Istituzioni di diritto pubblico AO – aa 2013-2014 Prof

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Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai
II.5. Lo stato liberale in Italia e il Fascismo
Il secolo che intercorre tra il Congresso di Vienna, che nel 1815 restaurò sui loro troni le monarchie
spodestate dal vento napoleonico ( e tornò a restaurarvele dopo il 1848), e la prima guerra mondiale, è
ricordato come il secolo ‘borghese’, quello in cui la classe produttiva, imprenditoriale, acquisisce
centralità nella direzione della vita pubblica. Per il diritto pubblico, si tratta di un periodo nodale, nel
quale si forma una intera ‘dogmatica’, cioè un insieme di concetti, di definizioni, di categorie, ancora oggi
in uso, diventate distintive del diritto pubblico e del diritto amministrativo. Queste due discipline
giuridiche in quest’epoca conoscono il massimo sviluppo, in parallelo al loro oggetto, che è appunto lo
stato.
Ormai del tutto consolidato rispetto all’ordine antico, lo stato ottocentesco è infatti uno snodo per quanto
riguarda la classificazione delle forme di governo, la definizione delle forme di organizzazione e di azione
della pubblica amministrazione, la articolazione della giurisdizione (è il secolo in cui nasce la ‘giustizia
nell’amministrazione’), l’organizzazione amministrativa del territorio, il rapporto tra sfera pubblica e sfera
privata, tra stato ed economia, e tra questi e la società.
L’enormità di apporti che l’esperienza liberale dà alla formazione delle categorie del diritto pubblico è
segnalato dalla pluralità di definizioni con cui i giuristi descrivono lo stato in questo periodo, e che ne
mettono in luce altrettante componenti:
-
stato rappresentativo,
-
stato ‘liberale’
-
stato a diritto amministrativo,
-
stato di diritto.
Nel corso di questo capitolo ci accosteremo all’esperienza liberale cercando di precisare il senso di queste
definizioni, misurando anche le molte contraddizioni che il modello ha conosciuto, particolarmente nella
versione accentuatamente conservatrice che ha assunto nel nostro paese e al cospetto degli innumerevoli
problemi, primo tra tutti quello della costruzione della unità nazionale, con cui l’esperienza liberale si è
svolta da noi.
A. La dottrina liberale dello Stato
“Meno società nello stato”: i principi del governo rappresentativo
La dottrina liberale dello Stato nasce come riflessione intorno a quelli che vennero individuati come gli
errori del periodo rivoluzionario. Questi errori erano principalmente due: primo errore: l’avere scalzato le
istituzioni tradizionali (la monarchia), ciò che aveva accusato di aver solo a una terribile instabilità (v. il
continuo cambiamento delle forme di governo in Francia durante la rivoluzione, e il quarto di secolo di
sconvolgimento portato in Europa dalle guerre napoleoniche), instabilità che era stata sia politica, cioè
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delle istituzioni, sia sociale, essendo state le società investite da profonde trasformazioni generatrici di
agitazioni, rivolgimenti, crisi e contestazioni; ed essendo esse state rese perciò anche insicure. Secondo
errore: l’avere prospettato l’idea che la sovranità appartiene al popolo, il che aveva generato divisione (e
dunque, di nuovo, instabilità), perché il popolo si divide in fazioni che non sono in grado di trovare
quell’accordo, quell’armonia, che rende possibile l’azione ordinata delle istituzioni.
In reazione a questi errori, o considerati tali, la dottrina liberale dello stato punta a restituire alle istituzioni
il loro fondamento tradizionale onde realizzarne la autonomia dalla società, in modo che esse possano
procedere nella loro azione senza interferenze e condizionamenti. Meno società nello stato è dunque il
primo slogan del pensiero liberale, che sorregge la teoria del governo rappresentativo e giustifica la forma
di governo monarchico costituzionale.
La teoria del governo rappresentativo
Per realizzare e preservare la autonomia delle istituzioni dalla società il pensiero politico liberale sviluppa
la teoria del governo rappresentativo. Il cuore di questa teoria risiede nella affermazione che le istituzioni
rappresentano la Nazione, nel senso che ne sono l’espressione, sono il risultato della sua storia, e ne
curano gli interessi; ma non nel senso che le istituzioni derivano la loro ragion d’essere e legittimazione
dall’essere scelte e orientate dalla nazione stessa. La teoria dello stato rappresentativo traduce in principi
di organizzazione politica le preoccupazioni liberali per la stabilità delle istituzioni e per la ricerca della
armonia. Come spiegava nel 1894 ai suoi studenti il maggiore giuspubblicista italiano dell’epoca:
“Il governo rappresentativo moderno si propone di curare e attuare l’armonia esterna e costante fra i
due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, per mezzo di istituti determinati.
La coscienza popolare è la coscienza collettiva del popolo, un sentimento uniforme che nasce
dall’indole giuridica, dai precedenti storici, dalle attuali influenze dell’ambiente in cui un popolo
versa.
Le istituzioni politiche sono la risultanza di un processo di adattamento storico, ed hanno per sé
quella forza indiscutibile della tradizione, su cui praticamente si forma l’obbedienza politica delle
moltitudini”1.
Nella visione liberale, dunque, “le istituzioni sono frutto della storia e della esperienza di una certa
nazione, non sono illimitatamente modificabili, hanno quei caratteri, e non altri, perché così, e non in altro
modo, sono state strutturate dalla storia della nazione, dal succedersi delle generazioni2”.
La forma di governo tipica della concezione liberale dello stato rappresentativo: la monarchia
costituzionale (o limitata, o pura)
La forma di governo che corrisponde ai principi liberali .dello stato rappresentativo è la monarchia
costituzionale pura, o monarchia costituzionale. Qui al monarca (principio tradizionale) viene affiancato
un parlamento, composto di solito da due camere, delle quali una elettiva e che partecipa col sovrano
1
V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Barbera Editore, Firenze, 1894, p. 50 ss.
2
M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Giappichelli, Torino, p. 109.
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all’esercizio della funzione legislativa. La funzione della elezione della Camera è quella di associare al
sovrano nella cura degli interessi dello stato quella porzione della popolazione in grado di capire quali
sono gli autentici interessi della nazione: vale a dire gli strati elevati.
La monarchia costituzionale pura: uno schema dualista a presidio delle prerogative del Monarca- potere
esecutivo
Va notato che la forma di governo costituzionale pura è dualista perché il Governo (Monarca e potere
esecutivo) non dipende dal Parlamento. Il Sovrano, Capo dello Stato, ha una legittimazione indipendente
da quella, parzialmente elettorale, del Parlamento. Essa intende esprimere una, per quanto modesta,
“limitazione” dei poteri (prima “assoluti”) del sovrano, ma non concede alcuna influenza al Parlamento
sul Governo (che fa capo al Re).
Nella teoria delle forme di governo gli aggettivi monista e dualista si riferiscono alla fonte della
legittimazione degli organi di indirizzo politico, che è la prima condizione che influisce sui possibili
rapporti tra questi organi. La legittimazione di un potere è la fonte di esso, la sua ragione, l’insieme di
motivi che lo giustificano. Quando in una forma di governo c’è un solo organo che ha la legittimazione
più forte (sia essa quella dinastica tradizionale o quella democratica di derivare dal popolo) la forma di
governo è detta monista e la conseguenza è che quest’organo ha poteri condizionanti sulla esistenza e
permanenza in carica e sull’esercizio dei poteri degli altri. Come vedremo, nella forma di governo
parlamentare solo il parlamento è eletto direttamente dal popolo, è l’organo che ha la legittimazione più
forte ed è l’organo che condiziona, con la propria ‘fiducia’ la permanenza in carica del governo. Perciò la
forma di governo parlamentare rientra tra le forme di governo ‘moniste’. Quando invece in una forma di
governo ci sono organi, di solito due, che hanno una fonte di legittimazione pari e diversa, la forma di
governo è dualista e ciò significa che nessuno dei due organi titolari di legittimazione può condizionare
l’esistenza in carica e il modo di esercizio dei poteri dell’altro (esempio nella forma americana
“presidenziale” sia il presidente che il congresso, e cioè sia il capo dell’esecutivo sia il vertice del
legislativo sono eletti dal popolo, hanno la stessa legittimazione sono pari e nessuno dei due può influire
in modo ultimativo sulla esistenza, durata in carica e scelte dell’altro). Le forme di governo dualiste sono
tutte associate all’esigenza di garantire preminenza al potere esecutivo e a al suo organo di vertice
(Monarca, Capo dello Stato) rispetto a quello legislativo. Ciò è particolarmente vero quando la parità tra
esecutivo e legislativo non ricorre nemmeno del tutto, come accadeva nello statuto albertino, dove il re, se
non altro perché compartecipe della funzione legislativa, aveva una posizione particolarmente importante
e condizionante.
La funzione delle elezioni nello stato rappresentativo: associare la ‘pars melior’ della società alla cura
dello stato
Nella forma di governo costituzionale pura la presenza di una Camera elettiva sta a significare che le
istituzioni sono l’espressione della nazione, ma il modo in cui la Camera elettiva è formata ribadisce
anche che la nazione, il popolo, non viene guardato come una pluralità di soggetti che hanno visioni
diverse, e che hanno il ruolo di guidare l’azione delle istituzioni. Il governo rappresentativo si è
generalmente legato a sistemi elettorali non universali (e che infatti vengono detti ‘rappresentativi’), in
cui il diritto politico di voto veniva limitato ai ceti abbienti, colti, cioè alle persone, come si diceva
all’epoca, in grado di rendersi conto dei problemi, di esprimere un voto “consapevole”, o almeno a coloro
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che, pur non benestanti, ma pur sempre percettori di un certo reddito, sapessero leggere e scrivere, o
avessero conseguito almeno l’istruzione elementare.
“La possibilità di dare rappresentanza a una classe sociale è sempre subordinata alla idoneità delle
attitudini politiche di essa (…). Dare la rappresentanza a una classe che non abbia la maturità
politica necessaria non gioverà ad essa, poiché non saprà servirsene, e nocerà alla vita pubblica3”
La svalutazione delle libertà politiche
Il pensiero liberale toglie infatti dal “catalogo dei diritti primari il diritto degli individui di decidere,
insieme con altri, sui caratteri fondamentali delle istituzioni” e sul contenuto della loro azione4. Se lo stato
fosse in mano al popolo, se cioè le istituzioni fossero mosse da rappresentanti delle diverse fazioni e
interessi in cui questo si articola, non si potrebbe curare il bene comune, dicevano i pensatori liberali, non
si potrebbe agire nell’interesse generale, e sarebbe la fine dell’unità statale e della convivenza pacifica.
Così, secondo i suoi sostenitori, il governo rappresentativo, che legava le istituzioni al popolo senza farle
dipendere dai mutevoli indirizzi di esso, cercava di garantire l’ideale del governo per il popolo, ma
intendeva il popolo non come massa numerica di individui, destinata a esprimere ondivaghe maggioranze,
ma come un insieme di elementi, stabilmente inseriti nella società con compiti e ruoli diversi, che
dovevano essere rappresentati non tutti allo stesso modo, ma ciascuno secondo il suo valore e secondo la
funzione che svolge in seno allo stato5.
“Meno stato nella società”: lo stato liberale come stato di diritto amministrativo e ‘non interventista’ sui
rapporti economico sociali
L’altro slogan del periodo liberale è “meno stato nella società”. Come sappiamo, rivoluzione e periodo
napoleonico avevano dato un grande sviluppo all’amministrazione, che era stata la realizzatrice del
disegno assolutista di svuotamento delle autonomie locali, e di ceto. Il pensiero liberale si accorge che la
rivoluzione non aveva affatto distrutto, rispetto allo stato assoluto, ma aveva anzi accresciuto, ‘l’azione
capillare e disciplinante di un potere amministrativo esteso’6. Molto pensiero liberale era preoccupato di
questo, vedendovi il rischio di uno stato dispotico che schiaccia la sfera privata, che indirizza e condiziona
le scelte individuali, che si ingerisce nell’economia. Una delle preoccupazioni tipiche dello stato liberale è
controllare l’azione dell’amministrazione e ridurne le dimensioni e le competenze. Nascono da qui le
insistenze verso l’introduzione di un controllo di tipo giudiziario sull’azione amministrativa; verso la
predeterminazione per legge delle competenze e tipi di atti dell’amministrazione, che sono i due contenuti
propri dello ‘stato di diritto’. Il quale peraltro, come vedremo, non riuscirà mai, nell’Europa continentale,
ad assimilare l’amministrazione a un soggetto privato, e si accontenterà di assicurarle un regime di
controlli giurisdizionali e un diritto speciale (la giustizia amministrativa, il diritto amministrativo),
fortemente derogatorio rispetto al diritto civile.
3
V.E. Orlando, Principi, cit., p. 75-76.
4
M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 109
5
V. Miceli, Diritto costituzionale, 2 ed., Società editrice libraria, Milano, 1913, p. 110.
6
M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 102.
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Così, la formula meno stato nella società assumerà, nei fatti, spesso, e in modo estremamente accentuato
in Italia, anziché il significato di “meno spazio e potere all’amministrazione”, quello di “minore o nessun
intervento dello stato nei rapporti economici e sociali” onde correggere gli squilibri e le differenze sociali
generate dai rapporti economici; lasciare liberamente dispiegarsi le libertà economiche, a danno della
ricerca di una maggiore giustizia sociale.
Le libertà negative
Le concezioni liberali svalutano dunque, oltre alle libertà di partecipazione politica anche tutte quelle
forme di diritti e libertà che, per essere soddisfatti, richiedono azione pubblica (traducendosi in richieste di
servizi come l’istruzione o la sanità, o in richieste di norme sull’orario e l’organizzazione del lavoro). Esse
privilegiano invece tutte quelle libertà per il cui esercizio il singolo non ha bisogno dell’azione pubblica, e
per esercitare le quali esso ha anzi bisogno che lo stato si astenga dall’intervenire (la proprietà privata, la
libertà personale e di domicilio). Si tratta delle libertà civili individuali, che, appunto perché non
richiedono intervento pubblico ma anzi un non-intervento, sono dette anche libertà negative.
La separazione dei poteri
Caratteristica della concezione liberale è d’altronde la separazione dei poteri in particolare la separazione
(indipendenza) della magistratura dal potere esecutivo. Nelle concezioni liberali, “la funzione
giurisdizionale è concepita come garanzia della giustizia nell’applicazione del diritto nei confronti di
qualunque soggetto e di qualunque azione, sia privata che pubblica, e se pubblica in special modo, visto
che è proprio l’elemento statale, pubblico, che viene configurato e riflettuto nell’esperienza liberale,
mentre che la giustizia operasse tra privati era già acquisito nel periodo assolutista7. (Allegretti, p. 486).
B. Lo stato liberale in Italia
Con un giudizio sintetico ma eloquente, Umberto Allegretti sintetizza il bilancio complessivo
dell’esperienza liberale in Italia come quello della prevalenza dell’autorità sulla libertà e dunque sulle
garanzie. E’ un tratto che, come vedremo, ricorre sia a livello delle concezioni e del funzionamento della
forma di governo, che nella organizzazione e azione amministrativa, che nel funzionamento della
giustizia, nell’atteggiamento nei confronti dei diritti, dell’economia e del lavoro. Esamineremo queste
componenti una per una qui di seguito.
La forma di governo dell’Italia liberale
La particolare piegatura, accentuatamente conservatrice, della teoria del governo rappresentativo in
Italia
7
U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 486-
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Nella giuspubblicistica ottocentesca italiana la teoria del governo rappresentativo ebbe importanti
declinazioni aggiuntive8 rispetto a quelle che quella teoria rivestiva nel resto d’Europa. Da noi, la teoria
del governo rappresentativo valse a contrastare, durante il Risorgimento, le tesi che immaginavano per
l’Italia indipendente una forma repubblicana e/o federale9, e diventò così la formula di governo
naturalmente abbinata alla politica di unificazione sotto il Piemonte Sabaudo10 e quella che sembrava
imposta dalla necessità di ‘adeguare’ l’Italia all’Europa11. Lo Statuto albertino, infatti, adottava la
monarchia costituzionale pura, la forma di governo corrispondente alle teorie del governo rappresentativo.
8
Tra i suoi sostenitori va annoverato il Conte Cesare Balbo, intellettuale e uomo politico piemontese, che alla esaltazione di questa
concezione dello stato, e della relativa forma di governo, la monarchia costituzionale, che erano i fondamenti dello Statuto albertino, le sole
forme politico-istituzionali adatte a suo giudizio all’Italia, dedicò la sua opera Della monarchia rappresentativa in Italia, pubblicata
postuma nel 1857-1860. L’introduzione dei principi del governo rappresentativo nell’Europa della Restaurazione gli appare essere stata
accompagnata da “un’ebbrezza, una beatitudine, un’aspettazione quasi d’una età dell’oro novella, che aveva invaso tutti i popoli, tutte le
condizioni d’uomini, e soprattutto gli scrittori” (p. 113), turbata, ma poi ripristinata, dalla rivoluzione francese del 1848: “L’anno 1848 fu
fatale [ai progressi della libertà ordinata] per colpa dei popoli. La colpa, la spinta a rivoluzione, venne anche questa volta di Francia, da
quel popolo il quale, dopo aver preteso al primato di potenza un mezzo secolo fa, pretende ora il primato di libertà, e non lo sa vedere che
nella libertà quanto più avanzata possibile, ed oltrepassando poi il possibile cade in licenza, e ha di questa sola allora il primato (…) perché
è destino di quella lingua più facile, più scritta, più letta che tutte l’altre, di avere più efficacia, più fecondità di bene e di male, che non le
altre nazioni e le altre lingue compagne. Al principio del 1848 la Francia aveva la monarchia rappresentativa più bene ordinata, più
liberale, e si può dire anche la più democratica dell’Europa continentale; non v’era motivo di rivoluzioni, non di mutazioni costituzionali;
potevasi tutt’al più desiderare un miglior ordinamento amministrativo e un ministero nuovo, più intelligente delle condizioni d’Europa;
niuno poi, salvo alcuni scrittori ed alcuni settari vi desiderava una repubblica. Ebbene! In tre giorni, una disputa parlamentare che si mutò
in moto di piazza, e questo moto di settari che si mutò in moto popolare, diventò rivoluzione universale, parigina, francese, europea. Erano
gli ultimi giorni di febbraio: e prima che finisse marzo, al rimbombo di quella rivoluzione francese, si era sollevata Prussia per conquistare
più pronte e più vere libertà, i vari Stati di Germania per conquistare più unità nazionale, Austria, la rocca dell’assolutismo, per conquistare
finalmente una libertà qualunque; e l’Italia, la più virtuosa allora nei suoi desideri, per la sua indipendenza. Non sono corsi diciotto mesi da
allora in poi, e i desideri scomposti di libertà indeterminate ed eccessive sono bene o male repressi in Prussia, negli Stati Germanici, in
Austria e in Italia; ingannati i desideri indeterminati e eccessivi di unità nazionale, ed ingannato pur troppo il desiderio giusto e non
perituro dell’indipendenza italiana. Ma che resta in ultimo di tali e tante mutazioni e rivoluzioni e controrivoluzioni buone o cattive? Una
grande e vera monarchia rappresentativa nuovamente stabilita in Prussia, una nuova e grande in Austria, non so se una, o due, o tre o
anche quattro in Italia. Fra tante buone o ree speranze ingannate, una sembra non ingannarsi mai: quella del progresso delle istituzioni
rappresentative.” (p. 113-115).
9
“Il sogno delle repubbliche, che accrebbe e accrescerà sempre i moti, le sollevazioni, le rivoluzioni, le piccole e somme illegalità (…) “ è per
Balbo eredità del municipalismo, foriero di divisioni territoriali, di disunioni. “Vero è che i sognatori di repubbliche ci trovano un gran
rimedio. Non negano che l’idea delle repubbliche, quando si ponesse in pratica, abbia a trar seco il pericolo di qualche divisione o
suddivisione territoriale, anche maggiore della presente. Che anzi io crederei che si adattino volentieri sin d’ora a siffatta eventualità; ed ho
ragione di credere ch’ei non ripugnino nemmeno ai municipalismi. Ma a queste divisioni presenti o future, quali che sieno per essere, ci
trovano poi un rimedio, una panacea universale, od anzi due: le costituenti nazionali, e le confederazioni. (…) Superba Italia! Impazzita
all’idea di far da sé, piglia sempre tutto dagli stranieri; ma da parecchi secoli non aveva pigliato dalla Germania se non principi e nessuna
istituzione, quando l’anno scorso si mise a pigliare questa stoltezza dell’unità per mezzo di una confederazione nuova di Stati vecchi” (C.
Balbo, op. cit., p. 211). Da legittimista qual era, e scrivendo intorno al 1850, Balbo, certamente per motivi di opportunità politica, ammetteva
però a parole l’idea dell’Italia unita come federazione di monarchie rappresentative, purché indipendenti” (p. 224) il che valeva a rincarare il
concetto per cui repubblica uguale disunione, anarchia e regresso, monarchia uguale armonia, unità e progresso.
10
“Il Piemonte si terrà stretto ai principi suoi, alla Casa di Savoia; rimarrà il palladio della monarchia rappresentativa; della libertà ordinata
in Italia; salverà l’Italia dalla repubblica, dalla libertà appassionata e disordinata, dall’isolamento repubblicano in mezzo alle monarchie
europee, ed il Piemonte serberà così all’Italia la capacità, la possibilità di riconquistare la sua indipendenza” (C, Balbo, op. cit., p. 218),
11
Nella sua strenua difesa della monarchia rappresentativa come unica forma politica possibile per l’Italia, Balbo si avvale di un argomento
che è anche oggi ricorrentissimo: rispetto alle grandi nazioni (“potenze”) europee l’Italia è ‘indietro’, dunque non può che allinearsi a quello
che esse fanno, in particolare, per quanto interessava a Balbo, adottare la forma di stato e di governo che esse adottano, la monarchia
rappresentativa, appunto. “Senza ambizioni di far meglio e più che l’altre, famiglia di monarchie rappresentative in mezzo alle simili, questo
è il sol modo di posare finalmente dalle rivoluzioni vaganti e senza scopo o con iscopi vari e stolti, questo il solo modo di uscire dal periodo
di transizione ove siamo, questo il solo di confermare la libertà, e il solo di conquistare l’indipendenza” (p. 224). E’ interessante che lo
stimolo a fare come le altre Nazioni, che sono ‘grandi’, venisse formulato, dal Balbo, mediante una accentuazione dei limiti, delle carenze,
della povertà intellettuale, morale e civile d’Italia, a costo di una svalutazione della sua storia, delle sue istituzioni politiche, delle sue capacità
presenti: di questa intonazione retorica che è rimasta ricorrente, e ancora viene usata tutte le volte in cui l’Italia è chiamata, per crescere, per
migliorare, a uniformarsi al modello di altri paesi, l’opera di Balbo ci aiuta a scorgere l’intima e probabilmente connaturata implicazione
conservatrice. Nella prima metà del secolo, del resto, la adozione di una costituzione rappresentativa era, un po’ come oggi il taglio della
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Va detto peraltro che, pur mantenendosi relativamente salda per tutto l’Ottocento nelle opinioni
dominanti, la convinzione di molti sulla opportunità e pregi della monarchia rappresentativa non sarebbe
andata esente dalla consapevolezza che in diversi decenni di esperienza pratica lo stato rappresentativo
aveva dato adito a diversi problemi, consapevolezza che si affaccia in modo forte verso la fine di questa
stagione, ossia nel primo quindicennio del 1900.
Vi fa una tacita ma eloquente allusione un giurista moderato come Vincenzo Miceli quando scrive:
Per funzionare bene [il governo rappresentativo] richiede nel popolo un grado elevato di
educazione politica e un vivo interessamento per la cosa pubblica, e da parte dei pubblici poteri
richiede una piena conoscenza e un forte sentimento dei propri doveri. Qualora queste condizioni
non esistono, essa facilmente degenera, dando luogo ad abusi e corruzioni, ad ingiustizie, che
fanno di questa la peggiore delle forme politiche. Corruptio optimi pessima può essere ripetuto a
proposito di essa 12
Legicentrismo statualista
Il carattere spiccatamente conservatore che le teorie del governo rappresentativo assunsero in Italia è ben
illustrato dalle concezioni della legge che da noi si affermarono. Nel governo rappresentativo la legge è il
frutto della cooperazione tra Monarca e Camere, esprime la volontà dello stato, non quella del popolo. I
giuristi liberali italiani dopo l’unità approfondirono questa visione dedicando grande attenzione alla
dimostrazione della tesi per cui la legge non è espressione della volontà del popolo, ma dello Stato, della
Nazione come unità, non delle maggioranze che governano. Essi volevano impedire che dalla superiorità
della legge fosse ricavata la conseguenza, di stampo volontarista, per cui la legge è uno strumento di
cambiamento della società secondo gli indirizzi politici espressi dal popolo; volevano far convivere la
superiorità della legge con un assetto politico fortemente conservatore.
Per far questo, essi guardarono alla cultura germanica. Questa area fu, nell’Ottocento la culla di
concezioni del diritto antitetiche a quelle volontariste francesi, e che puntavano invece su una concezione
storicista per cui il diritto è l’espressione della comunità, della società e della sua storia. Questo era
sempre un modo sempre per giungere alla conclusione che ogni Nazione ha il suo diritto, cui i Francesi
erano arrivati tramite la affermazione della superiorità della legge, la codificazione e la nazionalizzazione
del diritto, ma mettendo l’accento più sugli aspetti tradizionali e culturali, che non sulla volontà del
legislatore, sulla unificazione del diritto per mezzo dei codici, sull’attivismo dei governanti.
Nella nostra cultura, che era di impianto codicistico alla francese, che aveva uno stato rigidamente
accentrato e governato da pochi, la lezione ‘storicista’ germanica venne ricolata in argomenti che
spesa pubblica e del welfare, diventata una richiesta che le grandi potenze ponevano alle nazioni messe sotto osservazione, perché
preoccupanti in quanto asimmetriche rispetto all’ordine che oggi chiameremmo ‘globale’, e che allora era europeo. Nel suo La fine di un
Regno (1907), dedicato alla minuziosa e penetrante descrizione degli ultimi quattro anni del regno borbonico nelle due Sicilie, Raffaele de
Cesare fa più di una annotazione nella quale il lettore contemporaneo riconosce nella posizione del Regno delle due Sicilie di allora, nella
sua ‘immagine internazionale’, quella di uno ‘stato canaglia’ di oggi: “Francia e Inghilterra chiedevano un trattamento più umano per i
detenuti politici e politica più conforme allo spirito del tempo”; nel 1851 Gladstone pubblica le sue lettere sulle prigioni e i prigionieri politici
del Napoletano, che hanno eco in tutta Europa; la sollecitazione a Ferdinando II di concedere la costituzione rappresentativa viene avanzata
più volte dall’Inghilterra e la Francia, i detenuti politici condannati per il 1848 ed estradati dietro pressione delle potenze straniere, tra i quali
Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, sono accolti a Londra e poi a New York tra ovazioni pubbliche.
12
V. Miceli, op.cit., p. 117.
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andavano ulteriormente a giustificare la supremazia della legge, e la sua indiscutibilità. Si sostenne così
nel tardo Ottocento che la legge è l’espressione del diritto, della nazione, della coscienza sociale, onde
sottacere il fatto che essa nasceva tra Sovrano e Parlamento con certi interessi ben in vista da favorire o
ostacolare.
“Nello stato costituzionale moderno e più particolarmente nelle Costituzioni parlamentari, la
dichiarazione di una norma giuridica promana dall’approvazione delle Camere rappresentative
e dalla sanzione del Capo dello Stato. Tuttavia, malgrado al volgo apparisca il contrario, pure
una tale concentrazione di potere non influisce per nulla sull’essenziale portata di esso, la quale
non è di creare, ma di riconoscere il diritto. Postulato fondamentale della scienza odierna è che
il Diritto è manifestazione naturale e necessaria, così nelle sue origini come nel suo sviluppo,
della vita di un popolo, come la lingua, come il pensiero, come l’indole generale di esso. Dalla
coscienza popolare in cui il Diritto immediatamente riposa, esso si trasfonde e si elabora nella
scienza giuridica che riceve la sanzione solenne dell’autorità dello Stato, e diventa legge”1.
Nel nostro assetto conservatore, questi argomenti suonavano nel senso: non pensi il popolo, e il pensiero
andava alle masse popolari, ai ceti meno elevati e colti, che la legge sia strumento per cambiare il diritto in
nome di esigenze di parti della società, e che da noi si introducano novità come il suffragio universale, il
diritto di sciopero o la limitazione dell’orario di lavoro, sol perché vi è chi fa di queste richieste. Tutte
queste cose sono contrarie al nostro spirito nazionale, e il legislatore non può certo andare contro di esso.
Esso ‘organo dello spirito pubblico’, ‘trova, non crea il diritto’.
La forma di governo disegnata dallo Statuto albertino: una monarchia costituzionale pura e fortemente
sbilanciata a favore del potere esecutivo
Lo Statuto albertino fu concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia al Regno di Sardegna e con
l’unificazione divenne la legge fondamentale del Regno. Esso adottava, come forma di governo, la
monarchia costituzionale pura, articolandola sui seguenti principi:
-
Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo.
-
Il Re, la cui persona è detta ‘sacra e inviolabile’, detiene in esclusiva il potere esecutivo, che
esercita per potere proprio (prerogativa regia) insieme al proprio gabinetto, ministri e collaboratori
che nomina autonomamente e che rispondono solo a lui (recitava lo Statuto albertino: Al re solo
appartiene il potere esecutivo. Il Re nomina e revoca i suoi ministri. I ministri sono responsabili).
Egli è il Capo Supremo dello Stato, dispone delle forze armate e del potere estero (dichiara la
guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle camere ove
l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, cioè senza esservi obbligato) e del potere di
scioglimento delle Camere.
-
Affiancano il Re due Camere, di cui una nominata dal re (Senato regio, i cui membri sono
nominati a vita) e una (Camera dei deputati) elettiva (da un corpo elettorale inizialmente pari al 2%
della popolazione) e di durata quinquennale.
-
Mentre la funzione esecutiva è prerogativa del Monarca, la funzione legislativa spetta insieme al
Re e al Parlamento. Le leggi, deliberate dalle Camere, possono assumere vigore solo se ricevono
la sanzione regia, un atto di approvazione non formale ma sostanziale, nel quale si esprimeva
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appunto la piena con-titolarità da parte del re della funzione legislativa. Affermava lo statuto: Il
potere legislativo sarà esercitato collettivamente dal Re e da due Camere. Il Senato e quella dei
Deputati. La proposizione delle leggi apparterrà al Re e a ciascuna delle due Camere. Ogni
proposta di legge, discussa ed approvata da una Camera, sarà trasmessa all’altra per la
discussione e l’approvazione, e poi presentata alla sanzione del Re. Se un progetto di legge è
rigettato da uno dei tre poteri legislativi non potrà più essere ripresentato nella medesima
sessione.
-
Secondo gli auspici della teoria del governo rappresentativo, le Camere non hanno alcun potere di
influire sul governo (Monarca+Ministri), che esiste e segue il proprio progetto politico
indipendentemente dal bisogno della approvazione del Parlamento e indipendentemente dagli
orientamenti di questo rispetto alla sua politica.
-
Anche la funzione giurisdizionale ‘emana dal Re’.
Va altresì notato che il Re disponeva di un potere di emanare regolamenti, norme subordinate alla legge e
destinate alla sua applicazione, integrazione, esecuzione. In linea di principio, il potere regolamentare del
Re-Governo era subordinato alla legge. Tuttavia, la subordinazione dei poteri dell’esecutivo e del re al
legislativo non si estendeva però alla sfera di prerogativa regia, nella quale il sovrano poteva prendere
decisioni ed emanare atti senza il consenso delle Camere. Siccome si estendeva a tutto ciò che aveva a che
fare con l’interesse e la sicurezza dello stato, questa sfera era molto ampia e dai confini elastici.
Dati gli ampi poteri riservati al monarca, è d’uso definire la forma di governo disegnata dallo statuto
albertino come una monarchia limitata ‘fortemente sbilanciata a favore del monarca’. Poiché il monarca
era il capo del potere esecutivo, e cioè del governo e dell’amministrazione, si può altrettanto bene dire che
si trattava di una forma di governo fortemente sbilanciata a favore del potere esecutivo.
Le “modificazioni tacite” dello statuto albertino: l’apparente evoluzione verso la forma di governo
parlamentare
Secondo ciò che lo Statuto albertino testualmente prevedeva, le Camere non avevano il potere di influire
sul Governo, di determinarne la vita o di condizionarne le scelte, di influenzarne l’indirizzo politico13.
Tuttavia, nella prassi ( e cioè senza un cambiamento delle regole formali, delle norme scritte, ma sul
piano dei comportamenti concreti di fatto) questo modello diventò, con l’unità d’Italia e segnatamente
verso la fine dell’ ’800, molto più articolato, e la forma di governo, da monarchico costituzionale che era,
si trasformò, sia pure con un processo discontinuo, in una forma di governo che funzionava secondo
principi diversi.
13
Nel Parlamento Statutario quando si apriva la legislatura il Re rivolgeva un discorso alle Camere, nel quale raffigurava la sua visione
degli obiettivi cui la legislatura si sarebbe dovuta orientare. Le Camere rispondevano con un ‘indirizzo di risposta’ cioè una mozione che
accettava il discorso del Re. Questa è l’origine storica dell’espressione ‘indirizzo politico’, con la quale nel nostro paese si descrive una
attività che è propria del Governo e del Parlamento: dare indirizzi al Paese.
131
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Per comprendere queste trasformazioni bisogna tener presente che nell’Italia unita la vita politica diventò
ben presto molto più complessa che nel Piemonte sabaudo e anche nella piccola e omogenea (dal punto di
vista degli interessi e delle mentalità che vi erano rappresentati) Camera dei deputati dell’epoca
cominciavano a prospettarsi visioni diverse, a contrapporsi visioni differenti del modo in cui la nazione
avrebbe dovuto essere condotta. Questo consigliò al monarca di distinguersi da coloro che componevano
il governo, dai ministri. Il Monarca cessò di andare nelle Camere fisicamente, perché là il Governo poteva
ricevere critiche, che erano inadatte alla posizione del Monarca, in quanto ne avrebbero sminuito
l’autorità, ma che al Monarca sarebbero inevitabilmente risalite dato che esso era indistinguibile dal
Governo. Pur non perdendo alcuno dei suoi poteri formali, il Re uscì dalle dirette dinamiche politiche e
questo fece sì che cominciò a succedere che il governo (i ministri del re) oltre a organizzarsi intorno a
una figura preminente (il capo del governo) che ne riassumeva le caratteristiche e gli orientamenti,
tendesse a dare le dimissioni quando diventava evidente che non disponeva di un sufficiente consenso
nelle Camere, e in specie in quella elettiva.
Il governo formalmente non era tenuto a far questo, perché secondo lo Statuto esso rispondeva solo al re;
ma nei fatti si affermarono atteggiamenti che corrispondevano all’idea che il governo dovesse rispondere
anche al parlamento, nel senso che se i suoi atti non erano condivisi dal parlamento il governo non poteva
rimanere in carica.
Nasceva così l’idea di un nesso che legava il governo al parlamento, un nesso che noi chiamiamo di
responsabilità politica, per cui il progetto politico che il governo vuole realizzare deve avere una
condivisione anche nelle Camere, e quando quel progetto o non viene perseguito come promesso o si
dimostra sbagliato il governo ne risponde con le sue dimissioni.
Il nesso di responsabilità politica che lega il Governo alle Camere Parlamento prende il nome di rapporto
fiduciario: il governo sta in carica in quanto il parlamento gli dimostra fiducia e fintantoché questa fiducia
rimane.
La forma di governo nella quale il monarca continua a influire sul governo (perché lo nomina) e sulla
legislazione (perché dà la sanzione alle leggi) ma dove comincia ad esistere anche un nesso fiduciario tra
governo e parlamento è quello che viene detta monarchia (o governo) parlamentare.
Il processo che vide il trasformarsi della forma di governo da monarchico pura a monarchico
parlamentare non fu lineare, non segnò un cambiamento da un giorno all’altro definitivo e chiaro.
“Al contrario (…) fino almeno al trasferimento della Capitale a Roma (1871) non mancarono casi
in cui il Re esercitava del tutto autonomamente il proprio potere di revoca delle compagini
ministeriali che non gli fossero gradite, indipendentemente dal rapporto tra queste e le Camere; il re
mantenne sempre inoltre il comando effettivo dell’esercito e la scelta del ministro della guerra.14”
Si trattò dunque, sotto l’apparente evoluzione in senso parlamentare, di un sistema parlamentare che si
mantenne ‘dualista’ perché – stando ad analisi importanti, come quella dello studioso di diritto
amministrativo e storico del diritto pubblico Umberto Allegretti - il ruolo sociale e politico della
14
Livio Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, p. 78.
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monarchia non venne mai meno. Il Re continuò a influire sulla politica, da una parte, tramite l’esercizio
delle prerogative regie, cioè dei poteri che il sovrano esercitava senza necessità del consenso, e talvolta
neppure dell’informazione delle Camere: e tra i quali si segnalò in particolare il potere di ingerenza sulla
politica estera e militare; dall’altra parte, il Re influiva sulla politica tramite i contatti diretti che sempre
intrattenne con uomini politici e di governo, i quali componevano un autentico “partito di corte”,
composto di rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia.
E, a causa di ciò, vi erano molte ragioni che non è difficile individuare.
In primo luogo, per effetto del carattere molto ristretto del suffragio, la classe al potere rimase una
ristretta oligarchia, della quale le Camere erano l’espressione. Il fatto che il Parlamento (e tanto meno il
Governo) non divenne mai l’espressione di interessi sociali diversi o autonomi da quelli dell’oligarchia
dominante, e rimase anzi, per composizione, estrazione e cultura in larga parte assai affine al Monarca,
spiega perché i principi del parlamentarismo non si affermarono mai definitivamente nel senso di
escludere il Monarca da addivenire alla nomina o revoca del governo sulla base di determinazioni proprie,
non nascenti dal rapporto fiduciario tra governo e Camere. Specialmente in situazioni di necessità, quando
ragioni di ordine bellico o di ordine pubblico si facevano avanti, era facilmente accettato il “ministero
regio”. Così la forma di governo rimase ancorata alla sua radice dualistica, e il governo finì per
appoggiarsi sia sulla fiducia parlamentare sia su quella regia, alternativamente, a seconda del contesto
politico del momento.
Il carattere oligarchico, quantomeno ristretto ed elitario, della classe politica statutaria, e le regole,
trasformistiche, che ne caratterizzarono il funzionamento, ci dice anche che l’evoluzione in senso
parlamentare della forma di governo non rispondeva alla intenzione, delle forze politiche presenti in
Parlamento, di dare al Paese una organizzazione istituzionale più rappresentativa della società. In teoria,
infatti, il fatto che il Parlamento condizioni la vita del Governo significa, siccome il Parlamento è, almeno
in parte, elettivo, che gli eletti, ossia i rappresentanti della Nazione, acquistano un peso importante nei
confronti dell’Esecutivo. Dunque, a condizione che la base elettorale da cui il Parlamento è eletto si
allarghi, il maggiore potere acquistato dal Parlamento può significare un maggior potere della società,
degli elettori. In teoria, quindi, evoluzione in senso parlamentare può significare ‘evoluzione in senso
democratico’ della forma di governo. Ma le esigenze dalle quali nasceva il maggior peso acquistato dal
Parlamento non erano queste, o non erano soprattutto queste. In realtà, la parlamentarizzazione della
forma di governo fu una conseguenza del trasformismo cui i due soggetti politici dell’età statutaria, ossia
la Destra e la Sinistra cd. ‘storiche’ improntarono i loro comportamenti in Parlamento. Destra e Sinistra
erano due schieramenti in cui si dividevano in parlamento gli eletti, che, come poco sopra ricordato,
provenivano però tutti dallo stesso ceto ed erano molto omogenei tra loro, pur ispirandosi, nelle grandi
linee, a diverse letture della storia risorgimentale e di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi esiti e, in
questo senso, idealmente differenziandosi. Ora divenne subito un tratto caratteristico del funzionamento
della Camera elettiva che deputati che sedevano a Sinistra poi votassero a favore di provvedimenti di un
Governo composto dalla Destra, e viceversa (trasformismo), per effetto di: tensioni interne allo
schieramento; risentimento e inimicizia verso il Primo Ministro di turno; previsioni o calcoli di
convenienza circa chi sarebbe stato al Governo nel periodo immediatamente successivo. In un quadro di
questo genere, in cui cioè gli schieramenti parlamentari, Destra e Sinistra, non erano coesi e stabili, un
Presidente del Consiglio che apparteneva a uno dei due schieramenti sapeva di poter controbilanciare le
lacerazioni interne al suo partito appoggiandosi in parlamento al voto dell’altro. Oppure, i deputati del
partito cui il Presidente del Consiglio apparteneva sapevano che potevano controbilanciarne il potere,
persino farlo cadere, semplicemente votando con l’altro schieramento. In una parola: il peso che la
Camera acquista sul Governo è direttamente proporzionale all’interesse che gli schieramenti politici
avevano di condizionare quest’ultimo; e anche al Governo conveniva che le Camere avessero influenza
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perché, nel quadro trasformistico, poteva trovare ora sull’uno ora sull’altro schieramento appoggio per i
suoi provvedimenti. L’ “evoluzione in senso parlamentare” della forma di governo statutaria risponde
cioè non ad alti obiettivi di democratizzazione della direzione politica del Paese, ma, in larga parte, alla
‘tattica’ delle forze politiche di influenzarsi reciprocamente, tenendosi l’un l’altra sotto scacco15.
Certamente, d’altronde, a spingere verso modificazioni del funzionamento della forma di governo rispetto
al modo in cui lo statuto la disegnava c’era anche un altro dato. Lo Statuto concesso ai Piemontesi da
Carlo Alberto di Savoia nel 1848 era concepito in tutto e per tutto nella luce delle esperienze istituzionali
del Piemonte Sabaudo. Quest’ultimo, come abbiamo appreso ripercorrendone nel capitolo precedente la
storia, era uno stato precocemente assolutista, dove un Parlamento era sempre esistito, ma aveva ben
presto cessato di essere la espressione vitale degli interessi dei ceti e il luogo in cui, su un piano paritetico,
re e ceti individuavano accordi. Come Marongiu ci ha insegnato, nel XVIII secolo esistevano due
‘Camere’ (chiamate in realtà Senati, di Chambery e Torino) che condividevano col re il potere legislativo
ma l’usanza consolidatissima era che il Sovrano, per rendersi sicuro che i suoi provvedimenti fossero
approvati, prima e fuori dalla riunione dei Senati si incontrava coi loro Presidenti e si metteva d’accordo,
poi i Presidenti provvedevano a garantire che i Senati votassero come voleva il Re, esautorando le
rappresentanze dei ceti. Il modello cui guardava lo Statuto era, insomma, quello di un sovrano legislatore
che non incontrava contrappesi: quando Carlo Alberto approvò lo Statuto non poteva nemmeno
concepire che le Camere potessero esprimere una reale dialettica sulle proposte del Governo, cioè del Re,
perché questo in Piemonte non si era visto né sentito da secoli. Inevitabilmente, come dicevamo all’inizio
di questo paragrafo, quel modello istituzionale, tutto concepito con gli occhi del passato, non poteva
funzionare, come tale, applicato a un paese grande, impegnato nel processo straordinariamente complesso
di riforma economica, sociale, giuridica e istituzionale che l’unità ha rappresentato, dove le Camere, per
quanto omogenee e frutto di un suffragio ristretto, erano comunque la sede di dinamiche politiche ben più
articolate di quanto potesse accadere nei Senati sabaudi. D’altro canto, quel modello non poteva evolversi
fino al punto di accettare la naturale conseguenza della evoluzione in senso parlamentare. Quale è questa
conseguenza? E’ presto detto: se il governo per vivere ha bisogno della fiducia delle Camere, è razionale
che, quando lo si nomina, si cerchi di formare un Governo che avrà la fiducia delle Camere. In una forma
di governo parlamentare, infatti, sebbene le camere non necessariamente nominino il Governo (vi sono
state esperienze in cui ciò è stato, peraltro, tentato), tuttavia ne influenzano la scelta: se nella Camera la
maggioranza è di Destra, è naturale fare un Governo di Destra. L’indirizzo politico si concentra tra
parlamento e il governo e il Monarca o capo dello stato assume un ruolo imparziale di garanzia del
corretto gioco delle parti, ma non di diretta decisione politica. Seguire questa evoluzione non era possibile,
però, senza contraddire il pilastro della forma di governo statutaria, cioè il principio per cui il capo
dell’esecutivo è comunque il re, e il governo è il governo del re. L’’evoluzione’ verso la forma
parlamentare era possibile solo fino a quel certo punto in cui non mettesse in discussione la titolarità nel
solo monarca del potere esecutivo. Una riprova del fatto che, nonostante il delinearsi di una specie di
rapporto fiduciario tra parlamento e governo, la forma di governo rimase sempre sostanzialmente
dualistica, è anche data dal fatto che in quasi nessuna occasione il Governo che era in carica all’atto della
convocazione dei comizi elettorali si sia dimesso davanti alle nuove Camere, quelle risultanti dalla
15
Destra e Sinistra, pur contrapposte, condivisero prassi di (mal)governo e interessi. Allegretti, nel suo Profilo di storia costituzionale
italiana, Il Mulino, Bologna, suggerisce che la Sinistra fece peggio della Destra perché, arrivata finalmente al potere nel 1876, trovò in tutte
le magagne dello stato, dalla magistratura asservita alle finanze, comodi sistemi per regolare i suoi conti e installarsi al potere saldamente.
Osservando anche che le tante critiche alzate da uomini della Destra contro la Sinistra sottacevano ‘quasi sempre le decisive colpe del
proprio periodo di amministrazione’ (p. 494) Allegretti suggerisce che si trattasse, già allora, dell’uso dei principi strumentale alla lotta
politica (si rimprovera ad altri di non rispettare questa o quella regola o criterio, quando a nostra volta non li si è rispettati).
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elezione, benché i risultati elettorali avessero dato origine, in Parlamento, a una maggioranza diversa da
quella precedente.
Il periodo fu dunque segnato da un andamento contraddittorio, che spingeva verso la parlamentarizzazione
ma anche contrastava gli esiti ‘naturali’ di quest’ultima, e lungi dall’essere, come piaceva a Cesare Balbo,
la migliore per l’Italia, la forma di governo adottata dallo Statuto fu un fattore di difficoltà che dette vita a
prassi discontinue e disomogenee; e che non seppe reggere, in particolare, alla più grande sfida che il
presente portava con sé, cioè al sorgere di una forma di partito politico del tutto diversa da quella dei
partiti parlamentari d’epoca risorgimentale.
Il problema dell’estensione del suffragio e la nascita dei partiti politici di massa
La “parlamentarizzazione” della forma di governo si accompagnò anche ad un timido ma continuo
allargamento della base elettorale (fino al riconoscimento del suffragio universale maschile, esercitato
nelle elezioni del 1921) e questo si accompagnò a sua volta alla formazione di partiti politici (il partito
popolare, di ispirazione cattolica, il partito socialista) che si affermavano come rappresentanti dei diversi
interessi di cui le diverse parti della società erano portatrici davanti a un complesso di uomini e di idee
‘liberali’ che, nel bene e nel male, continuarono a identificare se stessi, e ad essere identificati, più con le
istituzioni che con la società.
Secondo i principi del governo rappresentativo, l’esperienza del Regno d’Italia ha contemplato fin
dall’inizio l’elezione dei deputati della Camera elettiva, ma, come anticipavamo nel paragrafo precedente,
questo non significa che esistessero sin dall’inizio partiti politici di massa nel senso contemporaneo, la cui
nascita data in Italia, e in altri paesi europei, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Sino ad
allora, gli eletti alla Camera erano personalità eminenti sul piano locale, nobiluomini, professionisti,
intellettuali, che si candidavano in un collegio, a titolo individuale, e che poi, una volta eletti, si
raggruppavano alla Camera (orientavano cioè le proprie scelte di voto e le proprie iniziative) secondo
accordi che si formavano dentro la Camera medesima. Si parlava perciò di partiti parlamentari, cioè il
partito era un gruppo di deputati che procedevano d’intesa in relazione ai provvedimenti che erano via via
in approvazione o in generale alla politica del Governo di volta in volta attuale. Pertanto erano anche
frequenti i cambi di schieramento.
Il partito politico cambia configurazione quando a richiedere di avere influenza sulla vita pubblica sono
ceti o soggetti diversi dalla nobiltà e alta borghesia economica o intellettuale che avevano seduto in
parlamento sin dall’inizio del Regno, e che per essere portatori di una estrazione sociale, formazione e
visione del mondo assai omogenea si erano attirati sin troppo facilmente l’accusa di concepire l’interesse
generale sullo stampo del proprio punto di vista di élite dominante. Questi nuovi soggetti erano il
proletariato, le classi subalterne dei lavoratori salariati, organizzati nel partito socialista (fondato nel
1892), e i cattolici, che immediatamente dopo la revoca del Non expedit, la bolla papale con cui Pio IX nel
1868 aveva dichiarato la estraneità dei cattolici alla vita pubblica del Regno, dettero vita al partito
popolare (1919). Tuttavia, il ricambio o almeno una piena reciproca legittimazione tra antichi partiti
parlamentari in cui si esprimeva il nucleo di interessi e di poteri fondativi dello stato liberale (la Destra e
la Sinistra Storiche) e i nuovi partiti di massa non avvenne mai, e alla resistenza dei primi, e del blocco di
mentalità, interessi e prassi che ad essi corrispondeva, nei confronti dei secondi, si deve l’avvento del
regime fascista.
Il partito socialista prima (da cui si scisse, nel 1921, il partito comunista), poi quello popolare, nacquero in
parlamento come articolazioni interne a uno stesso blocco di interessi sociali, come era avvenuto per la
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Destra e la Sinistra storiche, ma nella società, come associazioni che si proponevano di rappresentare gli
interessi di gruppi sociali diversi da quello espresso dai partiti tradizionali; essi iniziarono a presentare
alle elezioni propri candidati, cioè candidati che si impegnavano a proteggere, nel loro lavoro in
parlamento, le questioni care al loro elettorato, e a contrastare iniziative che potevano danneggiarlo, a
svolgere propaganda, stampare giornali e libri, organizzare comizi e conferenze.
I partiti di massa premevano naturalmente per un allargamento del suffragio; nel nostro paese, la lentezza
e limitatezza delle estensioni del suffragio elettorale nascevano proprio dal timore che esso avrebbe
portato al ripetersi a potenza di quanto si era visto in Francia dopo la prima elezione a suffragio universale
maschile, e che qui ricordiamo con le parole con cui ne parlò, nel 1862, il liberale italiano Carlo Cattaneo:
“Il 24 febbraio 1848 fu il primo giorno di un’era nuova. Per la prima volta si vide in Francia un
operaio chiamato a sedere tra i governanti, il miglioramento del destino degli operati fu posto tra i
doveri della società e dello stato; e fu riconosciuto, in quanti cittadini avessero anni ventuno, il
diritto di influire al pari sulla cosa pubblica. E così il quarto ordine, che nel 1789 restava confuso in
un comune involucro col terzo stato, cominciò a divenire un principio determinante delle nuove
istituzioni. Operai siamo tutti quanti, se prestiamo util opera all’umanità. E se qualcuno promuove
l’influenza delle classi laboriose nell’ordine legislativo, egli non fa opera di discordia, ma di
giustizia e di benevolenza.16”
Le parole di Carlo Cattaneo rivelano da sole come la questione fosse scottante. Da liberale progressista,
Cattaneo sostiene che non si deve avere paura della rappresentanza politica delle classi escluse. Al
contrario, nei suoi scritti volgeva lo sguardo anche oltre gli “operai propriamente detti, che mostrano di
avere acquistato quella chiara coscienza di sé e del loro diritto, cui non si potrebbe senza ingiustizia e
senza temerarietà negare una legale espressione”, guardava a chi rimaneva ancora ben lontano da ciò:
“l’agricoltore, che giace in negletta e barbara condizione” e più oltre ancora: “gli inabili, i mendicanti, i
reietti, tanto più numerosi, in realtà, quanto più le nazioni sono opulente e superbe”. Egli si rendeva conto
che un tasso troppo alto di povertà e di ingiustizia sociale nuoce al benessere e genera disordine: il suo era
l’atteggiamento di un riformista moderato. Ma molti non la pensavano affatto come lui, e provavano
preoccupazione, angoscia e scandalo davanti all’avanzata delle classi subalterne e alla loro pretesa di
condizionare l’azione delle istituzioni. Alcuni sinceramente pensavano che se l’idea democratica avesse
preso piede questo non avrebbe potuto che significare la fine dell’unità dello stato, la fine dello stato
stesso, perché gli interessi competitivi e confliggenti della società non avrebbero mai potuto esprimere
indirizzi unitari, garantire la stabilità e la pace.
In effetti, la nascita dei partiti di massa travolgeva l’idea, che aveva improntato di sé i regimi della
Restaurazione, che gli interessi dello stato, cioè dei gruppi dominanti, potessero valere come interessi
generali; metteva in dubbio la radice stessa dei regimi rappresentativi, che ammettevano la rappresentanza
degli interessi della società, ma solo in presenza del postulato che interessi unitari dello Stato esistessero
come tali, prevalessero sugli altri, e avessero organi specifici, come il Re, a dar loro espressione e tutela.
Con la loro stessa presenza essi ‘attentavano’ al principio-cardine dello stato liberale ‘meno società nello
stato’, perché quello che volevano era che la società contasse nella direzione dello Stato. Perciò i partiti
16
C. Cattaneo, Le più belle pagine scelte da Gaetano Salvemini, nuova ed. Donzelli editore, 1993, p. 111. Liberale, repubblicano,
protagonista delle Cinque giornate di Milano, Cattaneo rifiutò la nomina a Senatore del Regno d’Italia per non dover giurare fedeltà alla
monarchia.
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politici di massa furono visti dallo stato liberale, e specie da uno conservatore, involuto, e con le difficoltà
di funzionamento che abbiamo visto sopra, come una minaccia alla sua stessa esistenza.
Le idee cardine del regime ‘rappresentativo’ iniziarono nel corso dell’800 e ancora più fortemente ai
primi del ‘900 ad essere apertamente contestate. Coloro che erano stati esclusi dalla possibilità di far
valere le proprie esigenze e di influire sulla vita pubblica, la borghesia liberale, e lo stato che ne era
espressione, videro grande timore l‘emergere di una piccola borghesia scontenta, di un proletariato
organizzato, che reclamando il diritto di votare e di dar vita a proprie associazioni politiche (i partiti,
appunto), intendevano arrivare a governare lo stato in un modo più sensibile ai propri interessi; o la
pressione delle forze cattoliche, tradizionalmente tanto ostili allo stato “laico” (il Regno si era pur
unificato con la presa militare dello Stato della Chiesa), per avere ora anch’esse una voce sulla direzione
politica del paese; o le dottrine marxiste, che denunciavano lo Stato come apparato funzionale al dominio
di una classe sull’altra.
Non solo nel nostro Paese, questi timori si tradussero nella “crisi del parlamentarismo”, nel risorgere di
grosse diffidenze verso specialmente quella Camera elettiva che iniziava a rappresentare in qualche
misura il popolo. In Italia:
“Verso la fine del Regno di Umberto I fu rimesso in discussione lo stesso sistema parlamentare già
affermatosi in via di prassi, dal momento che si registrò una notevole spinta verso un ‘ritorno’ alla
monarchia costituzionale. Ma non era tanto lo Statuto che preoccupava: ciò cui i conservatori, la
destra, mirava in quegli anni era un governo ‘forte’, poco importa se guidato dal Re stesso o da un
Primo Ministro che fosse in grado di bloccare il naturale sviluppo del sistema in senso democratico
e sociale, specialmente per mezzo di leggi restrittive delle libertà (come quella di stampa). Sulla
legge limitativa della libertà di stampa che il Governo intendeva introdurre si svolse un enorme
contrasto tra Governo e Parlamento, e il tentativo di scavalcamento del Parlamento in questo caso
fallì: gli schieramenti parlamentari della “sinistra” si opposero con l’ostruzionismo all’approvazione
delle misure restrittive della libertà si stampa; e i decreti legge coi i quali il Governo sperava di
scavalcare l’ostruzionismo parlamentare furono dichiarati inapplicabili dalla Corte di Cassazione.
“Questa prima crisi della forma di governo parlamentare si avviò a una rapida composizione e nelle
elezioni del 1900 la Sinistra si rafforzò, e ne seguirono i governi Zanardelli e Giolitti, accomunati
da una comune politica riformista, con l’adozione di misure di diritto del lavoro e di intervento
statale a sostegno dell’economia. La riforma più notevole fu quella che investì la base elettorale,
con una progressiva estensione del suffragio a tutti i maschi adulti maggiorenni; gli aventi diritto a
partecipare alle elezioni del 1913 furono il 23% dei cittadini residenti del Regno contro il 7,5%
delle elezioni del 1904 e il 6,9% delle elezioni del 1900. Le elezioni del 1913 sembrarono dunque
completare il processo di perfezionamento interno di una evoluzione verso forme più democratiche
dello Stato, ma in realtà segnarono l’inizio della fine dell’ordinamento statutario, le cui strutture non
si dimostrarono idonee ad assorbire le spinte antitetiche e difficilmente componibili dei partiti di
massa che si affacciavano sulla scena politica, profittando del suffragio universale. Se nel 1913 i
conservatori ancora ressero e ottennero la maggioranza dei seggi, nel ’19, anche grazie a un
cambiamento del sistema elettorale (da maggioritario a proporzionale), essi subirono un vero e
proprio tracollo, a vantaggio di partiti relativamente nuovi come i socialisti e i popolari (cattolici).
Gli schieramenti politici tradizionali ne rimasero sconvolti a tal punto che in un breve torno di anni
si determina una nuova crisi, questa volta irreversibile. Per quanto la presidenza del consiglio
continui ad essere affidata ad esponenti della vecchia classe politica (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta)
la Camera e il corpo elettorale sono sempre meno inclini ad appoggiarla. Fra il 1919 e il 1922 si
succedono cinque governi, tutti incapaci di far fronte alla crisi istituzionale e al dissesto
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dell’economia, seguito alla guerra in egual misura per i vinti come per i vincitori e in questo vuoto
di potere si inserisce il fascismo17”.
La nascita dei partiti, dei sindacati, le lotte popolari ed operaie, cui non erano estranee componenti
insurrezionali, rivoluzionarie, o accusate di essere tali sfociarono nel biennio 1898-99 in una crisi di
particolare gravità (che si ricorda come “crisi di fine secolo”) che ci ha lasciato, tra le tante testimonianze
di un conflitto sociale crescente e drammatico, il ricordo delle cannonate sparate contro i manifestanti
operai a Milano durante le quattro giornate del 1898 su ordine del Generale Bava Beccaris, il quale poi, in
premio di ciò, fu insignito dal Re dei più alti onori militari. Il numero dei morti rimase ignoto, ma fu certo
superiore a cento persone; Milano e la sua provincia furono poste in stato d’assedio, con la sospensione di
tutte le libertà costituzionali e la devoluzione della giustizia ai Tribunali di Guerra, secondo un metodo
che il governo statutario adottava regolarmente durante i ‘disordini’; furono arrestati numerosi esponenti
politici, sciolte le relative organizzazioni.
Nonostante nell’immediato si sia dispiegata in seguito la politica distensiva e conciliatrice di Giolitti,
molte analisi vedono nei fatti del 1898-99 la premessa dell’onda lunga di reazione che avrebbe portato il
paese alla dittatura fascista.
L’ambiguo lascito della ‘parlamentarizzazione’ della forma di governo durante il periodo statutario
Vi è stata allora davvero una trasformazione in senso parlamentare della forma di governo durante il
periodo statutario? E quale è stato il lascito dell’oscillazione tra governi regi e governi parlamentari in
questo lungo periodo? Il Parlamento si rafforzò veramente? E quanto? L’apparato esecutivo Re e
Governo, perse o acquistò poteri?
Per rispondere a queste domande bisogna ripartire dalla considerazione che le trasformazioni che
portarono verso una forma di governo di tipo parlamentare erano avvenute senza modificare formalmente
lo statuto, che rimase come era: esse avvennero cioè in via di prassi, furono modifiche tacite. Queste
modificazioni furono e furono viste come una crescita del potere di influenza del parlamento, che nei fatti
poteva condizionare l’esistenza in carica del governo. A sua volta, la crescita di potere del parlamento
corrispondeva a uno sforzo, sia pure modesto e titubante, di aggiornare il disegno dello statuto alle
esigenze di un paese divenuto più articolato, consapevole di essere composto di soggettività e
appartenenze diverse. La crescita dei poteri del parlamento, in cui le modifiche della forma di governo si
traducevano, veniva associata, e di fatto in parte almeno si associava, all’affermarsi delle tendenze
‘democratiche’ che a giudizio dei conservatori mettevano a rischio l’ordine costituito. Il fatto che le
modifiche dello statuto fossero solo tacite rese allora facile il diffondersi di opinioni che ne
disconoscevano la doverosità, e soprattutto la legittimità. Di queste opinioni fu il simbolo lo scritto di
Sidney Sonnino, uomo politico della Destra storica, apparso nel 1897 e intitolato Torniamo allo Statuto, e
che fu la punta di una letteratura ferocemente antiparlamentare, che fiorì in Italia in quegli anni, rivelando
le ansie che la trasformazione della vita pubblica italiana sollevava nell’opinione conservatrice dominante.
“Torniamo allo Statuto” voleva dire: ricordiamoci che non esiste alcuna norma che imponga al governo di
avere la fiducia delle Camere. Se alle Camere ci sono maggioranze troppo progressiste, troppo
democratiche, non pensino di poter condizionare il Governo. Il Governo lo nomina e lo revoca il Re.
17
Livio Paladin, Diritto Costituzionale, cit., p. 83.
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La critica del parlamento, che prendeva anche le forme di una ridicolizzazione della lunghezza e
dell’inutilità dei dibattiti, di una caricaturizzazione dei comportamenti degli uomini politici, sempre
raffigurati come bassi e meschini affaristi di second’ordine, significava l’affermazione che si dovesse
restaurare il potere del sovrano. L’immagine ripetuta secondo la quale il governo era troppo debole per
colpa delle pretese delle ‘consorterie parlamentari’ in parte rifletteva le verità di un sistema politico
involuto su se stesso e fragile, in altra parte intendeva squalificare l’importanza e la dignità dei nascenti
partiti, e la loro pretesa di influire sulla politica nazionale. La polemica antiparlamentarista e
antipartitica che segna il tardo periodo statutario (e prepara il consenso verso un ‘governo forte’ che il
fascismo offrirà) conteneva dunque una grossa ed esplicita carica polemica anche contro l’altro grande
fenomeno che stava accompagnando la trasformazione del sistema di governo e della forma di stato, le
spinte verso la democratizzazione.
Per questo si deve dire che nell’Italia monarchica una vera e propria conquista di centralità del
parlamento nelle dinamiche della forma di governo, intesa come legittimazione dell’organo in nome della
funzione che esprime, la rappresentanza politica, non si sia instaurata mai con forza. La crescita di ruolo
del parlamento fu un evento assistito da pochissima legittimazione: lo si poteva raffigurare come una
violazione dello Statuto, come una scelta inopportuna, rischiosa per gli interessi dello Stato, e così il
parlamento cresceva di ruolo, ma anche restava debole.
Dall’altro lato, che cosa accadeva al Governo? La formazione di una forma di governo di tipo
parlamentare aveva risposto all’esigenza di rendere il governo un organo autonomo dal Re, il quale non
poteva essere chiamato a rispondere alle Camere. Di fatto, l’esistere del Governo come un collegio
composto da un primo ministro e dai ministri, portò a un sicuro rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Il
“modellino” dello Statuto, pensato per la dimensione proto-ottocentesca del piccolo stato sardo, era
pensato per funzionare su un parlamento che insieme al Re fa le poche leggi che servono al governo dello
stato. Ma l’Italia unitaria dovette affrontare le esigenze di governo di un paese grande, attraversato da
disuguaglianze profonde, sempre sottoposto a enormi sforzi per non “perdere” nella concorrenza
economica, politica, militare e diplomatica con le grandi nazioni, percorso da problemi sociali, economici
e di ordine molto molto grandi. Nei fatti, il ruolo del governo cambiò moltissimo rispetto a quello che lo
Statuto attribuiva al “Gabinetto” del re, ma nel senso che crebbe enormemente, approfondendo quella
posizione di maggior forza rispetto a ogni altro potere, che già lo Statuto attribuiva al potere esecutivo.
Il rafforzamento del governo si tradusse, da una parte, nell’allargarsi delle ipotesi in cui il governo
emanava regolamenti anche senza l’esistenza di una previa norma di legge che lo autorizzasse; dall’altra
parte, nell’acquisto di poteri normativi nuovi. Durante il periodo liberale ebbe infatti inizio una prassi per
cui il Governo, quando aveva necessità urgente di emanare un provvedimento con forza di legge, o
quando voleva evitare la discussione parlamentare per non misurarsi col dissenso e la critica, anziché
ricorrere al procedimento legislativo ordinario adottava un atto d’urgenza (decreto legge) o si faceva dare
una delega, una autorizzazione, dal parlamento, per poi adottare, con ampia libertà di scelta dei contenuti,
un decreto (decreto delegato).
Pertanto, lo sviluppo della “monarchia parlamentare” in Italia vede sì l’affermarsi di un nesso tra
Parlamento e Governo che vede crescere il ruolo del primo, ma testimonia anche:
a) debolezza dell’immagine, del consenso intorno al parlamento;
b) rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, specialmente normativi (e in particolare: sviluppo di atti
normativi del Governo capaci di abrogare le leggi);
c) perdurante convinzione che il governo, almeno in caso di necessità, e cioè in mancanza del
consenso del parlamento, o al preciso scopo di evitare di chiedere questo consenso, per non dare
espressione a forze politiche sgradite, potesse sempre contare sulla fiducia del solo Monarca.
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2.La pubblica amministrazione
Lo stato liberale come stato a pubblica amministrazione
Lo stato liberale ottocentesco è definito stato a pubblica amministrazione perché segna il momento in cui
giunge a piena maturazione e consapevolezza il passaggio dalla ‘autoamministrazione’ affidata ai corpi
sociali dell’ordine antico alla cura degli interessi generali assunta dallo stato con un proprio apparato
burocratico. Alla preoccupazione di rendere controllabile questo potere e giustiziabili i suoi atti,
preoccupazione che il pensiero liberale agita in tutta Europa a difesa delle ‘libertà negative’ dei privati, si
reagisce in Italia, e in genere nel continente, con la creazione di forme di giustizia e di regole di diritto
speciali per il potere esecutivo. Da qui anche la definizione stato di diritto, che significa propriamente
stato di diritto amministrativo, e cioè stato nel quale al diritto e alle forme di giustizia ‘comuni’, che
valgono per i privati si affianca un diritto speciale per l’amministrazione, il diritto amministrativo, che
diviene anche, nel periodo, materia di studio e insegnamento universitario.
Questo passaggio ha alcune caratteristiche importanti che si riassumono:
-
-
-
-
nella creazione di specifici apparati burocratici gerarchicamente organizzati e centralizzati,
preposti allo svolgimento dei compiti amministrativi e nella sottomissione delle antiche forme di
autoorganizzazione delle comunità territoriali alla unica amministrazione centrale dello stato, in
cui vengono assorbite;
nella identificazione, da parte della dottrina e della giurisprudenza, di uno specifico tipo di atti (il
provvedimento amministrativo) connotato da caratteristiche proprie (esecutorietà – discrezionalità
– unilateralità – sindacabilità per soli vizi di legittimità);
nella creazione della giustizia amministrativa, fondata sulla affermazione che siccome
l’amministrazione cura gli interessi generali non può essere sottoposta a giustizia come un
qualunque privato, il che conduce in Italia prima alla sottrazione degli atti amministrativi al
giudice ordinario, poi, dopo un tentativo non convinto di introduzione della ‘giurisdizione unica’,
alla istituzione di un regime di riparto tra la giustizia ordinaria e una nuova ‘giustizia
amministrativa’ quale giustizia speciale per l’amministrazione;
nel coronamento, attraverso tutto questo, del potere amministrativo quale portatore di proprie
finalità (gli interessi pubblici) di poteri di valutazione e di una forma di razionalità atta a
soddisfarle (poteri discrezionali; razionalità (razionalità rispetto allo scopo), e della distinzione tra
sfera privata e sfera pubblica, secondo una intonazione asimmetrica, del rapporto stato-cittadino
(principio di autorità vs consenso; capacità di diritto pubblico vs capacità di diritto privato; diritto
soggettivo vs interesse legittimo);
nell’identificazione tra stato e pubblica amministrazione (l’amministrazione è portatrice degli
interessi generali, cioè dello stato, stato e amministrazione si indentificano.
L’amministrazione nel periodo statutario. A) La strutture
Nel periodo statutario, la struttura della pubblica amministrazione è così composta:
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-
Amministrazione ministeriale o amministrazione statale diretta.
-
Amministrazione locale (Comuni e Province) o amministrazione statale indiretta.
-
Alcuni soggetti pubblici, come le Camere di Commercio, i Collegi professionali o le Università,
che preesistevano all’unificazione e vennero considerati ‘‘corpi morali’ legalmente riconosciuti.
-
Verso la fine del secolo iniziano a essere create nuove figure: gli enti pubblici, strutture composte
di mezzi, personale, e un bilancio proprio, dotate di personalità giuridica, guidate da un consiglio
di amministrazione presieduto dal Ministro competente per materia, e finalizzate allo svolgimento
di una specifica ‘missione’. Gli enti pubblici sono anche detti amministrazione parastatale.
-
Nel 1903 con la legge sulle municipalizzazioni fu consentito anche agli enti locali creare organismi
dedicati allo svolgimento di specifici compiti (aziende municipalizzate).
A livello nazionale, e con competenze riferite a tutto il complesso delle strutture amministrative, e
dell’attività del Governo operano inoltre:
-
Il Consiglio di Stato, preso dall’ordinamento sardo e da questo a sua volta preso da quello
francese, con funzioni consultive e tecniche, di decisione di ricorsi amministrativi gerarchici, e
che dal 1889 ha acquisito anche la funzione di organo di vertice della giustizia amministrativa.
-
La Corte dei Conti, anch’essa presa dall’ordinamento sardo, organo di controllo preventivo sulle
spese dello stato e giurisdizione contenziosa in materia contabile, e revisione dei conti del
complesso delle pubbliche amministrazioni.
L’amministrazione statale diretta
I ministeri sono nel periodo statutario di numero contenuto, e le loro funzioni sono prevalentemente
attinenti alla soddisfazione degli interessi dello Stato come tale (ordine, sicurezza, tributi). L’elenco dei
ministeri del periodo è
Esteri – Interno – Grazia e Giustizia – Guerra – Marina – Finanze – Tesoro – Pubblica Istruzione – Lavori
Pubblici – Agricoltura Industria e Commercio; nel 1889 si aggiunge il Ministero delle Poste, nel 1912
quello delle Colonie, nel 1916 quello dei Trasporti.
L’amministrazione statale indiretta
Togliamocelo di mente, di speranza: lo spirito di
municipalismo non è sradicabile del tutto dalla terra
italiana, se non sia per essere coll’opera di secoli e secoli,
sotto governi sodi e regolari, sotto l’imperio e quasi io
diceva la tirannia della legalità.
(Cesare Balbo, La monarchia rappresentativa, p. 209)
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La Legge 20 marzo 1865 n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia affrontò il problema
di come impostare l’amministrazione territoriale del novello stato italiano. Era problema spinosissimo e
assai complesso, dato che gli stati preunitari avevano ciascuno propri modelli ed esperienze di
amministrazione locale, e, d’altro canto, le diverse zone del paese presentavano forti diversità di
composizione sociale, economica, geografica. In materia vi erano visioni assai divaricate. Marco
Minghetti presentò nel 1861 un progetto di riordinamento del nuovo Regno d’Italia nel quale introduceva
un elemento nuovo, la Regione18. Minghetti era persuaso:
che la unificazione amministrativa non doveva farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe
ferito, come ferì, molti interessi, offese molte abitudini, suscitò molte avversioni. E perciò la
regione era principalmente un organo transitorio affinché si operasse lentamente il trapasso da sette
legislazioni ed ordini diversi secondo i diversi stati, a coordinamento ed unità.
Per sottrarre il disegno di legge a discussioni parlamentari in cui risuonavano idee come queste, assai
divergenti da quelle preferite dal Governo, il quale intendeva estendere ai nuovi territori il modello di
amministrazione locale già adottato dal Piemonte, il Governo si fece dare dalle Camere una delega, dalla
quale nacque la legge di unificazione amministrativa. In forza di questa legge il Comune e la Provincia
furono i due enti in cui venne organizzato tutto il territorio, e in ciascuna zona d’Italia ebbero le
medesime caratteristiche, organizzazione, funzioni. Ritoccata e completata nel 1888, la disciplina degli
enti locali li configurava come terminali dell’amministrazione centrale, sottoposti a rigidi controlli e a una
assoluta uniformità organizzativa. Oggi si è unanimi nel ritenere che il modello di amministrazione locale
prescelto dallo stato liberale italiano era dovuto, e del resto nemmeno velatamente, dal timore che
autonomia degli enti locali e differenziazione di funzioni e di dimensioni avrebbero aperto il rischio di
spinte centripete pericolose per l’appena raggiunta unità.
Dal punto di vista organizzativo, il Comune era guidato dal Sindaco, di nomina governativa (per la legge
del 1865 era nominato con Decreto regio tra i Consiglieri comunali, poi, dal 1889, il Sindaco fu eletto dal
Consiglio comunale e quindi nominato dal Governo); il Sindaco è affiancato da un organo deliberativo, il
Consiglio comunale, e da una Giunta di assessori con funzioni esecutive. Il Sindaco era, ed è, un organo
che riunisce due funzioni: quella di capo dell’amministrazione comunale e ufficiale del Governo. La
organizzazione della Provincia prevedeva un organo collegiale, con compiti deliberativi (la Deputazione
provinciale) e uno esecutivo, il Governatore, poi Prefetto: quest’ultimo un organo del Ministero
dell’Interno, incaricato di compiti di rappresentanza del Governo presso le province e di controllo sulla
attività comunale e provinciale.
Tutta l’amministrazione comunale e provinciale era infatti sottoposta al controllo del Prefetto, al quale
erano sottoposte, prima di entrare in vigore, le delibere comunali. Il Prefetto poteva sospenderne
l’esecuzione o annullarle se le trovava viziate di violazione di legge, non approvate in adunanza legale e
con l’osservanza delle forme di legge. Al controllo di regolarità contabile era preposto uno specifico
organo, la Giunta provinciale amministrativa, composta dal prefetto, da due consiglieri di prefettura
designati dal Ministro dell’Interno, e da quattro membri designati dal Consiglio provinciale.
Contro i provvedimenti dei prefetti e delle giunte i consigli comunali potevano ricorrere al Governo del
Re, che provvedeva con decreto reale dietro parere del Consiglio di Stato come giudice del contenzioso.
18
Nuovo, come egli stesso notava, ‘rispetto all’ordinamento amministrativo vigente, che storicamente la Regione aveva antichissime
tradizioni sì nel Medio evo sì presso i Romani”, M. Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione,
Zanichelli, Bologna, 1884.
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Comune e Provincia avevano un bilancio, composto da spese obbligatorie e facoltative. Le spese
equivalevano ad altrettante competenze dei Comuni e della Provincia. Il fatto che le spese fossero definite
dalla legge e uguali per ogni ente locale, era ciò che funzionare questi ultimi come strumenti, o ‘terminali’
dell’amministrazione centrale.
Vediamo esemplificativamente l’elenco delle spese obbligatorie dei comuni: 1. Per l'ufficio e l'archivio
comunale; 2. Per gli stipendi al segretario e degli altri impiegati ed agenti; 3. Pel servizio delle
riscossioni e dei pagamenti. 4. Per le imposte dovute dal comune. 5. Pel servizio sanitario di medici,
chirurghi e levatrici pei poveri in quanto non sia quello provvisto da istituzioni particolari. 6. Per la
conservazione del patrimonio comunale e per l'adempimento degli obblighi relativi. 7. Pel pagamento dei
debiti esigibili. In caso di liti saranno stanziate nel bilancio le somme relative, da tenersi in deposito fino
alla decisione della causa. 8. Per la sistemazione e manutenzione delle strade comunali, come per la
difesa dell'abitato contro i fiumi ed i torrenti e per le altre opere pubbliche in conformità delle leggi, delle
convenzioni e delle consuetudini. 9. Per la costruzione e mantenimento di porti, fari ed altre opere
marittime in conformità alle leggi. 10. Pel mantenimento e restauro degli edifizi ed acquedotti comunali,
delle vie interne e delle piazze pubbliche, là dove le leggi, i regolamenti e le consuetudini non provvedono
diversamente. 11. Pei cimiteri. 12. Per l'istruzione elementare dei due sessi. 13. Per l'illuminazione dove
sia stabilita. 14. Per la guardia nazionale. 15. Per i registri dello stato civile. 16. Per l'associazione alla
Raccolta ufficiale degli Atti del Governo. 17. Per le elezioni. 18. Per le quote di concorso alle spese
consorziali. 19. Per la sala d'arresto presso la giudicatura del mandamento e la custodia dei detenuti. 20.
Per la polizia locale". A questo elenco si aggiunge nel 1898 il sevizio sanitario a beneficio dei poveri.
Spese facoltative, a cui il Comune poteva procedere solo se in grado di adempiere a quelle obbligatorie:
comodo e ornato pubblico, asili e scuole secondarie, bande musicali, teatri, pubblici divertimenti e feste,
beneficienza, agricoltura, società di storia patria – illuminazione – accalappiacani.
I Comuni e le Province provvedevano alle spese con le loro entrate, ed erano per questo detti enti
autarchici (e cioè “che provvedono a se stessi da sé”). Le entrate erano costituite da sovrimposte, per
esempio sui contributi erariali, o da dazi sui consumi, e soprattutto dal ricorso all’indebitamento. La Cassa
depositi e prestiti, la ‘banca del settore pubblico’ istituita in Piemonte nel 1850 e poi trasferita a Roma,
aveva ed ha il compito di prestare agli enti territoriali e pubblici utilizzando a questo scopo somme ad
essa stornate dal bilancio dello stato.
Far dipendere le spese comunali e provinciali dalle sovrimposte significava far dipendere la capacità di
intervento e di attività di questi enti dalla ricchezza dei loro territori; era cioè un modo per mantenere ed
approfondire le differenze esistenti tra le diverse aree del paese. In generale, peraltro, il paese era povero,
e gli enti locali ancora di più: ne derivò la scarsezza delle opere da essi intraprese, la limitatezza dei
servizi da essi realizzati (il che fu causa di ulteriori limiti allo sviluppo produttivo e sociale del Paese) e,
come conseguenza dell’inevitabile ricorso al credito, il frequente dissesto finanziario. Oltre a indebolire
ulteriormente l’azione di questi organismi, rendendo ancora più ridotta l’esecuzione delle opere pubbliche
e l’espletamento dei servizi più basilari, il dissesto dava occasione al ‘commissariamento’ dell’ente locale
interessato, che significava assunzione diretta da parte del Governo della sua direzione, rincarando il già
notevolissimo accentramento che caratterizzava le amministrazioni locali. Timorosissimo di ampliare il
debito pubblico, e impegnato nello sforzo di pareggio del bilancio, il governo non poteva neppure
concepire l’idea di partecipare alle spese degli enti locali; e semmai li invitava continuamente, alla
contrazione delle spese e alla moderazione nel ricorso all’indebitamento. Non è escluso che, per una parte
almeno della classe dirigente piemontese, educata all’idea che l’Italia fosse per destino una nazione
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povera e secondaria, il destino di sottosviluppo e sperequazione che veniva così impresso alla maggior
parte del paese apparisse naturale.
Le attività amministrative
Quali erano le attività dell’amministrazione nel periodo statutario? Sia che si trattasse di amministrazione
diretta, sia indiretta, si trattava prevalentemente di attività di natura regolamentare, o di autorizzazioneispezione-controllo delle attività private. Solo in una fase tarda del periodo liberale l’amministrazione
pubblica, e salvo ciò che riguarda l’istruzione elementare, si assume compiti di servizio (salute,
assicurazioni, pensione, istruzione) e compiti di concreta gestione, cioè di svolgimento con propri mezzi e
risorse di attività economiche (costruzione di infrastrutture)19. Gli atti della pubblica amministrazione
erano di queste tipologie:
- Contratti e appalti, inizialmente usati anche per la costruzione di opere come le ferrovie o per la
concessione di acque e beni demaniali (fino all’istituzione dell’Ente statale per le Ferrovie, per la
costruzione di un tratto di ferrovia si individuava un contraente privato che si assumeva le spese di
costruzione in cambio dei proventi derivanti dalla gestione della linea);
- autorizzazioni e concessioni : tipicamente utilizzate per concedere a privati lo sfruttamento economico
del demanio (lido del mare, foreste, cave torbiere e miniere); in questo ampio genus rientrava la vasta
gamma delle licenze e delle patenti, necessarie per lo svolgimento di attività commerciali e industriali
come l’apertura di pubblici esercizi, di tipografie, lo svolgimento del commercio ambulante, ecc.);
- controlli sull’attività di impresa, tra cui si annovereranno, verso la fine dell’età liberale, tipicamente i
controlli sugli stabilimenti industriali insalubri e pericolosi;
- tutta l’attività di ordine pubblico (sequestro di stampati, fermo ed arresto di individui sospetti, ecc.)
La nascita della giustizia amministrativa
La pagina che riguarda la nascita del sistema di giustizia amministrativa è sicuramente la più grande
eredità che lo stato liberale ha lasciato: il modello allora impostato è stato accolto senza modificazioni
sostanziali in epoca repubblicana.
Per seguire questa importante vicenda, occorre partire ricordando che, sull’esempio della Francia, il
Piemonte sabaudo e gli stati preunitari avevano scelto, per il controllo sugli atti della pubblica
amministrazione, il sistema c.d. del contenzioso amministrativo: le controversie tra amministrazioni (es.
un Comune che agisce contro l’annullamento di un suo atto, deciso dal Prefetto) o tra cittadini e pubbliche
amministrazioni (ad esempio tra un cittadino e il comune per la definizione dell’importo di una imposta)
era esercitato anche nell’Italia unitaria dai c.d. tribunali del contenzioso, che erano organi
dell’amministrazione stessa (il Consiglio di Stato, la Corte dei conti per il contenzioso patrimoniale, a
livello di vertice, e a livello di base, i Consigli di prefettura, organismi collegiali presieduti dal Prefetto e
presenti in ogni provincia).
19
Con la creazione di alcuni enti pubblici, come la Cassa di Previdenza, nel 1898 (dal 1933 INPS), per l’erogazione delle prestazioni
previdenziali e pensionistiche ai lavoratori; l’Istituto Nazionale assicurazioni, ente pubblico per la gestione e l’erogazione delle assicurazioni
sulla vita. Nel 1903 fu statizzato l’erogazione dei servizi telefonici, nel 190 le ferrovie.
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In origine, tutto le controversie nascenti da atti amministrativi erano esclusi alla cognizione del giudice
ordinario e rimesse ai tribunali del contenzioso, cioè all’amministrazione “giudice in causa propria”. Il
sindacato dei Tribunali del Contenzioso, però, era ridottissimo. Ne erano esclusi:
-
gli atti regolamentari, che per il loro carattere normativo, generale, erano sostanzialmente
equiparati alla legge, e pertanto insindacabili;
-
gli atti ‘discrezionali’, ossia tutti quegli atti individuali e concreti, rivolti cioè a singoli o
comunque a destinatari individuabili, il cui contenuto incorpora una valutazione, fatta nel caso
concreto dall’amministrazione circa il modo migliore con cui conseguire la soddisfazione
dell’interesse pubblico.
Questo significava considerare insindacabile sostanzialmente tutta l’attività dell’amministrazione.
Beninteso, essa poteva benignamente prendere in considerazione un reclamo dei singoli, e revocare o
modificare un atto in conseguenza di esso, e per questo esistevano i ricorsi gerarchici, con cui si poteva
chiede all’autorità superiore il riesame degli atti di una inferiore. In questi casi l’eventuale revoca o
modifica (riforma) dell’atto che ne derivasse, era frutto di una nuova valutazione discrezionale che
l’amministrazione faceva. I tribunali del contenzioso servivano a far riconoscere che l’amministrazione
doveva compiere, o non poteva compiere, un certo atto, in quelle sole ipotesi in cui il cittadino vantava
davanti ad essa una pretesa nascente dalla legge o da regolamento: (come quando si trattava di iscrivere i
nuovi nati nei registri delle nascite o concedere un avanzamento di carriera regolato dalla legge). In questi
casi, il tribunale del contenzioso accertava che l’amministrazione doveva rendere l’atto o il
provvedimento.
Dunque, il giudice ordinario non poteva in alcun conoscere l’attività amministrativa, e i tribunali del
contenzioso potevano conoscere solo l’attività vincolata. Siccome l’attività vincolata tende a
corrispondere ai casi in cui l’amministrazione agisce in carenza di potere, cioè non esercita un potere
discrezionale ma si limita ad eseguire una previsione di legge, ciò significava che tutta la sfera del potere
amministrativo, che è quella in cui l’amministrazione decide in modo discrezionale in che modo va
meglio soddisfatto, in un dato contesto, il pubblico interesse di cui è titolare, era sottratta a ogni forma di
sindacato.
Quando, all’atto dell’unificazione, si trattò di decidere se mantenere questo sistema ed estenderlo a tutta
l’Italia, o modificarlo, si era ormai oltre la metà del secolo. Nella cultura e nel dibattito istituzionale del
tempo era ormai del tutto esplosa l’insostenibilità di questa situazione. Intellettuali e uomini politici
facevano notare che l’assenza di giustizia nell’amministrazione rischiava di minare la credibilità di una
delle tesi di fondo su cui la legittimazione dello Stato liberale si basava, e cioè che esso aveva accentrato
in sé tutte le funzioni di cura del pubblico interesse, allo scopo di garantire ai singoli una sfera di pace, di
tranquillità, in cui svolgere indisturbati i propri affari. Ma se lo stato poteva agire al di fuori da ogni
controllo, non era fin troppo facile prevedere che esso potesse facilmente mettere a rischio la sfera dei
privati, il godimento dei loro diritti? Poteri amministrativi come l’esproprio per pubblica utilità, la
limitazione della libertà personale o di circolazione dei beni e delle persone avevano una evidente
incidenza su quei diritti, per non parlare delle mille forme in cui, con licenze, autorizzazioni o patenti,
l’amministrazione condizionava la possibilità dei singoli di svolgere le loro attività.
Dopo avere costruito, nel tornante tra assolutismo e rivoluzione, il pubblico potere, e dopo averlo istituito
come potere autonomo grazie alla sottrazione del suo operato alla conoscenza del giudice ordinario, la
prima metà dell’Ottocento aveva fatto i conti con le conseguenze di ciò, e gli intellettuali, i pensatori e i
giuristi elevano una pressante richiesta di controllabilità dell’azione amministrativa. E siccome controllare
un potere significa, in primo luogo e almeno, che le attribuzioni che esso può esercitare devono essere
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previamente definite da qualche parte, l’esigenza di controllabilità era esigenza di legalità: si richiedeva in
primo luogo che i poteri che l’amministrazione poteva esercitare fossero tutti definiti da legge o
regolamento, onde potesse essere verificato se i singoli atti si erano attenuti ai poteri all’amministrazione
conferiti, laddove grazie alle prerogative dell’esecutivo una grande parte di essa non era oggetto di previa
norma. E si richiedeva, poi, che un giudice potesse svolgere questa verifica.
Quanto a quale giudice, le idee principali erano due. Da un lato vi fu chi sostenne (e uno di essi fu
Tocqueville) la tesi del giudice unico: bisognava abolire completamente l’esperienza dei tribunali del
contenzioso e attribuire al giudice ordinario la conoscenza completa sia delle controversie tra privati che
delle controversie tra privati e pubblica amministrazione. Trattare nel processo l’amministrazione come
un privato pareva a Tocqueville, e pareva a quelli che pensavano come lui, insieme a una delimitazione
dei compiti dell’amministrazione che la facesse convivere con un sistema articolato e ricco di autonomie
locali, l’unico sistema efficace per delimitare i compiti, i poteri, l’invadenza dell’amministrazione. Il
modello che Tocqueville, e i sostenitori del giudice unico, tenevano presente, era quello anglosassone. Ma
se l’Inghilterra e gli Stati Unici non conoscevano il giudice speciale per l’amministrazione, né nel modo
più lontano l’idea (dalla quale la Francia e gli stati che ne hanno preso le movenze sono partiti) che gli atti
dell’amministrazione potessero addirittura essere sottratti a qualunque giudice, era perché in quei sistemi
la svolta assolutistica, e la conseguente costruzione dell’amministrazione come titolare del pubblico
interesse e della sua realizzazione, non erano avvenuti. Invece:
“In Europa lo Stato c’era: nel continente, le soluzioni per la giustizia dell’amministrazione andranno
nel senso di mediare le esigenze di libertà del cittadino e indipendenza del giudice con la libertà e
l’indipendenza dell’amministrazione”20.
Vi era infatti l’altra tesi, che fu quella vincente in Francia e in Italia: l’idea di creare per
l’amministrazione un giudice speciale, che applicasse nei suoi confronti un diritto a sua volta speciale,
capace di tener in considerazione la particolarità della posizione e dei poteri dell’amministrazione stessa.
In altri termini, l’esigenza di legalità “avanzò insieme all’esigenza di specialità” (come scrivono Mannori
e Sordi): nella dottrina dell’epoca si fa ampiamente strada la convinzione che il controllo giurisdizionale
cui l’amministrazione deve essere soggetta non può che essere un controllo che tiene conto della
particolare natura dell’amministrazione, che è il soggetto incaricato di tutelare l’interesse pubblico. Un
soggetto diverso dai singoli cittadini, dai privati, e dunque che non può essere sottoposto alla stessa forma
di giustizia che vale per loro: a quella forma di giustizia, cioè, che presuppone la parità tra le parti, che si
basa sul principio del risarcimento del danno dovuto a inadempimento contrattuale o a comportamento
doloso o colposo che abbia leso il diritto di altri, e sull’obbligo, per chiunque voglia far valere una pretesa
in giudizio, di dimostrare i motivi che pone a fondamento di quella pretesa.
La strada del giudice speciale era stata subito imboccata dalla Francia nel 1814-1830. Quanto a noi, il
tratto singolare della storia della giustizia amministrativa in Italia è che in prima battuta, e tutto sommato
solo apparentemente, fu scelto il sistema del giudice unico.
La grande di unificazione amministrativa, la n. 2248 del 1865, recava nel suo allegato E la abolizione del
contenzioso amministrativo, denunciato nei dibattiti parlamentari come ‘maschera di giustizia’ e
‘istrumento di dispotismo’.
Il nuovo principio introdotto era che
20
Mannori e Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 329.
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Tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico comunque vi possa essere
interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo e
della autorità amministrativa sono devolute al giudice ordinario
Gli ‘altri affari’ sono affidati a forme di tutela interna all’amministrazione
Apparentemente, si trattava dell’introduzione del giudice unico. In realtà, la legge del 1865 cambiò
pochissimo rispetto al passato. I tribunali civili si limitarono ad assumere quelle che erano le competenze
dei tribunali del contenzioso, perché per ‘materia nelle quale si faccia questione di un diritto civile e
politico’ si intesero le materie nelle quali l’amministrazione agiva in modo vincolato, in assenza di
potere. Tutto il resto, tutti i casi in cui l’amministrazione emette un atto discrezionale, emana un
regolamento, esercita il pubblico potere, ricadevano negli ‘altri affari’ per essere ‘giudicati’ da organi
interni all’amministrazione , e cioè dalla stessa amministrazione ‘giudice in causa propria’21.
Il fatto era che la tensione verso il giudice unico era impossibile da soddisfare perché l’unificazione del
paese si era affidata a una scelta accentratrice che esaltava la libertà e l’indipendenza
dell’amministrazione22. Il potere che doveva unificare il paese, addomesticarlo alle leggi e alle autorità
nuove, indirizzarlo ai nuovi costumi, non poteva essere ‘intralciato’ dalla giustizia. E che questo non
dovesse accadere nessuno poteva comprenderlo meglio dei giudici ordinari del Regno, i quali, privi di
indipendenza e soggetti al controllo del Governo, abituati anch’essi a concepirsi come una branca
dell’amministrazione – torneremo a dirlo anche successivamente - non potevano trovare dentro di sé
alcuna spinta, alcuna energia che li guidasse ad ampliare la malcerta sfera di cognizione che l’all. E aveva
loro affidato. L’allegato E può senz’altro essere ascritto alla categoria delle leggi “di facciata”: si
proclamava di avere dato al giudice ordinario la cognizione sugli atti amministrativi, di avere ampliato la
sfera di tutela del cittadino, di essere andati nella direzione della legalità, e in realtà non si cambiava
niente, e si sapeva anche di non correre alcun rischio, ben conoscendo il governo la sua magistratura, e
potendo del resto controllarla a piacimento.
Quello che in realtà l’allegato E istituiva, di duraturo, era il sistema del riparto tra giurisdizioni, del quale
conteneva lo scheletro, e che resterà caratteristico del nostro paese; cioè il metodo di ripartire la sugli atti
amministrativi tra giudice ordinario e giudice amministrativo, anziché affidarla o tutta all’uno o tutta
all’altro giudice. Questo ‘riparto’ si annunciava nell’allegato E laddove esso introduceva il criterio per cui
spettano al giudice ordinario le (poche) ipotesi in cui l’amministrazione ha davanti a sé dei diritti; al
Consiglio di Stato tutto il resto. Infatti, il vertice cui giungevano i ricorsi amministrativi gerarchici sugli
‘altri affari’ era appunto l’organo di consulenza giuridico amministrativa, composto sin da epoca
piemontese dai grandi consiglieri giuridici del re e del suo governo. Si trattava solo di riempire un poco lo
scheletro e dare un nome agli ‘altri affari’, per ottenere la giustizia amministrativa quale la conosciamo in
Italia. Questo passo fu fatto nel 1889, quando il (mai istituito) sistema del giudice unico fu ‘abbandonato’
e le materie prima rimesse al Governo e alla Pubblica amministrazione (e cioè al Consiglio di Stato)
vennero affidate a un nuovo giudice. Questo giudice fu una nuova sezione, la IV, detta giurisdizionale, del
21
Facendo diventare normali le più scandalose ingerenze del governo nella vita amministrativa. “In un Comune, in occasione della
rinnovazione di un quinto dei consiglieri, nacquero contestazioni, davanti al seggio elettorale; questo, secondo che gliene dà facoltà la legge,
decise e proclamò il risultamento dello scrutinio. Fu portato il ricorso al consiglio comunale, e confermò il giudizio del seggio. Fu ricorso in
appello, e la deputazione provinciale fu di avviso conforme. La denunzia fu recata al re in Consiglio di Stato, il quale trovò giusto il
pronunciamento del seggio elettorale, del consiglio comunale, della deputazione provinciale. Nonostante questi quattro opinamenti concordi,
il ministro dell’interno annullò lo scrutinio, introducendo piuttosto uno anziché un altro cittadino nel consiglio comunale.” M. Minghetti, I
partiti politici, cit.
22
) L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 133.
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Consiglio di Stato, che ancora oggi rappresenta l’organo supremo di giustizia amministrativa in Italia e
che ebbe allora, come organi di giustizia di primo grado, le Giunte provinciali amministrative (mentre ora
ha i Tribunali amministrativi regionali).
Alla IV Sezione, Giurisdizionale, del Consiglio di Stato, vennero con la legge del 1889 affidate tutte le
controversie tra privati e PA (“l’autorità”, come si esprimeva la legge) fino ad allora devolute al giudice
ordinario, vale a dire “I ricorsi per incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge contro atti e
provvedimenti che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali e giuridici quando i
ricorsi medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria e non si tratti di materia spettante alla
giurisdizione contenziosa”23.
Veniva così completato il sistema di giustizia amministrativa che sarebbe giunto fino a noi, dove il riparto
di giurisdizioni avviene sulla base delle situazioni soggettive di cui il privato è titolare. Quando, davanti
all’amministrazione, il privato ha un diritto, è competente il giudice ordinario; quando, davanti
all’amministrazione, il privato ha un interesse, è competente il giudice amministrativo.
L’interesse legittimo
Si restava sempre al punto di partenza, ai tribunali del contenzioso, alle concezioni che avevano
accompagnato il sorgere stesso dell’amministrazione con l’assolutismo: l’amministrazione può essere
portata davanti al giudice ordinario solo quando agisce in carenza di potere, quando non esercita i suoi
peculiari poteri. Infatti, questa nuova figura, l’interesse legittimo (che esiste solo nel diritto italiano), che
cosa era? Era, cominciò a insegnare nella sua giurisprudenza il Consiglio di Stato, con l’accordo della
Cassazione e col supporto della dottrina del tempo, la situazione di cui il privato rimane titolare dopo che
un suo diritto è stato degradato, o affievolito, da un atto discrezionale della pubblica amministrazione. In
altri termini, si cominciò ad avere una giustizia amministrativa sul presupposto che, siccome
l’amministrazione gode di potere discrezionale, persegue il pubblico interesse, e per perseguirlo non può
non agire unilateralmente e autoritativamente, stabilendo il modo in cui l’interesse pubblico nei casi
concreti va soddisfatto, ogni situazione giuridica dei privati in linea di principio non può non poter cedere
davanti al potere amministrativo. Se la autorità decide un esproprio, la proprietà privata ‘degrada’ a
interesse, ed ecco che insorge la competenza del giudice amministrativo.
Oppure si usava un’altra definizione: l’interesse legittimo è la situazione in cui il privato si trova davanti
alla pubblica amministrazione quando le chiede un provvedimento che non ha il diritto di ottenere, perché
alla sua emanazione in un senso o in un altro presiede un interesse pubblico, che l’amministrazione valuta
discrezionalmente. E’ la situazione in cui si trova chi chiede una autorizzazione, licenza, patente,
necessaria per svolgere una attività commerciale o professionale o industriale o agricola: non ha diritto a
ottenerla, perché l’amministrazione deve valutare se la sua richiesta corrisponde o meno all’interesse
pubblico; ha solo un interesse legittimo a che la sua richiesta sia presa in considerazione e valutata.
Ecco perché si dice che la giustizia amministrativa in Italia nasce sul presupposto della specialità
dell’amministrazione, e corrobora al rafforzamento di questa specialità, di questa natura derogatoria,
rispetto al diritto che vale per i privati, dei suoi poteri e delle sue responsabilità.
23
Al Consiglio di Stato veniva affidata anche una cognizione detta “esclusiva” in cui, su particolari materie, poteva (e può, sebbene si tratti
di un ambito rimasto recessivo) conoscere anche dei diritti soggettivi. Insomma, sotto sotto il giudice unico c’era, ma era il giudice
amministrativo.
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L’interesse legittimo, inoltre, secondo un principio che si affermò subito per cadere solo nel 1995 grazie a
una importante sentenza della Corte di Cassazione) non è risarcibile: se si accerta che l’atto
amministrativo è viziato, nessun risarcimento è dovuto al privato (per esempio, per non aver potuto
realizzare i guadagni, che avrebbe realizzato se l’autorizzazione ad aprire il suo pubblico esercizio non gli
fosse stata illegittimamente negata).
Ciò a cui la posizione di interesse legittimo abilita il privato è soltanto a sollevare un ricorso, nel quale si
fa valere un vizio dell’atto amministrativo, e tramite il quale si può ottenere l’annullamento dell’atto.
Certo, in alcuni casi l’annullamento dell’atto può essere un risultato utile per il privato, ma in molti casi il
privato si lamenta non tanto perché aveva interesse all’annullamento, ma a un atto di diverso contenuto.
Questa è una esigenza che non è possibile far valere, perché il contenuto degli atti amministrativi
appartiene alla sfera insindacabile dell’amministrazione.
Per spiegare la titolarità in capo al privato di una posizione soggettiva che gli dava azione in giudizio per
ottenere, in molti casi, niente, la dottrina teorizzò che l’interesse legittimo era da concepirsi come un
interesse necessariamente coordinato all’interesse generale. Vi è interesse a che l’amministrazione agisca
secondo la legge, legalmente; bene, il privato può, facendo valere il suo interesse legittimo, azionare i
meccanismi di controllo che sono preposti alla verifica del rispetto di questo interesse. Era l’esplicita
ammissione che, anziché ricevere tutela e riconoscimento come tale, l’interesse privato veniva subordinato
all’interesse pubblico.
Il processo amministrativo
La legge del 1889, venivano anche contornati i caratteri del processo amministrativo:
-
come processo di sola legittimità, che ha ad oggetto l’atto emanato dall’amministrazione, non il
rapporto sottostante, cioè non tiene in alcun modo conto di come in concreto si atteggi la posizione
del privato, degli elementi di fatto che possono far apprezzare la portata dell’atto nei suoi specifici
confronti, tanto meno della ragionevolezza dell’apprezzamento discrezionale fatto
dall’amministrazione in rapporto alle concrete circostanze;
-
e come processo puramente demolitorio, perché può giungere all’annullamento dell’atto, non alla
sua riforma o modifica.
I vizi dell’atto amministrativo
La natura e l’estensione cognizione del giudice amministrativo sull’atto veniva tratteggiata nella legge del
1889 dai tipi di vizi che l’atto poteva soffrire:
-
incompetenza (è il vizio dell’atto emanato da autorità diversa da quella che la legge
regolamento autorizzano);
-
violazione di legge (è il vizio dell’atto emanato senza rispetto di norme di procedimento inerenti
l’adozione dell’atto, per es., mancata acquisizione di pareri obbligatori);
-
eccesso di potere (è il vizio dell’atto che è stato adottato non in vista del fine pubblico che
l’amministrazione è incaricata di curare, ma in vista di altro fine. Poiché il sindacato non può però
o il
149
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estendersi al merito dell’atto, ossia alla valutazione discrezionale che esso contiene, l’eccesso di
potere è dedotto da elementi sintomatici, esterni al merito, che possono rivelare, segnalare, lo
sviamento di potere. Gli esempi più immediati di ‘sintomo’ di eccesso di potere sono la carenza
contraddittorietà o illogicità della motivazione dell’atto; e poiché l’obbligo generalizzato di
motivazione degli atti amministrativi è stato introdotto solo nel 1990, si può comprendere che
prima di allora l’eccesso di potere abbia avuto una portata piuttosto limitata)24.
Il provvedimento amministrativo
La giustizia amministrativa, costruita intorno all’atto, è stata anche l’ambito in cui si sono
progressivamente definite le caratteristiche specifiche e distintive dell’atto amministrativo. Attraverso
questo lavoro, l’amministrazione è stata dotata di un suo tipico modo di manifestazione: il legislatore fa la
legge, il giudice la sentenza, l’amministrazione il provvedimento, i cui caratteri sono la unilateralità,
esecutorietà, imperatività e la sindacabilità solo per vizi di legittimità.
-
Il provvedimento è un atto unilaterale, perché l’amministrazione lo adotta senza bisogno del
consenso dell’interessato, e qualche volta anche contro la sua volontà (si pensi a una multa, o al
provvedimento di diniego) e questo lo differenzia dal contratto.
-
Il provvedimento è un atto esecutorio perché, per portarlo a esecuzione, la pubblica
amministrazione non deve rivolgersi al giudice (come deve fare invece fare il privato25) ma può
farlo direttamente: la multa inevasa diventa una cartella esattoriale in seguito al cui inadempimento
la pubblica amministrazione può eseguire il pignoramento.
-
Il provvedimento è un atto discrezionale, perché nel decidere se adottarlo o meno, e con quale
contenuto, la pubblica amministrazione deve compiere una valutazione inerente al modo migliore
24
Come vedremo a suo tempo il metodo del riparto tra le giurisdizioni basato sulle situazioni giuridiche soggettive, di diritto o interesse, di
cui il privato è portatore ha caratterizzato anche larghissima parte dell’esperienza repubblicana, per essere progressivamente affiancato, e
oggi si può dire sostituito, da un criterio di riparto per blocchi di materie, che cioè individua la competenza del giudice ordinario o del giudice
amministrativo a seconda della materia considerata o della provenienza dell’atto (pubblico impiego, contratti e appalti, atti delle autorità
indipendenti, atti delle amministrazioni pubbliche), all’interno delle quali il giudice conosce i diritti, se è giudice ordinario, gli interessi, se è
giudice amministrativo, e restando sempre il giudizio amministrativo un giudizio di mera legittimità e a carattere demolitorio, ma dove il
criterio per scegliere le materie da affidare alla conoscenza del giudice amministrativo non è più fatto consistere nell’interesse legittimo, ma
nel carattere delle materie (venendo assegnate, almeno in linea di tendenza, al giudice amministrativo quelle in cui la PA esercita poteri
pubblici di tipo autoritativo, e al giudice ordinario quelle in cui essa agisce in moduli contrattuali di tipo privatistico). E’ innegabile peraltro
che la nuova concezione ha sicuramente contribuito al maturare, nel giudice amministrativo, di una maggiore alterità rispetto alla pubblica
amministrazione, non mancando numerosi esempi di decisioni in cui il giudice amministrativo, specialmente di primo grado, si mostra assai
poco deferente verso l’amministrazione. Se il giudice amministrativo ha sicuramente guadagnato una certa indipendenza culturale, di
mentalità e di giudizio, anche grazie all’impegno teorico di una parte, peraltro non maggioritaria, della dottrina amministrativistica, resta il
gravissimo problema della sua insufficiente indipendenza organizzativa e funzionale, particolarmente debole nel caso del Consiglio di Stato
(oltre a essere nominato in parte dal Governo, il Consiglio di Stato può trovarsi a giudicare su atti il cui testo, come avviene per i regolamenti
del governo, ha esso stesso stilato; o su provvedimenti di Ministri, dei quali i consiglieri sono stati consulenti fino al giorno prima). Nel fatto
che nel nostro paese le discussioni sulla indipendenza, correttezza e professionalità della magistratura ordinaria siano quotidiane, mentre la
limitata indipendenza del giudice amministrativo sia un problema denunciato solo da un drappello di esperti, può essere visto un effetto di
lungo periodo della separazione, dell’isolamento che, anche rispetto all’opinione pubblica e ai suoi dibattiti, la ‘specialità’
dell’amministrazione e della sua giustizia hanno significato in Italia.
25
Quando un privato ottiene una sentenza che gli riconosce il diritto di ricevere da altri il pagamento di somme o l’esecuzione di opere, ma
poi questa sentenza resta ineseguita, per ottenere l’adempimento forzoso deve rivolgersi un’altra volta al giudice, far accertare
l’inadempimento, e ottenere una sentenza esecutiva che lo autorizza ad apprendere quelle somme o imporre quelle opere, tramite gli ufficiali
della pubblica amministrazione-
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di soddisfare l’interesse pubblico che, con il potere di rilasciare quel provvedimento, le è stato
affidato.
-
Il provvedimento può essere sindacato solo per vizi di legittimità (incompetenza, violazione di
legge, eccesso di potere).
Assicurare alla amministrazione un suo giudice, ad essa molto simile e completamente compreso nel
compito di proteggerne la specialità, ha significato approfondire quella condizione, per cui l’interesse
pubblico ha un soggetto deputato a valutarlo, soggetto che è diverso dalla comunità dei cittadini, segue
regole diverse, ha una responsabilità diversa, è legittimato, per difendere i suoi atti, ad usare argomenti e
modelli di ragionamento del tutto diversi da quelli che si usano tra i comuni cittadini. Questo ha creato un
certo solco tra il senso comune e la razionalità amministrativa (che è quello che rileviamo, per esempio,
tutte le volte in cui ci chiediamo come mai certi lavori pubblici vengono svolti in un certo modo anziché
in uno che sembra più rispondente ai bisogni della gente comune, o ci interroghiamo sui motivi di questa o
quella scelta dell’amministrazione) è il vero elemento di specialità che si mantiene nel tempo, pur nel
cambiare delle sue forme d’azione (oggi l’amministrazione preferisce moduli contrattuali e privatistici a
quelli autoritativi, peraltro sempre esistenti) e delle sue modalità organizzative.
.
La definizione del lessico specialistico del diritto pubblico
Con la costruzione dello stato-pubblica amministrazione l’Ottocento costruisce un lessico di diritto
pubblico, che descrive la macchina statale e le sue componenti essenziali. Poiché questo lessico è ancora
in uso, è bene prendere confidenza con esso, rimettendo qui in ordine una serie di nozioni, alcune delle
quali abbiamo via via incontrato nel nostro percorso.
Centrali sono intanto il concetto di ‘soggetto di diritto’, quello di capacità giuridica e d’agire, e di
personalità giuridica. Come soggetto di diritto si designano:
-
Le persone fisiche e le persone giuridiche private nonché le associazioni e altre formazioni sociali
anche prive di personalità giuridica.
Le persone giuridiche pubbliche territoriali (enti territoriali), altri enti pubblici e forme
organizzative dell’apparato pubblico territoriale.
Le persone fisiche sono gli esseri umani. Ognuno, fin dal momento della nascita, acquista la capacità
giuridica, cioè la capacità di essere titolare di diritti e doveri (diritto alla vita, diritti ereditari) e, a partire
da una certa età (la maggiore età e in casi stabiliti una età inferiore), la capacità d’agire, che è la capacità
di compiere atti aventi conseguenze nel mondo giuridico, atti che, per ciò, sono detti ‘atti giuridici’
(conseguenze nel mondo giuridico sono per esempio: il sorgere di una obbligazione: stipulando il
contratto di acquisto di un immobile le due parti si obbligano l’una a cedere il bene l’altra a corrispondere
il prezzo).
Le persone giuridiche sono complessi di beni, risorse economiche e persone fisiche che, ai fini giuridici,
sono considerati come una sola entità (es. una società per azioni, o una fondazione). Esse si distinguono in
persone giuridiche private sono quelle persone giuridiche che hanno una capacità giuridica e di agire
analoga a quella delle persone fisiche (anche se non identica perché, per esempio, le persone giuridiche
non possono compiere quegli atti che presuppongono l’esistenza fisica, come il matrimonio), e in persone
giuridiche pubbliche- Anche queste ultime sono complessi organizzati di beni, risorse e personale,
unificati intorno a una missione, e si differenziano dalle persone private, perché mentre queste ultime
hanno solo la capacità di agire di diritto privato, che consiste nella capacità di porre in essere atti volontari
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che, se hanno influenza sulla sfera giuridica altrui, richiedono il consenso di quest’ultimo (contratto), le
persone giuridiche pubbliche hanno anche la capacità di diritto pubblico, che consiste nel potere di porre
in essere atti unilaterali, ovverosia che non hanno bisogno del consenso degli interessati per essere
efficaci nei loro confronti, come è il caso delle leggi e altri atti normativi, del provvedimento
amministrativo e della sentenza giudiziaria.
Le persone giuridiche pubbliche si distinguono in
-
Territoriali: lo Stato, e gli enti locali. Lo Stato è l’ente pubblico territoriale maggiore e lo si
descrive come il titolare della sovranità su un certo territorio e nei confronti di un popolo.
L’ambito spaziale della sovranità è definito dai confini (terrestri marittimi ed aerei); l’ambito
personale dalla cittadinanza (lo stato ha la sovranità nei confronti di coloro che ne sono cittadini).
Le persone giuridiche pubbliche ‘territoriali’ sono quelle che vedono il campo della loro
competenza definito da certi ambiti territoriali o personali.
-
Non territoriali. Per lo svolgimento delle loro attività gli enti pubblici territoriali possono dare vita
a altre organizzazioni, dotate o meno di personalità giuridica. Se hanno personalità giuridica queste
organizzazioni vengono designate come enti pubblici. Gli enti pubblici possono avere poteri
normativi ed esecutivi nei limiti in cui lo Stato o l’ente pubblico territoriale di riferimento (nel caso
di enti pubblici creati da un ente locale) li deleghi loro. L’ente pubblico può essere, e spesso ha
avuto, una missione di tipo economico: ente per la costruzione delle strade e autostrade; ente poste;
ente ferrovie, ente energia elettrica, ente telecomunicazioni. L’ente è una figura autonoma rispetto
al Ministero, ha un bilancio distinto, propri organi, ma è raccordato al Governo in vari modi: dalla
composizione degli organi direttivi, di nomina ministeriale, dai regolamenti e leggi che specificano
finalità e poteri dell’ente; dagli atti di indirizzo ad esso rivolti dal Governo o dal Ministero
competente per materia; dagli stanziamenti di bilancio pubblico che vanno a comporre le risorse
materiali dell’ente. Grazie a questi raccordi, l’ente pubblico, pur godendo di autonomia
organizzativa, è collocato nell’orbita dell’indirizzo politico, e il Ministro è responsabile della sua
azione. Analoghe considerazioni possono valere per la figura dell’ azienda autonoma, utilizzata a
livello locale.
Ente è dunque il termine con cui si indica ogni una persona giuridica (privata o pubblica, territoriale o non
territoriale). Gli enti agiscono per mezzo di organi, ovverosia di persone o apparati che le rappresentano.
Organi di una persona giuridica privata società per azioni sono il consiglio di amministrazione,
l’assemblea degli azionisti, l’amministratore delegato. Organi dello Stato sono il Parlamento, che esprime
la volontà legislativa, il Governo, titolare del potere esecutivo, la Magistratura, che esercita la funzione
giurisdizionale. Il rapporto tra l’organo e l’ente è un rapporto di immedesimazione: l’atto compiuto
dall’organo si imputa all’ente cui appartiene.
3.La magistratura
L’attività giurisdizionale come mera applicazione della legge
Nel periodo liberale la giurisdizione (e ci riferiamo qui alla giurisdizione ordinaria, civile e penale) è
concepita come una forma di esecuzione della legge, cioè una attività analoga a quella amministrativa ma
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dotata di minore discrezionalità, consistendo nell’applicazione della legge ai casi concreti, cioè nella
specificazione, con riferimento a un singolo caso, delle previsioni e delle conseguenze fissate in generale
dalla legge per quel tipo di caso. Accentuare la somiglianza tra amministrazione e giurisdizione è andato
per più profili a discapito della indipendenza della magistratura, che ha visto fortemente ridotta sia la sua
indipendenza o autonomia di giudizio e di valutazione, sia la sua indipendenza organizzativa.
Lo statuto definiva la magistratura un ‘ordine’ e non un potere (come facevano altre costituzioni del
tempo, in particolare quella belga del 1830) a differenza del legislativo e dell’esecutivo, con il che la
magistratura veniva riguardata come consistente nel complesso dei giudici, che compongono una parte
dell’organismo statuale, e non dal punto di vista della funzione autonoma che i giudici adempiono
nell’organismo statuale (Allegretti, Profilo, cit., p. 487). Oltre a dire che la giustizia ‘emana dal re’ ed è
‘amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce’, lo statuto sminuiva l’indipendenza e
l’autonomia del giudiziario come potere, in particolare assegnando al re la nomina dei giudici, e cioè
consegnando al governo l’intero loro status (carriera, promozioni, destinazione, revoca, assegnazioni).
Interpreti liberali come Racioppi e Brunelli si sforzarono invano di dimostrare che la formula ‘la giustizia
è amministrata in nome del re’ non significava che essa poteva essere esercitata per comando o a norma
del re, come le funzioni esecutive; le norme dello statuto recavano una accezione restrittiva della
magistratura, che ne escludeva l’autonomia di giudizio, e come tali vennero intese e applicate.
Lo statuto, e il modo in cui venne applicato, le ferite che furono inferte all’autonomia del potere
giudiziario e alle connesse garanzie dei cittadini, erano
“espressione della tradizione giudiziaria piemontese. Prima nello Statuto non esisteva nel regno sabaudo
una tradizione di indipendenza sia pur formale della magistratura dalla monarchia e dal potere esecutivo:
le nomine avvenivano in base a criteri del tutto arbitrari del governo, non esisteva una progressione di
carriera garantita o prevedibile, i giudici erano sempre revocabili da parte del sovrano, gli stipendi,
bassissimi, potevano essere dai magistrati integrati esercitando l’avvocatura”26.
In attuazione dello statuto, con la legge Rattazzi, n. 3781 del 1859, lo status della magistratura italiana
venne unificato intorno alla tradizione assolutistica piemontese:
“si lasciarono così cadere quelle maggiori garanzie della funzione giudiziaria che provenivano dalle
legislazioni lombardo-venete, toscana e napoletana (dalle quali molte procedure riguardanti lo status dei
magistrati erano affidate allo stesso ordine giudiziario, e che, particolarmente quella napoletana, erano
più complete ed efficienti) e non mancarono infatti polemiche, in varie regioni, all’atto dell’estensione
degli ordinamenti più arretrati del Piemonte”27 (Allegretti, p. 490).
Secondo Allegretti, ricorre nel caso della magistratura quanto avvenuto nel caso dell’autonomia locale,
dell’amministrazione, delle libertà fondamentali e della disciplina dell’economia: ossia il primato del
governo sulle istituzioni italiane, e questo anche a causa della imperfetta transizione alla forma di governo
parlamentare, per cui il governo non fa che acquistare poteri, anche poteri che sarebbero spettati al re, ma
26
U. Allegretti, cit., p. 489, che riferisce da Tranfaglia, 1978, e D’Addio, 1966.
27
Non a caso, osserva nel 1890 Francesco Saverio Merlino: “i magistrati napoletani conservati nel nuovo ordinamento sono stati di fatto, non
fosse che per reazione, i più indipendenti. La Corte di Cassazione di Napoli ha respinto a lungo le più esorbitanti pretese fiscali, ed è per
aggirare tale difficoltà che è stata istituita a Roma la sezione fiscale, possiamo chiamarla così, della Corte di Cassazione, e che sono state
recentemente soppresse le sezioni di Corte d’Assise di Napoli, Palermo, Firenze e Torino ed è stata concentrata la direzione della giustizia
penale in una Corte unica di Cassazione penale a Roma. Gli uomini del potere sono posseduti dalla mania della centralizzazione: vorrebbero
stringere l’intera nazione in pugno” (F.S. Merlino, L’Italia qual è, p. 142).
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il re non diventa mai organo di garanzia del corretto funzionamento degli altri poteri dello Stato,
controllore del governo nell’uso spesso scorretto delle competenze da esso guadagnate (Allegretti, p. 490).
In sostanza, durante lo Statuto la convinzione di fondo fu sempre che “il magistrato non è che un delegato
del potere esecutivo, il potere giudiziario non è che una funzione del governo, a lui spetta bensì il
mantenimento dell’ordine e della giustizia ma lo spirito che lo informa è o deve essere quello del
governo” (Brunialti, 1870, citato da Allegretti, p. 491, il quale a sua volta afferma che durante lo stato
liberale la magistratura aderì “a un ruolo che può definirsi, anche se non in maniera esclusiva, di custode
dell’autoritarismo dell’ordinamento, autoritarismo del quale, per suo conto, il governo era la massima
espressione sul piano politico e istituzionale” (Allegretti, Profilo, cit., p. 496).
La mancanza di indipendenza organizzativa della magistratura ordinaria
La giurisdizione è preposta all’organica attuazione della sovranità dello Stato, in antitesi alla
suddivisione delle giurisdizioni, che, parallela al frazionamento della sovranità, costituì una delle
caratteristiche dello Stato feudale28.
Avendo concepito la magistratura come una branca della amministrazione (l’amministrazione della
giustizia), lo stato unitario la organizzò come un corpo gerarchicamente strutturato e dipendente dal
Ministro di Grazia e Giustizia, e tramite esso dal Governo. Non diversamente dagli altri funzionari, i
magistrati erano esposti a valutazioni del potere esecutivo, ossia del potere politico, quando si trattava
degli avanzamenti di carriera; e soprattutto quando si trattava dei trasferimenti, che venivano usati come
premio per magistrati fedeli, o punizione per quelli i cui orientamenti non erano graditi al governo. Nel
1873, un decreto governativo29 cercò di porre ordine nella situazione stabilendo che promozioni, nomine e
trasmutamenti, cioè i cambiamenti di sede, potessero essere fatti dal Ministro solo su proposta di una
commissione scelta dalla magistratura stessa, e che in caso di trasferimento di un magistrato senza il suo
consenso, l’interessato dovesse essere sentito. Ma nel 1878 questa previsione venne abrogata, in quanto
ostacolava il ‘celere e retto andamento dell’amministrazione della giustizia’ e ritardava la unificazione
della magistratura, per affrettare la quale occorreva la ‘balia del ministro’. Così “ad un tratto in sei mesi
furono tramutati 122 magistrati, anzi 211 se si contano quelli che furono promossi” 30.
Ancora nel 1913, si poteva scrivere:
“Il Governo può agire sui magistrati sia per mezzo delle nomine, sia per mezzo delle promozioni,
sia per mezzo dei trasferimenti, sia con le punizioni vere e proprie. Ma più che con le nomine e i
28
V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, cit., p. 211.
29
Decreto Vigliani, n. 1515 del 1873, che fu l’unico, temporaneo sbocco di alcuni tentativi di riforma della legge Rattazzi, suscitati da
manifestazioni di sdegno nei suoi confronti sollevate da una parte dell’opinione, che pur non mancarono (secondo Musio, Sul riordinamento
giudiziario, Ancona, 1862, ‘l’attuale legge giudiziaria è fatta … colla necessaria conseguenza di darci magistrati servi’). Allegretti, ci, p. 493,
da cui anche la citazione di Musio, osserva d’altro canto che il decreto Vigliani “con la sua natura regolamentare ribadiva che il governo era
dominus dello status dei magistrati come dei pubblici ufficiali”.
30
M. Minghetti, I partiti politici, cit. p. 134, che poi commenta: “Io non pongo in dubbio le buone intenzioni del Ministro, ma è certo che fu
un momento nel quale la magistratura perse quella sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza. Gli animi anche degli
onesti ne furono commossi, gli uomini fiacchi di carattere irruppero nella servilità. Anche Mirabelli nel suo libro notava che il prestigio
dell’ordine giudiziario era stato mortalmente ferito, ‘né può ritornare al suo stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo le cagioni del
male’. Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella giustizia si fa sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello
stato van ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo spirito di clientela soppianta il dovere dell’ufficio”.
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trasferimenti, i magistrati possono essere minacciati nella loro indipendenza dai trasferimenti, che
sono spesso vere e proprie punizioni, e più pericolosi delle punizioni manifestamente inflitte, perché
mentre queste possono trovare una eco nella pubblica opinione, i trasferimenti o possono passare
inosservati, o possono più agevolmente giustificarsi con ragioni di servizio e di opportunità, o
magari anche di promozione”.31
L’inamovibilità della magistratura garantita dallo statuto fu intesa perciò, durante sostanzialmente tutto il
periodo liberale, come limitata al grado e allo stipendio, non alla sede. Soltanto nel 1908, con una riforma
introdotta da V.E. Orlando guardasigilli di Giolitti, il concetto di inamovibilità viene esteso anche alla
sede, ma per i pretori solo nel 1912; venne inoltre istituito, per l’amministrazione delle carriere dei
magistrati, un Consiglio superiore, con funzioni consultive, composto peraltro di soli magistrati di grado
elevato, almeno fino al 1921, in cui il consiglio assunse, per metà, una funzione interamente
rappresentativa di tutta la magistratura (Allegretti p. 495).
La dipendenza dal Governo degli uffici del pubblico ministero
Un altro carattere della organizzazione giudiziaria che incideva negativamente sulla indipendenza dei
magistrati dal Governo era la organizzazione degli uffici del pubblico ministero, a quell’epoca considerati
non una parte della magistratura, ma diretta espressione del governo. Osservava Miceli:
“La disposizione del decreto legislativo n. 2626 del 1865 dichiara che il pubblico ministero ‘è il
rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria’. E’ vero che questa espressione può
essere interpretata in un significato liberale, sostenendo che con essa il legislatore non abbia voluto
accennare ad altro che alla principale e fondamentale funzione di quest’organo, che è quella di
promuovere la repressione dei reati, ma in pratica non è stato sempre questo il significato che le si è
attribuito”.
Il pubblico ministero era ed è l’organo che ‘promuove l’azione penale’, cioè, ricevuta notizia di un reato,
svolge insieme alla polizia le prime indagini, e poi, a seconda degli esiti di queste ultime, solleva l’azione,
cioè apre un processo contro qualcuno. A differenza del processo in materia civile (contratti, famiglia,
lavoro) in cui è la persona privata che si ritiene lesa in un suo diritto ad aprire il processo, il processo
penale è sempre iniziato32 da una azione pubblica, perché, in quanto titolare della funzione d’ordine
pubblico, è lo stato la persona offesa da ogni reato, e, in quanto monopolista dell’uso legittimo della forza,
è l’unico titolare della potestà punitiva33. Così lo stato avvia i processi penali tramite il pubblico
ministero, che poi vi rappresenta la ‘pubblica accusa’.
La dipendenza del pubblico ministero dal Governo aveva per effetto che l’azione penale fosse esercitata, o
non esercitata, secondo le convenienze, e spesso le implicite indicazioni, del Governo; affidava al
pubblico ministero il potere di decidere promozioni e trasferimenti della magistratura giudicante, e di
iniziare l’azione disciplinare (Allegretti, p. 491) con evidenti effetti di condizionamento sul merito delle
31
Diritto costituzionale, cit., p. 924.
32
Ad eccezione delle limitate ipotesi di ‘querela di parte’, in cui l’apertura del processo penale è rimessa alla volontà della persona offesa,
vuoi perché si tratta di processi che riguardano aspetti intimi della vita, che la persona potrebbe non volere rendere pubblici tramite il
processo, vuoi perché si tratta di offese penali di ritenuta lieve gravità, alla cui repressione lo Stato ha minore interesse.
33
Mentre le persone offese dal reato, per esempio i parenti della vittima di un omicidio, si costituiscono come parti private, per
chiedere il ristoro dei danni, morali o economici, loro derivati dal delitto.
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decisioni: Agli aspetti organizzativi e istituzionali, si legavano quelli antropologici o sociali, come il
legame tra politica e magistratura derivante dai numerosi deputati avvocati e deputati magistrati, da cui
una situazione endemica di corruzione della magistratura, anche in considerazione di una situazione in cui,
in larghe aree del paese, gli eletti dovevano alla camorra la propria elezione, ma ogni camorrista elettore
‘è di conseguenza intoccabile”. “Con queste premesse, si capisce come non ci sia nulla che il Governo, per
amore o per forza, non abbia ottenuto dalla Magistratura: condanne, assoluzioni, favoritismi in materia
civile, gli uni più scandalosi degli altri”, osserva Francesco Saverio Merlino, p. 135.
A questo riguardo, una pagina di Minghetti mette molto bene in evidenza come la mancanza di
indipendenza della magistratura sia al tempo stesso un male in sé, e un male in quanto genera nella società
sfiducia e disincanto verso la giustizia:
“Il procuratore del re non procede per azione pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi
eccitato dal governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi: e talora tradursi
innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora lasciarle fondare e liberamente e
apertamente dilatarsi; e in simil modo in qualche caso perseguiti i giornali, in altri identici casi non
darsene per inteso. Non di rado ancora sulle stampe si fa spregio dei buoni costumi, senza che le
regie procure vi pongano attenzione. E poi a un tratto ecco una specie di foga per la quale da un
capo all’altro della penisola le regie procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la opinione
popolare fa questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che l’azione loro non è spontanea ma
ordinata dal Ministero centrale. La quale differenza nel modo di procedere in circostanze identiche
perturba il senso morale, e non è senza scapito del rispetto dovuto alla legge.34”
Carattere inquisitorio del processo penale
Il sentimento della magistratura di essere ‘dalla parte del potere’ e non dei cittadini era alimentato anche
dalle regole che disciplinavano il processo, in particolare quello penale. Si trattava di un processo
‘inquisitorio’ cioè che attribuiva alla parte pubblica, al pubblico ministero, enormi poteri nella raccolta
delle prove e di condizionamento nell’iter del processo, del tutto squilibrati rispetto a quelli attribuiti alla
difesa. Le ricadute culturali di questo tipo di processo35 sono chiaramente percepite da Miceli:
“Esiste una connessione tra i sistemi processuali e le forme di regime politico. La tendenza propria
dei governi dispotici di accentrare il potere in poche mani e di mantenere assai alto il principio di
autorità, porta a considerare le perturbazioni dell’ordine pubblico e le violazioni del diritto, di
qualunque genere esse siano, quali offese apportate ai detentori del potere. Il sentimento di sospetto,
onde allora i governanti sono dominati, induce a riguardare l’imputato come un colpevole, a conferire
34
Minghetti, op. cit., il quale elenca numerosi esempi di ingerenza della politica nella giurisdizione, lamentando anche che il fatto
che tra i deputati vi fossero molti avvocati di grido, dava luogo ad abusi come ‘interpellanze circa l’interpretazione di una legge
sollevate in seguito a una sentenza proferita contro i suoi clienti in primo grado, e mentre pendeva l’appello”. Molte cause ‘vinte da
deputati eminenti in onta all’opinione e all’aspettativa universale’ in prossimità di ‘avanzamenti’ nelle carriere dei magistrati dettero
‘spazio a sospetti, che sempre tornano in detrimento del prestigio onde la magistratura deve sempre essere adorna”. Minghetti
concludeva che “Tutto ciò fa sì che uomini d’età e ragguardevoli temono forte, e taluni osano affermare, che sotto i governi che
dominarono l’Italia dal 1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei magistrati più rispettabile e più rispettato di
quello che sia oggidì”.
35
In Italia si è adottato un modello ‘accusatorio’ di processo solo nel 1987. Il modello accusatorio mette sullo stesso piano accusa
pubblica e difesa, e risponde al principio per cui la prova si forma nel contraddittorio, cioè ogni prova raggiunta dal p.m. nella fase
preliminare delle indagini, deve essere fatta conoscere alle altre parti, e confermata davanti al giudice.
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al giudice poteri inconciliabili con l’imparzialità del suo ufficio e col suo compito giudicante, come
anche ad escludere il contraddittorio, a ridurre i diritti della difesa, a mantenere segreti non solo gli
atti istruttori ma anche il dibattimento. E’ così che i governi dispotici tendono per la loro psicologica
natura verso il sistema inquisitorio. Si capisce che un ordine di idee di sentimenti del tutto opposto
debba produrre nei governi liberi la tendenza verso l’opposto sistema.36”
Caratteristica del processo penale italiano è sempre stata inoltre una notevole squalificazione del ruolo
della giuria popolare, altrimenti da considerarsi il vero e proprio ‘giudice naturale’ del processo penale.
Nel 1874 le categorie dei sorteggiabili vennero ristrette a cittadini dotati di istruzione, particolare
esperienza, e proprietari paganti da 100 a 300 lire di imposta (Allegretti, p. 492) ; ne vennero
“sistematicamente esclusi tutti coloro che sono considerati di idee democratiche, sostituiti con un
ragguardevole numero di agenti di polizia e funzionari” (F.S. Merlino, p. 129).
Le figure di reato vaghe, i reati di opinione che permettevano di perseguire i socialisti con imputazioni
come ‘cospirazione, istigazione alla guerra civile e associazione per delinquere’, il ricorso a misure di
sicurezza come l’ammonizione, il foglio di via o il domicilio coatto inflitti su denuncia segreta della
polizia e senza prove (reati di sospetto) (Merlino, p. 121) aumentavano le possibilità per la magistratura di
porsi al servizio degli interessi del potere politico. Alla polizia venivano lasciati larghissimi poteri; non
era rara la connivenza tra la polizia e la mafia e la camorra, o con il gioco del lotto clandestino; spesso gli
agenti erano reclutati tra i reduci del bagno penale o del domicilio coatto (Merlino, p. 117, che così la
descrive: “l’intangibilità della polizia è divenuta un canone di diritto costituzionale. Protetta nella persona
dei suoi capi, per uno speciale privilegio, da ogni intervento della giustizia, difesa continuamente alla
Camera da ministri pieni di zelo, non a favore della libertà e dell’inviolabilità degli individui, ma a favore
del prestigio dell’autorità, la polizia gode di totale impunità per tutti gli abusi e i crimini che commette
con il pretesto di difendere la vita e la libertà dei cittadini”. I numerosi casi di misure di sicurezza
facevano inoltre sì che il lavoro del magistrato si confondesse spesso con quello di un poliziotto:
“sbrigando ogni giorno i casi di parecchie dozzine di ammonisti, colpevoli soltanto di una infrazione o di
aver dimenticato qualche insignificante formalità, il giudice finisce per confondere il suo compito con
quello del poliziotto. Ne risulta un’evidente decadenza del corpo giudiziario, colpito non più dall’esterno
ma dall’interno, nello stesso criterium che deve reggere l’amministrazione della giustizia” (Merlino, p.
141). Di analogo schiacciamento sulle modalità di coloro che avrebbero dovuto controllare furono
accusati i magistrati di sorveglianza nelle prigioni dove, veniva lasciato dominare l’arbitrio e la violenza:
“Le nostre prigioni, preventive o correzionali, sono forse le peggiori che esistano nei paesi civili. (…) Ed
in queste prigioni, abbandonate al vergognoso affarismo dei direttori, degli appaltatori e dei fornitori,
regna l’arbitrio sfrontato di carcerieri senza cuore e senza intelligenza, arbitrio permesso, voluto, garantito
nelle sue criminali conseguenze non soltanto dai superiori gerarchici degli stessi carcerieri, ma da quei
magistrati, più crudeli degli stessi carcerieri, e più incuranti dei propri doveri, che la legge incarica di
visitare le prigioni e di ascoltare i reclami dei detenuti” (Merlino, p. 130).
La mancanza di indipendenza interna
Oltre che fortemente dipendenti dal Governo, i magistrati erano privi di indipedenza interna, cioè verso gli
altri magistrati. La magistratura era organizzata gerarchicamente, secondo un sistema di progressioni in
carriera decise in base ai pareri dati dai magistrati di grado elevato dei singoli distretti, nei confronti dei
36
V. Miceli, Diritto costituzionale, cit., p. 936-937.
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magistrati di grado inferiore. Inevitabilmente, un giovane magistrato che volesse far carriera era portato a
uniformarsi alle tipologie di giudizio, agli stili interpretativi, e agli orientamenti di merito, di cui erano
portatori i giudizi anziani e di alto grado; inutile dire che se, nelle condizioni di dipendenza verso il
governo appena descritte, un giudice anziano aveva anche un alto grado, era perché si era dimostrato
sufficientemente conformista e docile ai condizionamenti, attitudine che poteva trasmettere ai giovani
mediante i giudizi sul loro operato.
In questo contesto, la funzione di ‘nomofilachia’ affidata alla Corte di cassazione quale supremo giudice
di legittimità37 fungeva anch’essa da motore di condizionamento culturale. La Cassazione inoltre
disponeva del potere di ‘avocazione’ dei processi, che le permetteva di spostare da una sede all’altra i
processi di merito; potere che all’epoca veniva manifestamente esercitato allo scopo di assegnare a certi
collegi determinati processi in funzione del loro contenuto, e per ottenere una decisione considerata
politicamente preferibile.
La mancanza di indipendenza culturale (di giudizio e di valutazione)
Nel senso di educare i magistrati a un accentuato conformismo andava la educazione giuridica dominante
al tempo, improntata di ‘positivismo statualista’, cioè dell’idea che il diritto è solo quello posto dallo stato
con suoi atti normativi, e che il giudice è tenuto, nell’interpretare la legge, a una pretesa “neutralità”,
intesa come astensione da ogni considerazione circa la giustizia, la proporzione, tra la legge e il caso
regolato; così come da ogni considerazione circa la contraddittorietà o meno tra la legge che deve
applicare e altre. I giudici erano abituati al ‘sillogismo deduttivo’: se la legge in generale e in astratto che
nella fattispecie A si applica la conseguenza B, una volta stabilito che il caso in esame corrisponde alla
fattispecie A, si applica la conseguenza B.
I giudici erano educati a una interpretazione molto rispettosa del dato testuale della legge, e assolutamente
scoraggiati a porsi domande sull’adeguatezza della legge al caso regolato, ai principi del diritto, o a norme
fondamentali del diritto come lo stesso Statuto. Lo spiega molto orgogliosamente questo passo da Vittorio
Emanuele Orlando:
“Nel Medio Evo il giudice non di rado doveva trovare il diritto da applicare al caso singolo, onde può
dirsi che partecipasse al potere legislativo, nel senso che oggidì vi si dà. Ma il sistema dei codici, in
questo secolo prevalso e di cui l’Italia usa, suppone invece una rigorosa separazione della funzione
legislativa dalla giudiziaria, e quindi l’obbligo strettissimo di applicare il testo legislativo, senza
eluderlo né per ragioni di equità né col pretesto di far prevalere un preteso spirito della legge alla
chiara espressione di essa”.
Orlando vuole insegnare e quindi convincere che giudici non concorrono più, non devono più concorrere,
come un tempo, a creare il diritto, non sono portatori dei valori e delle tradizioni, né di un sapere
professionale che si forma autonomamente, e con il quale la legge potrebbe entrare in contraddizione;
tanto meno essi sono portatori di un modo di usare la ragione, equitativo, volto alla ricerca di una
composizione ragionevole delle controversie, alternativo a quello del legislatore. Lo spazio interpretativo
37
In questa funzione la Cassazione pronunciala interpretazione corretta della legge con riferimento a singoli casi, potendo ‘cassare’ le
sentenze di merito difformi dal suo orientamento. A titolo di commistioni tra politica e magistratura, che di quest’ultima inquinavano
l’indipendenza, merita menzione il fatto che, a tenore dello Statuto, la carica di primo presidente, presidente e consigliere di Corte di
cassazione, e di primo presidente di corte d’appello apriva le porte alla nomina, vitalizia, a membro del Senato.
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ad essi riconosciuto si limitava a quello necessario per realizzare nel modo migliore la volontà e le
intenzioni della legge.
Questo genere di neutralità ammantata di tecnicismo trasforma in giudice in uno strumento di
rafforzamento degli indirizzi politici. Le conseguenze durevoli di ciò non avrebbero mancato a
manifestarsi. Per esempio, per un giudice così abituato a ‘applicare la legge’ per come è, senza discutere,
ci sarebbe stato poco da obiettare, e poco ci fu, nel 1938, alle leggi fasciste sulla razza, nonostante
astrattamente vigesse ancora l’eguaglianza giuridica dei ‘regnicoli’ sancita dallo Statuto albertino.
Tantomeno, davanti a leggi retroattive, come avvenne durante il fascismo, che sequestravano i patrimoni
degli oppositori politici, o ne impedivano la carriera professionale, il giudice-funzionario poteva opporsi
chiamando in ballo antichi principi del diritto come l’affidamento, il principio antichissimo che assicura a
ciascuno di continuare a godere dei propri diritti acquisiti a meno che un atto generale e valido solo per il
futuro modifichi quei diritti per tutti gli appartenenti a una stessa categoria.
Molto negativo è poi il bilancio della capacità della magistratura ordinaria di sfruttare gli spazi di
sindacato nei confronti della pubblica amministrazione, lasciati dalla legge del 1865. A V.E. Orlando che
vi rifletteva nel 1907 come Ministro della Giustizia, la magistratura italiana appare ‘autoritaria’ e priva di
uno spirito di corpo in grado di renderla autonoma rispetto alla amministrazione, con cui, abituata a
considerarsi un mero corpo di funzionari, si identifica, e dunque più portata alla ‘solidarietà’ che non
all’”antagonismo’ verso l’amministrazione, e priva comunque della sufficiente autorità (cit. in Allegretti,
p. 498).
In particolare, la dottrina giuridica italiana negò sempre la possibilità da parte dei giudici di un controllo
sulla legittimità della legge, cioè sulla sua conformità a principi fondamentali, o alla legge suprema dello
stato (lo Statuto) sul modello di quanto sin dagli inizi del 1800 la Corte suprema americana aveva iniziato
a fare, rivendicandosi il potere di annullare le leggi contrastanti con la Costituzione. Tuttavia va a merito
della giurisprudenza della Corte di Cassazione quello di avere sempre ammesso che un certo sindacato del
giudice fosse possibile con riguardo ai requisiti formali degli atti normativi: l’annullamento, da parte della
Corte di cassazione, di decreti legge per procedimento di approvazione (come l’entrata in vigore prima
dell’apposizione del sigillo dello stato, il difetto della formula di promulgazione) è stato una evenienza
rara ma non estranea alla esperienza statutaria.
Questo, come qualche non rarissimo esempio di autonomia di giudizio dei magistrati giudicanti rispetto
alle politiche del processo portate avanti, per il governo, dai pubblici ministeri38, potrebbe ascriversi anche
a una irriducibile tendenza del mestiere di giudice, anche se esercitato in condizioni molto sfavorevoli per
l’indipendenza di giudizio, a costruire in chi lo esercita un habitus mentale tale, per cui resiste a diventare
solo un ‘conduttore di decisionalità’, un ‘esecutore’ della volontà del legislatore, perché abitua a tenere in
considerazione le ragioni dell’uno e dell’altro, e la natura dei fatti considerati, la proporzione tra una
regola e il fatto cui va applicata. E’ verosimilmente perché consapevole di ciò che il periodo statutario
mantenne sempre, come visto nei paragrafi precedenti, molto ristretti i limiti del sindacato del giudice
sull’attività dell’amministrazione39, creò spesso e volentieri giudici speciali (cioè collegi giudicanti non
38
Negli anni ’70 e ’80 si hanno anche delle sentenze ‘isolate e coraggiose: memorabile, tra tutte, l’assoluzione a Venezia dei molti arrestati
per gli scioperi nel mantovano’, Galante Garrone cit. da Allegretti p. 497.
39
Restando eloquente l’esempio di quanto accadde nel 1863 a Pietrarsa, una località vicino Napoli dove gli operai di un opificio, per protesta
contro il padrone, un settentrionale, che imponeva più ore di lavoro senza aumentare i salari, si chiusero dentro la fabbrica sollevando grida
e mugugni. Erano però inermi e disarmati. Il padrone tornò ai cancelli della fabbrica accompagnato dalla polizia; che sparò sugli operai, e
sulla folla che si era accalcata intorno, uccidendo sul colpo 7 persone e causando la morte di altre 20. Nei confronti dell’ufficiale che dirigeva
il plotone fu aperta una inchiesta amministrativa, ritenendo evidentemente che egli, ordinando di sparare, avesse esercitato una insindacabile
discrezionalità.
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formati da giudici ordinari civili e penali) cui deferì la decisione di materie politicamente delicate; tenne
sempre in attività la giustizia militare (devolvendo spesso e volentieri di Tribunali di Guerra la cognizione
di processi, ancorché implicanti civili inerenti fatti accaduti durante la sottoposizione di un territorio allo
stato d’assedio).
Una cultura giuridica ‘scientista’
Le mentalità e le pratiche di cui i giudici e i giuristi si fanno portatori sono profondamente influenzate da
ciò che viene loro insegnato. La ‘dottrina giuridica’, cioè l’insegnamento universitario del diritto, gioca in
questo un ruolo centrale, e soprattutto lo giocò durante il Regno d’Italia. La maggior parte dei giuristi che
si occupavano del diritto pubblico scelsero di conferire allo studio della materia un atteggiamento
‘scientista’, assumendo nel loro insegnamento il tono per cui una certa tesi è ‘falsa’ e un’altra tesi è ‘vera’
in forza di pretese dimostrazioni logico deduttive, che peraltro tiravano spesso in ballo argomenti ben
poco scientifici come la ‘coscienza del popolo’ o il ‘naturale sviluppo delle istituzioni’.
Vittorio Emanuele Orlando fu il principe di questa cultura, la cui influenza in Italia è andata ben oltre il
periodo statutario. Egli insegnava il ‘diritto scientifico’ che gli permetteva generalmente, di dichiarare
‘false’ tutte le tesi progressiste; era una ‘falsa teoria’ la sovranità popolare, era un ‘errore’ pensare che il
giudice potesse interpretare la legge discostandosi pur motivatamente dalla sua lettera, eccetera.
Abituandosi a ragionare in termini di ‘vero’ e ‘falso’ il giurista si disabituava a praticare la ragione
probabilista e problematica, l’attitudine alla ponderazione, la ricerca del bilanciamento e del giusto mezzo,
a cui erano stati educati i giuristi del passato.
Veniva così veicolata nella coscienza del giurista una attitudine autoritaria, che ha portato molti giuristi a
schierarsi dalla parte del potere, delle istituzioni; a intendere il loro lavoro come giustificazione di ciò che
le istituzioni facevano, e a mettersi più al servizio di esse, che della società civile. Le istituzioni, i concetti
e le categorie che le descrivevano, tendevano ad essere rappresentati come necessità naturali che
obbedivano a logiche neutrali e che dovevano durare per sempre. Le teorie dell’epoca, che descrivano la
decisione giudiziaria come un sillogismo in cui la volontà di colui che la pronunzia non ha parte alcuna
(Racioppi e Brunelli) e neutralizzavano l’attività giudiziaria come attività logica, non politica, imparziale,
“non valevano se non a celare la neutralità di una attività gravata da preoccupazioni politiche e che fa (in
parte) politica sotto veste tecnica, cioè con l’uso di procedimenti tecnici o apparentemente tecnicizzati” e
che si muoveva in un continuità con le forze politiche dominanti (Allegretti, p. 499-500).
4.Le libertà civili
Lo statuto albertino conteneva un molto piccolo elenco di libertà e di diritti a favore dei” regnicoli”, che,
in armonia con la ideologia dello stato liberale, riconosceva le sole libertà c.d. civili, o negative. Come
detto in precedenza, nella concezione liberale lo stato deve ingerirsi il meno possibile nella sfera privata, a
cui d’altro canto garantisce la possibilità di pacifico svolgimento con le sue funzioni di ordine. Il risvolto,
era anche la previsione del minimo possibile di influenza dei privati cittadini sulla direzione dello stato.
I diritti o libertà civili sono i diritti e le libertà che proteggono l’individuo e la sfera privata davanti ad
arbitrarie ingerenze del potere pubblico: la libertà personale (o da arresti arbitrari), la proprietà privata, il
domicilio, la libertà di pensiero, di coscienza e di credo religioso, la libertà di comunicazione ne sono le
classiche componenti (libertà civili individuali).
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Oltre a garantire l’individuo, le libertà civili garantiscono anche l’esistenza e il libero svolgimento della
società civile, cioè l’autonomia della società rispetto al potere pubblico. Sotto questo profilo, esse
assumono spesso carattere collettivo, e le si chiama perciò libertà civili collettive, come la libertà di
riunione, di associazione, o di stampa, che è una libertà individuale, se la considera dal punto di vista
materiale, in quanto espressione del pensiero di una persona determinata, o diffusione di notizie e
informazioni da parte di una persona privata; ma è collettiva quanto agli effetti perché, a differenza della
comunicazioni (di cui è esempio la missiva, la lettera indirizzata a un altro) non si dirige a singoli
destinatari ma a destinatari indeterminati. Attraverso l’esercizio delle libertà civili collettive la società
civile esprime i suoi (vari e diversi) orientamenti, e gusti, secondo direzioni che nascono spontaneamente
dentro di essa. Una delle primarie finalità delle libertà civili collettive è evitare che la vita della società sia
assorbita dallo stato, da esso organizzata e indirizzata (che è ciò che avverrà col fascismo e in ogni
esperienza totalitaria, dove le uniche associazioni ammesse sono quelle gestite o approvate dallo stato, e
mediante le quali si dette un tono fascista al modo in cui le persone passavano il tempo libero, compreso
come praticavano lo sport).
Dirette a evitare “l’organamento’ della società nello stato, le libertà civili collettive tendono a che sia
semmai la pubblica opinione a esprimere un orientamento nei confronti delle autorità, potendo essa
esprimere giudizi e valutazioni implicanti anche la volontà di influire sul comportamento delle istituzioni
(ad esempio, quando la stampa critica un orientamento del Governo; quando i singoli, associandosi, danno
vita a un partito o un sindacato).
Coerentemente con la piegatura conservatrice che le concezioni liberali avevano preso da noi, e cioè
coerentemente con la rigorosa ostilità verso l’idea che l’azione dei pubblici poteri potesse essere
condizionata dagli ondivaghi orientamenti dell’opinione pubblica, lo Statuto albertino contemplava
principalmente libertà civili individuali: la libertà personale, la libertà di domicilio, la proprietà privata. La
portata concreta delle garanzie assicurate a queste libertà era d’altronde molto ristretta, perché ciascuna di
queste libertà poteva essere limitata solo nei casi previsti dalla legge, ma non era mai richiesto
l’intervento dell’autorità giudiziaria a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione nella
attuazione delle previsioni di legge. In altri termini, la pratica estensione delle garanzie delle libertà civili
era rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, chiamata ad attuare le previsioni di legge
nel caso concreto: quando la polizia decideva di arrestare qualcuno, non doveva chiedere al giudice il
mandato, poteva farlo sulla base dei poteri di mantenimento dell’ordine pubblico che la legge le conferiva.
Riporto l’art. 26, sulla libertà personale: “Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi
previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive”. L’art. 27, sul domicilio: “Il domicilio è inviolabile.
Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme che essa prescrive”. La
stessa proprietà ‘inviolabile’ (art. 29) poteva dover essere ceduta, salvo indennità, ‘quando l’interesse
pubblico legalmente accertato lo esiga”40.
40
Lo Statuto non si pronunciava in materia di libertà di opinioni religiose (tanto meno di opinioni politiche), ma conteneva la disposizione,
relativa al culto, e cioè alle manifestazioni esteriori e collettive di religiosità, secondo cui “La religione cattolica apostolica romana è la sola
religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”, disposizione che istituiva una differenza di valore tra
la religione cattolica e i culti ‘ammessi’. Di fatto, dall’unificazione in poi i rapporti con la Chiesa cattolica furono i rapporti tra due nemici, lo
Stato temeva che la Chiesa manovrasse contro la nuova condizione politica dell’Italia, e la Chiesa si sentiva spodestata, situazione che si
accentuò come noto dopo la Presa di Porta Pia. Alla decisione del Papa di imporre ai cattolici di astenersi dal partecipare alla vita pubblica e
politica, che espose le nuove istituzioni ad una gravissima delegittimazione, corrisposero le notevoli limitazioni alla validità civile del diritto
canonico (il matrimonio religioso, per esempio, non valeva civilmente), nonostante alla chiesa fossero state riconosciute cospicue guarentigie
sotto il profilo economico e dello status degli ecclesiastici. La revoca del Non expedit, la bolla che vietava ai cattolici la partecipazione
politica, rese possibile la nascita del partito popolare, di ispirazione cattolica, nel 1919.
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La libertà di stampa era contemplata in questi termini: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli
abusi” (art. 28). Mettendo immediatamente in collegamento il riconoscimento della libertà di stampa con
la possibilità che essa si renda responsabile di abusi, lo statuto dimostrava un approccio molto cauto e
diffidente nei confronti di questa libertà così decisiva nel costruire una opinione pubblica libera,
consapevole, articolata e critica. Nell’esperienza statutaria le attività di stampa (gestione delle tipografie,
affissioni degli stampati) sono sottoposti ad autorizzazione preventiva di polizia; gli stampati sono
sottoponibili a sequestro di polizia per violazione del buon costume, nel quale non si facevano rientrare
solo le offese al pudore sessuale, ma l’indeterminata gamma dei pericoli per l’ordine pubblico; nel 1899
con una iniziativa che sollevò discussioni enormi, e non giunse a termine, il governo voleva introdurre la
censura preventiva dei giornali, e di fatto vi si arrivò nel 1915 quando, col pretesto della guerra, si dette al
prefetto il potere di disporre il sequestro degli stampati per ragioni inerenti la ‘sicurezza nazionale’. Ma le
regolamentazioni e le discipline legislative carenti erano forse il lato meno influente e meno significativo
nel contesto di una repressione sistematica della stampa di opinione41 e di una debolezza strutturale della
libertà di stampa, e dunque della pubblica opinione, che dava motivo di osservare che “il giornalismo
italiano non sussiste al di fuori delle consorterie politiche”
Quanto alle libertà civili collettive, lo statuto annovera la sola libertà di riunione, ma in luogo privato. Le
adunanze in luoghi pubblici o aperti al pubblico (le piazze, le strade, un ristorante, una sala da congressi)
erano ‘interamente soggette alle leggi di polizia” (art. 32). Si ricordi che le riunioni sono gli
assembramenti di persone, spontanei o provocati, che oggi chiamiamo ‘manifestazioni’, sit-in, cortei (che
sono ‘riunioni in movimento’).
Il trattamento dello sciopero.
Lo sciopero era considerato reato dal codice albertino (1859); il codice penale Zanardelli (1889) lo puniva
in quanto realizzato con l’impiego di ‘violenza o minaccia’. La magistratura dell’epoca utilizzò molto
ampiamente questi limiti, rinvenendo esempi di ‘violenza o minaccia’ “nel semplice contegno o sembiante
degli scioperanti, o nel canto dell’Inno dell’Internazionale, o in grida sovversive) sicché divenne
incriminabile pressoché abitualmente lo sciopero in se e per sé” (Allegretti, p. 499); lo sciopero inoltre
veniva considerato inadempimento della prestazione lavorativa e giustificava l’impiego dei mezzi
disciplinari da parte del datore di lavoro (come in primo luogo il licenziamento).
La libertà di associazione non era menzionata, e lo scioglimento delle associazioni poteva essere deciso
dai prefetti o dal governo centrale per motivi di ordine pubblico (come avvenne nel 1898-99 quando
furono sciolti tutti i Sindacati e le Camere del lavoro).
Quanto ai doveri, lo statuto contemplava il dovere di ciascuno di pagare i tributi, “in proporzione agli
averi”. Il sistema tributario di tipo proporzionale incide sui redditi sempre nella stessa proporzione, però
ovviamente con un peso diverso a seconda che il reddito sia basso o alto: una imposizione del 10% lascia
in tasca 90 lire a chi guadagna 100 e 900 lire a chi guadagna 1000. Il sistema tributario di tipo
41
Denunciava Merlino: “numero dopo numero, i giornali socialisti sono stati sequestrati, a volte prima della pubblicazione, e perseguiti nelle
persone dei direttori responsabili, che poi vengono regolarmente gettati in prigione. Il direttore della ‘questione sociale’ di Firenze è ora al
carcere delle murate per otto anni – dico otto anni di prigione. Il suo predecessore, più fortunato di lui, se la cavò con tre anni, e così via. Di
un giornale si proibisce il titolo (“Il Ribelle”, di Milano) di un altro, il sottotitolo (“comunista anarchico”: la Questione sociale di Firenze). E
la mano della legge non è pesante solo con i giornali socialisti, anche alcuni giornali repubblicani, come “L’Emancipazione” o semplicemente
democratici, come “Il Messaggero” ne ricevono spesso le carezze” (p. 1379.
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proporzionale è, in linea con le concezioni liberali, armonico con l’idea che lo stato deve essere
indifferente ai rapporti sociali, non interessato a riequilibrare le differenze sociali ed economiche.
6.La legislazione sociale
Peraltro, lo stato liberale viene ricordato anche per aver introdotto i primi elementi di una legislazione
sociale, con la legge del 1902 che vietò il lavoro dei fanciulli fino a 12 anni e pose tutele a favore delle
donne lavoratrici. Nel 1904 l’obbligo scolastico fu elevato a 12 anni, e le spese relativa addossate allo
stato.
Per legislazione ‘sociale’ si deve intendere una legislazione che protegge la società davanti all’economia,
allo sfruttamento economico, e alle sperequazioni che possono derivare dalle differenze di condizioni
economiche.
Lo Stato italiano rispose con queste leggi alle gravissime tensioni in cui la profonda diseguaglianza
sociale che esisteva nel paese era sfociata, culminando nella grave crisi del 1898-99. Il fatto che gli
spargimenti di sangue del terribile biennio fossero stati atrocemente ‘vendicati’ dal regicidio 42 avvertiva
che una concezione puramente repressiva del problema sociale aveva raggiunto un punto di non ritorno.
Nonostante essa rispondesse anche a precise motivazioni interne, con la legislazione sociale degli inizi del
‘900 lo stato italiano intraprendeva una scelta che si era imposta a tutti gli stati industrializzati, e alle quali
paesi con economie capitalistiche più avanzate della nostra erano già arrivati da tempo.
Già nel 1860 in Inghilterra era stata introdotta una legislazione che considerava come reato l’impiego
nelle miniere di ragazzi sotto i 12 anni che non frequentassero le scuole o non fossero in grado di leggere
e scrivere; e introduceva misure volte a impedire la sofferenza e la morte di bambini messi a spazzare
condutture troppo strette; prevedeva forme obbligatorie di vaccinazione; dichiarava illegali le miniere con
un unico pozzo di ventilazione; istituiva ispettori per il controllo della salubrità degli alimenti.
Il doppio movimento
Come mai, e con quali esiti, lo stato liberale intraprende la via della legislazione sociale è un problema su
cui ha scritto cose illuminanti lo studioso di economia Karl Polanyi, nella sua opera “La grande
trasformazione”, pubblicata nel 1944. Secondo Polanyi lo stato liberale è, dal punto di vista del rapporto
con l’economia, il teatro di un doppio movimento.
Primo movimento: lo Stato rende possibile l’economia capitalistica di mercato autoregolato
Da una parte (primo movimento) lo stato, liberando le terre e il lavoro dai vincoli che ne limitavano la
circolazione rende possibile una piena capitalista di mercato basata, su tre principi:
a) tutto è commerciabile, tutto può essere messo sul mercato come merce;
42
Nel 1901 Umberto I fu assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci.
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b) sono merci, che si comprano e si vendono, non solo i prodotti, le cose prodotte per essere messe sul
mercato (gli ortaggi, la frutta, i tessuti o le scarpe o le energie) ma anche i fattori della produzione, il
lavoro e la terra, oltre alla moneta;
c) il mercato deve potersi autoregolare, deve poter attingere liberamente ai fattori della produzione
quando la domanda di prodotti è alta, e deve potersi liberare dei fattori della produzione quando la
domanda di prodotti è bassa)43.
Dopo avere reso possibile il realizzarsi di queste condizioni dell’economia, lo stato, assistette alle sue
conseguenze socialmente distruttive, che furono spesso registrate dall’opinione pubblica borghese,
conservatrice, oltre che dagli osservatori critici come i pensatori marxisti. L’economia di mercato, che
aveva travolto le strutture non contrattuali della convivenza come il villaggio 44, stava ora per travolgere
anche la cellula più elementare ed essenziale della società, la famiglia. Affamato di forza lavoro, il
mercato metteva al lavoro (quando servivano) donne e bambini; le donne assumevano modi di vivere
ritenuti discutibili dalle classi borghesi (uscire di notte, dividere la camera con altre operaie, bere e
fumare), le famiglie non erano in grado di occuparsi dei figli (quando entrambi i genitori inseguono il
lavoro a giornata, e i figli pure, nessuno si cura della vita familiare, l’educazione è trascurata, i costumi,
come si diceva, degenerano); gli uomini non contenuti da una struttura famigliare solida si davano
all’ubriachezza e alla violenza.
Secondo movimento: lo Stato libera la libertà del mercato di attingere ai fattori della produzione
Le conseguenze socialmente distruttive del mercato autoregolato discendono dalla mercificazione della
vita e dell’ambiente naturale45. Osservandole, lo Stato in Europa ha reagito, secondo Polanyi, nella
seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento adottando una legislazione sociale, cioè il cui scopo è
proteggere la coesione sociale, attraverso l’esclusione o la limitazione dell’accesso al mercato del lavoro
di alcune categorie (le donne e i bambini) (secondo movimento).
La tesi del “doppio movimento” descrive dunque l’azione dello stato in rapporto al mercato. Da una
parte, lo stato rende possibile l’instaurazione dell’economia di mercato, istituendo quei meccanismi che
43
Scrive Polanyi: “Una volta che macchine e imponenti complessi venivano impiegati per la produzione in una società commerciale, l’idea
di un mercato autoregolato doveva necessariamente prendere forma. (…) Poiché le macchine complesse sono costose esse non rendono a
meno che non vengano prodotte grandi quantità di merci. Esse possono essere fatte funzionare senza che si abbia una perdita soltanto se lo
sbocco delle merci è ragionevolmente assicurato e se la produzione non deve essere interrotta per mancanza delle materie prime necessarie
ad alimentare le macchine. Per il commerciante questo significa che tutti i fattori implicati devono essere in vendita, cioè che essi debbono
essere disponibili nelle quantità necessarie a chiunque sia disposto a pagarle”.
44
“Il mercato capitalista autoregolato fu la liquidazione delle “organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della
professione e del credo”. Esso le travolgeva in due modi: facendo venir meno il senso e l’esistenza stessa di quegli ambiti sociali (il
villaggio, la piccola comunità che si sostiene della terra e della pastorizia) che li rendevano possibili; e spingendo di conseguenza uomini,
donne e bambini verso il lavoro salariato nella città. “Gli effetti sulla vita della gente erano tremendi al di là di ogni descrizione. La società
umana sarebbe stata annientata se non fossero esistite contromisure protettive che attutivano l’azione di questo meccanismo autodistruttivo. “
(K. Polanyi, La grande trasfromazione, trad. it. Einaudi, Torino, 1946, p.98).
45
“Si confrontino ad esempio le attività di vendita del mercante-produttore con le sue attività di acquisto; le sue vendite riguardano soltanto
prodotti elaborati e sia che egli riesca o meno a trovare gli acquirenti il tessuto sociale non ne viene necessariamente influenzato. Ma ciò che
egli compra sono materie prime e lavoro, natura e uomo. La produzione per mezzo della macchina in una società commerciale implica in
realtà una trasformazione che può essere paragonata a quella della sostanza umana e naturale della società, in merci. La conclusione per
quanto macabra è inevitabile: niente di meno potrà bastare allo scopo: ovviamente lo sconvolgimento causato da questi strumenti spezzerà i
rapporti dell’uomo e minaccerà di annientamento il suo ambiente naturale” (K. Polanyi, op. cit., p. 55-56).
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consentono la liberalizzazione del lavoro e della terra, dall’altra parte, in reazione all’azione distruttiva
sui legami sociali che è propria del mercato, lo stato opera in controtendenza rispetto al mercato. Anche,
ma non solo, sotto la spinta delle nuove classi sociali (il proletariato) in cui “gli sradicati urbani” avevano
cercato di ricostituire una propria identità sociale, lo stato sviluppa politiche di intervento sociale che si
rivolgono a rispondere, o ad arginare, le più vistose e perturbanti aberrazioni del mercato.
I sostenitori del libero mercato ne trassero argomenti per accusare lo stato di mettere intralci al libero
mercato; e il fallimento globale dell’economia degli anni ’30 del secolo XX fu spesso attribuito anche al
fatto che il libero mercato non aveva mai potuto funzionare veramente come libero a causa dei lacci
protezionistici.
La tesi del doppio movimento è interessante per vari motivi. Intanto ci fa capire la radice di una
distinzione, in seguito diventata parte cospicua del senso comune, che contrappone le leggi
dell’economia e leggi dello stato, e che, rappresentandole come tra loro antagoniste e alternative, rende
possibile solo uno scontro tra esse. In questa visione dicotomica l’economia ha le sue leggi: perché ci sia
sviluppo si deve produrre di più, l’offerta crea la domanda, il lavoro non deve costare più del profitto ecc.;
queste leggi sono oggettive, razionali. Lo stato pone delle leggi, che rispondono a una opportunità politica
e qualche volta incoraggiano e rafforzano il mercato, qualche volta lo disciplinano e lo vincolano, ma
sono il frutto di orientamenti opinabili e irrazionali. Il costo di queste rappresentazioni è che esse
inscenano una lotta sotterranea e perpetua tra l’economia e lo stato, tra l’economia e il diritto, o
l’economia riesce a imporre le sue leggi allo stato, oppure il contrario, ma, di per sé, l’economia non ha
bisogno del diritto per sapere ciò che deve fare. Queste visuali coltivano concezioni nelle quali le leggi
dell’economia appaiono come necessariamente del tutto separate da valutazioni che non siano quelle
inerenti la razionalità economica e il profitto, e orgogliosamente lo rivendicano, tendendo a rappresentare
vincoli limiti e regole posti dal diritto come ostacoli al dispiegamento della razionalità economica e del
profitto.
La scoperta della rilevanza del ‘patto sociale tra i sessi’ per il governo dell’economia e della
società
L’altro aspetto per cui la tesi del doppio movimento è interessante, è che essa ci fa percepire che, a
partire dalle prime legislazioni sociali, il patto sociale tra i sessi, cioè il modo in cui le attività economiche
e sociali sono distribuite tra uomini e donne, è diventato oggetto di attenzione da parte dei governi,
diventando uno snodo centrale delle politiche in materia sociale (ed economica).
Quando compie il suo movimento di protezione della società, lo stato lo compie proteggendo alcuni
soggetti in modo speciale: i bambini e le donne. La protezione di questi soggetti dal mercato equivale
spesso a una loro esclusione dal mercato, una loro non impiegabilità in certi settori o in certi lavori
(classico per le donne il divieto di lavorare di notte). Bambini e donne vengono identificati come ‘
soggetti deboli’ che devono specialmente essere difesi dal mercato. Questo significava la creazione di un
reticolato di norme che, a ragione o a torto, rendevano per le donne più difficile che per gli uomini
l’accesso al lavoro; rendeva più difficile per la donna che per l’uomo morire schiacciata sotto il torchio
quanto guadagnarsi da vivere in modo indipendente, vale a dire contribuiva a tenere le donne a casa.
Il doppio movimento di cui parla Polanyi (azione del mercato – difesa dello stato, due movimenti che
hanno per teatro la società, i modi di essere, di vivere, di pensarsi, di stare in relazione che le persone
considerano normali) ha avuto così come risultato la codificazione di un patto sociale tra i sessi che
prevede una divisione di genere delle attività produttive (lavoro salariato, attività che producono un
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reddito economicamente valutabile) e delle attività riproduttive (cura della casa e della famiglia), e che,
con ciò stesso, istituisce anche una separazione netta tra le due, in cui vero lavoro è solo quello
‘produttivo’, e, alla fine, quello prioritario, cui l’altro è subordinato. Questo assetto si è rivelato ben
funzionale a quella che di lì a poco sarebbe stata definita l’economia ‘fordista’, basata sul lavoro in
fabbrica o su impieghi stabili, ben distinti dalla sfera domestica e dotati di propri tempi e organizzazione
separati dalla casa.
La lotta dello stato contro la portata distruttiva del mercato fu, così, anche protezione e riaffermazione
della famiglia come legame sociale ultimo, che fu realizzata mediante la tendenziale esclusione delle
donne dal mercato del lavoro; l’equilibrio che la prima legislazione sociale dettò tra vita familiare e vita
lavorativa, che correva su una separazione dei ruoli di genere, tra le attività produttive e quelle
riproduttive, si tradusse in una codificazione di questa separazione come naturale: il nucleo sociale
normale ed essenziale diventava la famiglia fondata sul modello del maschio che porta lo stipendio
(breadwinner) e della donna casalinga.
Una delle eredità che l’Ottocento liberale ci ha lasciato è la costruzione dei ruoli sociali degli uomini e
nelle donne, la costruzione di “stereotipi” che assegnano l’uomo alla vita pubblica e al lavoro e la donna
alla sfera privata della riproduzione e della cura; più ancora, quel periodo ha lasciato la acquisita
consapevolezza dei governi, che disciplinare i ruoli di genere è un modo per governare il rapporto tra
economia e società. Quelli che un tempo furono codificati come modi normali di vivere sono oggi
chiamati ‘stereotipi di genere’, e, nello sforzo di incoraggiare le donne a entrare di più nel mondo del
lavoro, onde aumentare la complessiva produttività dei sistemi economici nazionali, la lotta agli stereotipi
è un ingrediente centrale delle politiche europee e nazionali del lavoro. Ma, per quanto diverse siano o
appaiano le odierne politiche sociali rispetto a quelle del passato, esse nascono dalla stessa radice, cioè
dalla presa d’atto che il modo in cui donne e uomini interpretano la propria vita è una scelta
influentissima per l’economia e dunque di rilevantissimo interesse per il governo.
7. Un bilancio dell’esperienza liberale
Io guardavo a uno stato morboso d’Italia, e ne
facevo la diagnosi. E il morbo è questo, che
abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e
l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che
ci danno i popoli nei tempi della decadenza o
della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I
patrioti si ritirano. La fede nelle patrie sorti si
indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e
all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle
passioni e degli interessi più volgari (Marco
Minghetti).
Nel 1894, Marco Minghetti, uomo della Destra storica, già presidente del Consiglio, intellettuale
raffinatissimo e cosmopolita, consegnò una analisi lucidissima e sconsolata del male che corrodeva la
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Nazione: l’uso strumentale dello stato da parte dei ‘politici’, dei partiti, che subordinano alla
conservazione del potere la gestione della cosa pubblica.
“Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte” egli osserva, “hanno una tendenza a
insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione e farvi penetrare spiriti partigiani per trarlo a profitto di
sé medesimo o degli aderenti loro o almeno per conservare forte vigoroso il partito, diffonderlo coi
benefici e con le minacce, e mantenere il governo nelle proprie mani”.
Pur ritenendo l’immischiarsi di interessi di parte nella gestione della cosa pubblica un male inevitabile di
ogni governo di partito, Minghetti riconosceva per il nostro paese una gravità del male particolarmente
forte, e dovuta a due cause precise: una magistratura e una amministrazione non indipendenti, perché non
cresciute culturalmente nel senso del rispetto delle proprie funzioni, perciò servili, e corrotte.
“Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di singoli individui che si fanno
gli atti amministrativi. Il favore e l’avversione, l’indugio e il diniego di provvedere, l’abuso e
il sopruso diventano consuetudine, e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello scontento
che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul quale abbiamo invocato le
meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del pubblico bene. E mi sia lecito ancora a
questo proposito di peccare di ripetizione lo insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e
ottenga il fine suo che è l’utilità generale è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo
spirito di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dall’intento di giovare al partito,
di assicurarne il trionfo, di mantenere la potestà pubblica nelle sua mani, di spegnere e
menomare le forze del partito opposto, di esercitare vendetta contro gli avversari, chi non
vede la lunga serie di guai e la corruzione che da questo stato di cose derivano?”
Per Minghetti, i rimedi erano una giustizia liberata dalla subordinazione al Governo e una
amministrazione decentrata, e soprattutto restituita alla società civile, che avrebbe dovuto essere
incoraggiata, secondo lui, a dare vita a istituzioni autonome formanti enti morali.
“Finché lo stato avrà a che fare con cittadini disgregati, finché gli atomi disciolti si
troveranno contro quel oltrapotente corpo che si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza
anche giusta sarà vano. Ed è perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di questa
metafora introdotta dal Romagnosi) si acconciano facilmente a un padrone, e, purché egli
rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà”.
Ma sfortunatamente fu questa seconda la direzione intrapresa. Senza mai abrogare l’ eguaglianza dei
regnicoli davanti alla legge, il fascismo poté approfondire la fragilizzazione delle loro libertà.
C.Il Fascismo
Secondo il giuspubblicista Allegretti “la monarchia sabauda e una classe dirigente oligarchica dominante
sul piano politico, economico e culturale durarono fino al momento in cui, sotto la paura del socialismo,
passano alla diversa forma dello stato fascista”. In altri termini: l’avvento del fascismo al potere segna in
Italia sì un cambio di regime, ma non un cambio di classe dominante, ed anzi è voluto dalle classi
dominanti per non perdere la loro egemonia.
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Né si deve trascurare l’osservazione che la nomina di Mussolini a capo del Governo, nel 1922, fu un
esempio di ricorso del re alla propria prerogativa di nominare il Governo senza tenere in considerazione
gli orientamenti delle Camere e gli schieramenti in esse presenti46. L’insediamento del regime fascista
avviene cioè grazie alla debolissima instaurazione in Italia di una forma di governo parlamentare, che
esige che il Governo sia l’espressione della maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento.
In effetti, la piegatura autoritaria di molti regimi europei tra le due guerre si spiega probabilmente proprio
con il timore delle classi che erano state egemoni di condividere il potere, o vederselo portar via, dalle
classi emergenti. Di fatto, e certamente non a caso, la dittatura fascista e quella nazista hanno compiuto
ben presto cosa l’azzeramento delle elezioni e la messa al bando dei partiti politici.
L’identificazione col capo e col partito unico, i bagni di folla, le esibizioni ginniche, le parole d’ordine, il
mito della razza, la sostituzione di appartenenze corporative alle appartenenze ideologiche e partitiche,
furono le pratiche e le teorie “narcotizzanti” che presero piede nel nostro Paese, come nella Germania
nazista. Questi furono i modi con cui le dittature europee della prima metà del Novecento intesero
ricostruire un senso di identificazione tra il popolo e lo Stato, sapendo che le persone non credevano più
nelle ideologie liberali dell’ “armonia” e volendo evitare che, al posto di quelle ideologie, prendessero
piede altri modi di appartenenza, quelli pluralistici che fanno capo al partito, al sindacato, agli interessi
comuni.
Si deve certamente distinguere un fascismo ‘movimento’ da un fascismo ‘regime’. Il fascismo
‘movimento’ fu uno dei molteplici fenomeni di contestazione e di crisi dello stato liberale, della sua
politica di ingiustizia sociale, privilegio e immobilismo, che segnarono gli inizi del Novecento e gli anni
tra le due guerre. Il fascismo fu vicino al sindacalismo rivoluzionario e anarchico, a movimenti artistici
d’avanguardia; espresse una ansia di rinnovamento, di trasformazione e anche una rivendicazione di
originalità nazionale: denunciando i limiti e i fallimenti dello stato liberale, lo contestava anche come
copia modestissima di forme politiche che avevano la loro origine nella storia di altri paesi, da cui le
avevamo importate. Opposto al comunismo, esso aveva però un messaggio sociale analogamente forte,
che si rivolgeva, più che agli operai, ai contadini, agli sradicati, ai reduci della guerra, ai piccoli
imprenditori rovinati dalla speculazione economica: a tutti coloro che soffrivano ingiustizie e non le
razionalizzavano nelle concezioni marxiste del conflitto di classe, ma non per questo le sentivano meno
profondamente e drammaticamente47. Il fascismo ‘regime’ fu altra cosa, il frutto di un accordo tra un
46
Circa l’avvento del fascismo, occorre tener presente che nel 1919 si erano svolte le elezioni politiche, con metodo proporzionale, che
avevano dato la maggioranza ai popolari (cattolici) e ai socialisti. Tuttavia, nonostante il loro schieramento parlamentare fosse minoritario, il
Re aveva dato l’incarico di nuovo ai liberali (Giolitti). Nel 1920 scoppiò in tutta Italia una serie clamorosa di scioperi, innescati dallo
‘sciopero delle lancette’ con cui gli operai della Fiat di Torino si erano ribellati al rifiuto della direzione della fabbrica di modificare l’orario
di ingresso degli operai dopo l’entrata in vigore dell’ora legale. I socialisti e i maggiori sindacati detterò però agli scioperanti un appoggio
molto debole, temendo altrimenti di perdere le proprie già deboli chances di essere considerati forza politica idonea a esprimere il governo. Di
qui, nel 1921, la scissione all’interno del partito socialista, da cui nacque il Partito comunista (tra i cui fondatori Antonio Gramsci). Tra le
gravi agitazioni del paese e la situazione di paralisi in cui il governo, che era in minoranza, si trovava, vennero sciolte le Camere e indette
nuove elezioni: erano le prime elezioni a suffragio universale maschile, e le prime cui partecipavano i fascisti. Il partito che li esprimeva,
ossia i Blocchi nazionali fascisti, ottenne 105 seggi contro i 123 dei socialisti e i 108 dei popolari. Venne nominato un nuovo governo
liberale (Bonomi). Mussolini decretò la marcia su Roma. Il Ministro dell’Interno, Facta, presentò al Re un decreto per porre Roma in stato
d’assedio, onde isolare e respingere i drappelli fascisti. Il Re rifiutò di firmare e dette l’incarico a Mussolini. Il re ricorrerò alla prerogativa
regia una seconda volta: quando il 25 luglio del 1943 convocherà al Quirinale Mussolini ‘sfiduciato’ dal Gran Consiglio del Fascismo, per
revocarlo (all’uscita dal palazzo Mussolini sarà arrestato), verosimilmente nell’intento di affermare l’autonomia delle sorti della Monarchia da
quelle del Fascismo, in quel momento ormai travolte dal declino, e in vista delle scelte future sull’assetto istituzionale del Paese.
47
Vi fu anche un importante fascismo giuridico, sul quale nel nostro corso non ci soffermeremo, ma che dette vita a una consistentissima
critica alle concezioni liberali ‘positiviste’, della quale qualche frutto interessante è trapassato nelle concezioni adottate dalla Costituzione
repubblicana. Per esempio, il fascismo negava che il diritto si riducesse al diritto positivo dello stato, e affiancò alla legge numerose nuove
fonti, dette ‘corporative’ (come gli accordi sindacali), che dovevano esprimere la capacità creativa di diritto della società. Una importante
creazione giuridica del fascismo, che riformò tutti i codici, fu in particolare il codice civile del 1942, tuttora vigente. La maggiore innovazione
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blocco conservatore decisissimo a evitare la rivoluzione socialista e Mussolini, che si era ben presto
rivelato disponibile a mettere le sue squadre armate a servizio degli interessi conservatori.
I provvedimenti che, in Italia, la dittatura fascista adottò circa la forma di governo sono tutti leggibili
come risposte, in chiave autoritaria, ai problemi che avevano agitato la nostra società tra la fine dell’800 e
l’inizio dell’800. Essi sono altrettante reazioni contrarie sia alla “parlamentarizzazione” del governo sia
alla democratizzazione della vita pubblica che stava seguendo la via della nascita e diffusione dei partiti e
dei sindacati.
Ricorderemo questi interventi per sommi capi.
Accentramento nel Governo, espressione del partito nazionale fascista, dei poteri normativi e di indirizzo
Si deve ricordare in particolar modo la legge n. 100 del 1926, la quale trasformò il Primo Ministro in
“Capo del Governo”, eliminando ogni forma di rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento e rafforzò il
potere normativo del governo consentendo a quest’ultimo l’adozione, in sostanza priva di limiti, di atti
normativi con forza di legge (decreti legge e decreti delegati) e di una ampia gamma di poteri
regolamentari che potevano essere adottati in mancanza di previa legge. Il Parlamento veniva così escluso
sostanzialmente dalla funzione normativa.
Come sappiamo, lo Statuto rendeva il Re parte del potere legislativo, ma gli negava il potere di
“dispensare dalle leggi o sospenderne l’osservanza”. Il Monarca, o meglio l’Esecutivo, non aveva il potere
di porre nel nulla, con propri provvedimenti o atti normativi, i deliberati parlamentari. Nella prassi,
specialmente tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, in Italia come altrove, erano
però invalsi i decreti legge, provvedimenti emanati d’urgenza dal Governo e capaci di sospendere
l’efficacia delle leggi, sia pure sottoposti alla conversione in legge come condizione per divenire
definitivi, e altresì era invalsa la prassi che vedeva la Camera delegare al Governo l’esercizio di poteri
legislativi su singole materie. Il fascismo si appropria di questi strumenti, e, avendo eliminato la natura
rappresentativa della Camera e il rapporto fiduciario tra essa e il Governo, fa di quest’ultimo, e dunque di
se stesso, il centro normativo del sistema. La legge n. 100 del 1926 prevede che il Governo possa emanare
decreti con forza di legge destinati a una vigenza provvisoria di due anni e rinnovabili; prevede inoltre
che la Camera possa delegare poteri legislativi al Governo “in bianco” cioè senza bisogno di definire
l’oggetto, i tempi e modi in cui il Governo eserciterà questa prerogativa.
In più, la legge n. 100 del 1926 disciplinò i poteri normativi secondari, o regolamentari, del Governo. La
legge n. 100 autorizzò il Governo a emanare regolamenti, oltre che per dare esecuzione alle leggi (e cioè,
ormai, agli atti normativi che esso stesso emanava: regolamenti esecutivi), per regolare materie per le
quali non esistesse ancora una disciplina legislativa (regolamenti indipendenti), nonché per disciplinare
l’organizzazione amministrativa, quand’anche già regolata con legge, in modo nuovo, cioè difforme dalle
leggi previgenti (regolamenti delegati). Questa tipologia dei regolamenti del Governo, che li distingue in
fu l’introduzione di una parte dedicata al lavoro (il libro V). In questa parte, oggi ampiamente abrogata, il fascismo esponeva la propria
concezione del lavoro, opposta alla concezione marxista. Mentre il marxismo vede datore di lavoro e lavoratore come portatori di interessi in
conflitto, il fascismo teorizzò la loro comune cooperazione nel superiore interesse dell’impresa, al cui sviluppo entrambi, in modi diversi,
cooperano. La particolare responsabilità sociale attribuita dal fascismo all’imprenditore spiega il severissimo regime del fallimento che da
allora, e fino a recenti modifiche, ha rappresentato una specifica caratteristica dell’ordinamento italiano, nel quale l’imprenditore fallito era
fino a poco tempo fa ridotto praticamente a un ‘paria’ la cui stessa corrispondenza privata doveva essere sottoposta all’esame del curatore
fallimentare.
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esecutivi, indipendenti e delegati, sarebbe rimasta vigente in Italia fino al 1988, anno in cui la legge n. 400
ha riordinato le attribuzioni regolamentari del Governo (nei modi che vedremo).
Con una legge del 1925 il fascismo revisionò poi la struttura del Governo. La legge istituì la figura del
Capo del Governo, Duce del Fascismo: se il Governo era stato attirato, durante il periodo statutario,
nell’orbita del Parlamento, ora l’eventualità vuol essere evitata per legge: il Governo ha una sua identità e
un suo capo; la fiducia parlamentare, cui per prassi i governi statutari ogni tanto guardavano, è abolita. Il
Governo è l’espressione di una sola parte, che è poi l’unico partito legittimo. I Ministri sono ancora
nominati dal Re, come vuole lo Statuto, ma la proposta è riservata al Capo del Governo, che sarà anche
Segretario del Partito nazionale fascista: il tratto totalitario del partito unico che occupa lo stato è qui
manifesto.
Con questi interventi il fascismo costruisce il Governo come istituzione forte, ben contornata di poteri
opportuni a garantire l’efficacia e l’effettività della realizzazione del suo disegno, verso il quale può
procedere autonoma. Il problema di un Governo debole e in mano alle consorterie parlamentari, non
abbastanza indipendente dalle pressioni dei partiti, che angustiavano i conservatori all’epoca della ‘crisi
di fine secolo’, fu senz’altro efficacemente risolto.
Trasformazione in senso plebiscitario del sistema elettorale
Nel 1928 il sistema elettorale fu trasformato in senso plebiscitario: la lista dei candidati alle elezioni era
unica, e veniva formata da un organo del Partito nazionale fascista, il Gran Consiglio del Fascismo, che fu
trasformato nel 1928 nell’organo di coordinamento e integrazione di tutte le attività del fascismo. Il Gran
Consiglio, presieduto dal Capo del Governo, sceglieva i candidati sulla base delle indicazioni delle
associazioni fasciste. Al corpo elettorale non restava che suffragare in blocco la lista (elezioni del 1929 e
del 1934).
Trasformazione in senso corporativo della rappresentanza
Nel 1939, con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, venne a cessare ogni parvenza di
rappresentatività del Corpo elettorale nel Parlamento: mentre il Senato rimaneva composto di membri
nominati e non eletti (e nominati sulla base di scelte del regime), la Camera non era più elettiva, ma
veniva composta, oltre che dal Duce del Fascismo, dai componenti dei Consigli nazionali del Partito
nazionale fascista e delle Corporazioni, organismi rappresentativi dei datori di lavoro e dei lavoratori,
controllati dal Governo e dal PNF.
L’amministrazione per enti
L’apparato ministeriale, intanto, sopravvisse abbastanza uguale a sé stesso. Una riforma del 1923 (la
riforma de Stefani), accorpò e riorganizzò i Ministeri, cresciuti per numero e dimensioni nell’ultima fase
dello stato liberale (per l’urgenza di affrontare i compiti legati alla guerra e alla ricostruzione).
Attribuendo ai dipendenti dello stato uno statuto giuridico particolare, incentrato sulla stabilità
dell’impiego, ma anche sulla organizzazione gerarchica delle mansioni e delle responsabilità, la legge De
Stefani volle rafforzare lo spirito di corpo dell’amministrazione, legando allo stato i suoi dipendenti e
funzionari grazie a un regime del lavoro differenziato da quello privato. Tuttavia, il fascismo concentrò il
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massimo dei suoi sforzi, ed espresse la sua maggiore forza innovativa, fuori dall’ambito
dell’amministrazione ministeriale. Esso preferì sviluppare un nuovo modello organizzativo, l’ente
pubblico, destinato a consentire l’intervento statale nell’economia e nella società, i compiti degli enti
andando dalla ricostruzione e riconversione industriale alla ricerca di idrocarburi, al contingentamento
della produzione agricola all’autarchia, all’organizzazione del tempo libero dei lavoratori (secondo il
carattere ‘totalitario’ del regime, orientato all’assorbimento della società civile nello stato).
Il modello dell’ente pubblico, che sarebbe rimasto caratteristico dell’organizzazione amministrativa
italiana repubblicana e che è del tutto originale della nostra esperienza, si forgia in questa fase come
alternativa alle amministrazioni ministeriali, strumento di attuazione del programma del regime e di
‘infeudamento’ di settori di intervento sotto il controllo di persone fedeli al regime. Politiche come
l’intervento nelle Regioni del Mezzogiorno, la ricostruzione di Messina, la creazione di un sistema
nazionale di assicurazioni erano già state affrontate, negli anni ’910 e ’920, con la creazione di apposite
strutture (Commissariati, Istituti); ora il modello diviene assolutamente preminente, perché l’ente pubblico
offre al fascismo la risorsa di una struttura organizzativa più flessibile del Ministero, più sensibile
all’indirizzo politico, e utile ad allocare il proprio personale politico, parallela a quella ministeriale.
Il significato strutturale che l’amministrazione per enti edificata dal fascismo non deve sfuggire. L’ente
pubblico realizza una modalità di intervento dello stato nell’economia, e di gestione delle politiche sociali,
che sarebbe rimasto tal quale nella esperienza repubblicana, sino alle ‘privatizzazioni’ iniziate negli anni
1992, e che sono state altrettanti interventi su enti pubblici o società da essi partecipate, onde trasferirne la
proprietà in tutto o in parte a società private o a partecipazione pubblica. In particolare, la creazione
dell’Iri (Istituto di riconversione industriale) nel 1933, fu una risposta al rischio di fallimento delle banche
italiane, sull’onda della crisi finanziaria del 1929. Lo Stato acquistò partecipazioni azionarie di
maggioranza nelle banche italiane e ne affidò la gestione all’Iri, la cui missione era utilizzare la liquidità
di cui diventava così titolare per finanziare l’acquisto o il salvataggio di imprese industriali. Attraverso
l’Iri, che è stato liquidato nel 2000, lo stato ha sostenuto in Italia, come proprietario o azionista di
maggioranza, pressoché per intero il settore siderurgico e dell’acciaio, navale, energetico e delle
comunicazioni.
Se Inail, Inps, e Ina, operavano nel campo delle assicurazioni sociali e del lavoro, ossia previdenziale,
costruendo l’ossatura del sistema di protezione sociale ancora oggi operante, l’IRI è stato il motore di una
via italiana al capitalismo che ha visto i maggiori settori industriali italiani svilupparsi grazie al sostegno
statale.
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