accogliendo e simbolizzando le
esperienze pericolose senza frammentarsi, ed anche modificando, rendendoli
più flessibili, i costrutti inadeguati via via che viene aiutato a percepirli e a
riconoscerli.
Anche il genitore, che non potendo accogliere in modo incondizionato
l’esperienza del figlio gli impedisce di vivere e simbolizzare aspetti
importanti di sé, sembrerebbe dotato di una qualche forma di coerenza
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
interna, per cui probabilmente i bisogni, le emozioni ed i comportamenti
vietati, saranno sempre gli stessi, o affini.
Non mi sembra chiaramente esplicitata invece la difficoltà che può
incontrare un bambino ad organizzare il proprio sé quando la gravità delle
aree problematiche del genitore, e quindi la non accettazione, si alternano in
modo confuso, caotico e non prevedibile, nella relazione col figlio.
In alcuni momenti determinati bisogni o comportamenti ricevono
considerazione, rispetto, calore e il piccolo potrebbe iniziare a costruire
un’idea di sé e dell’altro positiva; in altri però si spaventerà per la risposta
strana, imprevista, violenta del genitore allo stesso bisogno. Allora cosa
succederà? Non simbolizzerà queste esperienze altrettanto frequenti delle
prime per non disgregarsi? Ma, se è così piccolo che la sua identità non si è
ancora costruita, con che criterio entrerà in azione il sistema difensivo per
proteggerla? Non potrebbe succedere che se il danno è molto precoce, e
legato proprio all’incoerenza e contraddittorietà continua dell’esperienza,
vada ad interferire proprio con la possibilità di costituire quel nucleo iniziale
di sé attorno al quale si articolerà la coscienza e l’identità? Se così fosse, il
concetto di sé del bambino o rimarrebbe completamente frammentato o
potrebbe organizzarsi intorno ad alcune esperienze prevalenti senza però
raggiungere la possibilità di essere unitario. Potremo anche noi collocare qui
i disturbi dissociativi della coscienza?
Quando in terapia si lavora con la persona la cui sofferenza da un punto di
vista clinico è riconducibile al DBP, si incontra un essere umano rispetto al
quale non è facile comprendere la cornice di riferimento interno che è alla
base della sua percezione di sé, degli altri, e dei significati che attribuisce agli
eventi della sua vita. In una certa seduta è un essere debole, terrorizzato
dall’abbandono e dalla solitudine, quasi arrabbiato per la propria
condiscendenza verso gli altri pur di farsi accettare ed amare; in un’altra
arrabbiato col mondo intero che lo vuol dominare, manipolare, sedurre, che
gli è ostile. Talvolta le variazioni nella percezione della propria esperienza ed
anche di sé e della relazione terapeutica avvengono non solo nell’arco di
tempo fra le sedute, ma anche durante il colloquio. Quando si percepisce e
descrive all’interno di un certo quadro di riferimento, caratterizzato fra
l’altro da emozioni, comportamenti e costrutti molto diversi da quelli che
esprime in altri momenti, il cliente sembra ignorare, non essere in contatto
con quello che ha espresso e detto in quelle altre circostanze. È quasi
impossibile per lui percepirsi con una certa coerenza,come se anche gli
schemi di riferimento interni fossero molteplici, e molto difficile per il
terapeuta non perdersi e restituire alla persona un’immagine un po’ più
unificata di sé.
Tutti i sentimenti di vuoto, di difficoltà rispetto alla propria identità, gusti
e valori, le oscillazioni estreme nella valutazione di se stessi, degli altri e
degli eventi della vita, la grande instabilità emotiva, possono essere spiegate
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grazie alla non integrazione del sé in un modello coerente ed unitario, per cui
l’essere umano vive il dramma di essere ‘uno, nessuno, centomila’.
Queste considerazioni, che sottopongo alla riflessione dei colleghi che si
riconoscono nella CCT, confermerebbero l’ipotesi formulata da G. Liotti sul
modello unitario del DBP, che vede una delle cause nella discontinuità della
coscienza, sviluppata a partire da un attaccamento di tipo disorganizzato.
Anche il suo modello unitario rispetto alla psicoterapia mi sembra ben
integrabile all’interno del nostro orientamento.
Un possibile modello psicoterapeutico secondo
l’Approccio Centrato sulla Persona
Per quanto concerne infatti la psicoterapia anche noi possiamo affermare
che il cliente con DBP avrà bisogno di vivere una esperienza di relazione
sicura, un incontro autentico, all’interno del quale sperimentare un rapporto
io-tu diverso da quelli finora conosciuti, un’esperienza emozionale correttiva,
come l’ha chiamata Alexander. Il terapeuta aiuterà la persona a ritrovare le
proprie possibilità di attualizzazione ed autorealizzazione, riconoscendola
ed accogliendola nella sua umanità, ed evitando di farsi coinvolgere
inconsapevolmente e trasportare nelle modalità relazionali disfunzionali,
proprie di quella persona; questo anche grazie alla consapevolezza e
monitoraggio dei propri sentimenti che si sviluppano nel corso della
relazione; sentimenti che gli psicanalisti chiamano controtransferali o da
identificazione proiettiva e che sicuramente quanto maggiore è la
congruenza ed il contatto con sé del terapeuta, tanto più potranno essere di
aiuto per distinguere quanto succede in lui, da quanto vive il cliente durante
il colloquio.
In un contesto di sicurezza, continuità, apertura e di rapporto
democratico, potranno venire riconosciute e convalidate, e trovare una loro
regolazione, le emozioni e bisogni che altri esseri umani hanno sconfermato,
rifiutato, tradito o manipolato; non serviranno più per azioni pericolose ed
impulsive, ma favoriranno il contatto con sé e l’autoregolazione.
Si potrà cominciare a dare un senso e continuità alle esperienze, alle
percezioni, ai comportamenti e significati personali contradditori e
altalenanti; si comincerà a costruire una storia, narrazione, coerente della
propria vita, riconoscendo ed accogliendo le paure e i modi con cui la
persona ha cercato di proteggersi, facendosi o facendo però del male.
E si potrà cominciare ad incontrare, distinguere, i costrutti che hanno
avuto origine da esperienze relazionali disturbate. Si cercherà di modificarli,
do renderli più flessibili,comprendendo la fatica di vivere ed i danni che
hanno comportato.
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
Cercherò ora, di delineare come articolare con il cliente con questo
disturbo di personalità un rapporto terapeutico da persona a persona, in cui
possa essere facilitato a integrare la propria identità di soggetto responsabile
e libero.
Altri orientamenti hanno dovuto apportare delle modifiche alla loro teoria
della terapia per lavorare con chi vive questo tipo di sofferenza ( per esempio
Kernberg ha introdotto la necessità del confronto ed ha proposto una
strutturazione del setting più specifica, Kohut ha approfondito il ruolo
dell’empatia).
Per quanto concerne il nostro modello credo che esso possa essere
considerato sufficientemente efficace, purché si tenga conto di alcuni aspetti
particolari:
Evitare un atteggiamento di tipo diagnostico
Come ho già accennato in precedenza una prima attenzione, basilare per
chi si riconosce nella CCT, è quella di utilizzare la propria competenza di
tipo clinico e nosografico non per fare diagnosi tradizionali, mettendo
distanza fra sé e l’altro, e perdendo contatto con gli aspetti fenomenologici
della sofferenza. Può anche servire per vedere meglio aspetti della persona
che rimarrebbero nello sfondo, potrebbero sfuggire, se tali conoscenze e
l’esperienza non ci avessero insegnato quanto sono invece importanti da
esplorare, da cogliere nel momento in cui la persona ce li rivela anche se in
modo nebuloso e confuso. Potrebbe servire per sapere sempre dove siamo e
dove si sta andando, per non avere paura e sentirci smarriti in percorsi
terapeutici a volte lunghi e faticosi; non però per dare direzioni o soluzioni o
per farci ipotizzare un processo psicoterapeutico rigido e comune ai vari
clienti.
Rispetto alla persona che soffre è invece di fondamentale importanza
evitare un atteggiamento di tipo diagnostico ed un rapporto tale da costruire
socialmente il cliente come paziente, malato, dipendente dal terapeuta.
Questo sia per evitare la dipendenza che per riconoscere l’altro nella sua
potenzialità di attualizzazione in quanto essere umano libero e responsabile.
Tale principio è sicuramente di primaria importanza anche per chi, con
DBP, pur percependosi bisognoso di aiuto teme molto il giudizio, la
manipolazione, il controllo e il potere degli altri. Aspetti questi che possono
spesso indurlo a sentimenti o agiti carichi di ostilità o di tipo competitivo.
Accettazione positiva incondizionata
Molti autori ribadiscono l’importanza di assumere un atteggiamento il più
possibile ‘cooperativo’, per evitare tale competitività ed ostilità che sia un
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
terapeuta troppo passivo, che fa sentire la persona abbandonata, che uno
troppo attivo (salvatore), potrebbero alimentare.
Il nostro essere centrati sul cliente e sul suo schema di riferimento interno,
per cui lo vediamo come migliore esperto di sé stesso, unito ad un autentico
interesse per come egli si percepisce, si sente, si spiega tutto ciò che gli
accade e si immagina per il proprio futuro, è sicuramente molto utile per
evitare sia la dipendenza che involontari atteggiamenti manipolativi o
intrusivi da parte del terapeuta. Essi che sono ovviamente sempre dannosi,
ma in particolare all’inizio della terapia ne causerebbero l’interruzione.
L’accettazione positiva incondizionata consente un rapporto umano
paritetico, caratterizzato da fiducia e rispetto per quanto l’altro dice e
sperimenta; la relazione non giudicante ed il valore dato alla persona creano
un contesto di sicurezza che facilita l’apertura e l’esplorazione; tutto ciò
favorisce gli aspetti cooperativi del percorso terapeutico e salvaguarda il
terapeuta dall’illusione e dall’inefficacia di sostituirsi al cliente con i propri
giudizi e valori. Per usare i termini proposti nel triangolo drammatico, lo
tutela dal rischio di porsi in termini di persecutore, vittimizzando il cliente
con giudizi negativi, o di salvatore, se si assume troppa responsabilità
rispetto al cliente.
Credo importante ribadire come questa condizione protegga pertanto la
relazione terapeutica da una delle più grosse difficoltà che si incontrano nel
lavoro con la persona con DBP.
Sarà sempre necessario però ricordare che l’accettazione ed il non giudizio
verso la persona non significano approvazione o collusione con
comportamenti ed atteggiamenti impulsivi e pericolosi che chi soffre di DBP
tende frequentemente a mettere in atto.
Congruenza e Confronto
Le diverse teorie mettono in risalto la necessità di interventi di
chiarificazione e di confronto:
• per favorire l’esplorazione e la comprensione della realtà e valutare le
possibili conseguenze delle azioni,
• per aiutare la persona a percepire alcuni aspetti contradditori nei propri
comportamenti e nell’idea che ha di sé,o degli altri.
Mi pare necessario che anche noi rogersiani ci interroghiamo su questo
aspetto della relazione terapeutica, che in Psicoterapia e Relazioni Umane
Marian Kinget aveva escluso, sottolineando invece la necessità di astenersi
dalla «tendenza molto umana a confrontare l’interlocutore con il proprio
punto di vista, i propri valori ed opinioni» (p. 30).
Propongo quindi il mio modo di vedere il confronto ed alcune ipotesi, che
mi auguro possano costituire un’occasione di riflessione e scambio.
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
Confronto può significare considerare, esplorare attentamente il punto di
vista del cliente, ma talvolta proporre anche il nostro; quindi sia:
• esplorare, ad esempio, quali conseguenze immagina per sé e nelle relazioni
come risultato dei propri modi di essere o comportamenti; cercare di
capire come mai immagina che le cose vadano in un modo piuttosto che in
un altro; cosa crede che gli altri pensino e cosa lui ne pensa; e si cercherà
di vedere quali emozioni accompagnano tutto ciò. Ovviamente i modi di
pensare sono carichi di valenze emozionali ed affettive spesso molto
intense ed anche queste andranno considerate ed accolte;
• possiamo però anche favorire la percezione di punti di vista diversi; vedere
che altre persone talvolta pensano diversamente da quello che ci si
aspetta, o possono provare vissuti diversi dai propri; che anche il
terapeuta può esprimere le proprie emozioni o riferirsi ad altri criteri per
provare a dare significato alle cose che accadono, sia nella relazione
terapeutica che nella realtà; o che ci sono delle regole sociali che è vietato
e pericoloso trasgredire.
Si tratta di modalità di dialogo molto vicine a quelle che aiutano a
migliorare i processi metacognitivi, rispetto alla comprensione dei propri
processi mentali (sempre ovviamente con gli aspetti sia cognitivi che emotivi
ad essi correlati) e di quelli altrui, uscendo da un pensiero caratterizzato da
egocentrismo. Fonagy ritiene che questo genere di mentalizzazione rispetto
ai processi interni dell’altra persona sia una delle risorse possibili per
prevenire la violenza, ed anche F. De Zulueta ribadisce che chi commette
violenze ed abusi sugli altri di solito non riesce a mettersi nei panni della
vittima, ad empatizzare con lei.
La congruenza del terapeuta, la sua coerenza interna e memoria e le sue
capacità integrative possono aiutare il cliente a confrontarsi con la
confusione che nasce in entrambi quando egli, in modo alterno, presenta
aspetti molto contradditori ed incoerenti della propria esperienza e polarità
opposte di attribuzioni di significato ed emozioni, come nelle idealizzazioni
e svalutazioni. Il tutto senza togliere valore alla persona e senza giudicarla.
In questo modo la chiarezza e allo stesso tempo la flessibilità del
terapeuta ed il modo con cui accoglie e aiuta a tenere insieme la complessità,
prima caotica, di quanto avviene nel cliente, può costituire non solo una
esperienza emozionale correttiva, ma anche l’occasione di conoscere un
modo di essere congruente, un modello sano di funzionamento e di
integrazione della propria esperienza.
A. Semerari sottolinea come in patologie molto gravi, con significativi
deficit di importanti funzioni mentali, la relazione terapeutica possa, in modi
diversi, svolgere un ruolo vicariante di tali funzioni, fino a quando il cliente
non le farà proprie. A partire dalla relazione con il terapeuta il cliente può
«apprendere e far propri […] atteggiamenti e modi di pensare e di agire che
risultano più utili ed euristici di quelli da lui abitualmente adottati. Dato che
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
il paziente può far proprio solo ciò che lui ha costruito essere gli
atteggiamenti del terapeuta, il termine apprendimento andrebbe sostituito
col termine piagetiano assimilazione» (Semerari, 1999).
V. Vaccari ha al riguardo scritto che il terapeuta con il proprio modo di
essere esprime «forme antropologiche […] strategie di coping» (Vaccari,
2000) che il cliente può interiorizzare per aprirsi a nuove possibilità di essere
nel mondo, nella relazione con gli altri e con sé.
A mio parere il confronto, anche se non è contemplato da Rogers fra le tre
Condizioni Necessarie e Sufficienti per il processo di cambiamento in
psicoterapia, potrebbe essere interpretato come un aspetto della congruenza
del terapeuta intesa come:
• la sua capacità di conoscersi ed accettarsi quanto più gli è possibile, in
modo da essere aperto al fluire momento per momento della propria
esperienza con i contenuti emotivi e cognitivi che la caratterizzano (ed
essere così aperto a tutto il mondo interno del cliente; accorgersi di
proprie emozioni controtransferali o da identificazione proiettiva);
• le sue capacità, derivanti dalla salute ed integrità psicologica, di percepire
adeguatamente la realtà, di essere stabile e coerente in un rapporto, di
fornire continuità e memoria, di saper proporre un setting sicuro e con
limiti chiari, utilizzando la propria assertività in interventi di confronto
qualora siano necessari.
Il contenimento ed il rispetto dei limiti molto difficile con questo tipo di
cliente sarebbe impossibile senza la congruenza del terapeuta. Non andrà
confuso con rigidità, repressione o controllo e concernerà invece la chiarezza
e fermezza nello stabilire e ricordare le regole, o rispettare i bisogni e limiti.
Solo dentro a questi limiti è possibile la libertà della terapia.
Empatia
Cito per ultima l’empatia; un modo di sentirsi e di essere in relazione con
l’altro che permette l’incontro, l’apertura, la vicinanza emotiva, il contatto,
l’alleanza terapeutica, con una comprensione che parte dal contatto del
terapeuta con il proprio mondo emotivo ed arriva all’interiorità emozionale
dell’altra persona; una partecipazione e condivisione dei sentimenti con la
chiara distinzione però fra i propri e quelli dell’altro. Non può trattarsi di una
tecnica ma di un autentico desiderio di incontro; di un autentico interesse
per i vissuti dell’altra persona, per il suo mondo interno, per qualunque
sentimento o emozione viva, e a qualunque livello di intensità.
La si può esprimere in modi differenti o a livelli diversi nel corso del
processo terapeutico e con i vari clienti: potrà esprimersi con le parole, con
uno sguardo, con un certo particolare silenzio o commozione; oppure sarà il
rimando riassuntivo con cui si può verificare l’accuratezza della propria
comprensione di quello che l’altro sta dicendo, o si potrà esprimere con il
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
riconoscimento delle emozioni e la riflessione e chiarificazione dei
sentimenti.
Può significare fare spazio, prima per sentire ed accogliere, poi per dare
parole, simbolizzare, migliorare l’autoriflessività del cliente rispetto a ciò che
prova; e come sappiamo questo aspetto terapeutico è fondamentale nel
lavoro con la persona con DBP per prevenire l’impulsività ed i comportamenti
pericolosi.
Accogliere la possibilità di esprimere i sentimenti e le emozioni in tutta la
loro intensità, non averne paura, esplorare il loro significato, imparare a
tenerne conto e infine a modularle, ha infatti un elevato potere di
contenimento e riduce la tendenza ad esprimerle con agiti impulsivi non
mediati dalla riflessione e dalla scelta, sia all’interno del setting terapeutico,
che all’esterno.
Le emozioni ignorate o rifiutate dai genitori, o peggio ancora negate da
esperienze traumatiche che costituiscono la peggior forma di invalidazione,
non sembrano più collegate ai bisogni ed agli scopi verso cui tendevano. Nel
tempo sono diventate sempre più confuse ed inutili, causa di malessere e
tensione; vissute in solitudine ed impotenza, o espresse sotto forma di
rabbia .
Solo rivivendole ed esplorandole vicino ad un essere umano che le accetta
e riconosce come profondamente umane, la persona in difficoltà imparerà a
riutilizzarle in modo finalizzato e per regolarsi meglio nella vita, ed imparerà
a modularle nelle relazioni interpersonali.
Imparerà a conoscere sia le proprie che quelle altrui. E quello che più conta
e che assieme alle emozioni si riconosce e convalida l’esperienza dell’altro, la
sua umanità.
L’empatia aiuta a cogliere come la persona si percepisce e come vede la
propria situazione; nel progredire della relazione terapeutica permette di
riconoscere i costrutti rispetto a sé, agli altri, a quello che ci si può aspettare
nei rapporti con le persone; i principi con cui ci si rappresenta e si dà
significato alla propria vita, il concetto di sé.
Di solito «quando un individuo vede un’altra persona significativa
accogliere tutte le sue percezioni, non soltanto si sente meno minacciato e
più sicuro, ma anche ‘impara’, diviene capace di fare altrettanto […] ed il
concetto di sé può integrarsi secondo un modello di maggiore complessità
funzionale e più maturo dal punto di vista esistenziale» (Vaccari, 2000).
Alcuni clienti, soprattutto a mio parere quelli il cui disagio da un punto di
vista clinico rientra in aree di tipo nevrotico, già grazie alla semplice
accoglienza e percezione dei costrutti disfunzionali riescono ad avviare il
processo con cui li mettono in discussione, vedendoli come inadeguati e non
più utili per la loro vita, anche se ne comprendono l’origine ed in senso.
Altri clienti, invece, con disturbi gravi, non sembrano trarre giovamento
dall’accettazione positiva ed empatia del terapeuta. Per loro sembrano valere
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
le riflessioni di Gendlin sui risultati della ricerca del Wisconsin, quando
formulò l’ipotesi che la schizofrenia si ponga come arresto del processo di
esperienza: «Questa è la mia concezione di malattia: non è tanto una
questione di ciò che c’è, quanto di ciò che non c’è. Il processo esperienziale
interattivo è carente, bloccato, atrofizzato dalle tante ferite, ed è distaccato
dal mondo reale. La psicosi è la restrizione o la cessazione del processo di
interazione dei sentimenti e degli eventi».
Come lavorare “con ciò che non c’è”? Oppure come sostenere la possibilità
di attualizzazione che pare bloccata, quasi perduta?
Anche per le persone con gravi disturbi di personalità, questo processo è
più difficile: molte percezioni e costrutti vengono vissuti dal cliente in modo
egosintonico; quindi non li vive come minacciosi, anche se possono costituire
dei pericoli reali per il suo equilibrio e benessere. In questo caso l’empatia
rischia di confondersi con una sorta di collusione. Inoltre il costrutto, o i
principi su cui fonda il proprio comportamento,una volta identificati e
riconosciuti rimangono ‘veri’, inamovibili; rappresentano una certezza non
toccata dal dubbio. Ad esempio se “amare significa accettare tutto”, allora il
terapeuta o qualcun altro che non soddisfa un certo bisogno, è “cattivo”; la
regola “se non … allora” che sta dietro pare impermeabile e immodificabile.
Credo che molti costrutti disfunzionali siano alla base dei forti scompensi
legati alla paura dell’abbandono. L’angoscia, la rabbia, il vuoto, la solitudine
possono infatti sia essere conseguenti a reali perdite o abbandoni, sia
derivare da una errata attribuzione di significato al comportamento altrui. La
disapprovazione di una loro idea o proposta, un no ad un loro desiderio
possono spesso venire interpretati da questi clienti come abbandono e rifiuto
di sé.
Un’altra difficoltà è data dalla forte dicotomia che caratterizza molti
costrutti ‘”‘io sono buono”, “io sono cattivo”, “l’altro è amico /nemico”.
Empatizzare con le singole emozioni e sentimenti all’interno di una polarità
non aiuta a risolvere la dicotomia. È più utile cogliere, ovvero dare empatia
alla fatica e confusione che tale dicotomia comporta per la persona, e cercare
di superarla dopo averne colto il senso e l’origine.
La sola empatia non sembra più bastare per uscire dalla prigione di tali
costrutti. Si ha la sensazione di avvicinarci a zone dove l’umanità comune
trova una barriera,una zona di non incontro; dove l’individualità, rigidità e
purtroppo l’egosintonia dei disturbi,fanno venir meno quella comunanza e
socialità in base alla quale generalmente il terapeuta può avvicinarsi al
processi di elaborazione dell’altro.
Propongo alcune mie riflessioni, che spero aprano occasioni di ricerca e
confronto, rispetto a quanto può avvenire in momenti di incontro così
difficili.
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
In questi momenti, quando dopo molto tempo l’empatia, che è stata
necessaria per arrivare fin lì, pare trasformarsi in rischio di collusione o
impotenza, ritengo necessario ricorrere a degli interventi, che non so se
possiamo vedere come un altro modo di esprimere l’empatia, con cui il
terapeuta in contatto con la fatica di vivere e dolore che tale impermeabilità
comporta, ed in contatto con le profonde carenze affettive, emotive e
cognitive dell’altro, mostrandosi con maggior trasparenza nella relazione,
permette quell’incontro da persona a persona, che ripristina quello scambio
io-tu, smarrito da tanto tempo, o forse mai veramente conosciuto.
Un essere umano infatti ha bisogno per vivere sia di conoscersi, che di
conoscere l’altro, il suo mondo interno ed i modi in cui si regola nella vita. Ha
bisogno di incontrare e percepire, conoscere altri modi di vivere e sentire.
Ha bisogno dell’aiuto ad uscire dal proprio egocentrismo cognitivo, per
iniziare a vedere che esistono anche altri punti di vista, altre ipotesi per
interpretare la realtà, la possibilità di sperimentare atteggiamenti esplorativi
e di verifica partendo dall’esperienza. Ciò può allora avvenire anche tramite il
confronto, l’esplorazione di come si regolano le altre persone, di come
generalmente funzionano i rapporti; equivale a proporre una sorta di
riapprendimento di come oltre ai propri bisogni ci sono anche quelli altrui, e
di come i limiti e bisogni dell’altro non significano ‘cattiveria’. Si imparano a
conoscere i processi metacognitivi altrui, oltre che i propri, la mente e le
emozioni degli altri. Si possono iniziare a costruire gli scripts sociali
mancanti.
Attraverso la trasparenza,la condivisione del proprio vissuto rispetto ad
alcuni atteggiamenti del cliente durante la seduta, il terapeuta può facilitare
in lui la comprensione degli effetti delle proprie azioni o condotte non solo
su di sé ma anche sugli altri .
È un atteggiamento molto simile a quello del genitore che costituisce una
base sicura; che accoglie il figlio e partecipa con calore ed affetto alle sue
diverse esperienze, ne riconosce i sentimenti ed emozioni, e
contemporaneamente lo aiuta a capire il significato e le conseguenze di
quello che si fa; perché alcune cose si possono fare ed altre no; cosa
implicano in termini di realtà e cosa significano rispetto agli stati d’animo
che suscitano.
In momenti di questo tipo sarà però necessaria molta chiarezza e
trasparenza, per evitare manipolazioni. E sarà fondamentale accompagnare
tali interventi con un’ulteriore forma di empatia, costituita dall’attenzione e
sensibilità nel cogliere ed esprimere anche il significato e le emozioni che
tale confronto comporta per il cliente; i sentimenti relativi a questo nuovo
modo di porsi in relazione da parte del terapeuta, siano essi positivi o
negativi.
L’empatia, così indispensabile per costruire dei legami affettivi sani fra il
genitore ed il figlio, potrebbe invece, soprattutto nelle fasi iniziali della
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
terapia, portare a dei fraintendimenti; il cliente con DBP spesso ha vissuto
nella propria infanzia o nella propria storia esperienze dove la vicinanza
dell’altro l’ha invischiato in rapporti simbiotici e manipolativi; o dove abusi
fisici o sessuali, traumi, hanno devastato i suoi confini fisici e psichici,
spaventandolo o terrorizzandolo; egli potrebbe quindi scambiare l’interesse
ed il calore umano del terapeuta con intenti sedutivi o manipolativi. Si dovrà
quindi fare molta attenzione, con un gioco di parole ‘essere così empatici’ da
regolare, modulare e talvolta contenere la nostra empatia, se avvertiamo che
la persona ha paura; se si sente minacciata dalla vicinanza emotiva ed
intimità fra esseri umani; potremmo esprimere l’empatia senza minacciare la
sicurezza del cliente, gradualmente, partendo da quelle modalità che
consentono una maggiore distanza, come la sintesi di quanto la persona ha
detto per verificare la nostra comprensione, la restituzione di qualche
emozione o sentimento fra quelli espressi chiaramente. Solo nel tempo la
potremmo esprimere nella sua completezza ed allora costituirà una risorsa
terapeutica preziosa.
Credo che nelle fasi iniziali della relazione terapeutica si possa ricevere
maggior aiuto dalle dimensioni della congruenza e dell’accettazione.
L’empatia sarà in ogni caso fondamentale, soprattutto nella fase centrale e
finale del percorso terapeutico.
A questo proposito ricordo come la maggioranza dei terapeuti di
orientamenti diversi ribadisca la necessità della validazione emotiva. M.
Linehan ha fatto di ciò uno dei temi prevalenti del suo lavoro con le clienti
con gravi DBP; in particolare ha sperimentato l’efficacia nell’affiancare al
lavoro psicoterapeutico vero e proprio, un lavoro di gruppo psicoeducativo,
con un altro terapeuta, dove imparare a conoscere, confrontare con gli altri e
padroneggiare meglio le proprie emozioni e comportamenti difficili ed
impulsivi (Linehan, 1993).
Credo che possa essere interessante interrogarci, e verificare attraverso
l’esperienza e la ricerca, sui benefici che potrebbe dare un lavoro
psicoterapeutico individuale affiancato dalla partecipazione a gruppi di
incontro. In essi le persone con DBP potrebbero trovare la possibilità di
entrare in contatto con gli altri attraverso l’esperienza di modalità relazionali
rispettose ed autentiche, oltre che uno spazio per approfondire e migliorare
le competenze metacognitive rispetto a come gli altri rispondono, sentono,
pensano, si regolano. Il gruppo potrebbe offrire la possibilità di apprendere e
sperimentare la modulazione e il contenimento delle emozioni, e l’occasione
per cominciare a vivere l’apertura e l’espressione dei propri bisogni senza più
timore del rifiuto, dell’abbandono o della manipolazione.
Potrebbe essere anche interessante valutare se l’abbinamento di un lavoro
di psicoterapia individuale, con uno di gruppo, facilitato da un terapeuta
diverso, consenta un processo psicoterapeutico più efficace e diminuisca il
rischio, che resta sempre piuttosto elevato di drop-out o gravi momenti di
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
crisi, come M. Linehan e G. Liotti stanno verificando nel lavoro con due
terapeuti, o di setting doppio.
Concludendo credo che il terapeuta, ponendosi nella relazione in modo
autentico, chiaro, prevedibile e coerente, non spaventerà o confonderà il
cliente con l’imprevedibilità, come purtroppo hanno fatto le figure di
attaccamento del passato e permetterà un incontro caratterizzato da verità e
sicurezza; inoltre il rispetto della soggettualità dell’altro e la fiducia nelle sue
possibilità di attualizzazione ed autoregolazione nonostante le ferite lasciate
dalla sua storia di vita, potranno aprire delle vie verso un analogo rispetto
per sé e gli altri, verso altre esperienze di relazioni accoglienti e sane. Infine,
la comprensione empatica ed il confronto permetteranno nel tempo una
sempre migliore percezione di quanto avviene in sé e negli altri esseri umani,
e di quanto è avvenuto nella propria storia, dando significato ed accoglienza
ai vissuti emotivi dolorosi, e cercando modalità più adeguate per perseguire i
propri bisogni e proteggersi dalle paure. L’esperienza non sarà più qualcosa
di casuale ed oscuro, carica di angoscia a causa della costante imprevedibilità
e discontinuità, ma più chiara e prevedibile. E la persona, non oscillando più
fra emozioni e sentimenti contrastanti e confusi, idealizzazioni e
svalutazioni, vuoto, noia e rabbia, incontrerà se stessa ed il proprio valore.
Avrà un po’meno timore dell’abbandono. Potrà sentirsi responsabile di sé e
capace di scelte libere, con un senso di controllo positivo e di efficacia
rispetto alla propria vita: in termini fenomenologici tutto questo potrà
reintegrare in lei gli aspetti di libertà e responsabilità che sono a fondamento
del suo essere soggetto.
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ACP – Rivista di Studi Rogersiani – 2002
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