IL FINE MORALE E LA FELICITÀ UMANA ARISTOTELE In questi passi tratti dall'Etica nicomachea, Aristotele affronta il problema di quale sia il "bene supremo” per l'uomo. Ritiene, infatti, che vi sia una gerarchia dei fini e che "supremo" sia il bene valido in se stesso, da perseguire per se stesso e non in vista di altro, che non sia cioè solo un mezzo per conseguire qualche altro bene. Questo bene supremo è per lui la felicità, o meglio, la felicità che deriva dall'esercizio della ragione, la quale costituisce ciò che vi è di più proprio dell'uomo. La ragione distingue l'uomo dall'animaIe: pertanto, felice in senso proprio è solo chi basa l'intera sua esistenza sull'attivítà della ragione. PISTE DI LETTURA Per Aristotele: - il bene supremo è ciò che si cerca e si persegue per se stesso e non come mezzo per conseguire altro; - la felicità è desiderata dagli uomini per se stessa; - la felicità risiede nella perfezione dell'attività propria deIl'uomo, che è l'attività razionale. Se vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, [1] mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un'altra cosa singola (così, infatti, s'andrebbe all'infinito e allora la nostra aspirazione sarebbe vuota e inutile), in tal caso è chiaro che questo dev'essere il bene e il bene supremo. E non è forse vero che, per la vita, la conoscenza del bene ha una grande importanza e che, possedendola, come gli arcieri chesanno il loro scopo, possiamo scoprire meglio ciò che si deve? Se così è, occorre cercare di precisare anche sommariamente che cosa mai esso sia e a quale delle scienze o delle capacità appartenga. Sembrerebbe che debba appartenere alla più importante e alla più strutturata. Questa sembra essere la politica. [2] Quanto al nome di questo bene, la maggior parte è pressoché d'accordo: sia la massa sia le persone raffinate, le quali suppongono che l'esser felici consista nel viver bene e nell'aver successo, lo chiamano felicità, ma intorno all'essenza della felicità sono in disaccordo [3] e qui la massa non giudica nello stesso modo dei saggi. Gli uni la ritengono una cosa visibile e che appaia esterìormente, come il piacere o la ricchezza o l'onore, altri un'altra cosa, e spesso anche la stessa persona ritiene che sia ora una cosa ora un'altra (ad esempio, quand'è malato la salute, quand'è povero la ricchezza); chi, invece, è conscio della propria ignoranza ascolta con meraviglia chi dice tali cose grandi e superiori a lui; alcuni, invece, pensano che accanto a tutti questi beni ve ne sia uno che esiste per sé, il quale è pure per essi la causa stessa che li fa esser beni. […] È evidente che esso è diverso nelle diverse azioni ed arti; è diverso, infatti, nella medicina e nella strategia e così nelle altre attività. Che cos'è, dunque, il bene di ciascuna? È forse ciò in vista del quale si fanno le altre cose? Tale è nella medicina la salute, nell'arte della guerra la vittoria, nell'architettura la casa, e così di seguito; è il fine in ogni azione e in ogni proposito, è in vista di esso che tutti compiono le altre cose. [...] Poiché, dunque, sembra che i fini siano numerosi, e noi ne scegliamo alcuni solo in vista d'altri, come ad esempio la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti, è evidente che non tutti sono fini perfetti, mentre il sommo bene dev'essere qualcosa di perfetto. Cosicché, se vi è un solo fine perfetto, questo è ciò che cerchiamo e, se ve ne sono di più, esso sarà il più perfetto di essi. Noi diciamo, dunque, che è più perfetto il fine che si persegue di per se stesso che non quello che si persegue per un altro motivo e che ciò che non è scelto mai in vista d'altro è più perfetto dei beni scelti contemporaneamente per se stessi e per queste altre cose e, insomma, il bene perfetto è ciò che deve esser sempre scelto di per sé e mai per qualcosa d'altro. Tali caratteristiche sembra presentare soprattutto la felicità; infatti noi la desideriamo sempre di per se stessa e mai per qualche altro fine, mentre l'onore, il piacere e la ragione e ogni altra virtù li perseguiamo senz'altro per se stessi (infatti, se anche essi dovessero essere privi di ulteriori effetti, noi desidereremmo ugualmente ciascuno di essi), tuttavia li scegliamo anche in vista della felicità, immaginando di poter esser felici attraverso questi mezzi. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi altri beni, né in generale in vista di qualcosa d'altro. [...] Come per il flautista, il costruttore di statue, ogni artigiano e, insomma, chiunque ha un lavoro ed un'attività sembra che il bene e la perfezione risiedano nella sua opera, così potrebbe sembrare anche per l'uomo, se pur esiste qualche opera a lui propria. [...] E quale sarebbe dunque questa? Non già il vivere, giacché questo è comune anche alle piante, mentre si ricerca qualcosa che gli sia proprio. Bisogna, dunque, escludere la nutrizione e la crescita. Seguirebbe la vita sensitiva, ma anche questa appare comune al cavallo, al bue e ad ogni animale. Resta solo dunque una vita attiva propria di un essere razionale. [4] [...] Se propria dell'uomo è l'attività dell'anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che questa è l'opera del suo genere e in particolare di quello virtuoso, come vi è un'opera del citaredo e in particolare del citaredo virtuoso e, insomma, ciò si verifica sempre, tenendo conto della virtù che viene ad aggiungersi all'azione (del citaredo è proprio il suonar la cetra, del citaredo virtuoso il suonarla bene); se è così, noi supponiamo che dell'uomo sia proprio un dato genere di vita e questa sia costituita dall'attività dell'anima e dalle azioni razionali; [riteniamo] che anche dell'uomo virtuoso sia proprio tutto ciò, compiuto, però, secondo il bene e il bello, in modo che ciascun atto si compia bene secondo la propria virtù. Se, dunque, è così, allora il bene proprio dell'uomo è l'attività dell'anima secondo virtù; [5] e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. infatti, una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono possibile la beatitudine o la felicità. (da Aristotele, Etica nícomachea, l, 2, l094a; 3, l094b; 4, l095a; 7, l097a-l098a) 1. “Bene” è per Aristotele il fine del1'azione, ciò verso cui essa tende. L'etica descrive ciò che concretamente gli uomini fanno e vogliono, i fini che essi perseguono. Ma i fini sono diversi l'uno dall'altro e disposti secondo una gerarchia, nella quale il bene supremo è il fine che è voluto per se stesso e non come mezzo per conseguire altri fini. 2. Caratteristica fondamentale dell'etica aristotelica è la sua compenetrazione con la politica. Entrambe, infatti, hanno come fine la determinazione del bene supremo per l'uomo. Nell'etica è più forte il riferimento al bene supremo dell'individuo, mentre nella politica tale bene viene riferito agli individui della pólis, ossia all'intera comunità cittadina. Nella politica quel bene morale è il contenuto della legge dello Stato: la città si propone di realizzare quel bene per tutti i cittadini. 3. Il bene supremo verso cui tutti gli uomini tendono è la felicità. Ma né gli uomini comuni, né i saggi, sono d'accordo nel dire in che cosa la felicità consista: è il piacere? la salute? la ricchezza? è un bene in sé? L'etica, proprio perche scienza pratica, intende regolare l'azione umana: non si limita cioè a definire quel bene, ma vuole determinare le condizioni necessarie al conseguimento della felicità. 4. Ogni attività (del flautista, dell'architetto, ecc.) tende alla propria perfezione, che ne costituisce la “virtù”. Si tratta però, in queste arti, di un'attività che persegue un fine determinato e che ha valore solo in funzione di tale fine non per se stessa. La perfezione dell'ur›mo è l'esercizio pieno della ragione. Questa, appunto, è la virtù completa e perfetta, poiché è fine a se stessa. 5. Esiste un bene perfetto, superiore a qualunque altro, perseguito per se stesso e fonte massima di felicità. Tale bene sta nella perfezione dell'attività umana per eccellenza, e si lega al genere contemplativo di vita, cioè al genere di vita più alto che sia possibile ad un essere razionale quale è 1'uomo. La sapienza è la virtù suprema e determina nell'uomo uno stato permanente di beatitudine. ANALISI DEL TESTO 1) Perché l'attività dell'anima secondo ragione è propria dell'uomo, ne deriva che: (una risposta) a. tutte le attività di questo tipo concorrono alla felicità b. la felicità sta nella negazione di ogni attività non razionale c. la felicità non è possibile perché l'uomo non è solo razionalità d. solo l'attività razionale al più alto grado è fonte di felicità 2) Prova a costruire l'argomentazione con cui Aristotele potrebbe rispondere a chi ponesse la felicità nelle ricchezze (5-7 righe). 3) Ricostruisci in una mappa concettuale l'argomentazione con cui Aristotele giunge ad affermare che vi è un bene supremo. 4) Per Aristotele chi è virtuoso è anche felice? a. Sì, perché... (6-8 righe) b. No, perché... (6-8 righe)