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Appunti dall’Incontro in preparazione al Natale
con Julián Carrón
14 Dicembre 2012, Santuario di Oropa (BI)
Buonasera a tutti. Ringrazio don Michele per questo invito che ho accettato volentieri, perché a don
Michele non posso dire di no, visto che gli chiedo io già abbastanza! Sono grato di poter essere qui
e condividere con voi questo momento.
Che cosa può aiutare di più a prepararci al Natale? Anzitutto riconoscere l’attesa che ci costituisce,
che costituisce la stoffa della nostra persona, perché niente ci può disporre di più che questo
semplice riconoscimento.
La prima cosa che sorprendiamo nella nostra esperienza è quel che i geni letterari hanno colto
subito nell’esperienza. «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo
Dio?» (G. Ungaretti, «Dannazione», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondatori, Milano 1992, p.
35), si domanda Giuseppe Ungaretti. È un uomo che non dà tutto per scontato: come mai, se noi
siamo chiusi tra le cose mortali, tra le cose finite, tra le cose limitate (ci rendiamo conto che perfino
il cielo stellato finirà), sentiamo dentro di noi questa brama di Dio? «Bramare» è un verbo scelto
apposta per indicare quel desiderio così intenso e appassionato verso qualcosa, un desiderio quasi
irresistibile che ci costituisce, tanto che uno dovrebbe cancellare se stesso (in certi momenti,
almeno, di lucidità) per non riconoscerlo.
Ma questa attesa – come ciascuno di noi sa bene per propria esperienza – non è un’attesa pacifica,
anzi è un’attesa combattuta in tanti modi. Lo vediamo nella società e lo vediamo in noi stessi
(perché non è che la società faccia qualcosa senza un qualche contributo di ciascuno di noi che la
costituiamo). Per questo, diceva Rainer Maria Rilke, «tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si
tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile» (R.M. Rilke, «Seconda Elegia»,
vv. 42-44, in Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1968, p. 13). Questa cospirazione, a cui tante volte
collaboriamo con la nostra distrazione, il nostro menefreghismo, il nostro vivere “fuori di noi”
(quasi staccati da noi stessi, da quello che veramente siamo), combatte costantemente quest’attesa.
E allora qual è la nostra vera natura? Bramare o cospirare? Che cosa è la verità di noi?
È ciò che ha sintetizzato benissimo un altro genio letterario italiano, Cesare Pavese: «Com’è grande
il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora
perché attendiamo?» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 276). Ci
sorprendiamo “attendendo”, e in tante occasioni questa attesa rinasce in mezzo a tutta la nostra
distrazione, cova sotto la cenere. Non è che ognuno di noi è uomo o donna e poi, quasi come
un’aggiunta, attende. No, no, è la nostra struttura a essere fatta di incancellabile attesa; potremmo
dire che noi siamo “attesa”. Il nostro essere uomini, il nostro essere donne è questa attesa. A volte
diciamo che l’attesa è una cosa astratta, ma in realtà noi quasi non possiamo aprire bocca, dire
alcunché, senza che questa dimensione sia presente; quando ci lamentiamo, ci arrabbiamo, quando
qualcosa non ci corrisponde, questa attesa, in mille modi diversi, riappare.
Ma c’è un passaggio ulteriore. A volte l’attesa ci sembra terribile. Ma l’attesa è niente rispetto a una
cosa ben più terribile. Ancora una volta ci aiuta una frase geniale di Pavese: «Aspettare è ancora
un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit., p.
292). Se ci fermiamo un attimo e ripetiamo questa frase, non possiamo non riconoscerne la verità:
sì, è proprio così, la vera tragedia è non aspettare.
Se proviamo a indagare dove e come nella nostra evoluzione personale a un certo momento questa
attesa appare, ci rendiamo conto che è già del bambino tendere al volto buono della mamma. Tanto
è vero che se non ci fosse quel volto, prevarrebbe l’aridità affettiva. Ecco perché il bambino si
attacca alla mamma in un modo unico, istintivo quasi, irresistibile; tanto è vero che si attacca alla
mamma prima di pensare a sé: è la mamma che incomincia a renderlo se stesso. A un certo
momento, il bambino crescendo si rende conto – voi, mamme e papà presenti, lo sapete bene – che
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comincia una fase in cui si arruffa, si confonde. Padre e madre sono come prima davanti a lui, non è
che l’abbandonano, niente è cambiato, ma è come se quelle presenze ormai non bastassero. A un
certo momento della evoluzione fisiologica e psicologica dell’uomo, appare davanti ai nostri occhi
tutta la grandezza di quel desiderio, di quella attesa che ci costituisce. Per questo, quel momento –
diceva don Luigi Giussani – è il momento dell’Altro, il momento del Tu con la “T” maiuscola,
perché non basta più il tu minuscolo, è il momento del passo a qualcosa di più grande. E perché
sappiamo che si tratta di qualcosa di più grande? Sappiamo che si tratta di qualcosa di più grande
perché la mamma e il papà non bastano, perché qualsiasi altro essere umano non basta. Se non ci
rendiamo conto di questo, ci affanniamo a riempire la vita con altre cose che non rispondono al vero
problema. L’essere umano, senza saperlo spiegare, comincia a vivere come esperienza questa attesa,
perché il Mistero usa un metodo stupendo: per farci capire le cose le fa accadere, non è che prima ci
fa la lezione e poi l’evoluzione; no, perché non lo potremmo capire. Come spieghi a un bambino e a
un adolescente tutto questo senza che gli succeda? Sarebbe inutile spiegarglielo. Il Mistero lo fa
accadere, gli fa sentire che niente gli basta e allora lo spalanca. Se il bambino o l’adolescente non
capisce questo, incomincia a scambiarlo con altre cose, con un’attività frenetica che lo confonde di
più, e dice: «Come mai?», non avendo capito la natura di quella attesa, di quel desiderio che a un
certo momento è venuto fuori alla coscienza della persona. Uno cerca la risposta in altri rapporti (gli
amici, il moroso, la morosa), o nell’attivismo, o nel successo… E sempre non basta. Se non si
capisce questo, se non si capisce che cosa sta succedendo, si introduce un risentimento verso l’altro,
verso la vita. «Come mai desidero così tanto e poi non trovo una risposta adeguata?». Per questo
tante persone fanno tanta fatica a volersi bene, ad avere una affezione a sé, perché è come se
sentissero una ingiustizia, come se tutto quello che Dio sta facendo emergere per allargare il cuore,
non avendo ancora trovato ciò che lo riempie, fosse fonte di rabbia e risentimento.
Come il Signore continua questa opera, questa educazione dell’uomo per fargli allargare
costantemente tutta la capacità di accoglienza che Lui vuole riempire? A volte neanche noi capiamo
questo. Allora ci ha molto aiutato il Papa quando, nelle catechesi bellissime che sta dandoci lungo
l’Anno della Fede, ci ha spiegato che cosa è il desiderio di Dio. Perché lui parte da qui: «Molti
nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio»
(Benedetto XVI, Udienza generale, 7 novembre 2012). E noi stessi possiamo dire: ma io quante
volte mi sorprendo desiderando Dio? Qualcuno potrebbe dire che questo desiderio è sparito. Invece
il Papa ci accompagna, ci prende per mano e ci dice: guardate che forse le cose non sono così
semplici e immediate. «In realtà, quello che abbiamo definito come “desiderio di Dio” non è del
tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo» (Ivi). Ma come si
affaccia? Come si affaccia questo desiderio di Dio? «Il desiderio umano tende sempre a determinati
beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia [malgrado tante volte quel che desideriamo
siano i beni concreti, tutt’altro che spirituali] si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia
davvero “il” bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può
costruire, ma è chiamato a riconoscere» (Ivi). Allora noi, anche attraverso la ricerca dei beni
concreti, ci troviamo alla ricerca di qualcosa d’altro, perché continuiamo a cercare, continuiamo a
sorprendere in noi un desiderio di qualcosa d’altro; un bene – come diceva Dante – un bene per cui
tutti “contendiamo”. E allora il Papa chiede: che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo? E
incomincia a elencare alcune delle esperienze umane attraverso cui il Mistero ci fa desiderare e ci
educa ad allargare di più il desiderio. Per esempio, l’esperienza dell’amore umano «che nella nostra
epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo
avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera». Ma questo desiderio che lo supera cosa
dice? Il desiderio che va oltre i beni concreti è il desiderio di Dio. Noi non lo diremmo così, tante
volte non lo pensiamo così, neanche ci passa per l’anticamera del cervello. «Attraverso l’amore,
l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza
della vita […]. Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la
conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato». E cosa succede? Che «nemmeno
la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto
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più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla
sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. Dunque,
l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi» (Ivi). Se noi non
capiamo questo quando viviamo una esperienza amorosa, di nuovo ci arrabbiamo con l’altro perché
non corrisponde al desiderio che ha destato, perché nessuno desta un desiderio più grande che la
persona amata. Se uno non capisce che questo desiderio destato è il bene più bello che gli è
successo, poi si arrabbia con la persona amata perché essa non è in grado di compiere ciò che evoca.
E comincia – tutti lo sappiamo bene – la violenza, una pretesa tra di loro, che invece di aiutarsi a
guardare a quell’oltre a cui l’uno e l’altra rimandano, anche loro, come gli adolescenti, si arruffano,
anche loro si incastrano, si arrabbiano. Perché non capiscono che quel che desiderano è altro.
Lo stesso capita con altre esperienze – dice il Papa – umanissime: l’amicizia (possiamo avere dei
rapporti bellissimi con gli amici, stare benissimo insieme eppure non ci basta); l’esperienza della
bellezza che ci spalanca il cuore a qualcosa d’altro; l’esperienza della conoscenza. «Ogni bene
sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si
affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato»
(Ivi). Così, attraverso quel dinamismo generato dal desiderio delle cose concrete, costantemente
riappare all’orizzonte il desiderio fondamentale, il desiderio di qualcosa di più grande. E così per
tutta la vita il Mistero continua a educarci ad allargare il desiderio. E se pensavamo che questo
decadesse, a un certo punto ci succede qualcosa d’altro che mette di nuovo in moto il dinamismo.
«L’uomo […] conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli
farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia» (Ivi). Tante volte abbiamo
pensato di averla identificata: è questo, è quest’altro, ci siamo… Pensiamo di avere identificato il
volto di quella felicità, e di nuovo ci troviamo davanti a qualcosa che ci rimanda oltre. «Non si può
conoscere Dio a partire soltanto dal desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero:
l’uomo è cercatore dell’Assoluto […]. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del “cuore
inquieto” come lo chiamava Sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel
profondo, un essere religioso [non nel senso pio del termine, ma nel senso che tutta la struttura
dell’uomo lo rimanda oltre, che essere uomo coincide con questa sua religiosità]. Possiamo dire con
le parole di Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”» (Ivi). Dunque attraverso questa
«pedagogia del desiderio» (dice il Papa) si allarga costantemente la nostra attesa rendendoci
impossibile accontentarci di qualcosa di meno.
A volte si sente la seguente obiezione: dopo il peccato originale questo dinamismo umano è venuto
meno, si è danneggiato. Neanche un po’! Dice il Papa: «Anche dopo il peccato […] rimane
nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo, quasi una firma impressa col fuoco nella sua
anima e nella sua carne dal Creatore stesso» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per
l’Amicizia fra i Popoli, 10 agosto 2012), perché questo desiderio non riguarda qualcosa di sbagliato
che abbiamo fatto, ma riguarda (quando lo capiremo?) la nostra struttura di uomini in quanto tali.
Per questo i Salmi che a volte cantiamo – che sono fatti da uomini peccatori come noi, da uomini
che li hanno scritti dopo il peccato originale – ribadiscono: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io
ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal
63,2). Questo non l’ha scritto uno prima del peccato originale, ma dopo. Cioè, non solo la mia
anima, ma ogni fibra del mio essere è fatta per trovare la sua realizzazione in Dio. E anche quando
si rifiuta o si nega Dio non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Altrimenti, se potessimo,
per comodità la cancelleremmo; ma è qualcosa che nessun potere di questo mondo può annientare,
neanche noi abbiamo potere su questa nostra struttura, su questo nostro essere. Dio ci ha fatto così
bene, ci ha fatto così aperti che neanche se noi volessimo – quasi per interrompere questa possibilità
di compimento – potremmo cambiare alcunché; occorrerebbe costantemente ed energicamente
negare e rifiutare qualsiasi possibilità, ma la nostra struttura continuerebbe a desiderare, come se
ogni fibra del nostro essere non cedesse a questa cancellazione che tante volte vorremmo. Come se
uno potesse dire: «Non voglio bere acqua, non ho sete». Ma continuare a ripetere che non ha sete è
la conferma che ce l’ha! Può negare di voler bere l’acqua, ma è la conferma che ce l’ha. E questo
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dice fino a che punto Dio ci ha voluto bene, imprimendo in ogni fibra del nostro essere questa
apertura a Lui.
Non si tratta dunque di soffocare il desiderio, come tante volte l’uomo pretende, ma di liberarlo;
liberare tutta la portata del desiderio, perché se non liberiamo la portata del desiderio non possiamo
capire cos’è il Natale, che spesso viene ridotto a una ricorrenza per devoti o bigotti e non per
l’uomo che attende − in ogni fibra dell’essere con questo desiderio sterminato − una risposta. Come
dice sant’Agostino: «Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio [se fa aspettare, è affinché Lo
desideriamo di più!], col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace»
(Sant’Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6).
Dobbiamo essere leali: tante volte ci può assalire l’idea che questo desiderio sia in realtà una
condanna. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della sua natura, del
proprio desiderio? E allora non è meglio dimenticarsi, cancellare, bere per non essere così
autocoscienti? Non è meglio cercare in tutti i modi di strapparci quel che ogni fibra dell’essere
desidera? Prosegue il Papa: «Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo»
(Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, 10 agosto 2012). In altre
parole: solo l’uomo che ha questa lealtà con sé stesso, questa passione per sé stesso, questo amore a
sé stesso, questa capacità di abbracciare sé stesso, può veramente sentire la buona novella
dell’annuncio cristiano.
Proprio perché l’uomo non può rispondere da sé, Dio, nel Suo disegno, aveva già pensato la
risposta. Il primo che aveva pensato era Gesù, era Cristo: «Io voglio mostrare tutta la pienezza che
Io vivo da tutta l’eternità in questo rapporto unico e misterioso tra il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo. Io voglio condividere con l’uomo tutta la felicità». E dunque che cosa poteva fare per
condividere con l’uomo tutto quello che Lui è, tutta la felicità che ha dentro? Generare l’uomo con
un desiderio così illimitato in ogni fibra del suo essere, così infinito che, quando Lui avesse deciso
di comunicarSi, l’uomo avrebbe potuto ospitare la risposta. Se noi non capiamo questo, ci
arrabbiamo con il nostro desiderio. Il desiderio sembra una condanna, quando invece è la
condizione di possibilità per partecipare a una pienezza che tutti gli altri esseri neanche possono
sognare!
Ma questo è quello che è successo: l’Infinito stesso, per farsi risposta che l’uomo possa
sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto
carne, che è ciò che celebriamo nel Natale, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito. E
«il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza
umana» (Ivi).
E come possiamo sapere con certezza che quel che annuncia il cristianesimo è successo, che non
sono parole al vento, che non è una notizia irragionevole e senza fondamento? Soltanto se
incontriamo Qualcuno che non soltanto non ha paura del desiderio, ma lo esalta. Scrive don
Giussani: «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana
figura» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 104). Solo uno
che sia Dio può essere in grado di abbracciare tutto questo desiderio. Non diamo per scontato
questo.
L’altro giorno una ragazza universitaria mi raccontava del desiderio sconfinato che le ribolle dentro
e diceva: «Tutti mi consolano, ma nessuno prende sul serio il mio desiderio». Trovare qualcuno che
prenda sul serio il desiderio di un altro sembrerebbe banale, sembrerebbe quasi la cosa più normale,
ma quando succede è straordinario, perché tante volte noi stessi, non essendo in grado di stare
davanti a questo desiderio nostro, non siamo poi in grado di stare davanti al desiderio degli altri.
Pensiamo che la vita ci sistemerà, cioè siamo pronti per diventare scettici.
Per questo il primo indizio nella storia della verità dell’annuncio cristiano è che c’è stato Uno che
ha cominciato a guardare il cuore dell’uomo senza avere paura di quel desiderio, potendolo
guardare fino al punto di mostrare tutta la passione per il singolo uomo, perché tutto il problema
della vita, tutto il problema dell’universo è la felicità del singolo uomo, non c’è altro problema nella
vita più importante, più decisivo che la felicità dell’uomo. Se anche tutto il resto funzionasse, se ciò
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che ci dà dispiacere scomparisse, ma l’uomo non fosse felice, che significato avrebbe la vita?
Perché varrebbe la pena vivere? Per questo tutto il problema dell’esistenza e del mondo è la felicità
del singolo uomo. Se un uomo non può raggiungerla, tutto il resto è senza senso.
Allora, che uno possa guardare l’uomo senza ridurlo e possa dire tutta la stima che ha per tutto
quello che desidera fino al punto di dirci: «Ma qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo
intero e poi perderà se stesso?», è il più grande dono, immaginabile. Ma noi questa frase, come
tante altre, la riconduciamo soltanto a una interpretazione moralistica. No, è uno sguardo sull’uomo
che non riduce l’uomo, che è una passione per ciascuno di noi! Ma che mi serve guadagnare tutto il
mondo se non sono felice? Solo uno che dice così ama l’uomo, tutto il resto non è all’altezza
dell’uomo, non è un amore vero all’uomo. Tante persone ti danno tutto, ma non un istante di questo.
Perciò, sorprendere questa cura dell’umanità dell’uomo, del suo bisogno, è la prova provata che il
Mistero è presente in mezzo a noi.
«Mentre Gesù si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo
passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: “Passa Gesù, il Nazareno!”. Allora
gridò dicendo: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Quelli che camminavano avanti lo
rimproveravano perché tacesse [ecco la cospirazione: questi sono quelli che dicono di volergli
bene!]; ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù allora si fermò e
ordinò che lo conducessero da lui . Quando fu vicino, gli domandò: “Che cosa vuoi che io faccia per
te?”. Egli rispose: “Signore, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Abbi di nuovo la vista!”» (Lc
18,35-42). Ma «il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni non era quello
delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata [come questo cieco]. Il
miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è
nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che scopra
l’uomo a se stesso» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 62). Come succede
a quella donna: «Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe
aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù, dunque, affaticato per il
viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere
acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere” [vediamo, in questo dialogo, la struttura di quello che diceva
il Papa: sembra che questa donna non abbia altro in mente che l’acqua, un bene concreto]. I suoi
discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai
[come se non capisse…] tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”.
[…] Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu
avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua”. “Signore, non hai un secchio e il pozzo è
profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre
Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”. Gesù le risponde:
“Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà
più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla
per la vita eterna”. “Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a
venire qui ad attingere acqua”» (Gv 4,5-15). Appare davanti a questo contraccolpo di Gesù il vero
desiderio, la natura di quello che lei cercava in quel bene che era l’acqua: il desiderio è non avere
più sete. Gesù diventa uomo per rispondere a questa sete perché, come ha detto il Papa al Sinodo
sulla nuova evangelizzazione, «non c’è uomo o donna che, nella sua vita, non si ritrovi, come la
donna di Samaria, accanto a un pozzo con un’anfora vuota, nella speranza di trovare l’esaudimento
del desiderio più profondo del cuore, quello che solo può dare significato pieno alla esistenza. Molti
sono oggi i pozzi che si offrono alla sete dell’uomo [tutti sappiamo che ci sono tantissime offerte
per rispondere a questa sete; ciascuno può decidere, libertà di culti, siamo nella celebrazione
dell’anniversario dell’Editto di Milano; ma il problema è quanto uno ama se stesso, quanto uno è
leale con la sete che ha, con la natura della sete, perché ci sono tante ipotesi che offrono risposte che
tutti sappiamo essere insufficienti], ma occorre discernere per evitare acque inquinate. […] Come
Gesù al pozzo di Sicar, anche la Chiesa sente di doversi sedere accanto agli uomini e alle donne di
questo tempo, per rendere presente il Signore nella loro vita, così che possano incontrarlo, perché
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solo il suo Spirito è l’acqua che dà la vita vera ed eterna. Solo Gesù è capace di leggere nel fondo
del nostro cuore e di svelarci la nostra verità». (Messaggio al Popolo di Dio a conclusione della
XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 26 ottobre 2012). Come dice la donna a
un certo punto, nella prosecuzione del dialogo: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il
Cristo?». Perché si pone questa domanda? Perché davanti a quella Presenza che coglie tutta la sete
di quella donna, che ha avuto uno sguardo rivelatore del suo umano fino al punto di dirle tutto
quanto di lei, non può evitare di chiedersi: «Che significa questo? Che sia il Cristo?».
Ma questo accade oggi. Come accade oggi? Di recente una ragazza mi ha scritto questa lettera:
«Circa un mese fa la mia vita ha avuto una svolta finalmente. Finalmente dopo giorni e mesi di totale
apatia ho incontrato qualcosa di così bello e grande che non potevo più rimanere al punto in cui ero
prima. Ma prima dov’ero? Vivevo i giorni sperando che passassero in fretta, senza avere la minima
cognizione di quello che stesse capitando attorno a me, ma soprattutto dentro di me. Ho vissuto
settembre con ansie e angosce, terrorizzata dall’arrivo in università, non sapendo che mi avrebbe
atteso la scoperta più grande, la riscoperta di me, la vera me, che si era assopita e che avevo
dimenticato. Grazie a una compagna del liceo, a settembre sono arrivata in università e Qualcuno, ne
sono certa, ha voluto farmi un dono, il regalo inaspettato di cui sono grata e che mi ha cambiato la
vita: il fatto di aver assistito alla presentazione del mio Corso di Laurea fatta da alcuni universitari il
20 settembre, mi ricordo perfino la data con certezza, e di aver conosciuto subito dopo, nell’atrio,
quelle persone mi ha lasciato una sensazione che ancora mi commuove. Quelle persone mi avevano
già colpito […] si capiva però che c’era qualcosa di diverso, che quella familiarità fra loro non era
scontata. Sono tornata a casa contenta dell’esperienza fatta e un po’ più convinta della scelta
universitaria. […] [Poi accetta l’invito di alcune compagne e va alla Scuola di comunità] spinta dalla
curiosità. Per la prima volta ho visto cosa significa vivere qualcosa di così profondo e vero insieme.
Ho ricordi vivi della Scuola di comunità, ma soprattutto di come mi sono sentita quando è finita: le
uniche parole che potevo pronunciare erano “ma che bello! Una cosa così non l’ho mai vista e
vissuta!”. […] A tutti quelli che criticano, agli amici con cui mi sono dovuta confrontare e che
all’inizio non capivano (molti tuttora sono scettici) posso dire solo: grazie; grazie, perché se loro non
mi avessero opposto le loro ragioni io non avrei trovato le mie, non sarei andata a fondo. […] Questo,
a mio avviso, è il segno più tangibile della presenza di Cristo» («Qualcuno ci ha mai promesso
qualcosa? E allora perché attendiamo?», suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 1, gennaio 2013,
pp. 27-28).
Oggi come duemila anni fa – tale e quale – il senso della vita si è rivelato a noi e si rivela a noi,
colpisce la nostra esistenza dentro una realtà umana fisicamente percepibile, è un pezzo di tempo e
di spazio che ci percuote con un accento inconfondibile di promessa, di speranza, di prospettiva; e
mi ci attacco, come i discepoli si sono attaccati a Gesù, attraverso la Sua presenza storica del Suo
corpo che è la Chiesa. La fede cristiana è riconoscere non un elenco di cose da fare, non una
dottrina, non una organizzazione; non è partecipare a un club, la fede, ma riconoscere il divino
presente. Come questa ragazza, come duemila anni fa Simone, o la Maddalena, o la Samaritana, o
Zaccheo, magari secondo una forma apparentemente più fragile e tangenziale, ma come allora
colpiti dal presentimento di una vita diversa che vediamo davanti ai nostri occhi.
È questo che noi celebriamo nel Natale, perché senza una presenza così ora, noi non possiamo
volerci bene ora, non possiamo vincere quel risentimento che tante volte abbiamo rispetto al nostro
desiderio, non possiamo guardarlo in faccia, abbracciarlo. Come diceva un padre della Chiesa, san
Giovanni Crisostomo – e finisco –: «Non solo con tutto questo io testimonio il mio amore, […] per
te sono stato coperto di sputi e percosse, Mi sono spogliato della Mia gloria. Io ho lasciato il Padre
mio e sono venuto a te, tu che mi odiavi, mi fuggivi e non volevi nemmeno udire il mio nome; ti ho
inseguito, ho corso sulle tue tracce, per impossessarmi di te; ti ho unito, legato a me, ti ho tenuto
stretto, ti ho abbracciato. “Mangiami”, ho detto, “bevimi”. E io ti ho con me nel cielo e mi lego a te
su questa terra. Non mi basta che io possegga nel cielo le tue primizie, questo non sazia il mio
amore. Sono disceso nuovamente sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli della tua gente, ma
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per abbracciare stretto proprio te» (Cfr. Giovanni Crisostomo, Commento alla prima Lettera a
Timoteo, Omelia XV).
Per questo celebriamo il Natale. La Chiesa celebra il Natale perché possiamo riconoscere, percepire
come esperienza questo abbraccio personale alla nostra umanità così come è fatta, con tutto il
desiderio di cui è costituita, per poterla compiere.
Buon Natale a tutti.
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