LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 6 NOVEMBRE / DICEMBRE 2015 R IVISTA BIMESTRALE DI DIRITTO E PRATICA DELLE OPERAZIONI STRAORDINARIE Direzione scientifica LUCA MIELE Dottore Commercialista - of counsel di Studio Tributario e Societario, Deloitte Comitato scientifico GIACOMO ALBANO Dottore Commercialista Partner Studio Legale Tributario EY GIUSEPPINA CAPALDO Direttore del Dipartimento di Diritto ed Economia delle Attività Produttive e Ordinario di Diritto privato nell’Università di Roma “La Sapienza” - Facoltà di Economia Avvocato e Dottore Commercialista FRANCESCA MARIOTTI Avvocato e Revisore Legale Direttore Area Politiche Fiscali di Confindustria PIERPAOLO MASPES Dottore Commercialista – Partner SCGT - Studio di Consulenza Giuridico-Tributaria MARCO PIAZZA Dottore Commercialista STEFANO CHIRICHIGNO Dottore Commercialista – Partner CMS EUGENIO DELLA VALLE Ordinario di Diritto tributario nell’Università di Roma “La Sapienza” FRANCESCO DELLI FALCONI RAFFAELE RIZZARDI Professore a contratto presso la Scuola Superiore Economia e Finanze Delegato al Comitato Tecnico della Confédération Fiscale Européenne LUCA ROSSI Dottore Commercialista – Partner FRS Dottore Commercialista – Partner SCGT - Studio di Consulenza Giuridico-Tributaria DANIELE UMBERTO SANTOSUOSSO GIANROBERTO DE GIOVANNI Ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Roma “La Sapienza” Avvocato – Partner Studio Legale Tributario EY RICCARDO GABRIELLI Dottore Commercialista Partner Studio Tributario e Societario, Deloitte ALBERTO GUIOTTO ALESSANDRO SURA Direttore della ricerca Organismo Italiano di Contabilità ALBERTO TRABUCCHI Dottore Commercialista – Partner SCGT - Studio di Consulenza Giuridico-Tributaria Dottore Commercialista – Partner Studio AGFM IVAN VACCA ENRICO LAGHI Condirettore generale Assonime, Responsabile imposizione diretta e Responsabile coordinamento imposizione indiretta Ordinario di Economia aziendale nell’Università di Roma “La Sapienza” SERGIO MARCHESE Dottore Commercialista – Partner Studio Gnudi & Associati ENRICO ZANETTI Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze Dottore Commercialista e Revisore Legale Gruppo di Studio Eutekne Periodicità, condizioni e modalità di abbonamento Abbonamento annuale € 290,00 Periodicità e distribuzione In vendita solo per abbonamento. 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Stampa a cura di Tipografia Commerciale srl Via Emilia 10 - 10078 Venaria (TO) www.tipografiacommerciale.com Testata registrata presso il Tribunale di Torino, n. 5 del 17 marzo 2013 Direttore Responsabile: Alessandro COTTO Il presente numero è stato chiuso in redazione il 21.12.2015 Tutti i contenuti sono soggetti a copyright. Qualsiasi riproduzione, divulgazione e/o utilizzo anche parziale non espressamente autorizzati da Eutekne spa sono vietati. La violazione sarà perseguita a norma di legge. Gli autori e l’Editore pur garantendo la massima affidabilità delle opere declinano ogni responsabilità per eventuali errori e/o inesattezze relativi all’elaborazione dei contenuti presenti nella rivista. Editore: EUTEKNE S.p.A. Via San Pio V, 27 - 10125 TORINO telefono +39.011.562.89.70 fax +39.011.562.76.04 e-mail: [email protected] www.eutekne.it Capitale Sociale € 180.000,00 i.v. Codice Fiscale, Partita I.V.A. e Registro Imprese di Torino 05546030015 6 NOVEMBRE/ DICEMBRE 2015 ANNO III Rivista bimestrale di diritto e pratica delle operazioni straordinarie 01 / Diritto Societario 6 LA “TRASFORMAZIONE” DELLA BRANCH DI UNA SOCIETÀ ESTERA IN UNA ENTITÀ LEGALE ITALIANA Norberto VILLA 02 / Tributi 13 LA NUOVA NOZIONE DI ABUSO DEL DIRITTO TRA AMBIGUITÀ E CONTRADDIZIONI Dario STEVANATO 28 ELUSIONE FISCALE: IL FOCUS È SUI VANTAGGI FISCALI INDEBITI Rosario DOLCE 38 QUESTIONI APERTE IN MATERIA DI EXIT TAX Andrea PRAMPOLINI 48 LA MISURAZIONE DEL CONTRIBUTO ECONOMICO DEGLI INTANGIBILI AI FINI DEL “PATENT BOX” Fabio BUTTIGNON 57 Giulia MILAN LA NUOVA FATTISPECIE DEL DELITTO DI DICHIARAZIONE INFEDELE Federica BARDINI 68 IL CREDITO PER LE IMPOSTE ASSOLTE ALL’ESTERO: LE RECENTI MODIFICHE Emanuele LO PRESTI VENTURA 77 GLI EFFETTI FISCALI DELLE MODIFICHE ALLE REGOLE CONTABILI SUI DERIVATI Francesco BONTEMPO 87 LA PERFORAZIONE DEI MARI OLTRE LE 12 MIGLIA NON CONFIGURA STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA Marco MARANI 94 PER LE “SORELLE” A CONTROLLO ESTERO LA DESIGNAZIONE APRE LE PORTE DEL CONSOLIDATO PREESISTENTE Antonio MASTROBERTI 104 LA TREMONTI AMBIENTE “ORA PER ALLORA” Stefano CHIRICHIGNO 114 Vittoria SEGRE NUOVE AGEVOLAZIONI PER L’INGRESSO IN ITALIA DI LAVORATORI Giuseppe MARIANETTI Anna Maria ZANGARDI 03 / Fiscalità Internazionale 122 IL NUOVO REGIME DI BRANCH EXEMPTION Federico DI CESARE 04 / Il Fisco che verrà 131 RIDOTTO A 5 ANNI IL PERIODO DI AMMORTAMENTO DI AVVIAMENTO E MARCHI A SEGUITO DI AFFRANCAMENTO Giacomo ALBANO 05 / Contabilità e Bilancio 139 IL COSTO AMMORTIZZATO NELLA RIFORMA DEL BILANCIO Stefano GUIDANTONI 06 / Crisi d’impresa 148 RISTRUTTURAZIONI DEI DEBITI, NOVITÀ PER PASSIVITÀ FINANZIARIE E FINANZA INTERINALE Michele BANA 07 / Giurisprudenza 157 “TRANSFER PRICING” INTERNO E VALORE NORMALE Corte di Cassazione 22.6.2015 n. 12844 Luca MIELE 01 DIRITTO SOCIETARIO DIRITTO SOCIETARIO LA “TRASFORMAZIONE” DELLA BRANCH DI UNA SOCIETÀ ESTERA IN UNA ENTITÀ LEGALE ITALIANA LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Norberto VILLA Consulente – Pubblicista 6 Le branch di società estere localizzate in Italia sono soggette a regole civilistiche che presentano, forse, margini di incertezza ancora maggiori rispetto a quelli dell’ambito fiscale. La scarsità di norme di diritto positivo che disciplinano il fenomeno rende complicate anche operazioni che qualora fossero effettuate da società potrebbero definirsi di facile attuazione. Nel presente articolo si individua il comportamento da adottare nell’ipotesi in cui una branch italiana di una società estera sia intenzionata a “trasformarsi” in una entità legale nazionale. L’analisi individuerà le possibili opzioni e i conseguenti adempimenti di natura civilistica, fornendo un vademecum per la soluzione ritenuta ottimale. 1 Premessa L’utilizzo della branch quale strumento per l’esercizio di un’attività in un Paese differente da quello di residenza dell’entità legale porta con sé una serie di problematiche di cui, solitamente, la gran parte è da riferire agli aspetti fiscali di tale fattispecie. Guardando però al solo ordinamento italiano vi è da dire che anche l’inquadramento civilistico di questi “soggetti” non è privo di dubbi. Il caso che vogliamo esaminare è quello della branch di un soggetto non residente che sia intenzionato ad effettuare il cosiddetto processo di “incorporation” ovvero (in termini operativi) di giungere alla “trasformazione” della branch stessa in un società residente. Le motivazioni di tale operazione possono essere differenti. Talvolta una spinta a tale decisione deriva dalle incertezze circa il trattamento giuridico della branch che ad oggi presenta molte lacune e che rende le stesse prive di una reale certezza circa le norme alla stessa applicabile1. Altre volte vi sono motivi di natura commerciale che spingono verso “l’incorporation”, come ad esempio nel caso in cui il mercato di riferimento dell’attività esercitata dalla branch mostri poca simpatia verso i fornitori che non sono strutturati, più classicamente, come società per azioni o a responsabilità limitata. L’inquadramento civilistico consegue alle previsione di cui agli artt. 2507 e ss. c.c. L’art. 2508 comma 1 c.c., in tema di società estere loca- 1 Se è certa l’assenza di personalità giuridica propria della branch esistono ancora incertezze legate alla rilevanza processuale della stessa o alla corretta applicazione nei suoi confronti della materia fallimentare. lizzate (anche) in Italia, prevede che le stesse qualora stabiliscano “nel territorio dello Stato una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile, sono soggette, per ciascuna sede, alle disposizioni della legge italiana sulla pubblicità degli atti sociali. Esse devono inoltre pubblicare, secondo le medesime disposizioni, il cognome, il nome, la data e il luogo di nascita delle persone che le rappresentano stabilmente nel territorio dello Stato, con indicazione dei relativi poteri”. L’art. 2508 c.c. identifica la fattispecie oggetto di esame come “sede secondaria di società estera con rappresentanza stabile in Italia”, ma nel presente articolo per definirla utilizzeremo la definizione di branch, termine assente nel nostro ordinamento, ma più spesso utilizzato dalla prassi operativa 2. Inoltre, la disciplina applicabile alla fattispecie in esame è anche conseguenza di quanto previsto dalla L. 31.5.1995 n. 218 “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”, che sarà più volte richiamata nei successivi paragrafi. 2 La volontà di incorporarsi Una volta individuata la volontà di “trasformarsi” da unità locale italiana a società costituita e riconosciuta in Italia occorre verificare le alternative possibili. In precedenza si è utilizzato più volte il termine “trasformazione” della branch in entità legale. Ma il termine è stato utilizzato in senso atecnico in quanto l’operazione disciplinata dagli artt. 2500 e ss. c.c., per i fini in esame, risulta inutilizzabile. Affinché si possa parlare di una trasformazione occorre trovarsi in una delle situazioni soggettive menzionate dagli artt. 2500-ter, 2500-sexies e 2500-octies c.c., i quali concedono la possibilità di trasformarsi alle società di persone, società di capitali, consorzi, società consortili, comunioni d’azienda, associazioni riconosciute e fondazioni. Il mancato richiamo alla branch impedisce di approfondire l’ipotesi. Le alternative che sono invece analizzate sono: • il trasferimento della sede legale della società estera nel territorio nazionale; • il conferimento della branch in una newco italiana. 3 Il trasferimento della sede legale della società estera L’ipotesi del trasferimento in Italia della società estera residente è una soluzione che pare percorribile. Ma è bene anticipare che la concreta utilizzabilità è condizionata dal risultato di alcune verifiche preventive e, anche qualora queste diano esito positivo, risulta una soluzione applicabile a non molti casi concreti. Operativamente, il risultato prefissato lo si ottiene dando rilevanza societaria alla branch non per via diretta, ma indiretta. La branch è un unità locale di una società estera; riuscendo ad attribuire “nazionalità” italiana alla società di cui è emanazione si ottiene lo scopo per via indiretta: la branch non diventa essa stessa una società residente, ma diviene un unità locale di una società residente. Il trasferimento della sede dall’estero all’Italia non comporta una nuova costituzione 3 in quanto (proprio in forza dell’art. 2508 c.c. sopra richiamato) la stessa risulta già essere un soggetto di diritto nazionale che però, in forza dell’art. 25 della L. 218/1995, diviene assoggettata alla normativa italiana 4. 2 Eviteremo, invece, l’utilizzo del termine stabile organizzazione, anch’esso talvolta utilizzato per identificare il fenomeno in esame, in quanto lo stesso sia in forza delle norme interne che di quelle convenzionali e sovranazionali (in primis OCSE) identifica una fattispecie avente rilievo in ambito tributario non sempre sovrapponibile alla sede secondaria con rappresentanza stabile in Italia. 3 Vedi sul punto Longo A., Paracchi M. “Questioni in tema di trasferimento della residenza fiscale di una società da uno Stato membro dell’Unione europea all’Italia”, Rass. trib., 2012, p. 420 e ss. 4 Ciò è ormai pacifico anche in ambito fiscale. Sul punto si richiama la risoluzione Agenzia Entrate 17.1.2006 n. 9 che ha analizzato il caso di una società spagnola che ha trasferito la sede in Italia e che, proprio partendo dal dato civilistico, 7 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 8 Come anticipato, perché ciò risulti possibile, è necessaria sul piano civilistico una verifica preliminare, in quanto la continuità giuridicoaziendale, pur in presenza del trasferimento della sede in Italia, è subordinata alla condizione che, anche nell’ordinamento di provenienza, la disciplina del trasferimento di sede non costituisca un evento estintivo. Tale problematica non si pone per i soggetti europei, in quanto basandosi sul principio della libertà di stabilimento deve ritenersi che il trasferimento sia permesso senza perdere la personalità giuridica e senza necessità di sciogliersi. Ma negli altri ordinamenti non è scontata la presenza di norme di tale natura, potendosi al contrario prevedere che al trasferimento della sede all’estero possa conseguire la liquidazione e cessazione del soggetto nel Paese di origine. Trasferimento della sede: le due situazioni Si possono analizzare quindi le due diverse ipotesi: 1.l’ordinamento straniero alle cui regole è assoggettata la società, nel caso di trasferimento della sede all’estero, prevede l’obbligo di estinzione dell’entità legale; 2.l’ordinamento straniero alle cui regole è assoggettata la società, nel caso di trasferimento della sede all’estero, prevede il mantenimento della personalità giuridica ed anche che non ne consegua l’obbligo di scioglimento. Qualora si dovesse ricadere nella prima ipote- 5 6 7 8 si, l’operazione perderebbe il suo interesse. In tal caso per giungere allo scopo della cosiddetta “incorporation” della branch italiana, si dovrebbe infatti prima estinguere la società estera e successivamente costituire la nuova società in Italia. Considerando poi che la branch italiana e l’entità legale estera sono un unico soggetto giuridico, la liquidazione dell’entità legale comporterebbe la necessità di una estinzione della branch, con la necessità quindi di dover prima liquidare i beni e i valori posti in capo alla stessa per poi doverli conferire al nuovo soggetto italiano5. Da ciò l’esercizio dell’attività da parte della branch italiana verrebbe cessato per un periodo più meno lungo6 con il venir meno della continuità dell’attività, con tutte le conseguenze del caso7 (presumibilmente contrarie all’obiettivo prefissato). Da un punto di vista meramente giuridico, l’obiettivo di “trasformare” la branch italiana in una entità legale per il tramite del trasferimento di sede dall’estero potrebbe, invece, essere ottenuto nel caso di società europea o comunque riferita ad un altro ordinamento in cui l’operazione non produce un effetto estintivo. In tal caso, infatti, sarebbe assicurata la continuità giuridico-aziendale della branch italiana. Si ipotizzi la situazione in cui la branch italiana risulti essere l’unità locale di una società situata in un Paese che non prevede la liquidazione ed estinzione della stessa quale conseguenza del trasferimento della sede all’estero. Il trasferimento della sede in Italia (come già anticipato) porterebbe in via indiretta ad ottenere anche per l’unità locale italiana lo status di soggetto giuridico8. secondo cui il trasferimento in Italia della sede sociale non comporta l’estinzione della società e non ne pregiudica la continuità, estende tali considerazioni anche in ambito fiscale. È evidente che anche da un punto di vista fiscale tale operazione assumerebbe la connotazione di un evento realizzativo. Grazie ad un attento timing dell’operazione, l’interruzione potrebbe anche essere molto breve. Si pensi a cosa ciò potrebbe comportare nel caso in cui la branch italiana fosse titolare di beni immobili o mobili registrati, di licenze, autorizzazioni o simili. Nell’analisi come premesso non si sono affrontati i temi di rilevanza fiscale. Per una panoramica completa ed esauriente degli stessi si rimanda a Piazza M., D’Angelo G., Valsecchi M. “Aspetti fiscali del trasferimento della sede in Italia”, il fisco, 2015, p. 56 e ss.; Di Cesare F., Gabrielli R. “Il trasferimento della sede e della residenza fiscale in Italia”, in questa Rivista, 2, 2014, p. 58-71. La procedura Osservazioni operative Il codice civile non si interessa della fattispecie in esame9, trattando solo dell’ipotesi del trasferimento della sede all’estero10. La disciplina applicabile la si individua allora nell’art. 25 comma 3 della L. 218/1995 in cui si dispone che “i trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti con sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”. Tali principi sono da ritenere applicabili sia per operazioni che coinvolgono imprese comunitarie che per quelle da riferire ad altri ambiti territoriali. Ciò in quanto: • l’art. 12 comma 2 delle Disposizioni sulla legge in generale prevede che occorre valutare la natura dell’operazione di trasferimento in Italia della sede sociale, al fine di individuare le disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se nemmeno questo è possibile, soccorrono i principi generali dell’ordinamento giuridico; • l’art. 2507 c.c. (“Rapporti con il diritto comunitario”) prevede che l’interpretazione e l’applicazione delle norme del Capo XI (“Delle società costituite all’estero”), deve uniformarsi agli indirizzi europei. Ciò detto, con riguardo agli aspetti procedurali11, “nel caso di trasferimento della sede di società estera in Italia è obbligo del notaio che riceve in deposito l’atto estero di trasferimento verificare la legittimità e la conformità dell’atto medesimo alla «lex societatis» ed alle norme italiane, nonché la sussistenza delle «condizioni stabilite dalla legge» per richiederne l’iscrizione nel Registro delle imprese”. Lo strumento sopra analizzato parrebbe quindi utilizzabile ai nostri fini: in realtà la sua efficacia è limitata ad alcuni specifici casi. Lo schema proposto, infatti, risulta agevole solo nel caso in cui la società estera non risulti essere altro che il contenitore della branch italiana (in questo caso non si deve comunque dimenticare che l’operazione progettata farebbe quanto meno cambiare la “nazionalità” delle partecipazione detenute dai soci)12. Ma nel caso in cui la società estera sia maggiormente strutturata, il trasferimento della sede non risolverebbe i problemi ed anzi potrebbe crearne di nuovi. Ciò in quanto con il trasferimento della sede ci si potrebbe addirittura ritrovare con una situazione completamente rovesciata rispetto a quella iniziale: si avrebbe l’esistenza di un entità legale in Italia con una branch invece stabilita in un altro Paese. 4 Il conferimento La seconda opzione analizzata è quella che per raggiungere l’obiettivo (“incorporation”) utilizza lo strumento del conferimento di ramo aziendale. Una verifica necessaria e preliminare consiste nell’accertamento della presenza di un’azienda “contenuta” nella unità locale italiana. Sia il fatto che l’insediamento italiano risulti essere stato ufficializzato, ai sensi degli artt. 2407 e ss. c.c., che la volontà di trasformare la stessa in una entità legale italiana, portano a ritenere che la verifica porterà ad una risposta 9 Per una disamina dei risvolti civilistici dell’operazione si veda Furian S. “Il trasferimento della sede (e della residenza fiscale) in Italia di società di diritto comunitario: profili civilistici, contabili e fiscali”, il fisco, 2006. 10 Sul punto i riferimenti sono l’art. 2369 co. 5 c.c., il quale dispone che nel caso di trasferimento della sede sociale all’estero è necessario in seconda convocazione il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più di un terzo del capitale sociale, e l’art. 2437 c.c. il quale comprende tale situazione tra quelle che consentono l’esercizio del diritto di recesso. 11 V. Massima Consiglio Notarile di Milano, Registro imprese, 16.10.2007 n. 9 “Trasferimento sede di società italiana all’estero e di società estera in Italia”, in Banca Dati Eutekne. 12 L’operazione mostra la sua adattabilità nel caso del rimpatrio delle holding estere, ma lascia molte incertezze quando la società estera risulta anch’essa operativa. 9 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 10 positiva, pur non potendosi escludere in modo assoluto un’ipotesi contraria 13. Superato ciò ci si deve chiedere se la “trasformazione” di una branch italiana da parte di un soggetto estero in una newco anch’essa italiana, sia operazione riconducibile alla disciplina dettata dal codice civile per i conferimenti di aziende e rami. Il riferimento è dato dagli artt. 2343-ter e 2465-bis c.c. Da una lettura delle norme richiamate non si intravvedono ostacoli a tale possibilità in quanto le disposizioni fanno unicamente riferimento all’oggetto dell’operazione, non ponendo invece limiti di tipo soggettivo. Pertanto è possibile ricostruire i passaggi civilistici necessari. Il primo punto consiste nell’individuazione dell’esperto chiamato alla redazione della valutazione14. A tali fini è preliminare l’individuazione della natura del soggetto conferitario, condizione che comporta la necessità di una nomina tribunalizia (nel caso di conferitaria spa) o di parte (nel caso di conferitaria srl). Ma in sede di organizzazione dell’operazione, forse ancora prima della scelta del tipo societario della conferitaria, è opportuno scegliere tra le due opzioni possibili: • la newco può essere conferita in forza del conferimento • o, invece, essere prima costituita per poi ricevere il conferimento con contemporaneo aumento del capitale sociale. A prima vista la prima opzione parrebbe di più semplice soluzione, se non altro perché in tal modo si ottiene l’unione in un unico atto di due distinti processi (la costituzione e il conferimento). In verità, soprattutto quando oggetto di conferimento sono aziende con una certa attività, la seconda soluzione risulta spesso preferibile. Ciò in quanto la possibilità di operare il conferimento in una società già costituita consente un miglior governo dell’operazione. Si pensi solo al fatto che solo nella seconda ipotesi vi è la possibilità di posticipare l’effetto dell’operazione (magari per farlo coincidere con l’inizio di un periodo fiscale, di una stagione commerciale, ecc.) e che solo così facendo si può già in sede di progettazione avere la certezza di quando il conferimento avrà davvero efficacia15. Tutto ciò spesso semplifica la fase iniziale, in quanto nel momento del conferimento la newco risulterebbe già pronta ad operare, e non solo perché già iscritta presso il Registro imprese, ma perché anche già dotata di un organo amministrativo, di proprie posizioni fiscali, ecc. Analizzando le due ipotesi, occorre però distinguere anche le modalità del conferimento: • nel primo caso si tratterà di una costituzione della newco a cui verrà conferito il ramo d’azienda che, in forza della valutazione peritale, potrà esser dichiarato sufficiente a sottoscrivere e versare la quota di capitale riservata alla conferitaria; • nel secondo caso, invece, la newco deve deliberare un aumento di capitale ed a tal fine il conferimento consisterà in un’assemblea straordinaria che delibererà il quantum dell’aumento e l’eventuale sovrapprezzo, sempre tenendo presente come limite massimo il dato peritale. Quindi il socio prima sottoscriverà l’aumento e contestualmente lo “verserà” grazie al conferimento. L’estinzione della branch Qualunque dovesse essere la strada scelta per 13 Non è possibile escludere a priori che l’apertura della branch italiana intervenga in assenza di un ramo di azienda, anche perché non è questa una delle condizioni a cui è subordinata la sua iscrizione presso il Registro imprese. Ma in assenza di un azienda sfuggono le ragioni di una “incorporation” dell’unità locale italiana. Qualora l’obiettivo fosse quello dell’inizio di una reale attività in Italia, forse la soluzione più semplice sarebbe quello della chiusura della unità locale (priva di azienda) con costituzione di una newco. 14 Non si prenderà in considerazione l’ipotesi in cui il conferimento abbia come conferitario una società di persone, pur se anche tale operazione risulta possibile. 15 Nel caso di costituzione tramite conferimento, tale data è invece sottoposta ai tempi dei Registri imprese, in quanto in tale ipotesi non è possibile prevedere l’efficacia posticipata del conferimento. conferire l’azienda della branch, da un punto di vista civilistico, dopo tale fase ne deve conseguire una ulteriore, in quanto l’unità locale in Italia della società con sede all’estero non risulta estinta in forza di tale operazione. Come sempre capita, il conferimento non comporta (anche nel caso di conferimento riguardante tutta l’azienda) l’estinzione della conferente: ciò deriva da un operazione autonoma e successiva rispetto al conferimento vero e proprio. Quindi, successivamente alla costituzione della newco o all’assemblea di aumento del capitale, l’unità locale italiana (ormai vuota) deve essere cancellata dal Registro imprese: Ciò “è una conseguenza necessaria dello «svuotamento» della branch: essa non è più una sede stabile nella quale vengano esercitati affari, essendo stata la sua azienda conferita in altro soggetto giuridico”16. Anche in questa situazione occorre coordinare le tempistiche. La chiusura della filiale deve conseguire ad una decisone assunta dagli organi a ciò competenti nello Stato estero. Tale decisione (delibera) deve essere depositata presso un notaio italiano ma è evidente che ciò debba intervenire dopo che il conferimento ha avuto effetto. Occorre, nella sostanza, ripercorre a ritroso la strada intrapresa in sede di apertura della filiale italiana. In tal caso, per poter iscrivere l’unità locale, è necessaria una delibera della società estera da cui emerga la sua volontà, delibera che dev’essere depositata in traduzione autentica negli atti di un notaio italiano, il quale deve provvedere all’iscrizione presso il Registro imprese. 5 Osservazioni fiscali In chiusura, si offrono sintetiche osservazioni circa la rilevanza fiscale della soluzione proposta17. Si ritiene che in tale ipotesi trovi piena applicazione l’art. 176 del TUIR, come è stato confermato anche dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate che, nella risoluzione 22.5.2007 n. 110, ha affermato che “al conferimento di stabile organizzazione che la società non residente Alfa 1 prevede di effettuare, nel corso dell’esercizio 2007, in una società - Beta – residente nel territorio dello Stato, è applicabile il regime di neutralità di cui all’art. 176 del TUIR, in base al combinato disposto degli artt. 178, comma 1, lettera c), e 179, comma 2, del TUIR”. Sempre in tale riferimento della prassi amministrativa trovano anche conferma alcune delle indicazioni riportate nei paragrafi precedenti, dove si afferma che “ancorché comunemente definito «incorporazione di stabile», il conferimento di stabile organizzazione è giuridicamente e fiscalmente assimilabile ad un conferimento d’azienda – anche sul piano della disciplina comunitaria – atteso che la stabile organizzazione non è un soggetto giuridico autonomo tale da poter essere coinvolto in un’operazione di fusione o scissione”. Pertanto da ciò deriva, come già individuato con riguardo agli aspetti civilistici, che anche in ambito fiscale l’operazione descritta risulta essere un “conferimento di ramo d’azienda” che diviene la disciplina a cui rifarsi sia per gli aspetti procedurali che sostanziali della “incorporation” della branche in entità legale. 16 Vedi “Trasformazione di «branch» extra-Ue in società di capitali italiana” a cura della Commissione di diritto societario dell’Ordine dei dottori commercialisti di Milano, Dir. prat. soc., 9, 2009, p. 79 e ss. 17 Per una ampia analisi di tali aspetti si rimanda a Di Pillo V. “Il conferimento d’azienda e di ramo d’azienda in ambito UE”, Bilancio e reddito d’impresa, 2015, p. 47 e Fasolino A. “Il conferimento/incorporazione di stabile organizzazione”, in questa Rivista, 3, 2013, p. 71-76. 11 02 TRIBUTI TRIBUTI LA NUOVA NOZIONE DI ABUSO DEL DIRITTO TRA AMBIGUITÀ E CONTRADDIZIONI Dario STEVANATO Professore ordinario di diritto tributario nell’Università di Trieste – Avvocato La nuova disciplina dell’abuso del diritto appare, nonostante gli sforzi compiuti, in gran parte inadeguata e non sarà verosimilmente in grado di influire positivamente sugli indirizzi giurisprudenziali in voga. Il rischio è che, ancora una volta, in presenza di un percorso negoziale anche semplicemente equipollente, quanto a risultati economico-sostanziali, rispetto ad altri percorsi fiscalmente più onerosi, si concluda per l’elusività del comportamento. E, quindi, si continui a identificare l’elusione alla stregua di un “uso distorto delle forme giuridiche”. 1 L’equivoco dell’elusione tributaria come “abuso delle forme giuridiche” L’idea che l’elusione consista in un “abuso” delle forme giuridiche, finalizzato a sottrarre una certa “operazione economica” al suo regime fiscale naturale, è molto diffusa, ed ha condizionato, come tra breve vedremo, la riformulazione della norma antielusiva e il testo del nuovo art. 10-bis della L. 212/20001. Il comportamento elusivo, secondo questa ricostruzione, sarebbe volto a evitare l’imposta normalmente applicabile a quel risultato: per raggiungere tale obiettivo, verrebbero “piegati” negozi giuridici non confacenti a quel tipo di operazione economica. L’aggiramento, secondo questa visione, opererebbe dunque al livello dei negozi giuridici, sostanziandosi nell’uso di forme negoziali eccentriche in luogo di altre, “normali” e fiscalmente più onerose. Le norme antielusive, secondo questa diffusa concezione, avrebbero cioè il compito di adeguare la tassazione alla “sostanza economica” delle operazioni poste in essere, superando e disapplicando il regime fiscale assestato sulla “forma giuridica” della strumentazione negoziale utilizzata. Questa impostazione, nell’assegnare a mio avviso alla norma antielusiva compiti impropri, postula una tassazione necessariamente orientata al risultato economico sotteso ai negozi giuridici, e la possibilità di individuare un unico 1 Inserito dall’art. 1 del DLgs. 5.8.2015 n. 128, pubblicato in G.U. 18.8.2015 n. 190. Sul tema si rinvia, più ampiamente, al Manuale Eutekne, AA.VV. “Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici”, a cura di Miele L., gennaio 2016. 13 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 14 schema giuridico come referente della “giusta imposizione” di quel risultato, rispetto al quale altri possibili percorsi alternativi – fiscalmente meno onerosi – avrebbero carattere deviante. Tale concezione affonda le sue radici nell’interpretazione funzionale della “Scuola di Pavia” e nel dibattito sull’art. 8 della vecchia legge di registro (RD 3269/1923)2, ma continua a esercitare molte suggestioni, tanto da indurre taluni a inquadrare le norme antielusive tra quelle concernenti l’interpretazione analogica, in modo da estendere il regime fiscale previsto per la fattispecie “tipica” alle fattispecie atipiche o innominate3, trascurando così, tra l’altro, che la fattispecie realizzata e oggetto di sindacato è molto spesso anch’essa regolata dalla legge, sia pure in termini fiscalmente meno onerosi, dunque a rigore in molti casi mancherebbero in radice i presupposti (la lacuna o vuoto normativo) per l’interpretazione analogica. Questo approccio, influenzato dalla nozione di abuso del diritto tributario che la Cassazione ha ritenuto di poter ricavare dall’art. 53 della Costituzione, appare tuttavia inaccoglibile, nella misura in cui sottende l’illusione di desumere direttamente dall’art. 53 la “capacità contributiva” del contribuente, senza la mediazione delle singole norme impositrici: chi propugna una concezione di questo tipo attribuisce all’art. 53 portata immediatamente precettiva, di regola immediatamente applicabile ai singoli casi concreti. Stabilita una presunta equivalenza della “capacità contributiva” manifestata in operazioni implicanti un diverso regime legale di tassazione, l’applicazione del divieto di abuso del diritto determinerebbe così l’applicazione alla fattispecie (previa disapplicazione della norma “formalmente applicabile”) della norma ritenuta più “congrua” a quel risultato, come se si trattasse di un caso non disciplinato dalla legge, da risolvere appunto in base all’analogia. Si tratta per altro verso della riprova delle insormontabili difficoltà che la dottrina palesa nella preliminare opera di “regolamento dei confini” rispetto a figure diverse dall’elusione, ovvero l’interpretazione analogica, la simulazione, la qualificazione dei contratti, fino addirittura ad appiattire l’elusione sull’evasione e in tal modo estendere alla prima le sanzioni previste per la seconda 4. Senza così 2 Si veda ad esempio, a tal riguardo, Jarach D. “Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro”, Dir. prat. Trib., 1938, I, p. 98, per il quale, identificata la causa dell’imposta nella capacità contributiva, “ne discende la logica conseguenza dell’applicazione delle tasse di registro agli atti secondo il loro contenuto economico, e non secondo il loro travestimento giuridico. Dico travestimento, perché quando la veste giuridica è normale e si adatta perfettamente al contenuto economico dell’atto non v’è ragione di distinguere tra natura economica e natura giuridica”. Per l’Autore citato le imposte “non possono avere come fattispecie che un fatto indicante capacità contributiva; il logico criterio di applicazione non può essere che quello della sostanza economica della fattispecie, anche se essa si presenta sotto vesti giuridiche difformi da quelle normali per l’intento pratico seguito dalle parti” (p. 102). Su questi temi mi sono già soffermato in altre occasioni: v. ad esempio Stevanato D. “Elusione tributaria, abuso dell’autonomia negoziale e natura del risparmio d’imposta”, Riv. giur. trib., 2006, p. 614 e ss. 3 Così Falsitta G. “Manuale di diritto tributario. Parte generale”, Cedam, Padova, 2012, p. 224, per il quale il ragionamento alla base della norma antielusiva si può così esemplificare: “se viene disposto (dalla legge tributaria) che la realizzazione del risultato giuridico-economico X debba essere tassato, a carico del contribuente Tizio che l’ha posto in essere con l’impiego di negozi che la legge espressamente prevede, con l’imposta del 10%, lo stesso, preciso trattamento deve riservarsi a chiunque realizzi quello stesso risultato giuridico-economico anche se, al fine di ottenerlo, il soggetto Caio che l’ha realizzato ha impiegato, aggirandoli, non i negozi previsti dalla legge per la tassazione del 10%, ma una concatenazione anomala e inconsueta di negozi cui la legge riserva o una tassazione più lieve del 10% o nessuna tassazione”. 4 Come ritiene da ultimo Giovannini A. “L’abuso del diritto nella legge delega fiscale”, Riv. dir. trib., 2014, I, p. 242, per il quale “la distinzione tra evasione ed abuso fotografa non già due fenomeni tra di loro diversi e separati, come si sostiene per negare la sanzionabilità dell’abuso (o impropriamente dell’elusione), ma due profili del medesimo fenomeno: l’abuso descrive la condotta, l’evasione il risultato […] La distinzione tra abuso ed altre forme di risparmio illegale di imposta, insomma, non risiede nel risultato, ossia nell’evasione, ma nelle condotte”. In precedenza, su questa stessa linea, Vanz G. “L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica”, Rass. trib., 2002, p. 1612, per il quale l’elusione illecita (cioè quella vietata dal legislatore) altro non è che un fatto di evasione, consistente nella violazione della norma sostanziale antielusiva. Sul punto, del tutto condivisibilmente, vedi invece Vacca I. “L’abuso e la certezza del diritto”, Corr. Trib., 2014, considerare che il potere di constatare l’inopponibilità del comportamento ritenuto elusivo attiene alla fase dell’accertamento, mentre la dichiarazione presentata dal contribuente, quand’anche poi contestata nei suoi effetti dall’Amministrazione, non può essere considerata “infedele” fin dall’origine, giacché il contribuente non può certo essere tenuto e nemmeno autorizzato a disapplicare il regime giuridico-fiscale delle operazioni poste in essere, sostituendolo con uno in ipotesi più conforme allo “spirito del sistema”. Questo potere, che implica un vero e proprio over-ruling e non certo un’interpretazione analogica, è palesemente concesso soltanto all’Amministrazione, mentre non esiste alcuno speculare “dovere” del contribuente di autoapplicare la norma antielusiva, di conformare la propria dichiarazione, anziché agli atti giuridici posti in essere, a quelli (più “normali”) che avrebbe dovuto porre in essere, anche perché non si vede come il contribuente possa pronosticare l’operazione alternativa il cui regime fiscale gli sarà magari un giorno opposto dall’Amministrazione. Tantomeno si può pretendere dal contribuente una certa condotta sul piano civilistico, imponendogli di adottare una strumentazione negoziale ad esclusione di altre, in quanto in tal modo le norme fiscali finirebbero per comprimere in modo eccessivo e sproporzionato il principio di autonomia privata. L’inapplicabilità delle sanzioni all’elusione, al di là delle scelte compiute dalla legge delega 23/2014 e dal legislatore delegato, dovrebbe peraltro discendere proprio da questa elementare constatazione, oltre che dalla mancanza di una violazione in senso tecnico, visto che chi elude non infrange alcuna regola, mentre ritenere che la violazione riguardi un dovere di “buona fede oggettiva”, e che l’elusione rilevi come “comportamento artificioso lesivo del diritto del creditore”5 , non considera che non esiste un’obbligazione di pagamento del tributo legata ai “risultati economici”, bensì ai negozi giuridici posti in essere, che il contribuente è libero o meno di stipulare, anche in ragione del carico fiscale che agli stessi si riconnette. Nelle ricostruzioni della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza, il percorso “alternativo” a quelle ritenuto “normale”, che ha consentito il pagamento di un’imposta inferiore e che non è chiaro in base a quali parametri possa essere considerato “anomalo” o “inconsueto”, diventa invece automaticamente un comportamento che aggira i negozi cui si collegava una maggiore tassazione. Solo che ad essere oggetto di aggiramento non sono certo i negozi giuridici o le norme fiscali che vi collegano una certa tassazione, bensì i principi dell’ordinamento tributario6: nel caso in questione, evidentemente, quelli dei sottosistemi impositivi coinvolti dalle operazioni poste in essere dal contribuente. 2 L’illusoria pretesa di ancorare la tassazione a una “sostanza economica” rappresentata da archetipi giuridici A ben vedere, dietro alla dottrina “substance over form”, che sostiene l’esigenza di ancorare l’imposizione fiscale alla realtà sostanziale an- p. 1128, per il quale “l’abuso (alias elusione) è cosa senz’altro diversa dall’evasione. L’evasione infatti, si sostanzia nell’occultamento del reddito in violazione di specifiche norme dell’ordinamento, mentre il comportamento abusivo consiste nel non far nascere i presupposti dell’imposizione, pur senza violare direttamente alcuna regola normativa”. 5 Così Giovannini A., cit., p. 242. In senso contrario, La Rosa S. “L’accertamento tributario antielusivo”, Riv. dir. trib., 2014, p. 505. 6 Come osservano giustamente Atienza M., Ruiz Manero J. “Illeciti atipici”, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 81, nella frode alla legge “non si viola, in realtà, alcuna regola, né direttamente né indirettamente: si viola un principio. Data tuttavia la connessione giustificativa che esiste tra regole e principi, questa violazione dei principi porta a modificare la regola (la cui mancanza di giustificazione è stata mostrata chiaramente proprio grazie all’atto fraudolento), per ripristinare in tal modo la coerenza dell’ordinamento (l’adeguamento tra i principi e le regole)”. 15 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 16 ziché alla forma giuridica, non vi è la pretesa di tassare direttamente una ricchezza informe, non qualificata giuridicamente, quanto di applicare l’imposta prevista per quel certo atto o strumentazione negoziale in grado di meglio manifestare e rappresentare il presupposto economico che si suppone la legge fiscale avesse di mira; insomma, una specie di “avatar” giuridico in grado di dare veste formale alla sottostante realtà sostanziale. Anche il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, e la necessità di adeguare l’imposizione all’effettiva capacità contributiva corrispondente alla “sostanza economica della fattispecie”, non può fare a meno di veicolare la tassazione attraverso una diversa “forma giuridica”, ritenuta più aderente a quella certa realtà sostanziale. Il principio “substance over form” si rivela dunque per certi aspetti mistificatorio, giacché la sua applicazione si traduce nella sostituzione non già della sostanza alla forma, bensì di una forma all’altra. L’effetto economico su cui assestare la tassazione diventa quello connaturato a un diverso schema negoziale, che il privato avrebbe dovuto stipulare, date le circostanze e un canone di “normalità” comportamentale. In effetti, anche la tassazione basata su norme antielusive non può prescindere dall’individuare una fattispecie normativa in cui reinquadrare il comportamento del contribuente, poiché altrimenti verrebbe vulnerato il principio di riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte e di tributi. La norma antielusiva può insomma consentire all’Amministrazione di applicare un diverso regime legale di imposizione rispetto a quello corrispondente agli atti posti in essere dal contribuente, ma non può applicare direttamente un’imposta ad un certo “risultato empirico” senza averlo prima inquadrato all’interno di una fattispecie astratta, cioè di una norma positiva. Ciò emergeva, del resto, anche dalla formulazione dell’art. 37-bis del DPR 600/1973, secondo cui l’Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari “applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse”, e risulta confermato dalla nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fi- scale, introdotta – in attuazione della legge delega n. 23 del 2014 – nell’art. 10-bis della L. 212/2000, secondo cui l’Amministrazione disconosce i vantaggi “determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi”. Quest’ultima formulazione attribuisce correttamente rilevanza ai “principi”, oltre che alle “norme”, per la ricostruzione della fattispecie elusa, ma ciò non toglie che la richiesta del maggior tributo dovrà avvenire previa individuazione di un regime legale di tassazione, tra quelli previsti dall’ordinamento. L’equivoco in cui cade la prospettiva ricostruttiva maggioritaria è quello di pensare che esista un unico “percorso giuridico”, un solo schema negoziale in grado di fornire adeguata rappresentazione a un certo obiettivo economico, e non invece una pluralità di strumenti e percorsi rispetto ai quali è assai difficile e comunque opinabile assegnare una patente di “normalità”, stabilire una scala di priorità o una gradazione in termini di meritevolezza. Non vi è dubbio che le fattispecie impositive, che fanno spesso riferimento a tipi contrattuali e figure tratte dal diritto dei privati (compravendita, usufrutto, conferimento, locazione, mandato, ecc.), rilevano per la sottostante “sostanza economica”, giacché le imposte si applicano su indici di capacità contributiva e forza economica; il loro obiettivo è infatti misurare la ricchezza su cui prelevare l’imposta, e per farlo le norme tributarie sfruttano le occasioni in cui tale ricchezza si manifesta nel mondo degli affari, negli scambi che hanno luogo sul mercato, più in generale nelle sistemazioni di interessi economico-patrimoniali tra privati. Mi sembra tuttavia illusorio pretendere di ravvisare una corrispondenza univoca tra “sostanza economica” su cui esercitare il prelievo e “forma giuridica” idonea a rappresentarla, tanto da ricondurre alla prima, quoad effectum, anche tutte le altre possibili “forme” non ritenute normali nel perseguire quel certo risultato pratico. Di solito, infatti, esistono plurime modalità e combinazioni negoziali per perseguire un certo intento economico, ad esempio per attuare un finanziamento oneroso, per dotare patrimonialmente una società, per trasferire la proprietà di un bene, e così via. Ora, pretendere di associare a tutti i percorsi negoziali economicamente equipollenti a quello considerato “normale” il regime fiscale previsto per quest’ultimo, significa compiere un’opzione ideologica arbitraria, riscrivendo regole già sancite dal legislatore. Le fattispecie imponibili, certamente concepite in funzione della ricchezza da tassare, una volta introdotte cristallizzano le scelte del sistema, impedendo all’interprete di attingere direttamente ad una “sostanza economica” non filtrata da regole giuridiche, e ciò anzitutto in ossequio all’art. 23 della Costituzione. Una volta che il legislatore ha selezionato le fattispecie imponibili attraverso il riferimento a tipologie negoziali, non si può pretendere di attingere direttamente, in via interpretativa, alla “sostanza economica” sottostante ai singoli negozi posti in essere, sussumendoli tutti nell’ambito di una fattispecie paradigmatica di quella ricchezza che si ipotizza il legislatore volesse immancabilmente tassare in un determinato modo, considerando tale fattispecie alla stregua di un alter ego giuridico di quella sostanza economica. La tesi che stiamo commentando ritiene invece che un risultato economico dovrebbe essere invariabilmente tassato secondo un’unica regola di tassazione, predisposta in funzione di una forma giuridica costituente l’idea platonica di quella ricchezza. Per attingere direttamente ai risultati economici, e su questi richiedere le imposte, indipendentemente dalle forme giuridiche utilizzate, occorre che nella costruzione giuridica della fattispecie tributaria si faccia esplicito riferimento a un certo tipo di risultato economico: si pensi all’utilizzo, nelle norme su ricavi e plusvalenze, della locuzione “cessione a titolo oneroso”, riferibile non solo alla compravendita ma altresì alla permuta, al conferimento in società, al trasferimento di diritti reali di godimento. Oppure si pensi all’imposta sulle donazioni con il riferimento alle liberalità indirette, risultato empirico che può essere raggiunto utilizzando atti e negozi che non si qualificano in senso liberale e possono avere causa onerosa, gratuita o neutra. In altri contesti, per una esplicita presa di posizione del legislatore, determinati negozi vengono assimilati ad un certo schema-tipo in virtù della sostanziale identità di effetti: si pensi all’assimilazione ai fini IVA delle vendite con riserva di proprietà o delle locazioni con clausola di trasferimento vincolante per ambedue le parti agli atti di trasferimento della proprietà, oppure al mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto, assimilato ai fini dell’imposta di registro all’atto per il quale è stato conferito. Si potrebbe obiettare che norme come quelle testé indicate hanno una specifica finalità antielusiva, essendo appunto volte ad evitare che, attraverso la stipula di taluni contratti in luogo di altri, o l’apposizione al negozio giuridico di determinate clausole, vengano postergati, al limite anche indefinitamente, gli effetti temporali del negozio di trasferimento e con essi il momento di applicazione del tributo. Dunque, tali norme potrebbero essere considerate come il punto di emersione di una tendenza ordinamentale, nel senso dell’omologazione del regime fiscale di atti giuridici – nel segno di quello applicabile allo schema-tipo – in ragione dell’identità del risultato economico perseguito. In realtà, ad una ricostruzione di questo tipo si possono opporre almeno due ordini di argomentazioni. Il primo è un argomento logicoformale: se infatti già operasse un principio generale substance over form, di omologazione degli effetti fiscali di atti giuridici asseritamente aventi un analogo impatto economico, norme specifiche come quelle sopra ricordate risulterebbero del tutto superfluee, la cui presenza depone invece nel senso della loro utilità, non essendo surrogabili da un (inesistente) principio di ordine generale (argomento del legislatore non ridondante). L’altro argomento ha a che vedere con la ragion d’essere delle norme in considerazione, che non enunciano più di tanto una regola, ancorché limitata a un particolare contesto, di prevalenza della sostanza sulla forma, di superamento delle forme giuridiche a favore di una tassazione ancorata al risultato economico raggiunto, quanto depurano i negozi impiegati dai loro 17 “elementi accidentali”, ovvero perseguono una tassazione degli atti in ragione dell’identità degli effetti giuridici (non economici) che gli stessi sono idonei a produrre. Sembra allora possibile affermare che, in mancanza di esplicite opzioni normative come quelle su ricordate, una tassazione raccordata alla “sostanza economica”, anziché alle forme giuridiche in concreto utilizzate, appare fuori dalla portata dell’interprete, nemmeno ricorrendo alla norma antielusiva, che risponde come vedremo ad una diversa finalità. 3 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 La funzione delle clausole 18 antielusive e le fuorvianti indicazioni della legge delega 23/2014 L’impossibilità di istituire una corrispondenza tra “sostanza” e “forma”, inseguendo una tassazione ancorata alla sostanza economica, quando la forma appaia – spesso sulla base delle personali valutazioni dell’interprete – incongrua e “anomala” rispetto all’obiettivo economico dichiarato o desumibile dalle circostanze, dipende poi anche da un’altra ragione: i diversi regimi fiscali, che si riallacciano alla varietà degli schemi giuridici impiegabili in un dato contesto economico, si spiegano sovente alla luce di esigenze tutte interne al sistema impositivo; si tratta, in particolare, di ragioni di simmetria rispetto alla posizione di altri soggetti, dell’operare di meccanismi volti a evitare doppie imposizioni, di esigenze di neutralità che magari affondano le proprie radici in considerazioni di ordine civilistico7 o nell’obiettivo di traslare a valle l’onere impositivo8 , dell’operare di un principio di alternatività rispetto all’applicabilità di altri tributi9 , di obiettivi erariali di anticipazione del gettito (come accade nelle imposte sostitutive “volontarie”), o altro ancora. Dunque, non è possibile ravvisare nell’adozione di un percorso alternativo a quello ritenuto, con un’opzione di chiara natura assiologica, più congeniale all’obiettivo economico che il contribuente intendeva perseguire, un elemento sintomatico di una elusione fiscale, per il semplice motivo che il regime previsto per tale percorso alternativo (magari meno oneroso solo in apparenza) potrebbe in realtà essere perfettamente in linea con esigenze sistematiche rispondenti a consapevoli scelte del legislatore. Lo scopo più plausibile delle norme antielusive non è quello di superare le forme giuridiche utilizzate dai privati, inseguendo la tassazione della realtà economica sottostante, quando le prime siano ritenute inadeguate a fornire una “congrua” rappresentazione del fenomeno sostanziale, prima di tutto poiché questo implicherebbe una diversa patente di meritevolezza ad istituti negoziali tutti sanciti dalla legge, o comunque una valutazione negativa dell’autonomia privata contrastante con l’art. 1322 c.c. Inoltre, una lettura di questo tipo finirebbe per obbligare il contribuente ad utilizzare sempre, davanti a più alternative negoziali disponibili per raggiungere un certo risultato economico, la presunta “via maestra”, che verrebbe fatta coincidere con quella connotata da un più gravoso regime di tassazione. Al contrario, la norma antielusiva non presidia la “giusta imposizione” della realtà sostanziale, qualora nel perseguirla il contribuente non si sia attenuto ad uno schema-tipo asseritamente fisiologico e naturale, in luogo di altri automaticamente e per differenza da condannare 7 Si pensi alla “neutralità fiscale” di fusioni e scissioni, spiegabile anche col superamento della concezione estintivo-traslativa di tali operazioni. 8 Come accade nell’IVA, dove la “neutralità” del tributo per gli operatori economici si giustifica con la volontà di incidere il consumo finale. 9 Che avrebbe dovuto indurre la giurisprudenza a maggiore prudenza nell’applicazione ad operazioni di conferimento d’azienda e successiva cessione delle quote (operazione rientrante nel campo di applicazione dell’IVA) del regime previsto per le cessioni di azienda, sulla base di una pretesa prevalenza della sostanza sulla forma. in quanto tortuosi, anomali, innaturali; ciò che la norma antielusiva può e deve presidiare è il rispetto dello spirito delle leggi tributarie, e degli indirizzi sistematici che dalle stesse emergono, nei confronti di comportamenti finalizzati al loro aggiramento. E il novero dei comportamenti che realizzano un’elusione è dunque più circoscritto di quello che si avrebbe accogliendo invece la prospettiva del superamento delle “forme” non ritenute consone agli obiettivi economici dei privati. Non è infatti sufficiente, per affermare un’elusione, ravvisare che il contribuente si è avvalso di strumenti in ipotesi più vantaggiosi dello schema-tipo che in ipotesi avrebbe meglio fornito rappresentazione alla realtà sostanziale, se non si dimostra che quel comportamento ha infranto i principi del sistema e lo “spirito” delle leggi tributarie, la cui rilevazione andrà effettuata esaminando attentamente le ragioni sottostanti alle norme che lo compongono. D’altra parte, e specularmente, non sarà affatto necessario dimostrare che il comportamento del contribuente realizzava un “abuso delle forme giuridiche”, un utilizzo improprio o anomalo degli schemi civilistici, poiché basterà appunto rilevare la strumentalizzazione delle regole tributarie che attraverso l’adozione di quel certo schema negoziale sono state selezionate dal contribuente come regime giuridico-fiscale applicabile alla fattispecie. Per le ragioni su indicate, non appare felice la scelta, operata dall’art. 5 della legge delega 11.3.2014 n. 23, di definire la condotta abusiva “come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta”, giacché in questo modo si confonde nuovamente l’elusione tributaria con l’“abuso delle forme giuridiche”, e quest’opzione si traduce nella pretesa di applicare le imposte attingendo direttamente alla “sostanza economica” delle operazioni10, così considerando indebiti quei regimi fiscali di ipotetico maggior vantaggio connessi a strumentazioni negoziali ritenute “non normali”, quando per avventura potevano essere seguiti altri percorsi fungibili, il che accade assai di frequente. In questo modo, la norma antielusiva si trasforma in uno strumento per costringere il contribuente a scegliere sempre, di fronte a più alternative negoziali disponibili per raggiungere un certo risultato, la via più onerosa, indipendentemente da ogni valutazione circa la natura “sistematica” dell’ipotetico vantaggio tributario che sarebbe altrimenti ottenuto. Purtroppo il legislatore delegante, anziché interrogarsi sull’essenza dell’elusione e le conseguenze deteriori della nozione accolta dalla prassi e dalla giurisprudenza, sembra essersi appiattito proprio sulle “formule” giurisprudenziali, recependole acriticamente11. Nella visione giurisprudenziale, è l’“utilizzo distorto” degli strumenti giuridici a colorare di “indebito” i vantaggi fiscali da essi derivanti, ma la “distorsione” cui i giudici alludono non dipende da una valutazione endogena al sistema delle leggi tributarie; dipende invece, in modo circolare, proprio dalla finalizzazione del comportamento a quei vantaggi. È distorsivo, cioè, quel comportamento che utilizza strumenti giuridici “non normali”, cioè tali da conseguire un risparmio fiscale rispetto ad una o più alternative negoziali ritenute “normali”, il cui regime fiscale costituirà il benchmark cui allineare anche tutti gli altri schemi negoziali in grado di raggiungere il risultato economico perseguito. 10 Su questa lettura della legge delega v. anche Gallo F. “Brevi considerazioni sulla definizione di abuso del diritto e sul nuovo regime del c.d. adempimento collaborativo”, Dir. prat. trib., 2014, I, p. 949, per il quale “definendo la condotta abusiva come l’uso distorto di strumenti giuridici aventi lo scopo prevalente di ottenere indebiti vantaggi fiscali, il legislatore delegante ha voluto significare che il principio di capacità contributiva, per essere concretamente operante e costituire un limite costituzionale all’autonomia negoziale, deve essere accompagnato dalla contestuale applicazione del principio generale della buona fede e dell’affidamento, oltreché da quello della prevalenza della sostanza sulla forma”. 11 Come quella utilizzata da Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055 e n. 30057, in Banca Dati Eutekne, nonché da Cass. 21.2.2011 n. 1372, ibidem, che ravvisa l’elusione nell’“utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dall’aspettativa del vantaggio fiscale”. 19 4 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 L’elusione come ricerca del “risparmio” in presenza di alternative giuridiche equipollenti e fiscalmente più onerose: annotazioni critiche 20 Questa deteriore concezione dell’elusione si ritrova peraltro anche nei recenti orientamenti della Cassazione, che nelle ultime pronunce ravvisa gli estremi della condotta elusiva in quell’operazione che, “nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, presuppone l’esistenza di un valido strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dal contribuente, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito dal contribuente”12. Ma se vogliamo questa impostazione è già contenuta in nuce nella giurisprudenza che ha “scoperto” l’esistenza di un generale principio anti-abuso, desumendolo dall’art. 53 della Costituzione, secondo il quale “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”13. Ora, l’“utilizzo distorto di strumenti giuridici” sembra alludere nuovamente ad un uso anomalo di forme negoziali rispetto a un ipotetico comportamento normale, “tagliato su misura” del risultato economico da raggiungere. Ma se questo appare il frutto di un’illusione riduzionista, che contraddice l’autonomia privata nella scelta degli strumenti ritenuti dalle parti più idonei agli scopi perseguiti, la pretesa di ravvisare l’elusione tributaria (o l’abuso di diritto che dir si voglia) nell’uso “non normale” o inconsueto di schemi negoziali rischia di tradursi nel suo esatto opposto, ovvero nell’obbligo di seguire, tra plurime alternative negoziali, quella fiscalmente più onerosa; come si sta purtroppo verificando nella prassi accertativa e giurisprudenziale, l’uso di un qualsivoglia strumento giuridico viene considerato “distorto” quando allo stesso si colleghi un regime fiscale di (magari solo apparente) maggior favore rispetto ad altre alternative che il contribuente avrebbe potuto percorrere, e che non sono state imboccate soltanto a causa del maggior gravame fiscale che esse avrebbero comportato. Orbene, fondare l’elusione sull’esistenza di un idoneo strumento giuridico alternativo, funzionale al raggiungimento dello scopo economico perseguito e ovviamente implicante un diverso carico fiscale, può far assumere i connotati dell’elusività a comportamenti che non aggirano alcuna disposizione o principio, finendo per negare ogni spazio alla lecita pianificazione fiscale, con significative ricadute sull’autonomia privata 14. È infatti quasi sempre riscontrabile una pluralità di schemi e percorsi giuridici per raggiungere un determinato scopo economico, mentre far dipendere la non elusività dalla mancanza di alternative percorribili è del tutto 12 Cfr. Cass. 30.11.2012 n. 21390; Cass. 14.1.2015 n. 438, in Banca Dati Eutekne. Sulle stesse posizioni anche Fransoni G. “Spunti in tema di abuso del diritto e «intenzionalità» dell’azione”, Rass. trib., 2014, p. 414, per il quale l’elusione o abuso si avrebbe nei casi di “uso atipico di forme giuridiche che perviene alla realizzazione di risultati omogenei in termini di capacità contributiva e senza vantaggi operativi (sul piano economico o anche ideale) rispetto a quelli conseguenti all’uso delle forme tipiche e normativamente previste”. 13 Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055, in Banca Dati Eutekne. 14 Osservano Atienza M., e Ruiz Manero J., cit., p. 89, che “quello che nell’ambito del diritto tributario è conosciuto come ‘economia di opzione’ o ‘risparmio fiscale’ si differenzia dalla frode, perché nell’‘economia di opzione’ non vi è alcun comportamento che si possa qualificare come illecito; semplicemente, si opta per utilizzare una determinata regola che attribuisce un potere (in forma regolativamente permessa) il cui risultato suppone una situazione più vantaggiosa di quella che deriverebbe dall’utilizzazione di un’altra o di altre regole alternative. L’economia di opzione forma parte […] dell’opzione di efficienza economica compiuta dall’individuo per regolare le sue attività economiche”. fuorviante, giacché nulla ha a che vedere col tema dell’aggiramento dello spirito delle leggi tributarie, cioè con l’essenza dell’elusione. Allo stesso tempo, anche l’altro elemento valorizzato dalla Cassazione, ovvero l’impiego di operazioni, in luogo di altre, spiegabile col mero conseguimento di risparmi di imposta15 , non è l’indice di alcunché, posto che se si tratta di risparmi di imposta non contrastanti con lo spirito (oltre che ovviamente la lettera) delle norme tributarie, gli stessi non possono certo essere considerati abusivi. La concezione su illustrata si salda poi alla questione delle “valide ragioni economiche”, delle “ragioni economicamente apprezzabili” atte a giustificare l’operazione posta in essere. Questo requisito è se vogliamo una diretta conseguenza dell’aver inquadrato l’elusione tributaria alla stregua di un abuso delle forme giuridiche. La mancanza di ragioni economiche differenziali per preferire il comportamento e percorso negoziale imboccato dal contribuente, lo rende infatti equipollente agli altri che potevano astrattamente essere percorsi, cioè non giustificabile se non alla luce del risparmio fiscale ad esso collegato. Ed a questo punto ogni barriera concettuale tra elusione e lecita pianificazione fiscale cade, costringendo il contribuente a dimostrare che quello adottato era l’unico strumento giuridico possibile date le circostanze, e che altre strade alternative o non erano percorribili o se lo fossero state avrebbero dato luogo a conseguenze economiche sensibilmente diverse da quelle volute. La dimostrazione di “ragioni economicamente apprezzabili” per un certo comportamento, nell’ottica della Cassazione, si traduce in effetti nella dimostrazione che quella seguita era la “via maestra”, se non l’unica via, per conseguire un certo risultato economico. Con la conseguenza deteriore, già in atto da tempo, di reputare elusivi schemi negoziali magari semplicemente equivalenti ad altri quanto ad effetti economici complessivi, dunque spiega- bili soltanto con il vantaggio fiscale che vi si riconnetteva, che per tale ragione viene automaticamente etichettato come elusivo 16. In questo modo l’elusione viene del tutto equivocata: questa consiste nella frode alla legge tributaria, nell’aggiramento dei principi e delle regole fiscali, rispetto al quale la “normalità” riscontrabile nell’utilizzo di un certo strumento giuridico, che peraltro dipende da un giudizio altamente opinabile e spesso del tutto evanescente e controvertibile, non rileva in alcun modo. L’unico significato che si dovrebbe a mio avviso attribuire ad un comportamento apparentemente anomalo sul piano civilistico, cioè a quell’“uso distorto” delle forme giuridiche di cui parla la Cassazione e la stessa dottrina maggioritaria, è quello di un elemento di attenzione investigativa, al più un sintomo di una possibile elusione, che però andrebbe dimostrata guardando ai principi del sistema tributario, onde verificare un loro eventuale aggiramento, e non all’adeguatezza degli schemi giuridici rispetto agli obiettivi economici dei privati. Un uso inconsueto di un certo percorso negoziale, in circostanze in cui si possa asserire che il comportamento “normale”, che chiunque avrebbe preferito impiegare, avrebbe dovuto essere un altro, potrebbe far sorgere il sospetto che quel comportamento fu adottato per eludere e aggirare le norme fiscali, il che ovviamente implica un quid pluris rispetto a dire che quel comportamento consentiva un risparmio fiscale rispetto ad altre alternative negoziali. Occorre in specie che tale risparmio sia ottenuto aggirando specifici principi delle leggi d’imposta, come – per fare alcuni esempi – il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, il divieto di dedurre minusvalenze iscritte su partecipazioni, il disfavore per compensazioni intersoggettive delle perdite in presenza di uno svuotamento dell’organismo produttivo che le aveva pro- 15 Si veda Cass. n. 438/2015, cit. 16 Segnalano questa situazione, da ultimo, anche Vacca I., cit., p. 1127 e ss., nonché Manzitti A., Fanni M. “Abuso ed elusione nell’attuazione della delega fiscale: un appello perché prevalgano la ragione e il diritto”, Corr. Trib., 2014, p. 1140 e ss. 21 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 22 dotte, l’esigenza di non esentare da tassazione plusvalori maturati in un regime d’impresa, il divieto di salti di imposta, e così via 17. Si può anche notare che far coincidere l’elusione con l’uso distorto di strumenti giuridici, spiegabile solo con ragioni di risparmio fiscale, presuppone il dogma della prevalenza della sostanza sulla forma, cioè l’idea che un certo risultato economico possa essere legittimamente raggiunto solo per vie giuridiche “normali”, mentre altri percorsi, ritenuti devianti, diventano per ciò solo suscettibili di colorare di “indebito” l’assetto fiscale raggiunto, anche quando lo stesso si dimostra perfettamente in linea con i principi e lo spirito delle leggi tributarie. Per cui, data l’esistenza di almeno uno schema negoziale alternativo implicante un più oneroso (o apparentemente tale) carico fiscale, sarà fatale cadere nella suggestione secondo cui, allora, è a quello schema negoziale che risulta allineata la “giusta imposta”: per conseguenza, siccome questa si lega alla “sostanza economica” sottostante a quello schema, gli altri percorsi diversi nella forma ma equipollenti nella sostanza dovranno essere ricondotti a quel genere e livello di imposizione. Ogni volta, insomma, che vi sia un certo percorso negoziale implicante un certo regime di tassazione, sarà giocoforza concludere che altri percorsi sostanzialmente equipollenti quanto a capacità di raggiungere l’obiettivo economico andranno fiscalmente “riqualificati” (ove più vantaggiosi) applicando il principio substance over form, previa affermazione della loro elusività. 5 I tentativi di chiarire per via normativa il concetto di elusione (o “abuso del diritto”) e il rischio di eterogenesi dei fini Rispetto a tale “credenza” interpretativa, ormai radicata nella giurisprudenza ma frutto di un errore di prospettiva, che confonde l’e 17 In questi termini anche Vacca I., cit., p. 1136. lusione tributaria con un ineffabile “abuso” o “utilizzo distorto” delle forme giuridiche, la nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale appare – nonostante gli sforzi compiuti – in gran parte inadeguata, oltre che contraddittoria, e non sarà verosimilmente in grado di influire positivamente sugli indirizzi giurisprudenziali in voga. Infatti, secondo la nuova definizione recata dall’art. 10-bis della L. 212/2000 “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Stante dunque l’inopponibilità di tali operazioni all’Amministrazione finanziaria, questa “ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”. Nella nuova formulazione della norma antielusiva non compare più il riferimento all’“aggiramento” dei divieti ed obblighi previsti dall’ordinamento tributario: la prima impressione è che l’operazione elusiva sia stata identificata con quella che realizza vantaggi fiscali senza che il percorso negoziale avesse una particolare ragione di essere adottato, rispetto a percorsi alternativi, se non l’obiettivo di ottenere un risparmio d’imposta. Nel precisare che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, la relazione ministeriale di accompagnamento chiarisce che “le valide ragioni economiche extrafiscali non marginali sussistono solo se l’operazione non sarebbe stata posta in essere in loro assenza. Occorre, appunto, dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni”. Si torna così al rischio che, mancando tale dimostrazione, cioè in presenza di un percorso negoziale anche semplicemente equipollente, quanto a risultati economico-sostanziali, rispetto ad altri percorsi fiscalmente più onerosi, si concluda per l’elusività del comportamento. Vi sono ragioni per temere, infatti, che il requisito previsto dal comma 2 lettera b) del citato art. 10-bis, ovvero l’esigenza che i vantaggi sub judice siano realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario, sarà nella prassi negletto18, o comunque inteso sempre in conformità con l’identificazione dell’elusione alla stregua di un “uso distorto delle forme giuridiche”, come accaduto fino ad ora. Insomma, se già l’utilizzo del più pregnante requisito dell’“aggiramento” non ha in passato impedito alla prassi di identificare l’elusione con il conseguimento di vantaggi fiscali attraverso operazioni prive di “valide ragioni economiche”, avere espunto tale requisito dalla definizione non potrà verosimilmente migliorare le cose, nonostante alcuni condivisibili passaggi della relazione ministeriale illustrativa19. Se sarà riscontrato un percorso negoziale apparentemente meno lineare o inconsueto rispetto ad altri schemi negoziali alternativi fiscalmente più onerosi, si finirà per concludere che il comportamento adottato contravviene le norme che collegano una tassazione più elevata a quel certo risultato economico, laddove perseguito attraverso altri e più “normali” schemi giuridici. L’impressione, in altre parole, è che, rispetto ai riferimenti – contenuti sia nell’articolato normativo che nella relazione di accompagnamento – alle finalità delle norme fiscali e dei principi dell’ordinamento tributario, farà premio la più istintiva ma fuorviante identificazione dell’elusione (o abuso del diritto) nel compimento di operazioni secondo certe forme giuridiche, in luogo di altre fiscalmente più onerose, senza ragioni extrafiscali differenziali per preferire le prime alle seconde, senza cioè che la forma giuridica fiscalmente più conveniente dovesse essere preferita, in presenza di alternative negoziali percorribili, sulla base di ragioni economiche, riorganizzative, di efficienza produttiva, e così via. Non credo peraltro che si possa intendere la definizione di cui al primo comma dell’art. 10bis in termini letterali e restrittivi, cioè istituire una corrispondenza tra operazioni prive di sostanza economica e “operazioni circolari”, tipiche degli schemi elusivi “puri”, che non realizzano alcuna reale modificazione negli assetti economico-patrimoniali, come ad esempio accade nelle cosiddette “vendite a se stessi”, o nelle operazioni che si annullano reciprocamente, come può alcune volte verificarsi nei casi di vendita e retrovendita di un bene. Se così fosse la nuova definizione di abuso/ elusione sarebbe infatti molto più angusta di quella invalsa nella legislazione e negli orientamenti giurisprudenziali, ma di questa intenzione non vi è traccia nella legge delega, che nel menzionare l’“uso distorto di strumenti giuridici” si colloca nel tradizionale (quanto criticabile) solco dell’elusione come “abuso delle forme giuridiche”; inoltre, nel comma 2 del nuovo art. 10-bis si definiscono “operazioni prive di sostanza economica” quei comportamenti negoziali “inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, con la precisazione che costituiscono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, “la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”. 18 Si veda già ora, ad esempio, la valutazione scettica di Di Tanno T. “L’elusione codificata”, www. lavoce.info, 24.4.2015, il quale, nel commentare lo schema di decreto legislativo sull’abuso del diritto, ritiene – a mio avviso erroneamente – che non sia possibile individuare le finalità delle norme fiscali, né i principi dell’ordinamento tributario. 19 In cui si legge che “per vantaggi fiscali indebiti si considerano, poi, i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Deve sussistere, quindi, la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi. Ciò permette, in particolare, di calibrare in modo adeguato l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che, come si è detto, la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione”. 23 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 24 Pur trattandosi di una formulazione alquanto oscura e di non agevole inquadramento, presa di sana pianta dalla raccomandazione UE del 6 dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva, gli indici in essa menzionati non sembrano fatti sintomatici di vera e propria “mancanza di sostanza economica” delle operazioni, quanto di uno scollamento tra (qualificazione della) strumentazione giuridica e risultati economici perseguiti, nonché del carattere eccentrico delle forme usate rispetto a quelle che ci si sarebbe aspettate secondo criteri di normalità. Dagli incisi di cui sopra si ricava insomma che il legislatore intendeva riferirsi all’abuso delle forme giuridiche, concepito come incoerenza o anormalità degli strumenti utilizzati rispetto agli obiettivi economici perseguiti, e non all’attuazione di schemi circolari, di costruzioni di puro artificio, ovvero a operazioni del tutto prive di sostanza. Un conto è infatti perseguire degli obiettivi economici attraverso forme reputate incoerenti, stravaganti, ecc., altra cosa è impiegare delle “vuote” forme giuridiche prive di qualsivoglia reale sostanza economica (operazioni circolari e schemi elusivi “puri” in genere). E se ne ricava allora che la mancanza di “sostanza economica” che compare nella definizione di abuso del diritto non dovrebbe essere intesa in senso assoluto, bensì in termini relativi, trattandosi soltanto di un modo di rendere in termini oggettivi, a prescindere cioè dalle intenzioni del contribuente, l’idea delle (mancanza di) “valide ragioni economiche” nel comportamento adottato. Il condizionale però è d’obbligo, data la contraddittorietà degli elementi presenti nell’articolato normativo. Infatti, se per “operazioni prive di sostanza economica” si devono per altro verso considerare – come si esprime l’articolato – “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, si finisce per reputare tali le operazioni “circolari”, fini a se stesse, in genere i disegni elusivi puri che non producono alcuna reale modificazione negli assetti economico-patri- moniali delle parti coinvolte dall’operazione. Difficilmente conciliabile con tale lettura diventerebbe dunque la precisazione, commentata sopra, secondo cui “sono indici di mancanza di sostanza economica […] la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme” e la “non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”: tali indici, più che denotare mancanza di sostanza economica, segnalano infatti, come poc’anzi osservato, soltanto l’utilizzo di strumenti giuridici incoerenti rispetto al risultato economico da raggiungere, nel sottointeso che un tale risultato (non fiscale) fosse riconoscibile. Si tratta in ogni caso di frasi allusive, che come detto sembrano rimandare ad un utilizzo anomalo degli strumenti giuridici, in situazioni in cui ci si aspetterebbe da un operatore economico “medio” un comportamento diverso, in specie la scelta di altri “strumenti giuridici”, più coerenti col risultato da raggiungere. Non basterebbe insomma, per conferire “sostanza economica” ai comportamenti negoziali, che questi consentano di realizzare un certo risultato empirico effettivo (extrafiscale), occorrendo altresì che proprio quella strumentazione negoziale utilizzata, rispetto ad ipotetiche alternative, avesse una “ragione” non fiscale per essere adottata. Col riferimento alle “operazioni prive di sostanza economica” il legislatore delegato ha evidentemente inteso rendere omaggio alla citata raccomandazione della Commissione UE, avente ad oggetto le costruzioni abusive, di “puro artificio”, che però si riferiscono ad un arcipelago composito ed eterogeneo, che comprende, accanto ad ipotesi di utilizzo di forme giuridiche incoerenti (“la qualificazione giuridica delle singole misure di cui è composta la costruzione non è coerente con il fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme”; “la costruzione […] è posta in essere in un modo che non sarebbe normalmente impiegato in quello che dovrebbe essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale”), anche disegni elusivi puri (“la costruzione comprende elementi che hanno l’effetto di compensarsi o di annullarsi recipro- camente”; “le operazioni concluse sono di natura circolare”). Occorreva dunque un’opera di adattamento, che invece è mancata, a favore di un acritico e meccanico recepimento di alcune delle situazioni-tipo indicate dalla Commissione Europea quali fattispecie sintomatiche dell’elusione 20. Il punto nodale della vicenda è che, calato nel contesto di una norma generale antielusiva che si voglia fondata su una concezione dell’elusione come “frode alla legge tributaria” (come parrebbe fosse nelle intenzioni del legislatore delegato, stando alla lettura della relazione illustrativa), il riferimento alle operazioni “prive di sostanza economica” diventa un corpo estraneo, e la riprova di ciò è l’aver attribuito alla “mancanza di sostanza economica” un significato a dir poco criptico, e comunque di problematica applicazione concreta. Sarà davvero curioso, in particolare, vedere come gli interpreti e gli operatori intenderanno e applicheranno il test della “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme”. La successiva lett. b) del comma 2 del nuovo art. 10-bis pare invece puntare in una diversa direzione, laddove qualifica come vantaggi fiscali indebiti “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. Come si legge nella relazione di accompagnamento, deve quindi sussistere “la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi”. Si tratta in fondo di un altro modo espressivo per dare rilevanza al concetto di “aggiramento” presente nell’art. 37-bis del DPR 600/1973, che tuttavia mal si coordina con altre concezioni dell’elusione, che pure fanno capolino nella norma, come quella fondata sull’abuso delle forme giuridiche, o l’altra che fa perno sulle operazioni prive di sostanza economica (disegni elusivi puri). Nella nuova formulazione della norma antielusiva convivono insomma molte “anime”, non facilmente conciliabili, che riflettono verosimilmente la volontà di assecondare quanto suggerito dalla Commissione UE nella raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, col suo riferimento alle costruzioni di “puro artificio”, alle operazioni prive di sostanza economica, finalizzate a raggiungere risultati non in linea con lo spirito delle disposizioni fiscali altrimenti applicabili. 6 L’esimente delle “valide ragioni extrafiscali”, una contraddizione in termini rispetto a operazioni abusive in quanto “prive di sostanza economica” Nell’art. 37-bis del DPR 600/1973 l’elusione veniva fondata sull’aggiramento dei principi dell’ordinamento tributario, colorando così di “indebito” il vantaggio fiscale ottenuto. In quel contesto, la dimostrazione delle “valide ragioni economiche”, da parte del contribuente, operava dunque alla stregua di una esimente: sull’Amministrazione incombeva l’onere di dimostrare l’avvenuto aggiramento e l’ottenimento di vantaggi tributari invisi al sistema, mentre il privato era a quel punto chiamato a giustificare il percorso negoziale adottato alla luce di “valide ragioni economiche” (cioè extrafiscali). Anche un vantaggio asistematico, dunque, sarebbe rimasto acquisito purché conseguito attraverso un percorso negoziale economicamente inappuntabile. Nella riformulazione della norma antielusiva di cui al citato art. 10-bis, invece, la questione delle ragioni extrafiscali e della sostanza economica del comportamento adottato è stata (almeno in apparenza) elevata ad 20 Per una valutazione decisamente positiva dell’operato del legislatore delegato vedi invece Manzitti A., Fanni M. “La norma generale antiabuso nello schema di Decreto delegato: buono il testo ottima la relazione”, Corr. Trib., 2015, p. 1597 e ss. 25 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 26 elemento strutturale della fattispecie: nella nuova concezione dell’elusione, di primo acchito, non rileva l’aggiramento o la frode alla legge, bensì l’aver posto in essere operazioni “prive di sostanza economica”. In questo quadro di riferimento, sembrerebbe ultroneo introdurre in capo al contribuente un onere dimostrativo avente ad oggetto le “ragioni economiche” o extrafiscali delle operazioni effettuate, per un motivo elementare: se configurano abuso del diritto “una o più operazioni prive di sostanza economica che […] realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, è evidente che tale connotazione esclude in radice la possibilità di allegare “valide ragioni extrafiscali” delle operazioni, giacché altrimenti queste ultime non sarebbero “prive di sostanza economica”. Non è dunque per nulla chiaro, nel nuovo contesto normativo, il significato del riferimento alle “valide ragioni extrafiscali”, che se allegate dal contribuente escludono l’abusività delle operazioni. Si legge infatti al terzo comma dell’art. 10-bis che “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. Ora, nell’art. 5 della legge delega, che prevede l’onere per il contribuente di “allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti” idonee a giustificare l’utilizzo degli strumenti prima facie ritenuti anomali e incoerenti, l’allegazione in questione fornisce una chiave di lettura giustificativa all’“uso distorto di strumenti giuridici”: ovvero, alla luce delle spiegazioni e delle dimostrazioni del contribuente, un percorso negoziale ap- parentemente inconsueto o non normale può rivelarsi confacente al caso concreto e in linea con gli interessi economici perseguiti. Nell’attuazione data nel DLgs. 128/2015, invece, la definizione delle operazioni abusive come “operazioni prive di sostanza economica”, rende molto più problematico attribuire un ruolo all’allegazione di cui sopra. Sembra infatti evidente che, se le operazioni oggetto di sindacato fossero realmente prive di “sostanza economica”, cioè non in grado di determinare alcuna modifica negli assetti economico-patrimoniali delle parti che le hanno poste in essere, non vi sarebbe – già in radice – alcuna possibilità di allegare delle valide ragioni di ordine organizzativo o gestionale per evitare l’inopponibilità all’Amministrazione degli effetti fiscali. L’assenza di “sostanza economica” nelle operazioni realizzate non può cioè contenere in sé il suo contrario: “prive di sostanza economica” significa altresì “senza valide ragioni extrafiscali”, anche se è difficile dire quale potrà essere l’atteggiamento degli interpreti di fronte al florilegio di locuzioni normative e alla girandola di formule definitorie. Da un diverso angolo visuale, poi, la precisazione in ordine alle finalità di “miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”, risente forse degli orientamenti di autorevoli esponenti della Commissione incaricata di redigere il testo del decreto legislativo 21. L’opinione, a mio avviso criticabile, secondo cui la norma antielusiva avrebbe potuto essere applicata soltanto a soggetti operanti nella veste d’impresa, si è tradotta nel nuovo art. 10-bis nel suo esatto opposto, precludendo a soggetti non aventi la qualità di imprenditore di avvalersi dell’esimente rappresentata dal- 21 Mi riferisco alla posizione di Gallo F. “Trusts, interposizione ed elusione fiscale”, Rass. trib., 1996, p. 1048, per il quale il requisito delle valide ragioni economiche può operare solo quando la parte coinvolta nell’operazione agisce nella veste d’impresa e non in quella di semplice privato; dato cioè che la norma antielusiva (a quel tempo, l’art. 10 della L. 408/1990, n.d.a.) “richiede di indagare sulla convenienza economica dell’operazione, è evidente che esso può riferirsi solo a soggetti che fisiologicamente debbono operare con criteri di economicità, e cioè alle imprese. Per esse, infatti, l’assenza di ragioni economiche può essere un sintomo dell’intento elusivo, mentre l’attività di un soggetto privato non è certo orientata solo da scelte economiche”. la presenza di valide ragioni extrafiscali nel comportamento posto in essere. Il vizio del ragionamento consiste, evidentemente, nell’aver inteso in senso restrittivo il riferimento alle “valide ragioni economiche”, intendendo come tali soltanto quelle che connotano l’economicità in una logica di gestione dell’impresa. L’aggettivo “economiche”, riferito alle “valide ragioni”, assume invece un significato più ampio, e l’intera formula può essere considerata equivalente a quella di “serie ragioni non fiscali”, tale dunque da abbracciare anche i comportamenti posti in essere da privati non imprenditori. Il decreto legislativo sull’abuso del diritto e l’elusione è stato comunque condizionato dalla formulazione della legge delega, nei suoi riferimenti all’azienda del contribuente22 , ed appare inadeguata per difetto: se non intesa come formula meramente esemplificativa e didascalica, la stessa finirà per precludere la possibilità di allegare l’esimente in questione, cioè le valide ragioni extrafiscali atte a escludere l’abusività delle operazioni, ai contribuenti non aventi la qualità di imprenditori o professionisti, cioè ai privati in genere, i quali potrebbero ciononostante risultare destinatari di accertamenti fondati sulla norma antielusiva. 27 22 Art. 5 lett. b) n. 2 della L. 23/2014: “[…] stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente”. TRIBUTI ELUSIONE FISCALE: IL FOCUS È SUI VANTAGGI FISCALI INDEBITI LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Rosario DOLCE * Consulenza e Contenzioso Fiscale UBI Banca – Dirigente, abilitato Avvocato 28 L’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, introdotto dal DLgs. 128/2015 sulla c.d. “certezza del diritto”, in attuazione della legge delega per la riforma fiscale, contiene molti elementi positivi, in termini di definizione dell’ambito oggettivo e soprattutto di garanzie procedimentali del contribuente, avuto anche riguardo alla valenza interpretativa della relazione illustrativa al provvedimento. In particolare, l’ambito oggettivo dovrebbe riportare al centro la verifica circa la natura indebita del vantaggio fiscale, e dunque la conformità o meno dello stesso al sistema o sotto-sistema fiscale di riferimento, lasciando nella giusta posizione – subordinata – la verifica circa la presenza di eventuali ragioni extrafiscali che escludono l’operatività della norma antielusiva pur in presenza di vantaggio fiscale indebito. Si auspica che la futura giurisprudenza, di merito e soprattutto di legittimità, tenga adeguatamente conto di tale significativa modifica voluta dal legislatore. 1 L’evoluzione in tema di elusione fiscale ed abuso del diritto L’art. 10-bis della L. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), come introdot- to dal DLgs. 5.8.2015 n. 128, sulla c.d. “certezza del diritto”1, rappresenta il sofferto approdo di un lungo e travagliato iter volto alla codificazione di una norma antielusiva generale alla luce delle derive giurisprudenziali, e soprattutto della giurisprudenza di legittimità2, che hanno dato preminen- * Le opinioni espresse nell’articolo sono esclusivamente riferibili all’Autore del medesimo. 1 Pubblicato in G.U. 18.8.2015 n. 190. Si segnala la disponibilità della relazione illustrativa al decreto (Atto Governo n. 163) al link http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/913536.pdf. 2 Mi riferisco, in primo luogo, sia alle sentenze della Corte di Cassazione immediatamente successive alla notissima sentenza della Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02 “Halifax” (leading case in materia di abuso del diritto tributario) che alle famose “sentenze del Natale 2008” (Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055, n. 30056 e n. 30057), tutte in Banca Dati Eutekne, con cui la Suprema Corte ha teorizzato l’abuso del diritto quale principio generale antielusivo immanente nell’ordinamento tributario nazionale, rispetto al quale le singole norme antielusive, quali l’art. 37-bis del DPR 600/1973 e l’art. 20 del DPR 131/1986, non sarebbero altro che sintomi della presenza del primo: in tutte viene posto l’accento sulla presenza di un comportamento elusivo/abusivo in mancanza di valide ragioni economiche extra- fiscali, “dimenticandosi” che nella stessa sentenza “Halifax” viene chiaramente affermato che, perché si abbia abuso del diritto, non è sufficiente che vi sia un risparmio d’imposta in assenza di ragioni economiche extrafiscali rispetto al comportamento posto in essere, ma occorre anche che il vantaggio fiscale sia contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni tributarie oggetto del comportamento abusivo, laddove tale ultimo requisito corrisponde sostanzialmente alla natura “indebita” del vantaggio e all’“aggiramento degli obblighi e dei divieti previsti dall’ordinamento” di cui all’art. 37-bis del DPR 600/1973. te rilievo alla presenza o meno delle valide ragioni economiche extrafiscali – elemento del tutto accidentale nell’elusione/abuso del diritto – senza verificare la conformità del vantaggio fiscale al sistema o sottosistema tributario di riferimento, elemento quest’ultimo centrale e presente sia nell’elusione “codificata”3 di cui all’art. 37-bis DPR 600/1973 (abrogato dall’art. 1 comma 2 del DLgs. 128/2015) che nel principio dell’abuso di diritto elaborato dapprima dalla giurisprudenza comunitaria (e quindi dalla Corte di Cassazione). Peraltro, tale “dimenticanza”, se per certi versi appare comprensibile (non giustificabile) da parte dell’Amministrazione finanziaria, lo è meno ove si consideri che anche parte della dottrina ha agevolato la citata “deriva” giurisprudenziale4. Ciò posto, come accennato, l’art. 10-bis, e soprattutto la relazione illustrativa, riafferma la centralità della verifica circa la presenza di vantaggi fiscali indebiti – i.e. disapprovati dal sistema – quale presupposto essenziale perché possa configurarsi elusione/abuso del diritto (v. oltre par. 2). In secondo luogo, l’art. 10-bis è pure apprezzabile in quanto estende a tutte le contestazioni elusivo/abusive le garanzie di cui al previgente art. 37-bis ed anzi le rafforza in più parti (v. oltre par. 4). La disposizione presenta per certo dei limiti, ed in particolare la perdurante (eccessiva) rilevanza attribuita dal testo normativo alle valide ragioni economiche extrafiscali (v. oltre par. 3) nonché l’astratta previsione per cui comportamenti elusivi/abusivi – che non violano direttamente alcuna norma fiscale (i.e. non costituiscono evasione fiscale), ma “aggirano” norme o principi dell’ordinamento tributario – sono passibili di sanzione amministrativa tributaria al pari dell’evasione: al riguardo l’art. 10-bis comma 13, dopo aver condivisibilmente stabilito che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”5 – con ciò superando la recente Cassazione penale che nel caso dell’abuso codificato (i.e. fattispecie di cui all’art. 37bis D.P.R. 600/1973) ritiene possibile il delitto di dichiarazione infedele in presenza di 3 Espressione da attribuirsi a Del Federico L. “Elusione e illecito tributario”, Corr. Trib., 2006, p. 3110 e ss., come rilevato da Di Siena M. “La criminalizzazione dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto. Un caso irrisolto della giurisprudenza penale tributaria”, Riv. dir. trib., 2015, p. 93 e ss., nota 37. 4 Tra gli Autori “vicini” all’A.F., Grazioli M., Thione M. (ufficiali della GdF) “Place shopping nell’imposta di registro”, il fisco, 2010, p. 6620 e ss. spec. § 5, ove sottolineano che “l’elemento di prova decisivo della legittimità della condotta è costituito dalle apprezzabili ragioni economiche, diverse dalla mera aspettativa del risparmio di imposta, che il contribuente saprà evidenziare”. Con riguardo al mondo accademico, vi sono taluni illustri Autori (Russo P. “Brevi note in tema di disposizioni antielusive”, Rass. trib., 1999, p. 72 e Tesauro F. “Compendio di diritto tributario”, Cedam, Padova, 2002), che, pochi anni dopo l’introduzione dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 (la c.d. norma antielusiva “codificata”), evidenziavano non tanto il carattere “altrimenti indebito” dei vantaggi fiscali – da cui l’affermazione del legittimo risparmio d’imposta in caso di risparmio fiscale non disapprovato dal sistema – quanto l’accento sulla condotta elusiva quale “ricorso a figure negoziali che consentono di raggiungere un determinato risultato economico attraverso una scansione contrattuale insolita od inutilmente complessa ed articolata rispetto agli strumenti tipici a disposizione del contribuente per perseguire i medesimi effetti economici” (Russo P., cit.). L’accento sull’elusione come complessa concatenazione di atti funzionale al solo risparmio fiscale, piuttosto che come risparmio fiscale contrastante con il sistema tributario, ha verosimilmente contribuito alla “interpretatio abrogans del requisito dell’aggiramento di obblighi e divieti, in quanto legato a una difficile individuazione dello spirito della norma tributaria «aggirato»” e di “una ipervalutazione di quello delle valide ragioni economiche, alla portata del comune buonsenso di chiunque” (De Rosa L., Russo A. “Operazioni straordinarie”, ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2009, p. 628 e ss., spec. p. 638 e ss.). 5 È altamente verosimile che la non rilevanza penale dell’elusione/abuso del diritto derivi non dalla natura procedimentale dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 o dal vulnus che altrimenti subirebbe il principio di tassatività della norma penale incriminatrice (profili di assoluto rilievo, come evidenziato in dottrina – per tutti Di Siena M., cit. e ulteriore dottrina ivi richiamata – ma negletti dalla giurisprudenza, anche di legittimità, su cui v. oltre nel testo) né dalla mancanza del dolo di evasione o della fraudolenza (che taluni magistrati penali continuano assai discutibilmente a ravvisare anche nell’elusione fiscale), quanto alla circostanza che l’art. 4 co. 1-bis del DLgs. 747/2000, come introdotto dal DLgs. 158/2015 esclude dalla dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000, buona parte delle possibili evasioni “interpretative”. 29 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 30 elusione fiscale6 – prosegue indicando che “resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”. La permanenza dell’elusione nell’area dell’illecito amministrativo tributario rappresenta ovviamente una parziale sconfitta della dottrina che ha sostenuto la natura essenzialmente procedimentale7, e non sostanziale8, dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 (ed ora dell’art. 10-bis della L. 212/2000), quale attribuzione di potere all’Amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti fiscali del comportamento elusivo del contribuente, come pure a quella che ha sostenuto la non sanzionabilità dell’elusione fiscale in forza del principio di riserva di legge di cui all’art. 3 del DLgs. 472/1997 (“nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione”)9, anche sulla scorta della giurisprudenza di merito10 e della stessa sentenza “Halifax” della Corte di giustizia UE11, ove si precisa che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento norma- tivo chiaro e univoco”12. Peraltro, ed in concreto, in diverse fattispecie elusive/abusive (secondo la contestazione degli uffici finanziari) potrà essere sostenuta la non irrogabilità delle sanzioni rilevando la mancanza dell’elemento soggettivo (dolo/colpa ex art. 5 del DLgs. 472/1997), in specie laddove sia particolarmente aleatoria la ricostruzione della presunta natura “indebita” dei vantaggi fiscali, come pure in forza di obiettive condizioni di incertezza, sia alla stregua dell’art. 6 comma 2 del DLgs. 472/1997 che ai sensi dell’art. 10 dello Statuto del contribuente. 2 La presenza di vantaggi fiscali indebiti A tal riguardo appare opportuno riportare i seguenti passaggi dell’art. 10-bis: • comma 1: “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali 13, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. […]”; 6 Cass. pen. 28.2.2012 n. 7739 (c.d. sentenza “Dolce e Gabbana”), nonché Cass. pen. 9.9.2013 n. 36894, entrambe richiamate da Di Siena M., cit., p. 104 e disponibili in Banca Dati Eutekne. 7 Nel senso della natura procedimentale dell’art. 37-bis militano diversi argomenti, prevalenti sia a livello sistematico che letterale su quelli nel senso opposto (su cui la successiva nota), ad opinione di chi scrive. In merito rinvio a Dolce R. “Compravendita d’azienda vs. conferimento e successiva cessione della partecipazione alla luce della recente giurisprudenza”, il fisco, 2010, 1, p. 4436, nota 33 in calce, nonché recentemente, in senso critico circa la sanzionabilità amministrativa dell’elusione fiscale/abuso del diritto, Carinci A., Deotto D., “D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 - Abuso del diritto ed effettiva utilità della novella: Much ado about nothing?”, il fisco, 2015, p. 3107 e ss., § 4 in fine. 8 In tal senso, tra gli altri, Gallo F. “Rilevanza penale dell’elusione”, Rass. trib., 2001, p. 327, il quale, pur concludendo poi con un giudizio negativo sul sistema normativo, afferma che “tutto il sistema appare invece costruito sul presupposto della natura sostanziale dello stesso art. 37-bis, senza distinguere, beninteso quanto al risultato e agli effetti sanzionatori, tra evasione ed elusione” (sul punto v. anche Dolce R., cit., p. 4436, nota 34 in calce). 9 Principio mutuato, al pari dell’intero impianto sanzionatorio di cui al DLgs. 472/1997, dalla normativa penale, ed in particolare dall’art. 25 co. 2 Cost. e dall’art. 2 co. 1 c.p. 10 Ex multis: C.T. Reg Lombardia 25.2.2008 n. 2/17/08; C.T. Prov. Milano 13.12.2006 n. 278/14/06; C.T. Prov. Vicenza 28.1.2009 n. 6/3/09, in Banca Dati Eutekne. 11 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit. 12 Il punto è sottolineato, da ultimo, da Lovecchio L. “Divieto di abuso del diritto: l’incognita applicazione futura della giurisprudenza «invasiva»”, il fisco, 2015, pp. 3320-3321. 13 Nella versione della bozza di decreto presentata il 24.12.2014 era presente anche l’inciso “e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente”, poi eliminato nella versione definitiva. A tal riguardo Manzitti A., Fanni M. (“La norma generale antiabuso nello schema di Decreto delegato: buono il testo ottima la relazione”, Corr. Trib., 2015, p. 1598, nota 3) ipotizzano che “l’inciso sia stato eliminato perché era del tutto ovvio che le intenzioni soggettive del contribuente sono irrilevanti”. Peraltro, è verosimile che l’eliminazione sia stata voluta da taluni magistrati penali che continuano ad assimilare l’elusione alla frode fiscale ed alla simulazione (retro, nota 5). Si tratta di eliminazione improvvida, in quanto tale inciso – presente nella Raccomandazione della Commissione UE sulla pianificazione fiscale aggressiva 6.12.2012 • comma 2 lett. b): “vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”; • comma 4: “Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”. I passaggi sopra richiamati evidenziano che resta un ambito di legittimo risparmio d’imposta (comma 4) e cioè di operazioni fatte esclusivamente o principalmente in vista dei relativi vantaggi fiscali, senza che ciò costituisca abuso bensì espressione del principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata14: laddove non vi sia un divieto esplicito, scegliere l’opzione che ottimizza il carico fiscale è un pieno diritto del contribuente15. L’abuso si configura solo laddove tali vantaggi – e cioè, di massima, la scelta dell’opzione che comporta il minor carico fiscale tra più opzioni che conducono a risultati economici identici o simili, ma con differente trattamento fiscale – siano ritenuti contrastanti con i principi del sistema o sotto-sistema tributario di riferimento16. Vi sono alcuni precedenti di giurisprudenza interna e prassi che possono essere addotti come esempi di operazioni fatte in un determinato modo solo al fine dei relativi vantaggi fiscali, e ciononostante non possono qualificarsi come vantaggi disapprovati dal sistema fiscale (e dunque non sono elusive/abusive). Si segnalano, in particolare, i seguenti. Circolare Agenzia Entrate 8.5.2009 n. 23 La circolare, commentando la coesistenza nel secondo semestre 2008 sia dell’esenzione da IVA per le prestazioni rese in ambito consortile (art. 10 comma 2 del DPR 633/1972, in vigore dal luglio 2008) che dell’esenzione di cui all’art. 6 commi da 1 a 3-bis della L. n. 133/1999 (esenzione da IVA per le prestazioni di servizi rese nei gruppi bancari nell’ambito delle attività di carattere ausiliario di cui all’art. 59 del DLgs. 385/1993 – c.d. Testo Unico Bancario), l’una e le altre aventi quale ratio comune evitare la penalizzazione (dovuta all’indetraibilità dell’Iva “a monte” corrisposta ad altre società del medesimo gruppo) che altrimenti subiscono i gruppi societari effettuanti verso l’esterno prestazioni di servizi prevalentemente esenti, rileva come “gli operatori interessati hanno potuto fruire di un periodo transitorio per adeguarsi al modello organizzativo richiesto dalla nuova disposizione, atteso che l’articolo 10, secondo comma, si differenzia dall’articolo 6, commi da 1 a 3-bis, sotto diversi profili”17. In altri termini, sfruttando la coesistenza dei due regimi di esenzione nel secondo semestre 2008, i gruppi bancari/finanziari ed assicurativi (soggetti che effettuano servizi prevalentemente esenti IVA) hanno potuto costituire al proprio interno strutture consortili e ciò appare un chiaro esempio di legittima pianificazione fiscale, in quanto non contrastante con alcun principio dell’ordinamento tributario, di tal che la con- – era funzionale proprio a sottolineare che nell’abuso/elusione non rileva in alcun modo l’intenzione delle parti (ed in particolare l’intenzione fraudolenta). 14 Art. 41 Cost.: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana […]”. 15 Nella relazione al decreto si legge, ad esempio, quanto segue: “la Suprema Corte ha talvolta identificato la nozione di abuso nella sola assenza di valide ragioni economiche extrafiscali […] ed ha ritenuto tale assenza sufficiente a giustificare la ripresa a tassazione dei vantaggi fiscali […] senza porre il dovuto accento sul carattere indebito degli stessi. Le lacune di tale ricostruzione interpretativa hanno spesso indotto l’amministrazione finanziaria e i giudici a sottovalutare la libertà del contribuente di scegliere tra varie operazioni possibili anche in ragione del differente carico fiscale”. 16Sulla centralità del lecito risparmio d’imposta, recentemente, Di Siena M. “Le riserve in sospensione d’imposta tra fusione e liquidazione”, Rass. trib., 2015, p. 923-925, nonché Carinci A., Deotto D., cit., § 3.1. 17 Sul tema specifico, Dolce R. “Circolare n. 23/E dell’8 maggio 2009 – Regime di esenzione Iva dei servizi resi dai consorzi”, il fisco, 2009, p. 2-3307 e ss. 31 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 32 seguente esenzione IVA non configura i vantaggi “indebiti” di cui all’art. 37-bis del DPR 600/1973 né appare censurabile quale abuso di diritto, tenuto ulteriormente conto che proprio la giurisprudenza comunitaria ha avuto modo di precisare che l’istituto dell’abuso del diritto non può essere utilizzato per impedire al soggetto passivo “il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”18. Ne consegue pertanto che la scelta tra diverse forme giuridiche di conduzione delle attività, anche qualora dichiaratamente effettuata nella sola considerazione dei vantaggi fiscali dello status dell’una rispetto all’altra, non può in alcun modo essere censurata, costituendo espressione del legittimo, fisiologico risparmio d’imposta19. Commissione Tributaria Provinciale di Brescia 10.4.2012 n. 27 Nella sentenza20, con riguardo alla prassi di stipulare contratti di finanziamento a medio lungo termine chirografi all’estero, onde evitare l’applicazione dell’imposta sostitutiva di cui agli artt. 15 e ss. del DPR 601/1973 (ante modifiche di cui al DL 145/2013 che hanno reso tale imposta opzionale), si esclude in tale operazione l’abuso di diritto, in quanto la disposizione “non esclude sotto alcun profilo che la stipula di contratti fra soggetti italiani sia effettuata al di fuori del territorio nazionale, ove si prospetti meno onerosa per i contribuenti senza che tale opzione, quale tipica espressione dell’autonomia privata, possa essere ritenuta strumento di elusione: la circostanza che la vicenda sia stata espressamente prevista dal Legislatore esclude, infatti, che la sua applicazione possa integrare l’abuso […] Non vi è dunque alcuna necessità che, in tale quadro normativo, siano fornite dagli interessati persuasive ragioni volte a giustificare la scelta in concreto effettuata, diversa da quella dell’esonero dal pagamento dell’imposta di registro [recte, dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti, n.d.a.] […] dovendo detta scelta essere considerata lecita, essendo stata attuata attraverso la sola individuazione di una località estera per sottoscrivere il contratto e non tramite più negozi […] fra loro accortamente collegati al solo fine di conseguire quale unico risultato quello di non corrispondere l’imposta sostitutiva”. In altri termini, il sistema dell’imposta di registro espressamente prevede la possibilità di atti stipulati all’estero, chiedendo la registrazione e il conseguente assoggettamento alle imposte italiane solo in taluni casi, puntualmente individuati, e cioè (oltre al caso d’uso ex art. 11 della Tariffa Parte II, allegata al DPR 131/1986) “atti formati all’estero, compresi quelli dei consoli italiani, che comportano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili o aziende esistenti nel territorio dello Stato e quelli che hanno per oggetto la locazione o l’affitto di tali beni” (art. 2 comma 1 lett. d) del DPR 131/1986). Posto che nel caso di specie il contratto di finanziamento stipulato all’estero non concerne immobili o aziende siti in Italia né trasferimento di proprietà o costituzione di diritti reali su beni del genere, ne consegue la non territorialità dell’atto ai sensi dell’art. 2 citato. Tale preciso dettato normativo consente di ritenere la stipula di atti di finanziamenti all’estero tra parti italiane, con conseguente assoggettamento alle imposte d’atto (“tipo 18 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit., § 73. 19 In questa stessa ottica è pertanto del tutto censurabile la risoluzione Agenzia Entrate 28.4.2008 n. 177, la quale ha ritenuto elusiva la trasformazione da spa a srl di una società agricola, funzionale al risparmio fiscale conseguente alla tassazione delle srl agricole su base catastale (regime introdotto dall’art. 1 co. 1093 della L. 27.12.2006 n. 296). Per la confutazione delle (invero confuse e deboli) argomentazioni addotte al riguardo dall’Agenzia si rinvia, per tutti, a Beghin M. “La trasformazione di società per ragioni esclusivamente fiscali: ancora equivoci in tema di elusione tributaria”, Riv. Dir. Trib., II, 2008, p. 621 e ss. 20In Banca Dati Eutekne. registro”) previste nello Stato estero, come una scelta pari-ordinata o comunque non disapprovata dal sotto-sistema tributario dell’imposta di registro (e dei tributi che tale sistema richiamano, come ad esempio l’imposta sostitutiva sui finanziamenti): il contribuente ha scelto una delle opzioni offerte dall’ordinamento tributario, concludendo una specifica operazione (stipula di atto all’estero) espressamente disciplinata dal legislatore nazionale: ne consegue, pertanto, che l’eventuale vantaggio tributario integra il c.d. legittimo risparmio d’imposta21. Corte di Cassazione 5.12.2014 n. 25758 Nella sentenza 22, con riguardo all’ipotesi di una società, proprietaria di un immobile, che ha venduto lo stesso ad una società di leasing per condurlo in locazione secondo lo schema socialmente tipico del sale and lease back, laddove – nella ricostruzione della stessa Corte di Cassazione – tale opzione conduce ad una anticipata deduzione dei canoni di locazione (8 anni, secondo la normativa pro tempore vigente) rispetto alla deduzione delle quote di ammortamento dell’immobile in regime di proprietà, ha rilevato come tale vantaggio fiscale costituisce un legittimo risparmio d’imposta in quanto “non è dato […] rinvenire nell’ordinamento tributario alcun obbligo giuridico del soggetto che ha acquistato la proprietà del bene immobile strumentale di rimanere necessariamente vincolato a tale regime fiscale, atteso che, come rientra nella libera determinazione del soggetto-imprenditore la facoltà di optare tra l’acquisto della proprietà dell’immobile, versando immediatamente l’intero prezzo della compravendita, od invece la utilizzazione del medesimo bene in leasing […], così non può ritenersi impedito all’operatore economico l’impiego di qualsiasi altro strumento negoziale -diretto a conseguire il medesimo risultato dell’utilizzo del bene immobile strumentale- tra cui anche, per quanto interessa la presente fattispecie, il contratto di sale and lease back”. Ciò posto, è indubbio che il sindacato sulla conformità o meno del risparmio fiscale al sistema o sotto-sistema tributario di riferimento risulta talora assai complesso, in quanto comporta la piena cognizione dei principi del sistema tributario e dei relativi sotto-sistemi (e di più postula l’organicità e non contraddittorietà di tali sistemi che, come sa chiunque abbia una pur minima esperienza in materia, è un obiettivo tendenziale da perseguire in via interpretativa, essendo presenti per contro nel sistema diverse antinomie e non essendo spesso immediatamente intellegibile la ratio di talune disposizioni fiscali, ed essendo altresì presenti molteplici opzioni, comportanti carichi fiscali anche assai diversi, per raggiungere obiettivi economici identici o similari)23, di tal che appare comprensibile (ma non giustificabile) la preferenza dell’Amministrazione finanziaria, fin dalla nascita del (ora soppresso) Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive24, per l’accento sulle ragioni extrafiscali, essendo più semplice contestare la mancanza di (non meglio defini- 21Sul tema specifico, Dolce R. “Comm. trib. prov. Brescia, sent. n. 27 del 10 aprile 2012 - Territorialità dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti alla luce di una recente sentenza di merito”, il fisco, 2012, p. 2-3005 e ss. 22 Commentata ad esempio da Borgoglio A. “Sale and lease back immobiliare fuori dall’abuso di diritto”, il fisco, 2015, p. 1-170 e ss. 23 Ampiamente, sul punto, Vacca I. “L’abuso e la certezza del diritto”, Corr. Trib., 2014, p. 1127 e ss. 24 Il punto è ricordato, ad esempio, da Vacca I. “Contrasto all’elusione e incertezza del diritto”, Dialoghi Tributari, 2009, p. 30 e ss. Significativo di tale atteggiamento è anche il contributo dell’allora Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Befera A. “Riflessioni sull’abuso del diritto nella recente giurisprudenza della Cassazione”, il fisco, 2009, p. 2835 e ss. e spec. p. 2837, laddove traspare evidente l’idea che si ha abuso del diritto in tutti i casi in cui le operazioni poste in essere, e che conducono ad un vantaggio fiscale, non siano supportate da valide ragioni economiche extrafiscali, senza quindi alcuna menzione della necessaria verifica di conformità, anche in termini di non disapprovazione, del vantaggio fiscale al sistema tributario. 33 te) ragioni economiche extrafiscali piuttosto che identificare i principi del sistema o sottosistema fiscale e verificare se il risultato raggiunto con il comportamento asseritamente elusivo/abusivo può essere qualificato come contrastante con tali principi. 3 La presenza di valide LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 ragioni economiche extrafiscali non marginali Come anticipato, l’art. 10-bis pare attribuire ancora eccessiva enfasi a tale esimente 25 come desumibile dai seguenti passaggi: • “[…] una o più operazioni prive di sostanza economica che […] realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” (comma 1); • “Ai fini del comma 1 si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali […]” (comma 2); • “Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3), • “[…] Il contribuente ha l’onere di dimo- strare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3” (comma 9). In primo luogo, si nota una certa confusione nel determinare il grado di rilevanza che devono avere le ragioni economiche extrafiscali rispetto ai vantaggi fiscali (indebiti): dal comma 1 si desume che tali ragioni non devono essere essenziali, dal comma 2 che le operazioni elusive/abusive non devono essere idonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali, e dal comma 3 che tali ragioni devono essere non marginali. Come rilevato in dottrina26, il concetto di essenzialità è tratto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia27 e dalla Raccomandazione della Commissione UE del 6.12.201228 sulla pianificazione fiscale aggressiva29, il concetto di non marginalità delle ragioni extrafiscali è tratto dalla giurisprudenza della nostrana Corte di Cassazione30, mentre la “non significatività” appare ridondante. Alla luce della relazione al decreto, tali diverse formulazioni possono essere lette come riferite ad un unico concetto e cioè alla circostanza che “il vantaggio fiscale deve essere essenziale rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal contribuente”31 e dunque alla “verifica, necessariamente empirica, che il contribuente non l’avrebbe realizzata [l’operazione, n.d.a.] in assenza del vantaggio fiscale indebito”32. In secondo luogo, appare fuorviante il richiamo nel comma 9 all’onere del contribuente 34 25 In presenza di valide ragioni economiche extrafiscali, anche laddove vi siano vantaggi tributari indebiti, contrastanti con l’ordinamento, non è applicabile la norma generale antielusiva. 26 Manzitti A., Fanni M., cit., pp. 1600-1601. 27 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit., § 75, per cui “deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale […]. Il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali”. 28 Raccomandazione 6.12.2012 n. 2012/772/UE, pubblicata in G.U. UE 12.12.2012 n. 338, in Banca Dati Eutekne. 29 Seppure riferito allo scopo elusivo, più che ai vantaggi indebiti. In tal senso il § 4.2 della comunicazione ove viene raccomandato agli Stati membri di introdurre una norma generale antiabuso del seguente tenore: “Una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro «sostanza economica»”. 30 Manzitti A., Fanni M., cit., p. 1601, richiamano in particolare Cass. 27.3.2015 n. 6226, Cass. 14.1.2015 n. 439, Cass. 26.2.2014 n. 4604 e Cass. 21.1.2011 n. 1372, tutte disponibili in Banca Dati Eutekne. 31 Così la Raccomandazione UE, richiamata sul punto dalla relazione al decreto. 32 Manzitti A., Fanni M., cit. di dimostrare le valide ragioni extrafiscali; fuorviante in quanto, in caso di legittimo risparmio d’imposta, e cioè di operazione effettuata essenzialmente od unicamente per il vantaggio fiscale derivante, non vi è alcuna ulteriore o significativa ragione extrafiscale: in tali casi, a fronte dell’onere dell’ufficio finanziario di provare gli elementi costitutivi dell’elusione/abuso (presenza di una o più operazioni prive di sostanza economica, presenza dei vantaggi fiscali indebiti siccome realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principio dell’ordinamento tributario – primo periodo del comma 9) vi è l’onere del contribuente di dimostrare i fatti impeditivi di tali elementi costitutivi (assenza di operazioni prive di sostanza economica, assenza di vantaggi fiscali indebiti). Pertanto, la formulazione del secondo periodo del comma 9 andrebbe intesa come onere “subordinato” e cioè – laddove effettivamente sia provata e non (efficacemente) contestata la presenza di una o più operazioni prive di sostanza economica e di vantaggi fiscali indebiti – il contribuente ha l’onere di provare l’esimente costituita dalle (eventuali) ragioni economiche extrafiscali non marginali33: a tal proposito, la dottrina più sopra richiamata auspica(va) l’eliminazione di tale secondo periodo del comma 934. Da ultimo, per valide ragioni economiche extrafiscali si intendono, ai sensi del comma 3, le ragioni “non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. Si ritiene, anche alla luce della lettera dell’incipit del comma 3 (“Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni ex- trafiscali”), che quelle indicate sono alcuni esempi di valide ragioni extrafiscali, posto che ne sono individuabili di ulteriori, non collegate alla prospettiva di redditività immediata o futura dell’impresa (nell’ottica dell’imprenditore), ma relative anche più ampiamente ai vari stakeholder connessi all’impresa e diversi dalla proprietà (dipendenti, creditori, clienti, ecc.): si pensi in particolare alla salvaguardia dei livelli occupazionali, ritenuta valida ragione economica extrafiscale dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 26.2.2001 n. 25 35. 4 Le garanzie per il contribuente Quello in epigrafe è l’ambito in cui meglio si apprezzano le “luci” dell’art. 10-bis. In particolare, si evidenziano i seguenti passaggi: • “[…] l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto” (comma 6); • “La richiesta di chiarimenti è notificata dall’amministrazione finanziaria ai sensi dell’articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo. […]” (comma 7); • “Fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali re- 33 In tal senso, ad esempio, Lovecchio L., cit¸ p. 3323. 34 Manzitti A., Fanni M., cit. 35 Richiamata ad esempio da Capolupo S. “Le valide ragioni economiche”, il fisco, 2002, sub nota 47. Nella risoluzione in parola si conclude nel senso che il “progetto di re-industrializzazione coinvolge le ragioni economiche degli imprenditori e dei lavoratori direttamente interessati, ma anche più in generale dell’intero contesto sociale ed economico cui fa capo l’area industriale in questione. In tale ottica costituiscono valide ragioni economiche per la collettività interessata la necessità di salvaguardare i livelli occupazionali, ed evitare la dispersione di ingenti risorse economiche e di elevate professionalità”. 35 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 36 alizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6” (comma 8); • “L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2” (comma 9); • “In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” (comma 12). In primo luogo, viene in rilievo il diritto al contraddittorio anticipato sulle contestazioni elusive/abusive (commi 6, 7 e 8), e si tratta in sostanza dell’estensione a tutte le contestazioni di tipo elusivo/abusivo delle garanzie di cui al previgente art. 37-bis comma 4 del DPR 600/1973 (“L’avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2”), garanzie già estese da parte della giurisprudenza alle contestazioni in materia di abuso 36, ma ora chiaramente affermate dal legislatore. In secondo luogo, emerge un obbligo di motivazione rafforzata dell’atto impositivo recante contestazione di tipo elusivo/abusivo (comma 8), dovendo questo essere specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente in sede di contraddittorio preventivo e tutto ciò a pena di nullità. In particolare, con riguardo alla motivazione in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente, la stessa dovrà essere sostanziale, e cioè non potrà limitarsi a mere formule di rito – come è accaduto di vedere in particolare con riguardo alla motivazione di atti impositivi seguenti osservazioni a p.v.c. ex art. 12 comma 7 della L. 212/2000 – risolvendosi altrimenti in una motivazione apparente, da cui la nullità dell’atto impositivo. Ancora, si sottolinea la non rilevabilità d’ufficio della condotta abusiva (comma 9), e si tratta con ogni evidenza di un argine che il legislatore ha voluto porre alla Corte di Cassazione che in tema di abuso del diritto – a partire dalle famose sentenze di “Natale 2008” – ne ha sostenuto la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Sull’efficacia di tale previsione, nell’arginare le derive della giurisprudenza, la prima dottrina che ha commentato l’art. 10-bis ha espresso comprensibili preoccupazioni 37. In merito, peraltro, può rilevarsi come ora – a differenza del quadro normativo esistente all’epoca delle criticate pronunce della Suprema Corte – esiste la positivizzazione della norma antielusiva generale (l’art. 10-bis, per l’appunto) da cui, si ritiene, il necessario rispetto di tali previsioni legislative da parte del potere giudiziario. Da ultimo, e non meno importante, è la previsione del comma 12 per cui la contestazione di tipo elusivo/abusivo deve essere autonoma, e cioè, laddove sia possibile contestare non (solo) l’aggiramento di norme o principi, bensì (anche) la diretta violazione di norme (i.e. evasione), è quest’ultima – e solo quest’ultima – che può essere contestata: ciò dovrebbe quindi porre termine alla poco edificante prassi accertativa secondo cui viene dapprima contestata la violazione diretta di una o più disposizioni fiscali ed infine, quale motivazione subordinata – e contraddittoria (e dunque per ciò solo passibile 36 In tal senso, per tutte, Cass. SS.UU. 18.9.2014 n. 19667/2014, in Banca Dati Eutekne, che ha affermato il principio di diritto in forza del quale in tutti i procedimenti amministrativi tributari devono essere sempre garantiti la partecipazione del contribuente ed il suo diritto al contraddittorio procedimentale. Per approfondimenti sul tema, inter alia, Tundo F. “Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa”, Riv. giur. trib., 2014, p. 937 e ss. 37 Manzitti A., Fanni M., cit., pp. 1603-1604. di nullità)38 – viene affermato che laddove il giudice non ravvisi la violazione diretta della norma allora si versa in un’ipotesi di elusione/abuso in quanto l’operazione ha eluso la norma determinando un vantaggio fiscale39. 5 L’entrata in vigore sapprovazione degli stessi da parte del sistema o sotto-sistema tributario di riferimento), porta a ritenere che, nella sostanza, buona parte delle previsioni del novello art. 10-bis della L. 2012/2000 si devono applicare anche a fatti precedenti l’entrata in vigore. 6 della novella Considerazioni conclusive Ai sensi dell’art. 1 comma 5 del DLgs. 128/2015, le disposizioni dell’art. 10-bis dello Statuto sono efficaci dal 1° ottobre 2015 “e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo”. Dunque, apparentemente, la novella non si applica alle operazioni poste in essere ante 1° ottobre 2015 per le quali a tale data sia stato notificato il relativo atto impositivo: in realtà, giusta quanto sopra rilevato e come osservato in dottrina40, la circostanza che molti dei precetti contenuti nell’art. 10bis codificano approdi della giurisprudenza (es. estensione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 37-bis alle contestazioni in materia di abuso) ovvero riaffermano principi già presenti nell’art. 37-bis e ingiustamente negletti dalla giurisprudenza (es. centralità della natura “indebita” dei vantaggi in termini di di- È evidente che le positive modifiche legislative sortiranno effetti significativi – e queste sono le intenzioni del legislatore delegato, emergenti dalla relazione di accompagnamento ove si esprime un’evidente insoddisfazione, anche per il nocumento che ha recato all’immagine dell’Italia, in relazione agli sviluppi giurisprudenziali degli ultimi anni41 – solo se la giurisprudenza “recepirà il messaggio” ed applicherà la (nuova) legge, con buon senso e rispettandone la ratio come emergente anche dalla relazione. I contribuenti ed i loro consulenti fiscali, per parte loro, ed invertendo quanto sinora fatto, potranno dapprima contestare gli accertamenti in materia di elusione/abuso in punto di requisiti costitutivi (presenza di effettivi vantaggi fiscali essenziali e loro natura indebita) e solo in via secondaria, ove possibile, argomentare la presenza di valide ragioni extrafiscali. 37 38 La motivazione contraddittoria conduce a nullità dell’atto impositivo, come riconosciuto da Cass. n. 25197/2009 (commentata da Marello E. “La motivazione contraddittoria come vizio dell’avviso di accertamento”, Giur. It., 2010, c. 967 e ss.). Peraltro, si ha notizia che tale eccezione sia stata disattesa dalle Commissioni di merito in diversi e recenti contenziosi, da cui l’elevata opportunità della previsione normativa di cui all’art. 10-bis co. 12 in commento. 39In sostanza l’ufficio finanziario sviluppa nell’atto impositivo una contestazione principale (il comportamento del contribuente costituisce violazione diretta della norma impositiva X) ed una contestazione subordinata (il comportamento del contribuente costituisce elusione della norma impositiva X), rilevante laddove non venga accolta dal giudice la contestazione principale: evidente la contraddizione così emergente nell’atto impositivo. 40 Carinci A., Deotto D., cit., passim, che per tale motivo esprimono (se ben comprendo) una valutazione negativa della novella, in quanto non introduce novità di rilievo. Tale valutazione sarebbe condivisibile se non vi fossero state le derive giurisprudenziali del recente passato in tema di abuso del diritto, che rendono invece novità da salutare con favore una novella che riafferma principi negletti dalla giurisprudenza. 41 Manzitti A., Fanni M., cit., p. 1604, richiamano conclusivamente il seguente passaggio della relazione: “stabilità e certezza nell’ordinamento fiscale, ivi inclusa l’interpretazione delle norme e l’attività giurisdizionale, nonché l’esito dell’eventuale contenzioso, sono fattori importanti nella competizione fiscale tra Stati, almeno quanto il livello effettivo di tassazione”. TRIBUTI QUESTIONI APERTE IN MATERIA DI EXIT TAX LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Andrea PRAMPOLINI Dottore Commercialista – Partner Ludovici & Partners 38 Con l’emanazione del Decreto del Ministero delle Finanze 2.7.2014, la fattispecie impositiva del trasferimento di residenza è venuta a delinearsi con maggiore precisione. Permangono tuttavia alcune questioni relative ad aspetti scarsamente esplorati, che assumono una significativa rilevanza sul piano sia teorico che operativo. Tra queste, il legame tra il regime impositivo e la qualificazione oggettiva della porzione del patrimonio “estromesso” dal regime del reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia, la questione dell’applicabilità della participation exemption, la disciplina delle passività e dei fondi fiscalmente non riconosciuti, le condizioni per l’imponibilità del trasferimento all’estero di funzioni e rischi e, infine, la nozione di valore normale rilevante ai fini della tassazione. 1 Quadro normativo Il presupposto impositivo disciplinato dall’art. 166 comma 1 del TUIR configura un’ipotesi di realizzo assimilato che ha ad oggetto i “componenti dell’azienda o del complesso aziendale” della società che trasferisce all’estero la propria residenza fiscale. Tale realizzo ha, infatti, luogo in assenza di corrispettivo e in base al valore normale dei beni “come se” questi fossero realizzati mediante atti dispositivi dei beni stessi. Il presupposto impositivo non si verifica nell’ipotesi in cui beni confluiscano in una stabile organizzazione italiana della società, quale dovesse configurarsi a seguito del trasferimento di residenza all’estero, mentre si verifica, indefettibilmente (“in ogni caso”), in relazione alle stabili organizzazioni estere della società. I criteri di determinazione della base imponibile dell’exit tax sono disciplinati, in primo luogo, dal già richiamato articolo del TUIR. La relazione illustrativa all’originario art. 20-bis del TUIR, introdotto dal DL 23.2.1995 n. 41, precisa al riguardo che “il trattamento deve essere conseguentemente quello applicabile in sede di realizzo dell’azienda”. In ultimo, il quadro normativo è stato completato dal Decreto del Ministero delle Finanze 2.7.2014. Scopo del DM, di natura non regolamentare, è disciplinare il regime di sospensione o rateizzazione della riscossione dell’imposta, in attuazione della delega contenuta nell’art. 166 comma 2-quinquies del TUIR. Tuttavia, l’art. 1 comma 1 del DM assume una valenza interpretativa anche ai fini della definizione del presupposto e della base imponibile dell’exit tax, pur necessariamente confinata entro i limiti tracciati dalla norma primaria. 2 Qualificazione del patrimonio estromesso Nonostante la restrittiva formulazione dell’art. 166 del TUIR, occorre ritenere che il concorso alla formazione del reddito dei plusvalori e minusvalori, nonché dei maggiori o minori valori, del patrimonio che recide il proprio collegamento giuridico con il reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia possa riguardare: • sia l’azienda nel suo complesso o un ramo aziendale (ivi inclusa una eventuale stabile organizzazione all’estero), inclusivi, come si vedrà, del relativo avviamento; • sia beni aziendali singolarmente considerati; • sia, infine, beni di impresa ab origine non integrati in un compendio aziendale ex art. 2555 cc. (c.d. “beni isolati”: si pensi a una società che detiene solo partecipazioni o immobili patrimonio a scopo di mero godimento, che si trasferisce all’estero senza lasciare una stabile organizzazione in Italia)1. Il regime impositivo rimarrà ancorato, di volta in volta, alla qualificazione oggettiva della porzione del patrimonio della società trasferita che è “estromesso” dal regime del reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia. Così, ad esempio, se il patrimonio estromesso si qualifica come azienda o ramo aziendale, il regime impositivo sarà quello previsto dall’art. 86 comma 2 del TUIR, che prevede il realizzo di una “plusvalenza unitaria”, alla quale concorrono anche i beni che, se fossero ceduti singolarmente, genererebbero ricavi. Se invece il patrimonio estromesso è costituito da uno o più beni di cui all’art. 86 comma 1 del TUIR, non integrati in un complesso aziendale, il regime sarà quello ordinariamente applicabile alla plusvalenza o minusvalenza derivante dalla cessione dei singoli beni, inclusa l’applicazione di eventuali regimi di esenzione. Se infine il patrimonio estromesso è costituito da singoli beni di cui all’art. 85 comma 1 del TUIR, il trasferimento di residenza genererà ricavi. L’affermata dipendenza del regime impositivo dalla qualificazione oggettiva del patrimonio estromesso trova conferma, sul piano sistematico, nella disciplina della trasformazione eterogenea c.d. “decommercializzante”, regolata dall’art. 171 comma 1 del TUIR, che comporta l’estromissione dal regime dei beni di impresa di tutti o parte dei beni della società trasformata2. Tale dipendenza non è smentita dal riferimento dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014 alla “plusvalenza unitariamente determinata” in base al valore normale dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale. Infatti, la funzione del citato comma non è, né può essere, quella di mutare il regime impositivo dei componenti reddituali che originano dall’estromissione di beni singoli, estendendo ad essi in toto il regime della cessione di azienda di cui all’art. 86 comma 2 del TUIR. Si prefigge, invece, il più limitato scopo di ribadire che, anche nell’ipotesi in cui i beni estromessi non siano integrati in un compendio aziendale, i relativi plusvalori e minusvalori si elidono tra loro ai fini della determinazione 1 La questione dell’imponibilità dei plusvalori o maggiori valori dei c.d. “beni di impresa isolati” è stata ampiamente dibattuta, stante il riferimento letterale della norma ai soli “componenti dell’azienda o del complesso aziendale”. Essa è comunque da risolvere in senso affermativo, potendosi fondatamente sostenere che il legislatore abbia fatto riferimento solo alla situazione tipica di inclusione dei beni societari in un complesso aziendale, senza peraltro volere escludere espressamente la tassazione di beni che, pur non facendo parte di un’azienda, partecipano comunque al c.d. regime dei beni di impresa; dei beni, cioè, che partecipano al reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia (in ragione del presupposto personale o territoriale), l’“estromissione” dal quale è assunta a specifico presupposto impositivo dall’art. 166 del TUIR. L’imponibilità dei beni isolati, già indirettamente avallata dalla circolare Agenzia Entrate 4.8.2004 n. 36 (che aveva riconosciuto l’applicabilità del regime di participation exemption di cui all’art. 87 del TUIR anche nel trasferimento di residenza, v. infra) trova ora conferma anche nell’art. 1 co. 5 del DM 2.7.2014. Infatti, la disposizione fa riferimento a ciascun “cespite trasferito”, laddove la parola “cespite” ben può includere anche elementi patrimoniali che non sono “componenti dell’azienda”. 2 Cfr., in particolare, Tesauro F. “Aspetti fiscali della trasformazione eterogenea”, TributImpresa, 2, 2005, p. 10; Cicognani F. “Le trasformazioni eterogenee nell’art. 171 T.U.I.R.”, in “Imposta sul reddito delle società”, a cura di Tesauro F., Zanichelli, Bologna, 2007, p. 810-812; Ragucci G. “Schemi di attuazione della neutralità nelle operazioni straordinarie d’impresa”, Rass. trib., 2007, p. 1400, nota 37. 39 della base imponibile dell’exit tax. Ciò anche in considerazione del fatto che nel contesto dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014 la determinazione unitaria della base imponibile (“plusvalenza”) è servente al meccanismo di attribuzione proporzionale della stessa ai vari cespiti trasferiti all’estero, previsto dal successivo comma 5. A sua volta, tale meccanismo è funzionale al monitoraggio della frazione dell’imposta “sospesa” che si rende progressivamente esigibile da parte dell’Erario, in dipendenza del verificarsi degli eventi di cui al successivo comma 6. 3 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Exit tax e participation exemption 40 Chiarito che il regime impositivo è legato alla qualificazione in senso oggettivo del patrimonio estromesso, non vi è dubbio che l’estromissione di una o più partecipazioni non integrate in un compendio aziendale può beneficiare della participation exemption di cui all’art. 87 del TUIR, come peraltro riconosciuto dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate 4.8.2004 n. 36 (par. 2.2.) Tale situazione si verifica, innanzitutto, quando in occasione del trasferimento di residenza vengano ricollocate all’estero singole partecipazioni già incluse in una struttura aziendale preesistente, mantenendo la restante parte della struttura aziendale in una stabile organizzazione nel territorio dello Stato 3. La stessa situazione si verifica quando la partecipazione non faccia già originariamente parte di un complesso aziendale, ma configuri un “bene isolato”, come nel caso tipico di trasferimento all’estero di una holding statica, senza permanenza di stabile organizzazione in Italia. In tale ipotesi, l’applicabilità del regime di esenzione non è preclusa dal fatto che la società possa perdere lo status personale di imprenditore in Italia, proprio perché il regime impositivo è ancorato alla qualificazione oggettiva del patrimonio estromesso, non già alla situazione soggettiva della società trasferita4. Nell’ipotesi in cui fosse estromesso un complesso aziendale, nel cui compendio patrimoniale sia inclusa la partecipazione, l’applicabilità della participation exemption si scontrerebbe, in linea di principio, con la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 13.2.2006 n. 6, par. 5.2. La circolare ha ritenuto che l’applicazione del regime di esenzione sia preclusa dalla circostanza che nella cessione di azienda i componenti reddituali che originano dal trasferimento di proprietà dei beni perdono la propria individualità e concorrono a cumulativamente a determinare il valore dell’azienda, ai sensi dell’art. 86 comma 2 del TUIR, senza potere essere da questa “estrapolati”. Gli esiti di tale interpretazione risulterebbero particolarmente distorsivi nell’ipotesi in cui fosse trasferito all’estero l’intero complesso aziendale di una c.d. holding dinamica (inclusivo delle partecipazioni, del personale e dei mezzi dedicati alle attività di servizio alle partecipate, dei rapporti contrattuali, ecc.), alla quale il regime di esenzione sarebbe negato tout court. Per tale ragione la dottrina ha auspicato che l’Agenzia delle Entrate possa precisare il proprio orientamento nel senso di ritenere applicabile il regime di esenzione, sulla quota del patrimonio aziendale estromesso rappresentata da partecipazioni in possesso dei requisiti di cui all’art. 87 del TUIR, in tutte le ipotesi in cui il valore normale del compendio trasferito all’estero sia prevalentemente formato da partecipazioni (ferma restando la tassazione piena sulla quota di patrimonio aziendale residua)5. È comunque legittimo auspicare una riforma 3 In questo senso anche circolare Assonime 21.4.2006 n. 13, § 2.2.5. 4 Ne è conferma l’applicabilità della participation exemption anche quando lo status soggettivo di imprenditore viene meno nell’ambito di vicende puramente interne, come nel caso della trasformazione c.d. “decommercializzante” regolata dall’art. 171 co. 1 del TUIR. Sul punto, cfr. Tesauro F., cit., p. 10. 5 Cfr., Michelutti R. “Exit tax e holding alla ricerca di chiarimenti”, Il Sole-24 Ore, 15.10.2015, p. 42, che propone di effettuare il test di prevalenza sulla base degli stessi criteri previsti dall’art. 87 co. 5 del TUIR e dalla circolare Agenzia Entrate n. 36/2004, cit., § 2.3.5. ancor più radicale dell’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, che riconosca in ogni caso l’applicazione dell’esenzione sulla quota della plusvalenza, derivante dal trasferimento all’estero o dalla cessione dell’azienda, rappresentata da partecipazioni con i requisiti per l’esenzione. Al fine di pervenire a tale risultato, occorrerebbe riconoscere che è l’art. 87 del TUIR ad assumere natura di disposizione speciale rispetto all’art. 86 comma 2 del TUIR, non già viceversa. La tesi trova fondamento nell’esistenza di due elementi “specializzanti” nel citato art. 87 del TUIR: il primo è rappresentato dall’oggetto, che è circoscritto alle partecipazioni. Il secondo è rappresentato dai requisiti, che sono volti a delimitare l’ambito di applicazione dell’esenzione in funzione dell’esigenza, di carattere sistematico, di evitare una duplicazione economica dell’imposta rispetto agli utili che hanno già subito tassazione in capo alla società partecipata. Tale esigenza rimane invero immutata, a prescindere dalla circostanza che la partecipazione sia ceduta unitariamente o separatamente rispetto all’azienda di cui fa parte6. 4 Avviamento, funzioni, rischi Altre questioni interpretative emergono dalla lettura dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014, laddove è disposto che “la predetta plusvalenza include anche il valore dell’avviamento, comprensivo delle funzioni e dei rischi trasferiti, determinato sulla base dell’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento”. Anteriormente all’emanazione del citato decreto, la questione se l’avviamento dovesse essere o meno incluso nella determinazione della plusvalenza unitaria aveva formato oggetto di un intenso dibattito dottrinale7. Si è dell’avviso che la soluzione affermativa alla questione prospettata fosse già avvalorata dall’assimilazione della fattispecie impositiva originata dalla perdita della residenza a quella che caratterizza la cessione dell’azienda (quest’ultima, pacificamente inclusiva dell’avviamento), quale contenuta nella relazione illustrativa all’originario art. 20-bis del TUIR. In questo senso, l’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014 assume una mera valenza confermativa, laddove prevede che “la predetta plusvalenza include anche il valore dell’avviamento”. A conclusioni parzialmente diverse occorre invece pervenire in ordine all’inclusione nella base imponibile delle “funzioni e dei rischi trasferiti”. Le “funzioni” e i “rischi” non sono beni di impresa. Dovrebbe quindi ritenersi che, in tanto essi possono essere tassati nell’ambito del trasferimento di residenza, in quanto rappresentino “componenti dell’azienda o del complesso aziendale”, ai sensi dell’art. 166 comma 1 del TUIR, e confluiscano, pertanto, in quella posta residuale che è l’avviamento dell’azienda. Detto altrimenti, vi sarà imponibilità del trasferimento di rischi e funzioni solo nel caso in cui il patrimonio estromesso si qualifichi come azienda o ramo di azienda e l’imposizione avrà luogo in forma implicita, cioè quale parte integrante dell’avviamento. Quindi, ad esempio, se il trasferimento all’estero riguardasse una holding statica, titolare di una partecipazione e di un contratto di lavoro con un dipendente adibito a mansioni contabili e di segreteria, anch’egli ricollocato all’estero, non sorgerebbe alcun presupposto impositivo per le “funzioni e i rischi trasferiti”, perché nel caso di specie non si configurerebbe il trasferimento all’estero di un’azienda8. In tale ipotesi, pertan- 6 Si vedano, al riguardo, le condivisibili argomentazioni di Viotto A. “Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni”, Giappichelli, Torino, 2013, p. 251. Si era espressa a favore di tale soluzione anche l’Assonime (circolare 6.7.2005 n. 38), che successivamente ha preso atto, con la circolare 21.4.2006 n. 13, del diverso orientamento manifestato dall’Agenzia delle Entrate. 7 Per una rassegna delle posizioni espresse in merito, cfr. Di Siena M. “Il trasferimento all’estero della residenza”, in “Operazioni di finanza straordinaria”, a cura di Cristofori G., ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2010, p. 1134. 8 In giurisprudenza, cfr. C.T. Prov. Milano 29.9.2010 n. 396/1/10, in Banca Dati Eutekne, che ha escluso la configurabilità del trasferimento di azienda in ipotesi di riorganizzazione aziendale con affidamento di alcune attività all’estero e il trasferimento di un solo dipendente. 41 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 to, il trasferimento delle competenze personali (o della “funzione” contabile), quale ne sia il valore e anche assumendo che lo stesso sarebbe stato remunerato tra parti indipendenti, non comporterà tassazione, in difetto di una norma impositiva che disponga in tal senso. Tale norma non potrebbe essere rinvenuta nel citato art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014, perché quest’ultimo è inidoneo ad ampliare i confini del presupposto e della base imponibile definiti dalla norma primaria9. Né, si ritiene, potrebbe assolvere a questa funzione il capitolo IX delle Linee guida dell’OCSE in materia di transfer pricing, dedicato al business restructuring, che pure garantirebbe agli 42 Stati la facoltà di assoggettare ad imposizione il valore imputabile al ridimensionamento di funzioni e al trasferimento di contratti di lavoro in occasione della chiusura di una determinata attività. E ciò non tanto perché non è del tutto immediato stabilire se il capitolo IX delle Guidelines possa effettivamente trovare applicazione anche al trasferimento di residenza10, quanto piuttosto perché le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni redatte in conformità all’art. 9 del Modello OCSE e i relativi strumenti interpretativi non possono ampliare la base imponibile determinata dalla norma impositiva interna11, ma solo limitarla (c.d. “principio di non aggravamento”)12. 9 In generale, sulle criticità connesse all’adozione di decreti di natura non regolamentare, le cui prescrizioni non potrebbero costituire situazioni giuridiche soggettive nei confronti dei loro destinatari, si veda Battistoni Ferrara F. “Una nuova fonte di produzione normativa, i decreti ministeriali non aventi natura regolamentare”, Riv. dir., trib., 2005, p. 1123 e ss. 10 Invero, poiché il trasferimento di residenza si esaurisce nella sfera di un unico soggetto giuridico, difetterebbe uno dei presupposti formali dell’art. 9 del Modello OCSE, cioè l’esistenza di due soggetti, legati da un rapporto di controllo, tra i quali si configuri un trasferimento di rischi e funzioni, al quale correlare un eventuale obbligo di indennizzo (nel presupposto che lo stesso sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti, a fronte del trasferimento). Vero è che tale alterità soggettiva potrebbe essere ricostruita tramite una fictio operante sul piano esclusivamente fiscale, come avviene in relazione al trasferimento di beni dalla stabile organizzazione alla sede centrale della stessa impresa (evento che giustifica l’insorgenza di un presupposto di tassazione nel Paese della fonte, come già desumibile dall’art. 166 co. 1 secondo periodo del TUIR ed ora confermato dal riformulato art. 152 co. 3 del TUIR, in linea con l’art. 7 delle convenzioni redatte secondo il Modello OCSE – cfr. anche Commentario OCSE all’art. 13, § 10). 11Le Guidelines dell’OCSE trovano applicazione, in particolare, al trasferimento: (i) di un complesso aziendale, comprendente il personale, le funzioni svolte, ecc. (§ 9.93 e ss.); (ii) di singoli beni materiali (§ 9.75 e ss.); (iii) di singoli beni immateriali (§ 9.80 e ss.); (iv) di diritti contrattuali non integrati in un compendio aziendale (§§ 9.91 e 9.92); (v) di accordi contrattuali e contratti di lavoro, in occasione della cessazione o rinegoziazione di accordi esistenti (§ 9.100). Non residuano dubbi in merito alla possibilità di ricondurre all’ambito applicativo dell’art. 166 del TUIR la fattispecie menzionata sub (i) (si veda anche la risoluzione Agenzia Entrate 7.11.2006 n. 124, che afferma l’imponibilità del trasferimento all’estero di un complesso aziendale, comprendente la lista clienti, le competenze e il know-how, presumibilmente quali parti integranti del relativo avviamento). Sulla configurabilità del know-how quale parte integrante dell’avviamento si veda anche la C.T. Prov. Milano 29.10.2010 n. 429/3/10, in Banca Dati Eutekne). Altrettanto può dirsi in relazione alle fattispecie sub (ii) e sub (iii), sempreché comportino il trasferimento di singoli beni di impresa, legalmente identificabili (si pensi al trasferimento di un macchinario o di un marchio). Si ritiene che a diverse conclusioni occorra invece pervenire, alla luce dell’attuale normativa, in relazione al trasferimento di funzioni, diritti contrattuali, ecc., che non formano parte integrante dell’avviamento di un complesso aziendale, né costituiscono beni di impresa. In senso opposto, la dottrina ha osservato che la circolare Agenzia Entrate 15.12.2010 n. 58, nel punto in cui – con riferimento all’art. 110 co. 7 del TUIR – afferma genericamente che “particolare attenzione dovrà essere posta ai cambiamenti [di funzioni, assets e rischi n.d.a.] intervenuti a seguito di operazioni di riorganizzazione aziendale”, sembrerebbe adombrare l’imponibilità anche delle fattispecie da ultimo menzionate (per la distinzione tra l’approccio formale che emerge dalla norma interna e l’approccio assunto dall’Agenzia delle Entrate, che rimanda tout court alle Guidelines in materia di business restructuring, si veda Cottani G. “Cross-border business restructuring- Italy”, IFA Cahiers de droit fiscal International, 2011, p. 433; nonché Avolio D., Cottani G., Ferroni B. “Business restructuring e stabile organizzazione”, in “La stabile organizzazione delle imprese industriali e commerciali”, a cura di Mayr S., Ipsoa, Milano, 2013, p. 571. Nel senso dell’imponibilità dell’indennizzo implicito da ridimensionamento di funzioni e rischi si vedano Piazza M., Valsecchi M. “Exit tax: questioni ancora aperte dopo l’emanazione delle norme attuative”, il fisco, 2014, p. 3951. Occorre peraltro ribadire che l’imponibilità del trasferimento di funzioni e rischi non inclusi in un compendio aziendale è estranea al dato testuale dell’art. 166 del TUIR, come a quello dell’art. 86 co. 1 lett. c) del TUIR (che, a tacer d’altro, menziona i soli beni e non potrebbe estendersi alle destinazioni a finalità estranee di servizi: cfr., inter alia, Leo M. “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Giuffrè, Milano, 2010, p. 1463) e, a nostro avviso, anche a quello dell’art. 110 co. 7 del TUIR. Si ritiene, in conclusione, che la pretesa di fondare l’imponibilità con riferimento esclusivo alle Guidelines si risolverebbe in un’ammissibile ampliamento della base imponibile prevista dalla normativa interna. 12 Per l’applicabilità del principio di non aggravamento con specifico riferimento all’art. 9 del Modello OCSE e, quindi, alla disciplina del transfer pricing, si veda da ultimo, in prospettiva comparatistica, Wittendorff J. “Transfer Pricing and Di ciò pare avvedersi lo stesso decreto. Infatti, mentre l’art. 1 comma 1 del DM 2.8.2013 disponeva che “Nei suddetti componenti [dell’azienda, n.d.a.] si comprendono il valore dell’avviamento e quello delle funzioni e dei rischi propri dell’impresa […]”, il corrispondente comma del DM 2.7.2014 stabilisce che “La predetta plusvalenza include anche il valore dell’avviamento, comprensivo delle funzioni e dei rischi trasferiti […]”. Si tratta, a nostro avviso, di un esplicito riconoscimento del fatto che il trasferimento di funzioni e rischi non è imponibile in via autonoma, ma solo quale parte integrante dell’avviamento di un complesso aziendale trasferito. 5 Passività e fondi fiscalmente non riconosciuti L’art. 166 del TUIR pare escludere che il trasferimento all’estero possa originare componenti reddituali relativi alle “passività”, in ragione di un’ipotetica differenza tra il loro valore normale e il loro valore nominale o di bilancio. Invero, a fronte del generico riferimento della norma ai “componenti dell’azienda o del complesso aziendale”, che sul piano strettamente letterale potrebbero includere anche le passività, la relazione illustrativa al DL 41/1995 chiarisce che la fattispecie del trasferimento all’estero è realizzativa, alla stregua del realizzo dell’azienda, “limitatamente alla differenza tra costo fiscale e valore normale dei beni che permangono nella titolarità del soggetto trasferito” e non accenna affatto alle passività. Del pari, la relazione illustrativa al DLgs. 6.11.2007 n. 199, di recepimento della direttiva 2005/19/CE, precisa che il dato testuale dell’art. 166 comma 1 del TUIR, comporta “la rilevanza reddituale non solo delle plusvalenze ma, evidentemente, anche delle eventuali minusvalenze realizzate”, senza tuttavia considerare l’ipotesi di emersione di sopravvenienze attive o passive relative alle passività13. E ancora, l’art. 1 comma 3 del DM 2.7.2014, stabilisce che la plusvalenza da exit è determinata “senza tener conto delle minusvalenze e/o delle plusvalenze realizzate successivamente al trasferimento stesso”, utilizzando di nuovo la terminologia propria degli artt. 86 comma 1 e 101 comma 1 del TUIR (“plusvalenze”; “minusvalenze”), che si adatta ai componenti reddituali originati dal realizzo dei beni di impresa, non a quelli generati dalle passività. Meno chiara, sotto questo profilo, è la formulazione del par. 2.1 lett. d) del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 10.7.2014 n. 92134, che richiede “l’indicazione per ciascun bene, diritto e passività del costo fiscale, del valore normale, della relativa plusvalenza o minusvalenza, che ha concorso alla determinazione della plusvalenza complessiva”. Ulteriori dubbi sono ingenerati dalla recente introduzione dell’art. 166bis del TUIR, che fa espresso riferimento al valore normale “in ingresso” delle passività14. the Arm’s Length Principle”, International Tax Law, 2010, p. 198. Si veda anche Commentario OCSE, art. 1, §. 9.2. In giurisprudenza, tra le altre, Cass. 21.2.2005 n. 3414, Dir. e prat. trib., 2005, p. 1506. 13Nella cessione di azienda, cui il trasferimento di residenza è assimilato, il trasferimento di una passività ad altri soggetti, diversamente dalla sua remissione, non comporta l’emersione di una sopravvenienza attiva imponibile. Cfr. Lupi R. “Operazioni straordinarie, debiti accollati e poste rettificative: alla ricerca di simmetria tra cedente e cessionario”, in “La fiscalità delle operazioni straordinarie di impresa”, a cura di Lupi R., Stevanato D., ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2002, p. 198. 14 Il co. 2 dell’art. 166-bis, nel distinguere anche per le passività il “valore normale”, il “valore di bilancio” e il “costo d’acquisto”, lascerebbe intendere che il valore normale di una passività possa differire dal suo valore nominale o di bilancio. Tuttavia, l’art. 9 del TUIR non sembra occuparsi della determinazione del valore normale di una passività, né di come, eventualmente, questo possa differire dal relativo valore nominale o di bilancio. Né si ritiene che a tal fine possa farsi riferimento alla nozione di fair value di una passività ai sensi dello IAS 39, stante la mancata coincidenza, evidenziata dalla dottrina, tra le nozioni di fair value e di valore normale (cfr. Wittendorff J. “The Arm’s Length Principle and Fair Value: Identical Twins or Just Close relatives”, Tax Notes International, 18.4.2011, p. 223; Avolio D., Ruggiero P. “IAS/IFRS e «transfer pricing»: le differenze nelle valutazioni a «fair value» e ad «arm’s length»”, Corr. Trib., 2011, p. 3719 e ss.). 43 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Per quanto ambigue, tali formulazioni non paiono comunque idonee a sovvertire le molteplici indicazioni per cui il trasferimento di sede all’estero non origina componenti reddituali relativi alle passività fiscalmente riconosciute, in funzione di un’ipotetica differenza tra il relativo valore normale e di bilancio. Non è chiaro, per altro verso, quale rilevanza assumano eventuali fondi per rischi o oneri non riconosciuti sul piano fiscale (c.d. “fondi tassati”, in quanto alimentati da accantonamenti diversi da quelli per i quali è ammessa la relativa deducibilità, ai sensi degli artt. 105, 106 e 107 del TUIR) iscritti tra gli elementi del passivo aziendale trasferito. Non pare corretto accomunare tali fondi ai componenti negativi di cui al comma 2 lett. c) del DM 2.7.2014, “la cui deduzione […] sia stata rinviata in conformità alle disposizioni del TUIR”, i quali concorrono in via autonoma alla formazione del reddito dell’ultimo periodo di imposta di residenza. Si tratta, infatti, di fondi costituiti con accantonamenti indeducibili, la cui deduzione è negata dal TUIR, non già semplicemente “rinviata” al momento in cui il relativo costo assume certezza. Si ritiene quindi preferibile fare concorrere tali fondi alla determinazione della plusvalenza unitaria, anche in considerazione del fatto che, nell’ipotesi di cessione di azienda, essi assumerebbero rilevanza nella determinazione del valore economico dell’azienda e del (maggiore) valore fiscale di quest’ultima rispetto a quello contabile; concorrerebbero, cioè, a determinare la (minore) plusvalenza fiscale realizzata dal venditore (rispetto a quella contabile), mediante una variazione in diminuzione da apportare in sede di dichiarazione dei redditi15. 6 Determinazione della base imponibile La base imponibile dell’exit tax sarà quindi determinata quale somma algebrica delle plusvalenze e minusvalenze dei singoli beni nonché, se il patrimonio trasferito configura un’azienda o un ramo aziendale, del relativo avviamento16 e, infine, dei fondi rischi e oneri fiscalmente non riconosciuti, come nell’esempio riportato di seguito. ESEMPIO Si assuma che la società A trasferisca la propria residenza in Spagna, senza che si configuri una stabile organizzazione residua in Italia. La plusvalenza unitaria, pari a 40, è determinata come segue. 44 15 Cfr., tra gli altri, Lupi R., cit., p. 198; Miele L. “Cessioni e conferimenti di azienda, trasferimento o nuova iscrizione di fondi per rischi ed oneri: l’avviamento negativo”, Riv. op. str., 2011, p. 23; Gargiulo G., Stevanato D. “Rilevazione di fondi rischi da parte dell’acquirente di azienda e rivalutazione fiscale dell’attivo”, Dialoghi Tributari, 2008, p. 93; norma di comportamento ADC Milano 1.4.2002 n. 148. 16 Concorrono alla formazione della plusvalenza unitaria i maggiori valori di tutti i beni trasferiti, ivi inclusi, si ritiene, i beni merce. In primo luogo, ciò è coerente con i criteri di determinazione della plusvalenza derivante dalla cessione di azienda, cui il trasferimento di residenza è assimilato. In secondo luogo, l’inclusione nella plusvalenza unitaria dei maggiori valori dei beni merce non trova ostacoli letterali né nell’art. 1 co. 5 del DM 2.7.2014 (che prevede l’allocazione della plusvalenza unitaria ai soli “cespiti” trasferiti, escludendo così i beni merce) né nel precedente co. 2 lett. a), a mente del quale “la sospensione o la rateizzazione di cui al comma 1 non possono riguardare” i beni merce. Tali disposizioni, infatti, trovano applicazione in un momento distinto e logicamente successivo rispetto a quello di determinazione della plusvalenza; nel momento, cioè, in cui ha luogo l’allocazione della plusvalenza e l’individuazione della quota di essa che non può beneficiare della rateizzazione o sospensione. Del resto, se l’intento fosse stato quello di escludere i beni merce dalla determinazione della plusvalenza unitaria, il co. 2 avrebbe più probabilmente essere formulato nel senso che “la plusvalenza di cui al comma 1 non include” i beni merce. Tale specificazione sarebbe stata invece superflua per gli elementi menzionati alle lett. b) e c) (fondi in sospensione e componenti autonomi del reddito di impresa rinviati da periodi precedenti), trattandosi di poste che comunque non sarebbero rientrate nella determinazione della plusvalenza derivate dalla cessione di un’azienda, né, quindi, della plusvalenza di cui all’art. 166 del TUIR. Valore contabile Brevetti Valore fiscale Valore normale Plus (minus) fiscale 100 100 125 25 0 0 50 50 Impianti 80 100 90 (10) Merci 10 10 20 10 Crediti 25 25 10 (15) (100) (100) (100) 0 (20) 0 (20) (20) 95 135 175 40 Avviamento Debiti Fondi rischi (fiscalmente non riconosciuti) Totale 7 Nozione di valore normale Altra questione attiene alla nozione di valore normale da assumere ai fini della tassazione dei beni della società trasferita all’estero che sono estromessi dal regime del reddito di impresa17. Due sono le possibili risposte alla questione prospettata: il valore normale dei beni è quello determinato ai sensi dell’art. 9 del TUIR oppure è il prezzo di libera concorrenza (c.d. valore at arm’s length), cui fanno riferimento l’art. 9 del Modello OCSE e le Linee Guida dell’OCSE in materia di transfer pricing. Il dubbio si pone non tanto perché l’art. 166 del TUIR, a differenza dell’art. 166-bis recentemente introdotto, non contiene un rinvio espresso all’art. 9 del TUIR (essendo questo l’unico articolo del Testo Unico che definisce il valore normale), quanto piuttosto perché l’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014, al fine di individuare i criteri di valorizzazione del (solo) “avviamento, comprensivo delle funzioni e dei rischi trasferiti”, contiene un riferimento testuale “all’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento”, cioè al valore at arm’s length. È noto che la nozione di valore normale accolta dall’art. 9 comma 3 del TUIR, per molti versi inadeguata e anacronistica, non è necessariamente in linea con quella OCSE del prezzo di libera concorrenza. Lo dimostra il dibattito dottrinale insorto in relazione all’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 110 comma 7 del TUIR, incentrato sulla questione se sia o meno legittimo integrare il rinvio all’art. 9 del TUIR con i criteri dell’OCSE diversi da quello del confronto del prezzo, ivi inclusi, i c.d. metodi reddituali18; dibattito che si è arricchito in tempi recenti di alterne pronunce di legittimità19. Altrettanto noto è che, fin dalla circolare 22.9.1980 n. 32 e ancor più nella successiva circolare 15.12.2010 n. 58, la tesi dell’Amministrazione finanziaria è invece sempre stata nel 17 La questione è stata giustamente sollevata da Mayr S. “Alcune osservazioni sul decreto di attuazione della norma sul trasferimento di sede all’estero”, Boll. trib., 2013, p. 1385 e ss. 18 Per una sintesi dei termini del dibattito e relativi riferimenti bibliografici, cfr. Della Valle E., sub art. 110 co. 7-12 bis, in “Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi”, a cura di Tinelli G., Cedam, Padova, 2009, p. 1042. 19 Cfr., da ultimo, Cass. 5.8.2015 n. 16399, in Banca Dati Eutekne, che ha affermato che, in assenza di operazioni comparabili, “è possibile il ricorso a metodi alternativi, consigliati dall’OCSE, quali i metodi del prezzo di rivendita e del costo maggiorato (costituito dalla somma del costo del prodotto e di un margine percentuale di profitto), nonché quelli basati sulla ripartizione degli utili o sulla comparazione degli stessi”. In precedenza, la Corte si era invece espressa in senso contrario, con le sentenze del 25.9.2013 n. 22010 e 23.10.2013 n. 24005, entrambe in Banca Dati Eutekne, secondo cui, “tra i diversi criteri indicati dal Modello OCSE del 1995, per la valutazione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano [nell’art. 9 del TUIR] ha compiuto una precisa scelta a favore di quello del «confronto del prezzo» (comparable uncontrolled price method)”, escludendo così il ricorso ad altri metodi. 45 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 46 senso dell’allineamento tra le nozioni di valore normale e valore arm’s lenght20. Alle Linee Guida dell’OCSE fa riferimento la prassi delle imprese e, da ultimo, il Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 29.9.2010 n. 137654, in materia di documentazione rilevante ai fini della disciplina del transfer pricing, di cui all’art. 110 comma 7 del TUIR, emanato ai sensi dell’art. 26 del DL 31.5.2010 n. 7821. Tale ultima disposizione, rubricata “Adeguamento alle direttive OCSE in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento” è stata talvolta interpretata come un (implicito) recepimento, da parte del legislatore, delle Linee Guida dell’OCSE ai fini dell’applicazione dell’art. 110 comma 7 del TUIR, ivi espressamente richiamato. La questione prospettata si ripropone, in termini parzialmente similari, in relazione all’art. 166 del TUIR. Con la differenza che il citato art. 26 del DL 78/2010, in quanto riferito al solo art. 110 comma 7 del TUIR, non potrà comunque fornire un sostrato normativo per l’utilizzo del valore at arm’s length. Per altro verso, il trasferimento all’estero riguarderà in molti casi beni per i quali difettano i requisiti di comparabilità richiesti dalle Guidelines per l’applicazione del metodo del confronto del prezzo (si pensi alla valutazione dei beni intangibili trasferiti all’estero, quali marchi, brevetti, know-how, ecc.). In tali ipotesi, il riferimento ai criteri previsti dalle Guidelines dell’OCSE22 diverrà nella maggior parte dei casi un orizzonte obbligato per ragioni di natura pratica, non giuridica. Ai fini dell’applicazione dell’art. 166 del TUIR, l’integrazione dell’art. 9 del TUIR con le raccomandazioni dell’OCSE troverà comunque un limite nella circostanza che né il DM 2.7.2014 né l’art. 9 delle convenzioni bilaterali redatte secondo il Modello OCSE possono ampliare la base imponibile rispetto a quella che deriva dalla norma impositiva interna. Quanto precede assume sicura rilevanza nelle ipotesi in cui l’art. 9 del TUIR risulti concretamente applicabile e definisca in modo puntuale i criteri di determinazione del valore normale di un determinato bene trasferito all’estero. Così, ad esempio, non pare in discussione che il valore di una partecipazione in una società quotata, inclusa nel patrimonio di una holding che trasferisce la propria residenza all’estero, debba essere determinato in base alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese, ai sensi dell’art. 9 comma 4 lett. a) del TUIR. Ciò quand’anche potesse argomentarsi che il prezzo pattuito tra parti indipendenti per la cessione della partecipazione sarebbe stato superiore (ad esempio, per tenere conto di un premio di maggioranza). È forse questo il significato da attribuire alla scelta del legislatore di includere un rinvio espresso all’art. 9 del TUIR nel testo del neo-introdotto art. 166-bis del TUIR, che disciplina la determinazione del valore normale dei beni “in ingresso” in occasione del trasferimento di residenza in Italia. 8 Allocazione e sospensione della plusvalenza Il meccanismo di allocazione della plusvalenza unitaria, disciplinato dall’art. 1 comma 5 del DM 2.7.2014, è volto alla quantificazione della quota di plusvalenza da attribuire ai singoli cespiti trasferiti, in funzione strumentale all’operatività delle regole dettate in materia di sospensione o rateizzazione dell’imposta. Forma oggetto di allocazione “la plusvalenza complessiva di cui al medesimo comma 1”, cioè la “plusvalenza unitaria”, corrispondente alla base imponibile come sopra determinata. Tale plusvalenza dovrà essere allocata (“riferita”) “a ciascun cespite trasferito”, “in base al rapporto tra il rispettivo maggior valore e la 20 Tale circostanza è evidenziata anche da Assonime, circolare 20.2.2014 n. 5, p. 59. 21 Conv., con mod., L. 30.7.2010 n. 122, in G.U. 30.7.2010 n. 176 - S.O. n. 174. 22 Come modificate dal documento OCSE 5.10.2015 BEPS Action n. 8-9-10 Final Reports “Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation”, in Banca Dati Eutekne, con particolare riferimento alla valutazione dei beni immateriali. sommatoria di tutti i maggiori valori trasferiti”. Se ne desume, che: • la plusvalenza unitaria dovrà essere allocata ai soli “cespiti” trasferiti. È quindi letteralmente esclusa l’allocazione ai beni merce, in coerenza con il fatto che per tali beni non è esercitabile l’opzione per la sospensione o rateizzazione dell’imposta [cfr., comma 2 lett. a)]; • la chiave di ripartizione è data dai soli “maggiori valori” trasferiti. Ne consegue che, in presenza di minusvalenze latenti e di fondi fiscali non riconosciuti, questi ridurranno proporzionalmente i plusvalori latenti dei beni trasferiti23, come nell’esempio riportato in nota24; • in caso di opzione per la sospensione, il meccanismo di allocazione consente di ripartire la plusvalenza unitaria residua in funzione delle diverse modalità e tempi di recupero dell’imposta, legate alle vicende dei componenti aziendali cui la plusvalenza è allocata; • il meccanismo di allocazione si regge su una regola autonoma, verosimilmente volta a prevenire allocazioni “strumentali” della plusvalenza unitaria a beni che consentirebbero un più lento recupero dell’imposta (ad esempio, beni non ammortizzabili o a lento ammortamento, non destinati ad essere ceduti). Si evita in tal modo l’insorgere di controversie simili a quelle che possono caratterizzare la ripartizione del corrispettivo di acquisto dell’azienda da parte del cessionario25. Da ultimo, l’art. 1 comma 6 del DM 2.7.2014 disciplina le modalità e i tempi di recupero dell’imposta per la quale sia stata esercitata l’opzione per la sospensione. Il versamento dell’imposta è collegato non solo alle vicende realizzative dei componenti aziendali cui la plusvalenza unitaria è stata allocata (e sospesa), ma anche ad una serie di eventi specifici, diversi dal realizzo in base al TUIR e variabili in funzione della tipologia di componente aziendale (maturazione delle quote di ammortamento residue, distribuzione di utili, ecc.), la cui individuazione nel DM costituisce legittimo esercizio di una facoltà accordata agli Stati dalla Corte di giustizia 26. 47 23 Cfr. anche circolare Assonime n. 5/2014, cit., p. 81: “In questo modo, come è stato correttamente rilevato in dottrina, le eventuali minusvalenze di taluni beni del compendio trasferito, nonché le passività del compendio aziendale, andranno a ripartirsi proporzionalmente ad abbattimento di tutti i beni, anche di quelli singolarmente plusvalenti”. 24 Si assumano i dati riportati nella tabella di cui al precedente esempio. La plusvalenza unitaria è pari a 40. Tale plusvalenza può essere allocata ai soli beni, diversi dai beni merce, che denotano un “maggior valore” (brevetti, avviamento). La quota allocata a ciascuno di tali beni è pari al rapporto tra il rispettivo “maggior valore” (25 per i brevetti e 50 per l’avviamento) e la somma dei “maggiori valori” dei cespiti trasferiti, pari a 75 (25+50). Ne consegue che la quota di plusvalenza unitaria allocata ai brevetti è pari a 40 x (25/75) = 13,3; la quota allocata all’avviamento è pari a 40 x (50/75) = 26,7. In entrambi i casi, la quota di plusvalenza allocata è inferiore al “maggior valore” del bene, quale effetto indotto dalla presenza di beni minusvalenti e di fondi fiscalmente non riconosciuti. 25 In giurisprudenza, cfr. Cass. 16.4.2008 n. 9950, in Banca Dati Eutekne. 26 Cfr. Corte di giustizia 18.7.2013 causa C-261/11, Commissione c. Danimarca, punto 37; Corte di giustizia 23.1.2014 causa C-164/12 DMC, punto 53, entrambe in Banca Dati Eutekne. TRIBUTI LA MISURAZIONE DEL CONTRIBUTO ECONOMICO DEGLI INTANGIBILI AI FINI DEL “PATENT BOX” Fabio BUTTIGNON Ordinario di Finanza Aziendale - Università degli Studi di Padova LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Giulia MILAN Dottore Commercialista e Revisore Legale 48 L’adesione al regime del Patent box comporterà per le imprese e i loro consulenti l’identificazione e la quantificazione dei redditi conseguiti dallo sfruttamento dei beni intangibili. Quando ciò avviene in modo diretto, sarà necessario impostare un percorso di stima, in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate, che definisca la metodologia di misurazione di tali redditi e i parametri di calcolo. L’obiettivo del presente lavoro è di illustrare i criteri di stima indicati nei più recenti riferimenti normativi e, sulla base dei contributi offerti dalla Dottrina e dalla pratica professionale, descrivere i razionali e il contenuto dei principali metodi, evidenziandone criticità e limiti applicativi. 1 La disciplina del “Patent box” Con il DM 30.7.20151 il Ministero dello Sviluppo economico ha dato attuazione alla previsione contenuta nella legge di Stabilità 2015 (art. 1 commi 37-45 della L. 23.12.2014 n. 190), come modificata con il DL 24.1.2015 n. 32 che introduce anche nel nostro ordinamento un regime opzionale di tassazione per i redditi derivanti dall’utilizzo di opere dell’ingegno, di brevetti industriali, di marchi, di disegni e modelli, nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili. Il disposto di legge allinea l’Italia agli altri Paesi europei (Benelux, Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Spagna) nella tutela della permanenza dei beni immateriali d’impresa nel Paese ove si sono originati, favorendone, al contempo, l’attività di ricerca e sviluppo. Nella relazione illustrativa al decreto il Ministero dello Sviluppo economico dichiara che lo stesso è conforme con i principi elaborati in ambito OCSE. Tuttavia, in data 5 ottobre 2015 sono state pubblicate le 15 raccomandazioni (“Actions”) relative al progetto BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”) avviato nel 2013 su commissione del G-20 per limitare l’erosione della base imponibile di ciascun Stato membro o lo spostamento artificioso dei 1 In G.U. 20.10.2015 n. 244. Per una disamina dell’agevolazione si rinvia a Alberti P., Cotto A. “Regime del Patent box”, Schede di Aggiornamento, Eutekne, 12, 2015, p. 2117 e ss. 2 Conv., con modificazioni, L. 24.3.2015 n. 33, in G.U. 25.3.2015 n. 70 – S.O. n. 15. profitti in Paesi a fiscalità privilegiata. L’Action n. 53, che contiene le linee guida che i Paesi OCSE sono invitati a seguire per disciplinare i propri regimi di Patent box, prevede l’esclusione dei marchi e del know-how, facendo salva la possibilità di garantire fino al 2021 il regime previgente a chi abbia esercitato l’opzione entro fine giugno 2016. L’Italia si trova quindi a dover scegliere se modificare immediatamente il regime appena introdotto, ovvero difenderne l’impostazione originaria. Con l’introduzione di questa norma, che ha natura strutturale, si riconosce a tutti i titolari di reddito d’impresa un’agevolazione (a regime, dal 2017, pari al 50%) sui redditi generati dall’utilizzo dei beni immateriali elencati. Questi ultimi vanno considerati singolarmente, salvo sussistano vincoli di complementarietà che ne comportano l’utilizzo congiunto per la finalizzazione di un unico prodotto o processo. La misurazione del reddito agevolabile è derivata da un algoritmo di calcolo che tiene in considerazione il reddito derivante dal bene immateriale, ponderato per il peso relativo dei costi di ricerca e sviluppo (“costi qualificati”) e il totale dei costi (“costi complessivi”) sostenuti per il mantenimento, accrescimento e sviluppo del medesimo. Il reddito agevolabile è funzione della modalità di utilizzo del bene immateriale: diretto o indiretto. In questo secondo caso si fa riferimento alla concessione in uso a terzi del bene immateriale, il cui reddito agevolabile per ciascun esercizio è misurato dalla differenza fra i relativi corrispettivi/canoni di concessione e i costi ad essi connessi di competenza dell’esercizio. L’utilizzo diretto, invece, si riferisce allo sfruttamento del bene immateriale da parte del soggetto economico che lo detiene. In questo caso la norma richiede di misurare il contributo economico, positivo o negativo, di ciascuno dei beni immateriali che ha concorso a formare il reddito o la perdita d’esercizio, si- mulando i benefici che il soggetto economico otterrebbe se licenziasse gli stessi beni a terzi (come avviene nella fattispecie dell’utilizzo indiretto). Con tale approccio si richiede di assumere, figurativamente, l’esistenza di un ramo d’azienda autonomo deputato alla concessione in uso di tali beni al medesimo soggetto economico e di calcolare, quindi, le componenti di reddito positive (figurative) e quelle negative (effettive) ascrivibili allo sfruttamento dei beni immateriali. Ai fini della determinazione del contributo economico (ovvero della metodologia per la sua quantificazione) è tuttavia necessaria la preventiva conclusione di un accordo con l’Agenzia delle Entrate conforme con quanto previsto all’art. 8 del DL 30.9.2003 n. 269 (c.d. “ruling internazionale”)4 ovvero all’art. 31-ter del DPR 600/1973 (“Accordi preventivi per le imprese con attività internazionale”), alla luce delle modifiche del decreto internazionalizzazione (DLgs. 14.9.2015 n. 147)5. 2 La stima del contributo economico nell’utilizzo diretto dei beni intangibili La misurazione del contributo economico rileva nell’ambito della normativa fiscale che, per sua natura, in un contesto di globalizzazione, deve essere emanata di concerto con gli altri Stati. È quindi opportuno riferirsi, in primis, alle linee guida dell’OCSE in materia di transfer pricing cui, peraltro, la normativa in ambito Patent box dichiara di uniformarsi. Tale disciplina va comunque completata anche con un cenno agli orientamenti espressi dal verificatore e di quelli contenuti nella giurisprudenza tributaria, che per l’operatore economico costituiscono un riferimento per il comportamento da assumere per vedersi riconosciuta l’agevolazione fiscale. 3 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”, Action 5, 2015, Final Reports, ottobre 2015, in Banca Dati Eutekne. 4 Conv., con modificazioni, L. 24.11.2003 n. 326, in G.U. 25.11.2003 n. 274 – S.O. 196. 5 In G.U. 22.9.2015 n. 220. 49 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 50 Dal punto di vista economico-aziendale, il risultato economico connesso allo sfruttamento di un bene immateriale è da tempo oggetto di studi specialistici e di applicazioni professionali, soprattutto nell’ambito della problematica relativa alla stima del valore economico delle attività intangibili (espresso, in varie declinazioni, dal valore attuale dei flussi di risultato attesi lungo la vita utile residua del bene). Per la stima del contributo economico è, quindi, possibile riferirsi ai principi di valutazione, internazionali e nazionali, che, all’interno delle tre principali metodiche di valutazione (mercato, reddito e costo), identificano i criteri più adeguati per la misurazione del valore di beni immateriali6. A tali metodiche, peraltro, fanno riferimento le stesse linee OCSE quando non è possibile riferirsi ad alcuno dei criteri in esse indicati. I metodi di determinazione dei prezzi di trasferimento secondo le linee guida dell’OCSE Il riferimento alla procedura di ruling e, comunque, la previsione di stime di autodeterminazione del reddito agevolabile da parte del contribuente, impongono un richiamo alla disciplina dei transfer pricing che ha lo scopo di contenere entro un alveo di ragionevolezza economica le scelte imprenditoriali sui prezzi di trasferimento di beni e servizi fra entità giuridiche appartenenti al medesimo gruppo economico, ma collocate in Paesi a fiscalità diversa (o comunque dotate di posizioni fiscali diverse). Il riferimento normativo, specifico per i beni immateriali, è rappresentato da il rapporto OCSE “Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations” del 1995 e successive modificazioni di cui, da ultimo, nell’ottobre 2015, il rapporto “Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Crea- tion” sulle Actions n. 8-10 del progetto BEPS ove si fornisce una definizione di bene immateriale e si forniscono linee guida incrementali per la definizione dei prezzi di libera concorrenza (“at arm’s lenght”) nel trasferimento infragruppo di beni immateriali o di diritti sugli stessi. I metodi individuati dall’OCSE per la determinazione dei prezzi di trasferimento sulla base dei valori di libera concorrenza applicabili anche al caso dei beni immateriali sono cinque. PREZZO COMPARABILE DI LIBERO MERCATO – CUP (COMPARABLE UNCONTROLLED METHOD) Il metodo del CUP si fonda sull’analisi della congruità del prezzo applicato in una transazione fra parti non indipendenti rispetto a quello che sarebbe stato stabilito per analoghe transazioni tra entità indipendenti. A tale criterio può essere ricondotto quello della Dottrina del Relief from Royalty, ove si sostituisca al concetto di prezzo, il corrispettivo per royalty che l’impresa dovrebbe corrispondere per utilizzare in licenza il bene immateriale. PREZZO DI RIVENDITA (RESALE PRICE METHOD) Tale criterio muove dall’analisi del prezzo di rivendita a cui un’impresa del gruppo cede a un soggetto indipendente il bene acquistato in una transazione all’interno del gruppo o di quello praticato da soggetti indipendenti collocati in fasi diverse lungo la catena del valore. Tale prezzo “esterno” è depurato del margine lordo che il venditore del bene nel libero mercato trattiene per coprire i propri costi di vendita e alla luce delle funzioni esercitate (trasformazione del bene, marketing, packaging, ecc.) realizzare un utile adeguato. Con tale criterio l’analisi di comparabilità si sposta 6 Si veda anche la recente pubblicazione dell’Organismo Italiano di Valutazione (OIV) che ha proposto un discussion paper contenente linee guida per gli esperti di valutazione proprio in tema di sima del contributo economico dei beni immateriali usati direttamente ai fini del regime di Patent box. dal bene alla transazione e risulta affidabile, perché di più facile applicazione, quando il rivenditore non aggiunge valore al bene trasferito e l’intervallo di tempo fra l’acquisto e la rivendita è limitato. Il Resale Price Method presenta affinità con quello del Profit Split che è orientato alla misurazione del reddito generato nella specifica fase della catena del valore in cui il bene immateriale è utilizzato; tale reddito rappresenta il margine che il metodo del prezzo di rivendita considera nella identificazione del prezzo di trasferimento del bene allo specifico stadio di trasformazione della fase della catena del valore in cui avviene la transazione. COSTO MAGGIORATO (COST PLUS) Anche il criterio del Cost Plus muove dall’identificazione di un margine e non del prezzo di trasferimento. Nella fattispecie, quest’ultimo è determinato come somma fra il costo di produzione di un bene aumentato di un mark-up che esprime il margine di utile lordo (percentuale di ricarico) adeguato a garantire la remunerazione delle funzioni economiche svolte dall’impresa, tenuto conto dei rischi assunti e delle condizioni di mercato, ed è desunto dalla comparazione con transazioni verso soggetti indipendenti o tra transazioni di libero mercato. Tale criterio, per espressa previsione delle linee guida OCSE, è da preferirsi nel caso di transazioni aventi ad oggetto semilavorati o servizi e non pare adattabile alla misurazione del contributo economico generabile dall’utilizzo di un bene immateriale, sebbene non sia un criterio escluso fra quelli applicabili nel caso di trasferimento di intangibili. RIPARTIZIONE DELL’UTILE (TRANSACTIONAL PROFIT SPLIT) Tale criterio, che costituisce un’evoluzione del Resale Price Method, è sostanzialmente simile al Profit Split o all’Excess Earning identificato dalla Dottrina in materia di valutazione di beni immateriali a seconda che vi sia o meno il riferimento alla redditività conseguita da soggetti indipendenti comparabili. Esso consiste nell’allocare il profitto complessivo della transazione alle diverse parti intervenute in ragione delle funzioni svolte, dei rischi assunti e delle attività impiegate. In questo caso, anche ai fini della disciplina sui prezzi di trasferimento, l’oggetto dell’analisi per determinare la congruità degli elementi della transazione fra parti non indipendenti, è l’utile (o reddito) generato dallo scambio. MARGINE NETTO DELLA TRANSAZIONE (TRANSACTIONAL NET MARGIN METHOD – TNMM) Il criterio TNMM misura direttamente il margine della transazione (utile netto) fra parti non indipendenti, confrontandolo con quello che l’impresa realizzerebbe verso soggetti esterni o con quello che si realizzerebbe nel libero mercato in transazioni similari. Poiché la misura del margine è influenzata da fattori quali il posizionamento competitivo e l’efficienza gestionale propria dell’impresa, ai fini della corretta comparabilità è opportuno apportare le adeguate correzioni ai risultati del campione di transazioni comparabili al fine di ottenere risultati attendibili. La scelta del metodo più appropriato dipende, in primis, dalla possibilità di esperire un’analisi di comparabilità affidabile, supportata da una altrettanto approfondita analisi di funzionalità. Tuttavia, le linee guida OCSE commentano che, per loro natura, i beni immateriali presentano caratteristiche uniche che rendono difficile individuare transazioni aventi ad oggetto beni similari o che sia possibile provare che altri soggetti ritraggano dallo sfruttamento del bene profitti simili. In generale, le linee guida dell’OCSE reputano che il CUP e il Transactional Profit Split siano i metodi che con maggior probabilità si rivelano utili nella stima dei prezzi di trasferimento aventi ad oggetto beni immateriali o diritti sui medesimi. Nel caso del CUP, le linee guida raccomandano che l’analisi di comparabilità sia estesa alle caratteristiche proprie dei diritti sui beni immateriali (esclusività, estensione geografica, durata della copertura legale, vita economica utile del bene che incorpora l’attività immateriale, attuale e 51 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 52 potenziale capacità di generare benefici economici futuri, nonché il perdurare degli eventuali extra rendimenti). Per il Transactional Profit Split Method, le linee guida raccomandano di svolgere una completa analisi funzionale che comprenda le funzioni svolte, ovvero la comprensione della struttura e dell’organizzazione del gruppo economico e dell’allocazione delle attività lungo la catena del valore, i rischi assunti, che si traducono nel livello del rendimento atteso, e della natura degli asset impiegati. Le linee guida OCSE, nei casi in cui non sia possibile riferirsi a campioni affidabili di transazioni comparabili, ammettono il ricorso a altri metodi derivati dalla Dottrina e dalla Prassi nell’ambito della valutazione d’azienda da considerarsi parte dei cinque metodi individuati dalle medesime linee OCSE, purché applicati con metodologie coerenti con i principi fondanti dell’arm’s lenght price. Le indicazioni operative dell’Agenzia delle Entrate e le pronunce della giurisprudenza tributaria L’Agenzia delle Entrate ha emanato la circolare 1.12.2015 n. 36, in cui ha fornito primi chiarimenti in tema di Patent box che, però, al momento, non coprono le modalità di determinazione del reddito agevolabile. In attesa di una circolare specifica, l’unico riferimento interpretativo dell’Agenzia delle Entrate in cui è possibile rinvenire qualche elemento utile per la definizione del contributo economico dall’utilizzo diretto di beni immateriali è la circolare del Ministero Finanze 22.9.1980 n. 32, avente ad oggetto “Il prezzo di trasferimento nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”. Nello specifico paragrafo dedicato alle prestazioni di servizi concernenti l’utilizzazione di diritti immateriali, l’Amministrazione finanziaria riprende il contenuto delle linee guida dell’OCSE in tema di difficoltà ad applicare il metodo del confronto con transazioni similari per le caratteristiche di unicità dei beni immateriali e rammenta che l’analisi di comparabilità deve coinvolgere gli aspetti tecnici e quelli giuridici. Il punto centrale espresso dall’Amministrazione finanziaria riguarda, tuttavia, l’esistenza di un vantaggio reale (effettivo o potenziale) in capo al concessionario rispetto all’utilizzo del diritto sul bene immateriale: “è indispensabile che il beneficiario della licenza abbia tratto un vantaggio reale o abbia potuto ragionevolmente prevedere un vantaggio al momento della conclusione del contratto”. L’Amministrazione, dopo aver esposto i principi, in relazione alla difficoltà di enucleare criteri analitici di determinazione del valore normale delle transazioni aventi ad oggetto beni immateriali, conclude con alcune presunzioni per la predeterminazione di corrispettivi a “valori normali” da ritenersi congrui. Si stabilisce, infatti, che canoni superiori al 5% del fatturato potranno essere riconosciuti solo in casi eccezionali e giustificati da un elevato contenuto tecnologico del settore. In ogni caso, devono essere verificati gli aspetti tecnici e giuridici della transazione e l’effettivo vantaggio economico in capo al licenziatario. Considerando le recenti pronunce della giurisprudenza tributaria di merito si riscontra che le verifiche in materia di transfer pricing si fondano sui metodi Transactional Net Margin e il Profit Split con riferimento a un campione di imprese indipendenti (confronto esterno). Sono in questo caso fondamentali l’analisi funzionale, avendo riguardo anche al contesto di mercato di riferimento 7 e di comparabilità delle transazioni 8 per giun- 7 C.T. Prov. Milano 14.9.2015 n. 7198/12/15; C.T. Reg. Roma 9.12.2010 n. 643/1/10; C.T. Reg. Torino 14.4.2010 n. 25/34/10, tutte in Banca Dati Eutekne. 8 Cass. 13.5.2015 n. 9709; Cass. 23.12.2014 n. 27296; C.T. Prov. Milano 29.9.2014 n. 7996/40/14; C.T. Reg. Milano 25.6.2014 n. 3406/7/14; C.T. Prov. Milano 10.12.2013 n. 408/2/13; C.T. Reg. Lombardia 7.6.2011 n. 69/7/11, tutte in Banca Dati Eutekne. gere, comunque, a una stima di valore normale 9. È di interesse segnalare che in una dichiarazione10 Rossella Orlandi, direttrice dell’Agenzia delle Entrate, avrebbe escluso nella stima del contributo economico l’applicabilità del metodo basato sulle royalty, preferendo quello del raffronto diretto tra prodotti branded (che hanno un marchio) e unbranded (privi di marchio). Tuttavia, anche questo approccio, riconducibile al criterio CUP, comporta un’attenta analisi di comparabilità, connessa soprattutto a non attribuire al marchio componenti di valore (margini) connesse alla diverse caratteristiche fisiche dei beni (materie prime) o alla loro modalità di distribuzione (canale e organizzazione di vendita) o alla concorrenza di beni immateriali associati alla produzione (brevetti, knowhow) e distribuzione dei prodotti (customer relation). Si pongono, quindi, le medesime criticità in termini di analisi di comparabilità, acuite dalla circostanza che il differenziale di reddito può essere collegato ai ricavi (premium price), ma anche da altri elementi della catena del valore di più difficile individuazione (rete distributiva, servizi post vendita, posizionamento di mercato, visibilità commerciale, ecc.). 3 Approfondimenti di calcolo e limiti applicativi Alla luce delle indicazioni normative si propongono due approfondimenti applicativi, l’uno basato sul metodo del CUP, articolato in logica Relief from Royalty (RR), l’altro sul Transactional Profit Split (TPS) nella declinazione dell’Excess Earning (EE) che, a parere di chi scrive, costituiscono i riferimenti princi- pali per l’individuazione dei flussi di reddito generabili da un bene immateriale. La scelta, peraltro, contrappone un metodo (CUP – RR) che fa riferimento a evidenze esterne (di mercato) nella diretta identificazione dei parametri per la quantificazione dei ricavi, a uno che si basa sui risultati aziendali desumendo dal mercato il solo costo del capitale che, tuttavia, non è specifico per il bene oggetto di valutazione ma, in un’ottica più ampia, al settore cui lo stesso si riferisce. Il collegamento ai metodi individuati dalla Dottrina muove da quelli che consentono di identificare la misura del reddito del bene immateriale, da cui derivare poi la stima del valore del bene immateriale, tralasciando quelli che giungono direttamente alla stima del valore assoluto dello stesso. A ben vedere, però, a partire dal valore stimato del bene immateriale sarebbe possibile definire una misura di reddito economico medio annuo sulla base di un tasso di remunerazione medio normale atteso (reddito implicito). Tuttavia, anche in questa ipotesi, la Dottrina ritiene preferibile11, nonché è consigliato dalle linee guida OCSE12, che la base di partenza del valore sia stimata applicando uno o più criteri relativi alle metodiche del mercato o del reddito, tralasciando, invece, quelli che si ispirano alla metodica del costo. CUP – Relief from Royalty 53 Il criterio del Relief from Royalty assume la prospettiva di quali sarebbero i costi addizionali che l’impresa dovrebbe sostenere per l’utilizzo del bene immateriale se non ne detenesse la proprietà, misurati dai flussi di royalty che un terzo riconoscerebbe per utilizzare in licenza il bene immateriale al netto dei costi diretti 9 C.T. Prov. Milano 7.1.2001 n. 1/7/11, in Banca Dati Eutekne. 10 Cavestri L. “Patent box e Pmi, ruling facilitati”, Il Sole-24 Ore, 23.9.2015. 11 Le metodiche del reddito o del mercato, quando applicabili, sono da preferirsi nella valutazione di beni immateriali che conferiscono un vantaggio competitivo distintivo a chi li detiene o quando derivano da diritti contrattuali o legali (cfr. Principi Italiani di Valutazione, III.5.5). 12 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project “Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation”, Actions 8-10, 2015 Final Reports, ottobre 2015, in Banca Dati Eutekne. LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 e indiretti sostenuti dal licenziante per il suo mantenimento, accrescimento e sviluppo, non già impliciti nel tasso di royalty riconosciuto. Per applicare tale metodo è necessario disporre di dati relativi a transazioni comparabili desumibili da database specializzati (es. RoyaltyStat, RoyaltySource) ove analizzare individualmente recenti (relative a un arco temporale di 5 anni) operazioni concluse fra soggetti indipendenti nella forma di contratti di licenza in esclusiva, aventi ad oggetto beni immateriali simili a quelli oggetto di considerazione, per il medesimo ambito geografico in cui opera l’impresa. Saranno da preferirsi quei contratti che esprimono le royalty in funzione di un tasso percentuale relativo ai ricavi, in modo da ottenere direttamente la stima dei ricavi figurativi. Particolare attenzione andrà riposta alla disciplina dei costi di accrescimento, mantenimento e sviluppo del bene licenziato, ovvero se questi siano posti a carico del licenziante o del licenziatario. Nel primo caso si parla di canone lordo, perché la royalty pattuita andrà a coprire tali costi sostenuti dal licenziante, nel secondo di canone netto (per il licenziante). Poiché per la stima del contributo economico ai fini Patent box fanno fede i costi effettivi sostenuti dall’impresa, sarà necessario, in presenza di informazioni relative ai canoni netti, “rimontare” il peso relativo di tali costi in capo al licenziatario (sulla base di stime o di evidenze specifiche desunte dai contratti analizzati), per pervenire a una misura di royalty lorda da applicare ai ricavi dell’impresa da cui dedurre poi i costi effettivi da quest’ultima sostenuti. Rispetto al campione di transazioni selezionate si possono calcolare media e mediana, ma il tasso di royalty prescelto può non coincidere con tali statistiche per meglio riflettere il profilo di comparabilità delle transazioni osservate. Si ricorda che, in base alle vigenti disposizioni dell’Agenzia delle Entrate, sussiste la presunzione che tassi di royalty superiori al 5% possano essere utilizzati solo in presenza di un elevato contenuto tecnologico di settore o da altre circostanze. Circa la misura di tali tassi si riporta un statistica disponibile sul sito di RoyaltyStat, da cui si deduce che la mediana dei tassi di royalty sui ricavi negli anni si assesta tendenzialmente attorno al 6%. SINTESI VALORI RR DATABASE ROYALTYSTAT (RILEVAZIONI A NOVEMBRE 2015) 54 Il tasso di royalty così individuato deve essere applicato ai ricavi afferenti allo specifico bene immateriale oggetto di valutazione (fino a convergere al totale dei ricavi dell’impresa se il bene, o il compendio dei beni collegati da vin- coli di complementarietà, concorrono alla generazione del fatturato complessivo). Si ritiene che per le imprese che operano su commessa o che, per stagionalità del ciclo economico, alla conclusione dell’esercizio presentino un eleva- to stock di rimanenze di prodotti finiti, il tasso di royalty vada applicato alla grandezza valore della produzione, avuto riguardo alla omogeneità di valorizzazione fra i ricavi (prezzo di vendita) e la variazione delle rimanenze di prodotti finiti (che se valorizzata al costo di produzione va adeguata al criterio della percentuale di completamento). Dai flussi di royalty così ottenuti andranno dedotti i costi diretti e indiretti relativi al mantenimento, accrescimento e sviluppo del bene immateriale. L’identificazione di tali costi costituisce una fase critica, sia per il collegamento di tali costi agli specifici beni immateriali che comporta, come richiesto dalla norma, un adeguamento dei sistemi contabili o extra contabili di tracciabilità dei costi (c.d. tracking and tracing), sia per l’ampiezza della identificazione di tali costi all’interno della medesima categoria per natura, sia per i criteri di attribuzione dei costi indiretti o di eventuali costi comuni (diretti e indiretti) fra più beni immateriali. In generale, possiamo affermare che si tratta, nel complesso, dei costi fiscalmente rilevanti connessi alle attività necessarie a garantire la protezione legale degli intangibili, all’attività di ricerca e sviluppo finalizzata a mettere a punto innovazioni tecniche in grado di migliorare le caratteristiche del prodotto e ridurre i costi di produzione (soprattutto per gli intangibili collegati alla tecnologia) e/o ai costi di marketing (soprattutto per i beni intangibili collegati al mercato). In ragione di sfasamenti temporali tra il sostenimento dei costi di sviluppo del bene immateriale e la generazione dei conseguenti ricavi, è possibile che in uno o più esercizi il contributo economico in parola risulti negativo (perdita). Nel qual caso la circolare dell’Agenzia Entrate n. 36/2015 ha chiarito che tale perdita concorrerà alla formazione del reddito d’impresa, ma che gli effettivi positivi conseguenti dall’adesione in opzione al regime Patent box saranno rinviati negli esercizi in cui si conseguiranno redditi (contributi economici positivi) secondo un meccanismo di “recapture”. Ai fini della misurazione del reddito agevolabile, infine, si dovrà tener conto del peso relativo fra i costi direttamente acquisiti (costi qualificati) dall’impresa (anche per il tramite di sue controllate purché a sua volta acquisiti dall’esterno) e il totale dei costi (costi complessivi), inclusi quelli per servizi generati internamente al gruppo. Transactional Profit Split – Excess Earning Il criterio dell’Excess Earning è da preferirsi nella valutazione di un bene immateriale strategico, preponderante nel concorso alla formazione del risultato economico d’impresa e consente di giungere alla stima del valore attualizzando i redditi residui attribuibili al bene per la durata della sua vita economica, una volta remunerati gli altri asset (tangibili e intangibili) impiegati dall’impresa (c.d. contributory asset). Questo criterio assume la prospettiva che i beni aziendali, diversi da quello primario, siano remunerati a un tasso normale e che il differenziale di reddito che si genera fra il risultato economico d’impresa e il costo degli altri asset aziendali, ovvero la loro remunerazione normale, sia interamente da attribuirsi al bene immateriale principale. Ai fini della stima del contributo economico, l’excess earning costituirebbe già il reddito figurativo ritraibile dal bene immateriale. Sebbene tale criterio non richieda una base informativa esterna, la sua applicazione comporta, tuttavia, numerose difficoltà connesse, in particolare, alla stima della remunerazione normale dei contributory asset e alla corretta individuazione del bene immateriale principale rispetto ad altri intangibili minori. In tal caso si pone l’ulteriore difficoltà di scorporare dal risultato d’impresa i ricavi e costi connessi allo sfruttamento di altri beni immateriali, il cui reddito è già catturato attraverso il meccanismo della remunerazione normale. L’applicazione di tale criterio comporta, innanzitutto, l’individuazione e la segregazione del capitale investito netto impiegato nell’attività in cui il bene immateriale oggetto di misurazione si esplica. Tale compendio è formato da immobilizzazioni materiali e immateriali (diverse dal bene in oggetto), crediti, debiti e fondi 55 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 56 di natura operativa. A ciascuno di tali asset, eventualmente ulteriormente segmentati per natura, si associa un tasso di rendimento medio normale in ragione del rischio ad essi associato (tipicamente per il capitale circolante netto e le immobilizzazioni materiali si fa riferimento ai tassi richiesti dal mercato del debito, rispettivamente a breve e a lungo termine; per le immobilizzazioni immateriali a un tasso rappresentativo del costo del capitale, proprio o ponderato). Applicando tali rendimenti al valore corrente degli asset, se ne ottiene il reddito atteso, ovvero il costo opportunità (contributory asset charge). Si procede quindi all’identificazione del reddito operativo associato alla business unit in cui si colloca il bene immateriale oggetto di analisi e a cui si riferisce il capitale investito netto in precedenza identificato. Tale reddito può coincidere con quello dell’impresa quando il bene immateriale concorre alla generazione dell’intero risultato aziendale. Sottraendo dal reddito operativo il valore dei contributory asset charge si ottiene l’ammontare dell’extra-rendimento associato al bene immateriale specifico. Per tale via si giunge direttamente alla misura del contributo economico, ovvero del reddito associabile al bene immateriale, posto che la derivazione dello stesso dai risultati consuntivi d’impresa già incorpora i costi effettivi collegati allo stesso. Infine, per definire la misura del reddito agevolabile si dovrà considerare il rapporto fra i costi qualificati e quelli complessivi. 4 Conclusioni Nella stima del contributo economico generabile dell’utilizzo diretto di beni immateriali si definisce un reddito “figurativo” che è il risultato di un giudizio di valore che, seppur supportato da un percorso razionale e dimostrabile, non è un valore assoluto desumibile da un algoritmo di calcolo. Sarà, quindi, de- terminante il confronto con l’Agenzia delle Entrate nella procedura di ruling che, come affermato da Vieri Ceriani, consigliere MEF per le politiche fiscali 13, condurrà a una soluzione diversa per ogni caso affrontato sulla base della specifica contabilità industriale, senza possibilità di definire una regola generale. Pur consapevoli di tale soggettività, si ritiene che il ricorso a metodiche di stima basate sui principi di valutazione dei beni intangibili sviluppate secondo un percorso razionale e dimostrabile, nel rispetto dei principi internazionali, possa condurre a una stima ragionevole e affidabile del reddito agevolabile generato dall’utilizzo diretto dei beni immateriali. In ogni caso, si renderanno necessarie opportune verifiche di coerenza e adeguatezza, anche al fine di meglio documentare e supportare l’istanza di ruling. In particolare, soprattutto in presenza di più beni immateriali, sarà opportuno verificare che la somma del valore dei beni immateriali sia congrua rispetto al valore complessivo d’impresa, nonché che il reddito complessivo d’impresa sia capiente e adeguato rispetto alla somma dei redditi figurativi attribuiti ai beni immateriali. Inoltre, con particolare riguardo ai metodi impliciti che indagano direttamente la misura del reddito, bisognerà accertarsi che il reddito figurativo individuato esprima la differenza fra i ricavi figurativi e i costi effettivi, ovvero sostenuti dall’impresa rispetto allo specifico bene immateriale (e non quelli medi normali di mercato). Sono quindi necessari opportuni adattamenti affinché la misura dei ricavi sia quella di un generico operatore di mercato, mentre i costi riflettano quelli specifici dell’impresa, così da configurarsi una misura di reddito figurativo (contributo economico) che non rifletta né quello di mercato, né quello specifico, ma un ibrido che consenta il rispetto del principio di neutralità fra l’uso diretto e l’uso indiretto del bene immateriale. 13 Trovati G. “Patent box con prenotazione del ruling”, Il Sole-24 Ore, 21.11.2015. TRIBUTI LA NUOVA FATTISPECIE DEL DELITTO DI DICHIARAZIONE INFEDELE Federica BARDINI Dottoranda di ricerca in Diritto Tributario nell’Università degli Studi di Padova La revisione del regime della dichiarazione infedele, alla quale il legislatore delegato ha dato attuazione con il DLgs. 158/2015 nonché con l’introduzione dell’art. 10-bis comma 13 della L. 212/2000 in tema di abuso del diritto, non ha trovato espressione nella abrogazione del delitto di dichiarazione infedele. Eppure, la fattispecie incriminatrice è stata ridisegnata al punto di rendere penalmente irrilevanti molte delle violazioni tributarie che prima della novella legislativa erano sussumibili nell’art. 4 del DLgs. 74/2000. Tale risultato non si deve soltanto all’innalzamento delle soglie di punibilità ma all’abbandono del concetto di fittizietà e alla combinazione di una serie di elementi innovativi tutti convergenti verso la depenalizzazione delle operazioni di ordine classificatorio aventi ad oggetto elementi attivi o passivi reali ed effettivi. 1 Le fonti della riforma del reato di dichiarazione infedele Al fine di analizzare il reato di dichiarazione infedele1 come modificato a decorrere dal 22 ottobre 2015, occorre menzionare i principi e criteri direttivi contenuti nella legge delega ai quali i decreti legislativi 5.8.2015 n. 128 e 24.9.2015 n. 158 hanno dato attuazione. Come noto, l’art. 8 comma 1 della L. 11.3.2014 n. 23 aveva delegato il Governo alla revisione del sistema sanzionatorio penale secondo cri- 1 Art. 4 del DLgs. 74/2000: “1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. 1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. 57 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 58 teri di predeterminazione e di proporzionalità prevedendo, per quanto qui interessa, “l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie” e “la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti”. Il criterio direttivo per primo menzionato ha trovato attuazione nell’art. 1 comma 1 del DLgs. 128/2015 “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente” il quale ha introdotto all’interno dello Statuto dei Diritti del Contribuente il nuovo art. 10-bis, concernente la disciplina dell’elusione fiscale e il relativo regime sanzionatorio. Invero, l’art. 10-bis comma 13 della L. 212/2000 dispone che le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, restando invece ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie. Tale previsione interessa ai nostri fini in quanto esclude aprioristicamente la sussumibilità della fattispecie di abuso del diritto nel reato di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000. E ciò in collisione (almeno apparentemente) con la giurisprudenza penale di legittimità2 che era giunta ad ammettere la idoneità delle fattispecie elusive tipizzate di integrare il delitto di dichiarazione infedele, oltre che l’omessa dichiarazione sanzionata dall’art. 5 del DLgs. 74/2000. Alla data della sua entrata in vigore, i.e. il 1° ottobre 2015, l’art. 10-bis comma 13 dello Statuto poteva tecnicamente essere qualificato come una modificazione mediata alla fattispecie incriminatrice di dichiarazione infedele in quanto, pur non intervenendo direttamente sul perimetro e sul significato della condotta di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000, imponeva di interpretare l’elemento normativo di “elementi pas- sivi fittizi” nel senso più restrittivo di elementi fittizi sul piano naturalistico-materiale anziché in quello più ampio comprensivo della fittizietà giuridica. A ben vedere, tale operazione interpretativa si è resa necessaria per soli venti giorni. Difatti, il DLgs. 158/2015 “Revisione del sistema sanzionatorio” entrato in vigore in data 22 ottobre 2015, ha riformulato il reato tributario di dichiarazione infedele prevedendo, inter alia, la sostituzione del concetto di “fittizietà” con quello più chiaro ed immediato di “inesistenza”, finendo così per escludere la rilevanza penale dell’elusione fiscale secondo i tradizionali binari penalistici. Sebbene le modifiche apportate al delitto di dichiarazione infedele siano contenute nell’art. 4 del DLgs. 158/2015, occorre considerare l’intero corpo del decreto delegato per comprendere appieno la portata e l’incidenza della novella legislativa sui contorni della nuova fattispecie. Tra le disposizioni che concorrono a definire la figura delittuosa in esame è possibile menzionare, a titolo esemplificativo, l’art. 1 per quanto riguarda le definizioni di “elementi attivi o passivi” e di “imposta evasa”, l’art. 10 sulla confisca, l’art. 11 per l’introduzione di una nuova causa di non punibilità, l’art. 12 relativamente alle circostanze attenuanti speciali, nonché l’art. 14 nella parte in cui abroga l’art. 7 del DLgs. 74/2000. Qui di seguito, ci si propone di illustrare gli elementi innovativi e le loro potenziali conseguenze pratiche da una prospettiva penalistica ossia nel contesto dell’esame della fattispecie incriminatrice sul piano sostanziale e processuale. 2 Bene giuridico tutelato e rapporti con gli altri reati dichiarativi Come la stessa Relazione illustrativa sottolinea, Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)”. 2 Fasani F., “I concetti penal-tributari di effettività e fittizietà: la dichiarazione infedele al cospetto dell’elusione fiscale”, in “Rubrica di diritto penale tributario”, a cura di Caraccioli I., Riv. dir. trib., 6, 2013, p. 117-143. il DLgs. 158/2015 è stato concepito per assolvere al compito di rivedere e non già di riformare il sistema penale tributario. Partendo da tale assunto, il legislatore delegato ha confermato la irrilevanza penale delle infedeltà prodromiche alla presentazione della dichiarazione, rinunciando così a concepire la trasparenza fiscale come bene giuridico da tutelare autonomamente. Il reato di dichiarazione infedele, pertanto, continua a presidiare l’interesse patrimoniale dell’erario alla integrale e tempestiva percezione dei tributi e a rientrare nel novero dei reati di danno3 ove l’evento lesivo consiste nella evasione di imposta. Inoltre, esso conserva la propria natura residuale rispetto ai reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo decreto: il mantenimento della clausola di riserva risponde alla esigenza, peraltro accentuata in sede di legge delega, di tenere distinta la presentazione di una dichiarazione non veritiera dalla commissione di infedeltà dichiarative connotate dalla fraudolenza e dalla simulazione4. Per inquadrare correttamente una condotta di infedeltà dichiarativa nell’una o nell’altra figura criminosa è pertanto indispensabile accennare preliminarmente agli elementi specializzanti delle condotte descritte dagli artt. 2 e 3 come riformulati e, specularmente, agli elementi negativi della fattispecie di cui all’art. 4. Quanto al reato di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000, la fattispecie della dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è rimasta sostanzialmente invariata, fatta eccezione per l’oggetto materiale della condotta, ora esteso anche alle dichiarazioni relative alle imposte dirette e IVA non annuali. Dunque, il quid pluris specializzante rispetto alla mera dichiarazione infedele continua ad essere la registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o la conservazione ai fini di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria delle fatture in cui sono dedotte le operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti nonché dei documenti ideologicamente falsi (per esempio, le schede carburante). Quanto, invece, al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, occorre evidenziare come il legislatore delegato abbia esteso il suo ambito applicativo rimuovendo la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie dalla struttura del fatto tipico. Segnatamente, in base all’attuale formulazione dell’art. 3, ai fini della integrazione del reato è necessario che la dichiarazione fraudolenta si realizzi attraverso il compimento di operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, l’utilizzo di documenti falsi oppure di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, con ciò dovendosi intendere tutte le condotte artificiose attive e omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico che determinano una falsa rappresentazione della realtà (art. 1 comma 1 lett. g-ter del DLgs. 74/2000). Il riferimento espresso al compimento di operazioni (soggettivamente) simulate e l’eliminazione dell’elemento costitutivo della falsa rappresentazione contabile inducono a concludere che le fattispecie di interposizione fittizia di persona devono sussumersi nel reato di cui all’art. 3, in contrasto con l’erronea tendenza a ricondurle nell’alveo della dichiarazione infedele sul presupposto – a sua volta erroneo – della natura antielusiva dell’art. 37 comma 3 del DPR 600/1973. Ai fini della individuazione dei comportamenti integranti il reato di infedele dichiarazione 3 Sulla natura di reato di danno, cfr. Soana G. “I reati tributari”, Giuffrè, Milano, 2013, p. 180. Conf., Mangione A. “La dichiarazione infedele”, in Musco E., Ardito F. “Diritto penale tributario”, Zanichelli, Bologna, 2013, p. 123. 4 Cfr. art. 8 co. 1 della L. 23/2014: “Il Governo è delegato a procedere, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, alla revisione del sistema sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti prevedendo: la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa etc.”. 59 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 60 merita altresì attenzione il disposto dell’odierno art. 3 comma 3 del DLgs. 74/2000 il quale esclude dalla nozione di mezzo fraudolento e, per l’effetto, dall’ambito applicativo del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici sia la mera violazione degli obblighi di fatturazione o di emissione di altri documenti di rilievo probatorio analogo (si pensi, per esempio, a scontrini fiscali e DDT) e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili, sia la sottofatturazione, rectius l’indicazione nelle fatture nei documenti ovvero nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali. da ciascuna società aderente al consolidato, potrebbe scemare di forza argomentativa. Tuttavia, nella parte in cui commenta tale intervento additivo, la Relazione illustrativa fornisce gli esempi dei crediti d’imposta e delle ritenute sicché pare potersi escludere che il legislatore intendesse regolamentare l’infedeltà della dichiarazione consolidata6. 3 Dal punto di vista dell’elemento oggettivo, il reato di dichiarazione infedele costituisce un reato di mera condotta. La condotta incriminata consiste nella presentazione di una dichiarazione annuale, relativa alle imposte dirette o all’IVA, inveritiera. Come è dato ricavare dalla stessa rubrica del reato, l’infedeltà deve riguardare la componente della dichiarazione fiscale che assolve alla funzione di comunicare i presupposti del tributo, nota come componente dichiarativa, con conseguente irrilevanza ai fini dell’art. 4 del DLgs. 74/2000 degli errori materiali e di calcolo che riguardano la sua componente liquidativa. Segnatamente, è richiesta l’indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi inesistenti. A tal riguardo, sono state operate due modifiche. La prima, già anticipata, riguarda l’estensione della nozione di “elementi attivi o passivi”. In base all’attuale art. 1 comma 1 lett. b) del decreto suddetto, essi non includono più soltanto le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle Il soggetto attivo Il reato di dichiarazione infedele è un reato proprio che può essere integrato soltanto dai soggetti che sono tenuti alla presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. L’assenza di puntualizzazioni lascia irrisolti i dubbi sollevati da autorevole dottrina5 circa la possibilità di qualificare come soggetto attivo del reato il firmatario della dichiarazione dei redditi consolidata nel caso di consolidato nazionale. La questione potrebbe risultare superata in ragione delle modifiche intervenute sulla nozione di “elementi attivi e passivi” prevista dall’art. 1 comma 1 lett. b) del DLgs. 74/2000, con cui devono oggi intendersi non solo le componenti che concorrono alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini delle imposte dirette o IVA ma anche le “componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta”. Ora, stante quest’ultimo inserimento, la circostanza che la dichiarazione consolidata non contenga componenti di reddito, ma si limiti a liquidare l’imposta di gruppo in base alla sommatoria dei redditi complessivi netti dichiarati 4 La condotta incriminata: la delimitazione della condotta di infedele dichiarazione 5 Perini A. “Quando la somma non fa il totale. Delitti dichiarativi e consolidato fiscale”, L’indice Penale, 1-2/2015, p. 7-49. 6 Analogamente, Servizio Studi Senato della Repubblica e Camera dei Deputati “Revisione del sistema sanzionatorio (Schema di DLgs. n. 183)”, luglio 2015, p. 21. imposte dirette ed IVA7, ma anche le componenti che incidono direttamente sulla determinazione dell’imposta dovuta. La seconda, certamente la più rilevante, è “ispirata al preminente fine di escludere la rilevanza penale delle operazioni di ordine classificatorio aventi ad oggetto elementi attivi o passivi effettivamente esistenti, in modo da limitare tendenzialmente la sfera applicativa della figura criminosa – priva di connotati di fraudolenza – al solo mendacio su dati oggettivi e reali”8. In vista di tale obiettivo, la delimitazione della condotta di infedele dichiarazione è stata ottenuta sia mediante la sostituzione della nozione di “elementi passivi fittizi” con “elementi passivi inesistenti”, ad opera dell’art. 4 comma 1 lett. d) del DLgs. 158/2015, sia con l’aggiunta nel corpo dell’art. 4 del DLgs. 74/2000 del nuovo comma 1-bis. Per cominciare, l’abbandono dell’aggettivo “fittizi” è una scelta lessicale che pone fine al dibattito sul significato di fittizietà degli elementi passivi che per anni ha interessato tutti gli operatori del diritto. Come noto, persino l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza si erano pronunciate in senso difforme. L’una, nella circolare 4.8.2000 n. 154, qualificava tali le componenti negative inesistenti e, in via esclusivamente ipotetica, le componenti negative non competenti rilevate nelle scritture contabili in assenza di metodi costanti d’impostazione contabile. L’altra, nella circolare n. 1/2008, conforme alla precedenten. 114000/2000, definiva fittizie le componenti “non vere, non inerenti, non spettanti o insussistenti nella realtà, che risultino dichiarate in misura superiore a quella effettivamente sostenuta o ammissibile in dichiarazione”9. Ne discendeva che, in assenza di indicazioni, nella categoria degli elementi passivi fittizi potevano essere inclusi anche i costi effettivamente sostenuti dall’agente non conformi ai requisiti di competenza, inerenza e deducibilità. A sostegno di tale approdo interpretativo, infatti, si poteva invocare non solo l’assenza di una interpretazione autentica di fittizietà, ma anche il disposto dell’art. 7 DLgs. 74/2000 il quale, per effetto di una lettura a contrario, sembrava attribuire rilevanza penale alle violazioni dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza che non fossero espressione di metodi costanti d’impostazione contabile. La dottrina più autorevole, evidenziando l’opportunità di interpretare la nozione di elementi passivi fittizi nel contesto specifico di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000, configurava tali i costi inesistenti e quelli macroscopicamente non inerenti o indeducibili10. 7 Concretamente, la dichiarazione dei redditi riporta il risultato netto del Conto economico dunque ad assumere rilievo è la voce ricavi che costituisce il principale elemento attivo. 8 Cfr. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo concernente la revisione del sistema sanzionatorio, p. 3. Conf. “dalla stessa relazione alla proposta di legge n. 282/C ( e, prima ancora, dalla relazione al disegno di legge n. 5291/C della scorsa legislatura, che ne costituisce il diritto antecedente) emerge, in particolare, come il legislatore delegante abbia visto con sfavore il fatto che l’attuale descrizione del fatto incriminato – la quale, per un verso, prescinde da comportamenti fraudolenti e, per altro verso, rende penalmente rilevanti non solo le omesse o mendaci indicazioni di dati oggettivi, ma anche l’effettuazione di valutazioni giuridico-tributarie difformi da quelle corrette – comporti la creazione di una sorta di «rischio penale» a carico del contribuente, correlato agli ampi margini di opinabilità e di incertezza che connotano i risultati di dette valutazioni”, p. 6. 9 In data 10.11.2015, la GdF ha emesso la circolare n. 331248, in Banca Dati Eutekne, contenente le preliminari direttive operative a seguito della entrata in vigore del DLgs. 158/2015. Nella stessa viene dato atto del necessario superamento delle direttive precedentemente impartite dal Comando Generale sul punto (p. 6 della circolare). 10 Cfr. Rizzardi R. “La dichiarazione infedele”, tratto dal materiale didattico del Corso “Officina di Diritto Penale Tributario”, Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Padova, 22.11.2014. Sul punto è possibile ravvisare una affinità di pensiero tra Rizzardi R. e Lupi R. secondo il quale “chi porta in deduzione documenti palesemente non inerenti, od effettua svalutazioni palesemente inammissibili sul piano della deducibilità fiscale, sa di non poter confidare su una adeguata evidenza probatoria, per la deduzione di tali costi; ciononostante il contribuente, confidando nella debole probabilità di essere sottoposto a controllo in un contesto di fiscalità di massa basata sull’autoliquidazione, decide di correre il rischio”(cfr. Lupi R. “La fittizietà degli elementi negativi ai sensi dell’art. 4: uno spunto per non sovrapporsi con la fittizietà di cui agli articoli precedenti”, in AA.VV. “Fiscalità d’impresa e reati tributari”, ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2000, p. 115). 61 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 62 Ebbene, l’incertezza intorno a tale elemento essenziale della fattispecie tipica è stata superata optando per il concetto più diretto di inesistenza degli elementi passivi ossia di loro insussistenza sul piano reale e materiale. Al fine di rispondere all’esigenza di certezza del diritto che ispira tutta la riforma fiscale originata dalla L. 23/2014, il legislatore delegato ha sentito l’esigenza di esplicitare tale concetto sino al punto di – in accoglimento del parere reso dalle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze della Camera dei deputati – disporre la sostituzione della parola “fittizi”, ovunque presente nell’art. 4 del DLgs. 74/2000, con la parola “inesistenti” [art. 4 comma 1 lett. d) del DLgs. 158/2015]. Tale correzione lessicale pare comunque ad abundantiam se si considerano gli emendamenti che il testo dell’art. 4 ha subito. Infatti, il decreto delegato ha previsto l’introduzione di un comma aggiuntivo 1-bis, in base al quale la condotta di infedele dichiarazione non è integrata né dalla indicazione di elementi passivi reali non conformi ai criteri di competenza, inerenza e deducibilità11 né dalla inosservanza delle regole extrapenali che presiedono alle classificazioni e alle stime aventi ad oggetto elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, allorché i criteri concretamente applicati siano esplicitati12. Tale previsione riecheggia l’abrogato art. 7 del DLgs. 74/2000 sicché pare opportuno procedere ad una rapida comparazione tra le due disposizioni per rilevare e valorizzare gli elementi innovativi introdotti. Ebbene, rispetto al precedente art. 7, che peraltro valeva anche per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, il legislatore delegato ha: • rimosso il limite della impostazione contabile costante con riguardo alla violazione del criterio di competenza; • preferito “classificazione e valutazione” a “rilevazioni e valutazioni estimative” e • riconosciuto come supporto materiale per l’indicazione dei criteri di classificazione e valutazione adottati dal contribuente, oltre al bilancio (e con esso la Nota integrativa), anche qualsiasi altra documentazione rilevante ai fini fiscali. Il comma 1-bis, complessivamente inteso, riflette la convinzione maturata dal legislatore della mancanza di offensività delle condotte dichiarative che non ostano alla ricostruzione corretta della imposta dovuta da parte dell’Amministrazione finanziaria, resa edotta dal contribuente di tutti i dati e le informazioni necessarie. Tale volontà di escludere la rilevanza penale delle valutazioni aventi ad oggetto elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, sia pure eseguite in contrasto con i parametri tributari, è confermata dalla introduzione del comma 1-ter, che sostanzialmente riproduce la franchigia penale di non punibilità di cui al suddetto art. 7. Trattasi di una ulteriore previsione di favore per il contribuente in base alla quale, fuori dei casi di cui al comma 1-bis 13, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che, singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. Ciò significa che in caso di contestazione di va- 11 Quanto ai costi manifestamente non inerenti e indeducibili, essi, in quanto effettivi, non risultano contemplati dalla nuova figura delittuosa. Tuttavia, ciò non significa negare de plano la loro rilevanza sul piano penale. Invero, la loro indicazione in dichiarazione potrebbe configurare il reato più grave di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3, ove ne sussistano i presupposti. 12 Stante il tenore e la ratio della disposizione, si potrebbe sostenere che tali ipotesi non si limitano ad escludere il dolo di evasione, ma operano sul piano oggettivo, escludendo in sostanza la tipicità del fatto ed operando come elementi negativi della fattispecie, ossia come dati fattuali che devono essere assenti per permettere l’integrazione del reato. Sulla configurazione delle ipotesi di cui all’abrogato art. 7 del DLgs. 74/2000, cfr. Lanzi A., Aldrovandi P. “Manuale di diritto penale tributario”, Cedam, Padova, p. 244-248. 13 La clausola di riserva “fuori dai casi di cui al comma l-bis” ha sostituito l’incipit precedente “in ogni caso”, in accoglimento del parere reso dalle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze della Camera dei deputati, al fine di distinguere le due diverse fattispecie. lutazioni civilistiche o fiscali non documentate, sino alla concorrenza del c.d. “scarto tollerato”, il legislatore non ritiene integrata la condotta tipica. 5 La condotta incriminata: l’evasione d’imposta e l’innalzamento delle soglie di punibilità Oltre alla introduzione dei commi 1-bis e 1-ter nel testo dell’art. 4, uno degli aspetti più rilevanti della nuova formulazione del reato in esame è dato dall’innalzamento delle soglie di punibilità, le quali concorrono a definire il grado di offensività della infedeltà dichiarativa14. Ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000, la condotta dell’agente deve tradursi in una evasione d’imposta che soddisfi congiuntamente le soglie di punibilità di cui alle lett. a) e b), come rimodulate a seguito dell’entrata in vigore del DLgs. 158/2015. Precisamente, la c.d. soglia fissa di imposta evasa viene elevata da 50.000 a 150.000 euro mentre la c.d. soglia mobile del valore degli elementi attivi sottratti all’imposizione – anche considerando gli elementi passivi inesistenti – resta rapportata al 10% dell’ammontare complessivo di quelli dichiarati ma viene elevata al tetto di 3 milioni di euro (anziché di 2 milioni). Ai sensi del neo-introdotto comma 1-ter dell’art. 4 del DLgs. 74/2000, nella verifica del superamento delle soglie di punibilità non devono computarsi le valutazioni estimative che differiscono da quelle corrette in misura inferiore al 10%; e ciò, deve ritenersi valido quand’anche lo scarto complessivo eccedesse tale limite15. Inoltre, ai fini della applicazione dell’art. 4 occorre rilevare come la novella legislativa abbia inciso anche sulla nozione di imposta evasa di cui all’art. 1 comma 1 lett. f) del DLgs. 74/2000. In base all’attuale formulazione, non si considera imposta evasa – i.e. la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella dichiarata al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione – quella teorica e non effettivamente dovuta collegata sia a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio sia all’utilizzo di perdite pregresse spettanti e utilizzabili16. 6 L’elemento soggettivo: il dolo specifico di evasione Dal punto di vista dell’elemento psicologico, il reato di dichiarazione infedele è punito a titolo di dolo specifico in quanto il soggetto attivo deve porre in essere la condotta tipica descritta dalla norma con coscienza e volontà perseguendo il fine di evadere le imposte. A seconda che si qualifichino le soglie di pu- 14 A conferma della loro natura di elementi essenziali della fattispecie anziché condizioni obiettive di non punibilità, cfr. “Al fine di graduare le sanzioni in relazione al disvalore giuridico della condotta, il medesimo articolo [l’art. 8 della L. 23/2014, nda] delega il Governo a circoscrivere l’applicazione delle sanzioni penali mediante l’individuazione di adeguate soglie di punibilità”, in Relazione Tecnica allegata allo schema del DLgs. 158/2015, p. 1; analogamente, cfr. “nell’elemento della rappresentazione volitiva dell’agente rientra anche la soglia quantitativa, la quale non costituisce una mera condizione obiettiva bensì un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice”, in Mangione A., cit., p. 123. Contra, cfr. “Non dovrebbero riscontrarsi scostamenti nella giurisprudenza di legittimità per la quale il superamento delle soglie ivi indicate opera come una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente” in Relazione Corte di Cassazione 28.10.2015 n. III/05/2015 “Novità legislative: Decreto Legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23”, p. 18-22, in Banca Dati Eutekne; conf. Cevasco D. “Rassegna di giurisprudenza - I reati tributari (2012-2015). Parte prima”, Dir. prat. trib., 2015, p. 367. 15 Cfr. Relazione illustrativa, p. 7. 16 Per un approfondimento sullo scomputo delle perdite dall’imposta non versata, si rinvia a Sepio G., Silvetti F.M. “Revisione del sistema penale tributario: gli interventi di riforma dei delitti dichiarativi”, il fisco, 2015, p. 4123 e Iorio A., Mecca S. “Così cambiano i reati fiscali”, Il Sole-24 Ore, 14.10.2015, p. 5. 63 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 64 nibilità come elementi del fatto tipico o condizioni obiettive di punibilità, la fattispecie che deve essere coperta dal dolo rispettivamente si amplia o si restringe 17. Qualora l’agente indichi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale o elementi passivi inesistenti e realizzi una evasione soprasoglia in conseguenza di negligenza, imprudenza o imperizia, il reato in esame non può dirsi integrato per mancanza del dolo di evasione. Parimenti, l’integrazione del delitto di cui all’art. 4 deve escludersi laddove l’agente abbia realizzato il fatto tipico perché incorso in errore. Si ipotizzi il caso del contribuente che indichi in dichiarazione le poste stimate in bilancio senza comunicare il criterio fiscale non corretto da lui erroneamente applicato, in conseguenza del quale la valutazione risulta essere superiore allo “scarto tollerato” del 10%. Qualora gli errori siano meramente liquidativi, invece, l’integrazione del reato deve ritenersi preclusa “a monte” dall’assenza dell’elemento oggettivo del reato. 7 Focus sulla esclusione della rilevanza penale dell’elusione fiscale Come evidenziato in premessa, la esclusione della elusione fiscale dall’ambito applicativo del reato di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000 si ricava sia dalla riformulata descrizione della fattispecie tipica di dichiarazione infedele sia dall’intervento legislativo di venti giorni precedente contenuto nel DLgs. 128/2015. Con l’art. 8 della L. 23/2014, il Governo veniva delegato all’“individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie”. No- nostante il carattere apparentemente neutro del criterio direttivo, il legislatore delegato ha potuto fare affidamento sui seguenti indici: la predicata distinzione tra l’evasione e l’elusione fiscale; l’assenza dei paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, falsità o, più in generale, fraudolenza nel concetto di abuso del diritto ed, infine, la residualità della disciplina dell’abuso del diritto rispetto agli strumenti di reazione previsti dal sistema tributario avverso i più gravi fenomeni della frode ed evasione fiscale. L’art. 10-bis comma 13 dello Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dall’art. 1 del DLgs. 128/2015 nel disporre che “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie” potrebbe prima facie risultare in collisione con l’orientamento che la giurisprudenza di legittimità ha dimostrato di condividere a partire da questo decennio. Invero, con la celebre sentenza Dolce & Gabbana18, la Corte di Cassazione penale aveva inaugurato un orientamento in base al quale l’elusione fiscale era idonea ad integrare i reati di cui al DLgs. 74/2000 ed, in specie, quelli di dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione previsti rispettivamente dagli artt. 4 e 519. Più precisamente, secondo tale indirizzo, gli elementi costitutivi di queste fattispecie criminose potevano essere soddisfatti esclusivamente dalle condotte di cui agli artt. 37 comma 3 e 37-bis comma 3 del DPR 600/1973 e da quelle contenute in altre disposizioni specifiche aventi una ratio antielusiva. Difatti, sebbene l’abuso del diritto potesse astrattamente realizzare l’evento evasivo al pari dell’elusione c.d. codificata, la produzione di sanzioni penali era preclusa dal principio di legalità e, in particolare, dai suoi corollari di tassatività e determinatezza20. Tuttavia, le fattispecie concrete che avevano 17 V. nota 14. 18 Cass. pen. 28.2.2012 n. 7739, in Banca Dati Eutekne. 19 In realtà, la sanzionabilità dell’elusione fiscale era già stata ammessa con la sentenza Ledda (Cass. pen. 7.7.2011n. 26723, in Banca Dati Eutekne). Successivamente a Cass. n. 7739/2012, cit., si ricordano Cass. pen. 9.9.2013 n. 36894 e Cass. pen. 24.2.2014 n. 8797, in Banca Dati Eutekne. 20 Cfr. Cass. pen. 3.5.2013 n. 19100, in Banca Dati Eutekne, sentenza comunemente ricordata come la sentenza Raoul Bova, successivamente ripresa, passo passo, da Cass. pen. 31.7.2013 n. 33187, ivi. indotto il Supremo Collegio a ritenere integrati i suddetti reati tributari non costituivano propriamente delle operazioni elusive 21. Le operazioni di esterovestizione societaria e di interposizione fittizia che, correttamente, erano state sussunte nelle norme incriminatrici, cioè, rappresentavano delle forme di evasione e non di elusione fiscale. Persino il commento all’art. 10-bis comma 13 della L. 212/2000 ne dà contezza: in tale paragrafo, infatti, si coglie la volontà del legislatore di mantenere ferma la punibilità dei reati tributari consumati per effetto di operazioni catalogate solo erroneamente come elusive ma, in realtà, integranti “ipotesi di vera e propria evasione”22. A titolo esemplificativo, si pensi al fenomeno del transfer pricing domestico che, pur non presentando le caratteristiche delle operazioni elusive 23, viene erroneamente perseguito sulla base dell’art. 9 del TUIR in applicazione del principio del divieto di abuso del diritto. 8 L’efficacia temporale della nuova fattispecie di dichiarazione infedele La fattispecie di dichiarazione infedele come riformulata risulta più favorevole al reo rispetto alla previgente. Ciò si evince ictu oculi dall’innalzamento delle soglie di punibilità, ma altresì dalla statuizione della irrilevanza penale dei valori corrispon- denti a valutazioni giuridico-tributarie scorrette fondate su elementi attivi e passivi reali. La novella legislativa, pertanto, incide sui procedimenti penali pendenti e determina la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali delle condanne intervenute su condotte non più sussumibili nella attuale fattispecie incriminatrice24. In forza del principio del favor rei, infatti, non possono essere perseguite le condotte di infedele dichiarazione che non soddisfino le odierne soglie o, comunque, non risultino conformi al fatto tipico di cui al vigente art. 4. La retroattività delle disposizioni più favorevoli al contribuente contenute nel DLgs. 158/2015 è espressamente prevista anche nell’Analisi Tecnico-Normativa allo stesso allegata 25. Analogamente, deve riconoscersi efficacia retroattiva al disposto dell’art. 10-bis comma 13 della L. 212/2000 introdotto dal DLgs. 128/2015, quantomeno nella parte in cui esclude la rilevanza penale dell’abuso del diritto, finendo così per depenalizzare le condotte elusive tipizzate. Invero, la disposizione di cui all’art. 1 comma 5 del DLgs. 128/2015, in base alla quale le disposizioni dell’art. 10-bis acquistano efficacia a decorrere dall’1 ottobre 2015, salvo applicarsi anche alle operazioni poste in essere in data anteriore per le quali non sia stato notificato il relativo atto impositivo, deve interpretarsi in modo costituzionalmente orientato e conforme al diritto internazionale. 21 A proposito dell’erroneo inquadramento delle fattispecie da cui sono scaturite le sentenze della Corte di Cassazione sulla rilevanza penale dell’elusione fiscale, è stato correttamente osservato che i principi di diritto enucleati nel contesto di tali pronunce costituiscono dei meri obiter dicta (cfr. Stevanato D. “Rilevanza penale dell’elusione, un «obiter dictum» in una vicenda di esterovestizione societaria”, Dialoghi Tributari, 2012, p. 216-217). 22 Per una lucida distinzione tra elusione fiscale e simulazione e tra elusione fiscale ed erronea qualificazione negoziale, cfr. Stevanato D. “Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco”, Dir. prat. trib., 2015, p. 695-727. 23 Tra i lavori più recenti, cfr. Miele L. “«Transfer pricing» interno e valore normale”, in questo numero, p. 157 e ss.; Baggio R. “La rettifica dei prezzi di trasferimento nei rapporti interni”, Riv. dir. trib., 3, 2015, p. 160-171; Grandinetti M. “Il rasoio di Occam e il transfer price interno”, ivi, p. 172-187. 24 Sebbene l’Ufficio Massimario ne dia atto nel commento all’art. 3 del DLgs. 74/2000, devono ritenersi ribadite anche in relazione al reato di cui all’art. 4 le diverse posizioni della Corte di Cassazione penale circa la formula liberatoria da adottare tra “il fatto non è previsto dalla legge come reato” e “il fatto non sussiste” per i fatti commessi prima della entrata in vigore delle norme che innalzano le soglie di punibilità. Cfr. Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario Settore Penale, ivi, p. 18, nota 36. 25 Cfr. Parte III “Elementi di qualità sistematica e redazionale del testo”, punto 5. 65 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 66 Sul punto si è espresso in senso conforme anche il Supremo Collegio il quale, in un procedimento penale scaturito da una contestazione elusiva, ha affermato che “la disposizione del comma 13, che reca la statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive è destinata ad esplicare effetto, oltre che naturalmente per le nuove operazioni abusive poste in essere dalla data del 1 ottobre 2015, anche per quelle poste in essere prima di tale data per il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall’art. 2 c.p. […] è da ritenere che il comma 5 dell’art. 1 del D.lgs. n. 128 del 2015 abbia inteso introdurre una limitazione temporale esclusivamente alla efficacia retroattiva della disciplina tributaria dell’abuso del diritto e non anche a quella penale” e, per l’effetto, annullata senza rinvio la sentenza impugnata con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”26. La retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al contribuente importa, a cascata, conseguenze rilevanti sul piano pratico. In primo luogo, si assiste alla soppressione del doppio binario in relazione alle fattispecie abusive/elusive nonché a tutte le condotte dichiarative escluse dal nuovo perimetro del fatto tipico di dichiarazione infedele. Inoltre, diviene inoperante nei loro confronti il raddoppio dei termini per l’accertamento. Trattasi di un aspetto assolutamente non secondario, sebbene in qualche misura temperato dalla modifica normativa intervenuta con l’art. 2 del DLgs. 128/2015 che, per porre fine all’uso errato e strumentale del potere concesso dall’art. 37 comma 24 del DL 223/2006, impone all’Agenzia delle Entrate l’invio della denuncia di reato alla competente Autorità Giudiziaria entro l’ordinario termine di decadenza stabilito dall’art. 43 del DPR 600/197327. 9 La pena e la confisca obbligatoria La pena della reclusione da uno a tre anni prevista per il reato di dichiarazione infedele rimane invariata. La permanenza di tale intervallo edittale comporta varie conseguenze, tra le quali l’impossibilità di disporre intercettazioni, l’inapplicabilità delle misure coercitive e di quelle interdittive, nonché l’operatività della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131- bis c.p. introdotto dal DLgs. 16.3.2015 n. 28, entrato in vigore il 2 aprile 201528. Il DLgs. 158/2015 ha abrogato l’art. 1 comma 143 della L. 244/2007 (legge finanziaria 2008) 26 Cass. pen. 7.10.2015 n. 40272, § 18-20. Con riguardo alla retroattività della legge penale più favorevole, il Supremo Collegio richiama l’art. 2 co. 2 c.p., l’art. 15 co. 1 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 e l’art. 7 della CEDU, nonché i chiarimenti forniti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati e dal Governo nella Relazione illustrativa del DLgs. 128/2015. 27 Tra gli emendamenti al Ddl Stabilità 2016 (A.C. 3444-A), approvati in data 16.12.2015 dalla V Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, si segnala l’introduzione nel corpo dell’art. 1 dei co. 67-quater e 67-quinquies i quali se, da un lato, espungono il raddoppio dei termini per l’accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi nei casi di violazioni che comportano obbligo di denuncia per uno dei reati tributari previsti dal DLgs. 74/2000, dall’altro, allungano di un anno i termini per l’accertamento, dal 31 dicembre del quarto anno al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Ai fini della nostra indagine, tale modifica ha certamente l’effetto di parificare i termini per la rilevazione e contestazione delle fattispecie di dichiarazione infedele a prescindere dalla loro penale rilevanza, con conseguente superamento delle osservazioni sopra svolte. Quanto alla efficacia temporale delle norme predette, il comma aggiuntivo 67-sexies dispone che esse retroagiscono, applicandosi agli avvisi relativi al periodo d’imposta in corso alla data del 31.12.2015. Inoltre, lo stesso prevede una disciplina transitoria relativa ai periodi d’imposta precedenti a quello in corso al 31.12.2015: con specifico riguardo ai casi di infedele dichiarazione, resta fermo l’obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria di notificare gli avvisi di accertamento, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e viene mantenuto il raddoppio dei termini in caso di violazioni che comportano obbligo di denuncia per l’art. 4 del DLgs. 74/2000. 28 Sulla applicabilità dell’istituto ai reati tributari, si rinvia alla lettura di Cass. pen. 15.4.2015 n. 15449, in Banca Dati Eutekne, e Corso P. “La particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta anche per un illecito penaltributario – Il Commento”, Corr. Trib., 2015, p. 1451 e ss. che estendeva la confisca di cui all’art. 322-ter c.p. ai delitti in materia di dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto. La confisca obbligatoria per i delitti tributari, incluso quello di dichiarazione infedele, è ora prevista in termini sostanzialmente identici dall’art. 12-bis del DLgs. 74/2000. 10 Cause di non punibilità, circostanze e patteggiamento Per il reato in esame l’art. 11 del DLgs. 158/2015 ha introdotto una causa di non punibilità, sostituendo l’art. 13 del DLgs. 74/2000 con una nuova disposizione rubricata “Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario”. In base all’art. 13 comma 2 del DLgs. 74/2000, il reato di dichiarazione infedele non è punibile qualora il debito tributario, comprensivo di sanzioni ed interessi, sia stato integralmente pagato per effetto del ravvedimento operoso con la precisazione che quest’ultimo deve intervenire entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo e, soprattutto, prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività accertativa o di procedimenti penali. In sostanza, il legislatore delegato esclude la opportunità di irrogare una pena laddove vi sia stata l’estinzione tempestiva del debito tributario da parte del contribuente per effetto della sua spontanea resipiscenza. Fuori dei casi di non punibilità, il contribuente può comunque contare sulla circostanza attenuante speciale e ad effetto speciale prevista dal neo-introdotto art. 13-bis del DLgs. 74/2000 la cui operatività è subordinata al pagamento integrale dei debiti tributari, comprese sanzioni ed interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche a seguito delle procedure tributarie conciliative e di adesione. In caso di estinzione del debito mediante rateizzazione, il nuovo comma 3 dell’art. 13 prevede che la rateazione possa concludersi al massimo entro sei mesi dalla prima udienza. In forza del comma 2 dell’art. 13-bis, poi, il pagamento di quanto contestato prima della udienza di apertura dibattimentale continua a costituire il presupposto necessario per l’accesso all’istituto della applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p. A dire il vero, tale disposizione, nella parte in cui afferma che il patteggiamento può essere chiesto anche quando ricorra il ravvedimento operoso “fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2”, risulta essere poco chiara. È stato ipotizzato che il legislatore delegato abbia voluto dire che, in presenza delle cause estintive, il patteggiamento può comunque essere richiesto e concesso29. Infine, l’art. 13 comma 3 ha previsto una nuova circostanza aggravante speciale ad effetto speciale nel caso in cui il reato sia stato commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale, esercitata da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario. 29 Cfr. Caraccioli I. “Linee generali della revisione del sistema penale tributario”, il fisco, 2015, p. 6. 67 TRIBUTI IL CREDITO PER LE IMPOSTE ASSOLTE ALL’ESTERO: LE RECENTI MODIFICHE LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Emanuele LO PRESTI VENTURA Dottore Commercialista e Revisore Legale 68 Il sovrapporsi nell’arco degli ultimi mesi di corposi interventi interpretativi e di sostanziali modifiche di legge rende opportuna una ricognizione dell’intero impianto normativo e di prassi oggi applicabile. Tra le novità recate dal DLgs. 147/2015 assumono particolare rilievo quelle concernenti i termini temporali di utilizzo del credito spettante per le imposte assolte oltreconfine ed il numero di soggetti che possono beneficiare del riporto delle c.d. “eccedenze”. 1 Premessa: l’art. 165 del TUIR È nota la necessità per i contribuenti residenti in Italia di assoggettare ad IRPEF ed IRES tutti i redditi, ovunque prodotti nel mondo, principio questo che solleva l’altrettanto noto problema della doppia imposizione giuridica di quelli, tra essi, conseguiti oltre confine, in ragione della possibile, anzi probabile loro tassazione anche negli Stati di produzione. L’art. 165 del TUIR, sul solco dell’esperienza OCSE in materia1, ha ereditato dall’art. 15 del medesimo Testo Unico, nel testo in vigore prima della Riforma del 2003, il ruolo di risposta unilaterale alla questione, riconoscendo, nei termini di cui si scriverà a breve, un credito d’imposta per la tassazione subita al di fuori del nostro Paese. Lo stesso, dopo un lungo periodo di sostanziale silenzio, è stato destinatario nell’arco di pochi mesi prima della corposa circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate 5.3.2015 n. 9, poi delle modifiche recate dal DLgs. 14.9.2015 n. 147, titolato “Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”. Gli interventi del Governo, in particolare, di cui si darà conto entro una più ampia trattazione della norma, hanno riguardato l’ambito oggettivo di applicazione della stessa, i termini temporali di utilizzo del credito eventualmente spettante ed il numero di soggetti che possono beneficiare del riporto delle c.d. “eccedenze” di imposta estera; gli stessi sono 1 Art. 23b del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni: “Metodo del credito d’imposta”. tutti destinati ad operare a decorrere dal periodo in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento e quindi, per la maggioranza dei contribuenti, dal 2015, situazione questa che rende oltremodo utile una ricognizione dell’intero impianto di legge e di prassi oggi applicabile. 2 La “ratio” della norma. L’ambito applicativo Il meccanismo regolato dall’art. 165 del TUIR persegue, di fatto, l’obiettivo di far tassare una volta sola il reddito prodotto all’estero dal contribuente residente, con un carico dato dalla maggior imposta fra quella prevista nel dato Paese e quella applicabile in Italia. Per il raggiungimento di quanto sopra, la norma riconosce la possibilità di detrarre le imposte estere sino ad un (primo) limite, ovvero l’imposta lorda italiana corrispondente al reddito estero incluso in quello imponibile: tale plafond, chiamato anche “foreign tax credit”, è quindi ottenuto moltiplicando l’imposta lorda italiana per il rapporto che sussiste tra il reddito prodotto all’estero ed, appunto, il reddito complessivo, al netto, così dice la legge, delle perdite pregresse. Ogni riflessione in merito al novero dei soggetti destinatari della disposizione è favorita dalla sua collocazione: il relativo inserimento all’interno del Titolo III (“Disposizioni comuni”) del TUIR, infatti, la rende applicabile a tutti i soggetti passivi delle imposte sui redditi, ivi compresi quelli non residenti per i redditi prodotti all’estero ed inclusi nella base imponibile di una stabile organizzazione o base fissa italiana2. Il comma 9 dell’art. 165 del TUIR, da questo punto di vista, si limita a rimarcare come per le società di persone e per le società che hanno aderito alla c.d. “grande” o “piccola” trasparenza il credito spetta ai singoli soci, nella proporzione stabilita dagli artt. 5, 115 e 116 del TUIR. Con riguardo, invece, alle imposte estere che possono essere detratte dall’IRPEF o dall’IRES. l’Amministrazione finanziaria si è sempre dichiarata ferma nel subordinare l’attribuzione del “foreign tax credit” all’esistenza di una stretta “similarità” tra quanto assolto all’estero e l’imposta sui redditi italiana3; tale affermazione è stata costantemente interpretata nel senso che il gravame del quale si chiede il riconoscimento non deve avere la funzione di un corrispettivo in senso stretto, quanto nascere per il semplice realizzarsi di un presupposto di legge (i.e. il possesso di redditi). Il DLgs. 147/2015, come si ricordava in premessa, ha infine chiarito il punto, stabilendo che possono essere richieste in detrazione: • sia le imposte estere oggetto di una Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e il determinato Stato estero4; • sia le altre imposte o gli altri tributi esteri sul reddito. Ove sussistessero obiettive condizioni d’incertezza in merito alla natura del tributo scontato all’estero, non oggetto delle anzidette Convenzioni, sarà comunque possibile presentare istanza d’interpello ex art. 11 della L. 27.7.2000 n. 212 5. 2 Sul punto, la circolare Agenzia Entrate n. 9/2015, § 8, ricorda che se il Paese della fonte del reddito ha prelevato le imposte sulla base di una Convenzione in vigore con il Paese di residenza della casa madre della stabile organizzazione, le imposte estere rilevanti, ai fini del meccanismo qui in analisi, non potranno eccedere quelle che il Paese della fonte avrebbe prelevato qualora fosse stato applicato il Trattato con l’Italia. 3 Risoluzione Min. Finanze 21.4.1983 n. 2540. 4 Il richiamo è all’art. 2 dei Trattati conformi al Modello OCSE, che fissa dei criteri di riconoscimento reciproco delle imposte ai fini dell’applicazione delle norme pattizie. 5 Tale percorso era stato indicato anche dalla circolare n. 9/2015. 69 3 Gli elementi applicativi. Le condizioni LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Il reddito “prodotto all’estero” 70 Una volta inquadrata la logica di funzionamento della misura, è possibile soffermarsi sui singoli elementi che compongono la formula del “foreign tax credit”, iniziando dalla grandezza posta a numeratore del rapporto, ovvero il reddito “prodotto all’estero”. Il comma 2 dell’art. 165 del TUIR prevede che un reddito debba considerarsi tale sulla base di criteri reciproci a quelli introdotti dal successivo art. 23 per individuare i redditi prodotti nel territorio italiano da soggetti non residenti. Tale “lettura a specchio” ha sollevato nel tempo diversi problemi applicativi, tra i quali spicca quello concernente le ipotesi che escludono la rilevanza territoriale per talune tipologie di redditi: le stesse, infatti, se replicate in via pedissequa, comporterebbero l’impossibilità di considerare “prodotti all’estero” i redditi relativi a situazioni speculari, come, ad esempio, gli interessi sui conti correnti bancari detenuti oltreconfine. Di pari tenore è il problema che si pone con riferimento alle imposte applicate all’estero su redditi oggettivamente d’impresa, in mancanza di una stabile organizzazione locale: la sua assenza, infatti, sempre secondo una rigida lettura del richiamo di legge, non consentirebbe di riconoscere al reddito la qualifica di “prodotto all’estero”, così da accedere al meccanismo di recupero del carico impositivo subito. La recente circolare 9/2015 ha avuto l’indubbio merito di chiarire i dubbi ora paventati, precisando in primis che le scelte di opportu- nità che hanno guidato il legislatore nell’introdurre le esclusioni ex art. 23 TUIR, non pregiudicano affatto al contribuente italiano il riconoscimento, in situazioni speculari, del credito per le imposte estere. Ancora, poiché con riguardo alle imprese non residenti non opera il c.d. “fattore unificante della commercialità”, così che poste come dividendi, interessi e royalties in uscita dal nostro Paese sono tassate pur in mancanza di una stabile organizzazione italiana, tale conclusione deve operare anche in senso inverso, così da consentire, a parità di flussi, un recupero della tassazione subita oltreconfine. L’intervento di prassi, infine, si è dimostrato rigido in merito ai redditi di natura commerciale tassati all’estero, pur in mancanza di una stabile organizzazione locale: tale situazione, infatti, a detta dell’Agenzia delle Entrate, preclude l’accesso al meccanismo dell’art. 165 del TUIR e lascia spazio alla sola possibilità per l’impresa di dedursi l’imposta estera 6. Una chiosa finale merita il tema delle norme che regolano la quantificazione del reddito prodotto oltreconfine. Quest’ultimo deve essere determinato, lo ricorda la risoluzione Agenzia Entrate 1.6.2005 n. 69, secondo i criteri nostrani, con la sola eccezione dei redditi dei terreni e dei fabbricati situati al di fuori del territorio italiano: gli stessi, infatti, rilevano secondo la valutazione effettuata nello Stato estero, ex art. 70 comma 2 del TUIR. Sul punto è intervenuta la circolare n. 9/2015, rimarcando come il reddito estero debba essere assunto al “lordo” dei costi sostenuti per la relativa produzione, con la sola eccezione del reddito d’impresa e di quello di lavoro autonomo, in ragione delle obiettive difficoltà nella determinazione e nel controllo dei costi effettivamente imputabili. 6 Il contribuente può ricevere un valido aiuto sul punto dai Trattati conformi al Modello OCSE: questi ultimi, infatti, riconoscono il diritto alla detrazione delle imposte subite nel Paese controparte, diverso cioè da quello di residenza, sul solo presupposto che la componente reddituale sia risultata ivi “imponibile”. Rimane comunque imprescindibile, a detta dell’Agenzia delle Entrate, il fatto che il potere impositivo sia stato esercitato in conformità alle disposizioni della Convenzione: una tassazione di redditi di natura commerciale in capo al soggetto non residente, ad esempio, pur in carenza di una sua stabile organizzazione locale, così come definita dal Trattato bilaterale, legittima un diritto di rimborso presso le Autorità estere competenti, e non un diritto di detrazione in patria (così la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2008 n. 277). Lo scomputo delle perdite pregresse Il denominatore della formula per il “foreign tax credit” è caratterizzato da un inciso, quello per cui il reddito complessivo deve essere considerato al netto di eventuali perdite pregresse riportabili in avanti nel tempo. La conseguenza di tale obbligo può essere apprezzata osservando come, in generale, nell’ipotesi di un utilizzo di perdite pregresse, la riduzione del rapporto tra il reddito prodotto all’estero e il reddito complessivo si accompagna ad una riduzione proporzionale dell’imposta lorda italiana, così che la quota di essa gravante su quanto ottenuto oltreconfine rimane immutata: esemplificando al massimo, si può assumere a riferimento, in ambito IRES, un importo pari al 27,5% dei redditi prodotti fuori dal territorio dello Stato. Quanto ora esposto, però, non è più vero laddove, in ragione dell’uso delle perdite in commento, il reddito complessivo si riduca al di sotto del livello del reddito prodotto all’estero: in tale ipotesi, infatti, il “foreign tax credit”, pari all’intera imposta lorda italiana, comincia a decrementarsi, sino eventualmente ad annullarsi del tutto, rendendo sempre più improbabile, ed infine certo, il mancato recupero integrale dell’imposta estera, e quindi assai plausibile il sorgere della “eccedenza” di cui si scriverà a breve. L’imposta “netta dovuta”. Il concorso alla formazione del reddito complessivo Si è scritto in precedenza come la detrazione dell’imposta estera avvenga nel rispetto di un primo limite, rappresentato dal minor importo tra quando scontato nel dato Paese e il “fo- reign tax credit”. L’affermazione, pur veritiera, non dà prontezza dell’intero scenario: il limite ultimo di recupero, infatti, come ricordano le stesse istruzioni ai modelli di dichiarazione, non è già l’imposta “corrispondente” al reddito complessivo incluso al denominatore della formula, quanto l’imposta “netta dovuta” dal contribuente, così come calcolata al netto delle detrazioni di legge. Altro aspetto del quale tenere conto è il necessario concorso alla formazione del reddito complessivo del contribuente di quanto prodotto all’estero e ivi tassato. Tale aspetto può essere declinato in vari modi. Innanzitutto, si ricorda come, con riguardo ai redditi di capitale, il recupero di tassazione non sia possibile in presenza di redditi assoggettati in Italia a ritenuta a titolo di imposta, ad imposta sostitutiva ex art. 2 comma 1-bis del DLgs. 239/1996, o ancora ad imposizione sostitutiva delle precedenti, operata dal contribuente ex art. 18 del TUIR in carenza di intermediari italiani. È vero che il soggetto ha la facoltà di non avvalersi dell’anzidetto regime di imposizione sostitutiva, ma tale possibilità incontra i limiti sanciti dall’art. 27 comma 4 del DPR 600/1973, con riguardo, ad esempio, ai dividendi da partecipazioni estere non qualificate7, e dall’art. 4 comma 2 del DLgs. 239/19968. In secondo luogo, si evidenzia come, a norma dell’art. 165 comma 10 del TUIR, in caso di redditi esteri che concorrono parzialmente alla formazione del reddito complessivo, l’imposta estera da considerarsi ai fini della detrazione è “solo” quella corrispondente alla quota di reddito imponibile in Italia. L’ambito tipico di applicazione della previsione sono gli utili di fonte “white list”, in presenza dei quali le ritenute subite nel dato Paese, ad esempio, da una società di capitali nostrana, 7 La doppia imposizione, lo si segnala appena, è in parte mitigata in questo caso dall’applicazione della ritenuta in ingresso in Italia sul c.d. “netto frontiera”. 8 Ulteriore percorso di recupero è quello che si offre con riguardo alla cd. “euroritenuta”, applicata ex art. 11 della direttiva 2003/48/CE sui redditi da risparmio percepiti in taluni Stati UE ed extra-UE da soggetti ivi non residenti, grazie al riconoscimento in dichiarazione di un diritto alla sua compensazione o al suo rimborso. 71 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 72 possono essere recuperate limitatamente al 5% del loro ammontare. Esistono, tuttavia, ulteriori contesti di operatività della soglia, tra i quali, ricorda la risoluzione Agenzia Entrate 8.7.2013 n. 48, quello dei redditi da lavoro dipendente percepiti da contribuenti residenti in Italia e determinati secondo parametri convenzionali ex art. 51 comma 8-bis del TUIR: in tale evenienza, le imposte pagate all’estero dovranno essere ridotte “in proporzione al rapporto tra la retribuzione convenzionale […] ed il reddito di lavoro dipendente che sarebbe stato tassabile in via ordinaria in Italia”. Da ultimo, con riguardo ai casi “patologici”, il comma 8 della norma disconosce il diritto in analisi in ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o di omessa indicazione dei redditi esteri in dichiarazione: la seconda fattispecie, così afferma la circolare n. 9/2015, si verifica nel caso in cui in dichiarazione non risulti indicato un reddito estero derivante dalla medesima fonte produttiva ed appartenente alla medesima categoria reddituale, così che la preclusione non opera per chi, ad esempio, ha dichiarato solo parzialmente il reddito di impresa prodotto all’estero da una stabile organizzazione 9. La “per country limitation” Il meccanismo regolato dall’art. 165 del TUIR non considera l’estero un blocco “coeso”: il comma 3, infatti, dispone che se alla formazione del reddito complessivo “concorrono redditi prodotti in più Stati esteri, la detrazione si applica separatamente per ciascuno Stato”. L’approccio così codificato, antitetico a quello che la prassi indica con l’espressione “overall limitation”, è fonte di indubbi vantaggi per il contribuente titolare di redditi prodotti in più Paesi diversi dall’Italia. Si pensi, al riguardo, alle conseguenze che potrebbero scaturire dalla necessità di calcolare il numeratore del rapporto già commentato quale sommatoria dei risultati conseguiti nei diversi Stati, in presenza sia di redditi, che di perdite: il plafond per il recupero delle imposte scontate oltreconfine sarebbe parzialmente compromesso, sino ad annullarsi del tutto ove le partite negative fossero di ammontare superiore a quelle positive. 4 L’utilizzo della detrazione: le novità 2015 Il corredo documentale a supporto Il tema della modalità di utilizzo della detrazione in esame coinvolge due aspetti distinti. Il primo attiene al corredo documentale che il contribuente deve conservare per dare prova delle imposte versate all’estero. Sul tema si sono registrati nel tempo ripetuti interventi di prassi, apprezzabili nel tentativo di portare chiarezza, ma di carattere sempre parziale: tra le altre, si segnalano la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2001 n. 104, in ambito di redditi di capitale sotto forma di dividendi, e la circolare Agenzia Entrate 12.6.2002 n. 50 (par. 18), che si interessava di redditi di lavoro dipendente 10. La circolare n. 9/2015 è tornata sul punto al fine di sistematizzare le precedenti indicazioni ed offrire un quadro di generale validità. Ai fini della verifica della detrazione 9 La presentazione di una dichiarazione integrativa a sfavore ex art. 2 co. 8-ter del DPR 322/1998 consente al contribuente di sanare la mancata indicazione del reddito estero, e quindi di recuperare il diritto in analisi. Così C.T. Prov. Milano 27.3.2015 n. 2944/17/15, in Banca Dati Eutekne. 10 Utili indicazioni sulla questione si rinvengono, ovviamente, anche in giurisprudenza. Tra le tante, si segnala la pronuncia della C.T. Reg. Milano 24.2.2012 n. 16/29/12, in Banca Dati Eutekne: in essa, infatti, i giudici hanno sentenziato che le certificazioni delle Autorità fiscali estere sono prove valide a dimostrare l’assolvimento di imposte nel dato Paese, fino a querela di falso e quindi ad azione promossa dall’Agenzia presso il giudice civile. In dottrina, di sicuro pregio e “stimolo” è stato l’approfondimento Assonime n. 1/2012, con il quale l’Associazione auspicava, tra l’altro, il riconoscimento di un valore probatorio ad ogni certificazione resa da sostituti d’imposta esteri. spettante, così vi si legge, il contribuente è tenuto a conservare i seguenti documenti: • un prospetto recante l’indicazione, separatamente Stato per Stato, dell’ammontare dei redditi prodotti all’estero, l’ammontare delle imposte pagate in via definitiva in relazione ai medesimi, nonché la misura del credito spettante, determinato sulla base della formula di cui al primo comma dell’art. 165 del TUIR; • la copia della dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero, qualora sia ivi previsto tale adempimento; • la ricevuta di versamento delle imposte pagate nel Paese estero; • l’eventuale certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi di fonte estera; • l’eventuale richiesta di rimborso, qualora non inserita nella dichiarazione dei redditi. In merito alla lingua con cui i diversi documenti devono essere scritti o presentati, è utile richiamare quanto statuito dalla Corte di Cassazione con sentenza 17.6.2015 n. 12525 11. La Suprema Corte, in particolare, ha affermato come fuori dall’ipotesi in cui le parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel dato documento, ovvero quando vi sia una traduzione non oggetto di alcuna contestazione, il giudice di merito non può decidere ritenendo come non acquisiti agli atti i documenti redatti in lingua straniera, ma deve procedere alla nomina di un traduttore. I termini temporali di esercizio del diritto Il secondo aspetto da tenere in conto, nella prospettiva di reclamare il recupero delle imposte estere, attiene il momento in cui tale richiesta può e deve essere avanzata. Ai sensi dell’art. 165 comma 4 del TUIR, opera un principio generale di competenza: la detrazione, infatti, deve essere richiesta nella dichiarazione relativa al periodo al quale appartiene il reddito prodotto all’estero; il tutto, però, a condizione che il pagamento “a titolo definitivo” dell’imposta avvenga prima della relativa presentazione 12. La “definitività” del versamento, o meglio la sua “irripetibilità”, per usare il termine riportato nella circolare n. 50/2002, è esclusa nei casi in cui i pagamenti operati all’estero siano avvenuti a titolo di acconto, in pendenza di controversia o nella previsione di un rimborso, come succede tipicamente ove sia stata applicata una ritenuta in uscita dal Paese superiore a quella riconosciuta dal Trattato esistente con l’Italia 13. Ove la condizione ora citata sia integrata in un momento successivo, così prosegue il comma 7 primo periodo, si deve procedere sì ad una successiva liquidazione, ma sulla base dei dati originari, considerando al più l’eventuale maggior reddito estero emerso. Nell’eventualità di un’incapienza dell’imposta netta dovuta sui redditi di periodo, la detrazione si trasformerà in un diritto di riporto, rimborso o eventuale compensazione, ai sensi degli artt. 11 comma 4, 22 comma 2 e 80 del TUIR, nonché dell’art. 17 del DLgs. 241/1997. Nell’ipotesi opposta, ovvero quella in cui le imposte estere siano pagate a titolo definitivo prima che il reddito estero sia divenuto imponibile in Italia, il credito rimane sospeso, sino alla sua inclusione in una dichiarazione dei redditi nazionale 14. 11In Banca Dati Eutekne. 12 Circolare n. 9/2015: “Il principio trova applicazione anche nel caso in cui il contribuente presenti la dichiarazione tardivamente, purché entro i novanta giorni successivi alla scadenza dell’ordinario termine”. 13 Sul tema, si segnalano la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2001 n. 104, la circolare Agenzia Entrate 16.6.2004 n. 26 e la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2008 n. 277. 14 Un caso “scuola”, ripreso peraltro dalla circolare n. 9/2015, è quello rappresentato dalle c.d. “partnerships”, ovvero le società estere per le quali la tassazione nel Paese di localizzazione dei relativi utili, in capo al socio italiano, non avviene “per cassa”, e quindi in sede di loro effettiva distribuzione, ma per mera trasparenza. 73 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 74 La questione è invero ben più complessa di quanto sin qui esposto. Tra gli aspetti più significativi affrontati dalla circolare n. 9/2015, meritano di essere segnalati i seguenti. Non è raro, innanzitutto, che le imposte estere siano versate in maniera frazionata, nel corso di più anni: in tale ipotesi, afferma l’Agenzia delle Entrate, la misura di detrazione massima consentita (i.e. il “foreign tax credit”) rimane quella “originaria”, ovvero quella calcolata nel periodo in cui il reddito estero ha concorso a formare il reddito complessivo. In caso poi di accertamento di un maggior reddito all’estero, e quindi di versamento nel tempo di maggiori imposte oltreconfine, gli scenari possibili sono tre: 1. ove tale fatto sia privo di effetti in Italia, e quindi non si operi alcuna rettifica del reddito originariamente dichiarato, è necessario procedere negli stessi termini appena descritti: nel caso di specie, infatti, si assiste “semplicemente” ad una nuova ipotesi di pagamento frazionato delle imposte estere; 2. ove l’accertamento estero si accompagni all’emersione di maggiore base imponibile anche nel nostro Paese, vuoi per effetto dell’attività di controllo svolta da parte dell’Amministrazione, vuoi per iniziativa del contribuente, è necessario procedere ad un nuovo calcolo del “foreign tax credit” e quindi del plafond di capienza massima della detrazione; 3. nell’eventualità, infine, in cui siano decorsi i termini di accertamento in Italia del periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo, ipotesi questa regolata dall’art. 165 comma 7 secondo periodo, la detrazione per quanto versato oltreconfine potrà essere chiesta solo per la parte di imposta estera corrispondente al reddito acquisito definitivamente a tassazione in Italia. Situazione questa che, in buona sintesi, diversamente dal primo caso, esclude la possibilità di recuperare imposte assolte oltreconfine, pur in presenza di un “foreign tax credit” iniziale sufficientemente capiente. Un ultimo scenario prospettato dal documento di prassi attiene le ipotesi in cui l’imposta estera, pagata a titolo definitivo e già detratta, sia oggetto di rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria estera. Tale situazione può ricorrere, ad esempio, in quelle giurisdizioni ove è consentito il c.d. “carry back”, ovvero il riporto all’indietro delle perdite conseguite da una stabile organizzazione, al fine di compensare utili pregressi. In questa evenienza, il contribuente è tenuto alla presentazione di una dichiarazione integrativa a sfavore ex art. 2 comma 8 del DPR 322/1998, nonché al versamento della maggiore imposta dovuta. Si conclude sul tema illustrando il secondo intervento operato dal DLgs. 147/2015. Il Governo, in particolare, ha ampliato la platea dei contribuenti in grado di usufruire della previsione di favore contemplata dall’art. 165 comma 5 del TUIR, ovvero quella per cui è possibile operare la detrazione anche se alla data di presentazione della dichiarazione le imposte estere non siano state versate a titolo definitivo: il beneficio finanziario, infatti, interessava sino all’anno scorso i soli redditi prodotti all’estero per il tramite di una stabile organizzazione o da società estere controllate aderenti al c.d. “consolidato mondiale”. I requisiti per non rendere la facoltà controproducente, invece, sono rimasti immutati. La norma, in merito, richiede che: • da un lato, il contribuente dia evidenza in dichiarazione della scelta operata, e quindi, con buona sintesi, dell’utilizzo della detrazione pur in carenza di un’imposta estera “definitiva”; • dall’altro, il pagamento “irripetibile” di quest’ultima abbia luogo entro la scadenza prevista per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo. Diversamente, secondo quanto già indicato dalla circolare n. 9/2015, si assisterà al recupero delle maggiori imposte italiane e all’applicazione della sanzione ordinaria ex art. 13 del DLgs. 471/1997, fatta salva, ovviamente, la duplice possibilità per il contribuente di presentare una dichiarazione rettificativa e di optare per il ravvedimento operoso della propria posizione 15. 5 Le “eccedenze” d’imposta estera Il meccanismo. La nuova platea di contribuenti interessati L’aspetto forse più innovativo del recente intervento del Governo concerne l’ampliamento della platea di contribuenti che possono fare uso delle c.d. “eccedenze” di imposta estera: tale meccanismo, infatti, in ragione delle novità recate dal DLgs. 147/2015, non è più appannaggio delle imprese. Nel merito, si ricorda come l’art. 165 comma 6 del TUIR riporti da anni una disposizione il cui scopo, con buona sintesi, è quello di “livellare” la tassazione dei redditi esteri alle aliquote nostrane, compensando le (eventuali) oscillazioni di senso contrario registrate su quelli prodotti nel medesimo Paese. Per realizzare tale obiettivo, è previsto che se un contribuente produce reddito in un Paese estero, l’eventuale “eccedenza” di imposte ivi pagate a titolo definitivo rispetto alla detrazione operata in Italia rappresenta un credito d’imposta “virtuale”. Lo stesso, infatti: • può essere utilizzato da subito, sino a concorrenza dell’“eccedenza” di imposta italiana riferibile al medesimo Paese estero creatasi negli 8 esercizi precedenti (“carry back”); • può essere riportato per il residuo e utilizzato sino a concorrenza dell’“eccedenza” di imposta italiana riferibile al medesimo Paese estero che si genererà negli 8 esercizi successivi (“carry forward”). I presupposti perché si generi l’“eccedenza” in commento possono essere ricondotti a due fattispecie oggi di portata generale, ovvero: • un livello di tassazione estero superiore a quello italiano; • una minor quantificazione del reddito estero in Italia, se non il suo annullamento integrale. Tipica delle imprese, invece, è l’ipotesi che il credito d’imposta “virtuale” tragga origine da un reddito complessivo inferiore a quello prodotto all’estero, per il tramite di una stabile organizzazione, a causa, ad esempio, della presenza di risultati di gestione negativi o, come si scriveva in precedenza, di perdite pregresse in Italia. Note operative Tra gli aspetti di dettaglio, merita di essere affrontata in primo luogo la questione delle modalità con le quali si forma l’“eccedenza” in caso di versamento frazionato nel tempo dell’imposta estera. Il tema viene ripreso dalla circolare n. 9/2015 che afferma a chiare lettere la necessità di avere riguardo, per la determinazione del credito “virtuale”, agli elementi reddituali, alla quota di imposta italiana e all’imposta netta del periodo di appartenenza del reddito; in tale scenario, continua il documento di prassi, l’“eccedenza” assumerà, ai fini del riporto, la classe di anzianità del periodo in cui le imposte estere sono state pagate (par. 7.3.3 e 7.3.4). Sicuramente di rilievo è poi l’apertura dell’Agenzia delle Entrate circa un uso ponderato delle perdite pregresse, nella prospettiva di non annullare del tutto il reddito imponibile di periodo: così facendo, infatti, l’impresa italiana può far emergere un’imposta italiana, meglio, un “foreign tax credit”, pari alla tassazione estera, evitando il prodursi di una qualunque “eccedenza” (par. 7.3.2). La stessa libertà viene infine riconosciuta in un’altra ipotesi, ovvero quella per cui il reddito complessivo sia pari o inferiore a quello este- 15 Ricorda il documento di prassi come in tale scenario, alla luce della precisa lettera della norma, la tardiva presentazione della dichiarazione nei 90 gg. di legge non ha alcun effetto sanante. 75 ro, in ragione, ad esempio, dell’utilizzo nuovamente di perdite pregresse, e quest’ultimo sia stato prodotto in più Stati. In tale scenario, il “foreign tax credit” non solo risulta pari all’intera imposta lorda italiana, come scritto in precedenza, ma funge anche da unico limite di recupero. In questo quadro, la circolare n. 9/2015 (par. 7.3.5) legittima una scelta del contribuente di recupero della tassazione estera su base discrezionale: l’impresa nostrana potrà così detrarre le imposte assolte nel Paese dove è più improbabile che si generi in futuro un’“eccedenza” di imposta italiana. LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 L’“eccedenza” negativa d’imposta italiana 76 Il presupposto perché il credito d’imposta “virtuale” sia recuperato è quello, come detto, che nell’arco temporale oggetto di monitoraggio il contribuente italiano produca nel medesimo Paese un reddito con un livello di tassazione italiano superiore a quello locale. Tale situazione, speculare a quella “iniziale”, conosce un correttivo introdotto dalla prassi ministeriale16 al fine di impedire la creazione di un’“eccedenza” di imposta italiana “fittizia”. Il caso al quale ci si può riferire è il seguente. Si ipotizzi un’impresa italiana che produca all’estero una perdita, per il tramite di una stabile organizzazione, atta a compensare, sino a concorrenza, un reddito italiano conseguito a parità di esercizio. Ove nel periodo d’imposta successivo, la perdi- ta fosse idonea a compensare un reddito prodotto nel medesimo Stato, si verrebbe a creare in modo pressoché naturale un’“eccedenza” di imposta italiana: questo in quanto il reddito estero verrebbe incluso sic et simpliciter nel reddito complessivo del contribuente, concorrendo così alla determinazione dell’IRPEF o dell’IRES di competenza. Osservando complessivamente il fenomeno, tuttavia, si registrerebbe l’inesistenza di un’“eccedenza” di imposta italiana su redditi esteri realmente appresi dal sistema: quella in oggetto, infatti, sarebbe null’altro che la tassazione relativa ai redditi prodotti nel nostro Paese nel primo dei due periodi in ipotesi. Riconoscere in situazioni come quella ora descritta la creazione di un plafond, utile ai fini del meccanismo regolato dall’art. 165 comma 6 del TUIR, solleverebbe pertanto un rischio enorme per l’Italia, ovvero quello di finanziare in toto nel lungo termine (i.e. 8 anni avanti e 8 indietro) il pagamento di imposte estere da parte del contribuente. Nella prospettiva di impedire il realizzarsi di risultati così nefasti per le casse erariali, è stato quindi introdotto il correttivo cui si faceva cenno in premessa, ovvero il concetto di “eccedenza negativa” di imposta italiana: tale grandezza, pari, nei fatti, al risparmio IRPEF o IRES conseguito in ragione di perdite generate oltreconfine, deve essere memorizzata e portata in riduzione dell’“eccedenza” positiva di imposta italiana che si dovesse registrare in futuro, su redditi prodotti a parità di Stato. 16 Istruzioni ai modelli dichiarativi e da ultimo circolare n. 9/2015, in linea con le raccomandazioni OCSE. TRIBUTI GLI EFFETTI FISCALI DELLE MODIFICHE ALLE REGOLE CONTABILI SUI DERIVATI Francesco BONTEMPO Funzionario del Settore Imposte sui Redditi e sulle Attività Produttive – Direzione Centrale Normativa Agenzia delle Entrate La nuova rappresentazione contabile degli strumenti finanziari derivati, contenuta nel DLgs. 139/2015, in attuazione della direttiva 2013/34/UE, identifica i derivati sulla base della definizione di cui allo IAS 39 (integrandola espressamente con il richiamo ai derivati collegati a materie prime). I soggetti che adottano i principi nazionali, quindi, rileveranno in bilancio questi strumenti finanziari – e non solo come impegni tra i conti d’ordine – procedendo alla valutazione degli stessi sulla base del loro fair value. Regole specifiche, ispirate alla tecnica di cash flow hedging degli IFRS, sono, inoltre, previste per le ipotesi di copertura dei flussi finanziari attesi con conseguente indisponibilità delle relative riserve. La modifiche introdotte si riflettono sulle modalità di applicazione dell’art. 112 del TUIR, rafforzando indirettamente l’obiettivo del legislatore fiscale di garantire, in tale materia, identità di trattamento tra le banche e gli enti finanziari (soggetti che adottano gli IFRS) e le altre imprese (incluse quelle che non adottano gli IFRS nei propri bilanci). 1 Premessa Il restyling dei bilanci d’esercizio dei soggetti che non adottano i principi contabili internazionali IFRS, operato con il DLgs. 18.8.2015 n. 139 – in attuazione della direttiva 2013/34/ UE relativa ai bilanci d’esercizio e consolidati1 – presenta tra le novità di grande rilievo l’identificazione di una precisa modalità di contabilizzazione degli strumenti finanziari derivati. Chi si “diletterà” a leggere un bilancio, a partire dal 1° gennaio 2016, noterà tra gli asset delle imprese italiane non IFRS adopter la rilevazione degli strumenti derivati attivi o nella sezione contrapposta gli eventuali derivati passivi, ritrovandosi tra le rettifiche di valore del Conto economico la registrazione delle relative oscillazione di fair value. Ma non è solo questo l’effetto del recepimento della direttiva bilanci, infatti, tra i fenomeni più sorprendenti ci sarà la visualizzazione tra le riserve dello Stato patrimoniale di una riserva che accoglie le oscillazione del fair value degli strumenti finanziari detenuti con finalità di copertura dei flussi finanziari attesi. Tale nuova rappresentazione contabile che, prendendo atto dell’evoluzione delle tecniche di finanza aziendale, rende certamente più realistica la rappresentazione del bilancio dei soggetti che adottano i principi contabili nazionali comporta, tuttavia, la necessità di esaminare l’adeguatezza della vigente disciplina fiscale riguardante le “operazioni fuori bilancio” (art. 112 1“[…] recante modifica della direttiva 2006/43/CE e abrogazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, per la parte relativa alla disciplina del bilancio di esercizio e di quello consolidato per le società di capitali e gli altri soggetti individuati dalla legge”. 77 del TUIR2) al fine di identificare gli effetti sulla determinazione della base imponibile IRES, sia della transizione alla nuova rappresentazione contabile sia del trattamento a regime dei derivati. Le medesime questioni, pur con presupposti diversi, si pongono in ambito di determinazione del valore della produzione netta per l’IRAP3. 2 La nuova modalità LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 di rappresentazione in bilancio 78 Prima di esaminare nel dettaglio gli effetti sulla disciplina fiscale delle operazioni fuori bilancio, riportiamo un breve riepilogo della nuova disciplina contabile, rinviando gli approfondimenti di tali aspetti ad altri interventi di dottrina4. Per quanto concerne le previsioni riguardanti gli strumenti finanziari derivati contenute nella direttiva 2013/34/UE5, si possono sinteticamente evidenziare i seguenti macro argomenti: • l’identificazione; • le modalità di valutazione. Con riferimento al primo punto, il comma 2 dell’art. 8, definisce espressamente quali stru- menti finanziari derivati “quelli collegati a materie prime che conferiscono all’una o all’altra parte contraente il diritto di procedere alla liquidazione del contratto per contanti o mediante altri strumenti finanziari6”. Resta, ovviamente, ferma per gli Stati membri la facoltà di “autorizzare o prescrivere” la rilevazione degli strumenti finanziari, anche con riferimento ai derivati, in conformità ai principi contabili internazionali (art. 8 comma 6 della direttiva). Passando agli aspetti riguardanti la valutazione, si consente ai singoli Stati di derogare al criterio del prezzo di acquisto o del costo di produzione [cfr. art. 6, par. 1, lett. i) della direttiva] autorizzando o prescrivendo la valutazione al “valore netto”7 di tali strumenti e prevedendo, qualora tale opzione non sia adottata, che il valore netto degli strumenti vada riportato comunque in Nota integrativa. Muovendosi all’interno di questo framework contenuto nella direttiva, il legislatore delegato ha operato diverse modifiche al codice civile ed, in particolare, agli articoli dal 2424 al 2426 dello stesso, al fine di identificare, in primis, le voci degli schemi di bilancio 8 che, adesso (o meglio dal 1° gennaio 2016), sono 2 DPR 22.12.1986 n. 917. 3 Ai sensi del DLgs. 15.12.1997 n. 446. In proposito si segnala che gli effetti più rilevanti riguardano i soggetti che operano nei settori diversi da quelli finanziari ed assicurativi che determinano la propria base imponibile secondo quanto previsto dall’art. 5 del medesimo DLgs. 446/1997. 4 Si rinvia a Latorraca S. “Gli strumenti derivati «entrano» nel bilancio”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne. info, 29.9.2015; Id. “Derivati da rilevare sempre al fair value”, ivi, 5.10.2015. 5 Direttiva (UE) 26.6.2013 n. 34 (G.U. UE 29.6.2013 L-182). 6 Pur prevedendo le seguenti eccezioni, ossia le ipotesi in cui tali contratti: a) siano stati conclusi e siano mantenuti per soddisfare le esigenze di acquisto, di vendita o di utilizzo previste dall’impresa al momento della loro conclusione e successivamente; b) siano stati designati sin dall’inizio come contratti relativi alle materie prime; e c) siano prevedibilmente regolati mediante consegna della materia prima. 7 Definizione di valore netto ex art. 8 co. 7 della direttiva 2013/34/UE: “Il valore equo a norma del presente articolo è determinato con riferimento a uno dei seguenti valori: a) nel caso di strumenti finanziari per i quali sia possibile individuare facilmente un mercato attendibile, al valore di mercato; qualora il valore di mercato non sia facilmente individuabile per un dato strumento, ma possa essere individuato per i suoi componenti o per uno strumento analogo, il valore di mercato può essere derivato da quello dei componenti o dello strumento analogo; b) nel caso di strumenti finanziari per i quali non sia possibile individuare facilmente un mercato attendibile, al valore che risulta da modelli e tecniche di valutazione generalmente accettati, purché questi modelli e tecniche di valutazione assicurino una ragionevole approssimazione al valore di mercato”. 8 Cfr. art. 6 co. 4 del DLgs. 139/2015: “Al primo comma dell’articolo 2424 del codice civile, sono apportate le seguenti modificazioni: […] d) le parole: «4) azioni proprie, con indicazioni anche del valore nominale complessivo;» sono sostituite dalle seguenti: «4) strumenti finanziari derivati attivi;»; […] f) le parole: «5) azioni proprie, con indicazione anche del valore nominale complessivo;» sono sostituite dalle seguenti: «5) strumenti finanziari derivati attivi;»; […] a i) le parole: «2) per imposte, anche differite; 3) altri.» sono sostituite dalle seguenti: «2) per imposte, anche differite; 3) strumenti destinate ad accogliere gli strumenti finanziari derivati attivi e passivi (nello Stato patrimoniale) e le oscillazione del loro fair value (nel Conto economico). Sulla base del nuovo dettato normativo, inoltre, la definizione 9 di strumento finanziario derivato deve essere estrapolata dai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea (ovvero dagli IFRS) includendo, in ottemperanza alla più volte citata direttiva, tra gli strumenti finanziari derivati “anche quelli collegati a merci”, così come identificati nella direttiva stessa. In continuità con tale scelta, anche la modalità di rilevazione dei derivati, individuata in un apposito numero – il n. 11-bis dell’art. 2426 c.c. – è ispirata alle regole contenute nello IAS 39. Il nuovo n. 11-bis impone l’iscrizione al fair value degli strumenti finanziari derivati – anche se incorporati in altri strumenti finanziari – con rilevazione direttamente al Conto economico delle relative oscillazioni di valore netto. Disposizioni ad hoc bloccano, poi, la distribuibilità degli utili che derivano da tale criterio di valutazione per gli strumenti finanziari derivati c.d. speculativi (ossia quelli, secondo le nuove disposizioni del codice civile, “non utilizzati o non necessari per la copertura”). Nell’ipotesi in cui il derivato sia parte di una strategia di copertura – ferma restando la sua valutazione con il metodo del valore netto – la nuova formulazione codicistica determina due effetti differenti sulla base della tipologia di rischio oggetto di copertura: 1.se lo strumento è destinato a coprire il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario (o di un’operazione programmata), le oscillazioni di valore sono imputate ad una riserva positiva o negativa di patrimonio netto. Tale riserva dovrà essere imputata al Conto economico “nella misura e nei tempi corrispondenti al verificarsi o al modificarsi dei flussi di cassa dello strumento coperto” (o al verificarsi dell’operazione oggetto di copertura); 2. nell’ipotesi di protezione dal rischio di variazioni dei tassi di interesse o dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato o del rischio di default, s’impone al redattore del bilancio di adottare un criterio di valutazione simmetrico che attrae al criterio utilizzato per lo strumento finanziario gli elementi oggetto di copertura. Anche in riferimento alle riserve c.d. cash flow hedging (punto sub 1) è prevista una disposizione speciale che rende non utilizzabili ai fini della copertura delle perdite le riserve di patrimonio positive e, coerentemente, le riserve di patrimonio negative non considerabili nel computo del patrimonio netto per le finalità di cui agli artt. 2412, 2433, 2442, 2446 e 2447 c.c. Solo un cenno, infine, alla nozione di “relazione di copertura” che, secondo le disposizioni del nuovo codice civile, sussiste “in presenza, fin dall’inizio, di stretta e documentata correlazione tra le caratteristiche dello strumento o dell’operazione coperti e quelle dello strumento di copertura”. La rilevazione degli strumenti finanziari derivati tra le voci di bilancio e la relativa valutazione, peraltro, non è una novità assoluta per le imprese. Se, infatti, si fa riferimento ai soggetti operanti nel settore finanziario, già le disposizioni contenute nel finanziari derivati passivi; 4) altri.»“; art. 6 co. 6 del DLgs. 139/2015: “All’articolo 2425 del codice civile, sono apportate le seguenti modificazioni: […] e) dopo le parole: «18) rivalutazioni: a) di partecipazioni; b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti all’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni;» sono aggiunte le seguenti: «d) di strumenti finanziari derivati;»; f) dopo le parole: «19) svalutazioni: a) di partecipazioni; b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti nell’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni.» sono aggiunte le seguenti: «d) di strumenti finanziari derivati;» […]”. 9 Previsione riguardante anche la definizione di “attività finanziaria” e “passività finanziaria”, di “strumento finanziario”, di “costo ammortizzato”, di “fair value”, di “attività monetaria” e “passività monetaria”, “parte correlata” e “modello e tecnica di valutazione generalmente accettato”. 79 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 80 DLgs. 87/199210 prevedevano la registrazione di tali strumenti finanziari in bilancio. Rappresentazione confermata ed integrata, a far data dal 200611, con l’adozione degli schemi ispirati alle regole internazionali IFRS, elaborati dalla Banca d’Italia secondo quanto disposto dall’art. 9 del DLgs. 28.2.2005 n. 38. Per i soggetti diversi dalle banche ed enti finanziari, tuttavia, le regole contabili domestiche – secondo una disciplina non integralmente definita contenuta negli OIC 22 e 19 – comportavano esclusivamente la rilevazione dei derivati “sotto la riga” (per meglio dire, come impegni tra i conti d’ordine), la registrazione di un accantonamento ad apposito fondo nell’ipotesi di perdite attese in base al principio di prudenza e l’imputazione al Conto economico dei soli fenomeni realizzativi. In relazione ai soggetti che operano nel settore industriale e non adottano i principi contabili internazionali IFRS, pertanto, la rilevazione in bilancio di “nuovi” fenomeni patrimoniali e reddituali determina riflessi, sia sulla determinazione della base imponibile IRES sia in relazione al calcolo del valore della produzione netta IRAP. 3 L’identificazione delle operazioni fuori bilancio Primo effetto da considerare deriva dalla necessità di identificare tra gli strumenti finanziari derivati detenuti dalle imprese quelli riconducibili alla categoria fiscale delle “operazioni fuori bilancio”, di cui all’art. 112 del TUIR. Sul piano fiscale, infatti, l’identificazione delle “operazioni fuori bilancio” è disciplinata nel comma 1 del citato 112 in cui, in particolare, sono menzionati: a) i contratti di compravendita non ancora regolati, a pronti o a termine, di titoli e valute; b) i contratti derivati con titolo sottostante; c) i contratti derivati su valute 12; d)i contratti derivati senza titolo sottostante collegati a tassi di interesse, a indici o ad altre attività. Si tratta di un’elencazione che – in linea generale – è stata modellata dal legislatore fiscale sulla base dei chiarimenti forniti da Banca d’Italia, per i soggetti operanti nel settore finanziario, già con la circolare n. 166 del 1992; documento di prassi che, oggi, risulta sostituito dalla circolare 22.12.2005 n. 26213 (al 3° aggiornamento del 22.12.2014). Ciò rende indispensabile, al fine di interpretare in maniera sistematica la nozione fiscale di operazione fuori bilancio, integrare il dato letterale con le definizioni di “operazioni fuori bilancio” e “derivato finanziario” espressamente riportate nella prassi di Banca d’Italia. In particolare, dalla circolare n. 262/2005 emerge che: • la locuzione “operazioni fuori bilancio” indica l’insieme dei derivati, creditizi14 e finanziari, delle garanzie rilasciate e degli impegni irrevocabili a erogare fondi; • con il termine “derivati finanziari” si fa riferimento agli strumenti derivati, diversi dai derivati su crediti, come definiti dallo IAS 39. Prescindendo dalla distinzione tra derivati creditizi e finanziari, quindi, può sinteticamente affermarsi che il presupposto della disciplina di vigilanza, da integrare nell’interpretazione della nozione di operazione fuori bilancio fiscale, sia l’identificazione di ciò che assume la veste di derivato sulla base della definizione contenuta nello IAS 3915. 10 Il decreto è stato abrogato dall’art. 48 co. 1 del DLgs. 18.8.2015 n. 136, in G.U. 1.9.2015 n. 202, a decorrere dal 16.9.2015. 11 Su base opzionale del 2005. 12 Il trattamento fiscale di questi strumenti deve essere coordinato con la disciplina per le operazioni in valuta di cui all’art. 110 del TUIR. 13 Disponibile in Banca Dati Eutekne. 14 Con il termine “derivati creditizi” si indicano quei contratti derivati che perseguono la finalità di trasferire il rischio di credito sottostante a una determinata attività (c.d. “reference obligation”) dal soggetto che acquista protezione (c.d. “protection buyer”) al soggetto che vende protezione (c.d. “protection seller”). 15 In particolare nei paragrafi destinati alle “definizioni” dello IAS 39, sono previsti tre requisiti per identificare un derivato: “(a) il suo valore cambia in relazione al cambiamento in un tasso di interesse, prezzo di uno strumento finanziario, prez- Si tratta delle medesime fondamenta della nuova modalità di rappresentazione contabile. Come già accennato, infatti, dalle disposizioni del DLgs. 139/2015 si evince come la qualificazione di uno strumento finanziario derivato deve determinarsi in base alla nozione indicata nei principi contabili internazionali IFRS. Considerate queste premesse, in linea di principio, non sono rinvenibili aree di non coincidenza tra i due insiemi, quello contabile e quello fiscale, che identificano le operazioni fuori bilancio (gli strumenti finanziari derivati). Ciò ha un effetto più ampio sul sistema paese poiché si determina un allineamento “nozionale” per tutti gli operatori economici, sia essi IFRS o ITA gaap adopter: in sintesi, in bilancio ed al momento dell’applicazione della disciplina fiscale ciò che è derivato lo si stabilisce sulla base di un’unica definizione. Provando ad aggiungere ulteriori spunti di analisi, l’inclusione tra i derivati degli strumenti collegati a materie prime che conferiscono all’una o all’altra parte contraente il diritto di procedere alla liquidazione del contratto per contanti o mediante altri strumenti finanziari non incide sulle conclusioni appena descritte, poiché si tratta di una tipologia di operazioni già incluse tra quelle fuori bilancio di cui all’art. 112 del TUIR. Diversamente, presenta profili di criticità interpretativa, che per esigenze di spazio non possono essere oggetto del presente testo, l’inclusione tra la categoria dei derivati di quelli incorporati in altri strumenti finanziari, c.d. embedded derivatives. A tal riguardo, infatti, si pone una questione ben nota ai soggetti che determinano il proprio reddito sulla base delle risultanze di un bilancio IFRS compliant, riguardante l’impossibilità di dare rilievo fiscale – in assenza dell’adozione del principio di derivazione rafforzata (art. 83 post modifiche finanziaria 2008) – alla rappresentazione sostanziale nella misura in cui, sulla base di quest’ultima, si estrapola un derivato incorporato da uno strumento finanziario (o da un unico contratto) costituente un unicum sul piano giuridico. 4 Gli effetti sull’azienda fiscale della transizione alla nuova modalità di rappresentazione contabile La rilevanza tra gli asset della teorica azienda fiscale degli strumenti finanziari derivati, ed il conseguente trattamento delle relative componenti di origine valutativa e da realizzo, è stata nel tempo disciplinata da apposite norme fiscali. Prima sulla scorta dell’art. 103bis del vecchio TUIR – norma il cui ambito di applicazione era inizialmente circoscritto ai soggetti operanti nel settore finanziario e poi è stato esteso anche agli altri operatori economici16 – e, successivamente, dall’art. 112 del nuovo TUIR, articolo riscritto ulteriormente a seguito della riformulazione della disciplina ri- zo di una merce, tasso di cambio in valuta estera, indice di prezzi o di tassi, merito di credito (rating) o indici di credito o altra variabile […]; (b) non richiede un investimento netto iniziale o richiede un investimento netto iniziale che sia minore di quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti da cui ci si aspetterebbe una risposta simile a cambiamenti di fattori di mercato; e (c) è regolato a data futura”. 16 L’evoluzione della disciplina fiscale può essere cosi schematizzata: dal 1994, solo per gli enti finanziari, con le modifiche apportate con DL 29.6.1994 n. 416, conv. L. 8.8.1994 n. 503, introducendo nel TUIR l’art. 103-bis al fine di eliminare il doppio binario civilistico-fiscale derivante dalla redazione del bilancio, secondo quanto disposto dal DLgs. 87/1992, si prevede la rilevanza dei componenti derivanti dalla valutazione dei derivati; successivamente, l’ambito soggettivo dell’art. 103-bis venne esteso a tutte le imprese commerciali e industriali, imponendo una valutazione di natura solo fiscale dei derivati con la registrazione degli effetti, restando fermo il rispetto dell’art. 109 del TUIR (certezza e oggettiva determinabilità ed imputazione); con il DLgs. 344/2003, l’art. 103-bis venne sostituito dall’art. 112 del TUIR, il quale non prevedeva nella sua prima formulazione alcun obbligo di valutazione dei derivati; con le modifiche operate nel DLgs. 38/2005 dalla L. 24.12.2007 n. 244 (legge finanziaria 2008), si arriva all’attuale formulazione che contiene la disciplina applicabile a tutti i contribuenti (enti finanziari e non) a prescindere dall’obbligo di applicazione dei principi contabili internazionali nella redazione del bilancio. 81 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 82 guardante le operazioni fuori bilancio operata con le norme contenute nel DLgs. 38/200517. Per i soggetti che operano nei settori vigilati dalla Banca d’Italia il riconoscimento degli effetti della rappresentazione contabile dei derivati ha, quindi, “da sempre” assunto rilievo fiscale secondo la disciplina speciale indicata nei citati articoli del TUIR. Per coloro che non rientrano in tale alveo ma che hanno adottato i principi contabili internazionali, la rilevanza fiscale dei derivati rilevati in bilancio è stata riconosciuta parimenti secondo le previsioni ad hoc contenute nell’art. 103-bis e, successivamente, in base al riconoscimento delle qualificazioni, classificazioni ed imputazioni temporali di bilancio secondo quanto disposto dall’art. 83 del TUIR (principio di derivazione rafforzata). Circoscrivendo l’esame ai soggetti industriali e commerciali che non hanno optato per redigere i propri bilanci secondo gli IFRS, emerge come la transizione alla nuova modalità di rappresentazione contabile18 potrebbe comportare per la teorica azienda fiscale due situazioni opposte. Quest’ultima, infatti, potrebbe ritrovarsi “arricchita” riflettendo la presenza di derivati registrati nell’attivo di bilancio oppure, il patrimonio fiscale potrebbe subire una riduzione a causa del riverbero dell’iscrizione nel passivo di uno strumento finanziario derivato. Si tratta, a dire il vero, di fenomeni derivanti dalla transizione a regole contabili diverse (o generati a seguito di modifiche al criterio di rappresentazione contabile) i cui effetti fiscali sono di norma espressamente disciplinati da specifiche disposizioni, con un’impostazione di sostanziale sospensione degli effetti sulla determinazione delle basi imponibili (neutralità fiscale). Nel caso, ad esempio, dell’adozione degli IFRS, gli effetti fiscali della first time adoption sono stati sterilizzati, in linea di principio, dalle norme contenute nell’art. 13 del DLgs. 38/2005 e ulteriormente calmierati mediante l’istituzione di un apposito regime transitorio, quello, regolamentato con l’art. 15 del DL 185/2008. Ferma restando la necessità di valutare le modalità contabili con cui avverrà la predetta transizione, in assenza di una regola fiscale che neutralizzi i predetti effetti, sembra plausibile ritenere che la registrazione di un derivato di natura speculativa dell’attivo dello Stato patrimoniale comporti l’assoggettamento a tassazione dei valori d’iscrizione, con conseguente riconoscimento del costo fiscale dello strumento, ai sensi dell’art. 110 del TUIR (come, peraltro, la rilevazione di un derivato passivo della medesima categoria andrebbe a garantire la rilevanza del componente negativo iscritto in contropartita ed il riconoscimento del relativo valore fiscale dello strumento). Si tratta di effetti che in talune ipotesi potrebbero riguardare anche i derivati posseduti con finalità di copertura19. Ciò detto, tuttavia, la clausola di invarianza finanziaria disciplinata con l’art. 11 del DLgs. 139/2015, come chiarito nella relazione illustrativa al provvedimento, impone che dall’attuazione del provvedimento non debbano “derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Gli effetti appena accennati, dunque, non potrebbero mai essere coerenti con un tale previsione normativa, con la conseguente necessità di predisporre un percorso interpretativo che individui un regime transitorio finalizzato a depurare i valori fiscali dei derivati iscritti in bilancio dagli effetti della transizione, determinando un doppio binario tra valori contabili e fiscali de gestire negli anni futuri. 17 L’art. 11 co. 1 lett. f) del DLgs. 38/2005 provvede alla riformulazione dell’art. 112 del TUIR disciplinante le c.d. “operazioni fuori bilancio”. 18 Qualora, invece, l’impresa avesse sempre valutato in bilancio gli strumenti finanziari derivati che ha in possesso, la transizione non risulta generatrice di effetti sulla determinazione della base imponibile. 19 A titolo esemplificativo si può far riferimento a quegli strumenti finanziari derivati destinati a coprire attività/passività dell’impresa, rispetto ai quali i fenomeno di ordine valutativo assumono rilievo ai fini fiscali. 5 I riflessi sul trattamento fiscale dei derivati di copertura Definito l’aggregato contabile e fiscale costituito dagli strumenti finanziari derivati e gli effetti della transizione, per applicare in maniera corretta la disciplina fiscale è necessario distinguere i derivati sulla base della finalità per cui l’impresa acquista tali prodotti, ossia è necessario identificare le ipotesi in cui si è in presenza di operazioni con finalità di copertura o con fini speculativi. Ciò avrà effetto sul trattamento fiscale dei fenomeni di origine valutativa e delle componenti derivanti dal realizzo. Il primo step è individuare la nozione fiscale di relazione di copertura. Per i soggetti che non adottano gli IFRS, la disciplina fiscale definisce la finalità di copertura focalizzandosi sullo scopo della stessa, indipendentemente, dall’efficacia (c.d. copertura gestionale). Infatti, secondo quanto previsto nel comma 6 dell’art. 112 del TUIR, si considerano con finalità di copertura quelle operazioni che hanno lo scopo di proteggere dal rischio di avverse variazioni dei tassi di un indicatore (tasso di interesse, tassi di cambio o prezzi di mercato) “il valore di singole attività o passività in bilancio o «fuori bilancio»”. Ai fini della rappresentazione di bilancio, invece, come accennato nel paragrafo introduttivo sulle novità contabili, sussiste una relazione di copertura qualora esista una stretta correlazione tra le caratteristiche dello strumento (o dell’operazione coperta) ed il derivato stesso. Tale circostanza deve, ovviamente, essere documentata ed, inoltre, deve esistere sin dall’inizio dell’operazione. Un confronto di natura sostanziale tra le due definizioni di relazione di copertura non comporta situazioni di divergenza tra la qualificazione contabile di operazione di copertura e quella fiscale. È palese, infatti, che un’impresa che acquista sul mercato un interest rate swap che ha lo scopo di coprire, ad esempio, dal rischio di oscillazione dei tassi di interesse di mercato un prestito obbligazionario emesso a tasso variabile, si premuri di acquistare uno strumento che (fin dall’inizio) abbia caratteristiche strettamente correlate con la passività che si vuole proteggere dal rischio di oscillazione dei tassi di interesse (ad esempio, valore nozionale, durata, elementi di determinazione del tasso). Quanto detto, risulterà di certo documentabile dalle informazioni di cui deve essere in possesso ogni consumatore, già in sede di acquisto di uno strumento finanziario. Detto ciò, le ipotesi in cui potrebbe accadere che non ci sia coincidenza tra la qualificazione di copertura contabile rispetto a quella fiscale appaiono del tutto marginali, si tratterebbe, infatti, dei casi un cui tale stretta correlazione tra le caratteristiche di strumento derivato e attivo/passivo coperto non possa considerarsi tale perché: • non può essere opportunamente documentata; • le caratteristiche degli strumenti sono totalmente o considerevolmente difformi; • si realizza in un fase successiva dell’avvio dell’operazione a seguito di modifiche subite o dalle caratteristiche del derivato o degli attivi/passivi oggetto di copertura. Le conseguenze fiscali dell’identificazione della relazione di copertura sono disciplinate da una regola generale contenuta nel comma 4 dell’art. 112 del TUIR, nel quale, in particolare, si declina il principio fiscale di valutazione simmetrica, prevedendo che i componenti positivi e negativi derivanti da valutazione o da realizzo di un derivato di copertura concorrono a formare il reddito “secondo le medesime disposizioni che disciplinano i componenti positivi e negativi, derivanti da valutazione o da realizzo, delle attività o passività rispettivamente coperte”. In dichiarazione, a differenza di quanto avviene in bilancio, sarà il criterio di valutazione del derivato ad essere attratto alla disciplina fiscale prevista per le componenti da valutazione degli attivi o passivi (o derivati) oggetto di copertura. Peraltro, il medesimo effetto si applica anche alle componenti reddituali derivanti da fenomeni realizzativi. Anche sul fronte bilancio, nell’ipotesi di protezione dal rischio di variazioni dei tassi di interesse o dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato o dal rischio di default, la sussistenza di una relazione di copertura, determi- 83 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 84 na l’applicazione di un principio di valutazione simmetrica tra derivato e attività/passività oggetto di copertura. Tuttavia, la disciplina contabile impone che gli attivi o passivi di bilancio ad essere ricondotti alla modalità di valutazione del derivato, ossia gli elementi coperti dovranno essere valutati al loro valore netto. Stesso principio, valutazione simmetrica tra strumento di copertura ed elemento coperto, ma con un driver diverso. Ciò determina quale effetto sulla disciplina fiscale, come già ordinariamente avviene per i soggetti che adottano in bilancio gli IFRS, la creazione di un doppio binario permanente, in tutte le ipotesi in cui la valutazione al fair value degli attivi/passivi oggetto di copertura sia sterilizzata da apposite norme fiscali20. All’interno di questo quadro generale che disciplina le regole di valutazione degli strumenti finanziari derivati e dei sottostanti, già in bilancio, è stata introdotta una modalità specifica di rappresentazione contabile delle operazioni in cui lo strumento è destinato a coprire il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario (o di un’operazione programmata21). Sul piano contabile s’introduce una rappresentazione “simile” alla tecnica di cash flow hedging, con la rilevazione in una riserva patrimoniale delle oscillazioni del fair value del derivato che, come per i soggetti che adottano i principi contabili internazionali, “rigira” al Conto economico nella misura e nei tempi corrispondenti al verificarsi dei flussi di cassa dello strumento coperto. Si tratta di una rappresentazione contabile, i cui riflessi fiscali sono stati già disciplinati con le modifiche apportate all’art. 112 del TUIR mediante il DLgs. 38/2005. In tale circostanza, avendo riguardo ai soggetti IFRS, è stato formulato il comma 5, disponendo per le operazioni poste in essere con finalità di copertura dei rischi relativi ad attività e passività produttive di interessi che, “i relativi componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito, secondo lo stesso criterio di imputazione degli interessi”. Da questo dato letterale, promanano due effetti principali. Il primo riguarda l’irrilevanza fiscale dei plusvalori o minusvalori iscritti nella c.d. riserva da cash flow hedging, con la creazione di un doppio binario tra valori contabili e fiscali22. Il secondo è costituito dall’applicazione ai componenti imputati al Conto economico (al verificarsi dei flussi di cassa) della disciplina fiscale prevista per gli interessi passivi. In estrema sintesi, in presenza di una relazione di copertura, i flussi del derivato, che è destinato a coprire flussi finanziari attesi, concorreranno alla formazione del reddito imponibile al momento in cui sono rilevati gli interessi dello strumento coperto e, come precisato nella circolare Agenzia Entrate 21.4.2009 n. 19, secondo le modalità di deduzione contenute nell’art. 96 del TUIR. 6 I riflessi sul trattamento fiscale dei derivati speculativi Con riferimento ai derivati posseduti con finalità speculativa, la disciplina fiscale, individuabile al comma 2 dell’art. 112 del TUIR, prevede espressamente la rilevanza dei componenti positivi e negativi di origine valutativa (per le operazioni in corso alla data di chiusura dell’esercizio). L’art. 112 estende, in linea di principio, anche 20 Il doppio binario permane anche in relazione ai fenomeni di natura realizzativa qualora gli attivi oggetto di copertura possiedano i requisiti per accedere al regime di esenzione della pex di cui all’art. 87 del TUIR. 21 Secondo le definizioni contenute nello IAS 39, una operazione programmata “è una anticipata operazione futura per la quale non vi è un impegno”. In assenza di apposito rinvio nel testo del DLgs. 139/2015 sarà necessario valutare se tale definizione sia conforme al framework dei principi contabili nazionali. 22Circostanza meno rilevante per i soggetti diversi dagli IFRS adopter, per i quali non è espressamente prevista la rilevanza delle imputazioni di componenti reddituali nello Stato patrimoniale; cfr. art. 109 co 4. Tale irrilevanza a fini della determinazione della base imponibile IRES, peraltro, risulta coerente con il trattamento contabile della riserva di cui si tratta che, come detto, non è tra quelle “disponibili” se di segno positivo e non impone obblighi di ricapitalizzazione, qualora presenti segno negativo. agli effetti di quantificazione la rilevanza ai fini dell’IRES dei componenti di natura realizzativa. Occorre, tuttavia, considerare che gli effetti sul reddito imponibile delle riduzioni di valore dei derivati, con le norme di cui al comma 3, sono calmierati mediante una forfetizzazione della deducibilità sulla base di un parametro collegato alla differenza tra il valore del contratto o della prestazione alla data della stipula o a quella di chiusura dell’esercizio precedente e il corrispondente valore alla data di chiusura dell’esercizio23. Le novità contabili in tema di strumenti finanziari derivati detenuti con finalità diverse dalla copertura, come già accennato, prevedono la valutazione secondo il criterio del valore netto e la contestuale registrazione delle oscillazioni del valore in apposite voci del Conto economico. La natura di norma di derivazione piena dei commi dell’art. 112 del TUIR (ad eccezione dei limiti alla deducibilità delle valutazioni negative) che disciplinano il trattamento fiscale delle componenti di origine valutativa e da realizzo dei derivati speculativi, non genera particolari criticità di natura fiscale in relazione agli effetti della nuova rappresentazione contabile di questa categoria di derivati. 7 Brevi cenni ai riflessi sulla determinazione del valore della produzione netta IRAP L’evoluzione subita dalla disciplina IRAP, a partire dalle modifiche apportate nel 200824, si caratterizza per lo sganciamento della determinazione del valore della produzione netta dalle regole previste nel TUIR per l’IRES (c.d. principio di presa diretta dal bilancio) ed il rinvio a specifiche voci del Conto economico, redatto secondo le norme del codice civile, per l’identificazione delle componenti rilevanti. Tale impianto di base deve essere integrato con i numerosi chiarimenti contenuti nella prassi dell’Amministrazione finanziaria che, con una interpretazione di carattere sistematico, hanno disciplinato alcuni aspetti che la norma primaria non ha regolamentato nel dettaglio25. Ciò detto, appare chiaro che, per quanto concerne l’identificazione degli strumenti finanziari derivati, la presa diretta dal bilancio orienta la qualificazione dei derivati e la loro inclusione nella categoria dei derivati con finalità di copertura o speculativa esclusivamente sulla base delle risultanze di bilancio. Anche in ambito IRAP, tuttavia, si possono riproporre le criticità interpretative riguardanti determinazione del valore fiscale degli strumenti derivati a seguito della transizione26. Le modifiche alle voci di bilancio di cui all’art. 2425 c.c. prevedono l’indicazione delle rivalutazioni e delle svalutazioni di strumenti finanziari derivati espressamente alle voci D.18, lett. d) e D.19, lett. d). Per i soggetti che determinano il valore della produzione netta secondo quanto disposto all’art. 5 del DLgs. 446/1997, si tratta di voci non rilevanti ai fini IRAP, in quanto non incluse tra quelle espressamente menzione dalla norma27. 23 Cfr. art. 112 co. 3 del TUIR: “[…] Per la determinazione di quest’ultimo valore, si assume: a) per i contratti uniformi a termine negoziati in mercati regolamentari italiani o esteri, l’ultima quotazione rilevata entro la chiusura dell’esercizio; b) per i contratti di compravendita di titoli il valore determinato ai sensi delle lettere a) e b) del comma 4 dell’articolo 94; c) per i contratti di compravendita di valute, il tasso di cambio a pronti, corrente alla data di chiusura dell’esercizio, se si tratta di operazioni a pronti non ancora regolate, il tasso di cambio a termine corrente alla suddetta data per scadenze corrispondenti a quelle delle operazioni oggetto di valutazione, se si tratta di operazioni a termine; d) in tutti gli altri casi, il valore determinato secondo i criteri di cui alla lettera c) del comma 4 dell’articolo 9”. 24 Rif., L. 244/2007 (legge finanziaria 2008). 25 Tra le più rappresentative si ricordano le circolari Agenzia Entrate 26.5.2009 n. 27; 22.7.2009 n. 39; 19.5.2010 n. 25; 20.6.2012 n. 26. 26 V. il precedente § 4. 27 Cfr. art. 5 del DLgs. 446/1997 “la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile, con esclusione delle voci di cui ai numeri 9), 10), lettere c) e d), 12) e 13), così come risultanti dal conto economico dell’esercizio”. 85 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 86 Per i citati soggetti, quindi, i fenomeni di origine valutativa non influenzano la base imponibile IRAP, proprio perché rilevati in bilancio in voci che non concorrono alla determinazione del valore della produzione netta, con la conseguenza che le nuove modalità di rappresentazione contabile non incidono sull’IRAP. Alle medesime conclusioni si può giungere in relazione alla registrazione contabile delle operazioni in cui lo strumento è destinato a coprire il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario (o di un’operazione programmata). Diversamente, potrebbe generare riflessi sulla determinazione della base imponibile IRAP il trattamento contabile dei derivati oggetto di relazioni di copertura di attività o passività le cui componenti reddituali appartengono all’area caratteristica del Conto economico28. 8 Riflessioni conclusive La diffusione degli strumenti finanziari per la gestione del rischio ha fatto emergere la necessità di disciplinare la loro corretta rappresentazione in bilancio. Tale processo evolutivo risulta oggi concluso, mediante l’esercizio di una delle facoltà previste dalla direttiva bilanci, con il recepimento di una rappresentazione per molti aspetti simile a quella prevista dai principi contabili internazionali IFRS. La medesima esigenza di regolamentazione ha interessato nel tempo anche il sistema fiscale, innescando un processo di modifica della disciplina riguardante le operazioni fuori bilancio che si sarebbe dovuto considerare concluso con la riscrittura dell’art. 112 del TUIR, operata con il DLgs. 38/2005. Infatti, pur presupponendo rap- presentazioni contabili non identiche tra gli operatori economici, con tale decreto, come emerge dalla relazione illustrativa, l’art. 112 è stato riformulato “per ragioni di ordine sistematico e di coordinamento […]”, al fine di: • eliminare la distinzione tra disciplina applicabile alle banche e alle altre imprese relativamente al trattamento fiscale dei contratti derivati come risultanti in bilancio; • estendere il principio valutazione simmetrica delle componenti da valutazione e realizzo relative ai derivati di copertura con le corrispondenti componenti positive e negative, da valutazione o da realizzo, derivanti dalle attività o passività coperte; • disciplinare, con il comma 5, in modo coerente con i principi contabili internazionali, il concorso alla formazione del reddito dei risultati della valutazione secondo la tecnica della cash flow hedge. I riflessi delle nuove modalità di rappresentazione contabile sulla determinazione della base imponibile IRES, come già ampiamente descritto, contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi della norma fiscale del 2005. Tuttavia, le criticità non possono considerarsi del tutto eliminate, in quanto ne emergono di nuove derivanti, ad esempio, dagli effetti dell’identificazione dei derivati incorporati o del trattamento contabile della transizione; si ripropongono, inoltre, i fenomeni di disallineamento tra il dato contabile e fiscale, già presenti per i soggetti IFRS adopter. Ai fini IRAP, invece, i riflessi delle nuove disposizioni contabili appaiono meno rilevanti in tutte quelle ipotesi in cui incidono su voci di bilancio non incluse nella determinazione del valore della produzione netta. 28 Permane, infatti, nonostante le nuove modalità di rappresentazione dei derivati connessi a materie prime, la criticità riguardante la natura (finanziaria o meno) delle componenti relative ai derivati che sono oggetto di relazioni di copertura di attivi o passivi inclusi nella gestione caratteristica delle imprese industriali (c.d. derivati su commodities). TRIBUTI LA PERFORAZIONE DEI MARI OLTRE LE 12 MIGLIA NON CONFIGURA STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA Marco MARANI Avvocato - Senior Manager Studio Legale Tributario EY Nei meandri dei risvolti che regolano la tassazione in Italia dei soggetti non residenti, negli ultimi tempi sta venendo alla ribalta il tema della configurabilità, quale stabile organizzazione, della piattaforma dedita all’attività di perforazione del fondo marino. In assenza di una convenzione contro le doppie imposizioni, per norma interna il reddito di impresa è assoggettato a tassazione in Italia solo se l’attività è resa dentro le 12 miglia marine dalla costa. La previsione di extraterritorialità prevista dall’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR può infatti riguardare solo il soggetto titolare dei permessi di ricerca in mare, e non anche il trivellatore. 1 Premessa Il tema della stabile organizzazione costituisce una delle problematiche più complesse nell’ambito del diritto tributario internazionale, sia per quanto riguarda la difficoltà di coniugare le definizioni normative con un concetto in continua evoluzione, che per i numerosi aspetti operativi che vengono nel tempo a presentarsi. L’intera rivista non basterebbe per trattare i soli aspetti principali che ruotano attorno al concetto di stabile organizzazione, figuriamoci un solo articolo. Un caso affrontato nella pratica professionale, riguardante l’attività di perforazione del fondo marino ad opera di un soggetto non residente (c.d. driller), offre lo spunto per spendere qualche considerazione su un argomento specifico. Vale a dire sino a dove lo Stato italiano può, dal punto di vista territoriale, esercitare il proprio potere impositivo sul profitto ritratto da un non residente dall’attività di perforazione (c.d. drilling services) del fondo. La scoperta di giacimenti petroliferi e gassosi nei mari antistanti le coste italiane sta incrementando commesse avviate dalle società titolari dei permessi di ricerca in mare. A queste commesse, solitamente avviate tramite gare, partecipano, tra le altre, le società dedite all’attività di perforazione del fondo marino, le maggiori delle quali sono non residenti in Italia, o meglio residenti in paradisi fiscali privi di accordi contro le doppie imposizioni con l’Italia. Le attività di perforazione sono eseguite tramite piattaforme (c.d. jack-up) o apposite imbarcazioni di rilevanti dimensioni (c.d. drilling rig), con personale proprio e per periodi di tempo più o meno prolungati. Ricondotto il reddito spettante a tali soggetti 87 nell’ambito della categoria fiscale del reddito di impresa, e dando per scontata la presenza di una stabile organizzazione 1, il luogo di esecuzione della perforazione è determinante per capire se lo Stato italiano può, o meno, esercitare il proprio potere impositivo su detto reddito d’impresa. Tutto ruota attorno alla definizione del “territorio dello Stato” ed alla combinazione interpretativa tra il comma 1 ed il comma 2 lett. f) dell’art. 162 del TUIR. 2 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 La definizione di stabile organizzazione nel TUIR 88 La definizione generale Come noto, l’art. 162 comma 1 del TUIR contiene una definizione di stabile organizzazione sostanzialmente coincidente con quella dell’art. 5 del Modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni sul reddito. Ai sensi del predetto comma 1 “l’espressione stabile organizzazione designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato”. Dalla definizione riportata la configurabilità di una stabile organizzazione presuppone la contemporanea sussistenza di tre requisiti: 1. l’esistenza di una sede di affari (c.d. place of business), cioè locali o luoghi (c.d. premises) di cui la società estera abbia la disponibilità a qualunque titolo ovvero, in determinate ipotesi, macchinari o apparecchiature; 2.la tendenziale fissità spaziale e temporale della sede, che deve essere, in linea di principio, stabilita in un luogo individuato con un certo grado di permanenza (c.d. distinct place with a certain degree of permanence); 3.lo svolgimento dell’attività d’impresa at- 1 Da un punto di vista prettamente fiscale, con un soggetto estero paradisiaco, la soluzione della stabile organizzazione si fa preferire rispetto all’incorporazione di una vera e propria controllata. Si tratta di un argomento che ho recentemente trattato in “Interessi «virtuali» della stabile organizzazione italiana senza ritenuta”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne. info, 9.11.2015. Sui componenti di reddito (siano dividendi, royalties o interessi) in uscita dall’Italia verso un paradiso fiscale, una controllata si troverebbe ad applicare le ritenute previste dalla normativa interna in misura piena, senza fruire di esenzioni o di riduzioni d’aliquota. In caso di stabile organizzazione, anzitutto è nota l’assenza di ritenute sui profitti che la stessa rimette alla casa madre estera (c.d. remittance of profit) ancorché questa sia residente in un Paese non white listed. Meno pacifica è invece la soluzione applicabile per gli interessi figurativi allocati dalla casa madre estera sulla stabile organizzazione italiana. La questione dell’assoggettamento a ritenuta in Italia degli interessi figurativi allocati sulla stabile italiana, nel non esser disciplinata da una norma interna o trattata in un documento ufficiale di prassi, è contesa tra due diverse tesi. Da un lato vi è chi è favorevole al prelievo fiscale alla luce di un generale obbligo di sostituzione di imposta in capo alle stabili. Secondo tale tesi, anche nei finanziamenti interni tra casa madre estera e stabile italiana interverrebbe una vera e propria corresponsione degli interessi, al ricorrere del quale l’art. 26 co. 3 del DPR 600/1973 fa scattare la ritenuta. A ciò viene aggiunto il pensiero secondo il quale la deducibilità in campo alla stabile e l’imponibilità degli interessi figurativi in capo alla casa madre andrebbero di pari passo. A tale tesi se ne contrappone una diversa, sulle seguenti considerazioni. La prima fa perno attorno al profilo civilistico della stabile organizzazione. La stabile, pur essendo fonte autonoma di produzione del reddito nello Stato in cui è localizzata, è priva di un’autonoma soggettività giuridica distinta da quella della casa madre estera, motivo per cui un’attività intra- soggettiva (qual è l’allocazione di un debito ad una propria articolazione estera) confliggerebbe con il concetto di corresponsione. Un ulteriore spunto viene tratto dall’art. 26 co. 5 del DPR 600/1973 ove è disposta l’applicabilità della ritenuta anche per gli interessi “corrisposti a stabili organizzazioni estere di imprese residenti, non appartenenti all’impresa erogante”. Come chiarito dalla relazione governativa al DL 323/1996 istitutivo il co. 5, la previsione non è applicabile ai redditi corrisposti dalla “casa madre ad un’articolazione estera del medesimo soggetto giuridico”, ritenendosi tale previsione applicabile anche al caso opposto, in cui è la stabile che eroga il reddito a favore della propria casa madre. Altra considerazione viene tratta dall’art. 64 co. 1 del DPR 600/1973 che dispone l’obbligo di rivalsa per chi (il sostituto), in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri (il sostituito). La sostituzione di imposta necessita una dualità giuridica dei soggetti, mentre nel caso di specie si è di fronte ad un unico soggetto giuridico, costituito da casa madre e stabile organizzazione, per cui accedere alla tesi dell’assoggettabilità a ritenuta vorrebbe dire ammettere che il sostituto di imposta sia obbligato ad applicare la ritenuta a se stesso (coincidendo con il sostituito). Ed ancora, in chiave internazionale, il § 3.4.1 del Report della Commissione UE dell’aprile 2009 di proposta di modifica della direttiva c.d. interessi & royalties (recepita in Italia nell’art. 26-quater d del DPR 600/1973) si proponeva di esplicitare l’applicabilità dell’esenzione anche agli “actual or notional payments between a head office and a PE, or between two PEs of the same company”, indirizzandosi dunque verso la tesi dell’esenzione da ritenuta sui pagamenti figurativi tra la stabile e la casa madre estera. traverso tale base fissa (o comunque nello Stato in cui la base è situata). Il tutto deve avvenire, come espressamente richiesto dal comma 1, “sul territorio dello Stato”, e ciò è coerente con il principio di territorialità fissato dall’art. 23 comma 1 lett. e) del TUIR, a mente del quale il reddito di impresa di un soggetto non residente è soggetto ad imposizione in Italia a condizione che lo stesso sia derivante da attività esercitate “nel territorio dello Stato” mediante una stabile organizzazione. Relativamente al requisito della fissità temporale della sede, l’art. 162 comma 1 del TUIR non prevede un limite temporale di permanenza al di sotto del quale può essere esclusa l’esistenza di una stabile organizzazione. Il Commentario al Modello OCSE precisa che la sede di affari, per essere considerata stabile organizzazione, deve avere un certo grado di permanenza, nel senso che non deve avere natura puramente temporanea. Nello stesso tempo ammette però la possibilità che sia configurabile una stabile organizzazione quando la sede fissa è utilizzata per un breve periodo di tempo in quanto l’attività esercitata – per mezzo di detta base fissa – necessita di essere svolta in un breve arco temporale2. Il medesimo Commentario precisa inoltre che la durata di 6 mesi, adottata da diversi Stati quale termine minimo di permanenza per configurare l’esistenza di una stabile organizzazione, non può essere considerata in senso assoluto in quanto la prassi seguita dagli Stati non è omogenea. Il termine di 6 mesi va quindi piuttosto considerato come un’indicazione di massima, idonea ad essere adattata qualora le circostanze lo richiedano. Posta l’assenza di un termine minimo di permanenza nella norma nazionale (così come nel Modello OCSE nonché nelle Convenzioni stipulate dall’Italia) occorre quindi procedere ad una analisi c.d. case by case. La c.d. positive list ed il suo rapporto con la definizione generale L’esame del comma 1 non esaurisce l’ambito di indagine poiché la stabile organizzazione c.d. materiale si struttura in una definizione generale (comma 1) ed in una esemplificazione positiva (comma 2), tra loro collegate. L’art. 162 comma 2 del TUIR 3 reca infatti un elenco di installazioni costituenti prima facie una stabile organizzazione materiale. Ai sensi della predetta disposizione, infatti, l’espressione stabile organizzazione “comprende in particolare: a) una sede di direzione; b) una succursale; c) un ufficio; d) un’officina; e) un laboratorio; f) una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali, anche in zone situate al di fuori delle acque territoriali in cui, in conformità al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale relativa all’esplorazione ed allo sfruttamento di risorse naturali, lo Stato può esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali”. Rispetto alla menzionata lista positiva, per tempo si è discusso in ordine al suo rapporto con la definizione generale contenuta nel comma 1. Premesso che l’elencazione di cui al comma 2 è meramente esemplificativa, per cui è possibile ritenere esistente una stabile organiz- 2 § 6 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“Since the place of business must be fixed, it also follows that a permanent establishment can be deemed to exist only if the place of business has a certain degree of permanency, i.e. if it is not of a purely temporary nature. A place of business may, however, constitute a permanent establishment even though it exists, in practice, only for a very short period of time because the nature of the business is such that it will only be carried on for that short period of time”). 3 E ci riferiamo solo a questo, e non alla corrispondente previsione convenzionale, avendo premesso l’assenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni con l’Italia, attesa la residenza paradisiaca del c.d. driller. 89 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 90 zazione anche al di fuori dei casi specifici ivi contemplati, la portata reale della lista positiva è stata contesa tra due tesi. Da un lato la tesi per la quale la c.d. positive list elencasse delle ipotesi che si configurano sempre e comunque una stabile organizzazione e ciò a prescindere dalla ricorrenza o meno delle condizioni di cui al comma 1 dell’art. 162 del TUIR. Dall’altro lato la tesi secondo la quale la lista avrebbe valenza solo “procedimentale”, per cui le ipotesi elencate nel comma 2 costituirebbero dei casi in cui andrebbe solo presunta, salvo prova contraria incombente sul contribuente, l’esistenza di una stabile organizzazione. A tal fine vale osservare che, sino alla versione del Commentario del 2008, l’Italia aveva apposto una espressa osservazione secondo la quale le ipotesi contemplate al par. 2 dell’art. 5 del Modello OCSE – in linea, in sostanza, a quelle contenute nella norma interna – avrebbero dovuto essere considerate sempre costituenti, a prescindere dall’esistenza congiunta dei tre requisiti madre, un’ipotesi di stabile organizzazione. Tale osservazione era in linea con l’indicazione resa già nel 1977 4 dal Ministero delle Finanze secondo la quale il par. 2 dell’art. 5 del Modello OCSE forniva “una lista di esempi caratteristici, che a priori possono configurare individualmente una stabile organizzazione”. La ragione dell’osservazione posta dall’Italia nel Commentario poteva poi essere ricercata nella circostanza che le Convenzioni contro le doppie imposizioni siglate dall’Italia seguono di regola il Modello OCSE nella versione del 1963 ed anche il Commentario del tempo considerava gli esempi riportati al par. 2 come costituenti a priori il tipo della stabile organizzazione materiale. Ad ogni modo, a decorrere dalla versione del Commentario del 2010 l’Italia ha ritirato tale osservazione sposando la tesi fatta propria an- che dall’OCSE a partire dalla versione del Commentario del 1977. Ad oggi, pertanto, l’Italia concorda con le attuali indicazioni internazionali5 secondo le quali, ai fini della configurabilità di una stabile organizzazione, anche per le ipotesi della c.d. positive list vanno comunque verificati i requisiti generalmente previsti per ritenere integrata la stabile organizzazione materiale. 3 Le c.d. natural resources di cui all’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR Tornando al caso di “una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali”, l’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR prevede un’estensione del principio di territorialità. Per tali fattispecie, infatti, la sede fissa si configura quale stabile organizzazione anche quando queste non risultino fisicamente collegate con il territorio (in senso stretto) dello Stato italiano, con quest’ultimo che si riserva di poter comunque esercitare la propria potestà impositiva in deroga all’art. 23 comma 1 lett. e) del TUIR. Si tratta dunque di una forma di extraterritorialità della potestà tributaria dello Stato italiano, giustificata dalla considerazione che se lo Stato italiano può esercitare il diritto di sfruttamento del fondo del mare, del suo sottosuolo e delle risorse naturali anche al di fuori dei confini territoriali, anche la potestà tributaria può essere estesa a tale sfruttamento. Premesso che per individuare una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale ed una cava è sufficiente far riferimento al significato comune che è a queste attribuibile, una notazione particolare si rende necessaria in 4 La circolare Min. Finanze 30.4.1977 n. 7/1496, in Banca Dati Eutekne. 5 § 12 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“This paragraph contains a list, by no means exhaustive, of examples, each of which can be regarded, prima facie, as constituting a permanent establishment. As these examples are to be seen against the background of the general definition given in paragraph 1, it is assumed that the Contracting States interpret the terms listed, «place of management», «a branch», «an office», etc. in such a way that such places of business constitute permanent establishments only if they meet the requirements of paragraph 1”). relazione alla locuzione “altro luogo di estrazione di risorse naturali”. Sul punto occorre rifarsi alle indicazioni rese dal Commentario OCSE, secondo il quale la suddetta espressione, che va a completare l’elencazione formata dalla miniera, dal giacimento di petrolio o di gas naturale e dalla cava, deve essere interpretata in senso ampio includendo ad esempio qualsiasi luogo di estrazione di idrocarburi sia in terra che in mare6. Un punto controverso è rappresentato dall’attività di esplorazione, che costituisce il presupposto necessario dell’estrazione di risorse naturali. Trattasi di attività sulla quale in sede OCSE non è stata raggiunta una posizione comune sia per ciò che concerne il problema fondamentale dell’attribuzione del diritto d’imposizione, sia per quanto riguarda la qualificazione dei redditi derivanti da tale attività. In questa situazione di incertezza, la norma interna non la cita, ferma restando la possibile configurabilità di una stabile organizzazione sulla base dei requisiti richiesti dalla definizione generale di cui al comma 1 dell’art. 162 del TUIR (a meno che l’attività di esplorazione possa rientrare tra le attività con carattere preparatorio e ausiliare7, beneficiando così dell’esclusione prevista dalla c.d. negative list di cui al comma 4). 4 I confini spaziali del “territorio dello Stato” off-shore Nel concetto di sede “fissa” di affari è implicito il requisito che essa sorga su un territorio, richiedendosi la sua presenza “sul territorio dello Stato” in senso fisico. L’elemento di difficoltà sta nel fatto che il menzionato art. 162 del TUIR, come peraltro il resto della normativa fiscale in materia di imposte sui redditi, non contiene una definizione del territorio dello Stato, differentemente da quanto avviene ad esempio nell’art. 7 del DPR 633/1972 ove è espressamente disposto cosa debba intendersi, agli effetti dell’IVA, per Stato o territorio dello Stato. L’esatta individuazione di cosa debba intendersi per “territorio dello Stato” è quanto mai necessaria nel caso delle attività di c.d. drilling eseguite in mare, dunque in spazi non terrestri, che vanno così identificati con estrema attenzione. Innanzitutto va individuato lo spazio marino attratto nella sovranità dello Stato italiano, da considerarsi vero e proprio territorio dello Stato. A tal fine occorre far riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 (c.d. Convenzione di Montego Bay), ratificata dall’Italia con la L. 689/1994. La L. 689/1994 stabilisce, secondo i principi della Convenzione di Montego Bay, che la sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne, ad una fascia adiacente di mare denominata “mare territoriale”, sullo spazio aereo soprastante tale mare territoriale e al relativo fondo marino e al suo sottosuolo. Per mare territoriale o acque territoriali si intende la fascia di acque che si estende dalla linea di bassa marea lungo la costa fino al limite massimo di 12 miglia marine. Una attività di impresa, condotta da un soggetto non residente nel territorio italiano da intendersi sino alle 12 miglia marine, al ricorrere del- 6 § 14 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“The term «any other place of extraction of natural resources» should be interpreted broadly. It includes, for example, all places of extraction of hydrocarbons whether on or off-shore”). 7 Se l’attività di esplorazione viene condotta da un’impresa mineraria che, in caso di esito positivo, intraprende nella stessa installazione l’attività di estrazione, l’installazione per il periodo in cui ha svolto l’attività di esplorazione non costituisce stabile organizzazione. Se, invece, l’attività di esplorazione viene svolta dall’impresa mineraria su commissione di un’altra impresa, tale attività diventerebbe attività autonoma (indipendentemente dall’esito) e l’installazione costituirebbe senza dubbio stabile organizzazione dell’impresa mineraria ed il relativo reddito verrebbe tassato nello Stato in cui viene esercitata l’attività di esplorazione. 91 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 92 le condizioni previste dal comma 1 dell’art. 162 del TUIR configura una stabile organizzazione il cui reddito è assoggettato al potere impositivo dello Stato italiano. La previsione di extraterritorialità fiscale prevista dall’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR per le c.d. natural resources necessita poi di individuare le zone, fuori dalle acque territoriali, sulle quali lo Stato italiano vanta comunque il diritto di sfruttamento (ed anche il potere impositivo). I principi adottati dall’Italia per la regolamentazione della ricerca ed estrazione delle risorse naturali sono contenuti nella L. 613/1967, che disciplina le condizioni per il rilascio dei permessi di ricerca in armonia con la IV Convenzione di Ginevra del 1958, emendata poi dalla Convenzione di Montego Bay. Ogni Stato costiero, ivi inclusa l’Italia, vanta diritti sovrani di esplorazione e di sfruttamento delle risorse naturali (da intendersi quali le risorse minerali e le altre risorse non viventi) sulla piattaforma continentale. La piattaforma continentale di uno Stato costiero comprende il fondo e il sottosuolo delle aree sottomarine che si estendono al di là del proprio mare territoriale attraverso il prolungamento naturale del territorio emerso sino al limite esterno del margine continentale, o sino alla distanza di 200 miglia dalle linee di base qualora il margine continentale non arrivi a tale distanza. Un confine diverso di delimitazione della piattaforma continentale tra stati a coste opposte o adiacenti può poi esser fissato per accordo, ed in tal senso l’Italia ha stipulato trattati di delimitazione con i Paesi mediterranei frontisti (Iugoslavia, ossia ora Slovenia, Croazia e Montenegro; Tunisia; Spagna; Grecia; Albania), da analizzare caso per caso. 5 La c.d. drilling rig quale stabile in Italia solo se opera nelle 12 miglia dalla costa Chiarito l’ambito spaziale in cui lo Stato italiano è titolato ad esercitare il proprio pote- re impositivo, non resta che qualificare il c.d. driller, o per meglio dire la piattaforma o la specifica imbarcazione dedita alla perforazione del fondo marino. Nella maggior parte dei casi questa, ancorché concettualmente mobile o galleggiante, va considerata quale installazione fissa, poiché collegata tramite supporti ovvero ancorata al fondo marino mediante apparecchiature elettroniche. Essendo poi dotata di una precisa localizzazione e qualora non operi in modo tale da considerarla come temporanea, la c.d. drilling rig configura una sede fissa di affari, ricorrendo i requisiti per ritenere così integrata una stabile organizzazione. Ciò detto i redditi attribuibili alla piattaforma per il servizio di trivellazione potranno essere attratti ad imposizione unicamente qualora la c.d. drilling rig sia localizzata, ed abbia quindi operato la sua attività di perforazione, all’interno delle acque territoriali, dunque entro le 12 miglia marine dalla costa. Al c.d. driller, difatti, non risulta applicabile la previsione di cui all’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR che estende territorialmente lo spazio (di terra o di mare) in cui lo Stato italiano si arreca il proprio potere impositivo. Dal punto di vista letterale, difatti, secondo l’elencazione positiva contenuta nella predetta lett. f) possono costituire stabili organizzazioni (e rientrano così nell’estensione territoriale ai fini impositivi) una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali. La formulazione della norma non lascia dubbi sul fatto che, per dette fattispecie, è il luogo stesso (di estrazione) che può configurare una stabile organizzazione (al ricorrere dei presupposti madre di cui al comma 1), e non già qualunque installazione fissa per mezzo della quale una qualsiasi tipo di attività viene condotta sul medesimo luogo fisico. Per dirla diversamente, la c.d. positive list e l’estensione del potere impositivo da parte dello Stato italiano sulla piattaforma continentale può riguardare il soggetto non residente titolare del diritto di sfruttamento del giacimento e sul reddito che lo stesso consegue dal giacimento8, e non il non residente che presta una attività sulla miniera, sulla cava o sul giacimento petrolifero o di gas naturale, ancorché queste siano localizzate all’interno della piattaforma continentale. Quanto detto in ordine alle c.d. natural resources e dunque alla configurabilità di una stabile organizzazione per i soli soggetti titolati allo sfruttamento dei luoghi naturali e che ritraggono un reddito da detti luoghi è altresì accolto in campo internazionale. Vale citare, per tutti, la massima dottrina internazionale9 che, commentando le c.d. natural resources e l’identica previsione convenzionale (“a mine, an oil or gas well, a quarry or any other place of extraction of natural resources”), ha affermato come “a place for extraction of natural resources will constitute a PE only for the taxpayers who pursue the extraction business through the place”. In aggiunta, un ulteriore riscontro interpretativo a supporto è tratto da alcune specifiche convenzioni contro le doppie imposizioni, tra le quali viene a mente quella stipulata tra l’Italia e la Danimarca. In tale convenzione, ad esempio, a fronte della consueta previsione convenzionale (art. 5) per la quale un giacimento può costituire una stabile organizzazione, vi è una specifica previsione (l’art. 2210) volta a chiarire che l’esercizio da parte del residente di uno Stato di attività connesse all’estrazione di idrocarburi nell’altro Stato configura l’esistenza di una stabile organizzazione o una base fissa in detto altro Stato. Al di là delle condizioni temporali richieste per configurarsi una stabile (secondo detta convenzione gli impianti di trivellazione in alto mare costituiscono una stabile organizzazione solo se le attività sono svolte per più di 365 giorni nell’arco di 18 mesi), l’elemento interpretativo di interesse torna ad essere, nuovamente, la circostanza che anche in chiave convenzionale la c.d. drilling rig può costituire stabile organizzazione o per previsione generale (comma 1 dell’art. 5) o per previsione specifica (l’art. 22), e non per effetto di una sua riconducibilità ai luoghi di estrazione elencati nella c.d. positive list. Nel caso prospettato in premessa, dunque di c.d. driller residente in un paradiso fiscale che opera il servizio di trivellazione nei mare antistanti l’Italia, può certamente aversi una stabile organizzazione ma il reddito di impresa da questa conseguito potrà esser tassato in Italia solo se l’attività di perforazione sia eseguita “sul territorio dello Stato” ai sensi del comma 1 dell’art. 162 del TUIR, dunque entro le 12 miglia delle acque territoriali. L’eventuale localizzazione del giacimento al di fuori del mare territoriale ma dentro la piattaforma continentale, farà sì che l’Italia per difetto di territorialità non potrà tassare il reddito di impresa del c.d. driller, che sarà così assoggettato ad imposizione nel suo Stato di residenza (ovvero in altro Stato che, per normativa interna o convenzionale, si arreca il diritto di esercitare il proprio potere impositivo, ma comunque non l’Italia). 8 È ovvio che qualora tale soggetto sia fiscalmente residente in Italia ne seguirà la sua tassazione in Italia, a prescindere dal luogo di localizzazione dell’attività estrattiva, ciò in base al c.d. worlwide taxation principle. 9 Ci riferiamo a Skaar A.A. “Permanent Establishment: Erosion of a Tax Treaty Principle”, Deventer: Kluwer Law and Taxation Publishers, Boston, 1991, § 9.4, p. 118-119. 10 Rubricato “attività connesse alla prospezione preliminare alla ricerca o all’estrazione di idrocarburi”. 93 TRIBUTI PER LE “SORELLE” A CONTROLLO ESTERO LA DESIGNAZIONE APRE LE PORTE DEL CONSOLIDATO PREESISTENTE LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Antonio MASTROBERTI Esperto fiscale 94 Tra le fattispecie regolate dal provvedimento del 6 novembre 2015 dell’Agenzia delle Entrate particolare interesse suscita la gestione dei casi in cui in un consolidato già attivo si verifica l’ingresso nel perimetro della fiscal unit di una società residente, controllata dalla società estera UE o SEE, con la conseguente designazione della consolidante a svolgere le funzioni connaturate agli adempimenti tipici della tassazione di gruppo. 1 Designazione e continuità del consolidato in caso di subentro Il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 6.11.2015 attua quanto previsto dall’art. 6 comma 4 del DLgs. 14.9.2015 n. 147, ed in particolare il contenuto dell’ultimo periodo di tale disposizione, che rinvia all’emanazione di misure specifiche per le opzioni già in corso alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni (7 ottobre 2015), attenendosi al criterio di consentire, sussistendone i presupposti di legge, l’eventuale inclusione nella fiscal unit delle stabili organizzazioni o delle controllate di soggetti esteri senza interruzione dei consolidati esistenti. 1 Cfr. art. 117 co. 2-bis lett. a) del TUIR. In base a quanto previsto in materia di decorrenza dall’art. 6 comma 3 del DLgs. 147/2015, la chance del subentro a matrice estera si pone, va subito sottolineato, come una declinazione della più ampia possibilità di attivare entro il 31 marzo 2016, con effetti per il triennio 2015-2017, in via eccezionale, nuovi consolidati nei quali siano coinvolte società con controllo a matrice estera. Anche dopo le modifiche apportate dall’art. 6 del DLgs. 147/2015 alla disciplina del consolidato rimane fermo il principio per il quale nell’ambito di ciascun consolidato vi è un unico soggetto tenuto ad adempiere agli obblighi formali connaturati alla dichiarazione del reddito del gruppo, alla correlata liquidazione delle imposte e ad assumere diritti, obblighi ed oneri, previsti dagli artt. da 117 a 127 del TUIR1. Nel caso in cui vi sia una società residente controllata dalla società estera UE o SEE questo ruolo viene ad essere assunto, per le società aderenti alla medesima fiscal unit, dalla società designata, e opera l’assunzione, in via sussidiaria, delle responsabilità previste dall’art. 127 del TUIR per le società o enti controllanti da parte della società non residente UE o SEE2. In quest’ottica viene specificato, al riguardo, che la controllante non residente può designare un’unica società controllata (punto 2.4 del provvedimento del 6.11.2015). Sembra rimanere ferma la possibilità di diverse opzioni parallele nell’ambito del medesimo gruppo (a controllo estero)3, sempre che una stessa società eserciti l’opzione solo in qualità di consolidante o solo in qualità di consolidata (cfr. art. 119 comma 1 del TUIR). L’identità del consolidato segue la posizione della consolidante (o designata) e delle correlate opzioni bilaterali, assicurando anche una continuità nel tempo rispetto, ad esempio, allo scomputo delle perdite prodotte in costanza di opzione4. In questo scenario, possono sussistere, in un unico gruppo, anche più consolidati; uno, ad esempio, retto da una consolidante domestica ed un secondo retto da una società designata. In questo caso tutte le società residenti5 sono controllate, in via diretta od indiretta, dalla società estera UE o SEE. L’unico limite è quello previsto dall’art. 6 del DLgs. 147/2015, secondo cui la società designata non può esercitare l’opzione con una società da cui è partecipata. Al riguardo il provvedimento, al punto 2.6, specifica che la designata non può esercitare tale opzione con le società da cui è partecipata in posizione di controllo di diritto e con i requisiti di cui all’art. 120 del TUIR. Avremo modo di verificare che nei casi particolari di subentro previsti dal punto 7.1 del provvedimento il compito di gestire gli adempimenti della fiscal unit è assunto dalla stessa società che prima realizzava la figura della società consolidante; ciò evita gli effetti interruttivi della tassazione di gruppo, poiché di fatto il gruppo preesistente fagocita la posizione della sorella a controllo UE o SEE, ma permanendo l’identità della figura della consolidante rimane ferma anche l’identità del gruppo, con effetti sulla determinazione del reddito globale. 2 Subentro per designazione della consolidante Il punto 7.1 del provvedimento concerne la situazione relativa al periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del DLgs. 147/2015 (7 ottobre 2015). Si tratta del caso, relativo al periodo d’imposta 2015, in cui si verifica per la prima volta la possibilità di accedere in un gruppo preesistente su base domestica con un consolidamento a matrice estera di altra sorella sinora “esclusa dai giochi”6. Emerge l’esigenza di individuare nuovi termini per l’opzione relativa al periodo d’imposta 2015, poiché le disposizioni del decreto internazionalizzazione sono intervenute dopo la scadenza del 30 settembre. In effetti dal 2016 per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare tutte le opzioni saranno esercitate, ricorrendone i presupposti e in aderenza a precise pianifica- 2 Cfr. art. 117 comma 2-bis lett. c) del TUIR. 3 Cfr. circolare Agenzia Entrate 20.12.2004 n. 53: all’interno di un determinato gruppo possono generarsi tanti consolidati quanti sono i soggetti consolidanti, e tante opzioni quante sono le consolidate. 4 Si veda infra § “Unitarietà ed identità del consolidato”. 5 O le stabili interne di soggetti esteri, di cui al co. 2-ter dell’art. 117 del TUIR. 6 La disposizione riguarda, come è naturale, i casi in cui subentra un’opzione con altra società del gruppo che sino a questo momento (prima della novella) non poteva essere ammessa nel perimetro di consolidamento (altro tipo di subentro sarebbe dovuto intervenire entro il 30 settembre 2015). Non sembra poi possibile cambiare la struttura del consolidato, designando la consolidante e mutando la natura dell’opzione in consolidato orizzontale nei casi di controllo a catena da parte della società estera. Se i soggetti rimangono sempre gli stessi, come ad esempio nel caso di una opzione tra Alfa, consolidante e Beta, con Delta società estera UE che controlla entrambe, il passaggio al consolidato su base orizzontale non sembra rientrare nella logica del provvedimento. 95 zioni fiscali, entro il 30 settembre 2016, ed anche gli eventuali casi di subentro rispetto ad opzioni bilaterali già attive nel periodo d’imposta in corso al 7 ottobre 2015, di entrambi i tipi, faranno affidamento su una normativa già cristallizzata e nota in tutti i suoi effetti; dunque, varranno le regole già contemplate dal decreto attuativo per siffatte situazioni e dai punti 5. e 6. del provvedimento per quanto concerne termini e modalità di opzione7. In altri termini, si deve ritenere che il subentro con designazione della consolidante non debba necessariamen- te maturare nell’attuale fase ma che lo stesso possa intervenire anche successivamente, poiché l’unica condizione prevista è che l’opzione verticale sia già in corso nel periodo d’imposta 2015. Ciò che cambia, inevitabilmente, sono i tempi e le modalità dell’opzione. Nel seguente schema n. 1 si evidenzia, a titolo esemplificativo, una situazione relativa ad un’opzione già in essere, esercitata dal 2014, in cui la consolidante sia designata dal 2015 ad esercitare un’opzione a matrice estera (orizzontale). LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 1. SUBENTRO DI GAMMA NEL CONSOLIDATO “RETTO” DA ALFA 96 Consolidato iniziale tra Alfa e Beta dal 2014 (fino al 2016) Delta (Germania) Alfa = consolidante poi designata da Delta Alfa (100%) Italia Area di consolidamento dal 2015 in azzurro: due opzioni bilaterali di Alfa, con Beta e Gamma Beta (100%) Italia Si profila, nel caso esaminato, previa designazione ed opzione, uno schema con due distinte opzioni bilaterali, ciascuna con una sua durata parametrata all’anzianità di opzione8, e con una disciplina che non è completamente sovrapponibile, se si pensa all’eventuale riattribuzione delle perdite in caso di interruzione della tassazione di gruppo. Il consolidato, basato su diverse opzioni, rimane unico per quanto concerne gli effetti in corso d’anno e quindi la compensazione intersoggettiva dei redditi e delle perdite, che assorbe anche i Gamma (100%) Italia redditi della controllata sinora esclusa dal recinto di gruppo (Gamma nello schema n. 1). Per la società subentrante è necessario esercitare l’opzione, da parte della designata, entro il 31 marzo 20169. 3 Determinazione del reddito globale nei casi di subentro Il decreto attuativo contempla l’ipotesi del subentro a posteriori della controllata (art. 7 Per l’anno 2016 la comunicazione per la designazione va inviata in via telematica, dall’inizio del primo periodo d’imposta del triennio e fino all’esercizio dell’opzione (dall’1 gennaio al 30 settembre 2016, cfr. punto 5.1 del provvedimento), dalla società estera. 8 Cfr. art. 15 del DM 9.6.2004 e la circolare n. 53/2004, cit. 9 Cfr. punto 7.4 del provv. Agenzia Entrate 6.11.2015. 2 comma 3 del DM 9.6.2004), e regola, peraltro, anche le modalità di determinazione del reddito per questa ipotesi, stabilendo, con l’art. 15, innanzitutto il principio secondo cui il relativo reddito concorre a tutti gli effetti al meccanismo di compensazione intersoggettiva del consolidato. In linea generale questi principi valgono anche per la nuova ipotesi di subentro con consolidamento a matrice estera, ma in questo caso si pone la necessità di ricorrere alla designazione per regolare i rapporti con la “sorella” subentrante. Nel già richiamato punto 7.1 del provvedimento viene affermato il principio per il quale per il consolidato preesistente a seguito della designazione della consolidante – e quindi del subentro della sorella estera – non si producono gli effetti interruttivi previsti dall’art. 124 del TUIR. Si tratta di una previsione che, come si è già sottolineato, varrebbe solo per le opzioni in corso nel periodo d’imposta 2015, anche se in realtà si fatica a comprendere i motivi per i quali in relazione a opzioni, ad esempio attive dal 2016 su base tradizionale, non possa subentrare, nelle annualità successive, altra consorella a controllo estero, ovviamente attivandosi entro i canonici termini previsti per esercitare l’opzione. In realtà, sembrerebbe che la designazione della consolidante (in consolidato preesistente), che è pur sempre una controllata dalla società UE o SEE, sia sempre praticabile, ma che venendo meno la disposizione prevista dal punto 7.1 del provvedimento, a regime in un caso come questo maturino gli effetti interruttivi previsti dal citato art. 124 del TUIR, e dunque è come se rispetto a tali situazioni si intendesse precisare che siamo di fronte ad un nuovo consolidato, anche se poi in realtà il ruolo tipico della consolidante è assunto dal medesimo soggetto ed il recinto della fiscal unit è lo stesso con l’aggiunta dell’ulteriore posizione della sorella prima non consolidabile, anche rispetto alla questione dello scomputo delle perdite residue della fiscal unit (e della correlata riattribuzione). Nel rinviare ai chiarimenti del caso, si sottolinea che in un simile scenario la situazione di una sorella che subentri in un consolidato di tipo verticale (tradizionale) non sembra posta sullo stesso piano rispetto alla situazione di una sorella che intenda subentrare in un consolidato di tipo orizzontale, esercitando l’opzione con la medesima società designata. Per quanto concerne il reddito globale, in particolare, gli effetti contemplati dall’art. 15 del DM 9.6.2004 dovrebbero maturare anche in relazione al subentro per il 2015, previa designazione della consolidante, di una società consorella controllata (non dalla consolidante) dalla società estera UE o SEE. Per tale fattispecie non emergono specifiche disposizioni, salvo che per l’ambito delle perdite da restituire, di cui si dirà oltre. Siamo quindi al cospetto di un caso di estensione del perimetro di consolidamento alla posizione di altra società residente, e questa impostazione si presterebbe ad incidere sul trattamento delle perdite fiscali già in dotazione del consolidato, ossia riportate in avanti nel Modello CNM 2015 (per il periodo d’imposta 2014), all’atto del subentro della nuova consorella a matrice estera, con effetti già per il periodo d’imposta 2015 (Modello CNM 2016). Infatti, tendenzialmente il subentro di altra consolidata non impedisce l’utilizzo delle perdite del gruppo nel Modello CNM, e può verificarsi, in sostanza, un uso di perdite prodotte da una consolidata (e poi oggetto di riporto in capo al gruppo consolidato) in anni precedenti, in cui non vi era un legame “di gruppo” da parte di quest’ultima con la consolidata subentrante, a scomputo dei redditi prodotti da quest’ultima dopo il subentro ed in costanza di opzione (a fattore comune con la consolidante/designata). Secondo quanto precisato dalle Entrate con l’assetto domestico della disciplina della tassazione di gruppo (circolare Agenzia Entrate 20.12.2004 n. 53) in queste ipotesi la società consolidante potrà utilizzare le perdite residue del consolidato, cioè quelle riportate a nuovo e non attribuite ai soggetti nel frattempo fuoriusciti dalla tassazione di gruppo, anche per compensare gli imponibili positivi trasferiti al consolidato da società poi “subentrate” nella tassazione di gruppo. 97 4 Identità del consolidato LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 e durata delle opzioni 98 È essenziale, in tale contesto, chiarivano le Entrate (nella citata circolare n. 53/2004), che il consolidato prosegua senza perdere la propria identità, stante che il divieto previsto dall’art. 118 del TUIR vieta l’utilizzo di perdite anteriori all’inizio della tassazione di gruppo. A tali fini per “gruppo” si intende l’insieme delle imprese che in un dato periodo d’imposta partecipano al medesimo consolidato, caratterizzato dalla presenza di un determinato soggetto consolidante che conferisce al gruppo un’univocità e continuità nel tempo, nonostante l’ingresso o la fuoriuscita di altre società. Tale unitarietà viene meno, in questo quadro, solo se il consolidato si deve ritenere cessato nel suo complesso, caso in cui un’eventuale opzione esercitata, sempre in quali- tà di consolidante, dal medesimo soggetto in precedenza operante in tale veste con una società prima non compresa nella tassazione di gruppo, darà luogo ad un nuovo consolidato, nel quale, tuttavia, il consolidante non potrà utilizzare in compensazione la perdita residua del precedente consolidato eventualmente non attribuita alle consolidate (nel caso non si sia ricorsi alla facoltà di cui all’art. 13 comma 8 del DM 9.6.2004). Nel caso regolato nel punto 7.1 del provvedimento l’opzione esercitata entro il 31 marzo 2016, che attribuisce alla consolidante designata l’ulteriore compito di regolare le vicende relative alla consorella (o alle consorelle) a matrice estera, non sembra alterare questa unitarietà di fondo della fiscal unit10, e dunque dovrebbe consentire di utilizzare le perdite del consolidato preesistente per ridurre il reddito globale come alimentato anche dai redditi della sorella subentrata. Si consideri l’esempio che segue: CONSOLIDATO TRA ALFA E BETA CON SUBENTRO DI GAMMA Società Anno 2014 Alfa 100 50 Beta – 300 – 80 Reddito CNM – 200 170 Riporto perdite CNM – 200 – 30 Gamma Anno 2015 200 In questa semplice ipotesi Alfa e Beta hanno esercitato l’opzione per il consolidato dal 2014, anno in cui hanno generato, rispettivamente, un reddito pari a 100 ed una perdita pari a 300. Per l’anno 2015 la società estera designa Alfa (consolidante) ad esercitare l’opzione bilaterale con Gamma, realizzata entro il 31 marzo 2016. Le perdite maturate in costanza di opzione del consolidato (tradizionale), oggetto di riporto nel Modello CNM 2015, sono utilizzate per scomputare i redditi della nuova fiscal unit, che ha assorbito anche la posizione della società Gamma, partecipata direttamente dalla società estera UE e, di fatto, in questo modo le perdite prodotte da Beta sono state utilizzate per annullare l’imposizione sui redditi prodotti dalla consorella che nel 2014 non aveva ancora esercitato l’opzione. Invero, mancano specifiche disposizioni al riguardo, il che fa propendere per l’applicazione delle regole generali contemplate dal decreto attuativo per i casi di subentro (senza interruzione della tassazione di gruppo), ma lascia comunque dei margini di incertezza, 10 Cfr. ancora la circolare n. 53/2004, cit.: nel disegno della riforma il consolidato, pur se realizzato con più opzioni a coppia tra consolidante e singole consolidate, mantiene una sua unità, essendo, pertanto, riferibile a tutto il gruppo di imprese che fa capo al soggetto consolidante e che partecipa alla tassazione di gruppo. i quali saranno fugati, probabilmente, in via interpretativa 11. Va sottolineato che le due opzioni cristallizzate con l’opzione esercitata entro il 31 marzo 2016, ai sensi del punto 7.1 del provvedimento, pur essendo ricondotte ad unico consolidato, presentano una diversa estensione temporale: l’una esaurisce la sua portata nel corso del 2016 (consolidato preesistente), l’altra, invece, è destinata a completare il triennio nel 2017 (opzione a matrice estera), ferma la possibilità di rinnovare, in entrambi i casi, l’opzione12. 5 Le perdite riattribuite alle società che le hanno prodotte In realtà le uniche differenze sostanziali delineate con le modifiche apportate con il citato DLgs. 147/2015 tra i due ambiti di opzione, di per sé distinti sul piano dei presupposti di accesso, si riscontrano in relazione al trattamento delle perdite in caso di interruzione della tassazione di gruppo. Nel caso del consolidamento a matrice estera tali perdite sono attribuite esclusivamente alle controllate che le hanno prodotte, al netto di quelle utilizzate e nei cui confronti viene meno il requisito del controllo, secondo i criteri stabiliti dai soggetti interessati. La normativa primaria non impone che l’attribuzione alle società che hanno prodotto le perdite debba essere effettuata in modo proporzionale, anche se questa rimane la via maestra sul piano operativo e logico. Difatti, secondo quanto previsto dal punto 2.7 del provvedimento, al riguardo se non è stato scelto il criterio all’atto dell’opzione, queste perdite sono attribuite proporzionalmente alle controllate che le hanno prodotte. Per l’opzione a matrice estera viene quindi meno la regola che prevede l’attribuzione delle perdite alla consolidante13. In base alla prassi sinora diffusa nei casi in cui le perdite sono attribuite alle società che le hanno prodotte esse possono essere utilizzate solo sul piano soggettivo14, tornando utili i criteri adoperati in relazione allo scomputo delle perdite dai maggiori redditi accertati in capo al consolidato. Infatti, stabilire se a seguito di interruzione o di mancato rinnovo le perdite riattribuite sono scomputabili ex post dal rilievo vuol dire dar conto della possibilità di utilizzare ab origine queste perdite all’atto della determinazione del reddito complessivo del gruppo (quadro CN del Modello CNM)15. Tali perdite, pertanto, non risultano utilizzabili nella dichiarazione dei redditi del gruppo, ma ciascuna consolidata potrà “spenderle” ai sensi dell’art. 118 comma 2 del TUIR, ossia prima di trasferire i propri redditi (quadro GN di Unico SC) al gruppo consolidato. 6 Perdite riattribuite alla consolidante Per quanto riguarda le perdite riattribuite alla 11 In realtà, la nota essenziale è come deve essere considerato il nuovo consolidato a seguito del subentro, ossia se si può parlare, come sembra anche in virtù delle disposizioni recate dal punto 7.1 del provvedimento, della continuazione del preesistente consolidato sotto una nuova veste (su base orizzontale), in virtù della sostanziale permanenza della figura del soggetto deputato a realizzare gli adempimenti di gruppo. 12 In dottrina (Michelutti R. “Nel consolidato «allargato» perdite a utilizzo limitato”, Il Sole-24 Ore, 10.11.2015) è emersa anche un’impostazione che tendenzialmente suggerisce, nelle ipotesi di innesto per il periodo d’imposta 2015 di opzioni a matrice estera su opzioni preesistenti, di uniformare i periodi di durata delle diverse opzioni, nonché di allineare i riflessi scaturenti in relazione alle perdite oggetto di riattribuzione (v. § successivo). 13 Cfr. art. 124 co. 4 del TUIR e quanto previsto dall’art. 13 co. 8 del DM 9.6.2004, secondo cui in alternativa a tale criterio è possibile attribuire le perdite alle società che le hanno prodotte nei cui confronti viene meno il requisito del controllo in base ai criteri stabiliti dai soggetti interessati. Tali criteri vanno comunicati all’atto dell’opzione e, dal 2015, direttamente in dichiarazione. 14 Cfr. circolare Agenzia Entrate 6.6.2011 n. 27, in merito allo scomputo delle perdite in accertamento, ai fini dell’art. 40-bis del DPR 600/1973 e alla presentazione del Modello IPEC. 15 V. circolare Assonime 11.6.2013 n. 17, p. 59 e ss.; Trettel S. “Utilizzo in compensazione di perdite del consolidato in caso di 99 società consolidante nell’ambito dell’opzione relativa al consolidato preesistente al subentro delle sorelle controllate dalla società estera UE o SEE, si consideri un caso in cui, ad esempio, Alfa, consolidante, aveva esercitato l’opzione con due società residenti, Beta e Gamma, entrambe controllate al 100%, dal 2014, ed in cui il controllo su Beta viene meno nel corso del 2015, mentre la società estera UE decide di designare Alfa (consolidante) per esercitare l’opzione di accesso alla fiscal unit dal 2015 insieme ad altra controllata (Delta). Si tratta del caso previsto al punto 7.1 del provvedimento, ma si è aggiunta la specifica situazione relativa all’interruzione del consolidato con riferimento a Beta. In questo caso se le perdite residue del gruppo, riportate nel Modello CNM 2015, sono riferibili alla società fuoriuscita (Beta) e si assume che la scelta in sede di opzione sia stata per l’attribuzione alla consolidante, si deve verificare se nel Modello CNM queste ultime possono essere utilizzate a scomputo del reddito globale (in cui transitano anche i redditi trasferiti da Delta). Si veda il seguente schema n. 2: LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 2. SUBENTRO DI DELTA E FUORIUSCITA DI BETA 100 Consolidato iniziale tra Alfa, Beta e Gamma dal 2014 (fino al 2016) Lambda (Germania) Alfa = consolidante poi designata da Delta Interruzione della fiscal unit rispetto a Beta Alfa (100%) Italia Beta (100%) Italia Al riguardo bisogna distinguere i casi di interruzione totale da quelli di interruzione parziale, cui va ricondotta l’ipotesi di cui allo schema n. 2: in questo secondo caso il consolidato viene meno solo rispetto ad una o più consolidate e dunque l’opzione rimane in piedi tra la consolidante ed una sola consolidata (Gamma). A quest’ultimo proposito è stato chiarito che permanendo l’opzione con altre consolidate, le perdite attribuite alla consolidante possono essere utilizzate anche a scomputo dei redditi apportati al consolidato da società consolidate che abbiano esercitato l’opzione in un momen- Delta (100%) Italia Gamma (100%) Italia to successivo16. Per quanto detto ai paragrafi precedenti, salvo i chiarimenti del caso, queste precisazioni si prestano a trovare applicazione anche per i redditi relativi al periodo d’imposta 2015 e, con particolare riferimento, nel caso di cui allo schema n. 2, ai redditi trasferiti dalla subentrante (Delta) al consolidato in virtù della designazione della società estera (Lambda), con susseguente opzione realizzata da Alfa (caso di cui al punto 7.1 del provvedimento). Fuori dal caso specifico esaminato, se invece l’interruzione della tassazione di gruppo è totale e riguarda tutte le consolidate, le per- verifica”, il fisco, 2014, p. 2353 e ss.; Dalmonte A., Murgo P. “Utilizzo delle perdite fiscali riattribuite a seguito di interruzione del regime nell’accertamento da consolidato”, Corr. Trib., 2014, p. 2747 e ss.; nonché Salvini L. “Atto di accertamento «Unico» per le rettifica dei redditi dei soggetti aderenti al consolidato”, Corr. Trib., 2011, p. 2824 e ss. 16 Cfr. circolare n. 53/2004, cit. dite, attribuite alla consolidante o a ciascuna consolidata che le ha prodotte (criterio alternativo) assumono, in ogni caso, una natura soggettiva17 , divenendo perdite della consolidante o delle suddette consolidate. Nel caso dell’interruzione totale con attribuzione alla consolidante vale, pertanto, il trattamento riservato alle perdite attribuite alle società che le hanno prodotte18. 7 Allineamento delle opzioni su base orizzontale Al fine di semplificare la gestione delle vicende relative alle perdite nei casi previsti dal punto 7.1. del provvedimento in dottrina19 si è prospettata l’esigenza di convertire il consolidato verticale preesistente in consolidato orizzontale, e dunque allineare il trattamento delle perdite in dotazione del consolidato nei casi in cui a seguito dell’innesto di un’opzione a matrice estera su un consolidato preesistente si determina, in caso di interruzione, una divaricazione nel trattamento delle perdite oggetto di riattribuzione. Questa impostazione tende, pertanto, oltre ad allineare la durata delle diverse opzioni, ad uniformare il trattamento delle perdite in caso di interruzione della tassazione di gruppo, con qualche distinguo in relazione al trattamento delle perdite prodotte e trasferite al gruppo preesistente fino al periodo d’imposta 2014. In quest’ottica in ogni caso a partire dal periodo d’imposta 2015, in vigenza delle nuove regole introdotte con il DLgs. 147/2015, in caso di interruzione della tassazione di gruppo tutte le perdite imputate dalle consolidate potrebbero essere riattribuite solo alle società che le hanno prodotte, a prescindere dal fatto che siamo in presenza di un’opzione tra due soggetti residenti già avviata in vigenza delle regole pre decreto internazionalizzazio- ne. Invero, va osservato che se si accoglie la ricostruzione operata nei paragrafi precedenti in relazione agli effetti sul reddito dichiarato dal gruppo, vi sono casi in cui le perdite eventualmente riattribuibili alla consolidante possono essere scomputate dal reddito globale anche dopo l’evento interruttivo (caso dell’interruzione parziale con attribuzione alla sola consolidante), e pertanto in tale quadro sembrerebbero adombrarsi, adottando il criterio dell’allineamento ai criteri di più recente introduzione (su base orizzontale), effetti pregiudizievoli: le perdite considerate riattribuite alle società che le hanno prodotte, pur avendo indicato un diverso criterio in sede di opzione, rimarrebbero infatti utilizzabili solo su base soggettiva. Se si guarda al complesso delle regole contemplate dal decreto attuativo in materia di tassazione di gruppo si tratta, ad ogni buon conto, di un sentiero non del tutto coerente e rispondente al dato normativo, che sembra rivelarsi, di fatto, in talune ipotesi, pregiudizievole rispetto agli interessi degli stessi attori in campo, nella misura in cui vengano confermate le indicazioni già rese per altri versi dai competenti Organi, per le quali la riattribuzione delle perdite alle società che le hanno prodotte implica un utilizzo che può essere unicamente soggettivo. Identiche considerazioni emergono in relazione alla concreta estensione della durata delle opzioni in essere nel periodo d’imposta 2015. Senza contare, peraltro, come è stato già evidenziato, che la questione del subentro non dovrebbe maturare tout court per il solo periodo d’imposta 2015, con il rischio, di per sé paradossale, di rendere modificabili, per precisa scelta, sia la durata che i criteri di riattribuzione delle perdite, in relazione a futuri (e pianificabili) subentri di sorelle estere (ad esempio dal periodo d’imposta 2016), su opzioni preesistenti comunque in corso nel periodo d’imposta 2015. 17 Cfr. anche Dalmonte A., Murgo, P., cit., p. 2747 e ss. 18 Cfr. anche la circolare Agenzia Entrate n. 27/2011 e la circolare Assonime n. 17/2013, cit. 19 Michelutti R., cit. 101 8 Opzione della consolidante LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 con società designata 102 Il punto 7.2 del provvedimento reca una previsione che ricalca quanto già previsto dall’art. 13 comma 5 del DM 9.6.2004, estendendo i criteri ivi previsti ad un caso in cui il transfert da consolidante a consolidata emerge con riferimento alla posizione di società designata nell’ambito del consolidato a matrice estera. Viene previsto che se in corso di opzione per la tassazione di gruppo la consolidante opta, ai sensi del comma 2-bis del medesimo articolo, per la tassazione di gruppo in qualità di consolidata, congiuntamente con altra società designata residente o non residente di cui al comma 2-ter, si verifica l’interruzione della tassazione di gruppo del consolidato in cui aderiva in qualità di consolidante, con gli effetti previsti dall’art. 124 del TUIR. Queste previsioni si rendono applicabili anche ai periodi d’imposta successivi a quello di entrata in vigore delle nuove disposizioni. Per quanto riguarda le perdite riattribuite, l’evento interruttivo sembra implicare, in ogni caso, un utilizzo limitato al piano soggettivo da parte della società ex consolidante, poiché il caso previsto dal punto 7.2 del provvedimento concretizza a ben guardare un ipotesi di interruzione totale della pregressa opzione per far spazio ad una nuova dimensione di consolidato che coinvolge anche la “vecchia” consolidante. Ne deriva che in questo caso le perdite del “vecchio” consolidato non trovano spazio nel consolidato a matrice estera, se non secondo le regole previste dall’art. 118 comma 2 del TUIR, e quindi su mera base soggettiva (scomputo da parte di ciascuna società che dispone delle perdite). 9 Opzione totalitaria delle consolidate con la designata Dispone infine il punto 7.3 del provvedimento che nei casi di cui al punto 7.2 (ossia nei casi in cui la consolidante opta con la designata assumendo il ruolo di consolidata) se tutte le altre società aderenti alla tassazione di gruppo in qualità di controllate per le quali sussistano tutti i requisiti di cui al comma 2-bis dell’art. 117 del TUIR optano anch’esse nel medesimo esercizio con la società designata per il periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del DLgs. 147/2015, ossia per il periodo d’imposta 2015, in relazione al consolidato preesistente non si producono gli effetti di cui all’art. 124 commi 1, 2 e 3 del TUIR (regolazione della questione degli acconti e dei versamenti tra le società fuoriuscite dal gruppo). Non si applica quanto previsto dal comma 4 del citato art. 124 del TUIR, che in materia di riattribuzione delle perdite, in particolare, rimanda al criterio generale dell’attribuzione alla controllante salvo eccezioni, ed è stabilito che alle perdite fiscali di cui al citato comma 4 si applicano, in ogni caso, le disposizioni previste dall’art. 118 comma 2 del TUIR, ossia la possibilità di scomputare queste perdite su base soggettiva da parte delle società a cui le stesse perdite sono riattribuite. In entrambe le ipotesi contemplate dai punti 7.2 e 7.3 del provvedimento siamo, infatti, al cospetto degli effetti dell’interruzione totale della tassazione di gruppo, e l’ultimo periodo di cui al punto 7.3 sembra confermare questa visione per la quale, in presenza di questa tipologia di evento interruttivo, le perdite si considerano comunque nella titolarità del soggetto che le ha ricevute, profilandosi, pertanto, l’impossibilità di scomputarle dal nuovo consolidato. 10 Conclusioni Nel commentare il caso regolato dal punto 7.1 del provvedimento del 6.11.2015 dell’Agenzia delle Entrate si è cercato, per quanto possibile, di restare ancorati ai criteri validi, in linea generale, per i casi di subentro di una consolidata in un perimetro di consolidamento preesistente attraverso una nuova opzione bilaterale con la consolidante. Da questa impostazione deriva, ad esempio, la conclusione per la quale, nei casi di designazione della consolidante, ferma restando l’identità del consolidato preesistente (che non si interrompe), le diverse opzioni conservano una differente durata. L’assunto implica anche l’utilizzo in capo alla fiscal unit su base orizzontale delle perdite pregresse disponibili nel Modello CNM 2015 da parte della designata (già consolidante). Questo effetto deriva dall’applicazione delle regole generali del decreto attuativo e in considerazione di una sostanziale perpetuazione della struttura del gruppo, la cui identità rimane ancorata alla stessa figura societaria, dal che può derivare, in determinati casi, anche l’utilizzo in capo al gruppo di perdite riattribuite alla consolidante. Facendo proprie queste regole, sarebbe in qualche modo pregiudicante aprire le porte ad un ampliamento del periodo di irrevocabilità dell’opzione in relazione, ad esempio, ad una serie, anche numerosa, di opzioni preesistenti solo per allineare e semplificare la gestione del consolidato alla nuova situazione conseguente al subentro della controllata a matrice estera. Analoghi profili di criticità si intravedono, salvo ulteriori approfondimenti, in relazione alla più complessa questione delle perdite da riattribuire a seguito dell’interruzione del consolidato. Sembrerebbe, in base alle impostazioni applicate nel corso degli anni (si vedano i chiarimenti emersi in relazione alla questione dello scomputo delle perdite in accertamento), che nei soli casi di interruzione parziale con attribuzione alla società consolidante delle perdite, le stesse perdite possano poi rientrare nel “circolo” dell’area di consolidamento nelle annualità successive, trattandosi di un consolidato che di fatto mantiene la sua identità in base ad altre opzioni con capofila il medesimo soggetto. Per entrambi i casi, in base ad essenziali esigenze di semplificazione, in dottrina si è proposto un allineamento della disciplina sullo schema contemplato dal comma 2-bis dell’art. 117 del TUIR, che non consente l’attribuzione delle perdite alla società consolidante. In verità, se nei casi di subentro con opzione di tipo orizzontale le perdite in questione si considerassero tout cort sempre attribuite alle società che le hanno prodotte emergerebbe, in particolare, che le stesse potrebbero considerarsi utilizzabili solo su base soggettiva, e dunque solo nella dichiarazione dei redditi delle diverse società consolidate (prima di trasferire i redditi al gruppo); il che può sortire, ex abrupto, effetti sfavorevoli per il gruppo nel suo insieme. Senza contare, peraltro, che la questione del subentro non sembra maturare, salvo i chiarimenti del caso, per il solo 2015 in relazione alle opzioni comunque in corso in tale anno (nel senso che l’opzione può innestarsi comunque dal 2016 su un consolidato in essere nel periodo d’imposta 2015) e quindi si giungerebbe al paradossale effetto di rendere modificabili, per precisa scelta, sia la durata che i criteri di riattribuzione delle perdite, in relazione ai futuri subentri di sorelle estere (ad esempio dal 2016), anche costituite a tal preciso fine. In linea generale dovrà essere chiarito, infine, il modo di intendere il subentro nei periodi d’imposta successivi rispetto alla situazione di un consolidato preesistente. Nello schema tradizionalmente conosciuto l’operazione è del tutto lecita e comporta, tra le altre cose, un pieno utilizzo anche delle perdite pregresse del gruppo nel reddito globale relativo all’anno del subentro. Attualmente dovrebbe rendersi praticabile, ad esempio, sia il subentro di una società italiana in un consolidato orizzontale (non si intravede alcun problema al riguardo), previa opzione con la società designata, sia il subentro di una sorella in un consolidato preesistente su base verticale, con designazione della consolidante. Dalla constatazione che il provvedimento dispone che le clausole di cui al punto 7.1 valgono solo per l’anno 2015 ne potrebbe derivare che, nella fattispecie, operano gli effetti interruttivi previsti dall’art. 124 del TUIR, anche se non se ne comprendono appieno le ragioni, dato che il gruppo ed i soggetti chiamati in causa sono sostanzialmente gli stessi del consolidato preesistente con l’aggiunta della nuova opzione e la metamorfosi della consolidante in società designata. 103 TRIBUTI LA TREMONTI AMBIENTE “ORA PER ALLORA” Stefano CHIRICHIGNO CMS – Adonnino Ascoli & Cavasola Scamoni LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Vittoria SEGRE CMS – Adonnino Ascoli & Cavasola Scamoni 104 Alla luce di recenti interventi sembrerebbe risorgere dalle sue ceneri l’agevolazione comunemente nota come “Tremonti Ambiente”, originariamente prevista dalla L. 388/2000 e abrogata dal DL 83/2012 a far data dal 26 giugno 2012. Già l’Assonime in tempi non sospetti aveva precisato che potevano comunque fruire di tale agevolazione gli investimenti ambientali completati (e, quindi, i costi sostenuti) entro tale data. Il 18 giugno scorso il MISE è intervenuto con una breve nota avente ad oggetto il dibattuto tema della cumulabilità di tale agevolazione con le tariffe incentivanti previste per gli impianti fotovoltaici, ma non è passato inosservato che, quasi en passant, abbia menzionato di esprimersi “di concerto con l’Agenzia delle Entrate”, ribadendo la perdurante applicabilità dell’agevolazione ad investimenti effettuati in passato. L’articolato meccanismo procedurale previsto dalla normativa di riferimento apre la strada ad una serie di interrogativi in ordine a come operare “ora per allora”. Il presente contributo intende ripercorrere i tratti salienti dell’agevolazione, focalizzandosi sull’ambito oggettivo costituito da campi fotovoltaici e soffermandosi sui profili più controversi della disciplina. 1 I presupposti dell’agevolazione L’agevolazione nota come “Tremonti Ambiente” consiste, in sostanza, nella possibilità di non far concorrere alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito la quota di reddito destinata a taluni “investimenti ambientali”, legittimando, quindi, una variazione in diminuzione da effettuare in sede di dichiarazione dei redditi. Presupposto soggettivo: le PMI Possono fruire dell’agevolazione solo le “pic- cole e medie imprese” (PMI) senza però che nell’ambito della L. 388/2000 sia fornita una compiuta definizione di quali siano le PMI. Ne deriva, come peraltro confermato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 3.1.2001 n. 1, che è necessario ricercare la suddetta definizione nella normativa comunitaria e nel relativo recepimento da parte del legislatore1. A tal fine, si deve fare riferimento all’art. 2 del DM 18.4.2005 con cui è stata recepita la raccomandazione della Commissione europea 6.5.2003 n. 2003/361/CE. Tale documento definisce “micro, piccole e medie imprese” quelle che soddisfano i seguenti due parametri: a) meno di 250 occupati; b) fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro oppure, in alter- 1 L’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 1/2001, ha precisato che possono avvalersi dell’agevolazione per investimenti ambientali i soli soggetti titolari di reddito di impresa (piccola o media) che determinano il reddito in contabilità ordinaria (per effetto del combinato disposto di cui all’art.6 co. 13 e 16 della L. 388/2000). nativa, totale dell’attivo patrimoniale di bilancio non superiore a 43 milioni di euro. Ai fini della verifica del fatturato, vanno considerati i ricavi delle vendite e delle prestazioni relativi alla gestione caratteristica, di cui alla voce A.1. del Conto economico, che si intendono al netto degli sconti concessi e dell’IVA e delle altre imposte direttamente connesse al volume d’affari. Presupposto oggettivo: gli “investimenti ambientali” Quanto all’ambito oggettivo di applicazione, con la dicitura “investimenti ambientali” il legislatore ha espressamente inteso riferirsi al costo di acquisto delle immobilizzazioni materiali di cui all’art. 2424 comma 1 lett. B) II c.c., “necessarie per prevenire, ridurre e riparare danni causati all’ambiente” 2. Da tale definizione ha escluso, tuttavia, gli investimenti realizzati in attuazione di obblighi di legge. Alla luce della definizione di “investimento ambientale” prevista dalla norma in commento, nonché del rinvio all’art. 2424 comma 1 lett. B) II c.c., è stato precisato che rientrano nell’agevolazione i costi – sostenuti per adempiere volontariamente alla prevenzione, riduzione e riparazione dei danni provocati all’ambiente dall’attività di impresa – per l’acquisto dei seguenti beni: terreni e fabbricati; impianti e macchinari; attrezzature industriali e commerciali; altri beni; immobilizzazioni in corso e acconti. L’Agenzia delle Entrate, nella predetta circolare n. 1/2001, ha poi precisato che sono esclusi dall’agevolazione in parola i costi sostenuti in dipendenza di contratti che non comportano l’acquisto di detti beni bensì, ad esempio, la loro locazione, oppure la concessione in uso, l’usufrutto, ecc.3 2 Applicabilità dell’agevolazione agli investimenti in impianti fotovoltaici In via preliminare, è lecito domandarsi se l’investimento in impianti fotovoltaici possa considerarsi, per sua natura, un “investimento ambientale” nel senso sopra precisato. Ebbene, su tale questione si era espressa già nel 2011 Assonime4 che aveva affermato che l’impianto fotovoltaico, consentendo di ridurre le emissioni di CO2 nell’ambiente rispetto all’uso di energia tradizionale, potesse rientrare nel novero degli investimenti ambientali. Tale questione è stata, successivamente, confermata tanto a livello di prassi5, quanto a livello normativo, a seguito dell’emanazione dell’art. 19 del V Conto energia che ha riconosciuto, seppur con taluni limiti di cui si dirà oltre, l’applicabilità della Tremonti Ambiente ai costi riferibili agli investimenti operati nel settore della produzione di energia elettrica di fonte solare che danno diritto all’erogazione delle c.d. tariffe incentivanti, in tal modo qualificando gli impianti fotovoltaici quali investimenti ambientali nel senso sopra precisato. 3 Gli incentivi per il settore fotovoltaico e i relativi divieti di cumulabilità In ordine alla questione circa la cumulabilità 2 Per completezza si precisa che il co. 14 dell’art. 6 reca una disposizione antielusiva applicabile qualora i beni che formano oggetto degli investimenti agevolati siano ceduti entro il secondo periodo di imposta successivo a quello in cui sono stati effettuati. In tal caso, il reddito escluso dall’imposizione si determina diminuendo l’ammontare degli investimenti ambientali di un importo pari alla differenza tra i corrispettivi derivanti dalle predette cessioni e i costi sostenuti nello stesso periodo di imposta per la realizzazione degli investimenti ambientali. 3 Al contrario, gli investimenti in beni ambientali effettuati mediante contratto di locazione finanziaria potranno rilevare (per l’utilizzatore) ai fini della detassazione del reddito (cfr. risoluzione 25.7.2005 n. 95). 4 Cfr. Approfondimento 8/2011, p. 3. 5“Gli impianti fotovoltaici […] rientrano nel novero degli investimenti ambientali in quanto consentono di sfruttare 105 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 106 della tariffa incentivante con l’agevolazione della Tremonti Ambiente, il punto di partenza cui fare riferimento è l’assenza, nell’ambito di quest’ultima disciplina, di uno specifico divieto di cumulo. Pertanto, in base ai principi più volte affermati dall’Agenzia delle Entrate6, non sussistendo, dal tenore letterale della norma, una previsione di non cumulabilità della Tremonti Ambiente con altre agevolazioni, in prima analisi dovrebbe concludersi che il cumulo è, in linea di principio, consentito e che eventuali condizioni di cumulabilità dovrebbero, al più, essere verificate nell’ambito della disciplina relativa alla tariffa incentivante. Tenuto conto del complesso quadro normativo di riferimento, è necessario ripercorrere tutti gli interventi normativi succedutisi nel tempo che hanno espressamente affrontato il tema della cumulabilità della tariffa incentivante con agevolazioni di carattere fiscale. A tal riguardo deve, in primo luogo, richiamarsi l’art. 2 comma 152 della L. 244/2007 che, con specifico riferimento alla produzione di energia elettrica da impianti alimentati da fonti rinnovabili entrati in esercizio in data successiva al 30 giugno 2009, incentivata mediante il rilascio di certificati verdi, ha espressamente previsto che il diritto di accesso a tali incentivi spetti solo “a condizione che i medesimi impianti non beneficino di altri incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto energia, in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata assegnati dopo il 31 dicembre 2007”. Tale divieto assoluto di cumulo, in quanto espressamente riferito agli impianti che hanno avuto accesso agli incentivi di cui alla L. n. 244/2007, non sussiste, tuttavia, per gli incentivi costi- tuiti dalla tariffa incentivante. Per quest’ultima, infatti, si applicano i provvedimenti attuativi dell’art. 7 del DLgs. 29.12.2003 n. 3877. L’art. 7 del DLgs. 387/2003 rinvia a più decreti interministeriali per la definizione dei criteri per l’incentivazione della produzione di energia elettrica, nonché per la definizione delle condizioni per la cumulabilità dell’incentivazione con altri incentivi. Trattasi, in particolare, dei seguenti decreti: il DM 28.7.2005 (c.d. I Conto energia); il DM 19.2.2007 (c.d. II Conto energia); il DM 6.8.2010 (c.d. III Conto energia); il DM 5.5.2011 (c.d. IV Conto energia); il DM 5.7.2012 (c.d. V Conto energia). Orbene, il primo punto di riferimento è costituito dall’art. 9 del DM 19.2.2007, che ha previsto che “le tariffe incentivanti […] non sono applicabili all’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici per la cui realizzazione siano o siano stati concessi incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale e/o in conto interessi con capitalizzazione anticipata, eccedenti il 20% del costo dell’investimento”. Ne consegue che, sulla base di tale previsione di legge, la tariffa incentivante di cui al II Conto energia è cumulabile con altri incentivi pubblici (quale la Tremonti Ambiente), purché questi ultimi non superino il 20% del costo dell’investimento. Una conferma di tale conclusione si è avuta solo con il decreto relativo al V Conto energia che, seppur con tecnica legislativa non del tutto lineare, ha previsto, con norma di esplicito carattere interpretativo, che con riferimento al II Conto energia “il limite di cumulabilità ivi previsto si applica anche alla detassazione per investimenti di cui all’art. 6, c. 13 e ss. della legge 23 dicembre 2000, n. 388”. Viceversa, l’art. 5 comma 4 del DM 6.8.2010, l’energia solare, contribuendo alla protezione dell’ambiente, allo sviluppo sostenibile e alla riduzione delle emissioni di CO2 rispetto all’uso di energia da fonte tradizionale” (cfr. interpello DRE Toscana 14.3.2012, in Banca Dati Eutekne). Analogamente, il Ministero per lo Sviluppo economico, con nota 15.9.2011 n. 0018485, ha chiarito che “gli impianti fotovoltaici […] ricadono […] nell’ambito applicativo dell’art. 6, commi da 13 a 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388”. 6 Cfr. in particolare, circolare Agenzia Entrate 27.10.2009 n. 44 e risoluzione Agenzia Entrate 11.7.2002 n. 226. 7 Tale norma prevede che, al fine di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili, la produzione di energia elettrica da fonte solare sia agevolata attraverso una specifica tariffa incentivante di importo decrescente e di durata tale da garantire una equa remunerazione dei costi di investimento e di esercizio. Tale incentivo è erogato per venti anni, in ragione dell’energia fotovoltaica prodotta annualmente dall’impianto. dopo aver elencato espressamente i benefici e contributi pubblici cumulabili con le tariffe incentivanti, richiamando l’art. 9 del II Conto energia sopra menzionato, ha posto un’ulteriore condizione alla predetta cumulabilità, ovverosia che “i bandi per la concessione degli incentivi siano stati pubblicati prima della data di entrata in vigore del presente decreto e che gli impianti entrino in esercizio entro il 31 dicembre 2011”. L’art. 5 del DM 5.5.2011, poi, discostandosi ulteriormente dai precedenti conti energia, ha stabilito in primo luogo che pur dovendo farsi salvo quanto richiamato dall’art. 5 comma 4 del III Conto energia, i benefici e contributi pubblici cumulabili con le tariffe incentivanti sono solo quelli ivi elencati espressamente; in secondo luogo che “le tariffe incentivanti di cui al presente decreto non sono applicabili qualora, in relazione all’impianto fotovoltaico, siano state riconosciute o richieste detrazioni fiscali”8; e, infine che “Dal 1° gennaio 2013 si applicano le condizioni di cumulabilità degli incentivi secondo le modalità di cui all’art. 26 del D.lgs. n. 28/2011, come definite con i decreti attuativi di cui all’art. 24, c. 5, dello stesso decreto”9. Sarebbe, quindi, ammessa la cumulabilità tra tariffa incentivante e Tremonti Ambiente, solo a decorrere dal 1° gennaio 2013. Tale “apertura” è del tutto irrilevante attesa la sopra citata sopravvenuta impossibilità di avvalersi della Tremonti Ambiente per gli investimenti successivi al 26 giugno 201210. Da ultimo, il V Conto energia, ha ribadito il contenuto dell’art. 5 del IV conto energia, ivi inclusa la previsione di cumulabilità a decorrere dal 1° gennaio 2013 (art. 12 del DM 5.7.2012). La questione circa la possibilità di fruire dell’agevolazione in rubrica unitamente alle varie tariffe incentivanti da parte dei soggetti in possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi per beneficiarne è stata oggetto di particolare attenzione da parte degli operatori, anche prima che intervenissero i chiarimenti forniti per effetto dell’emanazione del V Conto energia (peraltro espliciti solo per quanto riguarda il II Conto energia). Tale dibattito si è incentrato, in particolare, proprio sulla cumulabilità con gli incentivi di cui al IV Conto energia, la cui disciplina appare particolarmente articolata. In tale dibattito un ruolo centrale è stato svolto dalla risposta del gennaio 2013 fornita dal Ministero dello Sviluppo economico ad un quesito proposto da Assonime, successivamente resa pubblica11. In tale occasione il Ministero dello Sviluppo economico ha affermato che la cumulabilità della tariffa fotovoltaica con la Tremonti Ambiente è variamente regolata dai diversi conti energia succedutisi nel tempo. Orbene se nessun dubbio si pone in merito alla cumulabilità tra Tremonti Ambiente e II Con- 107 8 Fermo restando per gli impianti facenti uso di energia solare per la produzione di calore o energia, il diritto al beneficio della riduzione dell’IVA di cui al DPR 633/1972 e al DM 29.12.1999 del Ministro delle Finanze. 9 Tale disposizione ha quindi qualificato la Tremonti Ambiente quale “incentivo pubblico di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale e/o in conto interessi con capitalizzazione anticipata”. Tale qualificazione, seppur con specifico ed espresso riferimento alla sola tariffa incentivante di cui al II Conto energia, dovrebbe potersi estendere anche al III e IV Conto energia, alla luce anche della sostanziale identità della formulazione delle disposizioni di cui al III e IV Conto energia nonché della natura interpretativa di tale disposizione. 10 Sulla base delle condizioni previste dal c.d. Decreto Romani (DLgs. 3.3.2011 n. 28). Secondo quanto affermato da Confindustria Modena (cfr. circolare 29.11.2011 n. 11097, in Banca Dati Eutekne) la ratio della norma (art. 26) che prevede la possibilità di cumulo dal 1° gennaio 2013 è quella di rendere più efficiente ed omogeneo il generale sistema degli incentivi, riconducendo a decorrere dal 2013 la cumulabilità per gli impianti fotovoltaici alla regola generale della cumulabilità valevole per tutte le altre fonti rinnovabili. In particolare è consentito cumulare le tariffe incentivanti con la detassazione dal reddito d’impresa per acquisto di apparecchiature e macchinari, compreso l’acquisto per investimenti ambientali. 11 Si veda la notizia pubblicata da Assonime il 23.1.2013, in Banca Dati Eutekne. Gli uffici regionali dell’Amministrazione finanziaria che in precedenza erano stati chiamati ad esprimersi sul tema (interpelli alle DRE Toscana 14.3.2012 e Marche 30.6.2012) si erano limitati ad affermare che “rientrando la disciplina della descritta tariffa incentivante nella competenza del Ministero dello Sviluppo Economico, spetta a tale Autorità ogni valutazione in ordine all’attuazione della normativa richiamata, anche in termini di cumulabilità”. LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 to energia12, la tariffa incentivante di cui al III Conto energia non sarebbe, invece, cumulabile con la Tremonti Ambiente, posto che tale agevolazione non compare nell’elenco tassativo di cui all’art. 5 del predetto III Conto energia, né può considerarsi un incentivo pubblico erogato “previo bando” in base al successivo comma 413; parimenti la tariffa incentivante di cui al IV Conto energia non sarebbe cumulabile con la Tremonti Ambiente, posto che nemmeno tale agevolazione compare nell’elenco tassativo di cui al IV Conto energia, né il rinvio al III Conto energia può considerarsi d’aiuto a tal fine, visto che anche per il III Conto energia il divieto di cumulo sarebbe assoluto14. Nel giungere a tali conclusioni, il Ministero ha richiamato la ratio delle norme in materia di cumulabilità delle tariffe incentivanti con altre agevolazioni, tale essendo “l’opportunità di evitare che sullo stesso investimento si concentrassero più benefici pubblici, atteso che la tariffa fotovoltaica già remunera i costi di investimento e di esercizio”. La risposta fornita dal Ministero dello Sviluppo economico è stata accolta negativamente dalla dottrina. Ad avviso di chi scrive ciò che va sottolineato è che la asserita cumulabilità solo per il II Conto energia, ma non per i successivi, a ben vedere, non può in alcun modo ritenersi coerente da un punto di vista sistematico: difatti, da ciò conseguirebbe un diverso trattamento ai fini della cumulabilità, basato esclusivamente sul momento in cui l’impianto fotovoltaico cui spetta la tariffa incentivante è entrato in esercizio, a prescindere dal periodo oggetto della scelta incentivante del legislatore che presiede alla Tremonti Ambiente (che va ben oltre l’ambito del II Conto energia). Il tema della cumulabilità della tariffa incentivante, tuttavia, assume connotati particolarmente preoccupanti ove si abbia riguardo ad una pronuncia avente ad oggetto un’altra agevolazione di carattere ambientale (nel caso specifico il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno, c.d. Visco Sud)15: l’Agenzia delle Entrate ebbe ad affermare che, in caso di utilizzo del credito d’imposta per una percentuale superiore al 20%, il contribuente “perderà il beneficio della tariffa incentivante erogata per l’energia prodotta annualmente dall’impianto fotovoltaico”. Appare quindi particolarmente significativo che anche in tempi più recenti (7 novembre 201416), una associazione di categoria dia conto di un’interlocuzione con il GSE che conferma in toto le conclusioni cui è giunto il MISE nel gennaio 2013 (per quanto inappaganti). 108 12 Alla luce di quanto previsto dall’art. 19 del DM 5.7.2012 (V Conto energia), in base al quale il limite di cumulabilità del 20% si applica “anche alla detassazione per investimenti di cui all’art. 6, c. da 13 a 19 della L. 23 dicembre 2000, n. 388”. 13 Il Ministero, nella sopra menzionata risposta, ha motivato tale interpretazione restrittiva affermando che “la ratio della norma risiedeva nella necessità di evitare che il divieto di cumulo stabilito dal III e IV conto energia sacrificasse le iniziative oggetto di bandi già pubblicati alla data di entrata in vigore dei medesimi conti energia; inoltre, il tenore derogatorio della disposizione conferma, per un verso, la eccezionalità dell’ipotesi ivi considerata e, per l’altro, la generalità della regola di divieto di cumulo, con salvezza delle sole ipotesi specificamente previste”. Ebbene, proprio tale affermazione è stata da taluni ritenuta non condivisibile giacché il riferimento all’esistenza di “bandi”, dal punto di vista sostanziale, non dovrebbe ritenersi indispensabile per individuare gli incentivi cumulabili; al contrario, ben potrebbe interpretarsi che la Tremonti Ambiente, in quanto incentivo pubblico, seppur privo di un iter che presupponga l’esistenza di un “bando”, rientri comunque nelle agevolazioni ammesse al cumulo nel limite del 20%. 14 A tale interpretazione si può muovere l’obiezione di non tenere in debito conto il rinvio normativo operato dal IV Conto energia al III Conto energia che, a sua volta, rinvia al II Conto energia, e per tale via giungere a concludere per l’ammissibilità del cumulo anche per il IV, seppur nel limite del 20% del costo dell’investimento (in tal senso Assonime nella videoconferenza del 25.9.2012). 15 Nella quale è stato affermato che il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno “potrà essere fruito e cumulato con la tariffa incentivante solo nella misura del 20%, costituente la soglia massima di cumulabilità” (risoluzione Agenzia Entrate 27.1.2009 n. 20). 16 Relazione periodica “assoRinnovabili” del novembre 2014 recante segnalazione delle criticità riscontrate dagli operatori e resoconto sul funzionamento del servizio informatico di supporto ai soci. 4 Profili procedurali La fruizione del beneficio fiscale è automatica, non essendo richiesta la presentazione di alcuna istanza preventiva. Tuttavia, al fine di poter usufruire di tale agevolazione, le imprese interessate sono tenute a rappresentare nel bilancio di esercizio gli investimenti ambientali realizzati e a comunicare, entro un mese dall’approvazione del bilancio annuale, gli investimenti effettuati che possiedono i requisiti per rientrare nell’agevolazione17. Tale comunicazione è finalizzata a consentire al Ministero delle Attività produttive, di intesa con il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, di operare, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di riferimento, il censimento degli investimenti ambientali effettuati e comunicati dalle piccole e medie imprese nonché di istituire un apposito fondo presso il Ministero delle Finanze, per provvedere all’onere derivante dalle misure agevolative18. Per i soggetti con periodo di imposta coincidente con l’anno solare, la determinazione della quota di reddito agevolata è determinata come segue: per il periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2001 19 e per il successivo (2002), in misura pari all’ammontare degli in- vestimenti ambientali realizzati; a decorrere dal 1° gennaio 2003 e per i periodi d’imposta successivi, in misura pari all’importo eccedente rispetto alla media degli investimenti ambientali realizzati nei due periodi di imposta precedenti 20. Tanto premesso, le sopra descritte incertezze in tema di cumulabilità hanno indotto buona parte degli operatori del fotovoltaico a comportamenti prudenti. Via via che si andava consolidando la certezza della cumulabilità (seppur nel limite del 20%) per quanto riguarda in particolare il II Conto energia, si è posto il tema di come dare per rispettata la sopra descritta procedura quando ormai i bilanci relativi agli esercizi in cui si era sostenuto l’investimento e una (o più) dichiarazioni dei redditi erano ormai stati predisposti. Quali strade erano esperibili per un ripensamento? La nota del MISE di giugno21 e la circostanza che la stessa desse conto di una interlocuzione con l’Agenzia delle Entrate ha costituito la attesa conferma ufficiale della possibilità di essere di fatto rimessi in termini, anche laddove si fosse omesso di rappresentare in bilancio gli investimenti ambientali22 realizzati e di effettuare la relativa comunicazione entro trenta giorni23 al MISE ai fini del censimento degli investimenti da parte del Ministero medesimo. In 17 Sulla base del comunicato del Ministero dello Sviluppo economico del 8.2.2013 (in Banca Dati Eutekne), tale comunicazione per gli investimenti del 2012 (ultimi ad essere agevolati) doveva avvenire “tassativamente” entro e non oltre 30 giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio 2012. 18 Cfr. circolare Agenzia delle Entrate n. 1/2001, cit. 19 La norma in commento è entrata in vigore a decorrere dal 1º gennaio 2001. 20 L’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 1/2001 sopra citata ha proposto il seguente esempio: - investimenti realizzati nel periodo di imposta 2001: lire 1.000.000; - investimenti realizzati nel periodo di imposta 2002: lire 1.500.000; - investimenti realizzati nel periodo di imposta 2003: lire 2.000.000; - quota di reddito 2003 che non concorre a formare il reddito imponibile: lire 750.000 (ossia 1.000.000 + 1.500.000: 2 = 1.250.000 - 2.000.000). 21 Nota Min. Sviluppo economico 18.6.2015, in Banca Dati Eutekne. 22 Evidentemente, stante l’espressa disposizione normativa, non è sufficiente che il bilancio accolga tra le voci delle “Immobilizzazioni materiali” gli importi dell’investimento ambientale, ma è necessaria una specifica indicazione al riguardo. Secondo il documento n. 4/2001 della Fondazione Aristeia, la condizione richiesta dalla norma richiede l’iscrizione, nell’ambito della voce “Immobilizzazioni materiali”, di un’apposita voce di dettaglio denominata “Immobilizzazioni tecniche ambientali” che accolga i soli costi incrementali anziché l’intero costo di acquisto sostenuto. Di parere analogo, l’Assonime che, nel corso della videoconferenza del 25.9.2012, aveva affermato la necessità che in Nota integrativa fosse riportata la determinazione dei “sovraccosti” utilizzati ai fini del calcolo della detassazione ambientale. 23 A tal riguardo la DRE Lazio, con risposta a specifico interpello del 6.6.2013, in Banca Dati Eutekne, in effetti, aveva precisato (in controtendenza a quanto sopra riportato con riferimento al 2012 da parte del MISE) che la comunicazione relativa agli investimenti agevolati “non è prevista a pena di decadenza dell’agevolazione”. 109 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 110 tale contesto già l’Assonime, nella citata videoconferenza di settembre 2012, aveva sottolineato la necessità di riapprovare il bilancio stesso ed effettuare la comunicazione al MISE entro trenta giorni dalla riapprovazione. Si poneva poi l’ulteriore tema della mancata indicazione della detassazione nella dichiarazione dei redditi in cui si sarebbe dovuto beneficiare della variazione in diminuzione e, soprattutto, se la stessa fosse “recuperabile a posteriori” tramite una dichiarazione integrativa alla luce della circolare dell’Agenzia delle Entrate 24.9.2013 n. 31 e delle procedure ivi illustrate. La richiamata circolare prevede la possibilità per il contribuente di rappresentare all’Amministrazione finanziaria l’esistenza di elementi di costo non dedotti in precedenti annualità attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa limitatamente ai periodi di imposta ancora suscettibili di attività accertativa al momento di scadenza dei termini di presentazione della dichiarazione integrativa medesima. Per avvalersi di tale facoltà il contribuente è tenuto a ricostruire tutte le annualità d’imposta interessate dall’errore risalendo fino all’ultima annualità dichiarata. In altri termini, il contribuente deve provvedere a riliquidare autonomamente la dichiarazione relativa all’annualità dell’omessa imputazione – imputandovi il relativo componente negativo – e, nell’ordine, le annualità successive, fino a quella emendabile ai sensi dell’art. 2 comma 8-bis del DPR 322/1998; tale norma prevede che le dichiarazioni dei redditi possono essere integrate dai contribuenti a proprio favore mediante dichiarazione da presentare non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo24. Non si può sottacere che tale circolare si riferisce a una procedura speciale stabilita per riequilibrare fiscalmente la correzione degli errori in bilancio che abbiano determinato violazione del principio di competenza25 e, quindi, per consentire la correzione di “errori contabili” ossia “errori commessi nella redazione del bilancio” derivanti dalla mancata imputazione a Conto economico nel periodo di competenza di un componente negativo di reddito che produce, in un esercizio successivo, una sopravvenienza passiva indeducibile. Nel caso della mancata applicazione dell’agevolazione Tremonti Ambiente, ci si trova di fronte ad una fattispecie differente. Non si tratta infatti della commissione di un errore contabile che ha determinato la mancata imputazione in bilancio di un componente negativo e, conseguentemente, un vizio di competenza, ma della mancata rilevazione in sede di dichiarazione dei redditi dell’effetto dell’agevolazione, che si sarebbe tradotto in una variazione in diminuzione da esporre in un apposito rigo della dichiarazione medesima. Ciò non di meno, in considerazione dell’“apertura” dimostrata dall’Agenzia delle Entrate con detta circolare, in un’ottica di “equità fiscale”, non sembrava affatto irragionevole ipotizzare una procedura anche per fattispecie assimilabili a quella di specie, ossia comportamenti del contribuente “imposti” da ragioni di prudenza – resa necessaria dall’ambiguità del legislatore – e rivelatisi successivamente come fiscalmente penalizzanti. Viceversa, la risposta dell’Agenzia delle Entrate in occasione di un question time in Commissione Finanze del 15 ottobre u.s., in netta controtendenza, ha negato la possibi- 24 La circolare specifica, inoltre, che tale dichiarazione rappresenta il momento in cui gli esiti di tale attività di autoliquidazione da parte del contribuente vengono resi noti all’Amministrazione finanziaria; ne consegue che, a seguito dei controlli automatizzati, emergendo degli importi esposti nella predetta dichiarazione integrativa non coerenti con la dichiarazione del periodo di imposta precedente, sarà generata una comunicazione di irregolarità il cui esito sarà comunicato al contribuente; quest’ultimo, in tale sede, dovrà esibire la documentazione idonea ad evidenziare le modalità di rideterminazione delle risultanze che emergono dalla dichiarazione integrativa. La struttura dell’Agenzia preposta al controllo di tali fattispecie esaminerà la documentazione presentata ai fini dell’eventuale annullamento della comunicazione. 25 Si tratta quindi dell’ipotesi in cui il contribuente non ha imputato in bilancio il componente negativo nel corretto esercizio di competenza e, in un periodo d’imposta successivo, ha contabilizzato, al Conto economico o nello Stato patrimoniale, lità di ricorrere alla “dichiarazione a favore pluriennale”. Poiché, ormai, l’ultima dichiarazione emendabile a favore è per forza di cose successiva rispetto a quella che avrebbe dovuto accogliere la variazione in diminuzione in cui si sostanzia l’agevolazione, l’unica strada percorribile rimane quella dell’istanza di rimborso. Una soluzione decisamente poco appagante: basti pensare che i benefici in termini di minore imposta (pur a fronte di un’unica variazione in diminuzione che sovente cade in un esercizio – quello dell’investimento iniziale – in cui non vi sono o vi sono in misura limitata, ricavi e quindi con l’effetto di incrementare la perdita fiscalmente riportabile a nuovo) possono riverberarsi per più periodi di imposta per ognuno dei quali occorrerà calcolare e chiedere il rimborso dell’imposta che la variazione in diminuzione avrebbe consentito di risparmiare, ai sensi dell’art. 38 del DPR 602/1973, entro 48 mesi dal versamento26. Occorre comunque sottolineare che l’individuazione del dies a quo del termine decadenziale per la presentazione della domanda di rimborso ha formato oggetto di numerose pronunce della prassi amministrativa e della giurisprudenza. In particolare, nonostante la prassi amministrativa sia sostanzialmente ferma nel ritenere che il decorso del termine di 48 mesi debba farsi risalire alla data dell’errato versamento dell’imposta, senza eccezione alcuna, diversa è la posizione della giurisprudenza, in seno alla quale esistono invece pronunce di segno opposto. La pronuncia più recente e di maggiore aper- tura è quella espressa dalla Cassazione con la sentenza 16.1.2013 n. 959; tale pronuncia riconosce l’esigenza di introdurre un certo temperamento del principio di intangibilità dei meccanismi decadenziali, per renderli maggiormente compatibili con la tutela dei diritti soggettivi del contribuente. In particolare, è stata riscontrata l’esigenza che i termini di decadenza (incluso quello di 48 mesi previsto dall’art. 38), previsti al fine di garantire la certezza del diritto, debbano garantire che l’inerzia del titolare del diritto ad esercitarlo sia sanzionata solo quando l’inerzia stessa sia frutto di trascuratezza e non quando derivi da forza maggiore o errore incolpevole, tanto più se determinato da un soggetto di diritto pubblico (qual è l’Amministrazione finanziaria) 27. 5 La quantificazione dell’agevolazione: l’approccio incrementale Ai fini della determinazione del costo di acquisto nel senso sopra precisato, il legislatore ha altresì chiarito che “gli investimenti ambientali vanno calcolati con l’approccio incrementale”. Sulla base delle interpretazioni fornite in materia dall’Agenzia delle Entrate28, il costo cd. “incrementale” dovrebbe derivare dal confronto tra i costi dell’impianto fotovoltaico rispetto ai costi caratteristici di una centrale elettrica tradizionale29. In tal modo si determina il maggiore costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto del un componente negativo per dare evidenza dell’errore, con conseguente ripresa a tassazione. La circolare, in effetti, è stata emanata “alla luce dell’esigenza di evitare lo spostamento del momento impositivo e di garantire tanto il rispetto del divieto di doppia imposizione (derivante dalla mancata deduzione di un componente negativo) quanto la corretta determinazione del reddito rappresentativo della capacità contributiva riferibile al singolo periodo di imposta”. 26 Tale norma prevede che è possibile presentare l’istanza per il rimborso di un versamento effettuato “entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data di versamento dello stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”. 27 Disponibile in Banca Dati Eutekne. La Cassazione ha poi sollecitato le Sezioni Unite a dirimere il contrasto esistente in seno alla giurisprudenza, le quali allo stato non ci risulta si siano ancora pronunciate. 28 Risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002, cit., secondo cui “i benefici per gli investimenti ambientali sono rigorosamente limitati ai costi di investimento supplementare (sovraccosti) necessari per conseguire gli obiettivi di tutela ambientale”. 29 Da calcolarsi sulla base della più recente disciplina comunitaria del 2008 in materia di “Disciplina comunitaria degli aiuti di stato per la tutela ambientale” (2008|C 82|01). 111 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 112 bene con le caratteristiche di tutela ambientale rispetto al minor costo che l’impresa avrebbe sostenuto se, nell’acquisizione del bene stesso, non avesse valutato gli effetti sull’ambiente. Anche qualora il costo supplementare sostenuto non sia facilmente isolabile dal costo totale dell’investimento, il metodo di calcolo dell’investimento deve, comunque, “ispirarsi a criteri oggettivi basati, per esempio, sul costo di un investimento analogo sotto il profilo tecnico ma che non consenta di raggiungere lo stesso grado di tutela ambientale”30. Solo nel giugno scorso è arrivata l’attesa conferma del MISE31 che precisa che il “costo dell’investimento” richiamato nella disposizione in questione si riferisce all’intero costo imputabile all’investimento per l’impianto fotovoltaico, iscritto nel bilancio di riferimento. Una volta così determinato, dovrebbe poi essere rettificato dei “vantaggi economici ottenuti in conseguenza dell’investimento ambientale realizzato, valutati in termini di aumento di capacità produttiva, di risparmi di spesa e di produzioni accessorie aggiuntive”, tra i quali sarebbero ricompresi anche i ricavi derivanti dalla vendita di energia nonché i contributi ricevuti sotto forma di tariffa incentivante32. La Regione Toscana, nella delibera della Giunta Regionale dell’11.5.2009 n. 372 ha proposto un metodo di calcolo matematico per l’analisi dei sovraccosti, che è stato considerato da Assonime33 “un utile riferimento oggettivo e affidabile per determinare il sovraccosto dell’investimento fotovoltaico”. Anche la Regione Veneto, con delibera 16.6.2009 n. 1713 ha adottato un modello matematico similare. Entrambi i metodi di calcolo proposti dagli enti regionali richiedono dapprima la determinazione del sovraccosto da investimento e successivamente la determinazione del profitto operativo connesso agli investimenti in impianti di produzione di energia rinnovabile34. Il sovraccosto netto è pertanto determinato in misura pari alla differenza tra il sovraccosto 30 Cfr. risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002, che rinvia alla normativa comunitaria in materia. 31 Nota informativa 19.6.2015, cit. 32 Regione Toscana, delibera 11.5.2009 n. 372; Regione Veneto, delibera 16.6.2009 n. 1713; C.T. Prov. Treviso 10.1.2013 n. 7/5/13, in Banca Dati Eutekne; Approfondimento Assonime n. 8/2011. 33 Cfr. Approfondimento n. 8/2011, cit. 34 Tale analisi richiede, quindi, in primo luogo, secondo la delibera della Regione Toscana: a) la determinazione del costo dell’impianto per singolo KWp installato (pari ai costi sostenuti rapportati alla potenza nominale); b) l’individuazione del costo medio di un impianto di produzione di energia tradizionale per singolo KWp installato (che assumiamo pari a 438 €/KWp, come da tabella a p. 106 della delibera); c) l’individuazione del numero di ore medie equivalenti di funzionamento annuale dei due impianti (stimabile per l’impianto tradizionale in misura pari a 8.000 ore, come da tabella a p. 106 della delibera); d) il rapporto tra i due valori di cui al punto c) che precede consente di determinare il coefficiente di pari capacità produttiva legata alla producibilità degli impianti per singolo KWp installato. Ipotizzando per l’impianto fotovoltaico un numero di ore medie pari a 1.400 ore, il rapporto è pari a 0,175; e) moltiplicando tale rapporto con il costo di cui sub b), si ottiene il costo per la realizzazione di un impianto di energia tradizionale comparabile ad un impianto fotovoltaico, pari a 76,65 €/KWp; f) la differenza tra il costo per KWp installato per la realizzazione dell’impianto fotovoltaico di cui sub a), e il costo per KWp installato per la realizzazione di un impianto di produzione di energia tradizionale, pari a € 76,65, rappresenta il sovraccosto medio per unità di potenza installata. Una volta individuato il sovraccosto medio, si passa ad individuare il profitto operativo connesso con gli investimenti effettuati. Tale determinazione passa attraverso: a) la determinazione del costo medio per KWp di energia prodotta dall’impianto fotovoltaico; b) la determinazione del ricavo medio per KWp di energia prodotta dall’impianto fotovoltaico. Quanto al costo medio, questo si determina come segue: C = CI + CO + I – (VR * (1 + i) elevato a – n) dove: CI= costi d’investimento totale CO= costi totali di gestione e manutenzione I= interessi passivi maturati sulle somme necessarie per la realizzazione dell’impianto VR= valore residuo a fine vita dell’impianto n= vita media dell’impianto i= tasso di interesse applicato. Quanto al ricavo medio, lo stesso tiene conto dei ricavi per tariffa incentivante, dei ricavi per energia in ritiro dedicato e dell’eventuale risparmio di costo per energia autoprodotta e consumata in sostituzione dell’energia acquistata dall’estero. Il ricavo da investimento e il profitto operativo rilevato nei primi cinque anni di vita dell’impianto35. Peraltro, a garanzia dell’oggettività del calcolo, l’Agenzia delle Entrate ha reputato “quanto mai opportuno che le caratteristiche tecniche dei beni oggetto d’investimento, tanto con riferimento alla loro capacità di ridurre l’impatto ambientale quanto di generare futuri risparmi di spesa, siano certificate da soggetti preposti a tale scopo con la specifica menzione che gli stessi sono necessari per prevenire, ridurre e riparare danni causati all’ambiente e che non trattasi di investimenti realizzati in attuazione di obblighi di legge”36. La quota di reddito agevolata è determinata in misura pari all’importo eccedente rispetto alla media degli investimenti ambientali realizzati nei due periodi di imposta precedenti. Ne consegue che si rende necessario prima determinare il valore medio annuo degli investimenti ambientali compiuti nel biennio precedente e successivamente commisurare tale valore alla deduzione, deducendolo dall’ammontare dell’investimento ambientale realizzato nell’anno. 6 Considerazioni conclusive Gli interventi del legislatore e di prassi sono palesemente convergenti verso una maggiore elasticità (e per tale via appetibilità) nell’applicazione dell’agevolazione in commento 37. Ad avviso di chi scrive, gli sforzi fatti non possono essere in alcun modo sottaciuti perché – seppur con un percorso assai accidentato – consentono ora di affermare con ragionevole convinzione che l’agevolazione è tuttora fruibile, seppur nei limiti e nel rispetto delle condizioni previste dalla Legge e dai successivi interventi di legislazione secondaria e prassi. Permangono comunque difficoltà applicative concrete (e a questo punto le speranze di un mutamento di rotta sono veramente esigue) su cui il legislatore e l’Agenzia non sono riusciti a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ci riferiamo, evidentemente alla disparità di trattamento dei vari Conti energia (cumulabilità con gli incentivi di cui al II Conto energia ammessa, con i successivi non ammessa) e alla procedura di rimborso (con riferimento alla quale era più che lecito attendersi un’apertura, non foss’altro per ragioni di economia delle risorse della PA). La partita che rimane da giocare, auspicabilmente senza morti e feriti, è ora quella delle concrete modalità di quantificazione dell’agevolazione. Ma su questo aspetto l’Agenzia delle Entrate, in un atteso contributo che colga l’evoluzione dei tempi, potrà mostrare il coraggio necessario per fornire un quadro di prassi ragionevolmente aderente alla realtà economica sottostante. 113 complessivo, rapportato alla quantità di energia producibile, consente di determinare il ricavo medio per KWp. Utilizzando la metodologia di calcolo indicata nella delibera, sottraendo il costo medio dal ricavo medio, si ottiene il profitto operativo medio per KWp di energia prodotta. Il profitto operativo medio, commisurato al numero di KWh prodotti nei primi cinque anni di vita dell’impianto, consente di individuare il costo medio ammissibile quale differenza con il sovraccosto medio. Tale valore, parametrato alla potenzia nominale dell’impianto, consente di individuare il costo di investimento ammissibile totale. 35 Conformemente alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato ambientali. 36 Risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002. Proprio alla luce di tutto quanto sopra, Confindustria, nella circolare n. 11097/2011, cit., ha reso noto che, per la peculiare caratteristica della Tremonti Ambiente (e, in particolare, del criterio dell’approccio incrementale che caratterizza il calcolo della quota ammissibile di aiuto), il vantaggio effettivo derivante dal cumulo potrebbe essere, di fatto, annullato in quanto il beneficio derivante dalla tariffa fotovoltaica dovrebbe essere detratto dai costi ammissibili alla detassazione. Anche in ambito giurisprudenziale, la Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, nell’esaminare un caso nel quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato le modalità di determinazione della detassazione ambientale di un contribuente in relazione ai costi di realizzazione di un impianto fotovoltaico, ha stabilito che il calcolo effettuato dal contribuente fosse condivisibile “nella sussistenza di oggettive difficoltà per dare esecuzione e ossequio alla norma”, pur rilevando l’assenza di una perizia con la quale fornire precisi termini di confronto (C.T. Prov. Treviso 10.1.2013 n. 7/5/13, cit.). Nello stesso senso anche C.T. Prov. Treviso 12.7.2013 n. 66/4/13, in Banca Dati Eutekne, con cui la medesima Commissione Tributaria ha valorizzato in modo significativo quanto indicato nelle perizie rilasciate dai tecnici, considerando la carenza di indicazioni operative con riferimento alle modalità di calcolo da adottare. 37 Cfr. art. 1 co. 1 lett. c) del DM 7.9.2007 n. 174. TRIBUTI NUOVE AGEVOLAZIONI PER L’INGRESSO IN ITALIA DI LAVORATORI Giuseppe MARIANETTI Avvocato – Studio Tributario Societario Deloitte LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Anna Maria ZANGARDI Avvocato – Studio Tributario Societario Deloitte 114 Il decreto legislativo del 14 settembre 2015 n. 147 recante “Misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”, in vigore dal 7 ottobre 2015, è intervenuto in ambito di fiscalità nazionale e internazionale, in attuazione della delega fiscale, ridisegnandone la disciplina e apportando numerose novità in materia. In particolare, l’art. 16 del decreto ha previsto un regime fiscale di particolare favore per incentivare l’ingresso in Italia di lavoratori altamente specializzati. 1 Premessa Il c.d. “decreto internazionalizzazione” (DLgs. 14.9.2015 n. 147), emanato in attuazione della delega fiscale approvata dal Parlamento con la L. 11.3.2014 n. 23, è finalizzato alla riduzione degli ostacoli e dei vincoli alle operazioni frontaliere delle società operanti nel panorama economico odierno, nell’ottica della creazione di un sistema normativo stabile e trasparente per gli investitori. Le misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese si pongono il fondamentale obiettivo, da un lato, di garantire un contesto di maggiore certezza nella determinazione delle basi imponibili ai fini delle imposte sul reddito e, dall’altro, mirano a favorire l’internazionalizzazione delle imprese, italiane. Tra le previsioni contenute nel menzionato decreto si vuole porre l’accento sullo speciale regime fiscale introdotto dall’art. 16 per l’ingresso di lavoratori in Italia. L’obiettivo specifico che intende perseguire il legislatore è di incentivare ed attrarre in Italia i “talenti” provenienti dall’estero. Come noto, la tematica della “fuga dei cervelli” è al centro del dibattito politico da oramai molti anni e per cercare di arginare (ovvero invertire) il fenomeno sono state introdotte normative fiscali di favore, tra le quali spicca la L. 30.12.2010 n. 238 volta proprio a incentivare il rientro di tali soggetti nel nostro Paese. La menzionata legge, prima dell’emanazione del DLgs. 147/2015, era stata prorogata sino al 31 dicembre 2017; il decreto annulla tale proroga e, pertanto, la L. 238/2010 è destinata ad esaurire i propri effetti alla scadenza del periodo d’imposta 2015. Deve, tuttavia, segnalarsi che la legge di stabilità 2016, in corso di approvazione, prevede espressamente che potranno continuare a godere, sino al 31 dicembre 2017, dei benefici previsti dalla L. 238/2010 i lavoratori rientrati in Italia entro il 31 dicembre 20151. Prima di addentrarci in un primo commento della novella normativa, riteniamo utile svolgere alcune considerazioni sull’impianto della L. 238/2010, anche al fine di individuare le principali differenze tra i due provvedimenti. 2 Excursus normativo: la legge 238/2010 La L. 238/2010 è stata emanata con l’intento di contribuire allo sviluppo del Paese mediante la valorizzazione delle esperienze professionali maturate dai cittadini comunitari che hanno studiato, lavorato o che hanno conseguito una specializzazione post lauream all’estero. L’agevolazione si sostanza in una riduzione della base imponibile; in particolare i redditi di lavoro dipendente, di lavoro autonomo e d’impresa concorrono alla formazione della base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in misura ridotta e più precisamente al 20%, per le lavoratrici e al 30%, per i lavoratori 2. L’incentivo è, però, “a termine”: rispetto all’originaria previsione che lo estendeva fino al 31 dicembre 2013, il DL 29.12.2011 n. 2163 aveva provveduto ad ampliare la durata dell’agevolazione fino al 31 dicembre 2015 e, da ultimo, l’art. 10 comma 12-octies del DL 31.12.2014 n. 192 c.d. milleproroghe4, come modificato dalla legge di conversione 27.2.2015 n. 11, ha disposto l’estensione degli incentivi fino al 31 dicembre 20175. Come accennato il DLgs. 147/2015 ha soppresso tale ultima estensione temporale; per semplicità di esposizione si farà comunque riferimento alla citata normativa utilizzando il presente, anche considerando che la legge di stabilità 2016 potrebbe neutralizzare, in taluni casi, l’abrogazione dell’incentivo. Dal punto di vista soggettivo, la parziale esenzione è riservata ai cittadini dell’Unione Europea assunti con un contratto di lavoro dipendente o che avviano un’attività di lavoro autonomo o d’impresa sul territorio nazionale che siano disposti a trasferire il proprio domicilio, nonché la propria residenza, in Italia entro 3 mesi dall’assunzione ovvero dall’avvio dell’attività. Naturalmente, la L. 238/2010 contempla tutta una serie di condizioni per poter fruire del beneficio fiscale che si differenziano a seconda che i beneficiari abbiano trasferito all’estero la propria residenza6 per svolgere attività di 1 La legge non è stata ancora approvata al momento della redazione del presente articolo. Al riguardo, il disegno di legge stabilità 2016 aggiunge al co. 4 dell’art. 16 del DLgs. 147/2015 il seguente periodo: “i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, che si sono trasferiti in Italia entro il 31 dicembre 2015 applicano, per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2016 e per quello successivo, le disposizioni di cui alla medesima legge nei limiti e alle condizioni ivi indicati; in alternativa possono optare, con le modalità definite con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, per il regime agevolativo di cui al presente articolo”. 2 Il successivo DM 3.6.011 ha delineato in modo più puntuale l’ambito soggettivo dei beneficiari dell’incentivo; il provvedimento Agenzia Entrate 29.7.2011 n. 97156 è intervenuto sugli aspetti operativi e, da ultimo, la circolare Agenzia Entrate 4.5.2012 n. 14 ha fornito i necessari chiarimenti in ambito sia sostanziale che procedurale. 3 Conv., con modificazioni, L. 24.2.2012 n. 14. 4 Art. 10 co. 12-octies del DL 31.12.2014 n. 192, conv., con modificazioni, L. 27.2.2015 n. 11. 5 Si veda Marianetti G. “Nuova proroga per l’incentivo al rientro dei lavoratori in Italia”, Corr. Trib., 2015, p. 1075 e ss. 6“L’Agenzia delle entrate considera il termine «residenza» come sinonimo di «residenza anagrafica». Al riguardo, l’iscrizione anagrafica si risolve in un elemento meramente formale; su tale requisito la circolare n. 14/E del 2012 ha fornito una importante precisazione ritenendo che ciò che rileva ai fini dell’agevolazione è che il soggetto interessato abbia effettivamente svolto attività di lavoro o di studio all’estero e sia in grado di dimostrare tale circostanza. Se questa condizione viene soddisfatta, dunque, l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) corrispondente al periodo di attività all’estero non assume rilevanza e, pertanto, la condizione dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente si considera soddisfatta anche per coloro che, pur lavorando o studiando all’estero, non si sono mai iscritti all’AIRE, sempreché il trasferimento del domicilio in Italia avvenga entro il termine dinanzi precisato”. V. delli Falconi F., Marianetti G. “Il punto sui benefici fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia”, Corr. Trib., 2012, p. 1907 e ss. 115 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 116 studio finalizzato all’ottenimento di un titolo accademico oppure che abbiano svolto all’estero attività di lavoro post lauream 7. In quest’ultima categoria rientrano coloro i quali sono in possesso di un titolo di laurea, avevano risieduto in Italia per almeno 24 mesi continuativi e che negli ultimi due anni o più, avevano risieduto fuori dal proprio Paese d’origine e dall’Italia svolgendovi continuativamente attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o d’impresa. Nella cerchia della prima categoria di beneficiari che hanno svolto attività di studio, i c.d. “cervellini”, rientrano i soggetti che avevano risieduto continuativamente per almeno 24 mesi in Italia, ma che negli ultimi due o più anni, hanno risieduto fuori dal proprio Paese d’origine e dall’Italia conseguendovi un titolo di laurea o una specializzazione post lauream. L’ambito di applicazione dell’agevolazione fiscale, come specificato dalla circolare Agenzia Entrate 4.5.2012 n. 14, sopra richiamata, era stato esplicitamente esteso anche ai redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente “in forza del rinvio contenuto nell’art. 52, comma 1, del Tuir, all’art. 50 del medesimo Tuir. Ciò significa, ad esempio, che l’agevolazione ricade anche sui redditi di collaborazione coordinata e continuativa o di collaborazione a progetto di cui alla lettera cbis dell’art. 50 del Tuir e sulle somme ricevute a titolo di borse di studio di cui alla lettera c) del medesimo art. 50 del Tuir”8. In merito al trasferimento della residenza e del proprio domicilio in Italia e quanto al limite temporale entro il quale effettuarlo, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che l’accesso al beneficio è consentito anche nei casi di trasferimento della residenza qualora lo spostamento venga effettuato prima dell’inizio dell’attività, ma sia comunque funzionale allo stesso. L’Agenzia ritiene che si possa ritenere “funzionale” il rientro che avviene nei tre mesi che precedono l’inizio dell’attività medesima. La circolare n. 14/2012 esclude la necessaria iscrizione all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) del beneficiario nel corso dello svolgimento del periodo di lavoro all’estero, Ne deriva che la mancata cancellazione dall’anagrafe nel corso del periodo di permanenza all’estero non è considerata come causa di decadenza del beneficio, a patto che il trasferimento del domicilio in Italia avvenga nel rispetto dei termini sopra indicati. L’Amministrazione, poi, ha confermato che l’esenzione ha valenza esclusivamente sui redditi prodotti nel territorio italiano. Pertanto, nel caso in cui un soggetto abbia prodotto nei primi mesi dell’anno redditi al di fuori del territorio dello Stato e, in quanto rientrato in Italia in corso d’anno, risulti fiscalmente residente in Italia, tali ultimi redditi concorrono alla formazione del reddito complessivo in via ordinaria. Per la quota non sottratta ad imposizione, in buona sostanza, trovano applicazione le normali regole di determinazione del reddito imponibile e dell’imposta. È possibile, pertanto, scomputare gli oneri deducibili di cui all’art. 10 del TUIR ed operare le ordinarie detrazioni d’imposta. Secondo quanto previsto dalla circolare n. 14/2012, le detrazioni per carichi di famiglia e quelle stabilite dall’art. 13 del TUIR (ad esempio, detrazioni per lavoro dipendente), che decrescono al crescere del reddito, devono essere determinate tenendo conto del reddito complessivo ridotto per effetto del beneficio fiscale in questione. Quanto alla decadenza, il beneficiario va in- 7“L’Agenzia pone fine anche ad un’altra questione oggetto di numerose discussioni ed incertezze: la possibilità o meno di concedere l’agevolazione fiscale ai c.d. expatriates. Il dubbio riguardava la verifica del requisito dello svolgimento di attività di lavoro all’estero nel 24 mesi precedenti il rientro in Italia”. V. Quartana C. “Via libera alle agevolazioni fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia”, Fisc. comm. int., 7, 2012, p. 37. 8 Deve tuttavia essere rilevato che “sia la legge n. 238/2010 che il D.M. 3 giugno 2011 fanno riferimento al concetto di «assunzione» che sembra connotare in modo esclusivo i titolari di un rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, probabilmente, da un punto di vista prettamente tecnico i collaboratori coordinati e continuativi dovrebbero rientrare nel beneficio in quanto svolgenti un’attività di lavoro, civilisticamente, autonomo”. V. delli Falconi F., Marianetti G., cit. contro alla perdita degli incentivi sopra descritti nel caso in cui trasferisca nuovamente la propria residenza o il proprio domicilio fuori dell’Italia prima del decorso dei cinque anni dalla data della prima fruizione del beneficio. L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che, in caso di contratto di lavoro dipendente a tempo determinato avente scadenza anteriore al decorso del quinquennio, o di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, o di cessazione dell’attività di lavoro autonomo o d’impresa nei cinque anni dalla data di prima fruizione del beneficio, il lavoratore o la lavoratrice non decadono dall’agevolazione se non trasferiscono la residenza o il domicilio fuori dall’Italia prima del quinquennio. In caso di perdita dei benefici fiscali per il venir meno dei requisiti strettamente previsti dalla norma, la disposizione prevede il recupero dei benefici fruiti e l’applicazione delle relative sanzioni ed interessi. In relazione ai profili sanzionatori, nella norma mancano indicazioni sulle sanzioni applicabili. In termini teorici, la decadenza dal beneficio potrebbe, oltre che rappresentare una fattispecie di omesso versamento delle imposte, anche integrare un’ipotesi di infedele dichiarazione dei redditi, anche se si ritiene complesso giustificare, da un punto di vista sistematico, l’applicazione di tali sanzioni. In assenza di indicazioni, forse, il comportamento in questione potrebbe ricadere nella fattispecie di omesso versamento. Da quanto sopra sinteticamente esposto risulta evidente che l’agevolazione in parola è strettamente finalizzata ad incentivare il rientro in Italia di lavoratori (in senso lato) che erano “fuggiti” all’estero. La ratio del DLgs. 147/2015 è diversa, in quanto la finalità perseguita è quella di attrarre talenti a prescindere da una pregressa esperienza lavorativa in Italia. 3 Disciplina introdotta dal decreto 147/2015 L’art. 16 del DLgs. 147/2015 dispone che il reddito di lavoro dipendente prodotto in Ita- lia da lavoratori che trasferiscono la propria residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del TUIR concorre alla formazione del reddito complessivo, nella misura del 70%, “al ricorrere delle seguenti condizioni: a) i lavoratori non sono stati residenti in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a permanere in Italia per almeno due anni; b) l’attività lavorativa viene svolta presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa; c) l’attività lavorativa è prestata prevalentemente nel territorio italiano; d) i lavoratori rivestono ruoli direttivi ovvero sono in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze […]”. Deve essere rilevato come l’art. 16 citato preveda “che con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono adottate le disposizioni di attuazione del presente articolo anche relativamente alle disposizioni di coordinamento con le altre norme agevolative vigenti in materia, nonché relativamente alle cause di decadenza dal beneficio”. Pertanto, sarà di fondamentale importanza capire quali saranno i contenuti del decreto attuativo per definire l’ambito di operatività della disposizione. Trasferimento della residenza in Italia L’agevolazione si rende applicabile ai lavoratori che trasferiscono la residenza in Italia ai sensi dell’art. 2 del TUIR il quale dispone che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno 117 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 118 nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile” 9. Nel caso che ci occupa, la verifica della residenza fiscale dovrebbe essere abbastanza agevole posto che i lavoratori in questione dovranno operare prevalentemente in Italia e, in ogni caso, si presume che provvederanno ad iscriversi all’anagrafe della popolazione residente. Il richiamo all’art. 2 del TUIR, tuttavia, potrebbe non consentire la fruizione del beneficio immediatamente; in particolare, posto che lo status di residenza è collegato all’intero periodo d’imposta, i lavoratori che faranno ingresso in Italia dopo la prima metà dell’anno non potranno acquisire la residenza fiscale italiana (non soddisfacendo, dunque, la condizione richiesta dalla norma). Ad esempio, il lavoratore che dovesse essere assunto da una società italiana a settembre 2016 potrebbe avvantaggiarsi del beneficio fiscale solo a decorrere dal periodo d’imposta 2017. Secondo il comma 3 dell’art. 16, difatti, le disposizioni in commento si applicano a decorrere dal periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 2 del TUIR, e per i quattro periodi successivi. Altra questione di interesse attiene al coordi- namento della nozione di residenza accolta dall’ordinamento italiano con le previsioni delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. L’art. 16 rinvia ad un concetto “domestico” di residenza, ma potrebbe accadere che un contribuente sia considerato fiscalmente residente anche nel Paese di provenienza; in tal caso è necessario fare ricorso alle Convenzioni internazionali che contengono una disposizione (normalmente art. 4) volta a dirimere tale conflitto10. Orbene, in applicazione della normativa internazionale, il lavoratore, pur soddisfacendo una delle condizioni fissate dall’art. 2 del TUIR, potrebbe essere considerato fiscalmente non residente in Italia. Ci si chiede se anche in tale evenienza il dipendente possa godere del regime fiscale di favore e la risposta, ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere positiva alla luce del tenore letterale dell’art. 16. Assunzione in Italia Il beneficio fiscale è riconosciuto ai titolari di reddito di lavoro dipendente che svolgano la propria attività presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che 9 Per una disamina della nozione di residenza fiscale accolta dall’ordinamento italiano e in ambito OCSE si vedano, tra gli altri: Capolupo S. “La residenza fiscale”, il fisco, 1998, p. 12999 e ss.; Gazzo M. “Profili internazionali della residenza fiscale delle persone fisiche”, Riv. dir. trib., 2002, p. 669 e ss.; Cerrato M. “La residenza fiscale delle persone fisiche e gli indici rivelatori del centro principale degli affari e degli interessi”, ivi, 2000, p. 19 e ss.; Maisto G. “Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche”, ivi, 1998, p. 222 e ss.; Melis G. “La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano”, Rass. trib., 1995, p. 1034 e ss.; Marino G. “La residenza nel diritto tributario”, Cedam, Padova, 1999; Marianetti G. “Decisivo il domicilio nella determinazione della residenza fiscale”, Corr. Trib., 2013, p. 373 e ss. 10 Il primo § dell’art. 4 del Modello OCSE prevede che, ai fini della nozione di residenza, si debba avere riguardo alle normative domestiche dei Paesi firmatari dell’Accordo. In caso di conflitto tra le normative nazionali, l’art. 4, § 2 del Modello OCSE stabilisce dei criteri (c.d. Tie Breaker Rules) finalizzati a dirimere detta controversia. In dettaglio, il menzionato articolo dispone che “quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, la sua situazione è determinata nel seguente modo: a) detta persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale ha una abitazione permanente. Quando essa dispone di una abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, è considerata residente dello Stato contraente nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali); b) se non si può determinare lo Stato contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali, o se la medesima non ha una abitazione permanente in alcuno degli Stati contraenti, essa è considerata residente dello Stato contraente in cui soggiorna abitualmente; c) se detta persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati contraenti ovvero non soggiorna abitualmente in alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità; d) se detta persona ha la nazionalità di entrambi gli Stati contraenti, o se non ha la nazionalità di alcuno di essi, le autorità competenti degli Stati contraenti risolvono la questione di comune accordo”. direttamente o indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa. Si ritiene, dunque, non necessario un contratto di lavoro con una società italiana, essendo ammissibile, ai fini del beneficio, anche un contratto di lavoro estero con una società facente parte del gruppo ed una assegnazione presso un’azienda italiana del medesimo gruppo. Ci si chiede, inoltre, se possano avvantaggiarsi della disposizione anche i titolari di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente; una interpretazione testuale della norma porterebbe ad escludere tale eventualità, ma deve essere ricordato che con riferimento alla L. 238/2010, l’Agenzia delle Entrate aveva esteso il beneficio anche a tale platea di contribuenti. Attività svolta prevalentemente in Italia Un’ulteriore condizione da soddisfare riguarda le modalità di esercizio della prestazione lavorativa, la quale deve essere svolta prevalentemente in Italia, al fine, si ritiene, di valorizzare le competenze professionali “trasferite” nel territorio dello Stato. Tale circostanza è coerente con quella innanzi analizzata; in altri termini l’intento che sembra perseguire il legislatore è quello di attrarre talenti a prescindere dall’instaurazione di un rapporto di lavoro con una azienda italiana. Non a caso, d’altra parte, il reddito agevolato è solo quello prodotto in Italia (il testo dell’art. 16 è chiaro in tal senso). Al riguardo, al fine di individuare il reddito per il quale è prevista la parziale esenzione, si possono utilizzare i criteri generali fissati dall’art. 23 del TUIR e, in particolare, dalla lett. c) del comma 1 secondo la quale il reddito di lavoro dipendente si considera prodotto in Italia se ritratto da un’attività svolta nel territorio dello Stato. In realtà il quesito di fondo è se la norma in commento si limiti ad escludere il reddito percepito prima dell’ingresso in Italia (che sarebbe tassato anche nel nostro Paese a fronte dello status di residenza fiscale italiana del percet- tore), ovvero se la stessa si riferisca anche al reddito percepito dopo il predetto ingresso, ma afferente ad un’attività prestata al di fuori dei confini nazionali. Si consideri l’esempio di un lavoratore (che soddisfi le condizioni stabilite dall’art. 16) che sia assunto da un’impresa italiana ad aprile 2016, che in precedenza era alle dipendenze di una società estera e che nel mese di giugno 2016 svolga la propria attività all’estero. Posto che il trasferimento della residenza fiscale in Italia comporterebbe la tassazione anche dei primi tre mesi dell’anno è evidente come tale reddito non possa essere oggetto di agevolazione; ma una rigida interpretazione della norma porterebbe anche a ritenere non applicabile il beneficio fiscale per il reddito prodotto a giugno 2016, in quanto l’attività non viene prestata nel territorio dello Stato. Va da sé che tale interpretazione rigida sembrerebbe scontrarsi con la ratio della disposizione. Inoltre, dal punto di vista procedurale sarebbe estremamente oneroso riparametrare il reddito percepito per i giorni di attività svolta in Italia. Non può che auspicarsi un chiarimento da parte del decreto attuativo. Qualificazione professionale Da ultimo, la fruizione del beneficio è subordinata alla circostanza che il lavoratore rivesta ruoli direttivi ovvero sia in possesso di requisiti di alta qualificazione o specializzazione. La logica, condivisibile, è quella di non introdurre un’agevolazione “a pioggia”, ma mirata ad incentivare l’ingresso di lavoratori in grado di apportare un notevole valore aggiunto alle imprese italiane. Sul punto non può che attendersi il decreto attuativo che avrà la finalità principale proprio di individuare la platea di contribuenti che potranno accedere alla norma di favore. Sarà interessante valutare se i requisiti di alta qualificazione o specializzazione saranno collegati al possesso di un determinato titolo di studio ovvero se faranno riferimento ad una situazione di fatto; si presume che sarà percorsa la prima strada anche al fine di evitare le tipiche criticità che caratterizzano ogni analisi fattuale. 119 4 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Condiderazioni finali 120 Le brevi note innanzi riportate evidenziano come la disposizione appena introdotta presenti ancora dei notevoli margini di incertezza interpretativa e che sarà pertanto necessario verificare se e in che termini il decreto attuativo riesca a chiarire l’ambito di applicazione dell’agevolazione. Come è accaduto in passato per normative analoghe, si presume che anche l’Amministrazione finanziaria si pronuncerà sulla tematica. In realtà, un aspetto che sta sollevando notevoli polemiche attiene alla neutralizzazione della proroga a suo tempo disposta per l’incentivo previsto dalla L. 238/2010 che, se non ci saranno ripensamenti, cesserà i propri effetti al termine del periodo d’imposta 2015. Il problema fondamentale è se i soggetti che oggi si avvantaggiano delle L. 238/2010 potranno essere compresi o meno nell’ambito di operatività della nuova disposizione. C’è, dunque, un tema di affidamento da parte di tali contribuenti che hanno fatto il loro “ritorno” in Italia, confidando nella legislazione di favore e che oggi si potrebbero trovare vincolati a restare nel nostro Paese (per non decadere dall’incentivo) ad un livello di tassazione “pieno”. Tale criticità, d’altro canto, riguarda anche i soggetti che potranno usufruire delle previsioni del decreto internazionalizzazione, visto che la misura del bene- ficio fiscale è decisamente inferiore rispetto a quella sino ad oggi goduta. Sul punto deve evidenziarsi come la legge di stabilità 2016, in corso di approvazione, preveda espressamente che potranno continuare a godere, sino al 31 dicembre 2017, dei benefici previsti dalla L. 238/2010 i lavoratori rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2015; ciò dimostra l’estremo interesse per la questione. Ulteriore tematica di sicuro interesse attiene alla perdita dei benefici; sul punto non può che auspicarsi che venga stabilita in modo certo la sanzione applicabile, che si ritiene debba essere quella connessa all’omesso versamento delle imposte. Inoltre, ipotizzando che la condizione della “permanenza” in Italia per due anni abbia una finalità antielusiva, si dovrebbe ritenere che il lavoratore che si ritrasferisce all’estero per ragioni oggettive (si pensi al dipendente licenziato che si trovi costretto ad accettare un’offerta di lavoro in un altro Paese) non debba decadere dall’agevolazione a suo tempo goduta; vero è che risulta estremamente complesso definire ex ante un’inapplicabilità del regime sanzionatorio che potrebbe condurre ad abusi della disposizione. Sempre sulla perdita dei benefici si rileva che l’uso del termine a-tecnico “permanere”, ad avviso di chi scrive, potrebbe portare notevoli margini di incertezza; meglio sarebbe stato operare un rinvio a concetti ben definiti quali quelli di residenza civilistica o fiscale. 03 FISCALITÀ INTERNAZIONALE FISCALITÀ INTERNAZIONALE IL NUOVO REGIME DI BRANCH EXEMPTION LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Federico DI CESARE Avvocato – Studio Professionale Associato a Baker & McKenzie 122 L’art. 14 del DLgs. 147/2015 introduce per le imprese residenti la possibilità, su opzione irrevocabile, di escludere dalla tassazione in Italia i redditi prodotti all’estero per il tramite di stabili organizzazioni (branch exemption). Il meccanismo, alternativo a quello attualmente vigente, dovrebbe migliorare la competitività delle nostre imprese operanti all’estero, secondo un principio di territorialità già operativo in altri Paesi europei ed extra europei. Un’opportunità da valutare con attenzione considerato che la branch exemption, insieme con il patent box, rappresenta una delle poche opportunità di legittima pianificazione fiscale. La disciplina si rivolge a tutti i soggetti residenti esercenti attività d’impresa, società di persone e persone fisiche incluse. 1 Premessa L’art. 14 del DLgs. 14.9.2015 n. 1471, di attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 12 della legge delega 11.3.2014 n. 23, introduce nel TUIR il nuovo art. 168-ter, rubricato “Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti”. Si tratta della c.d. branch exemption, un istituto da tempo adottato in altri Paesi che di fatto rappresenta una deroga al worldwide taxation principle2. La norma è destinata a rivoluzionare uno dei capisaldi della nostra disciplina interna riguardante la fiscalità internazionale, poiché, sostanzialmente, per le imprese che decideranno di optare per questo nuovo regime non assumeranno più alcun rilievo, per la determinazione del reddito d’impresa italiano, i risultati fiscali (positivi o negativi che siano) attribuibili alle stabili organizzazioni situate all’estero. Ne consegue che le iniziative imprenditoriali estere dei nostri gruppi potranno così beneficiare pienamente delle agevolazioni e del tax rate nello Stato di insediamento anche quando quest’ultimo risulterà inferiore a quello imposto dall’ordi- 1 “Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”, pubblicato in G.U. 22.9.2015 n. 220. 2 È questo il caso, ad esempio, del Regno Unito (Corporate Tax Act 2009, Section 18A). Per ulteriori approfondimenti sul tema, si rinvia a Gasparri T. “Il nuovo regime di branch exemption per le stabili organizzazioni all’estero”, il fisco, 2015, p. 2448; Galassi C. “«Branch exemption»: un istituto ancora da conoscere”, Fisc. comm. int., 10, 2005, p. 14; Pennesi M. “Per le stabili organizzazioni estere possibile l’esenzione fiscale in Italia”, I focus del Sole-24 Ore, 32, 30.9.2015, p. 9; Zanotti E., Santaromita Villa P. “Esenzione degli utili e delle perdite per le stabili organizzazioni estere”, in questa Rivista 4, 2015, p. 93-101. namento interno, il quale rinuncerà a prelevare il differenziale d’imposta sui profitti3. La contropartita dell’esenzione da imposizione in Italia dei redditi prodotti dalla branch estera, che è comunque facoltativa, è, coerentemente, l’esclusione della deducibilità dal reddito imponibile della casa madre italiana delle perdite sofferte dalla stessa branch. Tale scelta del legislatore si propone un obiettivo molto ambizioso, ovverosia favorire la crescita economica e la competitività internazionale dei gruppi di imprese che mantengono una “testa” in Italia e ampliare così l’attrattività del sistema fiscale italiano nel suo complesso. Queste misure accompagnano e completano quelle previste dall’art. 7 del medesimo decreto legislativo dedicate al restyling delle regole che disciplinano le stabili organizzazioni in Italia di soggetti esteri. 2 Caratteristiche generali dell’opzione In considerazione degli importanti effetti che essa comporta non solo per l’irrilevanza degli utili, ma anche per l’irrilevanza delle perdite delle stabili organizzazioni, l’opzione prevista dalla nuova normativa è subordinata al rispetto di condizioni molto stringenti, finalizzate ad evitare che la coesistenza nel nostro sistema dei due regimi di esenzione e imponibilità delle stabili organizzazioni estere possa favorire strategie idonee a cogliere i vantaggi di entrambi, in particolare l’esenzione dei profitti e la rilevanza delle perdite in abbattimento della base imponibile nazionale. Per gestire queste situazioni, la prima caratteristica, fissata dal comma 1 del nuovo art. 168-ter del TUIR, è la natura opzionale del regime di esenzione. È, infatti, necessaria un’esplicita scelta da parte dei soggetti interessati che, in base alle caratteristiche della loro attività, potranno anche continuare ad avvalersi dell’attuale regime di imponibilità. Una scelta che l’impresa dovrà attentamente ponderare, in quanto l’accesso all’esenzione comporterà che le eventuali perdite estere non potranno più essere utilizzate in Italia per compensare gli altri profitti esteri e domestici. L’opzione (seconda caratteristica) è inoltre “totalitaria”, nel senso che in presenza di più stabili organizzazioni l’impresa non può optare per l’applicazione del nuovo regime di esenzione per alcune e per il mantenimento del sistema del credito per le altre, compiendo in sostanza un cherry picking delle situazioni ad essa più convenienti. Si tratta, quindi, di un’opzione all in – all out (già nota al nostro sistema con la disciplina del consolidate mondiale) che potrà essere vantaggiosa per l’impresa residente in Italia in tutte le ipotesi in cui risulti positivo, nel lungo periodo, il saldo netto degli investimenti realizzati all’estero tramite stabili organizzazioni. L’opzione è, infine, irrevocabile per tutta la vita dell’impresa residente e deve essere esercitata tempestivamente entro precisi termini 4. In assenza, infatti, sarebbe fin troppo scontata la scelta imprenditoriale di “esentare” le stabili organizzazioni in utile, localizzate in Paesi a bassa fiscalità, e di continuare a 3 Si avrà pertanto un vero e proprio legittimo arbitraggio fiscale sulle aliquote. A titolo di esempio, si consideri la seguente fattispecie: Alfa S.p.A. ha una stabile organizzazione localizzata in un Irlanda dove l’imposizione sui redditi è pari al 12,5%. In assenza della branch exemption, sul reddito prodotto da tale stabile organizzazione la società italiana deve applicare l’imposta italiana (IRES, 27,5%), ancorché sia possibile, se del caso, detrarre le imposte assolte nel Paese estero (considerando la massima detrazione consentita pari al 12,5%). Con il regime di esenzione, invece, sul medesimo reddito ora Alfa S.p.A. potrà pagare le sole imposte estere (12,5%), con un conseguente risparmio fiscale del 15%. Per maggiori dettagli, si veda Pennesi M. “In Europa il risparmio d’imposta può arrivare al 15%”, I focus del Sole-24 Ore, 32, 30.9.2015, p. 9. 4 Cfr. art. 168-ter co. 2 del TUIR. Trattasi di una caratteristica ritenuta da alcuni eccessivamente penalizzante ai fini del successo dell’istituto in esame, anche nel confronto, ad esempio, con il diverso istituto del consolidato mondiale. In tal senso, si rinvia a Mayr S. “Prime osservazioni sul decreto sull’internazionalizzazione delle imprese”, Boll. trib., 2015, p. 645 e ss.; Silvestri A. “Branch exemption senza ritorno”, Il Sole-24 Ore, 23.6.2015. 123 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 124 tassare in Italia, con riconoscimento del credito d’imposta, quelle in perdita ovvero quelle localizzate in Paesi ad alta fiscalità 5. Queste caratteristiche dell’opzione, tuttavia, vanno misurate sulla singola impresa, sicché ben potrebbe accadere che, all’interno dello stesso gruppo, alcune società optino per il regime della branch exemption mentre altre scelgano di continuare a fruire, per le proprie stabili organizzazioni, dell’ordinario meccanismo del credito d’imposta. In linea di principio dovrebbe, dunque, essere sempre possibile costituire una nuova struttura estera in capo ad una società del gruppo neo costituita, senza che ciò debba essere di per sé considerata un’ipotesi di aggiramento del principio all in – all out, che, per precisa scelta legislativa, è riferibile solo alla singola entità. In ogni caso, vale evidenziare in questa sede come l’applicazione del principio “all in” non ha mancato di suscitare riserve, data la sua rigidità oggettiva, non essendo ragionevole che le imprese possano assumere ex ante decisioni su un arco di tempo indefinito. A questo primo aspetto problematico, si è aggiunta, come già detto, la penalizzazione che detto regime incide sull’avvio di nuove iniziative, di norma esposte, nei primi esercizi di attività, al rischio di incorrere in risultati economici negativi. La regola “all in”, difatti, per queste situazioni, combinata con il principio di irrilevanza della perdita della stabile organizzazione interessata dall’opzione, non permette di escludere dall’opzione la stabile organizzazione dalla quale si teme che provengano perdite d’esercizio e, nel contempo, preclude alla casa madre il consolidamento di questa perdita nel proprio risultato mondiale. Negli studi che hanno preceduto il varo di tale disposizione, si sono pertanto prospettate due possibili soluzioni: 1.contro il rischio di rigidità, l’opportunità di limitare la durata dell’opzione, con facoltà di rinnovo; 2. contro la penalizzazione a carico delle attività in avvio, la possibilità di preservare – pur nell’irrevocabilità dell’opzione di base – la facoltà di attribuire una rilevanza delle perdite alla stabile organizzazione, consolidandole con gli altri risultati della casa madre, salvo l’obbligo di assoggettare a tassazione gli utili della medesima che si fossero manifestati successivamente, fino a concorrenza delle perdite di cui l’impresa residente avesse nel frattempo beneficiato. In senso contrario, muovendo dall’osservazione secondo cui il regime di esenzione è fondato sull’irrilevanza di utili e perdite della stabile organizzazione, si è tuttavia concluso che un sistema misto basato sulla tassazione degli utili fino all’ammontare delle perdite dedotte nei periodi d’imposta precedenti da parte della casa madre avrebbe complicato l’istituto, con inevitabili riflessi sulla complessità degli accertamenti tributari, cosicché la seconda ipotesi stata esclusa. Si è inoltre ritenuto che accordare un periodo limitato di opzione (cfr. sub 1.) sarebbe stato causa di confusione in ordine ai valori fiscali da attribuire alle attività ed alle passività dei beni delle branch “esenti”, per rientrare a far parte del sistema fiscale italiano. Analoghi problemi gestionali avrebbe causato prevedere una procedura specifica di interpello, volto ad individuare tali valori fiscali 6. 3 Ambito applicativo dell’esenzione Ai sensi del comma 1 del nuovo art. 168-ter del TUIR, l’opzione per la branch exemption può essere esercitata (ambito soggettivo) dalla generalità dei soggetti residenti che esercitano 5 Si noti come tale scelta non è una realtà isolata nel panorama internazionale, in quanto il principio all in – all out caratterizza la branch exemption anche in altri Paesi in cui il regime è in vigore. 6 Cfr. Pacitto P. “Stabile organizzazione e branch exemption”, Crescita e internazionalizzazione delle imprese, Ipsoa, Milano, 2015, p. 84 e 85. un’attività di impresa e, pertanto, non solo dalle società e dagli enti di cui all’art. 73 comma 1 lett. a), b) e c) del TUIR, ma anche dalle società di persone e dalle imprese individuali. La norma pone inoltre esplicito riferimento (ambito oggettivo) alle “stabili organizzazioni”, e, quindi, ad una sede fissa d’affari o ad un agente dipendente attraverso cui il soggetto residente esercita all’estero un’effettiva attività d’impresa. L’applicazione del regime di esenzione richiede, dunque, che la struttura estera sia qualificabile come stabile organizzazione dell’impresa residente, abbia cioè i requisiti previsti dall’art. 162 del TUIR, ovvero, se del caso, dall’art. 5 della convenzione contro le doppie imposizioni in vigore con il Paese in cui essa è localizzata. A tal riguardo, il legislatore ha altresì previsto la possibilità per ogni impresa residente di presentare apposita istanza di interpello (ordinario) all’Amministrazione finanziaria, per richiedere un parere in merito all’effettiva sussistenza di una stabile organizzazione ai fini dell’applicazione del credito d’imposta o dell’esenzione. Gli altri profitti derivanti dall’esercizio di attività commerciali non conseguiti tramite una stabile organizzazione (quali, a titolo esemplificativo, le prestazioni di assistenza e consulenza rese a committenti esteri con personale specializzato o cantieri di durata inferiore alla soglia minima oltre la quale si manifesta una stabile organizzazione) non godono perciò dell’esenzione, a nulla rilevando che siano assoggettati a tassazione nel Paese della fonte o in base a disposizioni interne o, in presenza di una convenzione, per una espressa previsione derogatoria dei criteri OCSE7. Altro aspetto essenziale, ai fini del riconoscimento del regime di non imponibilità, è la corretta determinazione del reddito della stabile organizzazione, di cui occorre dare separate evidenza nella dichiarazione dei redditi, per esigenze di monitoraggio e controllo. In 7 Così Gasparri T., cit., p. 2553. 8 Conv., con modificazioni, L. 30.7.2010 n. 122. 9 Si veda l’art. 167 del TUIR. particolare, è stato previsto al comma 10 del nuovo art. 168-ter del TUIR che il reddito della stabile organizzazione dovrà essere determinato secondo i criteri del novellato (dallo stesso DLgs. 147/2015) art. 152 del TUIR, che riguardano le stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti. Ne consegue che le disposizioni sui prezzi di trasferimento trovano ora applicazione sia nelle transazioni tra la stabile organizzazione e le altre imprese del gruppo sia nella transazioni interne (internal dealings) intercorse tra l’impresa e la medesima stabile organizzazione, anche quando (è il caso della branch exemption) l’impresa sia residente in Italia. Il transfer pricing dovrà naturalmente applicarsi anche con riferimento all’allocazione economica degli asset alla stabile organizzazione nonché alla congruità del relativo fondo di dotazione. Considerata la complessità del tema, l’ultimo periodo del comma 10 del nuovo art. 168-ter del TUIR, prevede che si applichino le disposizioni dell’art. 26 del DL del 31.5.2010 n. 788 le quali, come è noto, prevedono la possibilità di optare per la tenuta della idonea documentazione dei prezzi di trasferimento, al fine di evitare l’irrogazione di sanzioni in ipotesi di rettifica dei prezzi da parte dell’Amministrazione finanziaria. I soggetti legittimati, infine, prima di esercitare l’opzione dovranno verificare se possiedono stabili organizzazioni all’estero per le quali sussistono i requisiti per l’applicazione del regime CFC (Controlled foreign companies)9. La normativa esige, pertanto, che le stabili organizzazioni siano diversamente valutate in ragione della localizzazione in Paesi black list, o in un Paese diverso da quelli. In quest’ultimo caso, come è noto, andrà valutata la presenza di prevalenti profitti “passivi” e di una tassazione effettiva inferiore di più della metà rispetto a quella italiana. Segnatamente, ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 168ter, in caso di opzione per l’esenzione, opererà 125 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 126 per le stabili organizzazioni l’automatica applicazione delle regole previste per le imprese CFC, fatta salva l’applicazione delle relative esimenti previste dai commi 5 lett. a) e b) e 8-ter dell’art. 167 del TUIR10. In definitiva, il mancato ricorrere di una delle esimenti per una stabile organizzazione o per più stabili organizzazioni comporterà l’assoggettamento delle stesse al regime CFC (con imputazione del reddito estero per trasparenza all’impresa residente e relativa tassazione separata), con il risultato principale che non solo non vi sarà alcuna esenzione dei redditi provenienti da tali stabili organizzazioni, ma, operando un regime di tassazione separata, verrà meno ogni possibilità di compensazione dei risultati positivi e negativi tra case madre e stabile organizzazione. Ne deriva, conseguentemente, un trattamento svantaggioso rispetto al regime ordinario del credito d’imposta in base al quale le perdite delle stabili organizzazioni estere, localizzate in Paesi black list, sono comunque deducibili nel computo della base imponibile complessiva. Non sarà tuttavia impedito all’impresa residente l’esercizio dell’opzione per l’esenzione con riferimento a tutte le altre stabili organizzazioni. 4 Distribuzione di utili generati dalle stabili organizzazioni Secondo quanto previsto dal comma 5 del nuovo art. 168-ter del TUIR, agli utili provenienti dalle stabili organizzazioni in possesso dei requisiti per la disapplicazione del regime CFC, si applicano le disposizioni di cui ai novellati (dallo stesso DLgs. 147/2015) artt. 47 comma 4 e 89 comma 3 del TUIR. Posto che la stabile organizzazione e la casa madre sono un unico soggetto giuridico e che pertanto non può esserci formale distribuzione di utili dalla stabile organizzazione all’impresa residente, la disposizione normativa acquista una sua ratio solo se riferita agli utili provenienti da tali entità, che l’impresa distribuisce ai suoi soci11. In altri termini, dal combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 14 del DLgs. 147/2015, si desume che l’opzione per la branch exemption unitamente alla disapplicazione del regime CFC determinano l’inclusione della stabile organizzazione nel perimetro di esenzione con conseguente affrancamento degli utili conseguiti da quest’ultima in capo all’impresa italiana, che è libera di utilizzarli nel modo che ritiene più opportuno, senza che scatti l’obbligo per quest’ultima di pagare ulteriori imposte nel territorio dello Stato. L’unica distribuzione ipotizzabile è dunque quella effettuata dalla casa madre a favore dei propri soci, ai quali, come detto, si applicheranno i novellati artt. 47 comma 4 e 89 comma 3 del TUIR. Gli utili provenienti dalle stabili organizzazioni black list incluse nel perimetro di esenzione dovrebbero essere tassati per l’intero importo in capo ai soci della casa madre, a prescindere dall’entità della partecipazione da loro detenuta. L’investimento nella stabile organizzazione, infatti, è realizzato direttamente dalla società italiana che con la sua stabile organizzazione forma un unico soggetto giuridico. Ciò determina, in sostanza, una “partecipazione diretta” dei soci della casa madre nella stabile organizzazione esente. Naturalmente, la tassazione integrale in capo ai soci italiani degli utili provenienti da una stabile organizzazione black list, inclusa nel 10 Si segnala come il co. 3 dell’art. 168-ter non richiama espressamente il co. 5-bis dell’art. 167 del TUIR ai fini della disapplicazione del regime CFC alle stabili organizzazioni estere. Tuttavia, a parere di chi scrive, in attesa di chiarimenti ufficiali sul tema, ciò non dovrebbe essere inteso come una mancata applicazione a tale fattispecie del citato co. 5-bis. Quest’ultimo, infatti, è stato fino ad oggi ufficialmente riconosciuto come parte integrante della prima esimente. Si veda, sul punto, la circolare Agenzia Entrate 6.10.2010 n. 51. 11 Così Mayr S., cit., p. 645 e ss. perimetro di esenzione, avrà luogo a seguito della dimostrazione dell’esimente di cui al comma 5 lett. a) dell’art. 167 del TUIR. In questo caso, per attenuare la doppia imposizione in capo ai soci, dovrebbe essere riconosciuto il credito indiretto per le imposte pagate all’estero dalla stabile organizzazione non appena entreranno in vigore le nuove disposizioni di cui agli artt. 47 comma 4 e 89 comma 3 del TUIR, come rivisitati dall’art. 3 del DLgs. 147/200512. Non si dovrebbe invece avere la tassazione integrale degli utili in capo ai soci italiani in caso di applicazione delle ulteriori esimenti previste dal regime CFC. In queste ipotesi, quindi, gli utili delle stabili organizzazioni affluiranno direttamente all’impresa residente in esenzione e in caso di successiva distribuzione ai soci di quest’ultima, concorreranno alla formazione del reddito in misura pari al 95% (art. 89 comma 3 del TUIR) o al 49,72% (artt. 47 comma 1 e 59 del TUIR) in ragione della diversa natura del socio. Si potrebbero, pertanto, generare situazioni complesse in cui in compresenza di stabili organizzazioni di diversa origine e caratterizzazione, l’opzione per il regime di esenzione richiederà addirittura una ripartizione degli utili da esse generati in ciascun esercizio, di cui l’impresa residente dovrà tener conto nel momento della distribuzione ai soci: 1.gli utili generati dalle stabili organizzazione in Paesi white list (che non avverano i requisiti di cui alle lett. a) e b) del comma 8-bis dell’art. 167 del TUIR per l’applicazione del regime CFC oppure che, pur avverando i predetti requisiti, possono dare la prova liberatoria di cui al comma 8-ter del citato articolo), godranno dell’ordinario regime di esclusione parziale della formazione del reddito, in misura diversa in ragione della diversa natura del socio; 2.gli utili generati dalle stabili organizzazioni black list o white list (per le quale, in mancanza di circostanze esimenti, troverà applicazione il regime CFC), verranno completamente esclusi dal reddito ai soci; 3.gli utili generati dalle stabili organizzazioni black list (che, avendo le condizioni per la disapplicazione del regime CFC in presenza dell’esimente di cui alla lett. a) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR, hanno goduto della branch exemption), concorreranno al reddito dei soci per il loro intero ammontare. Come già detto potrà, in tal ultimo caso, essere riconosciuto il credito indiretto per le imposte pagate all’estero dalla stabile organizzazione. Va da sé che, se sussisteranno le condizioni applicative della seconda esimente di cui alla lett. b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR, gli utili dovrebbero seguire le regole di cui al precedente punto 1. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi difficilmente riscontrabile nella realtà, e sulla quale sarebbe opportuno un esplicito chiarimento da parte dell’Amministrazione finanziaria. Si presentano infine alcune criticità strettamente connesse con la scelta del nostro legislatore di ampliare il perimetro applicativo del regime di esenzione anche a persone fisiche, enti non commerciali e società di persone. Per questi soggetti, infatti, la tassazione dei dividendi non potrà seguire le regole sopra delineate e i profitti esenti della stabile organizzazione potranno affluire alla sfera personale degli imprenditori individuali, enti e soci di società di persone senza ulteriori prelievi. Problemi analoghi di coordinamento si pongono, a parere di chi scrive, anche per i soci non residenti della società che subiranno il medesimo prelievo a titolo d’imposta sugli utili ad essi attribuiti, anche se provenienti da strutture esenti black list. 12 A ben vedere la situazione non è dissimile da quella oggetto della risoluzione Agenzia Entrate 3.10.2008 n. 368, nella quale con riferimento ad un consorzio con stabile organizzazione all’estero si è ammessa la possibilità che il credito per le imposte assolte all’estero dal consorzio sugli utili della propria stabile organizzazione sia trasferito ai consorziati stante l’impossibilità per lo stesso consorzio di utilizzare il credito. 127 5 Il meccanismo di recapture LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 delle perdite 128 I commi 7, 8 e 9 del nuovo art. 168-ter del TUIR disciplinano il c.d. meccanismo recapture delle perdite. La finalità di tali disposizioni è quella di mettere sullo stesso piano l’impresa che, in sede di costituzione della sua prima stabile organizzazione, opta dall’inizio per il regime di esenzione e l’impresa che invece ha già delle stabili organizzazioni ed intende passare dal metodo del credito d’imposta a quello dell’esenzione. In tal senso, infatti, quest’ultima potrebbe trovarsi in una situazione di vantaggio in virtù delle minori imposte pagate nei periodi d’imposta precedenti a seguito dell’imputazione delle perdite fiscali delle sue stabili organizzazioni, che sono andate ad abbattere direttamente la sua base imponibile. Al fine di sterilizzare possibili effetti distorsivi è stato così previsto (in via transitoria) il recapture delle perdite della stabile organizzazione che sono state “imputate” nel precedente quinquennio al reddito della casa madre residente, in misura pari all’eccedenza rispetto agli utili di ciascuna stabile organizzazione. A tal fine, l’impresa sarà tenuta ad indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’origine dell’opzione, gli utili e le perdite di ogni entità estera. In presenza di una perdita netta di quinquennio, gli utili successivamente realizzati da quella stessa stabile organizzazione non potranno godere dell’esenzione fino a concorrenza dell’ammontare di questa stessa perdita. Dall’imposta relativa a questi utili, l’impresa potrà, comunque, scomputare “ordinariamente” le eventuali eccedenze di imposta estera riferibili alla stabile organizzazione secondo le regole poste dall’art. 165 comma 6 del TUIR. Inoltre, i commi 8 e 9 del nuovo art. 168-ter, prevedono delle disposizioni antielusive volte ad evitare un aggiramento del recapture delle perdite mediante trasferimento a qualsiasi titolo della stabile organizzazione, prima o in vigenza dell’opzione, ad un’altra impresa del gruppo che abbia già optato per il regime di esenzione. Tale comportamento, è contrastato prevedendo che in caso di trasferimento a qualsiasi titolo di una stabile organizzazione soggetta al meccanismo del recapture, quest’ultimo passi da cedente al cessionario infragruppo, che pertanto sarà costretto ad assoggettare ad imposizione i redditi della medesima stabile organizzazione fino al totale riassorbimento del recapture. In altri termini, il recapture segue la stabile organizzazione che lo ha generato fino al suo totale riassorbimento o alla liquidazione delle medesima stabile organizzazione. Nell’atto di trasferimento, pertanto, l’impresa cedente dovrà indicare l’ammontare dell’eventuale recapture relativo alla stabile organizzazione oggetto di trasferimento. 6 I rapporti con l’Agenzia delle Entrate Al fine di sviluppare con il contribuente un rapporto di trasparenza e collaborazione, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a pubblicare e ad aggiornare periodicamente sul proprio sito esemplificazioni delle fattispecie ritenute elusive del regime di branch exemption. Con lo stesso obiettivo, l’impresa residente è altresì ammessa a presentare una specifica istanza di interpello ai sensi dell’art. 1 della L. 27.7.2000 n. 212 (“Statuto del contribuente”), in merito alla sussistenza di una stabile organizzazione all’estero. Naturalmente, come anche chiarito dallo stesso legislatore al comma 11 del nuovo art. 168ter del TUIR, la configurabilità “preventiva” di una stabile organizzazione dovrà essere valutata in base ai criteri previsti da accordi internazionali contro le doppie imposizioni, ovvero, alternativamente, seguendo le disposizioni dell’art. 162 del TUIR. 7 Decorrenza e regime transitorio Le disposizioni del nuovo art. 168-ter del TUIR si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del DLgs. 147/2015. Per i soggetti aventi la durata del periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, quindi, l’opzione potrà essere esercitata a partire dal 2016. Un regime transitorio è previsto, invece, per le stabili organizzazioni già esistenti. Per tali fattispecie, le imprese potranno esercitare l’opzione entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni in esame, con effetto dal periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione. Conseguentemente, in tal caso, salvo diversi chiarimenti ufficiali sul tema, per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, l’opzione sembrerebbe poter essere esercitata sino al termine del 2017. La possibilità di avere più tempo per l’esercizio dell’opzione, dovrebbe (si spera) ritenersi riconosciuta anche alle imprese che si trovino a costituire la prima stabile organizzazione nel corso del 2016, pena una discriminazione non voluta e, forse, non del tutto giustificabile. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo saranno individuate le modalità applicative delle norme. 129 04 IL FISCO CHE VERRÀ IL FISCO CHE VERRÀ RIDOTTO A 5 ANNI IL PERIODO DI AMMORTAMENTO DI AVVIAMENTO E MARCHI A SEGUITO DI AFFRANCAMENTO Giacomo ALBANO Dottore Commercialista – Partner Studio Legale Tributario EY Il disegno di legge di stabilità riduce da 10 a 5 anni il periodo di ammortamento dei maggiori valori di avviamento e marchi, qualora tali maggiori valori emergano nell’ambito di operazioni straordinarie neutrali e siano affrancati ai sensi dell’art. 15 comma 10 del DL 185/2008. La deducibilità in 5 esercizi opera indipendentemente dall’imputazione a Conto economico e pertanto potranno beneficiare delle nuove regole sia i soggetti IAS adopter, per i quali le attività immateriali a vita utile indefinita non sono normalmente ammortizzabili, che i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, anche se in bilancio ammortizzano marchi ed avviamento in un periodo superiore a cinque esercizi. 1 Premessa Con il disegno di legge di stabilità il periodo di deducibilità fiscale di avviamento e marchi viene portato a cinque anni. Condizione richiesta è che i relativi valori siano iscritti in bilancio a seguito di operazioni straordinarie fiscalmente neutrali e siano oggetto di affrancamento, ai sensi dell’art. 15 comma 10 del DL 29.11.2008 n. 185. Si tratta del regime di riallineamento dei maggiori valori iscritti a seguito di operazioni straordinarie alternativo a quello ordinario previsto dal TUIR che, a fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva del 16% indipendentemente dai valori coinvolti, consente la deduzione dei maggiori valori imputati ad avviamento e marchi in dieci esercizi. Secondo la modifica normativa, che interviene sul testo dell’art. 15 comma 10, la deduzione dei maggiori valori dell’avviamento e dei marchi affrancati potrà avvenire in misura non superiore ad un quinto (anziché ad un decimo) – indipendentemente dall’imputazione a Conto economico – con riferimento alle operazioni di aggregazioni aziendale poste in essere a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015. La modifica normativa è per certi versi “complementare” alla disciplina del c.d. superammortamento contenuta nel Ddl. stabilità; mentre con il super-ammortamento si agevola – con la possibilità di maggiorare del 40% il costo ammortizzabile – l’acquisto di determinati beni materiali strumentali effettuati entro il 31 dicembre 2016, con la modifica al regime di affrancamento si incentivano le operazioni di riorganizzazione aziendale da cui emergono beni immateriali (marchi ed avviamento). A differenza della normativa sul super-ammortamento, peraltro, la nuova disciplina del riallineamento – che incentiva anche le operazioni 131 di emersione dei maggior valori nell’ambito delle operazioni di riorganizzazione infragruppo (c.d. operazioni under common control per usare una terminologia IAS/IFRS) – ha carattere permanente, e quindi rappresenta una normativa a regime. 2 La neutralità fiscale LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 delle operazioni straordinarie 132 Il regime fiscale delle operazioni straordinarie effettuate nell’esercizio di impresa è improntata ad un regime generale di neutralità e di continuità dei valori fiscali: da una parte, in capo ai soggetti partecipanti, non emergono plusvalenze imponibili o minusvalenze deducibili, dall’altra il soggetto “avente causa” subentra nella medesima posizione fiscale del “dante causa”, conservando l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto in capo a quest’ultimo degli elementi attivi e passivi in cui subentra. La neutralità fiscale non rappresenta una normativa agevolativa o di particolare favore – trattandosi come evidenziato di un regime essenzialmente simmetrico – ma una normativa di sistema, coerente con l’assenza di fenomeni realizzativi tipici delle operazioni a carattere successorio (fusioni e scissioni), cui sono equiparate ai fini fiscali le operazioni di conferimento d’azienda o ramo d’azienda; queste ultime, pur avendo carattere realizzativo da un punto di vista civilistico, sono fiscalmente equiparate alle operazioni civilisticamente neutrali a causa delle finalità essenzialmente riorganizzative ordinariamente perseguite tramite le stesse. Nel nostro ordinamento tributario il principio di neutralità fiscale caratterizza, pertanto, le operazioni di fusione, scissione e conferimento d’azienda, ai sensi degli artt. 172, 173 e 176 del TUIR1. Esso rende irrilevante ai fini delle imposte dirette l’iscrizione nel bilancio della società incorporante (in caso di fusione), beneficiaria (in caso di scissione) o conferitaria (in caso di conferimento d’azienda/ramo d’azienda) di elementi patrimoniali a valori diversi da quelli fiscalmente riconosciuti in capo al soggetto incorporato, scisso o conferente. Ciò non impedisce, evidentemente, l’iscrizione in bilancio – redatto secondo i principi contabili nazionali – delle attività acquisite ai valori di mercato; in tal senso l’art. 2504-bis c.c. – con riferimento alla fusione2 – stabilisce espressamente che il disavanzo da annullamento dovrebbe essere imputato, ove possibile, agli elementi dell’attivo e del passivo della società incorporata e, per la differenza ad avviamento3. In presenza iscrizione di maggiori (minori) valori imputati agli elementi dell’attivo o all’avviamento viene, tuttavia, negata la rilevanza fiscale dei maggiori (o minori) valori rispetto al costo fiscalmente riconosciuto anteriormente all’operazione. 3 I regimi sostitutivi Naturale conseguenza del diverso regime ci- 1 Al contrario, non ricade mai nel regime di neutralità l’operazione di cessione d’azienda, che riveste sempre carattere realizzativo, mentre le operazioni di scambio di partecipazioni di controllo e di collegamento (tramite conferimento o permuta), pur assumendo ordinariamente carattere realizzativo, possono beneficiare del regime c.d. di realizzo controllato o neutralità indotta, ai sensi degli artt. 175 e 177 del TUIR. 2 Lo stesso dicasi in caso di scissione, posto il richiamo al co. 4 dell’art. 2504-bis c.c. contenuto nell’art. 2506-ter c.c., mentre per il conferimento, trattandosi di operazione civilisticamente realizzativa, l’iscrizione dei cespiti conferiti a valori correnti è connaturata con il carattere dell’operazione stessa. 3 L’impostazione è diversa per i soggetti che adottano i principi contabili internazionali, in base ai quali le operazione realizzate all’interno del medesimo gruppo difettano dei requisiti per essere contabilizzata applicando l’IFRS n. 3 (tramite il c.d. “metodo dell’acquisto”), ma devono essere contabilizzate in continuità dei valori contabili. In tale ottica, nel documento Assirevi OPI marzo 2007 n. 1, in Banca Dati Eutekne, è previsto che, per ragioni di prudenza, la società avente causa nell’operazione straordinaria storni la parte del valore che eccede il valore contabile dei beni ricevuti attraverso una rettifica in diminuzione del patrimonio netto. vilistico e fiscale è, quindi, il generarsi di un doppio binario, ovvero di un disallineamento tra valori contabili e fiscali. Proprio con la finalità di riassorbire i disallineamenti che vengono a generarsi a seguito di operazioni straordinarie, sono previsti due distinti regimi opzionali che consentono alla società avente causa (incorporante, beneficiaria o conferitaria) di riconoscere fiscalmente – ovvero riallineare – i maggiori valori iscritti in bilancio in esito a dette operazioni, eliminando o riducendo il disallineamento con i valori civilistici. Caratteristica comune dei due regimi opzionali è che: • il riconoscimento dei maggiori valori contabili iscritti in bilancio avviene attraverso il pagamento di un’imposta sostitutiva e • l’opzione è finalizzata a favorire il ravvicinamento del reddito imponibile ai risultati di bilancio dei soggetti coinvolti nelle operazioni straordinarie. Il primo regime sostitutivo (regime “ordinario”) è quello disciplinato dal TUIR, all’art. 176 comma 2-ter4 e consente al soggetto conferitario (incorporante o beneficiario) di optare, in tutto o in parte, sui maggiori valori delle immobilizzazioni materiali e immateriali che emergono a seguito dell’operazione straordinaria, per l’applicazione di un’imposta sostitutiva “a scaglioni”: • 12% sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di 5 milioni di euro; • 14% sulla parte dei maggiori valori che eccede 5 milioni di euro e fino a 10 milioni di euro; • 16% sulla parte dei maggiori valori che eccede i 10 milioni di euro. L’opzione per l’affrancamento dei maggiori valori può essere esercitata nel primo o nel secondo periodo d’imposta successivo a quello di effettuazione dell’operazione, mediante opzione da esercitare, rispettivamente, nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è posta in essere l’operazione ovvero in quella del periodo d’imposta successivo. Ad esempio, in relazione ad un’operazione di conferimento d’azienda, fusione o scissione perfezionata nel periodo d’imposta 2015, l’opzione per il regime di imposizione sostitutiva potrà essere esercitata nella dichiarazione dei redditi relativa al 2015, facendo riferimento ai disallineamenti esistenti alla chiusura del 2015. L’opzione può essere esercitata anche nel secondo periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata effettuata l’operazione, quindi nell’esempio al più tardi nella dichiarazione dei redditi 2016, facendo riferimento ai disallineamenti ancora esistenti al 31 dicembre 2016. I maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini dell’IRES e dell’IRAP a partire dallo stesso periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione5. In caso di vendita dei beni affrancati anteriormente al quarto periodo d’imposta successivo a quello dell’opzione (periodo di sorveglianza), è prevista un meccanismo di recapture dell’affrancamento. Il versamento dell’imposta sostitutiva deve avvenire obbligatoriamente in tre rate; la prima, pari al 30% dell’importo complessivamente dovuto, entro il termine per il versamento a saldo dell’imposta sul reddito e dell’IRAP relative al periodo d’imposta dell’operazione ovvero, in caso di opzione ritardata, a quello successivo; la seconda, pari al 40%, e la terza, pari al 30%, entro il termine per il versamento a saldo dell’IRES e dell’IRAP relative, rispettivamente, al primo e al secondo ovvero al secondo e al terzo periodo successivi a quello dell’operazione. Il regime di affrancamento ordinario, tuttavia, non ha avuto particolare appeal, soprattutto per le grandi imprese; infatti, a fronte del versamento della sostitutiva in tre rate annuali, il recupero fiscale dei valori affrancati avviene su periodi medio/lunghi, in particolare quando i maggiori valori si riferiscono ad avviamen- 4 Applicabile ai i conferimenti d’azienda o rami d’azienda e richiamato dagli artt. 172 co. 10-bis e 173 co. 15-bis, per fusioni e scissioni. 5 Negli esempi precedenti, pertanto, dal 2016 o, in caso di opzione ritardata, dal 2017. 133 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 134 to e marchi, fiscalmente ammortizzabili in un arco temporale minimo di 18 esercizi. La convenienza è tanto minore quanto più elevati sono i valori da affrancare, in quanto al crescere dei disallineamenti oltre i 10 milioni di euro l’onere della sostitutiva tende verso l’aliquota marginale del 16%. Inoltre, per i soggetti IAS adopter, la possibilità di dedurre le quote di ammortamento si scontra, da un lato, con le regole contabili che non prevedono la possibilità di ammortizzare i beni immateriali a vita utile indefinita, dall’altro con le regole fiscali generali (art. 109 comma 4 del TUIR) che impongono la preventiva imputazione a Conto economico per la deducibilità dei costi. Per far fronte a queste esigenze, l’art. 15 commi 10, 11 e 12, del DL 185/2008 ha introdotto una forma di riallineamento alternativa, limitata solo ad alcune attività immateriali iscritte nel bilancio a seguito di operazioni straordinarie ed accessibile a tutte le imprese (anche se pensata soprattutto per quelle di maggiori dimensioni). L’opzione per il riallineamento alternativo è ammessa esclusivamente in relazione ai maggiori valori attribuiti in bilancio all’avviamento, ai marchi d’impresa e alle altre attività immateriali, risultanti dalle citate operazioni straordinarie, e si perfeziona con il versamento, in unica soluzione, di un’imposta sostitutiva del 16% a prescindere dai valori coinvolti. La sostitutiva va versata entro il termine di versamento a saldo delle imposte relative all’esercizio nel corso del quale è stata posta in essere l’operazione straordinaria. Il diritto alla deduzione fiscale delle quote di ammortamento in relazione ai maggiori valori affrancati decorre dal periodo d’imposta successivo a quello nel corso del quale è versata l’imposta sostitutiva; pertanto, la deduzione fiscale delle quote di ammortamento decorre normalmente dal secondo esercizio successivo a quello di realizzazione dell’operazio- ne, ovvero con un anno di ritardo rispetto all’affrancamento ordinario. Anche in questa forma di opzione, ai fini della determinazione della plus/minusvalenza in ipotesi di realizzo delle attività immateriali oggetto di riallineamento, i maggiori valori fiscali assoggettati ad imposta sostitutiva rilevano a decorrere dal quarto periodo d’imposta successivo a quello di esercizio dell’opzione (c.d. periodo di sorveglianza). Il vantaggio di questa opzione deriva dalla circostanza che la stessa consente di ammortizzare fiscalmente i maggiori valori affrancati in 10 anni6 anziché in 18 anni, indipendentemente dall’imputazione a Conto economico. Ciò è di particolare rilievo per i soggetti IAS adopter, per i quali, come già evidenziato, le attività immateriali a vita utile indefinita – quale l’avviamento – non sono ammortizzabili, ma unicamente assoggettabili ad impairment; ma anche per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, che possono dedurre i valori affrancati in 10 anni, anche in presenza di ammortamento in bilancio dell’asset in un arco temporale più ampio. La possibilità di effettuare l’ammortamento in via extracontabile in 10 esercizi, peraltro, vale solo in caso di affrancamento di marchi o avviamento, mentre in caso di affrancamento di “altre attività immateriali” la deduzione avviene nei limiti della quota effettivamente imputata a Conto economico. 4 La riduzione dell’ammortamento a 5 anni Anche il regime di affrancamento “alternativo”, peraltro, non risulta particolarmente allettante, quanto meno considerando esclusivamente i profili economico-finanziari associati al recupero dei maggiori valori affrancati7. 6 Inizialmente il periodo di deduzione fiscale dei maggiori valori era stato fissato in nove anni, poi esteso a dieci dall’art. 2 co. 59 del DL 29.12.2010 n. 225 (DL Milleproroghe), conv. L. 26.2.2011 n. 10. 7 In prospettiva, la convenienza potrebbe ridursi ulteriormente in presenza della prospettata riduzione dell’aliquota ordinaria IRES al 24%. In realtà, il ricorso all’affrancamento è risultato decisamente conveniente per il sistema bancario ove associato alla contabilizzazione delle imposte anticipate (DTA) ed in presenza di perdite; in tale ipotesi, infatti, era consentita la conversione di tali DTA in crediti di imposta, da utilizzare immediatamente in compensazione senza limiti di importo. In situazioni di perdita, pertanto, la monetizzazione immediata delle DTA derivanti dall’affrancamento degli intangibles rendeva immediatamente fruibili – sotto forma di credito d’imposta – quelli che nell’impianto normativo previsto dal legislatore del DL 185/2008 dovevano essere benefici futuri conseguiti sotto forma di maggiori ammortamenti deducibili in dieci anni 8. In questo scenario interviene il disegno di legge di stabilità 2016, prevedendo che, per i riallineamenti effettuati ai sensi dell’art. 15 comma 10 del DL 185/2008, il periodo di deducibilità degli ammortamenti sui maggiori valori affrancati di marchi ed avviamenti è ridotto da 10 a 5 anni; da un punto di vista letterale, la modifica è attuata sostituendo nel testo del comma 10 citato le parole “in misura non superiore ad un decimo” con “in misura non superiore ad un quinto”. Per le altre attività immateriali resta invece immutata la deducibilità dei plusvalori affrancati nel limite della quota imputata a Conto economico. Ferme restando tutte le altre modalità di applicative dell’affrancamento (versamento imposta sostitutiva, decorrenza degli effetti, ecc.), viene, quindi, prevista una misura ancor più favorevole rispetto a quella attualmente riconosciuta dal regime di affrancamento “ordinario”, che a questo punto diventa decisamente poco attraente per l’affrancamento di avviamento e marchi; infatti nell’affrancamento ordinario, pur a fronte di un’aliquota dell’imposta sostitutiva leggermente inferiore (12% - 14% - 16%), con versamento in tre rate, la deducibilità dei maggiori valori avviene in 18 anni anziché in 5. Come già evidenziato, poiché l’ammortamento fiscale di marchi ed avviamento prescinde dall’imputazione a Conto economico, potranno beneficiare della nuova misura anche i soggetti IAS adopter, per i quali le attività immateriali a vita utile indefinita – tipicamente avviamento e marchi – non sono ammortizzabili, ma unicamente assoggettabili ad impairment; per questi soggetti la deduzione dei valori affrancati avverrà in via extracontabile in dichiarazione dei redditi. Anche per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, l’ammortamento dei maggiori valori affrancati relativi a marchi e avviamento sarà deducibile fiscalmente in cinque esercizi, a prescindere dal periodo di ammortamento adottato in bilancio 9. Ad esempio, in presenza di un processo di ammortamento dell’avviamento (o dei marchi) in bilancio in dieci esercizi, i valori affrancati saranno deducibili in cinque periodo d’imposta, attraverso variazioni in diminuzione operate in via extracontabile in dichiarazione dei redditi. Ciò evidentemente, richiederà lo stanziamento di imposte differite in bilancio, da riassorbire al termine dell’ammortamento fiscale, quando a Conto economico verranno imputate le quote di ammortamento non più deducibili. Va peraltro ricordato che nel regime dell’affrancamento del DL 185/2008 il maggior valore delle attività immateriali si considera riconosciuto ai fini dell’ammortamento fiscalmente deducibile solo a decorrere dal periodo d’imposta successivo al versamento dell’imposta sostitutiva; pertanto, per i soggetti non IAS l’ammortamento civilistico operato sul maggior valore iscritto in bilancio a seguito dell’operazione straordinaria decorre normalmente dal secondo esercizio precedente a quello di ef- 8 Tale possibilità di combinare gli effetti dell’affrancamento con la conversione delle DTA è oggi venuta meno per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 17 del DL 27.6.2015 n. 83 che ha eliminato la possibilità di trasformazione di DTA in credito d’imposta relative al valore dell’avviamento e delle attività immateriali. 9 Circolare Agenzia Entrate 11.6.2009 n. 28. 135 ficacia fiscale dell’affrancamento10; ciò comporta che, nel periodo in cui emerge in bilancio il maggior valore da affrancare e nel periodo successivo, l’ammortamento effettuato risulterà indeducibile (con rilevazione di imposte anticipate), per essere poi deducibile in quinti (con rilevazione di imposte differite in caso di ammortamento civilistico in un arco temporale più elevato) a decorrere dall’esercizio successivo a quello in cui avviene il pagamento della sostitutiva. 5 Il riallineamento LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 delle partecipazioni o di controllo 136 Come accennato, il disegno di legge di stabilità interviene sul testo del comma 10 dell’art. 15 del DL 185/2008; la modifica, tuttavia, dovrebbe avere effetti anche sulla disciplina dell’affrancamento dei plusvalori impliciti nelle partecipazioni di controllo, regolamentata dai successivi commi 10-bis e 10-ter. La disciplina dell’affrancamento dei plusvalori impliciti è stata introdotta dall’art. 23 commi da 12 a 15 del DL 6.7.2011 n. 98, che ha appunto esteso le ipotesi di affrancamento “alternativo” anche ai maggiori valori impliciti nelle partecipazioni di controllo, introducendo una opzione, inizialmente una tantum, esercitabile con riferimento ad operazioni effettuate sino al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 201011. La legge di stabilità 201412 ha poi ripristinato – pur con alcune modifiche – la disciplina, attribuendo carattere permanente al regime opzionale. In particolare, è consentito affrancare attraverso il versamento di un’imposta sostitutiva del 16%: • i maggiori valori delle partecipazioni di controllo emersi a seguito di operazioni straor- dinarie neutrali, se incluse nel perimetro di consolidamento, purché tali maggior valori siano iscritti in via autonoma nel bilancio consolidato a titolo di avviamento, marchi d’impresa e altre attività immateriali (comma 10-bis dell’art. 15 del DL 185/2008); • i maggiori valori – sempre ove imputati ad avviamento, marchi di impresa e altre attività immateriali nel bilancio consolidato – delle partecipazioni di controllo acquisite nell’ambito di operazioni di cessione di azienda ovvero di partecipazioni (comma 10-ter dell’art. 15 del DL 185/2008). Il comma 10-bis consente pertanto l’affrancamento dei maggiori valori che emergono nel bilancio consolidato nell’ambito di operazioni straordinarie fiscalmente neutrali (fusione, scissione, e conferimento d’azienda, cui sono equiparati i conferimenti e gli scambi di partecipazioni di controllo), mentre il comma 10-ter consente l’affrancamento dei maggiori valori riflessi nel valore di una partecipazione emersi a seguito di operazioni fiscalmente realizzative, quali l’acquisto di azienda (nel cui ambito sono ricomprese partecipazioni di controllo) o di partecipazioni; anche in questa ipotesi, comunque, il riallineamento è concesso a condizione che i maggiori valori siano autonomamente esposti nel bilancio consolidato a titolo di avviamento, marchi e altri asset immateriali. Il meccanismo di affrancamento consente, ad esempio, al soggetto che acquista una partecipazione di controllo di ottenere, con il pagamento dell’imposta sostitutiva, il riconoscimento fiscale del maggior valore pagato rispetto al patrimonio netto contabile della partecipata pur in assenza di incorporazione della controllata, il tutto a condizione che tale plusvalore (computabile nella differenza tra il costo di acquisto della partecipazione ed il relativo patrimonio netto contabile) sia attribuito nel bilan- 10 Ad esempio, in caso di operazione straordinaria realizzata nel 2015, l’imposta sostitutiva sarà versata a giugno 2016 e gli ammortamenti fiscali sull’avviamento saranno deducibili a decorrere dal 2017. Gli ammortamenti civilistici verranno invece imputati dal bilancio 2015. 11 Termine poi esteso al 31.12.2011 per effetto dell’art. 20 del DL 6.12.2011 n. 201. 12 Art. 1 co. 150 della L. 27.12.2013 n. 147. cio consolidato alla voce avviamento, marchi o altra attività immateriale. Ciò consente, pertanto, di ottenere lo stesso effetto finale, vale a dire il riconoscimento fiscale del maggior valore delle partecipazioni di controllo, senza dover ricorrere alla fusione. Sotto il profilo applicativo, i commi 10-bis e 10ter del DL 185/2008 non introducono un’autonoma disciplina fiscale per gli affrancamenti delle partecipazioni, ma estendono la disciplina prevista dal comma 10 alle ulteriori fattispecie dei plusvalori impliciti nelle partecipazioni di controllo, pur se con alcune differenze. In base a tale opzione, infatti, a fronte del pagamento dell’imposta sostitutiva del 16%, i maggiori valori affrancati – attribuiti nel bilancio consolidato ad avviamento, marchi ed altre attività immateriali – si considerano fiscalmente riconosciuti ai fini IRES ed IRAP a decorrere dal secondo periodo d’imposta successivo a quello del pagamento della sostitutiva stessa, ovvero dal terzo periodo di imposta successivo a quello in cui si realizza l’acquisizione della partecipazione di controllo13. Gli effetti si intendono revocati in caso di atti di realizzo riguardanti le partecipazioni di con- trollo, i marchi d’impresa e le altre attività immateriali o l’azienda cui si riferisce l’avviamento affrancato, anteriormente al quarto periodo di imposta successivo a quello del pagamento della sostitutiva. Anche in tale regime è quindi un meccanismo di recapture, analogamente a quanto accade per i regimi contemplati dall’art. 15 comma 10 e dall’art. 176 comma 2-ter, del TUIR14, che però nella disciplina in esame si sviluppa su un duplice livello, avendosi riguardo sia alla partecipazione di controllo che all’asset affrancato. Poiché la disciplina dei plusvalori impliciti nelle partecipazioni di controllo (art. 15 commi 10-bis e 10-ter) richiama la disciplina del comma 10, si ritiene che anche i plusvalori imputati ad avviamento, marchi di impresa e altre attività immateriali nel bilancio consolidato potranno beneficiare dell’ammortamento “accelerato” a seguito del pagamento della sostitutiva del 16%. Anche in tale fattispecie, l’ammortamento accelerato è ammesso con riferimento alle operazioni di acquisizione o aggregazioni aziendale poste in essere a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015. 137 13 Con la L. 24.12.2012 n. 228 (art. 1 co. 502 e 503) è stato, tuttavia, disposto il differimento di un quinquennio dei termini per il riconoscimento dei maggiori valori conseguenti all’affrancamento delle partecipazioni di controllo secondo la disciplina una tantum (dunque per le operazioni effettuate nel periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2010 e 2011). 14 Nell’ambito dei quali a seguito del realizzo il costo fiscale dei beni in precedenza affrancati è ridotto dei maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale ammortamento dedotto medio tempore, mentre l’imposta sostitutiva versata è scomputata dalle imposte sui redditi dovute. 05 CONTABILITÀ E BILANCIO CONTABILITÀ E BILANCIO IL COSTO AMMORTIZZATO NELLA RIFORMA DEL BILANCIO Stefano GUIDANTONI Professore a contratto di Contabilità Internazionale nell’Università di Firenze Dottore Commercialista – Studio Gagliano & Associati, Firenze Il DLgs. 139/2015, recependo la direttiva 34/2013, ha modificato per tratti significativi la normativa del bilancio. Gli interventi riguardano tutto il corpo normativo del bilancio, dai principi generali, agli schemi di bilancio, alla disclosure, per arrivare ai criteri di valutazione. Proprio su questo ultimo punto si rileva l’introduzione del criterio del costo ammortizzato nella valutazione dei crediti, dei debiti e dei titoli (immobilizzati). Detto criterio ha origine dai principi internazionali e deve essere compreso ed interpretato alla luce proprio di tale corpo normativo contabile, come dispone l’art. 2426 c.c. Si pone pertanto l’esigenza di analizzare il nuovo criterio di valutazione del costo ammortizzato, verificando la portata della norma civilistica e sottolineando le conseguenze a livello di prassi contabile nazionale e di normativa fiscale. 1 La riforma del bilancio di esercizio Il DLgs. 18.8.2015 n. 139, in recepimento della direttiva 34/2013, ha profondamente modificato la normativa di bilancio contenuta nel codice civile, sempre più improntato su una logica ispirata ai principi contabili internazionali IAS/IFRS. L’introduzione contenuta nella proposta del Ministero delle Finanze sottolineava gli obiettivi del recepimento della suddetta direttiva: • la differenziazione degli obblighi informativi in base ad alcune soglie dimensionali dell’impresa; • l’introduzione di una nuova categoria di imprese, le “micro imprese”, che si avvalgono di un regime di contabilità partico- larmente semplificato; • l’utilizzo di alcuni moderni istituti contabili già contemplati dai principi contabili internazionali IAS/IFRS, quali l’indicazione a bilancio del “fair value” per gli strumenti finanziari derivati, diverse modalità di imputazione relativamente al “costo ammortizzato” e alla “attualizzazione” delle attività e passività finanziarie. Volendo provare a sintetizzare le maggiori variazioni intervenute, è possibile ripartirle in: • cambiamenti nei principi generali: è stato delineato il principio generale della rilevanza; è stato inoltre chiaramente definito il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, sostituendo la precedente versione della funzione economica, mai veramente chiara nei suoi intenti1; 1 I futuri chiarimenti permetteranno di comprendere l’effettiva portata del principio della prevalenza della sostanza sulla forma e del suo reale ambito applicativo. 139 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 140 • cambiamenti negli schemi di bilancio: vengono aggiunte alcune voci sia nello Stato patrimoniale che nel Conto economico (ad esempio, sono introdotte voci specifiche per rappresentare i rapporti con le consorelle e i derivati); sono eliminate altre voci (ad esempio, i conti d’ordine, le spese di pubblicità, le spese di ricerca e i componenti straordinari nel Conto economico); viene introdotto il rendiconto finanziario; • cambiamenti nell’informativa di bilancio: la Nota integrativa prevede specifiche informazioni sui fatti intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio2, sui derivati, sui rapporti con gli amministratori e i sindaci, sulla proposta di destinazione del risultato di esercizio, sulle garanzie e passività potenziali, e sui ricavi e costi di entità o incidenza eccezionali; viene inoltre modificata anche l’informativa in Nota integrativa per le società che predispongono il bilancio in forma abbreviata e per le micro imprese; • cambiamenti nei criteri di valutazione: sono stabilite nuove regole per la contabilizzazione dei derivati speculativi e di copertura; vengono definiti i tempi di ammortamento dell’avviamento; è introdotto il criterio del costo ammortizzato per i titoli immobilizzati, per i crediti e i debiti; • cambiamenti nella misurazione della dimensione aziendale: accanto alle società che redigono il bilancio in forma ordinaria e abbreviata, vengono introdotte le micro società, che predispongono un bilancio con prospetti di bilancio pari a quelli abbreviati, con l’ulteriore semplificazione dell’esonero dalla redazione della Nota integrativa3. Tra le variazioni di maggior rilievo nel campo delle novità nei criteri di valutazione si deve mettere in primo piano l’introduzione del criterio del costo ammortizzato, di matrice spicca- tamente di prassi internazionale. Detto nuovo criterio dovrà trovare una sua declinazione e descrizione a livello di principi contabili OIC. Indubbiamente necessiteranno di una revisione gli OIC 15 (crediti), 19 (debiti), 20 (titoli), 12 (Composizione degli schemi) e 24 (immobilizzazioni immateriali). In questi dovrà essere descritto e illustrato il metodo del costo ammortizzato, per quanto il legislatore non rimetta all’Organismo Italiano di Contabilità la qualificazione del criterio. Detto compito è infatti, per espressa previsione, assegnato allo IASB. Eventualmente l’OIC potrà darne una lettura più focalizzata alle realtà aziendali alle quali ordinariamente parla e quindi alle PMI, oltre a risolvere i punti di incertezza dell’ambito applicativo illustrati nel prosieguo del lavoro. 2 Il costo ammortizzato nel codice civile Il codice civile ha visto introdurre, per la valutazione dei titoli immobilizzati, dei crediti e dei debiti, il costo ammortizzato. Le questioni poste sul punto in esame dal nuovo contenuto del codice civile sono due: • per quali elementi dell’attivo e del passivo deve essere applicato il costo ammortizzato; • come deve essere applicato il costo ammortizzato. Ambito di applicazione In merito al primo punto, si dovrebbe trovare la risposta nell’art. 2426 n. 1 e n. 8 c.c. L’art. 2426 n. 1 c.c. dispone che “le immobilizzazioni rappresentate da titoli sono rilevate in bilancio con il criterio del costo ammortizzato, ove applicabile”. L’ art. 2426 n. 8 c.c. afferma invece che “i cre- 2 Queste informazioni sono state spostate dalla relazione sulla gestione alla Nota integrativa, divenendo pertanto informazione obbligatoria per tutte le imprese. Il n. 22-quater non è escluso per la Nota integrativa abbreviata. 3 In calce al Conto economico, in luogo della Nota integrativa, devono essere riportate le informazioni sugli impegni, garanzie e passività potenziali, nonché sui rapporti con amministratori e sindaci. Sempre in calce devono ritrovarsi le informazioni previste su azioni proprie e azioni e quote di controllanti. diti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale e, per quanto riguarda i crediti, del valore di presumibile realizzo”. TITOLI IMMOBILIZZATI Dalla lettura degli articoli sopra riportati si riesce a dare una parziale risposta al primo quesito posto. Sicuramente il costo ammortizzato è un criterio da applicare ai titoli immobilizzati, anche se non è chiara la portata dell’inciso “ove applicabile”. Ciò sembra sottintendere che esistono titoli per i quali non è possibile applicare il criterio del costo ammortizzato, ma sul punto tanto la legge quanto la relazione di accompagnamento al decreto nulla dicono. Volendo quindi provare a dare un senso applicativo a detto passaggio, si deve ricreare un parallelismo con la prassi internazionale, e in modo particolare con lo IAS 39. In tale principio gli strumenti finanziari attivi sono ripartiti in quattro categorie: • strumenti finanziari a fair value a Conto economico • strumenti finanziari posseduti fino alla scadenza • finanziamenti e crediti • strumenti finanziari disponibili per la vendita La prima e la quarta categoria prevedono un criterio di valutazione basato sul fair value. Solo la seconda e terza categoria di strumenti finanziari sono valutate al costo ammortizzato. Le attività finanziarie che ricadono in questi due ambiti devono presentare alcuni specifici requisiti. Le attività finanziare possedute fino alla scadenza sono attività non derivate, con pagamenti fissi o determinabili e scadenza fissa che la società ha oggettiva intenzione e capacità di possedere sino alla scadenza. I finanziamenti e crediti sono, invece, attività finanziarie non derivate con pagamenti fissi o determinabili non quotati in un mercato attivo. Volendo sintetizzare le caratteristiche delle due categorie, contestualizzandole nell’ambito del bilancio civilistico, al fine di trovare un denominatore comune ai titoli per i quali può essere applicato il criterio del costo ammortizzato, si ritiene che il titolo debba essere: • con scadenza fissa o determinabile; • con pagamenti fissi o determinabili. Come si vedrà nel prosieguo, dette condizioni sono essenziali per poter applicare metodologicamente il criterio del costo ammortizzato. CREDITI L’applicazione del criterio in esame ai crediti non risulta chiara. Il dubbio nasce proprio dal n. 1 dell’art. 2426 c.c., che prevede, per le immobilizzazioni, l’applicazione ai (soli?) titoli. Non è infatti immediatamente comprensibile la precisazione fatta dall’articolo ora citato. In altri termini, si pone la domanda se i crediti immobilizzati diversi dai titoli debbano o meno essere valutati al costo ammortizzato. Volendo darne una prima interpretazione letterale, si potrebbe sostenere che fra le immobilizzazioni finanziarie solo i titoli sono valutati al costo ammortizzato. Con ciò escludendo i crediti immobilizzati, che resterebbero valutati al costo, nel rispetto del primo passaggio contenuto nello stesso punto. Tale lettura sosterrebbe che il n. 1 dell’art. 2426 c.c. prevale, in termini di portata, sul n. 8. In alternativa, si potrebbe affermare invece che il n. 8 riguarda tutti i crediti, immobilizzati e circolanti. In tale approccio, anche i crediti immobilizzati verrebbero valorizzati a costo ammortizzato, trasformando la precisazione del n. 1 in una sorta di nota di chiarimento del n. 8. Dopotutto, anche i titoli sono crediti, ma proprio per la loro particolarità strutturale, nella volontà del legislatore necessitavano di una precisazione. Dovendo orientare il pensiero di chi scrive, la seconda interpretazione risulta più coerente con il sistema costruito dal legislatore. Non avrebbe infatti senso valutare tutti i debiti a costo ammortizzato, senza alcuna distinzione di sorta, per quanto questa non esista nell’impostazione strutturale dello Stato patrimoniale, e parallelamente creare distinzioni sulle attività finanziarie. Optando per la prima interpretazione, si andrebbero paradossalmente a estromettere dalla valutazione a co- 141 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 sto ammortizzato i crediti immobilizzati, che peraltro potrebbero registrare, proprio per la loro durata pluriennale, i maggiori effetti in sede di applicazione del nuovo criterio. 142 TITOLI CIRCOLANTI Altra voce che presenta dei dubbi valutativi è quella dei titoli circolanti. Anche qui la struttura normativa non aiuta. Da una parte si ritrova il n. 1, che richiama i titoli immobilizzati. Il n. 9 dello stesso articolo, non modificato dal decreto in commento, dispone invece che “le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto o di produzione, calcolato secondo il numero 1), ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore”. La questione verte sull’interpretazione del n. 9. Qui si legge che i titoli circolanti devono essere valutati al costo, secondo il numero 1. Nel punto 1 si parla di costo e, contemporaneamente, di una configurazione particolare di costo, il costo ammortizzato. Seguendo l’origine della norma, il n. 9, non modificato, faceva e fa riferimento al n. 1 che nella versione originaria prevedeva solo il criterio del costo. Si deve pertanto presumere, in assenza di modificazioni allo stesso n. 9, che il riferimento sia sempre e solo al costo e non al costo ammortizzato. Detta interpretazione, oltre ad essere aderente al dettato normativo, è sensata in termini di rilevanza dell’impatto del costo ammortizzato per i titoli circolanti. Applicare, infatti, tale criterio ai titoli a breve termine renderebbe complessa la valutazione di detti asset, con effetti economici marginali se non irrilevanti. Per contro, analoghi effetti vi dovrebbero essere per i crediti circolanti, anche se nessuna esclusione è stata prevista. L’esclusione si realizzerebbe comunque in applicazione del principio di rilevanza, ora statuito dall’art. 2423 c.c. Peraltro, la volontà del legislatore di limitare l’applicazione del costo ammortizzato ai titoli immobilizzati è confermata dall’art. 2435bis c.c., dove esplicitamente si esclude l’uso di detto criterio per i soli titoli immobilizzati4. DEBITI Restando in ambito applicativo del criterio in argomento, anche i debiti sono valutati al costo ammortizzato, senza distinzione di natura e durata. Per questi non paiono ravvisarsi dubbi interpretativi se non quello di dover applicare il criterio a tutti i debiti, di qualsiasi natura e qualsiasi scadenza. Metodologia di applicazione Definite le voci da valutare secondo il costo ammortizzato, si pone il secondo quesito e cioè secondo quale metodo deve essere applicato detto criterio. L’art. 2426 c.c. dispone che “Ai fini della presente Sezione, per la definizione di «strumento finanziario», di «attività finanziaria» e «passività finanziaria», di «strumento finanziario derivato», di «costo ammortizzato», di «fair value», di «attività monetaria» e «passività monetaria», «parte correlata» e «modello e tecnica di valutazione generalmente accettato» si fa riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea”. A fronte del contenuto dei nuovi articoli del codice civile, il concetto di costo ammortizzato deve essere compreso e interpretato sulla base delle disposizioni contenute nei documenti di prassi contabile internazionale, come definiti nei regolamenti UE di adozione. Non è certamente questo il luogo per analizzare e commentare tale metodo di legiferare, il quale rimette a organismi esterni (prima lo IASB, poi gli organismi contabili dell’Unione Europea, EFRAG e ARC) oggetti e metodologie contabili per la costruzione del bilancio delle imprese non soggette agli IAS/IFRS. Questo, infatti, impone 4“[…] Le società che redigono il bilancio in forma abbreviata, in deroga a quanto disposto dall’articolo 2426, hanno la facoltà di iscrivere i titoli immobilizzati al costo di acquisto, i crediti al valore di presumibile realizzo e i debiti al valore nominale. […]”. ai redattori dei bilanci non IAS di seguire anche regole contabili esterne al sistema contabile di riferimento (il codice civile e i principi OIC), non sempre con tale sistema coerenti. A prescindere da quanto sopra detto, risulta necessario verificare cosa prevedono i principi contabili internazionali in merito al concetto di costo ammortizzato. Il principio contabile IAS 39 dispone che il costo ammortizzato implica che un’attività o una passività deve essere rilevata al termine dell’esercizio ad un valore pari a: Valore di prima iscrizione (–) rimborsi di capitale (+/–) Ammortamento della differenza fra il valore di prima iscrizione e il valore a scadenza (dell’attività o della passività) Il principio IAS 39 (par. 9) afferma infatti che “Il costo ammortizzato di un’attività o passività finanziaria è il valore a cui è stata misurata al momento della rilevazione iniziale l’attività o la passività finanziaria al netto dei rimborsi di capitale, aumentato o diminuito dall’ammortamento complessivo utilizzando il criterio dell’interesse effettivo su qualsiasi differenza tra il valore iniziale e quello a scadenza, e dedotta qualsiasi riduzione (operata direttamente o attraverso l’uso di un accantonamento) a seguito di una riduzione di valore o di irrecuperabilità”. La ripartizione della differenza fra il valore di prima iscrizione e quello a scadenza deve essere effettuata sulla base del criterio di interesse effettivo. Il primo punto che necessita una precisazione sta nell’inciso dell’arti. 2426 n. 8 c.c. dove si afferma che “i crediti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale”. La precisazione del fattore temporale richiede un chiarimento. La relazione di accompagnamento al decreto afferma infatti che “nella nuova formulazione, la norma impone inoltre che la valutazione dei crediti e dei debiti sia effettuata tenendo conto anche del fattore temporale. Ciò implica la necessità di attualizzare i crediti e i debiti che, al momento della rilevazione iniziale, non sono produttivi di interessi (o producono interessi secondo un tasso significativamente inferiore a quello di mercato)”. La stessa relazione prosegue chiarendo che simile previsione non è prevista per i titoli, essendo questi rappresentati da obbligazioni emesse da società private o da titoli pubblici che, di norma, generano interessi di mercato5. Detto passaggio della relazione lascia quindi intendere che tutti i crediti e debiti devono essere attualizzati in prima iscrizione, con conseguente registrazione in apertura al loro valore attuale. Negli esercizi successivi dovranno essere imputati gli interessi (attivi o passivi) che andranno ad aumentare la posta patrimoniale fino a ricomporre il valore nominale. L’attualizzazione riguarderà pertanto anche i crediti e i debiti finanziari, i quali, ad ora, non devono essere espressi a valore attuale, per esplicita previsione dei principi OIC 15 e 196. L’impresa si troverà pertanto ad attualizzare crediti e debiti, rilevando, rispettivamente, un costo da attualizzazione (per i crediti) e un ricavo (per i debiti), poste economiche che ragionevolmente dovranno confluire a Conto economico interamente nell’esercizio di avvio dell’operazione. 5 Sul punto si potrebbe dissentire. Non è infatti improbabile imbattersi i titoli emessi a condizioni non di mercato, soprattutto all’interno di gruppi societari. Tale previsione del fattore temporale poteva essere lasciata applicabile per tutti le voci da valutare a costo ammortizzato, da verificare volta per volta in base al tasso di remunerazione previsto. 6 I due principi citati richiederanno una profonda revisione, in primo luogo volta a definire il criterio del costo ammortizzato e il suo ambito applicativo, e in secondo luogo, a fine di delineare le modalità di attualizzazione. 143 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 144 A tale valore attualizzato devono essere sommate algebricamente altre voci, così da determinare il valore di prima iscrizione 7: • i costi di transazione; • i premi; • gli sconti. Per costi di transazione lo stesso principio IAS 39 specifica che sono “i costi marginali direttamente attribuibili all’acquisizione, all’emissione o alla dismissione di un’attività o di una passività finanziaria (cfr. appendice A, paragrafo AG13). Un costo marginale è un costo che non sarebbe stato sostenuto se l’entità non avesse acquisito, emesso o dismesso lo strumento finanziario”. A titolo esemplificativo, i costi di transazione includono: • gli onorari e le commissioni pagati ad agenti (inclusi i dipendenti che svolgono la funzione di agenti di commercio), consulenti o mediatori e operatori; • i contributi prelevati da organismi di regolamentazione e dalle Borse valori; • le tasse e oneri di trasferimento. Sono invece esclusi dai costi di transazione i premi, gli sconti, i costi di finanziamento, i costi interni amministrativi o di gestione. Determinato il valore di prima iscrizione, il passaggio successivo prevede il conteggio del tasso di interesse effettivo, il tasso cioè di reale onerosità dell’operazione finanziaria. Il tasso effettivo è infatti il tasso che eguaglia il valore iniziale al valore attuale dei pagamenti (o incassi) futuri. “Il criterio dell’interesse effettivo è un metodo di calcolo del costo ammortizzato di un’attivi- tà o passività finanziaria (o gruppo di attività o passività finanziarie) e di ripartizione degli interessi attivi o passivi lungo il relativo periodo. Il tasso di interesse effettivo è il tasso che attualizza esattamente i pagamenti o incassi futuri stimati lungo la vita attesa dello strumento finanziario o, ove opportuno, un periodo più breve al valore contabile netto dell’attività o passività finanziaria”. Sulla base del tasso determinato verranno rilevati a Conto economico gli interessi attivi o passivi. 3 Le questioni fiscali derivanti dall’applicazione del costo ammortizzato La revisione del metodo di valutazione delle poste contabili esaminate e la conseguente doverosa riscrittura di alcuni principi contabili non potranno non avere conseguenze anche sul piano fiscale. La prima ravvisabile è il cambio di qualificazione di un costo. I costi di transazione, prima capitalizzati e annualmente ammortizzati, assumeranno una diversa configurazione economica, divenendo interessi passivi. La conseguenza è certamente rilevante. Se infatti prima detti costi rientravano nella gestione ordinaria ora verranno rilevati nell’area finanziaria. Di conseguenza, ai fini della norma sulla deduzione degli interessi (art. 96 del TUIR), si dovrà rilevare un peggioramento delle condizioni fiscali delle imprese, che vedranno togliersi dalla gestione 7 Un intervento di revisione significativo dovrà essere previsto per l’OIC 24. Questo infatti dispone, nell’attuale versione, che (§ 76): “I costi accessori sostenuti per ottenere finanziamenti, quali le spese di istruttoria, l’imposta sostitutiva su finanziamenti a medio termine, e tutti gli altri costi iniziali sono capitalizzati nell’attivo dello stato patrimoniale (e classificati nella voce “altre” immobilizzazioni immateriali). Se a seguito dell’istruttoria i finanziamenti non sono concessi, i costi iniziali sostenuti sono interamente imputati al conto economico. I costi accessori su finanziamenti sono ammortizzati secondo le disposizioni del paragrafo 94”. Al § 94 viene fissata la durata di tale immobilizzazione immateriale, disponendo che “L’ammortamento dei costi accessori su finanziamenti è determinato sulla durata dei relativi finanziamenti in base a quote calcolate preferibilmente secondo modalità finanziarie, oppure a quote costanti, se gli effetti risultanti non divergono in modo significativo rispetto al metodo finanziario”. Tale ultimo passaggio, con i dovuti aggiornamenti, potrebbe essere conservato. Il metodo a quote costanti di riparto dei costi di transazione e delle differenze di emissione potrebbe infatti portare a risultati non significativamente divergenti dal criterio del tasso effettivo, agevolando, per contro, la compilazione del bilancio medesimo. Detta eventuale precisazione del nostro standard setter risulterebbe inoltre coerente con il nuovo principio generale della rilevanza. caratteristica (e quindi dal ROL) un componente di reddito, peraltro ininfluente nella determinazione della grandezza reddituale sulla quale viene parametrato il limite di deducibilità degli interessi, per trasformarla in interessi sui quali (salvo precisazioni del legislatore fiscale) si applicherà il limite dell’articolo in esame. Ulteriore problematica riguarda l’attualizzazione dei crediti e dei debiti di natura finanziaria. Come sopra illustrato, tale pratica contabile determina un ricavo o costo in sede di attualizzazione e un riversamento di interessi, rispettivamente, passivi e attivi, nel futuro. Il legislatore fiscale dovrà esprimersi su come detti componenti di reddito dovranno essere trattati. Un terzo e ultimo problema, di ordine pratico e temporale, riguarda la modalità di deduzione dei costi di transazione e dei disaggi su prestiti (oltre che la tassazione degli aggi). In chiave pratica, le imprese adottano ad oggi metodi di imputazione a costo di tali voci sulla base di un criterio di ripartizione a quote costanti. Il nuovo criterio del costo ammortizzato prevederà invece una ripartizione temporale dei costi secondo un criterio finanziario e, quindi, con una scansione diversa della ripartizione a quote costanti. ESEMPIO Al fine di chiarire le questioni applicative del costo ammortizzato, si presenta una esemplificazione pratica. La società Alfa spa nel gennaio nell’anno x emette un prestito obbligazionario del valore nominale di € 1.000.000 costituito da 1.000 titoli, collocati sul mercato sotto la pari ad un valore unitario di € 950. Le spese di collocamento del prestito ammontano a € 40.000. Il debito finanziario prevede pagamenti annuali degli interessi al termine di ciascun esercizio ad un tasso del 10%, per una durata di cinque anni e integrale rimborso del capitale alla scadenza del prestito per l’importo nominale. Sulla base delle nuove indicazioni contenute nell’art. 2426 c.c., viene prima di tutto determinato il tasso di interesse effettivo. A tal fine è necessario mettere a confronto i flussi di cassa in entrata derivanti dall’emissione del prestito con i flussi finanziari in uscita derivanti dal servizio dello stesso. I flussi finanziari in entrata sono pari all’ammontare riconosciuto dai sottoscrittori diminuito dei conseguenti costi di transazione. L’importo ammonta a € 910.000 (950.000–40.000). I flussi in uscita sono pari agli interessi periodici (100.000 annui per cinque anni) e al rimborso del capitale al relativo valore nominale (pari a € 1.000.000). Utilizzando la formula TIR.COST è possibile determinare il tasso di interesse effettivo. 145 ESERCIZIO OPERAZIONE x emissione x interessi – 100.000 x+1 interessi – 100.000 x+2 interessi – 100.000 x+3 interessi x+4 interessi e rimborso Tasso effettivo di interesse Sulla base di detto tasso viene ricostruito il piano di ammortamento del prestito, il quale, a fronte di un tasso effettivo superiore del tasso nominale, implicherà la maturazione di interessi effettivi superiori a quelli liquidati ai sotto- IMPORTO 910.000 – 100.000 – 1.100.000 12,530% scrittori del debito. Detti maggiori interessi, non essendo pagati, determinano una lievitazione del debito, che crescerà durante la vita del prestito fino a raggiungere l’importo del rimborso che dovrà essere erogato alla scadenza. CAPITALE INIZIALE RIMBORSI DI CAPITALE INTERESSI PAGATI INTERESSI EFFETTIVI DIFFERENZA CAP. FINE ESERCIZIO x 910.000 - 100.000 114.019 14.019 924.019 x+1 924.019 - 100.000 115.775 15.775 939.794 x+2 939.794 - 100.000 117.752 17.752 957.545 x+3 957.545 - 100.000 119.976 19.976 977.521 x+4 977.521 – 1.000.000 100.000 122.479 22.479 0 A livello di scritture contabili, le spese di collocamento vengono portare in diretta riduzione del debito, aperto inizialmente al valore di sottoscrizione (e quindi non al valore nominale). La rilevazione degli interessi effettivi presenta come contropartita, per la parte pagata, il conto contabile della banca (in uscita) e per la parte non pagata, il conto contabile del prestito obbligazionario. LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 • emissione obbligazioni 146 Banca a Prestito obligazionario a Banca 950.000 • spese di emissione Prestito obligazionario 40.000 • rilevazione interessi Interessi passivi 114.019 a Prestito obbligazionario Banca 14.019 100.000 06 CRISI D’IMPRESA CRISI D’IMPRESA RISTRUTTURAZIONI DEI DEBITI, NOVITÀ PER PASSIVITÀ FINANZIARIE E FINANZA INTERINALE LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Michele BANA Dottore Commercialista, Revisore Legale e Pubblicista 148 Il DL 27.6.2015 n. 83 ha integrato la normativa riguardante gli accordi di ridefinizione delle passività, disciplinando lo specifico caso in cui i debiti siano per almeno il 50% nei confronti di creditori finanziari, prevedendo la possibilità di suddividere costoro in categorie omogenee, per posizione giuridica ed interesse economico (art. 182-septies L. fall.). È stato, inoltre, ampliato l’ambito applicativo, comune al concordato preventivo, dell’assunzione dei finanziamenti prededucibili che possono essere autorizzati anche per fare fronte ad urgenti necessità dell’attività aziendale (art. 182-quinquies L. fall.). 1 Principi generali L’accordo di ristrutturazione dei debiti è disciplinato dall’art. 182-bis del RD 267/1942, che attribuisce al debitore in stato di crisi il diritto di richiedere al Tribunale l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, purché soddisfi, congiuntamente, due requisiti: in primo luogo, è necessario che l’intesa1 sia stata raggiunta con un numero di creditori rappresentanti almeno il 60% delle passività. L’accordo di ristrutturazione dei debiti, sotto il profilo del contenuto, presenta, tra l’altro, le seguenti caratteristiche: • può avere finalità liquidatorie (cessione dell’azienda a terzi, vendita totale o parziale di beni ai creditori, conferimento in una società di nuova costituzione, ecc.), oppure prevedere misure tipicamente conservative, funzionali alla prosecuzione dell’attività aziendale 2 e, quindi, alla salvaguardia del valore dell’impresa, nonché dei livelli occupazionali; 1 L’accordo di ristrutturazione dei debiti rientra nel novero dei contratti, e si perfeziona, quindi, per effetto dello scambio dei consensi tra il debitore ed i creditori, a norma dell’art. 1326 co. 1 c.c., ovvero quando il proponente viene a conoscenza dell’accettazione della controparte. 2 L’oggetto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti può essere, infatti, rappresentato da erogazione di nuova finanza, anche nella forma dell’emissione di un prestito obbligazionario, riduzioni totali o parziali delle passività (capitale e/o interessi), rinunzie agli interessi in corso di maturazione, dilazioni di pagamento, cessioni di attività aziendali non strategiche (ovvero tali da non pregiudicare la continuità aziendale), acquisizione di nuove garanzie a favore dei creditori, effettuazione di operazioni straordinarie o conversione in capitale di una quota dei debiti. • può essere raggiunto con qualsiasi tipologia di creditore3 (ipotecario, privilegiato4, chirografario, ecc.), sulla base dei presupposti ritenuti maggiormente opportuni, non essendovi la necessità – a differenza del concordato preventivo – della suddivisione dei creditori in classi omogenee per posizione giuridica ed interesse economico, né di rispettare la par condicio creditorum. Rileva, pertanto, esclusivamente la circostanza che la proposta di accordo consegua il parere favorevole dei creditori rappresentanti almeno il 60% dei debiti del proponente; • deve garantire l’integrale pagamento dei creditori estranei all’intesa, rispetto ai quali non produce, pertanto, alcun effetto; • deve essere perfezionato almeno nella forma di scrittura privata autenticata, in quanto la pubblicazione, presso il Registro delle imprese, presuppone la certificazione delle sottoscrizioni da parte di un soggetto terzo munito di tale potere. Può essere costituito da un contratto unico, oppure da una pluralità di accordi stipulati dal debitore con singoli creditori o gruppi degli stessi. È, inoltre, indispensabile che il ricorso sia depositato 5 presso la competente cancelleria del Tribunale, unitamente alla seguente documentazione: • gli atti previsti per la richiesta di ammissio- ne alla procedura di concordato preventivo (art. 161 comma 2 L. fall.), ed in particolare: -- una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, ovvero una dettagliata e critica analisi dei bilanci degli ultimi esercizi, ed anche un business plan nel caso in cui l’accordo non abbia finalità liquidatorie, bensì il conseguimento dell’obiettivo di un generale riequilibrio economico e finanziario dell’impresa; -- uno stato analitico ed estimativo delle attività, asseverato dalla relazione di un perito; -- l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi importi e delle eventuali cause legittime di prelazione, al fine di consentire al Tribunale di verificare l’effettivo raggiungimento del quorum del 60% delle passività; -- l’elenco dei titolari di diritti reali o personali sui beni di proprietà oppure in possesso del debitore; -- il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili; -- un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta; • la relazione sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità 6 dell’accordo di ri- 149 3 La circostanza che ai creditori estranei debba essere garantito il pagamento integrale, nonostante i creditori del medesimo ordine e grado partecipanti all’accordo possono aver accettato una soddisfazione parziale, può indurre alcuni creditori a non manifestare il proprio consenso: ciò può accadere nel caso dei creditori garantiti, come gli ipotecari, per i quali l’ipotesi dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è indifferente, in quanto hanno la ragionevole certezza della soddisfazione integrale del proprio credito, sulla base del presumibile valore di realizzo del bene ipotecato. Analogamente, qualora pochi creditori aderenti consentano di raggiungere il quorum del 60% (tipicamente le banche, per i crediti privi di una causa legittima di prelazione), tutti gli altri creditori, compresi i chirografari, saranno orientati a non partecipare all’accordo, acquisendo, quindi, il diritto – in qualità di creditori estranei – ad essere soddisfatti integralmente. 4 Per un approfondimento della disciplina riguardante i creditori privilegiati, si veda il contributo di Bonfatti S. “Il trattamento dei creditori privilegiati nelle diverse forme di regolazione della crisi”, in “Il ruolo del professionista nei risanamenti aziendali”, a cura di Fabiani M., Guiotto A., Atti e documenti, Eutekne, Torino, 2012, p. 273-335. 5 Qualora l’impresa in crisi faccia parte di un gruppo interessato da un ampio progetto di risanamento, l’accordo di ristrutturazione dei debiti della singola impresa deve essere depositato congiuntamente al piano di revisione della holding (Trib. Roma 5.11.2009, in Banca Dati Eutekne). 6 L’attestazione dell’attuabilità dell’accordo impone al professionista di valutare i principali rischi insiti nel piano, verificare la fattibilità patrimoniale, finanziaria ed economica del progetto di risanamento, compresa l’idoneità dello stesso a garantire il pagamento dei creditori aderenti nella misura e secondo le tempistiche concordate, nonché di quelli estranei in forma integrale (entro 120 giorni dalla scadenza o, se decorsa, dalla data del decreto di omologazione giudiziale dell’intesa). strutturazione dei debiti, con particolare riferimento alla propria idoneità a garantire l’integrale pagamento dei creditori estranei, entro 120 giorni dalla scadenza oppure, nel caso di crediti già scaduti, dalla data del decreto di omologazione dell’intesa di cui all’art. 182-bis L. fall. 2 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Novità del DL 83/2015 – Art. 182-septies 150 Una delle principali cause di insuccesso degli accordi di ristrutturazione dei debiti è l’eccessiva durata delle negoziazioni con il ceto bancario, per una serie di motivazioni legate alla complessità dei rapporti tra l’imprenditore in crisi e le banche finanziatrici: la numerosità degli istituti coinvolti, l’entità e la tipologia della loro esposizione, la loro differente propensione al rischio, la solidità delle loro garanzie, la qualità e la durata del rapporto. La necessità di accelerare i tempi della negoziazione e facilitare il raggiungimento di un accordo vincolante per l’intero ceto bancario ha, quindi, indotto il legislatore ad uno specifico intervento. In particolare, l’art. 9 del DL 83/2015, in vigore dal 27.6.2015, ha introdotto l’art. 182-septies L. fall., per stabilire che quando un’impresa ha passività verso banche ed intermediari finanziari in misura non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo, la disciplina dell’art. 182-bis L. fall. – in deroga agli artt. 1372 e 1441 c.c.7 – è integrata da alcune specifiche norme, fermi restando i diritti dei creditori non finanziari. Categorie omogenee di creditori In primo luogo, l’art. 182-septies comma 2 L. fall. stabilisce che l’accordo di ristrutturazione dei debiti può individuare una o più categorie8 tra i predetti creditori finanziari che abbiano tra loro posizione giuridica ed interessi economici omogenei9: potrebbe trattarsi, ad esempio, di creditori bancari che abbiano crediti (bancari) privilegiati o comunque assistiti da garanzie reali, o invece crediti causalmente simili (crediti da anticipazione bancaria, mutuo ipotecario, ecc.)10. Rimane, in ogni caso, fermo che non sussiste alcun obbligo di rispetto della graduazione dei privilegi. Il tema dell’omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici assume, pertanto, rilevanza assorbente, costituendo il vero punto critico, con particolare riguardo alla rilevanza dei seguenti aspetti 11: • valutazione; • ordine dei privilegi; • garanzie collaterali e loro capienza; • garanzie esterne ricevute; • impegni di canalizzazione dei flussi – ad esempio, provenienti dalla locazione di taluni cespiti – o presenza di finanziamenti destinati ad uno specifico affare (artt. 2447-bis e 2447-novies c.c.); 7 Tali disposizioni stabiliscono, rispettivamente, che il contratto ha forza di legge soltanto tra le parti e non produce effetto rispetto ai terzi, e che anche la stipulazione a favore di terzi può avere effetto nei loro confronti esclusivamente quando accettino di profittarne. La deroga prevista dall’art. 182-septies L. fall. consente, pertanto, all’accordo di ristrutturazione dei debiti di esplicare i propri effetti anche nei confronti dei creditori bancari non aderenti. 8 Un eventuale errore nella formazione delle classi può essere fatto valere in sede di opposizione, con il rischio – in caso di accoglimento, qualora la convenzione finisca per non operare rispetto ad alcuni intermediari finanziari – di pregiudicare la fattibilità del piano, costringendo il debitore a rinegoziare nuovamente l’accordo. 9 La disposizione è, pertanto, coerente con la Raccomandazione della Commissione Europea del 12.3.2014, che ha invitato gli Stati membri a consentire l’adozione degli accordi di ristrutturazione dei debiti anche soltanto da parte di “determinati tipi o classi di creditori, a condizione che gli altri creditori non siano coinvolti”. 10 Lamanna F. “La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto «contendibilità e soluzioni finanziarie» n. 83/2015: un primo commento”, Parte IV, il Fallimentarista.it, 29.6.2015. 11 Ranalli R. “Speciale Decreto «Contendibilità e soluzioni finanziarie» n. 83/2015: gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari. Alcuni considerazioni critiche”, il Fallimentarista.it, 23.7.2015. • tipologie di forme tecniche (crediti di cassa, autoliquidanti, di firma, a medio termine, ecc.). Una possibile chiave di lettura, in sede di valutazione, potrebbe essere quella di considerare omogenee le posizioni dei crediti in cui il grado e i tempi di soddisfazione nell’alternativa concretamente praticabile non siano tra loro significativamente diversi: in tal modo, sussisterebbe, quindi, un’unità di misura per valutare titoli prelatizi, garanzie collaterali esterne e forme tecniche. Estensione ai creditori finanziari non aderenti L’art. 182-septies comma 2 L. fall stabilisce, inoltre, che il debitore può chiedere – mediante l’istanza di omologazione – che gli effetti dell’accordo siano estesi anche ai creditori non aderenti che appartengono alla medesima categoria omogenea, purchè risultino soddisfatte alcune specifiche condizioni: • tutti i creditori della categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede12; • i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il 75% dei crediti della categoria. L’osservanza di tali vincoli comporta, pertanto, un aumento delle formalità a carico del debitore e dei propri consulenti, al fine di dimostrare l’effettiva convocazione delle riunioni, rivolta a tutti i creditori finanziari, e la trasmissione di complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa in crisi. È, inoltre, riconosciuta la possibilità che una banca oppure un intermediario finanziario sia titolare di crediti inseriti in più categorie. In sede di applicazione del suddetto art. 182-septies comma 2, non si tiene tuttavia conto – analogamente a quanto già previsto in ambito di concordato preventivo, con riguardo a tutti i creditori (art. 168 comma 3 L. fall.) – delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei 90 giorni precedenti alla data di pubblicazione dell’accordo nel Registro delle imprese13. Opposizione all’estensione e omologazione Il debitore, in aggiunta agli ordinari adempimenti pubblicitari di cui sopra, deve altresì notificare il ricorso, la documentazione di cui all’art. 161 L. fall. e l’attestazione alle banche e agli intermediari finanziari ai quali si chiede di estendere gli effetti dell’accordo: costoro possono proporre opposizione entro 30 giorni dalla data della predetta notifica. Tale ulteriore incombente pare giustificato esclusivamente dalla consapevolezza che il regime di pubblicità ordinariamente previsto, consistente nelle pubblicazione del ricorso nel Registro delle imprese, è poco efficace nella realtà, a maggior ragione in presenza di un termine di soli 30 giorni per l’opposizione: il legislatore 12 Guiotto A. “Accordi di ristrutturazione più vincolanti con gli intermediari finanziari”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 28.8.2015: “la locuzione «buona fede» va ricondotta all’assenza di comportamenti maliziosi finalizzati a ostacolare l’effettiva partecipazione dell’istituto alle riunioni o la sua piena conoscenza dell’andamento delle trattative e delle informazioni rilevanti”. 13 Tale previsione dovrebbe rilevare ai soli fini della formazione delle classi di creditori. In tal senso, Lamanna F., cit.: “l’avere iscritto ipoteca giudiziale nei novanta giorni che precedono la data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, non costituisce idonea ragione per inserire il creditore bancario o finanziario, che a tale iscrizione abbia proceduto nel predetto termine, in un’autonoma categoria che eventualmente consideri quale posizione omogenea quella relativa a crediti bancari garantiti da ipoteca giudiziale. Non vedo altre più confacenti soluzioni, poiché, da un lato, negli accordi non hanno di per sé alcuna importanza né privilegi, né prelazioni, in mancanza di una graduazione; dall’altro, l’iscrizione di ipoteca giudiziale nulla toglie alla preesistenza del sottostante credito bancario cui tale garanzia accede; infine, conseguentemente, il suddetto credito ben può ancora concorrere, come tale, sia alla formazione della soglia per accedere all’accordo speciale (50% di crediti bancari rispetto all’indebitamento totale), sia alla formazione della percentuale qualificata (75%) necessaria per estendere gli effetti dell’accordo ai dissenzienti appartenenti alla medesima categoria, sia per concorrere alla integrazione della soglia del 60%”. 151 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 152 ha, pertanto, ritenuto opportuno garantire l’effettiva conoscenza dell’istanza, tramite specifica notifica personale. Il Tribunale procede, poi, all’omologazione, se accerta – avvalendosi, ove occorra, di un ausiliario14 – che le trattative sono state svolte in buona fede e ricorrono alcune circostanze in capo alle banche ed agli intermediari finanziari ai quali il debitore chiede di estendere gli effetti dell’accordo: • hanno posizione giuridica ed interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti; • hanno ricevuto complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale del debitore, nonché sull’intesa e sui propri effetti, e sono stati messi in condizione di partecipare alle trattative; • possono risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto a quella delle alternative concretamente praticabili. Queste ultime non sono necessariamente quelle dell’ipotesi fallimentare, bensì quelle derivanti dal mancato raggiungimento dell’accordo ricadente sui singoli creditori, con l’effetto che per valutarle occorrerebbe calarsi nello specifico caso concreto. Nella maggior parte delle ipotesi, il mancato raggiungimento dell’accordo pregiudica la continuità, ma la liquidazione che ne deriva non è necessariamente fallimentare, salvo che sia pendente un’istanza di fallimento, e comunque potrebbe ben realizzarsi a valle di un esercizio temporaneo dell’azienda, nella pro- spettiva della sua cessione “ordinata” – ovvero non coatta, con le garanzie consuete alle operazioni di M&A – in luogo della cessione atomistica dei propri beni15. Un tale raffronto è reso ancor più difficile dal fatto che nell’accordo, per definizione, la soddisfazione dei creditori non segue le regole della graduazione: sarebbe, pertanto, necessario predisporne una ad hoc per eseguire il raffronto con un alternativo riparto fallimentare, con tutte le complicazioni, poi, connesse ai privilegi o alle prelazioni incapienti. La valutazione di convenienza appare, inoltre, improponibile in re ipsa rispetto ad un concordato preventivo, il quale non può mai costituire un’alternativa concretamente praticabile, poiché o vi è l’accordo, con i suoi specifici contenuti, o vi è un concordato preventivo, con le sue altrettanto specifiche clausole e condizioni, e l’uno e l’altro non possono proporsi contestualmente, sì che non è mai possibile alcun confronto concreto tra l’uno e l’altro: tertium non datur. Rimane ad un sommario inventario l’ipotesi delle procedure espropriative singolari, che costituiscono un’alternativa praticabile in concreto, quanto meno quando procedure siffatte siano state già avviate ad iniziativa proprio dei creditori non aderenti. Il debitore è, quindi, gravato dall’onere di provare la sussistenza del requisito della soddisfazione non inferiore alle alternative concretamente praticabili16. Convenzione di moratoria Qualora il debitore stipuli, con uno o più credi- 14 La facoltà del Tribunale di ricorrere all’ausiliario è stata opportunamente inserita in sede di conversione del DL 83/2015, in quanto la valutazione da parte dell’autorità giudiziaria del soddisfacimento in misura non inferiore a quella delle alternative concretamente praticabili impone una valutazione necessariamente quantitativa, e probabilmente anche temporale, con riferimento ai termini di pagamento. L’art. 182-septies co. 8 L. fall. stabilisce che la relazione dell’ausiliario è trasmessa a norma dell’art. 161 co. 5 L. fall., ovvero “è comunicata al pubblico ministero ed è pubblicata, a cura del cancelliere, nel registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito in cancelleria”. 15 Ranalli R., cit. 16 Lamanna F., cit.: il debitore deve “dimostrare che nel fallimento alternativo i creditori non aderenti potrebbero riscuotere meno di quanto loro riservato con l’accordo (o con maggiore ritardo, a parità di quantum). Ciò implica però che sia ben nota la situazione patrimoniale e finanziaria complessiva del debitore, e sembra che a ciò sia funzionale – tra l’altro – il già ricordato requisito concorrente che richiede siano fornite ai creditori complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore (dati peraltro già sempre richiesti per il combinato disposto degli artt. 182-bis e 161 L.F.)”. tori finanziari, una convenzione diretta a disciplinare, in via provvisoria, gli effetti della crisi mediante una moratoria temporanea17 dei crediti (funzionale al raggiungimento dell’accordo) e sia raggiunta la citata maggioranza del 75%, tale sospensione produce effetto anche nei confronti delle banche e dei soggetti finanziari non aderenti. È, tuttavia, necessario che tali creditori siano informati dell’avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e che un professionista (art. 67 comma 3 lett. d, L. fall.) attesti18 l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici tra i creditori interessati dalla moratoria. Tali creditori possono comunque opporsi, entro 30 giorni dalla comunicazione – effettuata tramite lettera raccomandata o posta elettronica certificata – della convenzione stipulata, accompagnata dalla suddetta attestazione del professionista designato a norma della predetta disposizione. La banca o l’intermediario finanziario, con l’opposizione, può chiedere che la convenzione non produca effetti nei propri confronti. La disciplina in commento prospetta, pertanto, un ulteriore strumento di composizione della crisi d’impresa, che presenta caratteristiche comuni – a partire dalla natura contrattuale – con alcuni istituti previsti dal RD 267/1942: • il piano attestato di risanamento, per la collocazione ordinariamente extraprocessuale, non essendo previsto un necessario intervento omologatorio del Tribunale, salvo il caso dell’opposizione da parte dei creditori non aderenti; • l’accordo di ristrutturazione dei debiti, per la qualità oggettiva delle passività e quella soggettiva dei relativi creditori, nonché l’idoneità ad estendere i propri effetti – in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c. – anche ai creditori non aderenti. Il Tribunale, con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 182-septies comma 4 terzo periodo L. fall.: nel termine di 15 giorni dalla comunicazione, il decreto del Tribunale è reclamabile alla Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 183 L. fall. L’art. 182-septies comma 7 L. fall. dispone che in nessun caso – per effetto degli accordi e delle convenzioni di cui ai commi precedenti – ai creditori non aderenti possono essere imposti 19: • l’esecuzione di nuove prestazioni 20; • la concessione di affidamenti; • il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti. Alla luce di quanto sopra riportato, appare 153 17 Ranalli R., cit.: la temporaneità della moratoria rende superflua la suddivisione dei creditori in categorie, e ben potrebbe applicarsi a tutti i creditori “bancari” indistintamente, in particolare se venisse previsto ex lege un termine massimo della moratoria. Forse sarebbe stato più opportuno riferirsi semplicemente al 75% di tutti i creditori bancari, espungendo ogni riferimento alle classi. Sempre con riferimento alla moratoria, occorre aggiungere che si tratta di pactum de non petendo (più che di un vero e proprio stand-still, in quanto l’utilizzo degli affidamenti esistenti per previsione normativa non può essere imposto a maggioranza), che pare non debba essere sottoposto ad omologa, e che non è chiaro se debba essere o meno valutato dal Tribunale. 18 Non è, tuttavia, chiaro se tale attestazione – come è ragionevole ritenere – debba considerarsi “speciale” e separata da quella generale di veridicità dei dati aziendali e fattibilità: il che non impedisce che possa costituire un di cui del documento attestativo o della pre-opinion di cui all’art. 182-bis co. 6 L. fall. In tal senso, Ranalli R., cit. 19 Ranalli R., cit.: peraltro, ben potrebbero essere imposte, oltre che il riscadenziamento del debito, anche clausole del tipo “pay if you can” o di non fattibilità e addirittura di stralcio e conversioni in equity e in strumenti finanziari partecipativi pure nell’ottica di ristabilire il minimo legale del capitale sociale. 20 Agli effetti dell’art. 182-septies L. fall., non è considerata “nuova prestazione” la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati. Sul punto, si veda anche il contributo di Ranalli R., cit., secondo cui “da tale previsione si può fare discendere l’impedimento alla richiesta di risoluzione per inadempimento in caso di mancato pagamento di canoni scaduti, per quanto occorra indagare se i contratti di leasing costituiscono una classe obbligatoriamente a sé stante con la conseguente necessità, in caso affermativo, di ottenere l’impegno alla prosecuzione del contratto da parte almeno del 75% dei locatori”. evidente che il legislatore, con l’art. 182-septies L. fall., ha inteso accelerare i tempi della negoziazione con gli intermediari finanziari: uno, anche se non l’unico, dei motivi dell’insuccesso di un accordo di ristrutturazione è, infatti, il tempo eccessivo che intercorre tra l’inizio delle trattative con il ceto bancario e la loro conclusione 21. Tale disposizione mutua buona parte delle regole dell’art. 182-bis L. fall., pur stravolgendone parzialmente la natura, che nella norma assume contenuti prevalentemente concorsuali, con l’assoggettamento della minoranza dei creditori finanziari alla decisione della maggioranza. LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 3 154 Novità del DL 83/2015 – Disposizioni penali L’introduzione dell’art. 182-septies L. fall. ha, inoltre, comportato l’integrazione – ad opera dell’art. 10 del DL 83/2015 – dell’art. 236 L. fall., nel senso di stabilire che è punito con la reclusione da uno a cinque anni anche 22 l’imprenditore che, al solo scopo di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari o il consenso degli stessi alla sottoscrizione della convenzione di moratoria, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero – per influire sulla formazione delle maggioranze – abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti. È, inoltre, prevista l’applicazione delle seguenti disposizioni (art. 236 comma 3 L. fall.): • artt. 223 e 224 L. fall. nei confronti di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori della società (bancarotta fraudolenta e semplice); • art. 227 L. fall. agli institori dell’imprenditore (bancarotta fraudolenta e semplice, ricorso abusivo al credito, denuncia di creditori inesistenti, ecc.); • artt. 232 e 233 L. fall. ai creditori (simulazioni di crediti, distrazioni e mercato di voto). 4 Novità del DL 83/2015 – Finanziamenti interinali “urgenti” L’accordo di ristrutturazione dei debiti, congiuntamente al concordato preventivo, è stato, inoltre, interessato, da un’ultima novità, riguardante la c.d. finanza interinale. L’art. 1 comma 1 lett. b) del DL 83/2015, in vigore dal 27.6.2015 23, ha, infatti, aggiunto – dopo il comma 2 dell’art. 182- quinquies L. fall. – alcune specifiche disposizioni dirette a salvaguardare la continuità aziendale, qualora il debitore presenti uno dei seguenti atti: • domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161 comma 6 L. fall.), anche in assenza del piano concordatario contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, e l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che 21 Ranalli R., cit.: la dilatazione dei tempi comporta inevitabilmente, in particolare quando occorre nuova finanza, un ritardo nell’attivazione delle azioni industriali e una deriva rispetto agli obiettivi del piano inizialmente designato. 22 La medesima pena è prevista se il debitore ha assunto la stessa condotta con l’esclusiva finalità di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, ma non con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis L. fall. Sul punto, si veda il contributo di Lamanna F., cit.: la ragione di tale scelta legislativa è riconducibile alla circostanza che solo nella disciplina dell’art. 182-septies L. fall. “è stata prevista l’estensione dei relativi effetti in capo ai terzi non aderenti, con un conseguente aumento della loro potenzialità offensiva, e conseguente equiparabilità, sotto questo aspetto, al concordato preventivo, che produce effetti verso tutti i creditori anteriori anche se non consenzienti e se siano rimasti assenti nella procedura. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., invece, non prevedono – nella forma base o comune – tale estensione, se non limitatamente ad un modesto slittamento dei termini di pagamento scaduti o a scadere”. 23La modifica normativa è ritenuta applicabile anche ai procedimenti concordatari e preconcordatari in corso al 27.6.2015, sul presupposto che l’art. 1 del DL 83/2015 si limita a puntualizzare le disposizioni esistenti riguardanti le modalità di autorizzazione dei finanziamenti interinali. In tal senso, Lamanna F., cit., Parte I, 29.6.2015. il proponente assicura a favore di ciascun creditore [art. 161 comma 2 lett. e) L. fall.]; • istanza di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis comma 1 L. fall.); • “pre-accordo” di ridefinizione delle passività (art. 182-bis comma 6 L. fall.). In sede di presentazione di uno dei predetti atti, il debitore può chiedere al Tribunale di essere autorizzato, in via d’urgenza, a contrarre finanziamenti – prededucibili ai sensi dell’art. 111 L. fall. – funzionali ad urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale fino, rispettivamente, alla scadenza del termine fissato dal Tribunale per il deposito del piano e della proposta di concordato preventivo (art. 161 comma 6 L. fall.) oppure all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis comma 4 L. fall.) o alla scadenza del termine per la presentazione dell’intesa di ridefinizione delle passività (art. 182-bis comma 7 L. fall.). Il relativo ricorso deve specificare la destinazione dei finanziamenti, l’incapacità del debitore di reperirli in altro modo e che, in mancanza degli stessi, deriverebbe un pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda. In presenza di tali presupposti, il Tribunale – assunte sommarie informazioni sul piano e sulla proposta in corso di predisposizione, sentito il commissario giudiziale eventualmente già nominato e, se del caso, ascoltati senza formalità i principali creditori – decide in camera di consiglio, con decreto motivato, entro 10 giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione. La richiesta può avere anche ad oggetto il mantenimento di linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito della domanda 24. Un’ulteriore modifica apportata dall’art. 1 del DL 83/2015 all’art. 182-quinquies L. fall. ha interessato il comma 3 di quest’ultima norma: è stato, infatti, esteso il potere del Tribunale, che può autorizzare il debitore non soltanto a concedere pegno o ipoteca, ma anche a cedere crediti, a garanzia dei finanziamenti oggetto di istanza. La novità normativa in parola è significativa, in quanto la cessione di crediti in garanzia, diversamente dall’ipoteca e dal pegno, consente al creditore garantito, in caso di inadempimento, di rifarsi immediatamente sul credito ceduto. 155 24 Per l’analisi di alcune criticità della novità normativa, nell’ambito del concordato preventivo, si veda Bana M. “Concordato preventivo, novità per debitore, creditori e terzi”, in questa Rivista, 5, 2015, p. 112-123. 07 GIURISPRUDENZA GIURISPRUDENZA “TRANSFER PRICING” INTERNO E VALORE NORMALE Luca MIELE Dottore Commercialista – of counsel di Studio Tributario e Societario, Deloitte La Corte di Cassazione ha affermato, nella sentenza in rassegna, che per la valutazione ai fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del TUIR, in attuazione del divieto di abuso del diritto che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. 1 La sentenza in breve La sentenza in rassegna si inserisce nel filone della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il criterio del valore normale può essere utilizzato per sindacare la congruità dei corrispettivi pattuiti così come risultanti dalla contabilità, in quanto l’art. 9 del TUIR impone, quale criterio valutativo, il riferimento al valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, anche nelle operazioni interne (c.d. transfer pricing domestico). La Suprema Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e rinvia la controversia ad altra sezione della Commissione tributaria regionale affinché si proceda a una nuova valutazione delle circostanze, anche valutando se dalla operazione compiuta sia derivato un vantaggio fiscale per il contribuente. Infatti, il giudice di seconde cure non ha adeguatamente valutato, ad esempio, il notevole divario rispetto alle indicazioni OMI e la sospetta operazione societaria posta in essere a pochi mesi dalla conclusione del contratto. 157 Corte di Cassazione 22.6.2015 n. 12844 Transfer pricing domestico – Applicabilità del criterio del valore normale LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Svolgimento del processo e motivi della decisione 158 È stata depositata la seguente relazione: 1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, deducendo due motivi, avverso la decisione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia 92/02/2012 del 1.6.2012 che rigettava l’appello dell’Ufficio affermando la illegittimità di avviso di accertamento IVA-IRES IRAP per l’anno 2004. 2. La contribuente si è costituita in giudizio. 3. Il ricorso è apparso al relatore fondato in base a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (vedi da ultimo la sentenza n. 17955 del 24.7.2013) secondo cui per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del DPR n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a salvaguardia delle risorse proprie dell’UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva; dall’altro, non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Tra tali operazioni rientrano le manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito nazionale di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi “intercompany”. Si tratta del fenomeno del cd. “transfer pricing domestico” (cfr. anche la sentenza n. 7716 del 27.3.2013). La contribuente ha depositato memoria. Il Collegio ha disposto il rinvio della controversia alla pubblica udienza. Dopo la nuova discussione della controversia, il Collegio ha condiviso la relazione nella sua impostazione “in diritto”, che – a ben vedere – è accolta nella sentenza impugnata; che non esclude affatto che una operazione di “transfer pricing domestico”, fra società operanti in Italia, possa dar luogo ad una elusione fiscale, e che nella valutazione del comportamento delle società coinvolte si debba fare riferimento ai principi di cui all’art. 9 del DPR n. 917 del 1986. Il giudice di merito infatti si limita ad escludere che nel caso si specie la Amministrazione abbia fornito idonea prova dell’operazione economica. Questo profilo della sentenza impugnata è però correttamente contestata nel secondo motivo di ricorso ove si indicano profili dell’operazione infragruppo che il giudice di seconde cure non ha adeguatamente valutato; quali il notevole divario rispetto alle indicazioni OMI e la sospetta operazione societaria posta in essere a pochi mesi dalla conclusione del contratto. Sarà dunque compito del giudice di merito procedere ad una nuova valutazione delle circostanze, anche valutando se dalla operazione compiuta sia derivato un vantaggio fiscale per la contribuente. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia la controversia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che deciderà anche sulle spese del presente grado. 2 Massima Per la valutazione ai fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del TUIR che consente di rettificare i corrispettivi contabilizzati sulla base del valore di mercato, in applicazione del divieto di abuso del diritto che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. 3 Il commento Le affermazioni contenute nella sentenza in rassegna vanno “criticamente” esaminate. Occorre partire dall’assunto che nell’ambito delle imposte sui redditi il criterio ordinario per la valorizzazione delle transazioni è quello del corrispettivo pattuito tra le parti e la regola del valore normale dovrebbe essere applicabile soltanto in alcune specifiche fattispecie espressamente previste dalla normativa, come deroga alla regola del corrispettivo pattuito. Ad esempio, nell’ambito delle operazioni internazionali intercompany soggette alla disciplina del transfer pricing, per i conferimenti di beni in società, in caso di assegnazione ai soci o destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa, nella cessione dei contratti di leasing, nella disciplina dei costi black list, nelle operazioni con società soggette al regime della tonnage tax. Al di fuori di tali eccezioni, il principio generale dovrebbe essere quello secondo il quale, in conformità alla risalente risoluzione del Ministero Finanze 1.7.1980 n. 9/1437, “la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura”. D’altra parte, se quello del valore normale costituisse un principio di carattere generale che consente di sindacare la congruità dei corrispettivi di tutte le transazioni non si comprenderebbe perché il legislatore abbia espressamente sancito nell’art. 110 del TUIR la regola del transfer pricing e l’abbia limitata ai corri- 1In Banca Dati Eutekne. 2In Banca Dati Eutekne. spettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente, facendo rinvio al valore normale soltanto ai fini della valutazione di tali corrispettivi. Tuttavia, non è la prima volta che la Suprema Corte “sposa” una siffatta interpretazione. Ricordiamo la sentenza del 15.9.2008 n. 236351, nella quale è stato affermato che “in tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del D.P.R. n. 917/1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, comma 3, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente. Ne consegue che il Fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato”. In tale sede, tuttavia, non si faceva riferimento all’abuso del diritto. In senso analogo alla sentenza in rassegna si è espressa la sentenza del 27.3.2013 n. 7716 2. Il principio affermato dalla Cassazione, oltre a essere non rispondente alla lettura formale delle norme, andrebbe a “scardinare” il principio di derivazione contabile, che costituisce un pilastro della imposizione sui redditi. Al riguardo, l’Istituto di ricerca del Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili, nella circolare n. 9/IR del 2009 (par. 2.2.) ebbe modo di osservare che il richiamato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione suscita non poche perplessità laddove afferma che “gli uffici finanziari non sono […] vincolati ai valori o corrispettivi indicati in delibere sociali o contratti” in quanto sarebbe loro attribuito un generale potere di valutare la “congruità” dei costi e dei ricavi esposti in bilancio, con conseguente possibilità di disconoscere i componenti di reddito sproporzionati rispetto ai valori di mercato. 159 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 160 Le perplessità del detto Istituto derivano soprattutto dalla constatazione che nella determinazione del reddito d’impresa l’impiego del criterio del valore normale è previsto soltanto in casi particolari, tipizzati dal legislatore. Basti pensare alle operazioni realizzative che si caratterizzano per la mancanza di un corrispettivo (autoconsumo, destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o assegnazione ai soci di beni) e a quelle infragruppo transnazionali (c.d.: transfer pricing internazionale), in cui è la legge a prevedere espressamente la rilevanza fiscale del valore di mercato in sostituzione del corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti. L’Istituto rileva, altresì, che nella maggioranza delle occasioni in cui i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria un tale potere, le operazioni censurate erano, in via di fatto, “manifestamente” antieconomiche, in quanto “la sproporzione e l’irragionevolezza della spesa rispetto all’attività esercitata era rilevabile ictu oculi, in modo talmente evidente che l’antieconomicità diventava un elemento funzionale non tanto per un sindacato delle scelte imprenditoriali da parte dell’Amministrazione finanziaria, quanto per l’accertamento della falsità materiale della versione dei fatti fornita dal contribuente”. In tal senso, il tema vero è quello della antieconomicità delle operazioni e della c.d. inerenza quantitativa. E, al riguardo, è piuttosto consolidato il filone giurisprudenziale per cui il valore normale può essere utilizzato per rettificare operazioni in presenza di comportamenti palesemente antieconomici (non giustificati dal contribuente) 3. Si ritiene, nel merito, che l’Agenzia delle Entrate possa rettificare l’importo del corrispettivo risultante dal contratto e dalla contabilità in presenza di situazioni che palesino una antieconomicità non giustificata dal contribuente, ma tale rettifica deve avvenire sulla base del principio dell’inerenza quantitativa, affermato in numerose sentenze di legittimità, in base al quale, in presenza di comportamenti “antieconomici” dei contribuenti, gli Uffici delle Entrate possono contestare la congruità dei corrispettivi pattuiti di beni e servizi e procedere a un accertamento analitico-induttivo ex art. 39 comma 1 lett. d) del DPR 600/1973, pur in presenza di scritture contabili attendibili. È, però, necessario che il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica potrebbe, invece, risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale. In tale ottica, particolare attenzione va posta alle operazioni infragruppo. La stessa Corte di Cassazione ha affermato nella sentenza 1.8.2000 n. 100624, con riguardo alla necessità di tenere sempre presenti le peculiarità dei comportamenti economici dei gruppi di imprese rispetto a quelli degli altri soggetti, che è evidente che “le strategie degli investimenti di una impresa che si trova a capo di un gruppo non può essere confinata nei limiti di quella propria del c.d. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento di una redditività in tempi brevi. L’impresa capogruppo può infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela dell’immagine globale del gruppo o nell’intento di assicurarsi una maggiore tutela sul mercato, mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella specie, stabili organizzazioni senza personalità giuridica distinta, anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi”. In altra occasione la stessa Corte ha evidenziato, nella sentenza 24.7.2002 n. 10802 5, che non si può escludere che, ad esempio, “all’interno di un gruppo societario venga mantenuta in vita una società in se stessa in perdita, 3 Cfr., per tutte, Cass. 4.6.2014 n. 12502, in Banca Dati Eutekne. 4In Banca Dati Eutekne. 5In Banca Dati Eutekne. ma funzionale all’attività di altre società del gruppo, che alcuni oneri vengano assunti da una struttura anziché da un’altra, ecc.”. Sempre con riguardo ai gruppi di società, la Cassazione ha, pertanto, ritenuto che potrebbe non risultare applicabile il principio, affermato in alcune sentenze6, secondo il quale la circostanza che un’impresa commerciale dichiari, ai fini delle imposte sui redditi, per più anni di seguito delle perdite ovvero sostenga costi sproporzionati ai ricavi costituisce una condotta commerciale anomala anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento, di per sé sufficiente a giustificare la rettifica della dichiarazione. Occorre, infine, evitare che le rettifiche dei corrispettivi delle transazioni effettuate tra due società appartenenti allo stesso gruppo ed entrambe residenti in Italia provochino duplicazioni impositive. L’Agenzia delle Entrate ha, al riguardo, affermato – nelle istruzioni emanate con la nota dell’8 aprile 2008, n. 55440 – che “se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo integralmente ed effettivamente tassato in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del rilievo perderà inevitabilmente di consistenza”. In tali casi non sono, peraltro, utilizzabili gli strumenti delle procedure amichevoli (Mutual Agreement Procedures o MAP), previste dalle Convenzioni bilaterali e dalla Convenzione arbitrale UE, e degli APA (Advance Pricing Agreement, concernenti gli accordi con l’Amministrazione finanziaria) la cui applicazione è possibile soltanto con riguardo al transfer pricing “estero”. In definitiva, in presenza di comportamenti palesemente antieconomici (non giustificati dal contribuente), l’Amministrazione finanziaria può utilizzare il valore normale per rettificare operazioni interne. Ma questo deve avvenire non sulla base dell’art. 110 comma 7 del TUIR (transfer pricing estero), ma sulla base del criterio della inerenza quantitativa. Nella sentenza in rassegna, i giudici, al fine di applicare il principio del transfer pricing interno e rettificare transazioni domestiche, richia- mano il valore di cui all’art. 9 del TUIR come principio generale applicabile in base al divieto di abuso del diritto. Tuttavia, non può non osservarsi che tale orientamento va “testato” alla luce della nuova disciplina dell’abuso del diritto introdotta dal DLgs. 5.8.2015 n. 128. In tal senso, elemento determinante affinché esista abuso/elusione è il conseguimento di un vantaggio fiscale e che lo stesso risulti indebito7, cioè contrario alla ratio della norma e ai principi dell’ordinamento. Nelle intenzioni del legislatore, l’abuso deve costituire una fattispecie residuale, ben distinta dall’evasione che include anche interposizione e simulazione. L’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva. Da ultimo, va osservato che nel DLgs. 14.9.2015 n. 147 (c.d. “decreto crescita e internazionalizzazione delle imprese”) è stata introdotta una norma di interpretazione autentica volta a chiarire che la disciplina contenuta nel comma 7 dell’art. 110 del TUIR non ha valenza per le operazioni che intercorrono tra soggetti residenti o localizzati nel territorio dello Stato. In particolare, è stabilito che “la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato”. Pertanto, la disciplina dell’art. 110 comma 7 del TUIR – il quale prevede che i componenti di reddito derivanti da transazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che direttamente o indirettamente controllano l’impresa o ne sono controllate o che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa nazionale siano valutati in base al valore normale dei beni/servizi ceduti/ricevuti – non ha valenza per le operazioni “intercompany” che intercorrono tra soggetti residenti o localizzati nel territorio dello Stato. 6 Cfr. Cass.15.10.2007 n. 21536 e Cass. 2.10.2008 n. 24436, in Banca Dati Eutekne. 7 Oltre alla assenza di sostanza economica dell’operazione. 161 LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015 Questa norma, che invero statuisce un qualcosa che era già chiaro nel nostro ordinamento, non sembra modificare quanto sin qui detto in merito alla possibilità di sindacare la congruità dei corrispettivi. Voglio dire che il presupposto normativo per contestare la congruità dei corrispettivi non potrà essere quello dell’art. 110 comma 7, ma ciò non significa che tale congruità non possa essere sindacata in base all’inerenza quantitativa o all’abuso del diritto (se sussistono i presup- 162 posti), con evidenti effetti sull’onere probatorio a carico delle parti. In altri termini la norma di interpretazione autentica non sembra idonea ad impedire l’utilizzo del criterio del valore normale rilevando la palese antieconomicità dei comportamenti imprenditoriali nell’ambito degli accertamenti c.d. analitici induttivi [art. 39 comma 1 lett. d) del DPR 600/1973] o la sussistenza di un comportamento abusivo/ elusivo.