straordinaria

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LA GESTIONE
STRAORDINARIA
DELLE IMPRESE
6
NOVEMBRE / DICEMBRE
2015
R IVISTA BIMESTRALE DI DIRITTO
E PRATICA DELLE OPERAZIONI
STRAORDINARIE
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Il presente numero è stato chiuso in redazione il 21.12.2015
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6
NOVEMBRE/ DICEMBRE 2015
ANNO III
Rivista bimestrale di diritto e pratica delle operazioni straordinarie
01 / Diritto Societario
6
LA “TRASFORMAZIONE” DELLA BRANCH DI UNA SOCIETÀ ESTERA
IN UNA ENTITÀ LEGALE ITALIANA
Norberto VILLA
02 / Tributi
13
LA NUOVA NOZIONE DI ABUSO DEL DIRITTO TRA AMBIGUITÀ
E CONTRADDIZIONI
Dario STEVANATO
28
ELUSIONE FISCALE: IL FOCUS È SUI VANTAGGI FISCALI INDEBITI
Rosario DOLCE
38
QUESTIONI APERTE IN MATERIA DI EXIT TAX
Andrea PRAMPOLINI
48
LA MISURAZIONE DEL CONTRIBUTO ECONOMICO DEGLI INTANGIBILI
AI FINI DEL “PATENT BOX”
Fabio BUTTIGNON
57
Giulia MILAN
LA NUOVA FATTISPECIE DEL DELITTO DI DICHIARAZIONE INFEDELE
Federica BARDINI
68
IL CREDITO PER LE IMPOSTE ASSOLTE ALL’ESTERO: LE RECENTI
MODIFICHE
Emanuele LO PRESTI VENTURA
77
GLI EFFETTI FISCALI DELLE MODIFICHE ALLE REGOLE
CONTABILI SUI DERIVATI
Francesco BONTEMPO
87
LA PERFORAZIONE DEI MARI OLTRE LE 12 MIGLIA NON
CONFIGURA STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA
Marco MARANI
94
PER LE “SORELLE” A CONTROLLO ESTERO LA DESIGNAZIONE
APRE LE PORTE DEL CONSOLIDATO PREESISTENTE
Antonio MASTROBERTI
104
LA TREMONTI AMBIENTE “ORA PER ALLORA”
Stefano CHIRICHIGNO
114
Vittoria SEGRE
NUOVE AGEVOLAZIONI PER L’INGRESSO IN ITALIA DI LAVORATORI
Giuseppe MARIANETTI
Anna Maria ZANGARDI
03 / Fiscalità Internazionale
122
IL NUOVO REGIME DI BRANCH EXEMPTION
Federico DI CESARE
04 / Il Fisco che verrà
131
RIDOTTO A 5 ANNI IL PERIODO DI AMMORTAMENTO DI AVVIAMENTO
E MARCHI A SEGUITO DI AFFRANCAMENTO
Giacomo ALBANO
05 / Contabilità e Bilancio
139
IL COSTO AMMORTIZZATO NELLA RIFORMA DEL BILANCIO
Stefano GUIDANTONI
06 / Crisi d’impresa
148
RISTRUTTURAZIONI DEI DEBITI, NOVITÀ PER PASSIVITÀ FINANZIARIE
E FINANZA INTERINALE
Michele BANA
07 / Giurisprudenza
157
“TRANSFER PRICING” INTERNO E VALORE NORMALE
Corte di Cassazione 22.6.2015 n. 12844
Luca MIELE
01
DIRITTO
SOCIETARIO
DIRITTO
SOCIETARIO
LA “TRASFORMAZIONE”
DELLA BRANCH DI UNA SOCIETÀ
ESTERA IN UNA ENTITÀ
LEGALE ITALIANA
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Norberto VILLA
Consulente – Pubblicista
6
Le branch di società estere localizzate in Italia sono soggette a regole civilistiche che presentano, forse, margini di incertezza ancora maggiori rispetto a quelli dell’ambito fiscale.
La scarsità di norme di diritto positivo che disciplinano il fenomeno rende complicate anche
operazioni che qualora fossero effettuate da società potrebbero definirsi di facile attuazione. Nel presente articolo si individua il comportamento da adottare nell’ipotesi in cui una
branch italiana di una società estera sia intenzionata a “trasformarsi” in una entità legale
nazionale. L’analisi individuerà le possibili opzioni e i conseguenti adempimenti di natura
civilistica, fornendo un vademecum per la soluzione ritenuta ottimale.
1
Premessa
L’utilizzo della branch quale strumento per
l’esercizio di un’attività in un Paese differente
da quello di residenza dell’entità legale porta con sé una serie di problematiche di cui,
solitamente, la gran parte è da riferire agli
aspetti fiscali di tale fattispecie. Guardando
però al solo ordinamento italiano vi è da dire
che anche l’inquadramento civilistico di questi
“soggetti” non è privo di dubbi. Il caso che vogliamo esaminare è quello della branch di un
soggetto non residente che sia intenzionato
ad effettuare il cosiddetto processo di “incorporation” ovvero (in termini operativi) di giungere alla “trasformazione” della branch stessa
in un società residente. Le motivazioni di tale
operazione possono essere differenti. Talvolta
una spinta a tale decisione deriva dalle incertezze circa il trattamento giuridico della
branch che ad oggi presenta molte lacune e
che rende le stesse prive di una reale certezza
circa le norme alla stessa applicabile1. Altre
volte vi sono motivi di natura commerciale
che spingono verso “l’incorporation”, come
ad esempio nel caso in cui il mercato di riferimento dell’attività esercitata dalla branch
mostri poca simpatia verso i fornitori che non
sono strutturati, più classicamente, come società per azioni o a responsabilità limitata.
L’inquadramento civilistico consegue alle previsione di cui agli artt. 2507 e ss. c.c. L’art. 2508
comma 1 c.c., in tema di società estere loca-
1 Se è certa l’assenza di personalità giuridica propria della branch esistono ancora incertezze legate alla rilevanza processuale della stessa o alla corretta applicazione nei suoi confronti della materia fallimentare.
lizzate (anche) in Italia, prevede che le stesse
qualora stabiliscano “nel territorio dello Stato
una o più sedi secondarie con rappresentanza
stabile, sono soggette, per ciascuna sede, alle
disposizioni della legge italiana sulla pubblicità
degli atti sociali. Esse devono inoltre pubblicare,
secondo le medesime disposizioni, il cognome, il
nome, la data e il luogo di nascita delle persone
che le rappresentano stabilmente nel territorio
dello Stato, con indicazione dei relativi poteri”.
L’art. 2508 c.c. identifica la fattispecie oggetto di esame come “sede secondaria di società estera con rappresentanza stabile in
Italia”, ma nel presente articolo per definirla
utilizzeremo la definizione di branch, termine
assente nel nostro ordinamento, ma più spesso utilizzato dalla prassi operativa 2.
Inoltre, la disciplina applicabile alla fattispecie in
esame è anche conseguenza di quanto previsto
dalla L. 31.5.1995 n. 218 “Riforma del sistema
italiano di diritto internazionale privato”, che
sarà più volte richiamata nei successivi paragrafi.
2
La volontà di incorporarsi
Una volta individuata la volontà di “trasformarsi” da unità locale italiana a società costituita e riconosciuta in Italia occorre verificare
le alternative possibili.
In precedenza si è utilizzato più volte il termine “trasformazione” della branch in entità
legale. Ma il termine è stato utilizzato in senso
atecnico in quanto l’operazione disciplinata
dagli artt. 2500 e ss. c.c., per i fini in esame,
risulta inutilizzabile. Affinché si possa parlare
di una trasformazione occorre trovarsi in una
delle situazioni soggettive menzionate dagli
artt. 2500-ter, 2500-sexies e 2500-octies c.c.,
i quali concedono la possibilità di trasformarsi
alle società di persone, società di capitali, consorzi, società consortili, comunioni d’azienda,
associazioni riconosciute e fondazioni. Il mancato richiamo alla branch impedisce di approfondire l’ipotesi.
Le alternative che sono invece analizzate sono:
• il trasferimento della sede legale della società estera nel territorio nazionale;
• il conferimento della branch in una newco italiana.
3
Il trasferimento della sede
legale della società estera
L’ipotesi del trasferimento in Italia della società estera residente è una soluzione che pare
percorribile. Ma è bene anticipare che la concreta utilizzabilità è condizionata dal risultato
di alcune verifiche preventive e, anche qualora
queste diano esito positivo, risulta una soluzione applicabile a non molti casi concreti.
Operativamente, il risultato prefissato lo si
ottiene dando rilevanza societaria alla branch
non per via diretta, ma indiretta. La branch è
un unità locale di una società estera; riuscendo ad attribuire “nazionalità” italiana alla società di cui è emanazione si ottiene lo scopo
per via indiretta: la branch non diventa essa
stessa una società residente, ma diviene un
unità locale di una società residente.
Il trasferimento della sede dall’estero all’Italia non comporta una nuova costituzione 3 in
quanto (proprio in forza dell’art. 2508 c.c.
sopra richiamato) la stessa risulta già essere un soggetto di diritto nazionale che però,
in forza dell’art. 25 della L. 218/1995, diviene
assoggettata alla normativa italiana 4.
2 Eviteremo, invece, l’utilizzo del termine stabile organizzazione, anch’esso talvolta utilizzato per identificare il fenomeno in esame, in quanto lo stesso sia in forza delle norme interne che di quelle convenzionali e sovranazionali (in primis
OCSE) identifica una fattispecie avente rilievo in ambito tributario non sempre sovrapponibile alla sede secondaria
con rappresentanza stabile in Italia.
3 Vedi sul punto Longo A., Paracchi M. “Questioni in tema di trasferimento della residenza fiscale di una società da uno
Stato membro dell’Unione europea all’Italia”, Rass. trib., 2012, p. 420 e ss.
4 Ciò è ormai pacifico anche in ambito fiscale. Sul punto si richiama la risoluzione Agenzia Entrate 17.1.2006 n. 9 che ha
analizzato il caso di una società spagnola che ha trasferito la sede in Italia e che, proprio partendo dal dato civilistico,
7
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
8
Come anticipato, perché ciò risulti possibile,
è necessaria sul piano civilistico una verifica
preliminare, in quanto la continuità giuridicoaziendale, pur in presenza del trasferimento
della sede in Italia, è subordinata alla condizione che, anche nell’ordinamento di provenienza, la disciplina del trasferimento di sede
non costituisca un evento estintivo.
Tale problematica non si pone per i soggetti europei, in quanto basandosi sul principio
della libertà di stabilimento deve ritenersi
che il trasferimento sia permesso senza perdere la personalità giuridica e senza necessità
di sciogliersi.
Ma negli altri ordinamenti non è scontata la
presenza di norme di tale natura, potendosi
al contrario prevedere che al trasferimento
della sede all’estero possa conseguire la liquidazione e cessazione del soggetto nel Paese
di origine.
Trasferimento della sede:
le due situazioni
Si possono analizzare quindi le due diverse
ipotesi:
1.l’ordinamento straniero alle cui regole è
assoggettata la società, nel caso di trasferimento della sede all’estero, prevede
l’obbligo di estinzione dell’entità legale;
2.l’ordinamento straniero alle cui regole è
assoggettata la società, nel caso di trasferimento della sede all’estero, prevede il
mantenimento della personalità giuridica ed anche che non ne consegua l’obbligo
di scioglimento.
Qualora si dovesse ricadere nella prima ipote-
5
6
7
8
si, l’operazione perderebbe il suo interesse. In
tal caso per giungere allo scopo della cosiddetta “incorporation” della branch italiana, si
dovrebbe infatti prima estinguere la società
estera e successivamente costituire la nuova società in Italia. Considerando poi che la
branch italiana e l’entità legale estera sono
un unico soggetto giuridico, la liquidazione
dell’entità legale comporterebbe la necessità
di una estinzione della branch, con la necessità quindi di dover prima liquidare i beni e i
valori posti in capo alla stessa per poi doverli
conferire al nuovo soggetto italiano5. Da ciò
l’esercizio dell’attività da parte della branch
italiana verrebbe cessato per un periodo più
meno lungo6 con il venir meno della continuità dell’attività, con tutte le conseguenze del
caso7 (presumibilmente contrarie all’obiettivo
prefissato).
Da un punto di vista meramente giuridico,
l’obiettivo di “trasformare” la branch italiana
in una entità legale per il tramite del trasferimento di sede dall’estero potrebbe, invece,
essere ottenuto nel caso di società europea o
comunque riferita ad un altro ordinamento in
cui l’operazione non produce un effetto estintivo. In tal caso, infatti, sarebbe assicurata la
continuità giuridico-aziendale della branch
italiana. Si ipotizzi la situazione in cui la
branch italiana risulti essere l’unità locale di
una società situata in un Paese che non prevede la liquidazione ed estinzione della stessa
quale conseguenza del trasferimento della
sede all’estero. Il trasferimento della sede in
Italia (come già anticipato) porterebbe in via
indiretta ad ottenere anche per l’unità locale
italiana lo status di soggetto giuridico8.
secondo cui il trasferimento in Italia della sede sociale non comporta l’estinzione della società e non ne pregiudica la
continuità, estende tali considerazioni anche in ambito fiscale.
È evidente che anche da un punto di vista fiscale tale operazione assumerebbe la connotazione di un evento realizzativo.
Grazie ad un attento timing dell’operazione, l’interruzione potrebbe anche essere molto breve.
Si pensi a cosa ciò potrebbe comportare nel caso in cui la branch italiana fosse titolare di beni immobili o mobili registrati,
di licenze, autorizzazioni o simili.
Nell’analisi come premesso non si sono affrontati i temi di rilevanza fiscale. Per una panoramica completa ed esauriente
degli stessi si rimanda a Piazza M., D’Angelo G., Valsecchi M. “Aspetti fiscali del trasferimento della sede in Italia”, il fisco,
2015, p. 56 e ss.; Di Cesare F., Gabrielli R. “Il trasferimento della sede e della residenza fiscale in Italia”, in questa Rivista,
2, 2014, p. 58-71.
La procedura
Osservazioni operative
Il codice civile non si interessa della fattispecie in esame9, trattando solo dell’ipotesi
del trasferimento della sede all’estero10. La
disciplina applicabile la si individua allora
nell’art. 25 comma 3 della L. 218/1995 in cui
si dispone che “i trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti con
sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto
se posti in essere conformemente alle leggi
di detti Stati interessati”. Tali principi sono
da ritenere applicabili sia per operazioni che
coinvolgono imprese comunitarie che per
quelle da riferire ad altri ambiti territoriali.
Ciò in quanto:
• l’art. 12 comma 2 delle Disposizioni sulla
legge in generale prevede che occorre valutare la natura dell’operazione di trasferimento in Italia della sede sociale, al fine
di individuare le disposizioni che regolano
casi simili o materie analoghe; se nemmeno questo è possibile, soccorrono i principi
generali dell’ordinamento giuridico;
• l’art. 2507 c.c. (“Rapporti con il diritto comunitario”) prevede che l’interpretazione
e l’applicazione delle norme del Capo XI
(“Delle società costituite all’estero”), deve
uniformarsi agli indirizzi europei.
Ciò detto, con riguardo agli aspetti procedurali11, “nel caso di trasferimento della sede
di società estera in Italia è obbligo del notaio
che riceve in deposito l’atto estero di trasferimento verificare la legittimità e la conformità
dell’atto medesimo alla «lex societatis» ed alle
norme italiane, nonché la sussistenza delle
«condizioni stabilite dalla legge» per richiederne l’iscrizione nel Registro delle imprese”.
Lo strumento sopra analizzato parrebbe quindi
utilizzabile ai nostri fini: in realtà la sua efficacia è limitata ad alcuni specifici casi. Lo schema proposto, infatti, risulta agevole solo
nel caso in cui la società estera non risulti
essere altro che il contenitore della branch
italiana (in questo caso non si deve comunque
dimenticare che l’operazione progettata farebbe quanto meno cambiare la “nazionalità” delle partecipazione detenute dai soci)12.
Ma nel caso in cui la società estera sia maggiormente strutturata, il trasferimento della
sede non risolverebbe i problemi ed anzi potrebbe crearne di nuovi. Ciò in quanto con il
trasferimento della sede ci si potrebbe addirittura ritrovare con una situazione completamente rovesciata rispetto a quella iniziale:
si avrebbe l’esistenza di un entità legale in
Italia con una branch invece stabilita in un
altro Paese.
4
Il conferimento
La seconda opzione analizzata è quella che per
raggiungere l’obiettivo (“incorporation”) utilizza lo strumento del conferimento di ramo
aziendale.
Una verifica necessaria e preliminare consiste nell’accertamento della presenza di un’azienda “contenuta” nella unità locale italiana.
Sia il fatto che l’insediamento italiano risulti
essere stato ufficializzato, ai sensi degli artt.
2407 e ss. c.c., che la volontà di trasformare la
stessa in una entità legale italiana, portano a
ritenere che la verifica porterà ad una risposta
9 Per una disamina dei risvolti civilistici dell’operazione si veda Furian S. “Il trasferimento della sede (e della residenza
fiscale) in Italia di società di diritto comunitario: profili civilistici, contabili e fiscali”, il fisco, 2006.
10 Sul punto i riferimenti sono l’art. 2369 co. 5 c.c., il quale dispone che nel caso di trasferimento della sede sociale all’estero è necessario in seconda convocazione il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più di un terzo del capitale
sociale, e l’art. 2437 c.c. il quale comprende tale situazione tra quelle che consentono l’esercizio del diritto di recesso.
11 V. Massima Consiglio Notarile di Milano, Registro imprese, 16.10.2007 n. 9 “Trasferimento sede di società italiana
all’estero e di società estera in Italia”, in Banca Dati Eutekne.
12 L’operazione mostra la sua adattabilità nel caso del rimpatrio delle holding estere, ma lascia molte incertezze quando
la società estera risulta anch’essa operativa.
9
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
10
positiva, pur non potendosi escludere in modo
assoluto un’ipotesi contraria 13.
Superato ciò ci si deve chiedere se la “trasformazione” di una branch italiana da parte di un
soggetto estero in una newco anch’essa italiana, sia operazione riconducibile alla disciplina
dettata dal codice civile per i conferimenti di
aziende e rami. Il riferimento è dato dagli artt.
2343-ter e 2465-bis c.c. Da una lettura delle
norme richiamate non si intravvedono ostacoli a tale possibilità in quanto le disposizioni fanno unicamente riferimento all’oggetto
dell’operazione, non ponendo invece limiti di
tipo soggettivo.
Pertanto è possibile ricostruire i passaggi civilistici necessari.
Il primo punto consiste nell’individuazione
dell’esperto chiamato alla redazione della
valutazione14. A tali fini è preliminare l’individuazione della natura del soggetto conferitario, condizione che comporta la necessità di
una nomina tribunalizia (nel caso di conferitaria spa) o di parte (nel caso di conferitaria srl).
Ma in sede di organizzazione dell’operazione, forse ancora prima della scelta del
tipo societario della conferitaria, è opportuno
scegliere tra le due opzioni possibili:
• la newco può essere conferita in forza
del conferimento
• o, invece, essere prima costituita per poi
ricevere il conferimento con contemporaneo aumento del capitale sociale.
A prima vista la prima opzione parrebbe di più
semplice soluzione, se non altro perché in tal
modo si ottiene l’unione in un unico atto di due
distinti processi (la costituzione e il conferimento). In verità, soprattutto quando oggetto di conferimento sono aziende con una certa attività,
la seconda soluzione risulta spesso preferibile.
Ciò in quanto la possibilità di operare il conferimento in una società già costituita consente
un miglior governo dell’operazione. Si pensi solo
al fatto che solo nella seconda ipotesi vi è la
possibilità di posticipare l’effetto dell’operazione (magari per farlo coincidere con l’inizio di un
periodo fiscale, di una stagione commerciale,
ecc.) e che solo così facendo si può già in sede
di progettazione avere la certezza di quando il
conferimento avrà davvero efficacia15. Tutto ciò
spesso semplifica la fase iniziale, in quanto nel
momento del conferimento la newco risulterebbe già pronta ad operare, e non solo perché già
iscritta presso il Registro imprese, ma perché
anche già dotata di un organo amministrativo,
di proprie posizioni fiscali, ecc. Analizzando le
due ipotesi, occorre però distinguere anche le
modalità del conferimento:
• nel primo caso si tratterà di una costituzione della newco a cui verrà conferito il ramo
d’azienda che, in forza della valutazione
peritale, potrà esser dichiarato sufficiente a
sottoscrivere e versare la quota di capitale
riservata alla conferitaria;
• nel secondo caso, invece, la newco deve
deliberare un aumento di capitale ed a tal
fine il conferimento consisterà in un’assemblea straordinaria che delibererà il quantum
dell’aumento e l’eventuale sovrapprezzo,
sempre tenendo presente come limite massimo il dato peritale. Quindi il socio prima
sottoscriverà l’aumento e contestualmente
lo “verserà” grazie al conferimento.
L’estinzione della branch
Qualunque dovesse essere la strada scelta per
13 Non è possibile escludere a priori che l’apertura della branch italiana intervenga in assenza di un ramo di azienda,
anche perché non è questa una delle condizioni a cui è subordinata la sua iscrizione presso il Registro imprese. Ma
in assenza di un azienda sfuggono le ragioni di una “incorporation” dell’unità locale italiana. Qualora l’obiettivo fosse
quello dell’inizio di una reale attività in Italia, forse la soluzione più semplice sarebbe quello della chiusura della unità
locale (priva di azienda) con costituzione di una newco.
14 Non si prenderà in considerazione l’ipotesi in cui il conferimento abbia come conferitario una società di persone, pur se
anche tale operazione risulta possibile.
15 Nel caso di costituzione tramite conferimento, tale data è invece sottoposta ai tempi dei Registri imprese, in quanto in
tale ipotesi non è possibile prevedere l’efficacia posticipata del conferimento.
conferire l’azienda della branch, da un punto
di vista civilistico, dopo tale fase ne deve conseguire una ulteriore, in quanto l’unità locale
in Italia della società con sede all’estero non
risulta estinta in forza di tale operazione.
Come sempre capita, il conferimento non comporta (anche nel caso di conferimento riguardante tutta l’azienda) l’estinzione della conferente: ciò deriva da un operazione autonoma
e successiva rispetto al conferimento vero e
proprio.
Quindi, successivamente alla costituzione della newco o all’assemblea di aumento del capitale, l’unità locale italiana (ormai vuota)
deve essere cancellata dal Registro imprese: Ciò “è una conseguenza necessaria dello
«svuotamento» della branch: essa non è più
una sede stabile nella quale vengano esercitati
affari, essendo stata la sua azienda conferita
in altro soggetto giuridico”16.
Anche in questa situazione occorre coordinare le tempistiche. La chiusura della filiale deve
conseguire ad una decisone assunta dagli organi a ciò competenti nello Stato estero. Tale decisione (delibera) deve essere depositata presso
un notaio italiano ma è evidente che ciò debba
intervenire dopo che il conferimento ha avuto
effetto.
Occorre, nella sostanza, ripercorre a ritroso la
strada intrapresa in sede di apertura della filiale
italiana. In tal caso, per poter iscrivere l’unità
locale, è necessaria una delibera della società
estera da cui emerga la sua volontà, delibera
che dev’essere depositata in traduzione autentica negli atti di un notaio italiano, il quale
deve provvedere all’iscrizione presso il Registro
imprese.
5
Osservazioni fiscali
In chiusura, si offrono sintetiche osservazioni
circa la rilevanza fiscale della soluzione proposta17. Si ritiene che in tale ipotesi trovi piena
applicazione l’art. 176 del TUIR, come è stato
confermato anche dalla prassi dell’Agenzia
delle Entrate che, nella risoluzione 22.5.2007
n. 110, ha affermato che “al conferimento di
stabile organizzazione che la società non residente Alfa 1 prevede di effettuare, nel corso
dell’esercizio 2007, in una società - Beta – residente nel territorio dello Stato, è applicabile il
regime di neutralità di cui all’art. 176 del TUIR,
in base al combinato disposto degli artt. 178,
comma 1, lettera c), e 179, comma 2, del TUIR”.
Sempre in tale riferimento della prassi amministrativa trovano anche conferma alcune
delle indicazioni riportate nei paragrafi precedenti, dove si afferma che “ancorché comunemente definito «incorporazione di stabile»,
il conferimento di stabile organizzazione è
giuridicamente e fiscalmente assimilabile
ad un conferimento d’azienda – anche sul
piano della disciplina comunitaria – atteso
che la stabile organizzazione non è un soggetto giuridico autonomo tale da poter essere
coinvolto in un’operazione di fusione o scissione”.
Pertanto da ciò deriva, come già individuato
con riguardo agli aspetti civilistici, che anche
in ambito fiscale l’operazione descritta risulta
essere un “conferimento di ramo d’azienda”
che diviene la disciplina a cui rifarsi sia per
gli aspetti procedurali che sostanziali della
“incorporation” della branche in entità legale.
16 Vedi “Trasformazione di «branch» extra-Ue in società di capitali italiana” a cura della Commissione di diritto societario dell’Ordine dei dottori commercialisti di Milano, Dir. prat. soc., 9, 2009, p. 79 e ss.
17 Per una ampia analisi di tali aspetti si rimanda a Di Pillo V. “Il conferimento d’azienda e di ramo d’azienda in ambito
UE”, Bilancio e reddito d’impresa, 2015, p. 47 e Fasolino A. “Il conferimento/incorporazione di stabile organizzazione”,
in questa Rivista, 3, 2013, p. 71-76.
11
02
TRIBUTI
TRIBUTI
LA NUOVA NOZIONE DI ABUSO
DEL DIRITTO TRA AMBIGUITÀ
E CONTRADDIZIONI
Dario STEVANATO
Professore ordinario di diritto tributario nell’Università di Trieste – Avvocato
La nuova disciplina dell’abuso del diritto appare, nonostante gli sforzi compiuti, in gran parte
inadeguata e non sarà verosimilmente in grado di influire positivamente sugli indirizzi giurisprudenziali in voga. Il rischio è che, ancora una volta, in presenza di un percorso negoziale
anche semplicemente equipollente, quanto a risultati economico-sostanziali, rispetto ad altri percorsi fiscalmente più onerosi, si concluda per l’elusività del comportamento. E, quindi,
si continui a identificare l’elusione alla stregua di un “uso distorto delle forme giuridiche”.
1
L’equivoco dell’elusione
tributaria come “abuso
delle forme giuridiche”
L’idea che l’elusione consista in un “abuso”
delle forme giuridiche, finalizzato a sottrarre
una certa “operazione economica” al suo regime fiscale naturale, è molto diffusa, ed ha
condizionato, come tra breve vedremo, la riformulazione della norma antielusiva e il testo del nuovo art. 10-bis della L. 212/20001.
Il comportamento elusivo, secondo questa ricostruzione, sarebbe volto a evitare l’imposta
normalmente applicabile a quel risultato: per
raggiungere tale obiettivo, verrebbero “piegati”
negozi giuridici non confacenti a quel tipo di
operazione economica. L’aggiramento, secondo questa visione, opererebbe dunque al livello
dei negozi giuridici, sostanziandosi nell’uso di
forme negoziali eccentriche in luogo di altre,
“normali” e fiscalmente più onerose.
Le norme antielusive, secondo questa diffusa
concezione, avrebbero cioè il compito di adeguare la tassazione alla “sostanza economica” delle operazioni poste in essere, superando e disapplicando il regime fiscale assestato
sulla “forma giuridica” della strumentazione
negoziale utilizzata.
Questa impostazione, nell’assegnare a mio avviso alla norma antielusiva compiti impropri,
postula una tassazione necessariamente orientata al risultato economico sotteso ai negozi
giuridici, e la possibilità di individuare un unico
1 Inserito dall’art. 1 del DLgs. 5.8.2015 n. 128, pubblicato in G.U. 18.8.2015 n. 190. Sul tema si rinvia, più ampiamente, al
Manuale Eutekne, AA.VV. “Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici”, a cura di Miele L., gennaio 2016.
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schema giuridico come referente della “giusta
imposizione” di quel risultato, rispetto al quale
altri possibili percorsi alternativi – fiscalmente
meno onerosi – avrebbero carattere deviante.
Tale concezione affonda le sue radici nell’interpretazione funzionale della “Scuola di Pavia” e nel dibattito sull’art. 8 della vecchia legge di registro (RD 3269/1923)2, ma continua a
esercitare molte suggestioni, tanto da indurre
taluni a inquadrare le norme antielusive tra
quelle concernenti l’interpretazione analogica,
in modo da estendere il regime fiscale previsto per la fattispecie “tipica” alle fattispecie
atipiche o innominate3, trascurando così, tra
l’altro, che la fattispecie realizzata e oggetto
di sindacato è molto spesso anch’essa regolata dalla legge, sia pure in termini fiscalmente
meno onerosi, dunque a rigore in molti casi
mancherebbero in radice i presupposti (la lacuna o vuoto normativo) per l’interpretazione
analogica.
Questo approccio, influenzato dalla nozione di
abuso del diritto tributario che la Cassazione
ha ritenuto di poter ricavare dall’art. 53 della Costituzione, appare tuttavia inaccoglibile, nella misura in cui sottende l’illusione di
desumere direttamente dall’art. 53 la “capacità contributiva” del contribuente, senza la
mediazione delle singole norme impositrici:
chi propugna una concezione di questo tipo
attribuisce all’art. 53 portata immediatamente precettiva, di regola immediatamente applicabile ai singoli casi concreti. Stabilita una
presunta equivalenza della “capacità contributiva” manifestata in operazioni implicanti
un diverso regime legale di tassazione, l’applicazione del divieto di abuso del diritto determinerebbe così l’applicazione alla fattispecie
(previa disapplicazione della norma “formalmente applicabile”) della norma ritenuta più
“congrua” a quel risultato, come se si trattasse
di un caso non disciplinato dalla legge, da risolvere appunto in base all’analogia.
Si tratta per altro verso della riprova delle insormontabili difficoltà che la dottrina palesa
nella preliminare opera di “regolamento dei
confini” rispetto a figure diverse dall’elusione,
ovvero l’interpretazione analogica, la simulazione, la qualificazione dei contratti, fino
addirittura ad appiattire l’elusione sull’evasione e in tal modo estendere alla prima le
sanzioni previste per la seconda 4. Senza così
2 Si veda ad esempio, a tal riguardo, Jarach D. “Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro”, Dir. prat. Trib., 1938,
I, p. 98, per il quale, identificata la causa dell’imposta nella capacità contributiva, “ne discende la logica conseguenza
dell’applicazione delle tasse di registro agli atti secondo il loro contenuto economico, e non secondo il loro travestimento
giuridico. Dico travestimento, perché quando la veste giuridica è normale e si adatta perfettamente al contenuto economico dell’atto non v’è ragione di distinguere tra natura economica e natura giuridica”. Per l’Autore citato le imposte “non
possono avere come fattispecie che un fatto indicante capacità contributiva; il logico criterio di applicazione non può
essere che quello della sostanza economica della fattispecie, anche se essa si presenta sotto vesti giuridiche difformi da
quelle normali per l’intento pratico seguito dalle parti” (p. 102). Su questi temi mi sono già soffermato in altre occasioni: v.
ad esempio Stevanato D. “Elusione tributaria, abuso dell’autonomia negoziale e natura del risparmio d’imposta”, Riv. giur.
trib., 2006, p. 614 e ss.
3 Così Falsitta G. “Manuale di diritto tributario. Parte generale”, Cedam, Padova, 2012, p. 224, per il quale il ragionamento
alla base della norma antielusiva si può così esemplificare: “se viene disposto (dalla legge tributaria) che la realizzazione
del risultato giuridico-economico X debba essere tassato, a carico del contribuente Tizio che l’ha posto in essere con
l’impiego di negozi che la legge espressamente prevede, con l’imposta del 10%, lo stesso, preciso trattamento deve
riservarsi a chiunque realizzi quello stesso risultato giuridico-economico anche se, al fine di ottenerlo, il soggetto Caio
che l’ha realizzato ha impiegato, aggirandoli, non i negozi previsti dalla legge per la tassazione del 10%, ma una concatenazione anomala e inconsueta di negozi cui la legge riserva o una tassazione più lieve del 10% o nessuna tassazione”.
4 Come ritiene da ultimo Giovannini A. “L’abuso del diritto nella legge delega fiscale”, Riv. dir. trib., 2014, I, p. 242, per il
quale “la distinzione tra evasione ed abuso fotografa non già due fenomeni tra di loro diversi e separati, come si sostiene
per negare la sanzionabilità dell’abuso (o impropriamente dell’elusione), ma due profili del medesimo fenomeno: l’abuso
descrive la condotta, l’evasione il risultato […] La distinzione tra abuso ed altre forme di risparmio illegale di imposta,
insomma, non risiede nel risultato, ossia nell’evasione, ma nelle condotte”. In precedenza, su questa stessa linea, Vanz G.
“L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica”, Rass. trib., 2002, p. 1612, per il quale l’elusione illecita (cioè
quella vietata dal legislatore) altro non è che un fatto di evasione, consistente nella violazione della norma sostanziale
antielusiva. Sul punto, del tutto condivisibilmente, vedi invece Vacca I. “L’abuso e la certezza del diritto”, Corr. Trib., 2014,
considerare che il potere di constatare l’inopponibilità del comportamento ritenuto elusivo attiene alla fase dell’accertamento, mentre
la dichiarazione presentata dal contribuente,
quand’anche poi contestata nei suoi effetti
dall’Amministrazione, non può essere considerata “infedele” fin dall’origine, giacché il
contribuente non può certo essere tenuto e
nemmeno autorizzato a disapplicare il regime giuridico-fiscale delle operazioni poste in
essere, sostituendolo con uno in ipotesi più
conforme allo “spirito del sistema”.
Questo potere, che implica un vero e proprio
over-ruling e non certo un’interpretazione analogica, è palesemente concesso soltanto all’Amministrazione, mentre non esiste alcuno speculare “dovere” del contribuente di autoapplicare
la norma antielusiva, di conformare la propria
dichiarazione, anziché agli atti giuridici posti in
essere, a quelli (più “normali”) che avrebbe dovuto porre in essere, anche perché non si vede
come il contribuente possa pronosticare l’operazione alternativa il cui regime fiscale gli sarà
magari un giorno opposto dall’Amministrazione. Tantomeno si può pretendere dal contribuente una certa condotta sul piano civilistico,
imponendogli di adottare una strumentazione
negoziale ad esclusione di altre, in quanto in
tal modo le norme fiscali finirebbero per comprimere in modo eccessivo e sproporzionato il
principio di autonomia privata. L’inapplicabilità
delle sanzioni all’elusione, al di là delle scelte
compiute dalla legge delega 23/2014 e dal legislatore delegato, dovrebbe peraltro discendere
proprio da questa elementare constatazione,
oltre che dalla mancanza di una violazione in
senso tecnico, visto che chi elude non infrange
alcuna regola, mentre ritenere che la violazione
riguardi un dovere di “buona fede oggettiva”,
e che l’elusione rilevi come “comportamento
artificioso lesivo del diritto del creditore”5 , non
considera che non esiste un’obbligazione di pagamento del tributo legata ai “risultati economici”, bensì ai negozi giuridici posti in essere,
che il contribuente è libero o meno di stipulare,
anche in ragione del carico fiscale che agli stessi si riconnette.
Nelle ricostruzioni della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza, il percorso “alternativo” a quelle ritenuto “normale”, che ha consentito il pagamento di un’imposta inferiore
e che non è chiaro in base a quali parametri
possa essere considerato “anomalo” o “inconsueto”, diventa invece automaticamente un
comportamento che aggira i negozi cui si collegava una maggiore tassazione. Solo che ad
essere oggetto di aggiramento non sono certo
i negozi giuridici o le norme fiscali che vi collegano una certa tassazione, bensì i principi
dell’ordinamento tributario6: nel caso in questione, evidentemente, quelli dei sottosistemi
impositivi coinvolti dalle operazioni poste in
essere dal contribuente.
2
L’illusoria pretesa
di ancorare la tassazione
a una “sostanza economica”
rappresentata
da archetipi giuridici
A ben vedere, dietro alla dottrina “substance
over form”, che sostiene l’esigenza di ancorare
l’imposizione fiscale alla realtà sostanziale an-
p. 1128, per il quale “l’abuso (alias elusione) è cosa senz’altro diversa dall’evasione. L’evasione infatti, si sostanzia nell’occultamento del reddito in violazione di specifiche norme dell’ordinamento, mentre il comportamento abusivo consiste
nel non far nascere i presupposti dell’imposizione, pur senza violare direttamente alcuna regola normativa”.
5 Così Giovannini A., cit., p. 242. In senso contrario, La Rosa S. “L’accertamento tributario antielusivo”, Riv. dir. trib., 2014,
p. 505.
6 Come osservano giustamente Atienza M., Ruiz Manero J. “Illeciti atipici”, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 81, nella frode alla
legge “non si viola, in realtà, alcuna regola, né direttamente né indirettamente: si viola un principio. Data tuttavia la
connessione giustificativa che esiste tra regole e principi, questa violazione dei principi porta a modificare la regola (la
cui mancanza di giustificazione è stata mostrata chiaramente proprio grazie all’atto fraudolento), per ripristinare in tal
modo la coerenza dell’ordinamento (l’adeguamento tra i principi e le regole)”.
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ziché alla forma giuridica, non vi è la pretesa
di tassare direttamente una ricchezza informe,
non qualificata giuridicamente, quanto di applicare l’imposta prevista per quel certo atto
o strumentazione negoziale in grado di meglio manifestare e rappresentare il presupposto economico che si suppone la legge fiscale
avesse di mira; insomma, una specie di “avatar”
giuridico in grado di dare veste formale alla
sottostante realtà sostanziale. Anche il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, e
la necessità di adeguare l’imposizione all’effettiva capacità contributiva corrispondente alla
“sostanza economica della fattispecie”, non
può fare a meno di veicolare la tassazione attraverso una diversa “forma giuridica”, ritenuta
più aderente a quella certa realtà sostanziale. Il
principio “substance over form” si rivela dunque
per certi aspetti mistificatorio, giacché la sua
applicazione si traduce nella sostituzione non
già della sostanza alla forma, bensì di una
forma all’altra. L’effetto economico su cui assestare la tassazione diventa quello connaturato a un diverso schema negoziale, che il privato
avrebbe dovuto stipulare, date le circostanze e
un canone di “normalità” comportamentale.
In effetti, anche la tassazione basata su norme
antielusive non può prescindere dall’individuare una fattispecie normativa in cui reinquadrare il comportamento del contribuente, poiché
altrimenti verrebbe vulnerato il principio di
riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte e di tributi. La norma antielusiva può insomma consentire all’Amministrazione di applicare un diverso regime legale
di imposizione rispetto a quello corrispondente
agli atti posti in essere dal contribuente, ma
non può applicare direttamente un’imposta
ad un certo “risultato empirico” senza averlo prima inquadrato all’interno di una fattispecie astratta, cioè di una norma positiva.
Ciò emergeva, del resto, anche dalla formulazione dell’art. 37-bis del DPR 600/1973,
secondo cui l’Amministrazione finanziaria
disconosce i vantaggi tributari “applicando le
imposte determinate in base alle disposizioni
eluse”, e risulta confermato dalla nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fi-
scale, introdotta – in attuazione della legge
delega n. 23 del 2014 – nell’art. 10-bis della
L. 212/2000, secondo cui l’Amministrazione
disconosce i vantaggi “determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi”.
Quest’ultima formulazione attribuisce correttamente rilevanza ai “principi”, oltre che alle
“norme”, per la ricostruzione della fattispecie
elusa, ma ciò non toglie che la richiesta del
maggior tributo dovrà avvenire previa individuazione di un regime legale di tassazione,
tra quelli previsti dall’ordinamento.
L’equivoco in cui cade la prospettiva ricostruttiva maggioritaria è quello di pensare che
esista un unico “percorso giuridico”, un solo
schema negoziale in grado di fornire adeguata
rappresentazione a un certo obiettivo economico, e non invece una pluralità di strumenti
e percorsi rispetto ai quali è assai difficile e
comunque opinabile assegnare una patente
di “normalità”, stabilire una scala di priorità
o una gradazione in termini di meritevolezza.
Non vi è dubbio che le fattispecie impositive,
che fanno spesso riferimento a tipi contrattuali
e figure tratte dal diritto dei privati (compravendita, usufrutto, conferimento, locazione,
mandato, ecc.), rilevano per la sottostante “sostanza economica”, giacché le imposte si applicano su indici di capacità contributiva e forza
economica; il loro obiettivo è infatti misurare
la ricchezza su cui prelevare l’imposta, e per
farlo le norme tributarie sfruttano le occasioni
in cui tale ricchezza si manifesta nel mondo
degli affari, negli scambi che hanno luogo sul
mercato, più in generale nelle sistemazioni di
interessi economico-patrimoniali tra privati.
Mi sembra tuttavia illusorio pretendere di
ravvisare una corrispondenza univoca tra “sostanza economica” su cui esercitare il prelievo
e “forma giuridica” idonea a rappresentarla,
tanto da ricondurre alla prima, quoad effectum, anche tutte le altre possibili “forme” non
ritenute normali nel perseguire quel certo risultato pratico. Di solito, infatti, esistono plurime modalità e combinazioni negoziali per
perseguire un certo intento economico, ad
esempio per attuare un finanziamento oneroso, per dotare patrimonialmente una società,
per trasferire la proprietà di un bene, e così
via. Ora, pretendere di associare a tutti i percorsi negoziali economicamente equipollenti a
quello considerato “normale” il regime fiscale
previsto per quest’ultimo, significa compiere
un’opzione ideologica arbitraria, riscrivendo regole già sancite dal legislatore. Le fattispecie imponibili, certamente concepite in
funzione della ricchezza da tassare, una volta
introdotte cristallizzano le scelte del sistema,
impedendo all’interprete di attingere direttamente ad una “sostanza economica” non filtrata da regole giuridiche, e ciò anzitutto in
ossequio all’art. 23 della Costituzione.
Una volta che il legislatore ha selezionato le
fattispecie imponibili attraverso il riferimento
a tipologie negoziali, non si può pretendere di
attingere direttamente, in via interpretativa,
alla “sostanza economica” sottostante ai singoli negozi posti in essere, sussumendoli tutti
nell’ambito di una fattispecie paradigmatica
di quella ricchezza che si ipotizza il legislatore volesse immancabilmente tassare in un
determinato modo, considerando tale fattispecie alla stregua di un alter ego giuridico di
quella sostanza economica. La tesi che stiamo
commentando ritiene invece che un risultato
economico dovrebbe essere invariabilmente
tassato secondo un’unica regola di tassazione,
predisposta in funzione di una forma giuridica
costituente l’idea platonica di quella ricchezza.
Per attingere direttamente ai risultati economici, e su questi richiedere le imposte, indipendentemente dalle forme giuridiche utilizzate, occorre che nella costruzione giuridica
della fattispecie tributaria si faccia esplicito
riferimento a un certo tipo di risultato economico: si pensi all’utilizzo, nelle norme su
ricavi e plusvalenze, della locuzione “cessione
a titolo oneroso”, riferibile non solo alla compravendita ma altresì alla permuta, al conferimento in società, al trasferimento di diritti
reali di godimento. Oppure si pensi all’imposta sulle donazioni con il riferimento alle liberalità indirette, risultato empirico che può
essere raggiunto utilizzando atti e negozi che
non si qualificano in senso liberale e possono
avere causa onerosa, gratuita o neutra.
In altri contesti, per una esplicita presa di posizione del legislatore, determinati negozi vengono assimilati ad un certo schema-tipo in virtù della sostanziale identità di effetti: si pensi
all’assimilazione ai fini IVA delle vendite con
riserva di proprietà o delle locazioni con clausola di trasferimento vincolante per ambedue le
parti agli atti di trasferimento della proprietà,
oppure al mandato irrevocabile con dispensa
dall’obbligo di rendiconto, assimilato ai fini
dell’imposta di registro all’atto per il quale è
stato conferito.
Si potrebbe obiettare che norme come quelle
testé indicate hanno una specifica finalità antielusiva, essendo appunto volte ad evitare che,
attraverso la stipula di taluni contratti in luogo
di altri, o l’apposizione al negozio giuridico di
determinate clausole, vengano postergati, al
limite anche indefinitamente, gli effetti temporali del negozio di trasferimento e con essi il
momento di applicazione del tributo. Dunque,
tali norme potrebbero essere considerate come
il punto di emersione di una tendenza ordinamentale, nel senso dell’omologazione del regime fiscale di atti giuridici – nel segno di quello
applicabile allo schema-tipo – in ragione dell’identità del risultato economico perseguito.
In realtà, ad una ricostruzione di questo tipo
si possono opporre almeno due ordini di argomentazioni. Il primo è un argomento logicoformale: se infatti già operasse un principio
generale substance over form, di omologazione degli effetti fiscali di atti giuridici asseritamente aventi un analogo impatto economico,
norme specifiche come quelle sopra ricordate
risulterebbero del tutto superfluee, la cui presenza depone invece nel senso della loro utilità, non essendo surrogabili da un (inesistente)
principio di ordine generale (argomento del
legislatore non ridondante).
L’altro argomento ha a che vedere con la ragion
d’essere delle norme in considerazione, che non
enunciano più di tanto una regola, ancorché
limitata a un particolare contesto, di prevalenza della sostanza sulla forma, di superamento
delle forme giuridiche a favore di una tassazione ancorata al risultato economico raggiunto,
quanto depurano i negozi impiegati dai loro
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“elementi accidentali”, ovvero perseguono una
tassazione degli atti in ragione dell’identità degli effetti giuridici (non economici) che gli stessi sono idonei a produrre.
Sembra allora possibile affermare che, in mancanza di esplicite opzioni normative come
quelle su ricordate, una tassazione raccordata
alla “sostanza economica”, anziché alle forme
giuridiche in concreto utilizzate, appare fuori
dalla portata dell’interprete, nemmeno ricorrendo alla norma antielusiva, che risponde
come vedremo ad una diversa finalità.
3
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
La funzione delle clausole
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antielusive e le fuorvianti
indicazioni della legge
delega 23/2014
L’impossibilità di istituire una corrispondenza tra “sostanza” e “forma”, inseguendo una
tassazione ancorata alla sostanza economica,
quando la forma appaia – spesso sulla base
delle personali valutazioni dell’interprete –
incongrua e “anomala” rispetto all’obiettivo
economico dichiarato o desumibile dalle circostanze, dipende poi anche da un’altra ragione: i diversi regimi fiscali, che si riallacciano
alla varietà degli schemi giuridici impiegabili
in un dato contesto economico, si spiegano
sovente alla luce di esigenze tutte interne al
sistema impositivo; si tratta, in particolare,
di ragioni di simmetria rispetto alla posizione di altri soggetti, dell’operare di meccanismi
volti a evitare doppie imposizioni, di esigenze
di neutralità che magari affondano le proprie
radici in considerazioni di ordine civilistico7 o
nell’obiettivo di traslare a valle l’onere impositivo8 , dell’operare di un principio di alternatività rispetto all’applicabilità di altri tributi9 ,
di obiettivi erariali di anticipazione del gettito
(come accade nelle imposte sostitutive “volontarie”), o altro ancora.
Dunque, non è possibile ravvisare nell’adozione di un percorso alternativo a quello
ritenuto, con un’opzione di chiara natura assiologica, più congeniale all’obiettivo economico che il contribuente intendeva perseguire, un elemento sintomatico di una
elusione fiscale, per il semplice motivo che il
regime previsto per tale percorso alternativo (magari meno oneroso solo in apparenza)
potrebbe in realtà essere perfettamente in
linea con esigenze sistematiche rispondenti
a consapevoli scelte del legislatore.
Lo scopo più plausibile delle norme antielusive
non è quello di superare le forme giuridiche
utilizzate dai privati, inseguendo la tassazione
della realtà economica sottostante, quando
le prime siano ritenute inadeguate a fornire
una “congrua” rappresentazione del fenomeno sostanziale, prima di tutto poiché questo
implicherebbe una diversa patente di meritevolezza ad istituti negoziali tutti sanciti dalla
legge, o comunque una valutazione negativa
dell’autonomia privata contrastante con l’art.
1322 c.c.
Inoltre, una lettura di questo tipo finirebbe per
obbligare il contribuente ad utilizzare sempre,
davanti a più alternative negoziali disponibili
per raggiungere un certo risultato economico,
la presunta “via maestra”, che verrebbe fatta coincidere con quella connotata da un più
gravoso regime di tassazione.
Al contrario, la norma antielusiva non presidia
la “giusta imposizione” della realtà sostanziale,
qualora nel perseguirla il contribuente non si
sia attenuto ad uno schema-tipo asseritamente fisiologico e naturale, in luogo di altri automaticamente e per differenza da condannare
7 Si pensi alla “neutralità fiscale” di fusioni e scissioni, spiegabile anche col superamento della concezione estintivo-traslativa di tali operazioni.
8 Come accade nell’IVA, dove la “neutralità” del tributo per gli operatori economici si giustifica con la volontà di incidere il
consumo finale.
9 Che avrebbe dovuto indurre la giurisprudenza a maggiore prudenza nell’applicazione ad operazioni di conferimento
d’azienda e successiva cessione delle quote (operazione rientrante nel campo di applicazione dell’IVA) del regime previsto
per le cessioni di azienda, sulla base di una pretesa prevalenza della sostanza sulla forma.
in quanto tortuosi, anomali, innaturali; ciò che
la norma antielusiva può e deve presidiare è
il rispetto dello spirito delle leggi tributarie,
e degli indirizzi sistematici che dalle stesse
emergono, nei confronti di comportamenti
finalizzati al loro aggiramento. E il novero dei
comportamenti che realizzano un’elusione è
dunque più circoscritto di quello che si avrebbe
accogliendo invece la prospettiva del superamento delle “forme” non ritenute consone agli
obiettivi economici dei privati. Non è infatti
sufficiente, per affermare un’elusione, ravvisare che il contribuente si è avvalso di strumenti
in ipotesi più vantaggiosi dello schema-tipo
che in ipotesi avrebbe meglio fornito rappresentazione alla realtà sostanziale, se non si
dimostra che quel comportamento ha infranto
i principi del sistema e lo “spirito” delle leggi
tributarie, la cui rilevazione andrà effettuata
esaminando attentamente le ragioni sottostanti alle norme che lo compongono. D’altra
parte, e specularmente, non sarà affatto necessario dimostrare che il comportamento del
contribuente realizzava un “abuso delle forme
giuridiche”, un utilizzo improprio o anomalo
degli schemi civilistici, poiché basterà appunto rilevare la strumentalizzazione delle regole tributarie che attraverso l’adozione di quel
certo schema negoziale sono state selezionate
dal contribuente come regime giuridico-fiscale
applicabile alla fattispecie.
Per le ragioni su indicate, non appare felice la
scelta, operata dall’art. 5 della legge delega
11.3.2014 n. 23, di definire la condotta abusiva
“come uso distorto di strumenti giuridici idonei
ad ottenere un risparmio d’imposta”, giacché
in questo modo si confonde nuovamente l’elusione tributaria con l’“abuso delle forme
giuridiche”, e quest’opzione si traduce nella
pretesa di applicare le imposte attingendo
direttamente alla “sostanza economica” delle
operazioni10, così considerando indebiti quei
regimi fiscali di ipotetico maggior vantaggio
connessi a strumentazioni negoziali ritenute
“non normali”, quando per avventura potevano essere seguiti altri percorsi fungibili, il che
accade assai di frequente.
In questo modo, la norma antielusiva si trasforma in uno strumento per costringere il
contribuente a scegliere sempre, di fronte a
più alternative negoziali disponibili per raggiungere un certo risultato, la via più onerosa,
indipendentemente da ogni valutazione circa
la natura “sistematica” dell’ipotetico vantaggio tributario che sarebbe altrimenti ottenuto.
Purtroppo il legislatore delegante, anziché interrogarsi sull’essenza dell’elusione e le conseguenze deteriori della nozione accolta dalla
prassi e dalla giurisprudenza, sembra essersi
appiattito proprio sulle “formule” giurisprudenziali, recependole acriticamente11.
Nella visione giurisprudenziale, è l’“utilizzo distorto” degli strumenti giuridici a colorare di
“indebito” i vantaggi fiscali da essi derivanti, ma
la “distorsione” cui i giudici alludono non dipende da una valutazione endogena al sistema delle
leggi tributarie; dipende invece, in modo circolare, proprio dalla finalizzazione del comportamento a quei vantaggi. È distorsivo, cioè, quel
comportamento che utilizza strumenti giuridici
“non normali”, cioè tali da conseguire un risparmio fiscale rispetto ad una o più alternative negoziali ritenute “normali”, il cui regime fiscale
costituirà il benchmark cui allineare anche tutti
gli altri schemi negoziali in grado di raggiungere
il risultato economico perseguito.
10 Su questa lettura della legge delega v. anche Gallo F. “Brevi considerazioni sulla definizione di abuso del diritto e sul nuovo regime del c.d. adempimento collaborativo”, Dir. prat. trib., 2014, I, p. 949, per il quale “definendo la condotta abusiva
come l’uso distorto di strumenti giuridici aventi lo scopo prevalente di ottenere indebiti vantaggi fiscali, il legislatore
delegante ha voluto significare che il principio di capacità contributiva, per essere concretamente operante e costituire
un limite costituzionale all’autonomia negoziale, deve essere accompagnato dalla contestuale applicazione del principio generale della buona fede e dell’affidamento, oltreché da quello della prevalenza della sostanza sulla forma”.
11 Come quella utilizzata da Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055 e n. 30057, in Banca Dati Eutekne, nonché da Cass. 21.2.2011
n. 1372, ibidem, che ravvisa l’elusione nell’“utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dall’aspettativa del vantaggio fiscale”.
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4
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
L’elusione come ricerca
del “risparmio” in presenza
di alternative giuridiche
equipollenti e fiscalmente
più onerose:
annotazioni critiche
20
Questa deteriore concezione dell’elusione si
ritrova peraltro anche nei recenti orientamenti della Cassazione, che nelle ultime pronunce
ravvisa gli estremi della condotta elusiva in
quell’operazione che, “nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche
e sul conseguimento di un indebito vantaggio
fiscale, presuppone l’esistenza di un valido strumento giuridico che, pur se alternativo a quello
scelto dal contribuente, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito dal contribuente”12.
Ma se vogliamo questa impostazione è già
contenuta in nuce nella giurisprudenza che ha
“scoperto” l’esistenza di un generale principio
anti-abuso, desumendolo dall’art. 53 della
Costituzione, secondo il quale “il contribuente
non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla
mera aspettativa di quel risparmio fiscale”13.
Ora, l’“utilizzo distorto di strumenti giuridici”
sembra alludere nuovamente ad un uso anomalo di forme negoziali rispetto a un ipotetico
comportamento normale, “tagliato su misura”
del risultato economico da raggiungere. Ma se
questo appare il frutto di un’illusione riduzionista, che contraddice l’autonomia privata
nella scelta degli strumenti ritenuti dalle parti più idonei agli scopi perseguiti, la pretesa
di ravvisare l’elusione tributaria (o l’abuso di
diritto che dir si voglia) nell’uso “non normale” o inconsueto di schemi negoziali rischia
di tradursi nel suo esatto opposto, ovvero
nell’obbligo di seguire, tra plurime alternative negoziali, quella fiscalmente più onerosa;
come si sta purtroppo verificando nella prassi accertativa e giurisprudenziale, l’uso di un
qualsivoglia strumento giuridico viene considerato “distorto” quando allo stesso si colleghi
un regime fiscale di (magari solo apparente)
maggior favore rispetto ad altre alternative
che il contribuente avrebbe potuto percorrere, e che non sono state imboccate soltanto
a causa del maggior gravame fiscale che esse
avrebbero comportato.
Orbene, fondare l’elusione sull’esistenza di un
idoneo strumento giuridico alternativo, funzionale al raggiungimento dello scopo economico perseguito e ovviamente implicante
un diverso carico fiscale, può far assumere i
connotati dell’elusività a comportamenti che
non aggirano alcuna disposizione o principio,
finendo per negare ogni spazio alla lecita
pianificazione fiscale, con significative ricadute sull’autonomia privata 14.
È infatti quasi sempre riscontrabile una pluralità di schemi e percorsi giuridici per raggiungere un determinato scopo economico, mentre
far dipendere la non elusività dalla mancanza di alternative percorribili è del tutto
12 Cfr. Cass. 30.11.2012 n. 21390; Cass. 14.1.2015 n. 438, in Banca Dati Eutekne. Sulle stesse posizioni anche Fransoni G.
“Spunti in tema di abuso del diritto e «intenzionalità» dell’azione”, Rass. trib., 2014, p. 414, per il quale l’elusione o abuso
si avrebbe nei casi di “uso atipico di forme giuridiche che perviene alla realizzazione di risultati omogenei in termini
di capacità contributiva e senza vantaggi operativi (sul piano economico o anche ideale) rispetto a quelli conseguenti
all’uso delle forme tipiche e normativamente previste”.
13 Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055, in Banca Dati Eutekne.
14 Osservano Atienza M., e Ruiz Manero J., cit., p. 89, che “quello che nell’ambito del diritto tributario è conosciuto come ‘economia di opzione’ o ‘risparmio fiscale’ si differenzia dalla frode, perché nell’‘economia di opzione’ non vi è alcun comportamento che si possa qualificare come illecito; semplicemente, si opta per utilizzare una determinata regola che attribuisce un
potere (in forma regolativamente permessa) il cui risultato suppone una situazione più vantaggiosa di quella che deriverebbe
dall’utilizzazione di un’altra o di altre regole alternative. L’economia di opzione forma parte […] dell’opzione di efficienza
economica compiuta dall’individuo per regolare le sue attività economiche”.
fuorviante, giacché nulla ha a che vedere col
tema dell’aggiramento dello spirito delle leggi tributarie, cioè con l’essenza dell’elusione.
Allo stesso tempo, anche l’altro elemento valorizzato dalla Cassazione, ovvero l’impiego di
operazioni, in luogo di altre, spiegabile col mero
conseguimento di risparmi di imposta15 , non è
l’indice di alcunché, posto che se si tratta di risparmi di imposta non contrastanti con lo spirito (oltre che ovviamente la lettera) delle norme
tributarie, gli stessi non possono certo essere
considerati abusivi. La concezione su illustrata
si salda poi alla questione delle “valide ragioni
economiche”, delle “ragioni economicamente
apprezzabili” atte a giustificare l’operazione
posta in essere. Questo requisito è se vogliamo
una diretta conseguenza dell’aver inquadrato
l’elusione tributaria alla stregua di un abuso
delle forme giuridiche. La mancanza di ragioni
economiche differenziali per preferire il comportamento e percorso negoziale imboccato dal
contribuente, lo rende infatti equipollente agli
altri che potevano astrattamente essere percorsi, cioè non giustificabile se non alla luce del
risparmio fiscale ad esso collegato. Ed a questo
punto ogni barriera concettuale tra elusione e
lecita pianificazione fiscale cade, costringendo
il contribuente a dimostrare che quello adottato era l’unico strumento giuridico possibile
date le circostanze, e che altre strade alternative o non erano percorribili o se lo fossero state
avrebbero dato luogo a conseguenze economiche sensibilmente diverse da quelle volute.
La dimostrazione di “ragioni economicamente
apprezzabili” per un certo comportamento,
nell’ottica della Cassazione, si traduce in effetti nella dimostrazione che quella seguita
era la “via maestra”, se non l’unica via, per
conseguire un certo risultato economico. Con
la conseguenza deteriore, già in atto da tempo, di reputare elusivi schemi negoziali magari
semplicemente equivalenti ad altri quanto ad
effetti economici complessivi, dunque spiega-
bili soltanto con il vantaggio fiscale che vi
si riconnetteva, che per tale ragione viene
automaticamente etichettato come elusivo 16.
In questo modo l’elusione viene del tutto
equivocata: questa consiste nella frode alla
legge tributaria, nell’aggiramento dei principi
e delle regole fiscali, rispetto al quale la “normalità” riscontrabile nell’utilizzo di un certo
strumento giuridico, che peraltro dipende da
un giudizio altamente opinabile e spesso del
tutto evanescente e controvertibile, non rileva
in alcun modo. L’unico significato che si dovrebbe a mio avviso attribuire ad un comportamento apparentemente anomalo sul piano
civilistico, cioè a quell’“uso distorto” delle forme giuridiche di cui parla la Cassazione e la
stessa dottrina maggioritaria, è quello di un
elemento di attenzione investigativa, al più
un sintomo di una possibile elusione, che
però andrebbe dimostrata guardando ai principi del sistema tributario, onde verificare un
loro eventuale aggiramento, e non all’adeguatezza degli schemi giuridici rispetto agli obiettivi economici dei privati.
Un uso inconsueto di un certo percorso negoziale, in circostanze in cui si possa asserire
che il comportamento “normale”, che chiunque avrebbe preferito impiegare, avrebbe dovuto essere un altro, potrebbe far sorgere il
sospetto che quel comportamento fu adottato per eludere e aggirare le norme fiscali, il
che ovviamente implica un quid pluris rispetto
a dire che quel comportamento consentiva un
risparmio fiscale rispetto ad altre alternative
negoziali. Occorre in specie che tale risparmio sia ottenuto aggirando specifici principi
delle leggi d’imposta, come – per fare alcuni
esempi – il principio di continuità dei valori
fiscalmente riconosciuti, il divieto di dedurre minusvalenze iscritte su partecipazioni, il
disfavore per compensazioni intersoggettive
delle perdite in presenza di uno svuotamento
dell’organismo produttivo che le aveva pro-
15 Si veda Cass. n. 438/2015, cit.
16 Segnalano questa situazione, da ultimo, anche Vacca I., cit., p. 1127 e ss., nonché Manzitti A., Fanni M. “Abuso ed elusione
nell’attuazione della delega fiscale: un appello perché prevalgano la ragione e il diritto”, Corr. Trib., 2014, p. 1140 e ss.
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dotte, l’esigenza di non esentare da tassazione plusvalori maturati in un regime d’impresa, il divieto di salti di imposta, e così via 17.
Si può anche notare che far coincidere l’elusione con l’uso distorto di strumenti giuridici,
spiegabile solo con ragioni di risparmio fiscale,
presuppone il dogma della prevalenza della sostanza sulla forma, cioè l’idea che un certo risultato economico possa essere legittimamente raggiunto solo per vie giuridiche “normali”,
mentre altri percorsi, ritenuti devianti, diventano per ciò solo suscettibili di colorare di “indebito” l’assetto fiscale raggiunto, anche quando
lo stesso si dimostra perfettamente in linea con
i principi e lo spirito delle leggi tributarie.
Per cui, data l’esistenza di almeno uno schema
negoziale alternativo implicante un più oneroso (o apparentemente tale) carico fiscale, sarà
fatale cadere nella suggestione secondo cui,
allora, è a quello schema negoziale che risulta
allineata la “giusta imposta”: per conseguenza,
siccome questa si lega alla “sostanza economica” sottostante a quello schema, gli altri percorsi diversi nella forma ma equipollenti nella
sostanza dovranno essere ricondotti a quel
genere e livello di imposizione. Ogni volta, insomma, che vi sia un certo percorso negoziale
implicante un certo regime di tassazione, sarà
giocoforza concludere che altri percorsi sostanzialmente equipollenti quanto a capacità
di raggiungere l’obiettivo economico andranno
fiscalmente “riqualificati” (ove più vantaggiosi) applicando il principio substance over form,
previa affermazione della loro elusività.
5
I tentativi di chiarire per
via normativa il concetto
di elusione (o “abuso
del diritto”) e il rischio
di eterogenesi dei fini
Rispetto a tale “credenza” interpretativa, ormai radicata nella giurisprudenza ma frutto
di un errore di prospettiva, che confonde l’e
17 In questi termini anche Vacca I., cit., p. 1136.
lusione tributaria con un ineffabile “abuso”
o “utilizzo distorto” delle forme giuridiche, la
nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale appare – nonostante gli sforzi
compiuti – in gran parte inadeguata, oltre che
contraddittoria, e non sarà verosimilmente in
grado di influire positivamente sugli indirizzi
giurisprudenziali in voga.
Infatti, secondo la nuova definizione recata
dall’art. 10-bis della L. 212/2000 “configurano abuso del diritto una o più operazioni
prive di sostanza economica che, pur nel
rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Stante dunque l’inopponibilità di tali operazioni all’Amministrazione finanziaria, questa
“ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi
e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
Nella nuova formulazione della norma antielusiva non compare più il riferimento all’“aggiramento” dei divieti ed obblighi previsti
dall’ordinamento tributario: la prima impressione è che l’operazione elusiva sia stata
identificata con quella che realizza vantaggi
fiscali senza che il percorso negoziale avesse
una particolare ragione di essere adottato, rispetto a percorsi alternativi, se non l’obiettivo
di ottenere un risparmio d’imposta.
Nel precisare che non si considerano abusive
le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, la relazione ministeriale di accompagnamento chiarisce che “le valide ragioni
economiche extrafiscali non marginali sussistono solo se l’operazione non sarebbe stata
posta in essere in loro assenza. Occorre, appunto, dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni”.
Si torna così al rischio che, mancando tale dimostrazione, cioè in presenza di un percorso
negoziale anche semplicemente equipollente,
quanto a risultati economico-sostanziali, rispetto ad altri percorsi fiscalmente più onerosi,
si concluda per l’elusività del comportamento.
Vi sono ragioni per temere, infatti, che il requisito previsto dal comma 2 lettera b) del citato
art. 10-bis, ovvero l’esigenza che i vantaggi
sub judice siano realizzati in contrasto con
le finalità delle norme fiscali o con i principi
dell’ordinamento tributario, sarà nella prassi
negletto18, o comunque inteso sempre in conformità con l’identificazione dell’elusione alla
stregua di un “uso distorto delle forme giuridiche”, come accaduto fino ad ora. Insomma,
se già l’utilizzo del più pregnante requisito
dell’“aggiramento” non ha in passato impedito
alla prassi di identificare l’elusione con il conseguimento di vantaggi fiscali attraverso operazioni prive di “valide ragioni economiche”,
avere espunto tale requisito dalla definizione
non potrà verosimilmente migliorare le cose,
nonostante alcuni condivisibili passaggi della
relazione ministeriale illustrativa19.
Se sarà riscontrato un percorso negoziale apparentemente meno lineare o inconsueto rispetto
ad altri schemi negoziali alternativi fiscalmente
più onerosi, si finirà per concludere che il comportamento adottato contravviene le norme
che collegano una tassazione più elevata a quel
certo risultato economico, laddove perseguito
attraverso altri e più “normali” schemi giuridici.
L’impressione, in altre parole, è che, rispetto ai
riferimenti – contenuti sia nell’articolato normativo che nella relazione di accompagnamento – alle finalità delle norme fiscali e dei principi
dell’ordinamento tributario, farà premio la più
istintiva ma fuorviante identificazione dell’elusione (o abuso del diritto) nel compimento di
operazioni secondo certe forme giuridiche, in
luogo di altre fiscalmente più onerose, senza
ragioni extrafiscali differenziali per preferire
le prime alle seconde, senza cioè che la forma
giuridica fiscalmente più conveniente dovesse
essere preferita, in presenza di alternative negoziali percorribili, sulla base di ragioni economiche, riorganizzative, di efficienza produttiva,
e così via.
Non credo peraltro che si possa intendere la
definizione di cui al primo comma dell’art. 10bis in termini letterali e restrittivi, cioè istituire
una corrispondenza tra operazioni prive di sostanza economica e “operazioni circolari”, tipiche degli schemi elusivi “puri”, che non realizzano alcuna reale modificazione negli assetti
economico-patrimoniali, come ad esempio
accade nelle cosiddette “vendite a se stessi”,
o nelle operazioni che si annullano reciprocamente, come può alcune volte verificarsi nei
casi di vendita e retrovendita di un bene.
Se così fosse la nuova definizione di abuso/
elusione sarebbe infatti molto più angusta di
quella invalsa nella legislazione e negli orientamenti giurisprudenziali, ma di questa intenzione non vi è traccia nella legge delega, che nel
menzionare l’“uso distorto di strumenti giuridici” si colloca nel tradizionale (quanto criticabile) solco dell’elusione come “abuso delle forme giuridiche”; inoltre, nel comma 2 del nuovo
art. 10-bis si definiscono “operazioni prive di
sostanza economica” quei comportamenti negoziali “inidonei a produrre effetti significativi
diversi dai vantaggi fiscali”, con la precisazione
che costituiscono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, “la non coerenza
della qualificazione delle singole operazioni con
il fondamento giuridico del loro insieme e la non
conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici
a normali logiche di mercato”.
18 Si veda già ora, ad esempio, la valutazione scettica di Di Tanno T. “L’elusione codificata”, www. lavoce.info, 24.4.2015, il
quale, nel commentare lo schema di decreto legislativo sull’abuso del diritto, ritiene – a mio avviso erroneamente – che
non sia possibile individuare le finalità delle norme fiscali, né i principi dell’ordinamento tributario.
19 In cui si legge che “per vantaggi fiscali indebiti si considerano, poi, i benefici, anche non immediati, realizzati in
contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Deve sussistere, quindi, la
violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina
tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi. Ciò permette, in particolare, di calibrare in modo adeguato
l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che,
come si è detto, la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo
imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione”.
23
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
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Pur trattandosi di una formulazione alquanto
oscura e di non agevole inquadramento, presa
di sana pianta dalla raccomandazione UE del
6 dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale
aggressiva, gli indici in essa menzionati non
sembrano fatti sintomatici di vera e propria
“mancanza di sostanza economica” delle operazioni, quanto di uno scollamento tra (qualificazione della) strumentazione giuridica e
risultati economici perseguiti, nonché del carattere eccentrico delle forme usate rispetto
a quelle che ci si sarebbe aspettate secondo
criteri di normalità.
Dagli incisi di cui sopra si ricava insomma
che il legislatore intendeva riferirsi all’abuso
delle forme giuridiche, concepito come incoerenza o anormalità degli strumenti utilizzati
rispetto agli obiettivi economici perseguiti, e
non all’attuazione di schemi circolari, di costruzioni di puro artificio, ovvero a operazioni
del tutto prive di sostanza. Un conto è infatti
perseguire degli obiettivi economici attraverso forme reputate incoerenti, stravaganti, ecc.,
altra cosa è impiegare delle “vuote” forme
giuridiche prive di qualsivoglia reale sostanza
economica (operazioni circolari e schemi elusivi “puri” in genere).
E se ne ricava allora che la mancanza di “sostanza economica” che compare nella definizione di abuso del diritto non dovrebbe essere
intesa in senso assoluto, bensì in termini relativi, trattandosi soltanto di un modo di rendere in termini oggettivi, a prescindere cioè
dalle intenzioni del contribuente, l’idea delle
(mancanza di) “valide ragioni economiche” nel
comportamento adottato.
Il condizionale però è d’obbligo, data la contraddittorietà degli elementi presenti nell’articolato normativo.
Infatti, se per “operazioni prive di sostanza economica” si devono per altro verso considerare
– come si esprime l’articolato – “i fatti, gli atti
e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a
produrre effetti significativi diversi dai vantaggi
fiscali”, si finisce per reputare tali le operazioni
“circolari”, fini a se stesse, in genere i disegni
elusivi puri che non producono alcuna reale
modificazione negli assetti economico-patri-
moniali delle parti coinvolte dall’operazione.
Difficilmente conciliabile con tale lettura diventerebbe dunque la precisazione, commentata sopra, secondo cui “sono indici di mancanza di sostanza economica […] la non coerenza
della qualificazione delle singole operazioni con
il fondamento giuridico del loro insieme” e la
“non conformità dell’utilizzo degli strumenti
giuridici a normali logiche di mercato”: tali indici, più che denotare mancanza di sostanza
economica, segnalano infatti, come poc’anzi
osservato, soltanto l’utilizzo di strumenti giuridici incoerenti rispetto al risultato economico
da raggiungere, nel sottointeso che un tale risultato (non fiscale) fosse riconoscibile.
Si tratta in ogni caso di frasi allusive, che
come detto sembrano rimandare ad un utilizzo anomalo degli strumenti giuridici, in
situazioni in cui ci si aspetterebbe da un operatore economico “medio” un comportamento diverso, in specie la scelta di altri “strumenti giuridici”, più coerenti col risultato da
raggiungere. Non basterebbe insomma, per
conferire “sostanza economica” ai comportamenti negoziali, che questi consentano di realizzare un certo risultato empirico effettivo
(extrafiscale), occorrendo altresì che proprio
quella strumentazione negoziale utilizzata,
rispetto ad ipotetiche alternative, avesse una
“ragione” non fiscale per essere adottata.
Col riferimento alle “operazioni prive di sostanza economica” il legislatore delegato ha evidentemente inteso rendere omaggio alla citata
raccomandazione della Commissione UE, avente ad oggetto le costruzioni abusive, di “puro
artificio”, che però si riferiscono ad un arcipelago composito ed eterogeneo, che comprende,
accanto ad ipotesi di utilizzo di forme giuridiche incoerenti (“la qualificazione giuridica delle
singole misure di cui è composta la costruzione
non è coerente con il fondamento giuridico della
costruzione nel suo insieme”; “la costruzione […]
è posta in essere in un modo che non sarebbe
normalmente impiegato in quello che dovrebbe
essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale”), anche disegni elusivi puri
(“la costruzione comprende elementi che hanno
l’effetto di compensarsi o di annullarsi recipro-
camente”; “le operazioni concluse sono di natura circolare”).
Occorreva dunque un’opera di adattamento,
che invece è mancata, a favore di un acritico e meccanico recepimento di alcune delle
situazioni-tipo indicate dalla Commissione
Europea quali fattispecie sintomatiche dell’elusione 20.
Il punto nodale della vicenda è che, calato nel
contesto di una norma generale antielusiva che
si voglia fondata su una concezione dell’elusione come “frode alla legge tributaria” (come
parrebbe fosse nelle intenzioni del legislatore
delegato, stando alla lettura della relazione illustrativa), il riferimento alle operazioni “prive di sostanza economica” diventa un corpo
estraneo, e la riprova di ciò è l’aver attribuito
alla “mancanza di sostanza economica” un
significato a dir poco criptico, e comunque
di problematica applicazione concreta. Sarà
davvero curioso, in particolare, vedere come gli
interpreti e gli operatori intenderanno e applicheranno il test della “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme”.
La successiva lett. b) del comma 2 del nuovo
art. 10-bis pare invece puntare in una diversa
direzione, laddove qualifica come vantaggi
fiscali indebiti “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle
norme fiscali o con i principi dell’ordinamento
tributario”. Come si legge nella relazione di
accompagnamento, deve quindi sussistere “la
violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto,
di quelli della disciplina tributaria in cui sono
collocati gli obblighi e divieti elusi”.
Si tratta in fondo di un altro modo espressivo per dare rilevanza al concetto di “aggiramento” presente nell’art. 37-bis del DPR
600/1973, che tuttavia mal si coordina con
altre concezioni dell’elusione, che pure fanno
capolino nella norma, come quella fondata
sull’abuso delle forme giuridiche, o l’altra che
fa perno sulle operazioni prive di sostanza
economica (disegni elusivi puri). Nella nuova
formulazione della norma antielusiva convivono insomma molte “anime”, non facilmente
conciliabili, che riflettono verosimilmente la
volontà di assecondare quanto suggerito dalla Commissione UE nella raccomandazione
2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, col suo riferimento alle costruzioni
di “puro artificio”, alle operazioni prive di sostanza economica, finalizzate a raggiungere
risultati non in linea con lo spirito delle disposizioni fiscali altrimenti applicabili.
6
L’esimente delle “valide
ragioni extrafiscali”, una
contraddizione in termini
rispetto a operazioni
abusive in quanto “prive
di sostanza economica”
Nell’art. 37-bis del DPR 600/1973 l’elusione
veniva fondata sull’aggiramento dei principi
dell’ordinamento tributario, colorando così
di “indebito” il vantaggio fiscale ottenuto. In
quel contesto, la dimostrazione delle “valide
ragioni economiche”, da parte del contribuente, operava dunque alla stregua di una
esimente: sull’Amministrazione incombeva
l’onere di dimostrare l’avvenuto aggiramento
e l’ottenimento di vantaggi tributari invisi al
sistema, mentre il privato era a quel punto
chiamato a giustificare il percorso negoziale
adottato alla luce di “valide ragioni economiche” (cioè extrafiscali). Anche un vantaggio
asistematico, dunque, sarebbe rimasto acquisito purché conseguito attraverso un percorso
negoziale economicamente inappuntabile.
Nella riformulazione della norma antielusiva
di cui al citato art. 10-bis, invece, la questione delle ragioni extrafiscali e della sostanza economica del comportamento adottato
è stata (almeno in apparenza) elevata ad
20 Per una valutazione decisamente positiva dell’operato del legislatore delegato vedi invece Manzitti A., Fanni M. “La norma
generale antiabuso nello schema di Decreto delegato: buono il testo ottima la relazione”, Corr. Trib., 2015, p. 1597 e ss.
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LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
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elemento strutturale della fattispecie: nella
nuova concezione dell’elusione, di primo acchito, non rileva l’aggiramento o la frode alla
legge, bensì l’aver posto in essere operazioni
“prive di sostanza economica”.
In questo quadro di riferimento, sembrerebbe
ultroneo introdurre in capo al contribuente
un onere dimostrativo avente ad oggetto le
“ragioni economiche” o extrafiscali delle operazioni effettuate, per un motivo elementare:
se configurano abuso del diritto “una o più
operazioni prive di sostanza economica che
[…] realizzano essenzialmente vantaggi fiscali
indebiti”, è evidente che tale connotazione
esclude in radice la possibilità di allegare
“valide ragioni extrafiscali” delle operazioni, giacché altrimenti queste ultime non sarebbero “prive di sostanza economica”.
Non è dunque per nulla chiaro, nel nuovo
contesto normativo, il significato del riferimento alle “valide ragioni extrafiscali”, che se
allegate dal contribuente escludono l’abusività delle operazioni. Si legge infatti al terzo
comma dell’art. 10-bis che “non si considerano
abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate
da valide ragioni extrafiscali, non marginali,
anche di ordine organizzativo o gestionale, che
rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”.
Ora, nell’art. 5 della legge delega, che prevede
l’onere per il contribuente di “allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative
o concorrenti” idonee a giustificare l’utilizzo
degli strumenti prima facie ritenuti anomali
e incoerenti, l’allegazione in questione fornisce una chiave di lettura giustificativa all’“uso
distorto di strumenti giuridici”: ovvero, alla
luce delle spiegazioni e delle dimostrazioni
del contribuente, un percorso negoziale ap-
parentemente inconsueto o non normale può
rivelarsi confacente al caso concreto e in linea
con gli interessi economici perseguiti. Nell’attuazione data nel DLgs. 128/2015, invece, la
definizione delle operazioni abusive come
“operazioni prive di sostanza economica”,
rende molto più problematico attribuire un
ruolo all’allegazione di cui sopra.
Sembra infatti evidente che, se le operazioni
oggetto di sindacato fossero realmente prive
di “sostanza economica”, cioè non in grado
di determinare alcuna modifica negli assetti economico-patrimoniali delle parti che le
hanno poste in essere, non vi sarebbe – già
in radice – alcuna possibilità di allegare delle
valide ragioni di ordine organizzativo o gestionale per evitare l’inopponibilità all’Amministrazione degli effetti fiscali. L’assenza di
“sostanza economica” nelle operazioni realizzate non può cioè contenere in sé il suo contrario: “prive di sostanza economica” significa
altresì “senza valide ragioni extrafiscali”, anche se è difficile dire quale potrà essere l’atteggiamento degli interpreti di fronte al florilegio di locuzioni normative e alla girandola
di formule definitorie.
Da un diverso angolo visuale, poi, la precisazione in ordine alle finalità di “miglioramento
strutturale o funzionale dell’impresa ovvero
dell’attività professionale del contribuente”,
risente forse degli orientamenti di autorevoli esponenti della Commissione incaricata di
redigere il testo del decreto legislativo 21. L’opinione, a mio avviso criticabile, secondo cui
la norma antielusiva avrebbe potuto essere
applicata soltanto a soggetti operanti nella
veste d’impresa, si è tradotta nel nuovo art.
10-bis nel suo esatto opposto, precludendo a
soggetti non aventi la qualità di imprenditore
di avvalersi dell’esimente rappresentata dal-
21 Mi riferisco alla posizione di Gallo F. “Trusts, interposizione ed elusione fiscale”, Rass. trib., 1996, p. 1048, per il quale il
requisito delle valide ragioni economiche può operare solo quando la parte coinvolta nell’operazione agisce nella veste
d’impresa e non in quella di semplice privato; dato cioè che la norma antielusiva (a quel tempo, l’art. 10 della L. 408/1990,
n.d.a.) “richiede di indagare sulla convenienza economica dell’operazione, è evidente che esso può riferirsi solo a soggetti che fisiologicamente debbono operare con criteri di economicità, e cioè alle imprese. Per esse, infatti, l’assenza
di ragioni economiche può essere un sintomo dell’intento elusivo, mentre l’attività di un soggetto privato non è certo
orientata solo da scelte economiche”.
la presenza di valide ragioni extrafiscali nel
comportamento posto in essere.
Il vizio del ragionamento consiste, evidentemente, nell’aver inteso in senso restrittivo il
riferimento alle “valide ragioni economiche”,
intendendo come tali soltanto quelle che connotano l’economicità in una logica di gestione
dell’impresa. L’aggettivo “economiche”, riferito
alle “valide ragioni”, assume invece un significato più ampio, e l’intera formula può essere
considerata equivalente a quella di “serie ragioni non fiscali”, tale dunque da abbracciare
anche i comportamenti posti in essere da privati non imprenditori.
Il decreto legislativo sull’abuso del diritto e l’elusione è stato comunque condizionato dalla
formulazione della legge delega, nei suoi riferimenti all’azienda del contribuente22 , ed appare
inadeguata per difetto: se non intesa come formula meramente esemplificativa e didascalica,
la stessa finirà per precludere la possibilità di
allegare l’esimente in questione, cioè le valide
ragioni extrafiscali atte a escludere l’abusività delle operazioni, ai contribuenti non aventi
la qualità di imprenditori o professionisti, cioè
ai privati in genere, i quali potrebbero ciononostante risultare destinatari di accertamenti
fondati sulla norma antielusiva.
27
22 Art. 5 lett. b) n. 2 della L. 23/2014: “[…] stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa
e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente”.
TRIBUTI
ELUSIONE FISCALE: IL FOCUS
È SUI VANTAGGI FISCALI INDEBITI
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Rosario DOLCE *
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L’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, introdotto dal DLgs. 128/2015 sulla c.d. “certezza
del diritto”, in attuazione della legge delega per la riforma fiscale, contiene molti elementi
positivi, in termini di definizione dell’ambito oggettivo e soprattutto di garanzie procedimentali del contribuente, avuto anche riguardo alla valenza interpretativa della relazione
illustrativa al provvedimento. In particolare, l’ambito oggettivo dovrebbe riportare al centro
la verifica circa la natura indebita del vantaggio fiscale, e dunque la conformità o meno dello
stesso al sistema o sotto-sistema fiscale di riferimento, lasciando nella giusta posizione –
subordinata – la verifica circa la presenza di eventuali ragioni extrafiscali che escludono
l’operatività della norma antielusiva pur in presenza di vantaggio fiscale indebito. Si auspica
che la futura giurisprudenza, di merito e soprattutto di legittimità, tenga adeguatamente
conto di tale significativa modifica voluta dal legislatore.
1
L’evoluzione in tema
di elusione fiscale
ed abuso del diritto
L’art. 10-bis della L. 212/2000 (c.d. Statuto
dei diritti del contribuente), come introdot-
to dal DLgs. 5.8.2015 n. 128, sulla c.d. “certezza del diritto”1, rappresenta il sofferto
approdo di un lungo e travagliato iter volto
alla codificazione di una norma antielusiva
generale alla luce delle derive giurisprudenziali, e soprattutto della giurisprudenza
di legittimità2, che hanno dato preminen-
* Le opinioni espresse nell’articolo sono esclusivamente riferibili all’Autore del medesimo.
1 Pubblicato in G.U. 18.8.2015 n. 190. Si segnala la disponibilità della relazione illustrativa al decreto (Atto Governo n.
163) al link http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/913536.pdf.
2 Mi riferisco, in primo luogo, sia alle sentenze della Corte di Cassazione immediatamente successive alla notissima sentenza della Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02 “Halifax” (leading case in materia di abuso del diritto tributario)
che alle famose “sentenze del Natale 2008” (Cass. SS.UU. 23.12.2008 n. 30055, n. 30056 e n. 30057), tutte in Banca
Dati Eutekne, con cui la Suprema Corte ha teorizzato l’abuso del diritto quale principio generale antielusivo immanente
nell’ordinamento tributario nazionale, rispetto al quale le singole norme antielusive, quali l’art. 37-bis del DPR 600/1973
e l’art. 20 del DPR 131/1986, non sarebbero altro che sintomi della presenza del primo: in tutte viene posto l’accento sulla
presenza di un comportamento elusivo/abusivo in mancanza di valide ragioni economiche extra- fiscali, “dimenticandosi”
che nella stessa sentenza “Halifax” viene chiaramente affermato che, perché si abbia abuso del diritto, non è sufficiente
che vi sia un risparmio d’imposta in assenza di ragioni economiche extrafiscali rispetto al comportamento posto in essere,
ma occorre anche che il vantaggio fiscale sia contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni tributarie oggetto del
comportamento abusivo, laddove tale ultimo requisito corrisponde sostanzialmente alla natura “indebita” del vantaggio e
all’“aggiramento degli obblighi e dei divieti previsti dall’ordinamento” di cui all’art. 37-bis del DPR 600/1973.
te rilievo alla presenza o meno delle valide
ragioni economiche extrafiscali – elemento
del tutto accidentale nell’elusione/abuso
del diritto – senza verificare la conformità
del vantaggio fiscale al sistema o sottosistema tributario di riferimento, elemento
quest’ultimo centrale e presente sia nell’elusione “codificata”3 di cui all’art. 37-bis DPR
600/1973 (abrogato dall’art. 1 comma 2 del
DLgs. 128/2015) che nel principio dell’abuso di diritto elaborato dapprima dalla giurisprudenza comunitaria (e quindi dalla Corte
di Cassazione). Peraltro, tale “dimenticanza”,
se per certi versi appare comprensibile (non
giustificabile) da parte dell’Amministrazione
finanziaria, lo è meno ove si consideri che
anche parte della dottrina ha agevolato la
citata “deriva” giurisprudenziale4.
Ciò posto, come accennato, l’art. 10-bis, e
soprattutto la relazione illustrativa, riafferma
la centralità della verifica circa la presenza
di vantaggi fiscali indebiti – i.e. disapprovati dal sistema – quale presupposto essenziale
perché possa configurarsi elusione/abuso del
diritto (v. oltre par. 2).
In secondo luogo, l’art. 10-bis è pure apprezzabile in quanto estende a tutte le contestazioni elusivo/abusive le garanzie di cui al
previgente art. 37-bis ed anzi le rafforza in
più parti (v. oltre par. 4).
La disposizione presenta per certo dei limiti,
ed in particolare la perdurante (eccessiva)
rilevanza attribuita dal testo normativo alle
valide ragioni economiche extrafiscali (v. oltre par. 3) nonché l’astratta previsione per
cui comportamenti elusivi/abusivi – che non
violano direttamente alcuna norma fiscale
(i.e. non costituiscono evasione fiscale), ma
“aggirano” norme o principi dell’ordinamento tributario – sono passibili di sanzione
amministrativa tributaria al pari dell’evasione: al riguardo l’art. 10-bis comma 13,
dopo aver condivisibilmente stabilito che
“le operazioni abusive non danno luogo a
fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”5 – con ciò superando la recente
Cassazione penale che nel caso dell’abuso
codificato (i.e. fattispecie di cui all’art. 37bis D.P.R. 600/1973) ritiene possibile il delitto di dichiarazione infedele in presenza di
3 Espressione da attribuirsi a Del Federico L. “Elusione e illecito tributario”, Corr. Trib., 2006, p. 3110 e ss., come rilevato da
Di Siena M. “La criminalizzazione dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto. Un caso irrisolto della giurisprudenza penale
tributaria”, Riv. dir. trib., 2015, p. 93 e ss., nota 37.
4 Tra gli Autori “vicini” all’A.F., Grazioli M., Thione M. (ufficiali della GdF) “Place shopping nell’imposta di registro”, il fisco,
2010, p. 6620 e ss. spec. § 5, ove sottolineano che “l’elemento di prova decisivo della legittimità della condotta è costituito dalle apprezzabili ragioni economiche, diverse dalla mera aspettativa del risparmio di imposta, che il contribuente
saprà evidenziare”. Con riguardo al mondo accademico, vi sono taluni illustri Autori (Russo P. “Brevi note in tema di
disposizioni antielusive”, Rass. trib., 1999, p. 72 e Tesauro F. “Compendio di diritto tributario”, Cedam, Padova, 2002), che,
pochi anni dopo l’introduzione dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 (la c.d. norma antielusiva “codificata”), evidenziavano
non tanto il carattere “altrimenti indebito” dei vantaggi fiscali – da cui l’affermazione del legittimo risparmio d’imposta
in caso di risparmio fiscale non disapprovato dal sistema – quanto l’accento sulla condotta elusiva quale “ricorso a figure
negoziali che consentono di raggiungere un determinato risultato economico attraverso una scansione contrattuale insolita od inutilmente complessa ed articolata rispetto agli strumenti tipici a disposizione del contribuente per perseguire
i medesimi effetti economici” (Russo P., cit.). L’accento sull’elusione come complessa concatenazione di atti funzionale
al solo risparmio fiscale, piuttosto che come risparmio fiscale contrastante con il sistema tributario, ha verosimilmente
contribuito alla “interpretatio abrogans del requisito dell’aggiramento di obblighi e divieti, in quanto legato a una
difficile individuazione dello spirito della norma tributaria «aggirato»” e di “una ipervalutazione di quello delle valide
ragioni economiche, alla portata del comune buonsenso di chiunque” (De Rosa L., Russo A. “Operazioni straordinarie”,
ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2009, p. 628 e ss., spec. p. 638 e ss.).
5 È altamente verosimile che la non rilevanza penale dell’elusione/abuso del diritto derivi non dalla natura procedimentale
dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 o dal vulnus che altrimenti subirebbe il principio di tassatività della norma penale
incriminatrice (profili di assoluto rilievo, come evidenziato in dottrina – per tutti Di Siena M., cit. e ulteriore dottrina ivi
richiamata – ma negletti dalla giurisprudenza, anche di legittimità, su cui v. oltre nel testo) né dalla mancanza del dolo di
evasione o della fraudolenza (che taluni magistrati penali continuano assai discutibilmente a ravvisare anche nell’elusione fiscale), quanto alla circostanza che l’art. 4 co. 1-bis del DLgs. 747/2000, come introdotto dal DLgs. 158/2015 esclude
dalla dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000, buona parte delle possibili evasioni “interpretative”.
29
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
30
elusione fiscale6 – prosegue indicando che
“resta ferma l’applicazione delle sanzioni
amministrative tributarie”.
La permanenza dell’elusione nell’area dell’illecito amministrativo tributario rappresenta
ovviamente una parziale sconfitta della dottrina
che ha sostenuto la natura essenzialmente procedimentale7, e non sostanziale8, dell’art. 37-bis
del DPR 600/1973 (ed ora dell’art. 10-bis della L.
212/2000), quale attribuzione di potere all’Amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti fiscali del comportamento elusivo del contribuente, come pure a quella che ha sostenuto
la non sanzionabilità dell’elusione fiscale in forza
del principio di riserva di legge di cui all’art. 3 del
DLgs. 472/1997 (“nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione”)9, anche sulla scorta della giurisprudenza
di merito10 e della stessa sentenza “Halifax” della
Corte di giustizia UE11, ove si precisa che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento
abusivo non deve condurre a una sanzione, per la
quale sarebbe necessario un fondamento norma-
tivo chiaro e univoco”12. Peraltro, ed in concreto,
in diverse fattispecie elusive/abusive (secondo la
contestazione degli uffici finanziari) potrà essere sostenuta la non irrogabilità delle sanzioni
rilevando la mancanza dell’elemento soggettivo
(dolo/colpa ex art. 5 del DLgs. 472/1997), in specie laddove sia particolarmente aleatoria la ricostruzione della presunta natura “indebita” dei
vantaggi fiscali, come pure in forza di obiettive
condizioni di incertezza, sia alla stregua dell’art.
6 comma 2 del DLgs. 472/1997 che ai sensi
dell’art. 10 dello Statuto del contribuente.
2
La presenza di vantaggi
fiscali indebiti
A tal riguardo appare opportuno riportare i
seguenti passaggi dell’art. 10-bis:
• comma 1: “Configurano abuso del diritto
una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle
norme fiscali 13, realizzano essenzialmente
vantaggi fiscali indebiti. […]”;
6 Cass. pen. 28.2.2012 n. 7739 (c.d. sentenza “Dolce e Gabbana”), nonché Cass. pen. 9.9.2013 n. 36894, entrambe richiamate da Di Siena M., cit., p. 104 e disponibili in Banca Dati Eutekne.
7 Nel senso della natura procedimentale dell’art. 37-bis militano diversi argomenti, prevalenti sia a livello sistematico
che letterale su quelli nel senso opposto (su cui la successiva nota), ad opinione di chi scrive. In merito rinvio a
Dolce R. “Compravendita d’azienda vs. conferimento e successiva cessione della partecipazione alla luce della recente
giurisprudenza”, il fisco, 2010, 1, p. 4436, nota 33 in calce, nonché recentemente, in senso critico circa la sanzionabilità
amministrativa dell’elusione fiscale/abuso del diritto, Carinci A., Deotto D., “D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 - Abuso del
diritto ed effettiva utilità della novella: Much ado about nothing?”, il fisco, 2015, p. 3107 e ss., § 4 in fine.
8 In tal senso, tra gli altri, Gallo F. “Rilevanza penale dell’elusione”, Rass. trib., 2001, p. 327, il quale, pur concludendo poi
con un giudizio negativo sul sistema normativo, afferma che “tutto il sistema appare invece costruito sul presupposto
della natura sostanziale dello stesso art. 37-bis, senza distinguere, beninteso quanto al risultato e agli effetti sanzionatori, tra evasione ed elusione” (sul punto v. anche Dolce R., cit., p. 4436, nota 34 in calce).
9 Principio mutuato, al pari dell’intero impianto sanzionatorio di cui al DLgs. 472/1997, dalla normativa penale, ed in
particolare dall’art. 25 co. 2 Cost. e dall’art. 2 co. 1 c.p.
10 Ex multis: C.T. Reg Lombardia 25.2.2008 n. 2/17/08; C.T. Prov. Milano 13.12.2006 n. 278/14/06; C.T. Prov. Vicenza 28.1.2009
n. 6/3/09, in Banca Dati Eutekne.
11 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit.
12 Il punto è sottolineato, da ultimo, da Lovecchio L. “Divieto di abuso del diritto: l’incognita applicazione futura della
giurisprudenza «invasiva»”, il fisco, 2015, pp. 3320-3321.
13 Nella versione della bozza di decreto presentata il 24.12.2014 era presente anche l’inciso “e indipendentemente dalle
intenzioni del contribuente”, poi eliminato nella versione definitiva. A tal riguardo Manzitti A., Fanni M. (“La norma
generale antiabuso nello schema di Decreto delegato: buono il testo ottima la relazione”, Corr. Trib., 2015, p. 1598, nota
3) ipotizzano che “l’inciso sia stato eliminato perché era del tutto ovvio che le intenzioni soggettive del contribuente
sono irrilevanti”. Peraltro, è verosimile che l’eliminazione sia stata voluta da taluni magistrati penali che continuano ad
assimilare l’elusione alla frode fiscale ed alla simulazione (retro, nota 5). Si tratta di eliminazione improvvida, in quanto
tale inciso – presente nella Raccomandazione della Commissione UE sulla pianificazione fiscale aggressiva 6.12.2012
• comma 2 lett. b): “vantaggi fiscali indebiti
i benefici, anche non immediati, realizzati
in contrasto con le finalità delle norme
fiscali o con i principi dell’ordinamento
tributario”;
• comma 4: “Resta ferma la libertà di scelta
del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.
I passaggi sopra richiamati evidenziano che
resta un ambito di legittimo risparmio d’imposta (comma 4) e cioè di operazioni fatte
esclusivamente o principalmente in vista dei
relativi vantaggi fiscali, senza che ciò costituisca abuso bensì espressione del principio
costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata14: laddove non vi sia un divieto
esplicito, scegliere l’opzione che ottimizza il
carico fiscale è un pieno diritto del contribuente15. L’abuso si configura solo laddove
tali vantaggi – e cioè, di massima, la scelta
dell’opzione che comporta il minor carico
fiscale tra più opzioni che conducono a risultati economici identici o simili, ma con
differente trattamento fiscale – siano ritenuti contrastanti con i principi del sistema o
sotto-sistema tributario di riferimento16.
Vi sono alcuni precedenti di giurisprudenza
interna e prassi che possono essere addotti
come esempi di operazioni fatte in un determinato modo solo al fine dei relativi vantaggi
fiscali, e ciononostante non possono qualificarsi come vantaggi disapprovati dal sistema
fiscale (e dunque non sono elusive/abusive).
Si segnalano, in particolare, i seguenti.
Circolare Agenzia Entrate 8.5.2009
n. 23
La circolare, commentando la coesistenza nel
secondo semestre 2008 sia dell’esenzione da
IVA per le prestazioni rese in ambito consortile (art. 10 comma 2 del DPR 633/1972,
in vigore dal luglio 2008) che dell’esenzione
di cui all’art. 6 commi da 1 a 3-bis della L.
n. 133/1999 (esenzione da IVA per le prestazioni di servizi rese nei gruppi bancari
nell’ambito delle attività di carattere ausiliario di cui all’art. 59 del DLgs. 385/1993 – c.d.
Testo Unico Bancario), l’una e le altre aventi
quale ratio comune evitare la penalizzazione
(dovuta all’indetraibilità dell’Iva “a monte”
corrisposta ad altre società del medesimo
gruppo) che altrimenti subiscono i gruppi societari effettuanti verso l’esterno prestazioni
di servizi prevalentemente esenti, rileva come
“gli operatori interessati hanno potuto fruire di un periodo transitorio per adeguarsi al
modello organizzativo richiesto dalla nuova
disposizione, atteso che l’articolo 10, secondo
comma, si differenzia dall’articolo 6, commi da
1 a 3-bis, sotto diversi profili”17. In altri termini, sfruttando la coesistenza dei due regimi di
esenzione nel secondo semestre 2008, i gruppi bancari/finanziari ed assicurativi (soggetti
che effettuano servizi prevalentemente esenti
IVA) hanno potuto costituire al proprio interno strutture consortili e ciò appare un chiaro
esempio di legittima pianificazione fiscale, in
quanto non contrastante con alcun principio
dell’ordinamento tributario, di tal che la con-
– era funzionale proprio a sottolineare che nell’abuso/elusione non rileva in alcun modo l’intenzione delle parti (ed in
particolare l’intenzione fraudolenta).
14 Art. 41 Cost.: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana […]”.
15 Nella relazione al decreto si legge, ad esempio, quanto segue: “la Suprema Corte ha talvolta identificato la nozione di
abuso nella sola assenza di valide ragioni economiche extrafiscali […] ed ha ritenuto tale assenza sufficiente a giustificare la ripresa a tassazione dei vantaggi fiscali […] senza porre il dovuto accento sul carattere indebito degli stessi. Le
lacune di tale ricostruzione interpretativa hanno spesso indotto l’amministrazione finanziaria e i giudici a sottovalutare
la libertà del contribuente di scegliere tra varie operazioni possibili anche in ragione del differente carico fiscale”.
16Sulla centralità del lecito risparmio d’imposta, recentemente, Di Siena M. “Le riserve in sospensione d’imposta tra
fusione e liquidazione”, Rass. trib., 2015, p. 923-925, nonché Carinci A., Deotto D., cit., § 3.1.
17 Sul tema specifico, Dolce R. “Circolare n. 23/E dell’8 maggio 2009 – Regime di esenzione Iva dei servizi resi dai consorzi”,
il fisco, 2009, p. 2-3307 e ss.
31
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
32
seguente esenzione IVA non configura i vantaggi “indebiti” di cui all’art. 37-bis del DPR
600/1973 né appare censurabile quale abuso
di diritto, tenuto ulteriormente conto che proprio la giurisprudenza comunitaria ha avuto
modo di precisare che l’istituto dell’abuso del
diritto non può essere utilizzato per impedire
al soggetto passivo “il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette
di limitare la sua contribuzione fiscale”18. Ne
consegue pertanto che la scelta tra diverse
forme giuridiche di conduzione delle attività, anche qualora dichiaratamente effettuata
nella sola considerazione dei vantaggi fiscali
dello status dell’una rispetto all’altra, non può
in alcun modo essere censurata, costituendo
espressione del legittimo, fisiologico risparmio
d’imposta19.
Commissione Tributaria Provinciale
di Brescia 10.4.2012 n. 27
Nella sentenza20, con riguardo alla prassi di
stipulare contratti di finanziamento a medio lungo termine chirografi all’estero, onde
evitare l’applicazione dell’imposta sostitutiva di cui agli artt. 15 e ss. del DPR 601/1973
(ante modifiche di cui al DL 145/2013 che
hanno reso tale imposta opzionale), si esclude
in tale operazione l’abuso di diritto, in quanto la disposizione “non esclude sotto alcun
profilo che la stipula di contratti fra soggetti
italiani sia effettuata al di fuori del territorio
nazionale, ove si prospetti meno onerosa per i
contribuenti senza che tale opzione, quale tipica espressione dell’autonomia privata, possa
essere ritenuta strumento di elusione: la circostanza che la vicenda sia stata espressamente
prevista dal Legislatore esclude, infatti, che la
sua applicazione possa integrare l’abuso […]
Non vi è dunque alcuna necessità che, in tale
quadro normativo, siano fornite dagli interessati persuasive ragioni volte a giustificare la
scelta in concreto effettuata, diversa da quella dell’esonero dal pagamento dell’imposta
di registro [recte, dell’imposta sostitutiva sui
finanziamenti, n.d.a.] […] dovendo detta scelta essere considerata lecita, essendo stata attuata attraverso la sola individuazione di una
località estera per sottoscrivere il contratto e
non tramite più negozi […] fra loro accortamente collegati al solo fine di conseguire quale unico risultato quello di non corrispondere
l’imposta sostitutiva”. In altri termini, il sistema dell’imposta di registro espressamente
prevede la possibilità di atti stipulati all’estero, chiedendo la registrazione e il conseguente
assoggettamento alle imposte italiane solo in
taluni casi, puntualmente individuati, e cioè
(oltre al caso d’uso ex art. 11 della Tariffa Parte II, allegata al DPR 131/1986) “atti formati
all’estero, compresi quelli dei consoli italiani,
che comportano trasferimento della proprietà
ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili
o aziende esistenti nel territorio dello Stato e
quelli che hanno per oggetto la locazione o
l’affitto di tali beni” (art. 2 comma 1 lett. d) del
DPR 131/1986). Posto che nel caso di specie il
contratto di finanziamento stipulato all’estero
non concerne immobili o aziende siti in Italia
né trasferimento di proprietà o costituzione di
diritti reali su beni del genere, ne consegue la
non territorialità dell’atto ai sensi dell’art. 2
citato. Tale preciso dettato normativo consente di ritenere la stipula di atti di finanziamenti
all’estero tra parti italiane, con conseguente
assoggettamento alle imposte d’atto (“tipo
18 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit., § 73.
19 In questa stessa ottica è pertanto del tutto censurabile la risoluzione Agenzia Entrate 28.4.2008 n. 177, la quale ha
ritenuto elusiva la trasformazione da spa a srl di una società agricola, funzionale al risparmio fiscale conseguente alla
tassazione delle srl agricole su base catastale (regime introdotto dall’art. 1 co. 1093 della L. 27.12.2006 n. 296). Per la
confutazione delle (invero confuse e deboli) argomentazioni addotte al riguardo dall’Agenzia si rinvia, per tutti, a Beghin
M. “La trasformazione di società per ragioni esclusivamente fiscali: ancora equivoci in tema di elusione tributaria”, Riv.
Dir. Trib., II, 2008, p. 621 e ss.
20In Banca Dati Eutekne.
registro”) previste nello Stato estero, come
una scelta pari-ordinata o comunque non
disapprovata dal sotto-sistema tributario
dell’imposta di registro (e dei tributi che tale
sistema richiamano, come ad esempio l’imposta sostitutiva sui finanziamenti): il contribuente ha scelto una delle opzioni offerte
dall’ordinamento tributario, concludendo
una specifica operazione (stipula di atto all’estero) espressamente disciplinata dal legislatore nazionale: ne consegue, pertanto, che
l’eventuale vantaggio tributario integra il c.d.
legittimo risparmio d’imposta21.
Corte di Cassazione 5.12.2014
n. 25758
Nella sentenza 22, con riguardo all’ipotesi di
una società, proprietaria di un immobile, che
ha venduto lo stesso ad una società di leasing
per condurlo in locazione secondo lo schema
socialmente tipico del sale and lease back,
laddove – nella ricostruzione della stessa
Corte di Cassazione – tale opzione conduce ad una anticipata deduzione dei canoni
di locazione (8 anni, secondo la normativa
pro tempore vigente) rispetto alla deduzione
delle quote di ammortamento dell’immobile
in regime di proprietà, ha rilevato come tale
vantaggio fiscale costituisce un legittimo risparmio d’imposta in quanto “non è dato […]
rinvenire nell’ordinamento tributario alcun
obbligo giuridico del soggetto che ha acquistato la proprietà del bene immobile strumentale di rimanere necessariamente vincolato a
tale regime fiscale, atteso che, come rientra
nella libera determinazione del soggetto-imprenditore la facoltà di optare tra l’acquisto
della proprietà dell’immobile, versando immediatamente l’intero prezzo della compravendita, od invece la utilizzazione del medesimo
bene in leasing […], così non può ritenersi
impedito all’operatore economico l’impiego di
qualsiasi altro strumento negoziale -diretto a
conseguire il medesimo risultato dell’utilizzo
del bene immobile strumentale- tra cui anche,
per quanto interessa la presente fattispecie, il
contratto di sale and lease back”.
Ciò posto, è indubbio che il sindacato sulla
conformità o meno del risparmio fiscale al sistema o sotto-sistema tributario di
riferimento risulta talora assai complesso,
in quanto comporta la piena cognizione dei
principi del sistema tributario e dei relativi
sotto-sistemi (e di più postula l’organicità e
non contraddittorietà di tali sistemi che, come
sa chiunque abbia una pur minima esperienza in materia, è un obiettivo tendenziale da
perseguire in via interpretativa, essendo presenti per contro nel sistema diverse antinomie
e non essendo spesso immediatamente intellegibile la ratio di talune disposizioni fiscali,
ed essendo altresì presenti molteplici opzioni,
comportanti carichi fiscali anche assai diversi,
per raggiungere obiettivi economici identici o
similari)23, di tal che appare comprensibile (ma
non giustificabile) la preferenza dell’Amministrazione finanziaria, fin dalla nascita del (ora
soppresso) Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive24, per l’accento
sulle ragioni extrafiscali, essendo più semplice
contestare la mancanza di (non meglio defini-
21Sul tema specifico, Dolce R. “Comm. trib. prov. Brescia, sent. n. 27 del 10 aprile 2012 - Territorialità dell’imposta
sostitutiva sui finanziamenti alla luce di una recente sentenza di merito”, il fisco, 2012, p. 2-3005 e ss.
22 Commentata ad esempio da Borgoglio A. “Sale and lease back immobiliare fuori dall’abuso di diritto”, il fisco, 2015,
p. 1-170 e ss.
23 Ampiamente, sul punto, Vacca I. “L’abuso e la certezza del diritto”, Corr. Trib., 2014, p. 1127 e ss.
24 Il punto è ricordato, ad esempio, da Vacca I. “Contrasto all’elusione e incertezza del diritto”, Dialoghi Tributari, 2009,
p. 30 e ss. Significativo di tale atteggiamento è anche il contributo dell’allora Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Befera
A. “Riflessioni sull’abuso del diritto nella recente giurisprudenza della Cassazione”, il fisco, 2009, p. 2835 e ss. e spec.
p. 2837, laddove traspare evidente l’idea che si ha abuso del diritto in tutti i casi in cui le operazioni poste in essere, e
che conducono ad un vantaggio fiscale, non siano supportate da valide ragioni economiche extrafiscali, senza quindi
alcuna menzione della necessaria verifica di conformità, anche in termini di non disapprovazione, del vantaggio fiscale
al sistema tributario.
33
te) ragioni economiche extrafiscali piuttosto
che identificare i principi del sistema o sottosistema fiscale e verificare se il risultato raggiunto con il comportamento asseritamente
elusivo/abusivo può essere qualificato come
contrastante con tali principi.
3
La presenza di valide
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
ragioni economiche
extrafiscali non marginali
Come anticipato, l’art. 10-bis pare attribuire ancora eccessiva enfasi a tale esimente 25
come desumibile dai seguenti passaggi:
• “[…] una o più operazioni prive di sostanza
economica che […] realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” (comma 1);
• “Ai fini del comma 1 si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti,
gli atti e i contratti, anche tra loro collegati,
inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali […]” (comma 2);
• “Non si considerano abusive, in ogni caso,
le operazioni giustificate da valide ragioni
extrafiscali, non marginali, anche di ordine
organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o
funzionale dell’impresa ovvero dell’attività
professionale del contribuente” (comma 3),
• “[…] Il contribuente ha l’onere di dimo-
strare l’esistenza delle ragioni extrafiscali
di cui al comma 3” (comma 9).
In primo luogo, si nota una certa confusione
nel determinare il grado di rilevanza che devono avere le ragioni economiche extrafiscali
rispetto ai vantaggi fiscali (indebiti): dal comma 1 si desume che tali ragioni non devono
essere essenziali, dal comma 2 che le operazioni elusive/abusive non devono essere idonee a produrre effetti significativi diversi dai
vantaggi fiscali, e dal comma 3 che tali ragioni
devono essere non marginali. Come rilevato
in dottrina26, il concetto di essenzialità è tratto
dalla giurisprudenza della Corte di giustizia27 e
dalla Raccomandazione della Commissione UE
del 6.12.201228 sulla pianificazione fiscale aggressiva29, il concetto di non marginalità delle
ragioni extrafiscali è tratto dalla giurisprudenza della nostrana Corte di Cassazione30, mentre la “non significatività” appare ridondante.
Alla luce della relazione al decreto, tali diverse
formulazioni possono essere lette come riferite
ad un unico concetto e cioè alla circostanza
che “il vantaggio fiscale deve essere essenziale rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal
contribuente”31 e dunque alla “verifica, necessariamente empirica, che il contribuente non
l’avrebbe realizzata [l’operazione, n.d.a.] in assenza del vantaggio fiscale indebito”32.
In secondo luogo, appare fuorviante il richiamo nel comma 9 all’onere del contribuente
34
25 In presenza di valide ragioni economiche extrafiscali, anche laddove vi siano vantaggi tributari indebiti, contrastanti
con l’ordinamento, non è applicabile la norma generale antielusiva.
26 Manzitti A., Fanni M., cit., pp. 1600-1601.
27 Corte di giustizia 21.2.2006 causa C-255/02, cit., § 75, per cui “deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi
che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale […]. Il divieto di
comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero
conseguimento di vantaggi fiscali”.
28 Raccomandazione 6.12.2012 n. 2012/772/UE, pubblicata in G.U. UE 12.12.2012 n. 338, in Banca Dati Eutekne.
29 Seppure riferito allo scopo elusivo, più che ai vantaggi indebiti. In tal senso il § 4.2 della comunicazione ove viene raccomandato agli Stati membri di introdurre una norma generale antiabuso del seguente tenore: “Una costruzione di puro
artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a
fini fiscali facendo riferimento alla loro «sostanza economica»”.
30 Manzitti A., Fanni M., cit., p. 1601, richiamano in particolare Cass. 27.3.2015 n. 6226, Cass. 14.1.2015 n. 439, Cass.
26.2.2014 n. 4604 e Cass. 21.1.2011 n. 1372, tutte disponibili in Banca Dati Eutekne.
31 Così la Raccomandazione UE, richiamata sul punto dalla relazione al decreto.
32 Manzitti A., Fanni M., cit.
di dimostrare le valide ragioni extrafiscali; fuorviante in quanto, in caso di legittimo
risparmio d’imposta, e cioè di operazione effettuata essenzialmente od unicamente per
il vantaggio fiscale derivante, non vi è alcuna
ulteriore o significativa ragione extrafiscale: in
tali casi, a fronte dell’onere dell’ufficio finanziario di provare gli elementi costitutivi dell’elusione/abuso (presenza di una o più operazioni prive di sostanza economica, presenza
dei vantaggi fiscali indebiti siccome realizzati
in contrasto con le finalità delle norme fiscali
o con i principio dell’ordinamento tributario –
primo periodo del comma 9) vi è l’onere del
contribuente di dimostrare i fatti impeditivi di
tali elementi costitutivi (assenza di operazioni
prive di sostanza economica, assenza di vantaggi fiscali indebiti). Pertanto, la formulazione del secondo periodo del comma 9 andrebbe intesa come onere “subordinato” e cioè
– laddove effettivamente sia provata e non
(efficacemente) contestata la presenza di una
o più operazioni prive di sostanza economica
e di vantaggi fiscali indebiti – il contribuente
ha l’onere di provare l’esimente costituita dalle (eventuali) ragioni economiche extrafiscali
non marginali33: a tal proposito, la dottrina più
sopra richiamata auspica(va) l’eliminazione di
tale secondo periodo del comma 934.
Da ultimo, per valide ragioni economiche
extrafiscali si intendono, ai sensi del comma
3, le ragioni “non marginali, anche di ordine
organizzativo o gestionale, che rispondono a
finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. Si ritiene, anche
alla luce della lettera dell’incipit del comma
3 (“Non si considerano abusive, in ogni caso,
le operazioni giustificate da valide ragioni ex-
trafiscali”), che quelle indicate sono alcuni
esempi di valide ragioni extrafiscali, posto che
ne sono individuabili di ulteriori, non collegate alla prospettiva di redditività immediata o
futura dell’impresa (nell’ottica dell’imprenditore), ma relative anche più ampiamente ai
vari stakeholder connessi all’impresa e diversi
dalla proprietà (dipendenti, creditori, clienti,
ecc.): si pensi in particolare alla salvaguardia
dei livelli occupazionali, ritenuta valida ragione economica extrafiscale dalla risoluzione
dell’Agenzia delle Entrate 26.2.2001 n. 25 35.
4
Le garanzie
per il contribuente
Quello in epigrafe è l’ambito in cui meglio si
apprezzano le “luci” dell’art. 10-bis. In particolare, si evidenziano i seguenti passaggi:
• “[…] l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità,
dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i
motivi per i quali si ritiene configurabile un
abuso del diritto” (comma 6);
• “La richiesta di chiarimenti è notificata
dall’amministrazione finanziaria ai sensi
dell’articolo 60 del decreto del Presidente
della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600,
e successive modificazioni, entro il termine
di decadenza previsto per la notificazione
dell’atto impositivo. […]” (comma 7);
• “Fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente
motivato, a pena di nullità, in relazione
alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali re-
33 In tal senso, ad esempio, Lovecchio L., cit¸ p. 3323.
34 Manzitti A., Fanni M., cit.
35 Richiamata ad esempio da Capolupo S. “Le valide ragioni economiche”, il fisco, 2002, sub nota 47. Nella risoluzione in
parola si conclude nel senso che il “progetto di re-industrializzazione coinvolge le ragioni economiche degli imprenditori e dei lavoratori direttamente interessati, ma anche più in generale dell’intero contesto sociale ed economico
cui fa capo l’area industriale in questione. In tale ottica costituiscono valide ragioni economiche per la collettività
interessata la necessità di salvaguardare i livelli occupazionali, ed evitare la dispersione di ingenti risorse economiche
e di elevate professionalità”.
35
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
36
alizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal
contribuente nel termine di cui al comma
6” (comma 8);
• “L’amministrazione finanziaria ha l’onere
di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2”
(comma 9);
• “In sede di accertamento l’abuso del diritto
può essere configurato solo se i vantaggi
fiscali non possono essere disconosciuti
contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” (comma 12).
In primo luogo, viene in rilievo il diritto al
contraddittorio anticipato sulle contestazioni elusive/abusive (commi 6, 7 e 8), e
si tratta in sostanza dell’estensione a tutte
le contestazioni di tipo elusivo/abusivo delle
garanzie di cui al previgente art. 37-bis comma 4 del DPR 600/1973 (“L’avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa
richiesta al contribuente anche per lettera
raccomandata, di chiarimenti da inviare per
iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione
della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili
i commi 1 e 2”), garanzie già estese da parte
della giurisprudenza alle contestazioni in materia di abuso 36, ma ora chiaramente affermate dal legislatore.
In secondo luogo, emerge un obbligo di motivazione rafforzata dell’atto impositivo recante contestazione di tipo elusivo/abusivo
(comma 8), dovendo questo essere specificamente motivato in relazione alla condotta
abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli
indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai
chiarimenti forniti dal contribuente in sede
di contraddittorio preventivo e tutto ciò a
pena di nullità. In particolare, con riguardo
alla motivazione in relazione ai chiarimenti
forniti dal contribuente, la stessa dovrà essere
sostanziale, e cioè non potrà limitarsi a mere
formule di rito – come è accaduto di vedere in
particolare con riguardo alla motivazione di
atti impositivi seguenti osservazioni a p.v.c. ex
art. 12 comma 7 della L. 212/2000 – risolvendosi altrimenti in una motivazione apparente,
da cui la nullità dell’atto impositivo.
Ancora, si sottolinea la non rilevabilità d’ufficio della condotta abusiva (comma 9), e
si tratta con ogni evidenza di un argine che
il legislatore ha voluto porre alla Corte di
Cassazione che in tema di abuso del diritto
– a partire dalle famose sentenze di “Natale 2008” – ne ha sostenuto la rilevabilità
d’ufficio in ogni stato e grado del processo.
Sull’efficacia di tale previsione, nell’arginare
le derive della giurisprudenza, la prima dottrina che ha commentato l’art. 10-bis ha espresso comprensibili preoccupazioni 37. In merito,
peraltro, può rilevarsi come ora – a differenza
del quadro normativo esistente all’epoca delle
criticate pronunce della Suprema Corte – esiste la positivizzazione della norma antielusiva
generale (l’art. 10-bis, per l’appunto) da cui, si
ritiene, il necessario rispetto di tali previsioni
legislative da parte del potere giudiziario.
Da ultimo, e non meno importante, è la previsione del comma 12 per cui la contestazione di tipo elusivo/abusivo deve essere
autonoma, e cioè, laddove sia possibile contestare non (solo) l’aggiramento di norme o
principi, bensì (anche) la diretta violazione
di norme (i.e. evasione), è quest’ultima – e
solo quest’ultima – che può essere contestata: ciò dovrebbe quindi porre termine alla
poco edificante prassi accertativa secondo
cui viene dapprima contestata la violazione
diretta di una o più disposizioni fiscali ed infine, quale motivazione subordinata – e contraddittoria (e dunque per ciò solo passibile
36 In tal senso, per tutte, Cass. SS.UU. 18.9.2014 n. 19667/2014, in Banca Dati Eutekne, che ha affermato il principio di diritto
in forza del quale in tutti i procedimenti amministrativi tributari devono essere sempre garantiti la partecipazione del
contribuente ed il suo diritto al contraddittorio procedimentale. Per approfondimenti sul tema, inter alia, Tundo F. “Diritto
al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa”, Riv. giur. trib., 2014, p. 937 e ss.
37 Manzitti A., Fanni M., cit., pp. 1603-1604.
di nullità)38 – viene affermato che laddove il
giudice non ravvisi la violazione diretta della
norma allora si versa in un’ipotesi di elusione/abuso in quanto l’operazione ha eluso la
norma determinando un vantaggio fiscale39.
5
L’entrata in vigore
sapprovazione degli stessi da parte del sistema
o sotto-sistema tributario di riferimento), porta a ritenere che, nella sostanza, buona parte
delle previsioni del novello art. 10-bis della L.
2012/2000 si devono applicare anche a fatti
precedenti l’entrata in vigore.
6
della novella
Considerazioni conclusive
Ai sensi dell’art. 1 comma 5 del DLgs. 128/2015,
le disposizioni dell’art. 10-bis dello Statuto
sono efficaci dal 1° ottobre 2015 “e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data
anteriore alla loro efficacia per le quali, alla
stessa data, non sia stato notificato il relativo
atto impositivo”. Dunque, apparentemente, la
novella non si applica alle operazioni poste in
essere ante 1° ottobre 2015 per le quali a tale
data sia stato notificato il relativo atto impositivo: in realtà, giusta quanto sopra rilevato
e come osservato in dottrina40, la circostanza
che molti dei precetti contenuti nell’art. 10bis codificano approdi della giurisprudenza
(es. estensione delle garanzie procedimentali
di cui all’art. 37-bis alle contestazioni in materia di abuso) ovvero riaffermano principi già
presenti nell’art. 37-bis e ingiustamente negletti dalla giurisprudenza (es. centralità della
natura “indebita” dei vantaggi in termini di di-
È evidente che le positive modifiche legislative
sortiranno effetti significativi – e queste sono
le intenzioni del legislatore delegato, emergenti dalla relazione di accompagnamento ove si
esprime un’evidente insoddisfazione, anche per
il nocumento che ha recato all’immagine dell’Italia, in relazione agli sviluppi giurisprudenziali
degli ultimi anni41 – solo se la giurisprudenza
“recepirà il messaggio” ed applicherà la (nuova)
legge, con buon senso e rispettandone la ratio
come emergente anche dalla relazione.
I contribuenti ed i loro consulenti fiscali, per
parte loro, ed invertendo quanto sinora fatto,
potranno dapprima contestare gli accertamenti in materia di elusione/abuso in punto
di requisiti costitutivi (presenza di effettivi
vantaggi fiscali essenziali e loro natura indebita) e solo in via secondaria, ove possibile,
argomentare la presenza di valide ragioni extrafiscali.
37
38 La motivazione contraddittoria conduce a nullità dell’atto impositivo, come riconosciuto da Cass. n. 25197/2009 (commentata da Marello E. “La motivazione contraddittoria come vizio dell’avviso di accertamento”, Giur. It., 2010, c. 967 e
ss.). Peraltro, si ha notizia che tale eccezione sia stata disattesa dalle Commissioni di merito in diversi e recenti contenziosi, da cui l’elevata opportunità della previsione normativa di cui all’art. 10-bis co. 12 in commento.
39In sostanza l’ufficio finanziario sviluppa nell’atto impositivo una contestazione principale (il comportamento del
contribuente costituisce violazione diretta della norma impositiva X) ed una contestazione subordinata (il comportamento del contribuente costituisce elusione della norma impositiva X), rilevante laddove non venga accolta dal giudice
la contestazione principale: evidente la contraddizione così emergente nell’atto impositivo.
40 Carinci A., Deotto D., cit., passim, che per tale motivo esprimono (se ben comprendo) una valutazione negativa della
novella, in quanto non introduce novità di rilievo. Tale valutazione sarebbe condivisibile se non vi fossero state le derive
giurisprudenziali del recente passato in tema di abuso del diritto, che rendono invece novità da salutare con favore una
novella che riafferma principi negletti dalla giurisprudenza.
41 Manzitti A., Fanni M., cit., p. 1604, richiamano conclusivamente il seguente passaggio della relazione: “stabilità e certezza
nell’ordinamento fiscale, ivi inclusa l’interpretazione delle norme e l’attività giurisdizionale, nonché l’esito dell’eventuale
contenzioso, sono fattori importanti nella competizione fiscale tra Stati, almeno quanto il livello effettivo di tassazione”.
TRIBUTI
QUESTIONI APERTE
IN MATERIA DI EXIT TAX
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Andrea PRAMPOLINI
Dottore Commercialista – Partner Ludovici & Partners
38
Con l’emanazione del Decreto del Ministero delle Finanze 2.7.2014, la fattispecie impositiva
del trasferimento di residenza è venuta a delinearsi con maggiore precisione. Permangono
tuttavia alcune questioni relative ad aspetti scarsamente esplorati, che assumono una significativa rilevanza sul piano sia teorico che operativo. Tra queste, il legame tra il regime
impositivo e la qualificazione oggettiva della porzione del patrimonio “estromesso” dal regime del reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia, la questione dell’applicabilità della
participation exemption, la disciplina delle passività e dei fondi fiscalmente non riconosciuti,
le condizioni per l’imponibilità del trasferimento all’estero di funzioni e rischi e, infine, la
nozione di valore normale rilevante ai fini della tassazione.
1
Quadro normativo
Il presupposto impositivo disciplinato dall’art.
166 comma 1 del TUIR configura un’ipotesi di realizzo assimilato che ha ad oggetto
i “componenti dell’azienda o del complesso
aziendale” della società che trasferisce all’estero la propria residenza fiscale. Tale realizzo
ha, infatti, luogo in assenza di corrispettivo e
in base al valore normale dei beni “come se”
questi fossero realizzati mediante atti dispositivi dei beni stessi. Il presupposto impositivo
non si verifica nell’ipotesi in cui beni confluiscano in una stabile organizzazione italiana
della società, quale dovesse configurarsi a seguito del trasferimento di residenza all’estero,
mentre si verifica, indefettibilmente (“in ogni
caso”), in relazione alle stabili organizzazioni
estere della società.
I criteri di determinazione della base imponibile dell’exit tax sono disciplinati, in primo
luogo, dal già richiamato articolo del TUIR. La
relazione illustrativa all’originario art. 20-bis
del TUIR, introdotto dal DL 23.2.1995 n. 41,
precisa al riguardo che “il trattamento deve
essere conseguentemente quello applicabile in sede di realizzo dell’azienda”. In ultimo,
il quadro normativo è stato completato dal
Decreto del Ministero delle Finanze 2.7.2014.
Scopo del DM, di natura non regolamentare, è
disciplinare il regime di sospensione o rateizzazione della riscossione dell’imposta, in attuazione della delega contenuta nell’art. 166
comma 2-quinquies del TUIR. Tuttavia, l’art.
1 comma 1 del DM assume una valenza interpretativa anche ai fini della definizione del
presupposto e della base imponibile dell’exit
tax, pur necessariamente confinata entro i limiti tracciati dalla norma primaria.
2
Qualificazione
del patrimonio estromesso
Nonostante la restrittiva formulazione dell’art.
166 del TUIR, occorre ritenere che il concorso
alla formazione del reddito dei plusvalori e minusvalori, nonché dei maggiori o minori valori,
del patrimonio che recide il proprio collegamento giuridico con il reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia possa riguardare:
• sia l’azienda nel suo complesso o un ramo
aziendale (ivi inclusa una eventuale stabile
organizzazione all’estero), inclusivi, come si
vedrà, del relativo avviamento;
• sia beni aziendali singolarmente considerati;
• sia, infine, beni di impresa ab origine non
integrati in un compendio aziendale ex art.
2555 cc. (c.d. “beni isolati”: si pensi a una
società che detiene solo partecipazioni o
immobili patrimonio a scopo di mero godimento, che si trasferisce all’estero senza lasciare una stabile organizzazione in Italia)1.
Il regime impositivo rimarrà ancorato, di
volta in volta, alla qualificazione oggettiva
della porzione del patrimonio della società
trasferita che è “estromesso” dal regime del
reddito di impresa fiscalmente rilevante in
Italia. Così, ad esempio, se il patrimonio estromesso si qualifica come azienda o ramo aziendale, il regime impositivo sarà quello previsto
dall’art. 86 comma 2 del TUIR, che prevede
il realizzo di una “plusvalenza unitaria”, alla
quale concorrono anche i beni che, se fossero
ceduti singolarmente, genererebbero ricavi. Se
invece il patrimonio estromesso è costituito da
uno o più beni di cui all’art. 86 comma 1 del
TUIR, non integrati in un complesso aziendale,
il regime sarà quello ordinariamente applicabile alla plusvalenza o minusvalenza derivante
dalla cessione dei singoli beni, inclusa l’applicazione di eventuali regimi di esenzione. Se
infine il patrimonio estromesso è costituito da
singoli beni di cui all’art. 85 comma 1 del TUIR,
il trasferimento di residenza genererà ricavi.
L’affermata dipendenza del regime impositivo
dalla qualificazione oggettiva del patrimonio
estromesso trova conferma, sul piano sistematico, nella disciplina della trasformazione eterogenea c.d. “decommercializzante”, regolata
dall’art. 171 comma 1 del TUIR, che comporta
l’estromissione dal regime dei beni di impresa di
tutti o parte dei beni della società trasformata2.
Tale dipendenza non è smentita dal riferimento
dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014 alla “plusvalenza unitariamente determinata” in base al
valore normale dei componenti dell’azienda o
del complesso aziendale. Infatti, la funzione del
citato comma non è, né può essere, quella di
mutare il regime impositivo dei componenti reddituali che originano dall’estromissione di beni
singoli, estendendo ad essi in toto il regime della
cessione di azienda di cui all’art. 86 comma 2
del TUIR. Si prefigge, invece, il più limitato scopo di ribadire che, anche nell’ipotesi in cui i beni
estromessi non siano integrati in un compendio
aziendale, i relativi plusvalori e minusvalori si
elidono tra loro ai fini della determinazione
1 La questione dell’imponibilità dei plusvalori o maggiori valori dei c.d. “beni di impresa isolati” è stata ampiamente dibattuta, stante il riferimento letterale della norma ai soli “componenti dell’azienda o del complesso aziendale”. Essa è comunque
da risolvere in senso affermativo, potendosi fondatamente sostenere che il legislatore abbia fatto riferimento solo alla
situazione tipica di inclusione dei beni societari in un complesso aziendale, senza peraltro volere escludere espressamente
la tassazione di beni che, pur non facendo parte di un’azienda, partecipano comunque al c.d. regime dei beni di impresa;
dei beni, cioè, che partecipano al reddito di impresa fiscalmente rilevante in Italia (in ragione del presupposto personale o
territoriale), l’“estromissione” dal quale è assunta a specifico presupposto impositivo dall’art. 166 del TUIR. L’imponibilità
dei beni isolati, già indirettamente avallata dalla circolare Agenzia Entrate 4.8.2004 n. 36 (che aveva riconosciuto l’applicabilità del regime di participation exemption di cui all’art. 87 del TUIR anche nel trasferimento di residenza, v. infra) trova
ora conferma anche nell’art. 1 co. 5 del DM 2.7.2014. Infatti, la disposizione fa riferimento a ciascun “cespite trasferito”,
laddove la parola “cespite” ben può includere anche elementi patrimoniali che non sono “componenti dell’azienda”.
2 Cfr., in particolare, Tesauro F. “Aspetti fiscali della trasformazione eterogenea”, TributImpresa, 2, 2005, p. 10; Cicognani
F. “Le trasformazioni eterogenee nell’art. 171 T.U.I.R.”, in “Imposta sul reddito delle società”, a cura di Tesauro F.,
Zanichelli, Bologna, 2007, p. 810-812; Ragucci G. “Schemi di attuazione della neutralità nelle operazioni straordinarie
d’impresa”, Rass. trib., 2007, p. 1400, nota 37.
39
della base imponibile dell’exit tax. Ciò anche
in considerazione del fatto che nel contesto
dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014 la determinazione unitaria della base imponibile (“plusvalenza”) è servente al meccanismo di attribuzione
proporzionale della stessa ai vari cespiti trasferiti
all’estero, previsto dal successivo comma 5. A
sua volta, tale meccanismo è funzionale al monitoraggio della frazione dell’imposta “sospesa”
che si rende progressivamente esigibile da parte dell’Erario, in dipendenza del verificarsi degli
eventi di cui al successivo comma 6.
3
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Exit tax
e participation exemption
40
Chiarito che il regime impositivo è legato alla
qualificazione in senso oggettivo del patrimonio estromesso, non vi è dubbio che l’estromissione di una o più partecipazioni non
integrate in un compendio aziendale può
beneficiare della participation exemption
di cui all’art. 87 del TUIR, come peraltro riconosciuto dalla circolare dell’Agenzia delle
Entrate 4.8.2004 n. 36 (par. 2.2.)
Tale situazione si verifica, innanzitutto, quando in occasione del trasferimento di residenza
vengano ricollocate all’estero singole partecipazioni già incluse in una struttura aziendale
preesistente, mantenendo la restante parte
della struttura aziendale in una stabile organizzazione nel territorio dello Stato 3.
La stessa situazione si verifica quando la partecipazione non faccia già originariamente
parte di un complesso aziendale, ma configuri
un “bene isolato”, come nel caso tipico di trasferimento all’estero di una holding statica,
senza permanenza di stabile organizzazione in
Italia. In tale ipotesi, l’applicabilità del regime
di esenzione non è preclusa dal fatto che la
società possa perdere lo status personale di
imprenditore in Italia, proprio perché il regime
impositivo è ancorato alla qualificazione oggettiva del patrimonio estromesso, non già alla
situazione soggettiva della società trasferita4.
Nell’ipotesi in cui fosse estromesso un complesso aziendale, nel cui compendio patrimoniale
sia inclusa la partecipazione, l’applicabilità della
participation exemption si scontrerebbe, in linea
di principio, con la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 13.2.2006
n. 6, par. 5.2. La circolare ha ritenuto che l’applicazione del regime di esenzione sia preclusa
dalla circostanza che nella cessione di azienda i
componenti reddituali che originano dal trasferimento di proprietà dei beni perdono la propria
individualità e concorrono a cumulativamente a determinare il valore dell’azienda, ai sensi dell’art. 86 comma 2 del TUIR, senza potere
essere da questa “estrapolati”. Gli esiti di tale
interpretazione risulterebbero particolarmente distorsivi nell’ipotesi in cui fosse trasferito
all’estero l’intero complesso aziendale di una
c.d. holding dinamica (inclusivo delle partecipazioni, del personale e dei mezzi dedicati alle
attività di servizio alle partecipate, dei rapporti
contrattuali, ecc.), alla quale il regime di esenzione sarebbe negato tout court. Per tale ragione la
dottrina ha auspicato che l’Agenzia delle Entrate
possa precisare il proprio orientamento nel senso di ritenere applicabile il regime di esenzione,
sulla quota del patrimonio aziendale estromesso
rappresentata da partecipazioni in possesso dei
requisiti di cui all’art. 87 del TUIR, in tutte le ipotesi in cui il valore normale del compendio trasferito all’estero sia prevalentemente formato da
partecipazioni (ferma restando la tassazione piena sulla quota di patrimonio aziendale residua)5.
È comunque legittimo auspicare una riforma
3 In questo senso anche circolare Assonime 21.4.2006 n. 13, § 2.2.5.
4 Ne è conferma l’applicabilità della participation exemption anche quando lo status soggettivo di imprenditore viene
meno nell’ambito di vicende puramente interne, come nel caso della trasformazione c.d. “decommercializzante”
regolata dall’art. 171 co. 1 del TUIR. Sul punto, cfr. Tesauro F., cit., p. 10.
5 Cfr., Michelutti R. “Exit tax e holding alla ricerca di chiarimenti”, Il Sole-24 Ore, 15.10.2015, p. 42, che propone di effettuare il test di prevalenza sulla base degli stessi criteri previsti dall’art. 87 co. 5 del TUIR e dalla circolare Agenzia Entrate
n. 36/2004, cit., § 2.3.5.
ancor più radicale dell’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, che riconosca in ogni caso l’applicazione dell’esenzione sulla quota della plusvalenza, derivante dal trasferimento all’estero
o dalla cessione dell’azienda, rappresentata da
partecipazioni con i requisiti per l’esenzione. Al
fine di pervenire a tale risultato, occorrerebbe
riconoscere che è l’art. 87 del TUIR ad assumere
natura di disposizione speciale rispetto all’art.
86 comma 2 del TUIR, non già viceversa. La tesi
trova fondamento nell’esistenza di due elementi “specializzanti” nel citato art. 87 del TUIR: il
primo è rappresentato dall’oggetto, che è circoscritto alle partecipazioni. Il secondo è rappresentato dai requisiti, che sono volti a delimitare l’ambito di applicazione dell’esenzione in
funzione dell’esigenza, di carattere sistematico,
di evitare una duplicazione economica dell’imposta rispetto agli utili che hanno già subito
tassazione in capo alla società partecipata. Tale
esigenza rimane invero immutata, a prescindere dalla circostanza che la partecipazione sia
ceduta unitariamente o separatamente rispetto
all’azienda di cui fa parte6.
4
Avviamento,
funzioni, rischi
Altre questioni interpretative emergono dalla
lettura dell’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014,
laddove è disposto che “la predetta plusvalenza include anche il valore dell’avviamento,
comprensivo delle funzioni e dei rischi trasferiti, determinato sulla base dell’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento”.
Anteriormente all’emanazione del citato decreto, la questione se l’avviamento dovesse essere
o meno incluso nella determinazione della plusvalenza unitaria aveva formato oggetto di un
intenso dibattito dottrinale7. Si è dell’avviso che
la soluzione affermativa alla questione prospettata fosse già avvalorata dall’assimilazione della fattispecie impositiva originata dalla perdita
della residenza a quella che caratterizza la cessione dell’azienda (quest’ultima, pacificamente
inclusiva dell’avviamento), quale contenuta nella
relazione illustrativa all’originario art. 20-bis del
TUIR. In questo senso, l’art. 1 comma 1 del DM
2.7.2014 assume una mera valenza confermativa, laddove prevede che “la predetta plusvalenza
include anche il valore dell’avviamento”.
A conclusioni parzialmente diverse occorre invece pervenire in ordine all’inclusione nella base
imponibile delle “funzioni e dei rischi trasferiti”.
Le “funzioni” e i “rischi” non sono beni di impresa. Dovrebbe quindi ritenersi che, in tanto
essi possono essere tassati nell’ambito del trasferimento di residenza, in quanto rappresentino
“componenti dell’azienda o del complesso aziendale”, ai sensi dell’art. 166 comma 1 del TUIR, e
confluiscano, pertanto, in quella posta residuale
che è l’avviamento dell’azienda. Detto altrimenti, vi sarà imponibilità del trasferimento di
rischi e funzioni solo nel caso in cui il patrimonio
estromesso si qualifichi come azienda o ramo
di azienda e l’imposizione avrà luogo in forma
implicita, cioè quale parte integrante dell’avviamento. Quindi, ad esempio, se il trasferimento
all’estero riguardasse una holding statica, titolare
di una partecipazione e di un contratto di lavoro
con un dipendente adibito a mansioni contabili e
di segreteria, anch’egli ricollocato all’estero, non
sorgerebbe alcun presupposto impositivo per le
“funzioni e i rischi trasferiti”, perché nel caso di
specie non si configurerebbe il trasferimento
all’estero di un’azienda8. In tale ipotesi, pertan-
6 Si vedano, al riguardo, le condivisibili argomentazioni di Viotto A. “Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni”,
Giappichelli, Torino, 2013, p. 251. Si era espressa a favore di tale soluzione anche l’Assonime (circolare 6.7.2005 n. 38), che successivamente ha preso atto, con la circolare 21.4.2006 n. 13, del diverso orientamento manifestato dall’Agenzia delle Entrate.
7 Per una rassegna delle posizioni espresse in merito, cfr. Di Siena M. “Il trasferimento all’estero della residenza”, in “Operazioni di finanza straordinaria”, a cura di Cristofori G., ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2010, p. 1134.
8 In giurisprudenza, cfr. C.T. Prov. Milano 29.9.2010 n. 396/1/10, in Banca Dati Eutekne, che ha escluso la configurabilità
del trasferimento di azienda in ipotesi di riorganizzazione aziendale con affidamento di alcune attività all’estero e il
trasferimento di un solo dipendente.
41
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
to, il trasferimento delle competenze personali
(o della “funzione” contabile), quale ne sia il
valore e anche assumendo che lo stesso sarebbe stato remunerato tra parti indipendenti, non
comporterà tassazione, in difetto di una norma
impositiva che disponga in tal senso. Tale norma
non potrebbe essere rinvenuta nel citato art. 1
comma 1 del DM 2.7.2014, perché quest’ultimo
è inidoneo ad ampliare i confini del presupposto
e della base imponibile definiti dalla norma primaria9. Né, si ritiene, potrebbe assolvere a questa
funzione il capitolo IX delle Linee guida dell’OCSE in materia di transfer pricing, dedicato al business restructuring, che pure garantirebbe agli
42
Stati la facoltà di assoggettare ad imposizione il
valore imputabile al ridimensionamento di funzioni e al trasferimento di contratti di lavoro in
occasione della chiusura di una determinata attività. E ciò non tanto perché non è del tutto immediato stabilire se il capitolo IX delle Guidelines
possa effettivamente trovare applicazione anche
al trasferimento di residenza10, quanto piuttosto
perché le convenzioni bilaterali contro le doppie
imposizioni redatte in conformità all’art. 9 del
Modello OCSE e i relativi strumenti interpretativi
non possono ampliare la base imponibile determinata dalla norma impositiva interna11, ma solo
limitarla (c.d. “principio di non aggravamento”)12.
9 In generale, sulle criticità connesse all’adozione di decreti di natura non regolamentare, le cui prescrizioni non potrebbero costituire situazioni giuridiche soggettive nei confronti dei loro destinatari, si veda Battistoni Ferrara F. “Una nuova
fonte di produzione normativa, i decreti ministeriali non aventi natura regolamentare”, Riv. dir., trib., 2005, p. 1123 e ss.
10 Invero, poiché il trasferimento di residenza si esaurisce nella sfera di un unico soggetto giuridico, difetterebbe uno dei
presupposti formali dell’art. 9 del Modello OCSE, cioè l’esistenza di due soggetti, legati da un rapporto di controllo, tra
i quali si configuri un trasferimento di rischi e funzioni, al quale correlare un eventuale obbligo di indennizzo
(nel presupposto che lo stesso sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti, a fronte del trasferimento). Vero è che
tale alterità soggettiva potrebbe essere ricostruita tramite una fictio operante sul piano esclusivamente fiscale, come
avviene in relazione al trasferimento di beni dalla stabile organizzazione alla sede centrale della stessa impresa
(evento che giustifica l’insorgenza di un presupposto di tassazione nel Paese della fonte, come già desumibile dall’art.
166 co. 1 secondo periodo del TUIR ed ora confermato dal riformulato art. 152 co. 3 del TUIR, in linea con l’art. 7 delle
convenzioni redatte secondo il Modello OCSE – cfr. anche Commentario OCSE all’art. 13, § 10).
11Le Guidelines dell’OCSE trovano applicazione, in particolare, al trasferimento: (i) di un complesso aziendale, comprendente il
personale, le funzioni svolte, ecc. (§ 9.93 e ss.); (ii) di singoli beni materiali (§ 9.75 e ss.); (iii) di singoli beni immateriali (§ 9.80
e ss.); (iv) di diritti contrattuali non integrati in un compendio aziendale (§§ 9.91 e 9.92); (v) di accordi contrattuali e contratti
di lavoro, in occasione della cessazione o rinegoziazione di accordi esistenti (§ 9.100). Non residuano dubbi in merito alla possibilità di ricondurre all’ambito applicativo dell’art. 166 del TUIR la fattispecie menzionata sub (i) (si veda anche la risoluzione
Agenzia Entrate 7.11.2006 n. 124, che afferma l’imponibilità del trasferimento all’estero di un complesso aziendale, comprendente la lista clienti, le competenze e il know-how, presumibilmente quali parti integranti del relativo avviamento). Sulla configurabilità del know-how quale parte integrante dell’avviamento si veda anche la C.T. Prov. Milano 29.10.2010 n. 429/3/10, in
Banca Dati Eutekne). Altrettanto può dirsi in relazione alle fattispecie sub (ii) e sub (iii), sempreché comportino il trasferimento
di singoli beni di impresa, legalmente identificabili (si pensi al trasferimento di un macchinario o di un marchio). Si ritiene
che a diverse conclusioni occorra invece pervenire, alla luce dell’attuale normativa, in relazione al trasferimento di funzioni,
diritti contrattuali, ecc., che non formano parte integrante dell’avviamento di un complesso aziendale, né costituiscono beni
di impresa. In senso opposto, la dottrina ha osservato che la circolare Agenzia Entrate 15.12.2010 n. 58, nel punto in cui – con
riferimento all’art. 110 co. 7 del TUIR – afferma genericamente che “particolare attenzione dovrà essere posta ai cambiamenti
[di funzioni, assets e rischi n.d.a.] intervenuti a seguito di operazioni di riorganizzazione aziendale”, sembrerebbe adombrare
l’imponibilità anche delle fattispecie da ultimo menzionate (per la distinzione tra l’approccio formale che emerge dalla norma
interna e l’approccio assunto dall’Agenzia delle Entrate, che rimanda tout court alle Guidelines in materia di business restructuring, si veda Cottani G. “Cross-border business restructuring- Italy”, IFA Cahiers de droit fiscal International, 2011, p. 433;
nonché Avolio D., Cottani G., Ferroni B. “Business restructuring e stabile organizzazione”, in “La stabile organizzazione delle
imprese industriali e commerciali”, a cura di Mayr S., Ipsoa, Milano, 2013, p. 571. Nel senso dell’imponibilità dell’indennizzo
implicito da ridimensionamento di funzioni e rischi si vedano Piazza M., Valsecchi M. “Exit tax: questioni ancora aperte dopo
l’emanazione delle norme attuative”, il fisco, 2014, p. 3951. Occorre peraltro ribadire che l’imponibilità del trasferimento di
funzioni e rischi non inclusi in un compendio aziendale è estranea al dato testuale dell’art. 166 del TUIR, come a quello dell’art.
86 co. 1 lett. c) del TUIR (che, a tacer d’altro, menziona i soli beni e non potrebbe estendersi alle destinazioni a finalità estranee
di servizi: cfr., inter alia, Leo M. “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Giuffrè, Milano, 2010, p. 1463) e, a nostro avviso, anche
a quello dell’art. 110 co. 7 del TUIR. Si ritiene, in conclusione, che la pretesa di fondare l’imponibilità con riferimento esclusivo
alle Guidelines si risolverebbe in un’ammissibile ampliamento della base imponibile prevista dalla normativa interna.
12 Per l’applicabilità del principio di non aggravamento con specifico riferimento all’art. 9 del Modello OCSE e, quindi,
alla disciplina del transfer pricing, si veda da ultimo, in prospettiva comparatistica, Wittendorff J. “Transfer Pricing and
Di ciò pare avvedersi lo stesso decreto. Infatti, mentre l’art. 1 comma 1 del DM 2.8.2013
disponeva che “Nei suddetti componenti
[dell’azienda, n.d.a.] si comprendono il valore
dell’avviamento e quello delle funzioni e dei
rischi propri dell’impresa […]”, il corrispondente comma del DM 2.7.2014 stabilisce
che “La predetta plusvalenza include anche
il valore dell’avviamento, comprensivo delle
funzioni e dei rischi trasferiti […]”. Si tratta, a
nostro avviso, di un esplicito riconoscimento
del fatto che il trasferimento di funzioni e
rischi non è imponibile in via autonoma, ma
solo quale parte integrante dell’avviamento
di un complesso aziendale trasferito.
5
Passività e fondi
fiscalmente non riconosciuti
L’art. 166 del TUIR pare escludere che il trasferimento all’estero possa originare componenti reddituali relativi alle “passività”, in
ragione di un’ipotetica differenza tra il loro
valore normale e il loro valore nominale o di
bilancio. Invero, a fronte del generico riferimento della norma ai “componenti dell’azienda o del complesso aziendale”, che sul piano
strettamente letterale potrebbero includere
anche le passività, la relazione illustrativa al
DL 41/1995 chiarisce che la fattispecie del
trasferimento all’estero è realizzativa, alla
stregua del realizzo dell’azienda, “limitatamente alla differenza tra costo fiscale e valore
normale dei beni che permangono nella titolarità del soggetto trasferito” e non accenna
affatto alle passività. Del pari, la relazione
illustrativa al DLgs. 6.11.2007 n. 199, di recepimento della direttiva 2005/19/CE, precisa
che il dato testuale dell’art. 166 comma 1 del
TUIR, comporta “la rilevanza reddituale non
solo delle plusvalenze ma, evidentemente, anche delle eventuali minusvalenze realizzate”,
senza tuttavia considerare l’ipotesi di emersione di sopravvenienze attive o passive relative alle passività13. E ancora, l’art. 1 comma 3
del DM 2.7.2014, stabilisce che la plusvalenza
da exit è determinata “senza tener conto delle
minusvalenze e/o delle plusvalenze realizzate
successivamente al trasferimento stesso”, utilizzando di nuovo la terminologia propria degli artt. 86 comma 1 e 101 comma 1 del TUIR
(“plusvalenze”; “minusvalenze”), che si adatta
ai componenti reddituali originati dal realizzo
dei beni di impresa, non a quelli generati dalle
passività.
Meno chiara, sotto questo profilo, è la formulazione del par. 2.1 lett. d) del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 10.7.2014
n. 92134, che richiede “l’indicazione per
ciascun bene, diritto e passività del costo
fiscale, del valore normale, della relativa
plusvalenza o minusvalenza, che ha concorso alla determinazione della plusvalenza
complessiva”. Ulteriori dubbi sono ingenerati dalla recente introduzione dell’art. 166bis del TUIR, che fa espresso riferimento al
valore normale “in ingresso” delle passività14.
the Arm’s Length Principle”, International Tax Law, 2010, p. 198. Si veda anche Commentario OCSE, art. 1, §. 9.2. In
giurisprudenza, tra le altre, Cass. 21.2.2005 n. 3414, Dir. e prat. trib., 2005, p. 1506.
13Nella cessione di azienda, cui il trasferimento di residenza è assimilato, il trasferimento di una passività ad altri
soggetti, diversamente dalla sua remissione, non comporta l’emersione di una sopravvenienza attiva imponibile. Cfr.
Lupi R. “Operazioni straordinarie, debiti accollati e poste rettificative: alla ricerca di simmetria tra cedente e cessionario”, in “La fiscalità delle operazioni straordinarie di impresa”, a cura di Lupi R., Stevanato D., ed. Il Sole-24 Ore,
Milano, 2002, p. 198.
14 Il co. 2 dell’art. 166-bis, nel distinguere anche per le passività il “valore normale”, il “valore di bilancio” e il “costo d’acquisto”, lascerebbe intendere che il valore normale di una passività possa differire dal suo valore nominale o di bilancio.
Tuttavia, l’art. 9 del TUIR non sembra occuparsi della determinazione del valore normale di una passività, né di come,
eventualmente, questo possa differire dal relativo valore nominale o di bilancio. Né si ritiene che a tal fine possa farsi
riferimento alla nozione di fair value di una passività ai sensi dello IAS 39, stante la mancata coincidenza, evidenziata
dalla dottrina, tra le nozioni di fair value e di valore normale (cfr. Wittendorff J. “The Arm’s Length Principle and Fair
Value: Identical Twins or Just Close relatives”, Tax Notes International, 18.4.2011, p. 223; Avolio D., Ruggiero P. “IAS/IFRS
e «transfer pricing»: le differenze nelle valutazioni a «fair value» e ad «arm’s length»”, Corr. Trib., 2011, p. 3719 e ss.).
43
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Per quanto ambigue, tali formulazioni non
paiono comunque idonee a sovvertire le
molteplici indicazioni per cui il trasferimento di sede all’estero non origina componenti reddituali relativi alle passività
fiscalmente riconosciute, in funzione di
un’ipotetica differenza tra il relativo valore
normale e di bilancio.
Non è chiaro, per altro verso, quale rilevanza assumano eventuali fondi per rischi
o oneri non riconosciuti sul piano fiscale
(c.d. “fondi tassati”, in quanto alimentati
da accantonamenti diversi da quelli per i
quali è ammessa la relativa deducibilità, ai
sensi degli artt. 105, 106 e 107 del TUIR)
iscritti tra gli elementi del passivo aziendale trasferito. Non pare corretto accomunare
tali fondi ai componenti negativi di cui al
comma 2 lett. c) del DM 2.7.2014, “la cui
deduzione […] sia stata rinviata in conformità alle disposizioni del TUIR”, i quali concorrono in via autonoma alla formazione
del reddito dell’ultimo periodo di imposta
di residenza. Si tratta, infatti, di fondi costituiti con accantonamenti indeducibili, la
cui deduzione è negata dal TUIR, non già
semplicemente “rinviata” al momento in cui
il relativo costo assume certezza. Si ritiene
quindi preferibile fare concorrere tali fondi
alla determinazione della plusvalenza unitaria, anche in considerazione del fatto che,
nell’ipotesi di cessione di azienda, essi assumerebbero rilevanza nella determinazione del valore economico dell’azienda e del
(maggiore) valore fiscale di quest’ultima rispetto a quello contabile; concorrerebbero,
cioè, a determinare la (minore) plusvalenza
fiscale realizzata dal venditore (rispetto a
quella contabile), mediante una variazione
in diminuzione da apportare in sede di dichiarazione dei redditi15.
6
Determinazione
della base imponibile
La base imponibile dell’exit tax sarà quindi
determinata quale somma algebrica delle
plusvalenze e minusvalenze dei singoli beni
nonché, se il patrimonio trasferito configura
un’azienda o un ramo aziendale, del relativo avviamento16 e, infine, dei fondi rischi e
oneri fiscalmente non riconosciuti, come
nell’esempio riportato di seguito.
ESEMPIO
Si assuma che la società A trasferisca la propria residenza in Spagna, senza che si configuri una stabile organizzazione residua in Italia.
La plusvalenza unitaria, pari a 40, è determinata come segue.
44
15 Cfr., tra gli altri, Lupi R., cit., p. 198; Miele L. “Cessioni e conferimenti di azienda, trasferimento o nuova iscrizione di fondi
per rischi ed oneri: l’avviamento negativo”, Riv. op. str., 2011, p. 23; Gargiulo G., Stevanato D. “Rilevazione di fondi rischi
da parte dell’acquirente di azienda e rivalutazione fiscale dell’attivo”, Dialoghi Tributari, 2008, p. 93; norma di comportamento ADC Milano 1.4.2002 n. 148.
16 Concorrono alla formazione della plusvalenza unitaria i maggiori valori di tutti i beni trasferiti, ivi inclusi, si ritiene, i
beni merce. In primo luogo, ciò è coerente con i criteri di determinazione della plusvalenza derivante dalla cessione
di azienda, cui il trasferimento di residenza è assimilato. In secondo luogo, l’inclusione nella plusvalenza unitaria dei
maggiori valori dei beni merce non trova ostacoli letterali né nell’art. 1 co. 5 del DM 2.7.2014 (che prevede l’allocazione
della plusvalenza unitaria ai soli “cespiti” trasferiti, escludendo così i beni merce) né nel precedente co. 2 lett. a), a mente
del quale “la sospensione o la rateizzazione di cui al comma 1 non possono riguardare” i beni merce. Tali disposizioni,
infatti, trovano applicazione in un momento distinto e logicamente successivo rispetto a quello di determinazione della
plusvalenza; nel momento, cioè, in cui ha luogo l’allocazione della plusvalenza e l’individuazione della quota di essa che
non può beneficiare della rateizzazione o sospensione. Del resto, se l’intento fosse stato quello di escludere i beni merce
dalla determinazione della plusvalenza unitaria, il co. 2 avrebbe più probabilmente essere formulato nel senso che “la
plusvalenza di cui al comma 1 non include” i beni merce. Tale specificazione sarebbe stata invece superflua per gli elementi menzionati alle lett. b) e c) (fondi in sospensione e componenti autonomi del reddito di impresa rinviati da periodi
precedenti), trattandosi di poste che comunque non sarebbero rientrate nella determinazione della plusvalenza derivate
dalla cessione di un’azienda, né, quindi, della plusvalenza di cui all’art. 166 del TUIR.
Valore contabile
Brevetti
Valore fiscale
Valore normale
Plus (minus)
fiscale
100
100
125
25
0
0
50
50
Impianti
80
100
90
(10)
Merci
10
10
20
10
Crediti
25
25
10
(15)
(100)
(100)
(100)
0
(20)
0
(20)
(20)
95
135
175
40
Avviamento
Debiti
Fondi rischi
(fiscalmente non riconosciuti)
Totale
7
Nozione di valore normale
Altra questione attiene alla nozione di valore
normale da assumere ai fini della tassazione dei
beni della società trasferita all’estero che sono
estromessi dal regime del reddito di impresa17.
Due sono le possibili risposte alla questione prospettata: il valore normale dei beni
è quello determinato ai sensi dell’art. 9 del
TUIR oppure è il prezzo di libera concorrenza (c.d. valore at arm’s length), cui fanno riferimento l’art. 9 del Modello OCSE e le Linee
Guida dell’OCSE in materia di transfer pricing.
Il dubbio si pone non tanto perché l’art. 166
del TUIR, a differenza dell’art. 166-bis recentemente introdotto, non contiene un rinvio
espresso all’art. 9 del TUIR (essendo questo
l’unico articolo del Testo Unico che definisce
il valore normale), quanto piuttosto perché
l’art. 1 comma 1 del DM 2.7.2014, al fine di
individuare i criteri di valorizzazione del (solo)
“avviamento, comprensivo delle funzioni e dei
rischi trasferiti”, contiene un riferimento testuale “all’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento”, cioè al valore at arm’s length.
È noto che la nozione di valore normale accolta dall’art. 9 comma 3 del TUIR, per molti
versi inadeguata e anacronistica, non è necessariamente in linea con quella OCSE del prezzo
di libera concorrenza. Lo dimostra il dibattito
dottrinale insorto in relazione all’applicazione
delle disposizioni di cui all’art. 110 comma 7
del TUIR, incentrato sulla questione se sia o
meno legittimo integrare il rinvio all’art. 9 del
TUIR con i criteri dell’OCSE diversi da quello del
confronto del prezzo, ivi inclusi, i c.d. metodi reddituali18; dibattito che si è arricchito in
tempi recenti di alterne pronunce di legittimità19. Altrettanto noto è che, fin dalla circolare
22.9.1980 n. 32 e ancor più nella successiva
circolare 15.12.2010 n. 58, la tesi dell’Amministrazione finanziaria è invece sempre stata nel
17 La questione è stata giustamente sollevata da Mayr S. “Alcune osservazioni sul decreto di attuazione della norma sul
trasferimento di sede all’estero”, Boll. trib., 2013, p. 1385 e ss.
18 Per una sintesi dei termini del dibattito e relativi riferimenti bibliografici, cfr. Della Valle E., sub art. 110 co. 7-12 bis, in
“Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi”, a cura di Tinelli G., Cedam, Padova, 2009, p. 1042.
19 Cfr., da ultimo, Cass. 5.8.2015 n. 16399, in Banca Dati Eutekne, che ha affermato che, in assenza di operazioni comparabili,
“è possibile il ricorso a metodi alternativi, consigliati dall’OCSE, quali i metodi del prezzo di rivendita e del costo maggiorato (costituito dalla somma del costo del prodotto e di un margine percentuale di profitto), nonché quelli basati sulla
ripartizione degli utili o sulla comparazione degli stessi”. In precedenza, la Corte si era invece espressa in senso contrario,
con le sentenze del 25.9.2013 n. 22010 e 23.10.2013 n. 24005, entrambe in Banca Dati Eutekne, secondo cui, “tra i diversi
criteri indicati dal Modello OCSE del 1995, per la valutazione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese
associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano [nell’art. 9 del TUIR] ha compiuto una precisa scelta a favore
di quello del «confronto del prezzo» (comparable uncontrolled price method)”, escludendo così il ricorso ad altri metodi.
45
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
46
senso dell’allineamento tra le nozioni di valore normale e valore arm’s lenght20. Alle Linee
Guida dell’OCSE fa riferimento la prassi delle
imprese e, da ultimo, il Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 29.9.2010 n. 137654,
in materia di documentazione rilevante ai
fini della disciplina del transfer pricing, di cui
all’art. 110 comma 7 del TUIR, emanato ai sensi
dell’art. 26 del DL 31.5.2010 n. 7821. Tale ultima disposizione, rubricata “Adeguamento alle
direttive OCSE in materia di documentazione
dei prezzi di trasferimento” è stata talvolta interpretata come un (implicito) recepimento, da
parte del legislatore, delle Linee Guida dell’OCSE ai fini dell’applicazione dell’art. 110 comma
7 del TUIR, ivi espressamente richiamato.
La questione prospettata si ripropone, in termini parzialmente similari, in relazione all’art.
166 del TUIR. Con la differenza che il citato art.
26 del DL 78/2010, in quanto riferito al solo art.
110 comma 7 del TUIR, non potrà comunque
fornire un sostrato normativo per l’utilizzo del
valore at arm’s length. Per altro verso, il trasferimento all’estero riguarderà in molti casi beni
per i quali difettano i requisiti di comparabilità
richiesti dalle Guidelines per l’applicazione del
metodo del confronto del prezzo (si pensi alla
valutazione dei beni intangibili trasferiti all’estero, quali marchi, brevetti, know-how, ecc.).
In tali ipotesi, il riferimento ai criteri previsti
dalle Guidelines dell’OCSE22 diverrà nella maggior parte dei casi un orizzonte obbligato per
ragioni di natura pratica, non giuridica.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 166 del TUIR,
l’integrazione dell’art. 9 del TUIR con le raccomandazioni dell’OCSE troverà comunque
un limite nella circostanza che né il DM
2.7.2014 né l’art. 9 delle convenzioni bilaterali redatte secondo il Modello OCSE possono
ampliare la base imponibile rispetto a quella
che deriva dalla norma impositiva interna. Quanto precede assume sicura rilevanza
nelle ipotesi in cui l’art. 9 del TUIR risulti concretamente applicabile e definisca in modo
puntuale i criteri di determinazione del valore
normale di un determinato bene trasferito
all’estero. Così, ad esempio, non pare in discussione che il valore di una partecipazione
in una società quotata, inclusa nel patrimonio
di una holding che trasferisce la propria residenza all’estero, debba essere determinato in
base alla media aritmetica dei prezzi rilevati
nell’ultimo mese, ai sensi dell’art. 9 comma
4 lett. a) del TUIR. Ciò quand’anche potesse
argomentarsi che il prezzo pattuito tra parti
indipendenti per la cessione della partecipazione sarebbe stato superiore (ad esempio,
per tenere conto di un premio di maggioranza). È forse questo il significato da attribuire alla scelta del legislatore di includere un
rinvio espresso all’art. 9 del TUIR nel testo
del neo-introdotto art. 166-bis del TUIR, che
disciplina la determinazione del valore normale dei beni “in ingresso” in occasione del
trasferimento di residenza in Italia.
8
Allocazione e sospensione
della plusvalenza
Il meccanismo di allocazione della plusvalenza unitaria, disciplinato dall’art. 1 comma 5
del DM 2.7.2014, è volto alla quantificazione
della quota di plusvalenza da attribuire ai singoli cespiti trasferiti, in funzione strumentale
all’operatività delle regole dettate in materia
di sospensione o rateizzazione dell’imposta.
Forma oggetto di allocazione “la plusvalenza
complessiva di cui al medesimo comma 1”,
cioè la “plusvalenza unitaria”, corrispondente
alla base imponibile come sopra determinata.
Tale plusvalenza dovrà essere allocata (“riferita”) “a ciascun cespite trasferito”, “in base al
rapporto tra il rispettivo maggior valore e la
20 Tale circostanza è evidenziata anche da Assonime, circolare 20.2.2014 n. 5, p. 59.
21 Conv., con mod., L. 30.7.2010 n. 122, in G.U. 30.7.2010 n. 176 - S.O. n. 174.
22 Come modificate dal documento OCSE 5.10.2015 BEPS Action n. 8-9-10 Final Reports “Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation”, in Banca Dati Eutekne, con particolare riferimento alla valutazione dei beni immateriali.
sommatoria di tutti i maggiori valori trasferiti”. Se ne desume, che:
• la plusvalenza unitaria dovrà essere allocata ai soli “cespiti” trasferiti. È quindi
letteralmente esclusa l’allocazione ai beni
merce, in coerenza con il fatto che per tali
beni non è esercitabile l’opzione per la
sospensione o rateizzazione dell’imposta
[cfr., comma 2 lett. a)];
• la chiave di ripartizione è data dai soli
“maggiori valori” trasferiti. Ne consegue
che, in presenza di minusvalenze latenti e
di fondi fiscali non riconosciuti, questi ridurranno proporzionalmente i plusvalori
latenti dei beni trasferiti23, come nell’esempio riportato in nota24;
• in caso di opzione per la sospensione,
il meccanismo di allocazione consente di
ripartire la plusvalenza unitaria residua in
funzione delle diverse modalità e tempi di
recupero dell’imposta, legate alle vicende
dei componenti aziendali cui la plusvalenza è allocata;
• il meccanismo di allocazione si regge su una
regola autonoma, verosimilmente volta
a prevenire allocazioni “strumentali” della
plusvalenza unitaria a beni che consentirebbero un più lento recupero dell’imposta
(ad esempio, beni non ammortizzabili o a
lento ammortamento, non destinati ad essere ceduti). Si evita in tal modo l’insorgere
di controversie simili a quelle che possono
caratterizzare la ripartizione del corrispettivo di acquisto dell’azienda da parte del
cessionario25.
Da ultimo, l’art. 1 comma 6 del DM 2.7.2014
disciplina le modalità e i tempi di recupero
dell’imposta per la quale sia stata esercitata
l’opzione per la sospensione. Il versamento
dell’imposta è collegato non solo alle vicende realizzative dei componenti aziendali cui
la plusvalenza unitaria è stata allocata (e
sospesa), ma anche ad una serie di eventi
specifici, diversi dal realizzo in base al TUIR e
variabili in funzione della tipologia di componente aziendale (maturazione delle quote di
ammortamento residue, distribuzione di utili,
ecc.), la cui individuazione nel DM costituisce
legittimo esercizio di una facoltà accordata
agli Stati dalla Corte di giustizia 26.
47
23 Cfr. anche circolare Assonime n. 5/2014, cit., p. 81: “In questo modo, come è stato correttamente rilevato in dottrina,
le eventuali minusvalenze di taluni beni del compendio trasferito, nonché le passività del compendio aziendale,
andranno a ripartirsi proporzionalmente ad abbattimento di tutti i beni, anche di quelli singolarmente plusvalenti”.
24 Si assumano i dati riportati nella tabella di cui al precedente esempio. La plusvalenza unitaria è pari a 40. Tale plusvalenza
può essere allocata ai soli beni, diversi dai beni merce, che denotano un “maggior valore” (brevetti, avviamento). La quota
allocata a ciascuno di tali beni è pari al rapporto tra il rispettivo “maggior valore” (25 per i brevetti e 50 per l’avviamento)
e la somma dei “maggiori valori” dei cespiti trasferiti, pari a 75 (25+50). Ne consegue che la quota di plusvalenza unitaria
allocata ai brevetti è pari a 40 x (25/75) = 13,3; la quota allocata all’avviamento è pari a 40 x (50/75) = 26,7. In entrambi i
casi, la quota di plusvalenza allocata è inferiore al “maggior valore” del bene, quale effetto indotto dalla presenza di beni
minusvalenti e di fondi fiscalmente non riconosciuti.
25 In giurisprudenza, cfr. Cass. 16.4.2008 n. 9950, in Banca Dati Eutekne.
26 Cfr. Corte di giustizia 18.7.2013 causa C-261/11, Commissione c. Danimarca, punto 37; Corte di giustizia 23.1.2014 causa
C-164/12 DMC, punto 53, entrambe in Banca Dati Eutekne.
TRIBUTI
LA MISURAZIONE DEL CONTRIBUTO
ECONOMICO DEGLI INTANGIBILI
AI FINI DEL “PATENT BOX”
Fabio BUTTIGNON
Ordinario di Finanza Aziendale - Università degli Studi di Padova
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Giulia MILAN
Dottore Commercialista e Revisore Legale
48
L’adesione al regime del Patent box comporterà per le imprese e i loro consulenti l’identificazione e la quantificazione dei redditi conseguiti dallo sfruttamento dei beni intangibili.
Quando ciò avviene in modo diretto, sarà necessario impostare un percorso di stima, in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate, che definisca la metodologia di misurazione di tali
redditi e i parametri di calcolo. L’obiettivo del presente lavoro è di illustrare i criteri di stima
indicati nei più recenti riferimenti normativi e, sulla base dei contributi offerti dalla Dottrina
e dalla pratica professionale, descrivere i razionali e il contenuto dei principali metodi, evidenziandone criticità e limiti applicativi.
1
La disciplina
del “Patent box”
Con il DM 30.7.20151 il Ministero dello Sviluppo
economico ha dato attuazione alla previsione
contenuta nella legge di Stabilità 2015 (art. 1
commi 37-45 della L. 23.12.2014 n. 190), come
modificata con il DL 24.1.2015 n. 32 che introduce anche nel nostro ordinamento un regime
opzionale di tassazione per i redditi derivanti
dall’utilizzo di opere dell’ingegno, di brevetti industriali, di marchi, di disegni e modelli, nonché
di processi, formule e informazioni relativi ad
esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili.
Il disposto di legge allinea l’Italia agli altri
Paesi europei (Benelux, Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Spagna) nella tutela della
permanenza dei beni immateriali d’impresa
nel Paese ove si sono originati, favorendone,
al contempo, l’attività di ricerca e sviluppo.
Nella relazione illustrativa al decreto il Ministero dello Sviluppo economico dichiara che
lo stesso è conforme con i principi elaborati
in ambito OCSE. Tuttavia, in data 5 ottobre
2015 sono state pubblicate le 15 raccomandazioni (“Actions”) relative al progetto BEPS
(“Base Erosion and Profit Shifting”) avviato
nel 2013 su commissione del G-20 per limitare l’erosione della base imponibile di ciascun
Stato membro o lo spostamento artificioso dei
1 In G.U. 20.10.2015 n. 244. Per una disamina dell’agevolazione si rinvia a Alberti P., Cotto A. “Regime del Patent box”,
Schede di Aggiornamento, Eutekne, 12, 2015, p. 2117 e ss.
2 Conv., con modificazioni, L. 24.3.2015 n. 33, in G.U. 25.3.2015 n. 70 – S.O. n. 15.
profitti in Paesi a fiscalità privilegiata. L’Action
n. 53, che contiene le linee guida che i Paesi
OCSE sono invitati a seguire per disciplinare i
propri regimi di Patent box, prevede l’esclusione dei marchi e del know-how, facendo salva
la possibilità di garantire fino al 2021 il regime
previgente a chi abbia esercitato l’opzione entro fine giugno 2016. L’Italia si trova quindi a
dover scegliere se modificare immediatamente
il regime appena introdotto, ovvero difenderne
l’impostazione originaria.
Con l’introduzione di questa norma, che ha natura strutturale, si riconosce a tutti i titolari
di reddito d’impresa un’agevolazione (a regime, dal 2017, pari al 50%) sui redditi generati dall’utilizzo dei beni immateriali elencati.
Questi ultimi vanno considerati singolarmente,
salvo sussistano vincoli di complementarietà
che ne comportano l’utilizzo congiunto per la
finalizzazione di un unico prodotto o processo. La misurazione del reddito agevolabile è
derivata da un algoritmo di calcolo che tiene
in considerazione il reddito derivante dal bene
immateriale, ponderato per il peso relativo dei
costi di ricerca e sviluppo (“costi qualificati”) e
il totale dei costi (“costi complessivi”) sostenuti
per il mantenimento, accrescimento e sviluppo
del medesimo. Il reddito agevolabile è funzione della modalità di utilizzo del bene immateriale: diretto o indiretto. In questo secondo
caso si fa riferimento alla concessione in uso a
terzi del bene immateriale, il cui reddito agevolabile per ciascun esercizio è misurato dalla
differenza fra i relativi corrispettivi/canoni di
concessione e i costi ad essi connessi di competenza dell’esercizio. L’utilizzo diretto, invece, si
riferisce allo sfruttamento del bene immateriale
da parte del soggetto economico che lo detiene. In questo caso la norma richiede di misurare
il contributo economico, positivo o negativo, di
ciascuno dei beni immateriali che ha concorso
a formare il reddito o la perdita d’esercizio, si-
mulando i benefici che il soggetto economico
otterrebbe se licenziasse gli stessi beni a terzi (come avviene nella fattispecie dell’utilizzo
indiretto). Con tale approccio si richiede di assumere, figurativamente, l’esistenza di un ramo
d’azienda autonomo deputato alla concessione
in uso di tali beni al medesimo soggetto economico e di calcolare, quindi, le componenti
di reddito positive (figurative) e quelle negative (effettive) ascrivibili allo sfruttamento dei
beni immateriali. Ai fini della determinazione
del contributo economico (ovvero della metodologia per la sua quantificazione) è tuttavia
necessaria la preventiva conclusione di un accordo con l’Agenzia delle Entrate conforme con
quanto previsto all’art. 8 del DL 30.9.2003 n.
269 (c.d. “ruling internazionale”)4 ovvero all’art.
31-ter del DPR 600/1973 (“Accordi preventivi
per le imprese con attività internazionale”), alla
luce delle modifiche del decreto internazionalizzazione (DLgs. 14.9.2015 n. 147)5.
2
La stima del contributo
economico nell’utilizzo
diretto dei beni intangibili
La misurazione del contributo economico rileva nell’ambito della normativa fiscale che,
per sua natura, in un contesto di globalizzazione, deve essere emanata di concerto con
gli altri Stati. È quindi opportuno riferirsi, in
primis, alle linee guida dell’OCSE in materia
di transfer pricing cui, peraltro, la normativa
in ambito Patent box dichiara di uniformarsi.
Tale disciplina va comunque completata anche con un cenno agli orientamenti espressi dal verificatore e di quelli contenuti nella
giurisprudenza tributaria, che per l’operatore
economico costituiscono un riferimento per il
comportamento da assumere per vedersi riconosciuta l’agevolazione fiscale.
3 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into
Account Transparency and Substance”, Action 5, 2015, Final Reports, ottobre 2015, in Banca Dati Eutekne.
4 Conv., con modificazioni, L. 24.11.2003 n. 326, in G.U. 25.11.2003 n. 274 – S.O. 196.
5 In G.U. 22.9.2015 n. 220.
49
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
50
Dal punto di vista economico-aziendale, il risultato economico connesso allo sfruttamento
di un bene immateriale è da tempo oggetto di
studi specialistici e di applicazioni professionali, soprattutto nell’ambito della problematica relativa alla stima del valore economico
delle attività intangibili (espresso, in varie declinazioni, dal valore attuale dei flussi di risultato attesi lungo la vita utile residua del bene).
Per la stima del contributo economico è, quindi, possibile riferirsi ai principi di valutazione, internazionali e nazionali, che, all’interno
delle tre principali metodiche di valutazione
(mercato, reddito e costo), identificano i criteri
più adeguati per la misurazione del valore di
beni immateriali6. A tali metodiche, peraltro,
fanno riferimento le stesse linee OCSE quando
non è possibile riferirsi ad alcuno dei criteri in
esse indicati.
I metodi di determinazione
dei prezzi di trasferimento
secondo le linee guida dell’OCSE
Il riferimento alla procedura di ruling e, comunque, la previsione di stime di autodeterminazione del reddito agevolabile da parte
del contribuente, impongono un richiamo alla
disciplina dei transfer pricing che ha lo scopo
di contenere entro un alveo di ragionevolezza
economica le scelte imprenditoriali sui prezzi di trasferimento di beni e servizi fra entità
giuridiche appartenenti al medesimo gruppo
economico, ma collocate in Paesi a fiscalità
diversa (o comunque dotate di posizioni fiscali
diverse).
Il riferimento normativo, specifico per i beni
immateriali, è rappresentato da il rapporto
OCSE “Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations”
del 1995 e successive modificazioni di cui, da
ultimo, nell’ottobre 2015, il rapporto “Aligning
Transfer Pricing Outcomes with Value Crea-
tion” sulle Actions n. 8-10 del progetto BEPS
ove si fornisce una definizione di bene immateriale e si forniscono linee guida incrementali
per la definizione dei prezzi di libera concorrenza (“at arm’s lenght”) nel trasferimento infragruppo di beni immateriali o di diritti sugli
stessi.
I metodi individuati dall’OCSE per la determinazione dei prezzi di trasferimento sulla
base dei valori di libera concorrenza applicabili anche al caso dei beni immateriali sono
cinque.
PREZZO COMPARABILE DI LIBERO
MERCATO – CUP (COMPARABLE
UNCONTROLLED METHOD)
Il metodo del CUP si fonda sull’analisi della
congruità del prezzo applicato in una transazione fra parti non indipendenti rispetto a
quello che sarebbe stato stabilito per analoghe transazioni tra entità indipendenti. A tale
criterio può essere ricondotto quello della
Dottrina del Relief from Royalty, ove si sostituisca al concetto di prezzo, il corrispettivo
per royalty che l’impresa dovrebbe corrispondere per utilizzare in licenza il bene immateriale.
PREZZO DI RIVENDITA (RESALE PRICE
METHOD)
Tale criterio muove dall’analisi del prezzo di
rivendita a cui un’impresa del gruppo cede a
un soggetto indipendente il bene acquistato
in una transazione all’interno del gruppo o di
quello praticato da soggetti indipendenti collocati in fasi diverse lungo la catena del valore. Tale prezzo “esterno” è depurato del margine lordo che il venditore del bene nel libero
mercato trattiene per coprire i propri costi di
vendita e alla luce delle funzioni esercitate
(trasformazione del bene, marketing, packaging, ecc.) realizzare un utile adeguato. Con
tale criterio l’analisi di comparabilità si sposta
6 Si veda anche la recente pubblicazione dell’Organismo Italiano di Valutazione (OIV) che ha proposto un discussion paper
contenente linee guida per gli esperti di valutazione proprio in tema di sima del contributo economico dei beni immateriali usati direttamente ai fini del regime di Patent box.
dal bene alla transazione e risulta affidabile,
perché di più facile applicazione, quando il
rivenditore non aggiunge valore al bene trasferito e l’intervallo di tempo fra l’acquisto e
la rivendita è limitato. Il Resale Price Method
presenta affinità con quello del Profit Split che
è orientato alla misurazione del reddito generato nella specifica fase della catena del valore in cui il bene immateriale è utilizzato; tale
reddito rappresenta il margine che il metodo
del prezzo di rivendita considera nella identificazione del prezzo di trasferimento del bene
allo specifico stadio di trasformazione della
fase della catena del valore in cui avviene la
transazione.
COSTO MAGGIORATO (COST PLUS)
Anche il criterio del Cost Plus muove dall’identificazione di un margine e non del prezzo di
trasferimento. Nella fattispecie, quest’ultimo
è determinato come somma fra il costo di produzione di un bene aumentato di un mark-up
che esprime il margine di utile lordo (percentuale di ricarico) adeguato a garantire la remunerazione delle funzioni economiche svolte
dall’impresa, tenuto conto dei rischi assunti e
delle condizioni di mercato, ed è desunto dalla
comparazione con transazioni verso soggetti
indipendenti o tra transazioni di libero mercato. Tale criterio, per espressa previsione delle
linee guida OCSE, è da preferirsi nel caso di
transazioni aventi ad oggetto semilavorati o
servizi e non pare adattabile alla misurazione
del contributo economico generabile dall’utilizzo di un bene immateriale, sebbene non
sia un criterio escluso fra quelli applicabili nel
caso di trasferimento di intangibili.
RIPARTIZIONE DELL’UTILE
(TRANSACTIONAL PROFIT SPLIT)
Tale criterio, che costituisce un’evoluzione
del Resale Price Method, è sostanzialmente
simile al Profit Split o all’Excess Earning identificato dalla Dottrina in materia di valutazione di beni immateriali a seconda che vi sia o
meno il riferimento alla redditività conseguita da soggetti indipendenti comparabili. Esso
consiste nell’allocare il profitto complessivo
della transazione alle diverse parti intervenute in ragione delle funzioni svolte, dei rischi
assunti e delle attività impiegate. In questo
caso, anche ai fini della disciplina sui prezzi di
trasferimento, l’oggetto dell’analisi per determinare la congruità degli elementi della transazione fra parti non indipendenti, è l’utile (o
reddito) generato dallo scambio.
MARGINE NETTO DELLA TRANSAZIONE
(TRANSACTIONAL NET MARGIN METHOD
– TNMM)
Il criterio TNMM misura direttamente il margine della transazione (utile netto) fra parti non
indipendenti, confrontandolo con quello che
l’impresa realizzerebbe verso soggetti esterni o con quello che si realizzerebbe nel libero
mercato in transazioni similari. Poiché la misura del margine è influenzata da fattori quali
il posizionamento competitivo e l’efficienza
gestionale propria dell’impresa, ai fini della
corretta comparabilità è opportuno apportare
le adeguate correzioni ai risultati del campione
di transazioni comparabili al fine di ottenere
risultati attendibili.
La scelta del metodo più appropriato dipende,
in primis, dalla possibilità di esperire un’analisi
di comparabilità affidabile, supportata da una
altrettanto approfondita analisi di funzionalità.
Tuttavia, le linee guida OCSE commentano che,
per loro natura, i beni immateriali presentano
caratteristiche uniche che rendono difficile individuare transazioni aventi ad oggetto beni
similari o che sia possibile provare che altri
soggetti ritraggano dallo sfruttamento del bene
profitti simili.
In generale, le linee guida dell’OCSE reputano che il CUP e il Transactional Profit Split
siano i metodi che con maggior probabilità si rivelano utili nella stima dei prezzi di
trasferimento aventi ad oggetto beni immateriali o diritti sui medesimi. Nel caso del
CUP, le linee guida raccomandano che l’analisi
di comparabilità sia estesa alle caratteristiche
proprie dei diritti sui beni immateriali (esclusività, estensione geografica, durata della copertura legale, vita economica utile del bene
che incorpora l’attività immateriale, attuale e
51
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
52
potenziale capacità di generare benefici economici futuri, nonché il perdurare degli eventuali extra rendimenti). Per il Transactional
Profit Split Method, le linee guida raccomandano di svolgere una completa analisi funzionale che comprenda le funzioni svolte, ovvero
la comprensione della struttura e dell’organizzazione del gruppo economico e dell’allocazione delle attività lungo la catena del valore,
i rischi assunti, che si traducono nel livello del
rendimento atteso, e della natura degli asset
impiegati.
Le linee guida OCSE, nei casi in cui non sia possibile riferirsi a campioni affidabili di transazioni
comparabili, ammettono il ricorso a altri metodi
derivati dalla Dottrina e dalla Prassi nell’ambito
della valutazione d’azienda da considerarsi parte dei cinque metodi individuati dalle medesime
linee OCSE, purché applicati con metodologie
coerenti con i principi fondanti dell’arm’s lenght
price.
Le indicazioni operative
dell’Agenzia delle Entrate
e le pronunce della giurisprudenza
tributaria
L’Agenzia delle Entrate ha emanato la circolare 1.12.2015 n. 36, in cui ha fornito primi
chiarimenti in tema di Patent box che, però,
al momento, non coprono le modalità di determinazione del reddito agevolabile. In attesa
di una circolare specifica, l’unico riferimento
interpretativo dell’Agenzia delle Entrate in cui
è possibile rinvenire qualche elemento utile
per la definizione del contributo economico
dall’utilizzo diretto di beni immateriali è la circolare del Ministero Finanze 22.9.1980 n. 32,
avente ad oggetto “Il prezzo di trasferimento
nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”. Nello specifico
paragrafo dedicato alle prestazioni di servizi
concernenti l’utilizzazione di diritti immateriali, l’Amministrazione finanziaria riprende
il contenuto delle linee guida dell’OCSE in
tema di difficoltà ad applicare il metodo del
confronto con transazioni similari per le caratteristiche di unicità dei beni immateriali e
rammenta che l’analisi di comparabilità deve
coinvolgere gli aspetti tecnici e quelli giuridici.
Il punto centrale espresso dall’Amministrazione finanziaria riguarda, tuttavia, l’esistenza di
un vantaggio reale (effettivo o potenziale)
in capo al concessionario rispetto all’utilizzo del diritto sul bene immateriale: “è
indispensabile che il beneficiario della licenza
abbia tratto un vantaggio reale o abbia potuto ragionevolmente prevedere un vantaggio al
momento della conclusione del contratto”.
L’Amministrazione, dopo aver esposto i principi, in relazione alla difficoltà di enucleare
criteri analitici di determinazione del valore
normale delle transazioni aventi ad oggetto
beni immateriali, conclude con alcune presunzioni per la predeterminazione di corrispettivi a “valori normali” da ritenersi congrui. Si stabilisce, infatti, che canoni superiori
al 5% del fatturato potranno essere riconosciuti solo in casi eccezionali e giustificati da
un elevato contenuto tecnologico del settore. In ogni caso, devono essere verificati gli
aspetti tecnici e giuridici della transazione
e l’effettivo vantaggio economico in capo al
licenziatario.
Considerando le recenti pronunce della giurisprudenza tributaria di merito si riscontra che le verifiche in materia di transfer
pricing si fondano sui metodi Transactional
Net Margin e il Profit Split con riferimento
a un campione di imprese indipendenti (confronto esterno). Sono in questo caso fondamentali l’analisi funzionale, avendo riguardo
anche al contesto di mercato di riferimento 7
e di comparabilità delle transazioni 8 per giun-
7 C.T. Prov. Milano 14.9.2015 n. 7198/12/15; C.T. Reg. Roma 9.12.2010 n. 643/1/10; C.T. Reg. Torino 14.4.2010 n. 25/34/10,
tutte in Banca Dati Eutekne.
8 Cass. 13.5.2015 n. 9709; Cass. 23.12.2014 n. 27296; C.T. Prov. Milano 29.9.2014 n. 7996/40/14; C.T. Reg. Milano 25.6.2014 n.
3406/7/14; C.T. Prov. Milano 10.12.2013 n. 408/2/13; C.T. Reg. Lombardia 7.6.2011 n. 69/7/11, tutte in Banca Dati Eutekne.
gere, comunque, a una stima di valore normale 9.
È di interesse segnalare che in una dichiarazione10 Rossella Orlandi, direttrice dell’Agenzia
delle Entrate, avrebbe escluso nella stima del
contributo economico l’applicabilità del metodo basato sulle royalty, preferendo quello
del raffronto diretto tra prodotti branded (che
hanno un marchio) e unbranded (privi di marchio). Tuttavia, anche questo approccio, riconducibile al criterio CUP, comporta un’attenta
analisi di comparabilità, connessa soprattutto a
non attribuire al marchio componenti di valore
(margini) connesse alla diverse caratteristiche
fisiche dei beni (materie prime) o alla loro modalità di distribuzione (canale e organizzazione
di vendita) o alla concorrenza di beni immateriali associati alla produzione (brevetti, knowhow) e distribuzione dei prodotti (customer
relation). Si pongono, quindi, le medesime criticità in termini di analisi di comparabilità, acuite
dalla circostanza che il differenziale di reddito
può essere collegato ai ricavi (premium price),
ma anche da altri elementi della catena del valore di più difficile individuazione (rete distributiva, servizi post vendita, posizionamento di
mercato, visibilità commerciale, ecc.).
3
Approfondimenti di calcolo
e limiti applicativi
Alla luce delle indicazioni normative si propongono due approfondimenti applicativi,
l’uno basato sul metodo del CUP, articolato
in logica Relief from Royalty (RR), l’altro sul
Transactional Profit Split (TPS) nella declinazione dell’Excess Earning (EE) che, a parere di
chi scrive, costituiscono i riferimenti princi-
pali per l’individuazione dei flussi di reddito generabili da un bene immateriale. La
scelta, peraltro, contrappone un metodo (CUP
– RR) che fa riferimento a evidenze esterne
(di mercato) nella diretta identificazione dei
parametri per la quantificazione dei ricavi, a
uno che si basa sui risultati aziendali desumendo dal mercato il solo costo del capitale
che, tuttavia, non è specifico per il bene oggetto di valutazione ma, in un’ottica più ampia, al settore cui lo stesso si riferisce.
Il collegamento ai metodi individuati dalla
Dottrina muove da quelli che consentono di
identificare la misura del reddito del bene immateriale, da cui derivare poi la stima del valore del bene immateriale, tralasciando quelli
che giungono direttamente alla stima del valore assoluto dello stesso. A ben vedere, però, a
partire dal valore stimato del bene immateriale
sarebbe possibile definire una misura di reddito economico medio annuo sulla base di un
tasso di remunerazione medio normale atteso
(reddito implicito). Tuttavia, anche in questa
ipotesi, la Dottrina ritiene preferibile11, nonché
è consigliato dalle linee guida OCSE12, che la
base di partenza del valore sia stimata applicando uno o più criteri relativi alle metodiche
del mercato o del reddito, tralasciando, invece,
quelli che si ispirano alla metodica del costo.
CUP – Relief from Royalty
53
Il criterio del Relief from Royalty assume la
prospettiva di quali sarebbero i costi addizionali che l’impresa dovrebbe sostenere per l’utilizzo del bene immateriale se non ne detenesse
la proprietà, misurati dai flussi di royalty che
un terzo riconoscerebbe per utilizzare in licenza il bene immateriale al netto dei costi diretti
9 C.T. Prov. Milano 7.1.2001 n. 1/7/11, in Banca Dati Eutekne.
10 Cavestri L. “Patent box e Pmi, ruling facilitati”, Il Sole-24 Ore, 23.9.2015.
11 Le metodiche del reddito o del mercato, quando applicabili, sono da preferirsi nella valutazione di beni immateriali
che conferiscono un vantaggio competitivo distintivo a chi li detiene o quando derivano da diritti contrattuali
o legali (cfr. Principi Italiani di Valutazione, III.5.5).
12 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project “Aligning Transfer Pricing Outcomes with Value Creation”, Actions
8-10, 2015 Final Reports, ottobre 2015, in Banca Dati Eutekne.
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
e indiretti sostenuti dal licenziante per il suo
mantenimento, accrescimento e sviluppo, non
già impliciti nel tasso di royalty riconosciuto.
Per applicare tale metodo è necessario disporre
di dati relativi a transazioni comparabili desumibili da database specializzati (es. RoyaltyStat,
RoyaltySource) ove analizzare individualmente
recenti (relative a un arco temporale di 5 anni)
operazioni concluse fra soggetti indipendenti
nella forma di contratti di licenza in esclusiva,
aventi ad oggetto beni immateriali simili a quelli
oggetto di considerazione, per il medesimo ambito geografico in cui opera l’impresa. Saranno da preferirsi quei contratti che esprimono
le royalty in funzione di un tasso percentuale
relativo ai ricavi, in modo da ottenere direttamente la stima dei ricavi figurativi. Particolare
attenzione andrà riposta alla disciplina dei costi di accrescimento, mantenimento e sviluppo
del bene licenziato, ovvero se questi siano posti
a carico del licenziante o del licenziatario. Nel
primo caso si parla di canone lordo, perché la
royalty pattuita andrà a coprire tali costi sostenuti dal licenziante, nel secondo di canone
netto (per il licenziante). Poiché per la stima del
contributo economico ai fini Patent box fanno
fede i costi effettivi sostenuti dall’impresa, sarà
necessario, in presenza di informazioni relative
ai canoni netti, “rimontare” il peso relativo di
tali costi in capo al licenziatario (sulla base di
stime o di evidenze specifiche desunte dai contratti analizzati), per pervenire a una misura di
royalty lorda da applicare ai ricavi dell’impresa
da cui dedurre poi i costi effettivi da quest’ultima sostenuti. Rispetto al campione di transazioni selezionate si possono calcolare media
e mediana, ma il tasso di royalty prescelto può
non coincidere con tali statistiche per meglio
riflettere il profilo di comparabilità delle transazioni osservate.
Si ricorda che, in base alle vigenti disposizioni
dell’Agenzia delle Entrate, sussiste la presunzione che tassi di royalty superiori al 5% possano essere utilizzati solo in presenza di un
elevato contenuto tecnologico di settore o da
altre circostanze. Circa la misura di tali tassi
si riporta un statistica disponibile sul sito di
RoyaltyStat, da cui si deduce che la mediana
dei tassi di royalty sui ricavi negli anni si
assesta tendenzialmente attorno al 6%.
SINTESI VALORI RR DATABASE ROYALTYSTAT (RILEVAZIONI A NOVEMBRE 2015)
54
Il tasso di royalty così individuato deve essere applicato ai ricavi afferenti allo specifico
bene immateriale oggetto di valutazione (fino
a convergere al totale dei ricavi dell’impresa se
il bene, o il compendio dei beni collegati da vin-
coli di complementarietà, concorrono alla generazione del fatturato complessivo). Si ritiene
che per le imprese che operano su commessa o
che, per stagionalità del ciclo economico, alla
conclusione dell’esercizio presentino un eleva-
to stock di rimanenze di prodotti finiti, il tasso
di royalty vada applicato alla grandezza valore
della produzione, avuto riguardo alla omogeneità di valorizzazione fra i ricavi (prezzo di
vendita) e la variazione delle rimanenze di prodotti finiti (che se valorizzata al costo di produzione va adeguata al criterio della percentuale
di completamento).
Dai flussi di royalty così ottenuti andranno dedotti i costi diretti e indiretti relativi al mantenimento, accrescimento e sviluppo del bene
immateriale. L’identificazione di tali costi costituisce una fase critica, sia per il collegamento
di tali costi agli specifici beni immateriali che
comporta, come richiesto dalla norma, un adeguamento dei sistemi contabili o extra contabili di tracciabilità dei costi (c.d. tracking and
tracing), sia per l’ampiezza della identificazione
di tali costi all’interno della medesima categoria per natura, sia per i criteri di attribuzione
dei costi indiretti o di eventuali costi comuni
(diretti e indiretti) fra più beni immateriali. In
generale, possiamo affermare che si tratta,
nel complesso, dei costi fiscalmente rilevanti
connessi alle attività necessarie a garantire la
protezione legale degli intangibili, all’attività di
ricerca e sviluppo finalizzata a mettere a punto
innovazioni tecniche in grado di migliorare le
caratteristiche del prodotto e ridurre i costi di
produzione (soprattutto per gli intangibili collegati alla tecnologia) e/o ai costi di marketing
(soprattutto per i beni intangibili collegati al
mercato).
In ragione di sfasamenti temporali tra il sostenimento dei costi di sviluppo del bene immateriale e la generazione dei conseguenti ricavi, è
possibile che in uno o più esercizi il contributo
economico in parola risulti negativo (perdita).
Nel qual caso la circolare dell’Agenzia Entrate
n. 36/2015 ha chiarito che tale perdita concorrerà alla formazione del reddito d’impresa, ma
che gli effettivi positivi conseguenti dall’adesione in opzione al regime Patent box saranno
rinviati negli esercizi in cui si conseguiranno
redditi (contributi economici positivi) secondo
un meccanismo di “recapture”.
Ai fini della misurazione del reddito agevolabile,
infine, si dovrà tener conto del peso relativo fra
i costi direttamente acquisiti (costi qualificati)
dall’impresa (anche per il tramite di sue controllate purché a sua volta acquisiti dall’esterno) e il
totale dei costi (costi complessivi), inclusi quelli
per servizi generati internamente al gruppo.
Transactional Profit Split – Excess
Earning
Il criterio dell’Excess Earning è da preferirsi nella valutazione di un bene immateriale
strategico, preponderante nel concorso alla
formazione del risultato economico d’impresa
e consente di giungere alla stima del valore
attualizzando i redditi residui attribuibili al
bene per la durata della sua vita economica,
una volta remunerati gli altri asset (tangibili e
intangibili) impiegati dall’impresa (c.d. contributory asset). Questo criterio assume la prospettiva che i beni aziendali, diversi da quello
primario, siano remunerati a un tasso normale e che il differenziale di reddito che si
genera fra il risultato economico d’impresa
e il costo degli altri asset aziendali, ovvero la
loro remunerazione normale, sia interamente
da attribuirsi al bene immateriale principale.
Ai fini della stima del contributo economico,
l’excess earning costituirebbe già il reddito figurativo ritraibile dal bene immateriale. Sebbene
tale criterio non richieda una base informativa
esterna, la sua applicazione comporta, tuttavia,
numerose difficoltà connesse, in particolare,
alla stima della remunerazione normale dei
contributory asset e alla corretta individuazione
del bene immateriale principale rispetto ad altri
intangibili minori. In tal caso si pone l’ulteriore
difficoltà di scorporare dal risultato d’impresa i
ricavi e costi connessi allo sfruttamento di altri
beni immateriali, il cui reddito è già catturato
attraverso il meccanismo della remunerazione
normale.
L’applicazione di tale criterio comporta, innanzitutto, l’individuazione e la segregazione del
capitale investito netto impiegato nell’attività
in cui il bene immateriale oggetto di misurazione si esplica. Tale compendio è formato da
immobilizzazioni materiali e immateriali (diverse dal bene in oggetto), crediti, debiti e fondi
55
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
56
di natura operativa. A ciascuno di tali asset,
eventualmente ulteriormente segmentati per
natura, si associa un tasso di rendimento medio
normale in ragione del rischio ad essi associato
(tipicamente per il capitale circolante netto e le
immobilizzazioni materiali si fa riferimento ai
tassi richiesti dal mercato del debito, rispettivamente a breve e a lungo termine; per le immobilizzazioni immateriali a un tasso rappresentativo del costo del capitale, proprio o ponderato).
Applicando tali rendimenti al valore corrente
degli asset, se ne ottiene il reddito atteso, ovvero
il costo opportunità (contributory asset charge).
Si procede quindi all’identificazione del reddito
operativo associato alla business unit in cui si
colloca il bene immateriale oggetto di analisi
e a cui si riferisce il capitale investito netto in
precedenza identificato. Tale reddito può coincidere con quello dell’impresa quando il bene
immateriale concorre alla generazione dell’intero risultato aziendale. Sottraendo dal reddito
operativo il valore dei contributory asset charge
si ottiene l’ammontare dell’extra-rendimento
associato al bene immateriale specifico.
Per tale via si giunge direttamente alla misura
del contributo economico, ovvero del reddito
associabile al bene immateriale, posto che la
derivazione dello stesso dai risultati consuntivi d’impresa già incorpora i costi effettivi
collegati allo stesso.
Infine, per definire la misura del reddito agevolabile si dovrà considerare il rapporto fra i costi
qualificati e quelli complessivi.
4
Conclusioni
Nella stima del contributo economico generabile dell’utilizzo diretto di beni immateriali
si definisce un reddito “figurativo” che è il
risultato di un giudizio di valore che, seppur
supportato da un percorso razionale e dimostrabile, non è un valore assoluto desumibile
da un algoritmo di calcolo. Sarà, quindi, de-
terminante il confronto con l’Agenzia delle
Entrate nella procedura di ruling che, come
affermato da Vieri Ceriani, consigliere MEF
per le politiche fiscali 13, condurrà a una soluzione diversa per ogni caso affrontato sulla
base della specifica contabilità industriale,
senza possibilità di definire una regola generale.
Pur consapevoli di tale soggettività, si ritiene che il ricorso a metodiche di stima basate
sui principi di valutazione dei beni intangibili
sviluppate secondo un percorso razionale e
dimostrabile, nel rispetto dei principi internazionali, possa condurre a una stima ragionevole e affidabile del reddito agevolabile generato dall’utilizzo diretto dei beni immateriali.
In ogni caso, si renderanno necessarie opportune verifiche di coerenza e adeguatezza, anche al fine di meglio documentare e
supportare l’istanza di ruling. In particolare,
soprattutto in presenza di più beni immateriali, sarà opportuno verificare che la somma
del valore dei beni immateriali sia congrua
rispetto al valore complessivo d’impresa, nonché che il reddito complessivo d’impresa sia
capiente e adeguato rispetto alla somma dei
redditi figurativi attribuiti ai beni immateriali. Inoltre, con particolare riguardo ai metodi
impliciti che indagano direttamente la misura
del reddito, bisognerà accertarsi che il reddito
figurativo individuato esprima la differenza
fra i ricavi figurativi e i costi effettivi, ovvero
sostenuti dall’impresa rispetto allo specifico
bene immateriale (e non quelli medi normali
di mercato). Sono quindi necessari opportuni adattamenti affinché la misura dei ricavi
sia quella di un generico operatore di mercato, mentre i costi riflettano quelli specifici
dell’impresa, così da configurarsi una misura
di reddito figurativo (contributo economico) che non rifletta né quello di mercato, né
quello specifico, ma un ibrido che consenta
il rispetto del principio di neutralità fra l’uso
diretto e l’uso indiretto del bene immateriale.
13 Trovati G. “Patent box con prenotazione del ruling”, Il Sole-24 Ore, 21.11.2015.
TRIBUTI
LA NUOVA FATTISPECIE
DEL DELITTO DI DICHIARAZIONE
INFEDELE
Federica BARDINI
Dottoranda di ricerca in Diritto Tributario nell’Università degli Studi di Padova
La revisione del regime della dichiarazione infedele, alla quale il legislatore delegato ha
dato attuazione con il DLgs. 158/2015 nonché con l’introduzione dell’art. 10-bis comma 13
della L. 212/2000 in tema di abuso del diritto, non ha trovato espressione nella abrogazione
del delitto di dichiarazione infedele. Eppure, la fattispecie incriminatrice è stata ridisegnata
al punto di rendere penalmente irrilevanti molte delle violazioni tributarie che prima della
novella legislativa erano sussumibili nell’art. 4 del DLgs. 74/2000. Tale risultato non si deve
soltanto all’innalzamento delle soglie di punibilità ma all’abbandono del concetto di fittizietà
e alla combinazione di una serie di elementi innovativi tutti convergenti verso la depenalizzazione delle operazioni di ordine classificatorio aventi ad oggetto elementi attivi o passivi
reali ed effettivi.
1
Le fonti
della riforma del reato
di dichiarazione infedele
Al fine di analizzare il reato di dichiarazione
infedele1 come modificato a decorrere dal 22
ottobre 2015, occorre menzionare i principi e
criteri direttivi contenuti nella legge delega
ai quali i decreti legislativi 5.8.2015 n. 128 e
24.9.2015 n. 158 hanno dato attuazione.
Come noto, l’art. 8 comma 1 della L. 11.3.2014
n. 23 aveva delegato il Governo alla revisione
del sistema sanzionatorio penale secondo cri-
1 Art. 4 del DLgs. 74/2000:
“1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le
imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per
un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:
a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila;
b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi
inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione,
o, comunque, è superiore a euro tre milioni.
1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della
valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono
stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di
determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.
1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate,
differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette.
57
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
58
teri di predeterminazione e di proporzionalità
prevedendo, per quanto qui interessa, “l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative
conseguenze sanzionatorie” e “la revisione del
regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di
meglio correlare, nel rispetto del principio di
proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità
dei comportamenti”.
Il criterio direttivo per primo menzionato ha trovato attuazione nell’art. 1 comma 1 del DLgs.
128/2015 “Disposizioni sulla certezza del diritto
nei rapporti tra fisco e contribuente” il quale ha
introdotto all’interno dello Statuto dei Diritti del
Contribuente il nuovo art. 10-bis, concernente
la disciplina dell’elusione fiscale e il relativo regime sanzionatorio. Invero, l’art. 10-bis comma
13 della L. 212/2000 dispone che le operazioni
abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi
delle leggi penali tributarie, restando invece ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative
tributarie.
Tale previsione interessa ai nostri fini in quanto esclude aprioristicamente la sussumibilità
della fattispecie di abuso del diritto nel reato
di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000. E ciò in
collisione (almeno apparentemente) con la giurisprudenza penale di legittimità2 che era giunta ad ammettere la idoneità delle fattispecie
elusive tipizzate di integrare il delitto di dichiarazione infedele, oltre che l’omessa dichiarazione sanzionata dall’art. 5 del DLgs. 74/2000.
Alla data della sua entrata in vigore, i.e. il 1°
ottobre 2015, l’art. 10-bis comma 13 dello Statuto poteva tecnicamente essere qualificato
come una modificazione mediata alla fattispecie incriminatrice di dichiarazione infedele in
quanto, pur non intervenendo direttamente sul
perimetro e sul significato della condotta di cui
all’art. 4 del DLgs. 74/2000, imponeva di interpretare l’elemento normativo di “elementi pas-
sivi fittizi” nel senso più restrittivo di elementi
fittizi sul piano naturalistico-materiale anziché
in quello più ampio comprensivo della fittizietà
giuridica.
A ben vedere, tale operazione interpretativa si
è resa necessaria per soli venti giorni.
Difatti, il DLgs. 158/2015 “Revisione del sistema sanzionatorio” entrato in vigore in data 22
ottobre 2015, ha riformulato il reato tributario di dichiarazione infedele prevedendo, inter
alia, la sostituzione del concetto di “fittizietà”
con quello più chiaro ed immediato di “inesistenza”, finendo così per escludere la rilevanza
penale dell’elusione fiscale secondo i tradizionali binari penalistici. Sebbene le modifiche
apportate al delitto di dichiarazione infedele
siano contenute nell’art. 4 del DLgs. 158/2015,
occorre considerare l’intero corpo del decreto
delegato per comprendere appieno la portata
e l’incidenza della novella legislativa sui contorni della nuova fattispecie.
Tra le disposizioni che concorrono a definire la
figura delittuosa in esame è possibile menzionare, a titolo esemplificativo, l’art. 1 per quanto
riguarda le definizioni di “elementi attivi o passivi” e di “imposta evasa”, l’art. 10 sulla confisca,
l’art. 11 per l’introduzione di una nuova causa di
non punibilità, l’art. 12 relativamente alle circostanze attenuanti speciali, nonché l’art. 14 nella
parte in cui abroga l’art. 7 del DLgs. 74/2000.
Qui di seguito, ci si propone di illustrare gli elementi innovativi e le loro potenziali conseguenze pratiche da una prospettiva penalistica ossia
nel contesto dell’esame della fattispecie incriminatrice sul piano sostanziale e processuale.
2
Bene giuridico tutelato
e rapporti con gli altri
reati dichiarativi
Come la stessa Relazione illustrativa sottolinea,
Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste
dal comma 1, lettere a) e b)”.
2 Fasani F., “I concetti penal-tributari di effettività e fittizietà: la dichiarazione infedele al cospetto dell’elusione fiscale”,
in “Rubrica di diritto penale tributario”, a cura di Caraccioli I., Riv. dir. trib., 6, 2013, p. 117-143.
il DLgs. 158/2015 è stato concepito per assolvere al compito di rivedere e non già di riformare il sistema penale tributario.
Partendo da tale assunto, il legislatore delegato ha confermato la irrilevanza penale delle
infedeltà prodromiche alla presentazione della
dichiarazione, rinunciando così a concepire la
trasparenza fiscale come bene giuridico da tutelare autonomamente.
Il reato di dichiarazione infedele, pertanto,
continua a presidiare l’interesse patrimoniale
dell’erario alla integrale e tempestiva percezione dei tributi e a rientrare nel novero dei
reati di danno3 ove l’evento lesivo consiste nella evasione di imposta.
Inoltre, esso conserva la propria natura residuale rispetto ai reati di dichiarazione fraudolenta
di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo decreto: il
mantenimento della clausola di riserva risponde alla esigenza, peraltro accentuata in sede
di legge delega, di tenere distinta la presentazione di una dichiarazione non veritiera dalla
commissione di infedeltà dichiarative connotate dalla fraudolenza e dalla simulazione4.
Per inquadrare correttamente una condotta di
infedeltà dichiarativa nell’una o nell’altra figura criminosa è pertanto indispensabile accennare preliminarmente agli elementi specializzanti delle condotte descritte dagli artt. 2 e
3 come riformulati e, specularmente, agli elementi negativi della fattispecie di cui all’art. 4.
Quanto al reato di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000,
la fattispecie della dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti è rimasta sostanzialmente invariata, fatta eccezione per l’oggetto
materiale della condotta, ora esteso anche alle
dichiarazioni relative alle imposte dirette e IVA
non annuali. Dunque, il quid pluris specializzante rispetto alla mera dichiarazione infedele
continua ad essere la registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o la conservazione ai
fini di prova nei confronti dell’Amministrazione
finanziaria delle fatture in cui sono dedotte le
operazioni oggettivamente o soggettivamente
inesistenti nonché dei documenti ideologicamente falsi (per esempio, le schede carburante).
Quanto, invece, al delitto di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici, occorre
evidenziare come il legislatore delegato abbia
esteso il suo ambito applicativo rimuovendo la
falsa rappresentazione nelle scritture contabili
obbligatorie dalla struttura del fatto tipico.
Segnatamente, in base all’attuale formulazione dell’art. 3, ai fini della integrazione del reato
è necessario che la dichiarazione fraudolenta si
realizzi attraverso il compimento di operazioni
oggettivamente o soggettivamente inesistenti, l’utilizzo di documenti falsi oppure di altri
mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, con ciò dovendosi intendere
tutte le condotte artificiose attive e omissive
realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico che determinano una falsa rappresentazione della realtà (art. 1 comma 1 lett.
g-ter del DLgs. 74/2000).
Il riferimento espresso al compimento di operazioni (soggettivamente) simulate e l’eliminazione dell’elemento costitutivo della falsa
rappresentazione contabile inducono a concludere che le fattispecie di interposizione fittizia
di persona devono sussumersi nel reato di cui
all’art. 3, in contrasto con l’erronea tendenza
a ricondurle nell’alveo della dichiarazione infedele sul presupposto – a sua volta erroneo
– della natura antielusiva dell’art. 37 comma 3
del DPR 600/1973.
Ai fini della individuazione dei comportamenti integranti il reato di infedele dichiarazione
3 Sulla natura di reato di danno, cfr. Soana G. “I reati tributari”, Giuffrè, Milano, 2013, p. 180. Conf., Mangione A. “La dichiarazione infedele”, in Musco E., Ardito F. “Diritto penale tributario”, Zanichelli, Bologna, 2013, p. 123.
4 Cfr. art. 8 co. 1 della L. 23/2014: “Il Governo è delegato a procedere, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, alla revisione del sistema sanzionatorio penale secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità
dei comportamenti prevedendo: la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di
sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti
fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa etc.”.
59
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
60
merita altresì attenzione il disposto dell’odierno art. 3 comma 3 del DLgs. 74/2000 il quale
esclude dalla nozione di mezzo fraudolento e,
per l’effetto, dall’ambito applicativo del reato
di dichiarazione fraudolenta mediante altri
artifici sia la mera violazione degli obblighi
di fatturazione o di emissione di altri documenti di rilievo probatorio analogo (si pensi,
per esempio, a scontrini fiscali e DDT) e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture
contabili, sia la sottofatturazione, rectius l’indicazione nelle fatture nei documenti ovvero
nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a
quelli reali.
da ciascuna società aderente al consolidato,
potrebbe scemare di forza argomentativa.
Tuttavia, nella parte in cui commenta tale intervento additivo, la Relazione illustrativa fornisce gli esempi dei crediti d’imposta e delle
ritenute sicché pare potersi escludere che il legislatore intendesse regolamentare l’infedeltà
della dichiarazione consolidata6.
3
Dal punto di vista dell’elemento oggettivo, il
reato di dichiarazione infedele costituisce un
reato di mera condotta.
La condotta incriminata consiste nella presentazione di una dichiarazione annuale, relativa
alle imposte dirette o all’IVA, inveritiera.
Come è dato ricavare dalla stessa rubrica del
reato, l’infedeltà deve riguardare la componente della dichiarazione fiscale che assolve
alla funzione di comunicare i presupposti del
tributo, nota come componente dichiarativa,
con conseguente irrilevanza ai fini dell’art. 4
del DLgs. 74/2000 degli errori materiali e di
calcolo che riguardano la sua componente
liquidativa.
Segnatamente, è richiesta l’indicazione di
elementi attivi per un ammontare inferiore
a quello effettivo o di elementi passivi inesistenti.
A tal riguardo, sono state operate due modifiche.
La prima, già anticipata, riguarda l’estensione
della nozione di “elementi attivi o passivi”.
In base all’attuale art. 1 comma 1 lett. b) del
decreto suddetto, essi non includono più soltanto le componenti, espresse in cifra, che
concorrono, in senso positivo o negativo, alla
determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle
Il soggetto attivo
Il reato di dichiarazione infedele è un reato
proprio che può essere integrato soltanto dai
soggetti che sono tenuti alla presentazione
delle dichiarazioni relative alle imposte sui
redditi o sul valore aggiunto. L’assenza di puntualizzazioni lascia irrisolti i dubbi sollevati
da autorevole dottrina5 circa la possibilità di
qualificare come soggetto attivo del reato il
firmatario della dichiarazione dei redditi consolidata nel caso di consolidato nazionale.
La questione potrebbe risultare superata in
ragione delle modifiche intervenute sulla nozione di “elementi attivi e passivi” prevista
dall’art. 1 comma 1 lett. b) del DLgs. 74/2000,
con cui devono oggi intendersi non solo le
componenti che concorrono alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini delle imposte dirette o IVA ma
anche le “componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta”.
Ora, stante quest’ultimo inserimento, la circostanza che la dichiarazione consolidata non
contenga componenti di reddito, ma si limiti a
liquidare l’imposta di gruppo in base alla sommatoria dei redditi complessivi netti dichiarati
4
La condotta incriminata:
la delimitazione
della condotta
di infedele dichiarazione
5 Perini A. “Quando la somma non fa il totale. Delitti dichiarativi e consolidato fiscale”, L’indice Penale, 1-2/2015, p. 7-49.
6 Analogamente, Servizio Studi Senato della Repubblica e Camera dei Deputati “Revisione del sistema sanzionatorio
(Schema di DLgs. n. 183)”, luglio 2015, p. 21.
imposte dirette ed IVA7, ma anche le componenti che incidono direttamente sulla determinazione dell’imposta dovuta.
La seconda, certamente la più rilevante, è “ispirata al preminente fine di escludere la rilevanza
penale delle operazioni di ordine classificatorio
aventi ad oggetto elementi attivi o passivi effettivamente esistenti, in modo da limitare tendenzialmente la sfera applicativa della figura
criminosa – priva di connotati di fraudolenza
– al solo mendacio su dati oggettivi e reali”8.
In vista di tale obiettivo, la delimitazione della condotta di infedele dichiarazione è stata
ottenuta sia mediante la sostituzione della nozione di “elementi passivi fittizi” con “elementi
passivi inesistenti”, ad opera dell’art. 4 comma
1 lett. d) del DLgs. 158/2015, sia con l’aggiunta
nel corpo dell’art. 4 del DLgs. 74/2000 del nuovo comma 1-bis.
Per cominciare, l’abbandono dell’aggettivo
“fittizi” è una scelta lessicale che pone fine al
dibattito sul significato di fittizietà degli elementi passivi che per anni ha interessato tutti
gli operatori del diritto. Come noto, persino l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza si
erano pronunciate in senso difforme. L’una, nella circolare 4.8.2000 n. 154, qualificava tali le
componenti negative inesistenti e, in via esclusivamente ipotetica, le componenti negative
non competenti rilevate nelle scritture contabili in assenza di metodi costanti d’impostazione
contabile. L’altra, nella circolare n. 1/2008, conforme alla precedenten. 114000/2000, definiva
fittizie le componenti “non vere, non inerenti,
non spettanti o insussistenti nella realtà, che
risultino dichiarate in misura superiore a quella
effettivamente sostenuta o ammissibile in dichiarazione”9.
Ne discendeva che, in assenza di indicazioni,
nella categoria degli elementi passivi fittizi
potevano essere inclusi anche i costi effettivamente sostenuti dall’agente non conformi ai
requisiti di competenza, inerenza e deducibilità. A sostegno di tale approdo interpretativo,
infatti, si poteva invocare non solo l’assenza
di una interpretazione autentica di fittizietà,
ma anche il disposto dell’art. 7 DLgs. 74/2000
il quale, per effetto di una lettura a contrario,
sembrava attribuire rilevanza penale alle violazioni dei criteri di determinazione dell’esercizio
di competenza che non fossero espressione di
metodi costanti d’impostazione contabile.
La dottrina più autorevole, evidenziando l’opportunità di interpretare la nozione di elementi passivi fittizi nel contesto specifico di cui
all’art. 4 del DLgs. 74/2000, configurava tali i
costi inesistenti e quelli macroscopicamente
non inerenti o indeducibili10.
7 Concretamente, la dichiarazione dei redditi riporta il risultato netto del Conto economico dunque ad assumere rilievo
è la voce ricavi che costituisce il principale elemento attivo.
8 Cfr. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo concernente la revisione del sistema sanzionatorio, p. 3. Conf.
“dalla stessa relazione alla proposta di legge n. 282/C ( e, prima ancora, dalla relazione al disegno di legge n. 5291/C
della scorsa legislatura, che ne costituisce il diritto antecedente) emerge, in particolare, come il legislatore delegante
abbia visto con sfavore il fatto che l’attuale descrizione del fatto incriminato – la quale, per un verso, prescinde da comportamenti fraudolenti e, per altro verso, rende penalmente rilevanti non solo le omesse o mendaci indicazioni di dati
oggettivi, ma anche l’effettuazione di valutazioni giuridico-tributarie difformi da quelle corrette – comporti la creazione
di una sorta di «rischio penale» a carico del contribuente, correlato agli ampi margini di opinabilità e di incertezza che
connotano i risultati di dette valutazioni”, p. 6.
9 In data 10.11.2015, la GdF ha emesso la circolare n. 331248, in Banca Dati Eutekne, contenente le preliminari direttive
operative a seguito della entrata in vigore del DLgs. 158/2015. Nella stessa viene dato atto del necessario superamento
delle direttive precedentemente impartite dal Comando Generale sul punto (p. 6 della circolare).
10 Cfr. Rizzardi R. “La dichiarazione infedele”, tratto dal materiale didattico del Corso “Officina di Diritto Penale Tributario”,
Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Padova, 22.11.2014. Sul punto è possibile ravvisare una affinità di pensiero tra
Rizzardi R. e Lupi R. secondo il quale “chi porta in deduzione documenti palesemente non inerenti, od effettua svalutazioni palesemente inammissibili sul piano della deducibilità fiscale, sa di non poter confidare su una adeguata evidenza
probatoria, per la deduzione di tali costi; ciononostante il contribuente, confidando nella debole probabilità di essere
sottoposto a controllo in un contesto di fiscalità di massa basata sull’autoliquidazione, decide di correre il rischio”(cfr.
Lupi R. “La fittizietà degli elementi negativi ai sensi dell’art. 4: uno spunto per non sovrapporsi con la fittizietà di cui agli
articoli precedenti”, in AA.VV. “Fiscalità d’impresa e reati tributari”, ed. Il Sole-24 Ore, Milano, 2000, p. 115).
61
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
62
Ebbene, l’incertezza intorno a tale elemento
essenziale della fattispecie tipica è stata superata optando per il concetto più diretto di
inesistenza degli elementi passivi ossia di loro
insussistenza sul piano reale e materiale.
Al fine di rispondere all’esigenza di certezza
del diritto che ispira tutta la riforma fiscale
originata dalla L. 23/2014, il legislatore delegato ha sentito l’esigenza di esplicitare tale
concetto sino al punto di – in accoglimento
del parere reso dalle Commissioni riunite II
Giustizia e VI Finanze della Camera dei deputati – disporre la sostituzione della parola
“fittizi”, ovunque presente nell’art. 4 del DLgs.
74/2000, con la parola “inesistenti” [art. 4
comma 1 lett. d) del DLgs. 158/2015].
Tale correzione lessicale pare comunque ad
abundantiam se si considerano gli emendamenti che il testo dell’art. 4 ha subito.
Infatti, il decreto delegato ha previsto l’introduzione di un comma aggiuntivo 1-bis, in base
al quale la condotta di infedele dichiarazione
non è integrata né dalla indicazione di elementi passivi reali non conformi ai criteri di
competenza, inerenza e deducibilità11 né dalla inosservanza delle regole extrapenali che
presiedono alle classificazioni e alle stime
aventi ad oggetto elementi attivi o passivi
oggettivamente esistenti, allorché i criteri
concretamente applicati siano esplicitati12.
Tale previsione riecheggia l’abrogato art. 7 del
DLgs. 74/2000 sicché pare opportuno procedere ad una rapida comparazione tra le due disposizioni per rilevare e valorizzare gli elementi
innovativi introdotti. Ebbene, rispetto al precedente art. 7, che peraltro valeva anche per
il reato di dichiarazione fraudolenta mediante
altri artifici, il legislatore delegato ha:
• rimosso il limite della impostazione contabile costante con riguardo alla violazione del
criterio di competenza;
• preferito “classificazione e valutazione” a
“rilevazioni e valutazioni estimative” e
• riconosciuto come supporto materiale per
l’indicazione dei criteri di classificazione e
valutazione adottati dal contribuente, oltre
al bilancio (e con esso la Nota integrativa),
anche qualsiasi altra documentazione rilevante ai fini fiscali.
Il comma 1-bis, complessivamente inteso, riflette la convinzione maturata dal legislatore
della mancanza di offensività delle condotte
dichiarative che non ostano alla ricostruzione corretta della imposta dovuta da parte
dell’Amministrazione finanziaria, resa edotta
dal contribuente di tutti i dati e le informazioni necessarie.
Tale volontà di escludere la rilevanza penale
delle valutazioni aventi ad oggetto elementi
attivi o passivi oggettivamente esistenti, sia
pure eseguite in contrasto con i parametri
tributari, è confermata dalla introduzione del
comma 1-ter, che sostanzialmente riproduce
la franchigia penale di non punibilità di cui al
suddetto art. 7.
Trattasi di una ulteriore previsione di favore
per il contribuente in base alla quale, fuori dei
casi di cui al comma 1-bis 13, non danno luogo
a fatti punibili le valutazioni che, singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore
al 10% da quelle corrette.
Ciò significa che in caso di contestazione di va-
11 Quanto ai costi manifestamente non inerenti e indeducibili, essi, in quanto effettivi, non risultano contemplati dalla nuova
figura delittuosa. Tuttavia, ciò non significa negare de plano la loro rilevanza sul piano penale. Invero, la loro indicazione
in dichiarazione potrebbe configurare il reato più grave di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3, ove ne sussistano i
presupposti.
12 Stante il tenore e la ratio della disposizione, si potrebbe sostenere che tali ipotesi non si limitano ad escludere il dolo di evasione, ma operano sul piano oggettivo, escludendo in sostanza la tipicità del fatto ed operando come elementi negativi della
fattispecie, ossia come dati fattuali che devono essere assenti per permettere l’integrazione del reato. Sulla configurazione
delle ipotesi di cui all’abrogato art. 7 del DLgs. 74/2000, cfr. Lanzi A., Aldrovandi P. “Manuale di diritto penale tributario”,
Cedam, Padova, p. 244-248.
13 La clausola di riserva “fuori dai casi di cui al comma l-bis” ha sostituito l’incipit precedente “in ogni caso”, in accoglimento
del parere reso dalle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze della Camera dei deputati, al fine di distinguere le due
diverse fattispecie.
lutazioni civilistiche o fiscali non documentate,
sino alla concorrenza del c.d. “scarto tollerato”,
il legislatore non ritiene integrata la condotta
tipica.
5
La condotta incriminata:
l’evasione d’imposta
e l’innalzamento
delle soglie di punibilità
Oltre alla introduzione dei commi 1-bis e 1-ter
nel testo dell’art. 4, uno degli aspetti più rilevanti della nuova formulazione del reato in
esame è dato dall’innalzamento delle soglie di
punibilità, le quali concorrono a definire il grado di offensività della infedeltà dichiarativa14.
Ai fini della integrazione del reato di cui all’art.
4 del DLgs. 74/2000, la condotta dell’agente
deve tradursi in una evasione d’imposta che
soddisfi congiuntamente le soglie di punibilità
di cui alle lett. a) e b), come rimodulate a seguito dell’entrata in vigore del DLgs. 158/2015.
Precisamente, la c.d. soglia fissa di imposta
evasa viene elevata da 50.000 a 150.000 euro
mentre la c.d. soglia mobile del valore degli
elementi attivi sottratti all’imposizione – anche considerando gli elementi passivi inesistenti – resta rapportata al 10% dell’ammontare complessivo di quelli dichiarati ma viene
elevata al tetto di 3 milioni di euro (anziché di
2 milioni).
Ai sensi del neo-introdotto comma 1-ter dell’art.
4 del DLgs. 74/2000, nella verifica del superamento delle soglie di punibilità non devono
computarsi le valutazioni estimative che differiscono da quelle corrette in misura inferiore al
10%; e ciò, deve ritenersi valido quand’anche lo
scarto complessivo eccedesse tale limite15.
Inoltre, ai fini della applicazione dell’art. 4 occorre rilevare come la novella legislativa abbia
inciso anche sulla nozione di imposta evasa di
cui all’art. 1 comma 1 lett. f) del DLgs. 74/2000.
In base all’attuale formulazione, non si considera imposta evasa – i.e. la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella dichiarata
al netto delle somme versate dal contribuente o
da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione – quella teorica e
non effettivamente dovuta collegata sia a una
rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio
sia all’utilizzo di perdite pregresse spettanti e
utilizzabili16.
6
L’elemento soggettivo:
il dolo specifico di evasione
Dal punto di vista dell’elemento psicologico, il
reato di dichiarazione infedele è punito a titolo
di dolo specifico in quanto il soggetto attivo deve porre in essere la condotta tipica
descritta dalla norma con coscienza e volontà
perseguendo il fine di evadere le imposte.
A seconda che si qualifichino le soglie di pu-
14 A conferma della loro natura di elementi essenziali della fattispecie anziché condizioni obiettive di non punibilità, cfr.
“Al fine di graduare le sanzioni in relazione al disvalore giuridico della condotta, il medesimo articolo [l’art. 8 della
L. 23/2014, nda] delega il Governo a circoscrivere l’applicazione delle sanzioni penali mediante l’individuazione di
adeguate soglie di punibilità”, in Relazione Tecnica allegata allo schema del DLgs. 158/2015, p. 1; analogamente,
cfr. “nell’elemento della rappresentazione volitiva dell’agente rientra anche la soglia quantitativa, la quale non costituisce una mera condizione obiettiva bensì un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice”, in Mangione
A., cit., p. 123. Contra, cfr. “Non dovrebbero riscontrarsi scostamenti nella giurisprudenza di legittimità per la quale
il superamento delle soglie ivi indicate opera come una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla
rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente” in Relazione Corte di Cassazione 28.10.2015 n. III/05/2015
“Novità legislative: Decreto Legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione
dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23”, p. 18-22, in Banca Dati Eutekne; conf. Cevasco D. “Rassegna di giurisprudenza - I reati tributari (2012-2015). Parte prima”, Dir. prat. trib., 2015, p. 367.
15 Cfr. Relazione illustrativa, p. 7.
16 Per un approfondimento sullo scomputo delle perdite dall’imposta non versata, si rinvia a Sepio G., Silvetti F.M. “Revisione
del sistema penale tributario: gli interventi di riforma dei delitti dichiarativi”, il fisco, 2015, p. 4123 e Iorio A., Mecca S. “Così
cambiano i reati fiscali”, Il Sole-24 Ore, 14.10.2015, p. 5.
63
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
64
nibilità come elementi del fatto tipico o condizioni obiettive di punibilità, la fattispecie che
deve essere coperta dal dolo rispettivamente si
amplia o si restringe 17.
Qualora l’agente indichi elementi attivi per un
ammontare inferiore a quello reale o elementi
passivi inesistenti e realizzi una evasione soprasoglia in conseguenza di negligenza, imprudenza o imperizia, il reato in esame non può dirsi
integrato per mancanza del dolo di evasione.
Parimenti, l’integrazione del delitto di cui all’art.
4 deve escludersi laddove l’agente abbia realizzato il fatto tipico perché incorso in errore. Si
ipotizzi il caso del contribuente che indichi in
dichiarazione le poste stimate in bilancio senza comunicare il criterio fiscale non corretto da
lui erroneamente applicato, in conseguenza del
quale la valutazione risulta essere superiore allo
“scarto tollerato” del 10%.
Qualora gli errori siano meramente liquidativi,
invece, l’integrazione del reato deve ritenersi
preclusa “a monte” dall’assenza dell’elemento
oggettivo del reato.
7
Focus sulla esclusione
della rilevanza penale
dell’elusione fiscale
Come evidenziato in premessa, la esclusione
della elusione fiscale dall’ambito applicativo
del reato di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000 si
ricava sia dalla riformulata descrizione della
fattispecie tipica di dichiarazione infedele sia
dall’intervento legislativo di venti giorni precedente contenuto nel DLgs. 128/2015.
Con l’art. 8 della L. 23/2014, il Governo veniva
delegato all’“individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e
delle relative conseguenze sanzionatorie”. No-
nostante il carattere apparentemente neutro
del criterio direttivo, il legislatore delegato ha
potuto fare affidamento sui seguenti indici: la
predicata distinzione tra l’evasione e l’elusione
fiscale; l’assenza dei paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, falsità o, più in generale,
fraudolenza nel concetto di abuso del diritto ed,
infine, la residualità della disciplina dell’abuso
del diritto rispetto agli strumenti di reazione
previsti dal sistema tributario avverso i più gravi
fenomeni della frode ed evasione fiscale.
L’art. 10-bis comma 13 dello Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dall’art. 1 del
DLgs. 128/2015 nel disporre che “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili
ai sensi delle leggi penali tributarie” potrebbe
prima facie risultare in collisione con l’orientamento che la giurisprudenza di legittimità
ha dimostrato di condividere a partire da questo decennio.
Invero, con la celebre sentenza Dolce & Gabbana18, la Corte di Cassazione penale aveva
inaugurato un orientamento in base al quale
l’elusione fiscale era idonea ad integrare i reati
di cui al DLgs. 74/2000 ed, in specie, quelli di
dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione previsti rispettivamente dagli artt. 4 e 519.
Più precisamente, secondo tale indirizzo, gli
elementi costitutivi di queste fattispecie criminose potevano essere soddisfatti esclusivamente dalle condotte di cui agli artt. 37 comma 3 e
37-bis comma 3 del DPR 600/1973 e da quelle
contenute in altre disposizioni specifiche aventi
una ratio antielusiva. Difatti, sebbene l’abuso
del diritto potesse astrattamente realizzare l’evento evasivo al pari dell’elusione c.d. codificata, la produzione di sanzioni penali era preclusa
dal principio di legalità e, in particolare, dai suoi
corollari di tassatività e determinatezza20.
Tuttavia, le fattispecie concrete che avevano
17 V. nota 14.
18 Cass. pen. 28.2.2012 n. 7739, in Banca Dati Eutekne.
19 In realtà, la sanzionabilità dell’elusione fiscale era già stata ammessa con la sentenza Ledda (Cass. pen. 7.7.2011n. 26723,
in Banca Dati Eutekne). Successivamente a Cass. n. 7739/2012, cit., si ricordano Cass. pen. 9.9.2013 n. 36894 e Cass. pen.
24.2.2014 n. 8797, in Banca Dati Eutekne.
20 Cfr. Cass. pen. 3.5.2013 n. 19100, in Banca Dati Eutekne, sentenza comunemente ricordata come la sentenza Raoul
Bova, successivamente ripresa, passo passo, da Cass. pen. 31.7.2013 n. 33187, ivi.
indotto il Supremo Collegio a ritenere integrati i suddetti reati tributari non costituivano propriamente delle operazioni elusive 21. Le
operazioni di esterovestizione societaria e di
interposizione fittizia che, correttamente,
erano state sussunte nelle norme incriminatrici, cioè, rappresentavano delle forme di
evasione e non di elusione fiscale.
Persino il commento all’art. 10-bis comma 13
della L. 212/2000 ne dà contezza: in tale paragrafo, infatti, si coglie la volontà del legislatore di
mantenere ferma la punibilità dei reati tributari
consumati per effetto di operazioni catalogate
solo erroneamente come elusive ma, in realtà,
integranti “ipotesi di vera e propria evasione”22.
A titolo esemplificativo, si pensi al fenomeno
del transfer pricing domestico che, pur non
presentando le caratteristiche delle operazioni elusive 23, viene erroneamente perseguito
sulla base dell’art. 9 del TUIR in applicazione
del principio del divieto di abuso del diritto.
8
L’efficacia temporale
della nuova fattispecie
di dichiarazione infedele
La fattispecie di dichiarazione infedele come
riformulata risulta più favorevole al reo rispetto alla previgente.
Ciò si evince ictu oculi dall’innalzamento delle
soglie di punibilità, ma altresì dalla statuizione
della irrilevanza penale dei valori corrispon-
denti a valutazioni giuridico-tributarie scorrette fondate su elementi attivi e passivi reali.
La novella legislativa, pertanto, incide sui procedimenti penali pendenti e determina la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali
delle condanne intervenute su condotte non
più sussumibili nella attuale fattispecie incriminatrice24.
In forza del principio del favor rei, infatti, non
possono essere perseguite le condotte di infedele dichiarazione che non soddisfino le odierne soglie o, comunque, non risultino conformi
al fatto tipico di cui al vigente art. 4.
La retroattività delle disposizioni più favorevoli
al contribuente contenute nel DLgs. 158/2015
è espressamente prevista anche nell’Analisi
Tecnico-Normativa allo stesso allegata 25.
Analogamente, deve riconoscersi efficacia retroattiva al disposto dell’art. 10-bis comma
13 della L. 212/2000 introdotto dal DLgs.
128/2015, quantomeno nella parte in cui esclude la rilevanza penale dell’abuso del diritto, finendo così per depenalizzare le condotte elusive
tipizzate.
Invero, la disposizione di cui all’art. 1 comma
5 del DLgs. 128/2015, in base alla quale le disposizioni dell’art. 10-bis acquistano efficacia a
decorrere dall’1 ottobre 2015, salvo applicarsi
anche alle operazioni poste in essere in data
anteriore per le quali non sia stato notificato
il relativo atto impositivo, deve interpretarsi in
modo costituzionalmente orientato e conforme al diritto internazionale.
21 A proposito dell’erroneo inquadramento delle fattispecie da cui sono scaturite le sentenze della Corte di Cassazione
sulla rilevanza penale dell’elusione fiscale, è stato correttamente osservato che i principi di diritto enucleati nel contesto di tali pronunce costituiscono dei meri obiter dicta (cfr. Stevanato D. “Rilevanza penale dell’elusione, un «obiter
dictum» in una vicenda di esterovestizione societaria”, Dialoghi Tributari, 2012, p. 216-217).
22 Per una lucida distinzione tra elusione fiscale e simulazione e tra elusione fiscale ed erronea qualificazione negoziale, cfr.
Stevanato D. “Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco”, Dir. prat. trib., 2015, p. 695-727.
23 Tra i lavori più recenti, cfr. Miele L. “«Transfer pricing» interno e valore normale”, in questo numero, p. 157 e ss.; Baggio R.
“La rettifica dei prezzi di trasferimento nei rapporti interni”, Riv. dir. trib., 3, 2015, p. 160-171; Grandinetti M. “Il rasoio di
Occam e il transfer price interno”, ivi, p. 172-187.
24 Sebbene l’Ufficio Massimario ne dia atto nel commento all’art. 3 del DLgs. 74/2000, devono ritenersi ribadite anche
in relazione al reato di cui all’art. 4 le diverse posizioni della Corte di Cassazione penale circa la formula liberatoria da
adottare tra “il fatto non è previsto dalla legge come reato” e “il fatto non sussiste” per i fatti commessi prima della
entrata in vigore delle norme che innalzano le soglie di punibilità. Cfr. Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario
Settore Penale, ivi, p. 18, nota 36.
25 Cfr. Parte III “Elementi di qualità sistematica e redazionale del testo”, punto 5.
65
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
66
Sul punto si è espresso in senso conforme anche
il Supremo Collegio il quale, in un procedimento
penale scaturito da una contestazione elusiva,
ha affermato che “la disposizione del comma
13, che reca la statuizione di irrilevanza penale
delle operazioni abusive è destinata ad esplicare effetto, oltre che naturalmente per le nuove
operazioni abusive poste in essere dalla data del
1 ottobre 2015, anche per quelle poste in essere
prima di tale data per il principio di retroattività
della legge penale più favorevole sancito dall’art.
2 c.p. […] è da ritenere che il comma 5 dell’art. 1
del D.lgs. n. 128 del 2015 abbia inteso introdurre
una limitazione temporale esclusivamente alla
efficacia retroattiva della disciplina tributaria
dell’abuso del diritto e non anche a quella penale” e, per l’effetto, annullata senza rinvio la sentenza impugnata con la formula “perché il fatto
non è più previsto dalla legge come reato”26.
La retroattività delle disposizioni penali più
favorevoli al contribuente importa, a cascata,
conseguenze rilevanti sul piano pratico.
In primo luogo, si assiste alla soppressione del
doppio binario in relazione alle fattispecie
abusive/elusive nonché a tutte le condotte
dichiarative escluse dal nuovo perimetro del
fatto tipico di dichiarazione infedele.
Inoltre, diviene inoperante nei loro confronti
il raddoppio dei termini per l’accertamento.
Trattasi di un aspetto assolutamente non secondario, sebbene in qualche misura temperato
dalla modifica normativa intervenuta con l’art.
2 del DLgs. 128/2015 che, per porre fine all’uso errato e strumentale del potere concesso
dall’art. 37 comma 24 del DL 223/2006, impone
all’Agenzia delle Entrate l’invio della denuncia
di reato alla competente Autorità Giudiziaria
entro l’ordinario termine di decadenza stabilito
dall’art. 43 del DPR 600/197327.
9
La pena e la confisca
obbligatoria
La pena della reclusione da uno a tre anni prevista per il reato di dichiarazione infedele rimane invariata.
La permanenza di tale intervallo edittale comporta varie conseguenze, tra le quali l’impossibilità di disporre intercettazioni, l’inapplicabilità delle misure coercitive e di quelle interdittive,
nonché l’operatività della causa di esclusione
della punibilità per particolare tenuità del fatto
di cui all’art. 131- bis c.p. introdotto dal DLgs.
16.3.2015 n. 28, entrato in vigore il 2 aprile
201528.
Il DLgs. 158/2015 ha abrogato l’art. 1 comma
143 della L. 244/2007 (legge finanziaria 2008)
26 Cass. pen. 7.10.2015 n. 40272, § 18-20. Con riguardo alla retroattività della legge penale più favorevole, il Supremo
Collegio richiama l’art. 2 co. 2 c.p., l’art. 15 co. 1 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 e l’art.
7 della CEDU, nonché i chiarimenti forniti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati e dal Governo nella Relazione
illustrativa del DLgs. 128/2015.
27 Tra gli emendamenti al Ddl Stabilità 2016 (A.C. 3444-A), approvati in data 16.12.2015 dalla V Commissione Bilancio della
Camera dei Deputati, si segnala l’introduzione nel corpo dell’art. 1 dei co. 67-quater e 67-quinquies i quali se, da un
lato, espungono il raddoppio dei termini per l’accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi nei casi di violazioni che
comportano obbligo di denuncia per uno dei reati tributari previsti dal DLgs. 74/2000, dall’altro, allungano di un anno i
termini per l’accertamento, dal 31 dicembre del quarto anno al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Ai fini della nostra indagine, tale modifica ha certamente l’effetto di parificare i termini
per la rilevazione e contestazione delle fattispecie di dichiarazione infedele a prescindere dalla loro penale rilevanza, con
conseguente superamento delle osservazioni sopra svolte. Quanto alla efficacia temporale delle norme predette, il comma
aggiuntivo 67-sexies dispone che esse retroagiscono, applicandosi agli avvisi relativi al periodo d’imposta in corso alla data
del 31.12.2015. Inoltre, lo stesso prevede una disciplina transitoria relativa ai periodi d’imposta precedenti a quello in corso
al 31.12.2015: con specifico riguardo ai casi di infedele dichiarazione, resta fermo l’obbligo in capo all’Amministrazione
finanziaria di notificare gli avvisi di accertamento, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo
a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e viene mantenuto il raddoppio dei termini in caso di violazioni che
comportano obbligo di denuncia per l’art. 4 del DLgs. 74/2000.
28 Sulla applicabilità dell’istituto ai reati tributari, si rinvia alla lettura di Cass. pen. 15.4.2015 n. 15449, in Banca Dati Eutekne,
e Corso P. “La particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta anche per un illecito penaltributario – Il Commento”,
Corr. Trib., 2015, p. 1451 e ss.
che estendeva la confisca di cui all’art. 322-ter
c.p. ai delitti in materia di dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
La confisca obbligatoria per i delitti tributari,
incluso quello di dichiarazione infedele, è ora
prevista in termini sostanzialmente identici
dall’art. 12-bis del DLgs. 74/2000.
10
Cause di non punibilità,
circostanze e
patteggiamento
Per il reato in esame l’art. 11 del DLgs. 158/2015
ha introdotto una causa di non punibilità, sostituendo l’art. 13 del DLgs. 74/2000 con una
nuova disposizione rubricata “Causa di non
punibilità. Pagamento del debito tributario”.
In base all’art. 13 comma 2 del DLgs. 74/2000,
il reato di dichiarazione infedele non è punibile
qualora il debito tributario, comprensivo di sanzioni ed interessi, sia stato integralmente pagato per effetto del ravvedimento operoso con la
precisazione che quest’ultimo deve intervenire
entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo e,
soprattutto, prima che l’autore del reato abbia
avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni,
verifiche o dell’inizio di qualunque attività accertativa o di procedimenti penali.
In sostanza, il legislatore delegato esclude la
opportunità di irrogare una pena laddove vi
sia stata l’estinzione tempestiva del debito
tributario da parte del contribuente per effetto della sua spontanea resipiscenza.
Fuori dei casi di non punibilità, il contribuente
può comunque contare sulla circostanza attenuante speciale e ad effetto speciale prevista
dal neo-introdotto art. 13-bis del DLgs. 74/2000
la cui operatività è subordinata al pagamento
integrale dei debiti tributari, comprese sanzioni
ed interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche a
seguito delle procedure tributarie conciliative e
di adesione. In caso di estinzione del debito mediante rateizzazione, il nuovo comma 3 dell’art.
13 prevede che la rateazione possa concludersi
al massimo entro sei mesi dalla prima udienza. In forza del comma 2 dell’art. 13-bis, poi,
il pagamento di quanto contestato prima della
udienza di apertura dibattimentale continua a
costituire il presupposto necessario per l’accesso all’istituto della applicazione della pena su
richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p. A
dire il vero, tale disposizione, nella parte in cui
afferma che il patteggiamento può essere chiesto anche quando ricorra il ravvedimento operoso “fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13,
commi 1 e 2”, risulta essere poco chiara. È stato
ipotizzato che il legislatore delegato abbia voluto dire che, in presenza delle cause estintive,
il patteggiamento può comunque essere richiesto e concesso29.
Infine, l’art. 13 comma 3 ha previsto una nuova circostanza aggravante speciale ad effetto
speciale nel caso in cui il reato sia stato commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale, esercitata da un professionista o da un intermediario finanziario o
bancario.
29 Cfr. Caraccioli I. “Linee generali della revisione del sistema penale tributario”, il fisco, 2015, p. 6.
67
TRIBUTI
IL CREDITO PER LE IMPOSTE
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LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
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68
Il sovrapporsi nell’arco degli ultimi mesi di corposi interventi interpretativi e di sostanziali
modifiche di legge rende opportuna una ricognizione dell’intero impianto normativo e di
prassi oggi applicabile. Tra le novità recate dal DLgs. 147/2015 assumono particolare rilievo quelle concernenti i termini temporali di utilizzo del credito spettante per le imposte
assolte oltreconfine ed il numero di soggetti che possono beneficiare del riporto delle c.d.
“eccedenze”.
1
Premessa:
l’art. 165 del TUIR
È nota la necessità per i contribuenti residenti
in Italia di assoggettare ad IRPEF ed IRES tutti i
redditi, ovunque prodotti nel mondo, principio
questo che solleva l’altrettanto noto problema
della doppia imposizione giuridica di quelli, tra
essi, conseguiti oltre confine, in ragione della
possibile, anzi probabile loro tassazione anche
negli Stati di produzione.
L’art. 165 del TUIR, sul solco dell’esperienza
OCSE in materia1, ha ereditato dall’art. 15 del
medesimo Testo Unico, nel testo in vigore prima della Riforma del 2003, il ruolo di risposta
unilaterale alla questione, riconoscendo, nei
termini di cui si scriverà a breve, un credito
d’imposta per la tassazione subita al di fuori
del nostro Paese.
Lo stesso, dopo un lungo periodo di sostanziale silenzio, è stato destinatario nell’arco
di pochi mesi prima della corposa circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate
5.3.2015 n. 9, poi delle modifiche recate dal
DLgs. 14.9.2015 n. 147, titolato “Disposizioni
recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”. Gli interventi
del Governo, in particolare, di cui si darà
conto entro una più ampia trattazione della
norma, hanno riguardato l’ambito oggettivo
di applicazione della stessa, i termini temporali di utilizzo del credito eventualmente spettante ed il numero di soggetti che
possono beneficiare del riporto delle c.d.
“eccedenze” di imposta estera; gli stessi sono
1 Art. 23b del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni: “Metodo del credito d’imposta”.
tutti destinati ad operare a decorrere dal periodo in corso alla data di entrata in vigore del
provvedimento e quindi, per la maggioranza
dei contribuenti, dal 2015, situazione questa
che rende oltremodo utile una ricognizione
dell’intero impianto di legge e di prassi oggi
applicabile.
2
La “ratio” della norma.
L’ambito applicativo
Il meccanismo regolato dall’art. 165 del
TUIR persegue, di fatto, l’obiettivo di far
tassare una volta sola il reddito prodotto
all’estero dal contribuente residente, con un
carico dato dalla maggior imposta fra quella
prevista nel dato Paese e quella applicabile
in Italia.
Per il raggiungimento di quanto sopra, la
norma riconosce la possibilità di detrarre
le imposte estere sino ad un (primo) limite,
ovvero l’imposta lorda italiana corrispondente al reddito estero incluso in quello
imponibile: tale plafond, chiamato anche
“foreign tax credit”, è quindi ottenuto moltiplicando l’imposta lorda italiana per il
rapporto che sussiste tra il reddito prodotto all’estero ed, appunto, il reddito complessivo, al netto, così dice la legge, delle
perdite pregresse.
Ogni riflessione in merito al novero dei
soggetti destinatari della disposizione è
favorita dalla sua collocazione: il relativo
inserimento all’interno del Titolo III (“Disposizioni comuni”) del TUIR, infatti, la rende
applicabile a tutti i soggetti passivi delle
imposte sui redditi, ivi compresi quelli non
residenti per i redditi prodotti all’estero ed
inclusi nella base imponibile di una stabile organizzazione o base fissa italiana2. Il
comma 9 dell’art. 165 del TUIR, da questo
punto di vista, si limita a rimarcare come
per le società di persone e per le società che
hanno aderito alla c.d. “grande” o “piccola”
trasparenza il credito spetta ai singoli soci,
nella proporzione stabilita dagli artt. 5, 115
e 116 del TUIR.
Con riguardo, invece, alle imposte estere che
possono essere detratte dall’IRPEF o dall’IRES. l’Amministrazione finanziaria si è sempre dichiarata ferma nel subordinare l’attribuzione del “foreign tax credit” all’esistenza
di una stretta “similarità” tra quanto assolto
all’estero e l’imposta sui redditi italiana3;
tale affermazione è stata costantemente interpretata nel senso che il gravame del quale
si chiede il riconoscimento non deve avere la
funzione di un corrispettivo in senso stretto,
quanto nascere per il semplice realizzarsi di
un presupposto di legge (i.e. il possesso di
redditi).
Il DLgs. 147/2015, come si ricordava in premessa, ha infine chiarito il punto, stabilendo che possono essere richieste in detrazione:
• sia le imposte estere oggetto di una Convenzione contro le doppie imposizioni in
vigore tra l’Italia e il determinato Stato estero4;
• sia le altre imposte o gli altri tributi esteri sul reddito.
Ove sussistessero obiettive condizioni d’incertezza in merito alla natura del tributo scontato all’estero, non oggetto delle anzidette
Convenzioni, sarà comunque possibile presentare istanza d’interpello ex art. 11 della L.
27.7.2000 n. 212 5.
2 Sul punto, la circolare Agenzia Entrate n. 9/2015, § 8, ricorda che se il Paese della fonte del reddito ha prelevato le
imposte sulla base di una Convenzione in vigore con il Paese di residenza della casa madre della stabile organizzazione,
le imposte estere rilevanti, ai fini del meccanismo qui in analisi, non potranno eccedere quelle che il Paese della fonte
avrebbe prelevato qualora fosse stato applicato il Trattato con l’Italia.
3 Risoluzione Min. Finanze 21.4.1983 n. 2540.
4 Il richiamo è all’art. 2 dei Trattati conformi al Modello OCSE, che fissa dei criteri di riconoscimento reciproco delle
imposte ai fini dell’applicazione delle norme pattizie.
5 Tale percorso era stato indicato anche dalla circolare n. 9/2015.
69
3
Gli elementi applicativi.
Le condizioni
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Il reddito “prodotto all’estero”
70
Una volta inquadrata la logica di funzionamento della misura, è possibile soffermarsi sui
singoli elementi che compongono la formula
del “foreign tax credit”, iniziando dalla grandezza posta a numeratore del rapporto, ovvero il reddito “prodotto all’estero”.
Il comma 2 dell’art. 165 del TUIR prevede che
un reddito debba considerarsi tale sulla base
di criteri reciproci a quelli introdotti dal successivo art. 23 per individuare i redditi prodotti nel territorio italiano da soggetti non
residenti.
Tale “lettura a specchio” ha sollevato nel tempo
diversi problemi applicativi, tra i quali spicca
quello concernente le ipotesi che escludono
la rilevanza territoriale per talune tipologie
di redditi: le stesse, infatti, se replicate in via
pedissequa, comporterebbero l’impossibilità di
considerare “prodotti all’estero” i redditi relativi a situazioni speculari, come, ad esempio,
gli interessi sui conti correnti bancari detenuti
oltreconfine. Di pari tenore è il problema che
si pone con riferimento alle imposte applicate
all’estero su redditi oggettivamente d’impresa, in mancanza di una stabile organizzazione
locale: la sua assenza, infatti, sempre secondo
una rigida lettura del richiamo di legge, non
consentirebbe di riconoscere al reddito la qualifica di “prodotto all’estero”, così da accedere
al meccanismo di recupero del carico impositivo subito.
La recente circolare 9/2015 ha avuto l’indubbio merito di chiarire i dubbi ora paventati,
precisando in primis che le scelte di opportu-
nità che hanno guidato il legislatore nell’introdurre le esclusioni ex art. 23 TUIR, non
pregiudicano affatto al contribuente italiano
il riconoscimento, in situazioni speculari, del
credito per le imposte estere.
Ancora, poiché con riguardo alle imprese non
residenti non opera il c.d. “fattore unificante della commercialità”, così che poste come
dividendi, interessi e royalties in uscita dal
nostro Paese sono tassate pur in mancanza
di una stabile organizzazione italiana, tale
conclusione deve operare anche in senso inverso, così da consentire, a parità di flussi, un
recupero della tassazione subita oltreconfine.
L’intervento di prassi, infine, si è dimostrato
rigido in merito ai redditi di natura commerciale tassati all’estero, pur in mancanza di una
stabile organizzazione locale: tale situazione,
infatti, a detta dell’Agenzia delle Entrate, preclude l’accesso al meccanismo dell’art. 165
del TUIR e lascia spazio alla sola possibilità
per l’impresa di dedursi l’imposta estera 6.
Una chiosa finale merita il tema delle norme
che regolano la quantificazione del reddito prodotto oltreconfine. Quest’ultimo deve
essere determinato, lo ricorda la risoluzione
Agenzia Entrate 1.6.2005 n. 69, secondo i criteri nostrani, con la sola eccezione dei redditi
dei terreni e dei fabbricati situati al di fuori
del territorio italiano: gli stessi, infatti, rilevano secondo la valutazione effettuata nello
Stato estero, ex art. 70 comma 2 del TUIR. Sul
punto è intervenuta la circolare n. 9/2015,
rimarcando come il reddito estero debba essere assunto al “lordo” dei costi sostenuti per
la relativa produzione, con la sola eccezione
del reddito d’impresa e di quello di lavoro autonomo, in ragione delle obiettive difficoltà
nella determinazione e nel controllo dei costi
effettivamente imputabili.
6 Il contribuente può ricevere un valido aiuto sul punto dai Trattati conformi al Modello OCSE: questi ultimi, infatti, riconoscono il diritto alla detrazione delle imposte subite nel Paese controparte, diverso cioè da quello di residenza, sul solo
presupposto che la componente reddituale sia risultata ivi “imponibile”. Rimane comunque imprescindibile, a detta dell’Agenzia delle Entrate, il fatto che il potere impositivo sia stato esercitato in conformità alle disposizioni della Convenzione:
una tassazione di redditi di natura commerciale in capo al soggetto non residente, ad esempio, pur in carenza di una sua
stabile organizzazione locale, così come definita dal Trattato bilaterale, legittima un diritto di rimborso presso le Autorità
estere competenti, e non un diritto di detrazione in patria (così la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2008 n. 277).
Lo scomputo delle perdite
pregresse
Il denominatore della formula per il “foreign
tax credit” è caratterizzato da un inciso, quello per cui il reddito complessivo deve essere
considerato al netto di eventuali perdite pregresse riportabili in avanti nel tempo.
La conseguenza di tale obbligo può essere apprezzata osservando come, in generale, nell’ipotesi di un utilizzo di perdite pregresse, la
riduzione del rapporto tra il reddito prodotto
all’estero e il reddito complessivo si accompagna ad una riduzione proporzionale dell’imposta lorda italiana, così che la quota di essa
gravante su quanto ottenuto oltreconfine rimane immutata: esemplificando al massimo,
si può assumere a riferimento, in ambito IRES,
un importo pari al 27,5% dei redditi prodotti
fuori dal territorio dello Stato.
Quanto ora esposto, però, non è più vero laddove, in ragione dell’uso delle perdite in commento, il reddito complessivo si riduca al di
sotto del livello del reddito prodotto all’estero: in tale ipotesi, infatti, il “foreign tax credit”, pari all’intera imposta lorda italiana, comincia a decrementarsi, sino eventualmente
ad annullarsi del tutto, rendendo sempre più
improbabile, ed infine certo, il mancato recupero integrale dell’imposta estera, e quindi
assai plausibile il sorgere della “eccedenza” di
cui si scriverà a breve.
L’imposta “netta dovuta”.
Il concorso alla formazione
del reddito complessivo
Si è scritto in precedenza come la detrazione
dell’imposta estera avvenga nel rispetto di un
primo limite, rappresentato dal minor importo
tra quando scontato nel dato Paese e il “fo-
reign tax credit”. L’affermazione, pur veritiera,
non dà prontezza dell’intero scenario: il limite
ultimo di recupero, infatti, come ricordano le
stesse istruzioni ai modelli di dichiarazione,
non è già l’imposta “corrispondente” al reddito complessivo incluso al denominatore della
formula, quanto l’imposta “netta dovuta” dal
contribuente, così come calcolata al netto
delle detrazioni di legge.
Altro aspetto del quale tenere conto è il necessario concorso alla formazione del reddito
complessivo del contribuente di quanto prodotto all’estero e ivi tassato.
Tale aspetto può essere declinato in vari modi.
Innanzitutto, si ricorda come, con riguardo ai
redditi di capitale, il recupero di tassazione
non sia possibile in presenza di redditi assoggettati in Italia a ritenuta a titolo di imposta,
ad imposta sostitutiva ex art. 2 comma 1-bis
del DLgs. 239/1996, o ancora ad imposizione
sostitutiva delle precedenti, operata dal contribuente ex art. 18 del TUIR in carenza di intermediari italiani. È vero che il soggetto ha la
facoltà di non avvalersi dell’anzidetto regime
di imposizione sostitutiva, ma tale possibilità
incontra i limiti sanciti dall’art. 27 comma 4
del DPR 600/1973, con riguardo, ad esempio, ai dividendi da partecipazioni estere non
qualificate7, e dall’art. 4 comma 2 del DLgs.
239/19968.
In secondo luogo, si evidenzia come, a norma dell’art. 165 comma 10 del TUIR, in caso
di redditi esteri che concorrono parzialmente
alla formazione del reddito complessivo, l’imposta estera da considerarsi ai fini della detrazione è “solo” quella corrispondente alla
quota di reddito imponibile in Italia. L’ambito
tipico di applicazione della previsione sono
gli utili di fonte “white list”, in presenza
dei quali le ritenute subite nel dato Paese, ad
esempio, da una società di capitali nostrana,
7 La doppia imposizione, lo si segnala appena, è in parte mitigata in questo caso dall’applicazione della ritenuta in ingresso
in Italia sul c.d. “netto frontiera”.
8 Ulteriore percorso di recupero è quello che si offre con riguardo alla cd. “euroritenuta”, applicata ex art. 11 della direttiva
2003/48/CE sui redditi da risparmio percepiti in taluni Stati UE ed extra-UE da soggetti ivi non residenti, grazie al riconoscimento in dichiarazione di un diritto alla sua compensazione o al suo rimborso.
71
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
72
possono essere recuperate limitatamente al
5% del loro ammontare. Esistono, tuttavia,
ulteriori contesti di operatività della soglia,
tra i quali, ricorda la risoluzione Agenzia Entrate 8.7.2013 n. 48, quello dei redditi da
lavoro dipendente percepiti da contribuenti residenti in Italia e determinati secondo
parametri convenzionali ex art. 51 comma
8-bis del TUIR: in tale evenienza, le imposte
pagate all’estero dovranno essere ridotte
“in proporzione al rapporto tra la retribuzione convenzionale […] ed il reddito di lavoro
dipendente che sarebbe stato tassabile in via
ordinaria in Italia”.
Da ultimo, con riguardo ai casi “patologici”,
il comma 8 della norma disconosce il diritto
in analisi in ipotesi di omessa presentazione
della dichiarazione dei redditi o di omessa indicazione dei redditi esteri in dichiarazione:
la seconda fattispecie, così afferma la circolare n. 9/2015, si verifica nel caso in cui in
dichiarazione non risulti indicato un reddito
estero derivante dalla medesima fonte produttiva ed appartenente alla medesima categoria reddituale, così che la preclusione non
opera per chi, ad esempio, ha dichiarato solo
parzialmente il reddito di impresa prodotto
all’estero da una stabile organizzazione 9.
La “per country limitation”
Il meccanismo regolato dall’art. 165 del TUIR
non considera l’estero un blocco “coeso”: il
comma 3, infatti, dispone che se alla formazione del reddito complessivo “concorrono
redditi prodotti in più Stati esteri, la detrazione
si applica separatamente per ciascuno Stato”.
L’approccio così codificato, antitetico a quello
che la prassi indica con l’espressione “overall
limitation”, è fonte di indubbi vantaggi per il
contribuente titolare di redditi prodotti in più
Paesi diversi dall’Italia. Si pensi, al riguardo,
alle conseguenze che potrebbero scaturire dalla necessità di calcolare il numeratore del rapporto già commentato quale sommatoria dei
risultati conseguiti nei diversi Stati, in presenza sia di redditi, che di perdite: il plafond per
il recupero delle imposte scontate oltreconfine
sarebbe parzialmente compromesso, sino ad
annullarsi del tutto ove le partite negative fossero di ammontare superiore a quelle positive.
4
L’utilizzo della detrazione:
le novità 2015
Il corredo documentale a supporto
Il tema della modalità di utilizzo della detrazione in esame coinvolge due aspetti distinti.
Il primo attiene al corredo documentale che
il contribuente deve conservare per dare
prova delle imposte versate all’estero.
Sul tema si sono registrati nel tempo ripetuti interventi di prassi, apprezzabili nel
tentativo di portare chiarezza, ma di carattere sempre parziale: tra le altre, si segnalano la
risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2001 n. 104,
in ambito di redditi di capitale sotto forma
di dividendi, e la circolare Agenzia Entrate
12.6.2002 n. 50 (par. 18), che si interessava di
redditi di lavoro dipendente 10.
La circolare n. 9/2015 è tornata sul punto
al fine di sistematizzare le precedenti indicazioni ed offrire un quadro di generale validità. Ai fini della verifica della detrazione
9 La presentazione di una dichiarazione integrativa a sfavore ex art. 2 co. 8-ter del DPR 322/1998 consente al contribuente di sanare la mancata indicazione del reddito estero, e quindi di recuperare il diritto in analisi. Così C.T. Prov. Milano
27.3.2015 n. 2944/17/15, in Banca Dati Eutekne.
10 Utili indicazioni sulla questione si rinvengono, ovviamente, anche in giurisprudenza. Tra le tante, si segnala la pronuncia
della C.T. Reg. Milano 24.2.2012 n. 16/29/12, in Banca Dati Eutekne: in essa, infatti, i giudici hanno sentenziato che le
certificazioni delle Autorità fiscali estere sono prove valide a dimostrare l’assolvimento di imposte nel dato Paese, fino a
querela di falso e quindi ad azione promossa dall’Agenzia presso il giudice civile. In dottrina, di sicuro pregio e “stimolo”
è stato l’approfondimento Assonime n. 1/2012, con il quale l’Associazione auspicava, tra l’altro, il riconoscimento di un
valore probatorio ad ogni certificazione resa da sostituti d’imposta esteri.
spettante, così vi si legge, il contribuente è
tenuto a conservare i seguenti documenti:
• un prospetto recante l’indicazione, separatamente Stato per Stato, dell’ammontare
dei redditi prodotti all’estero, l’ammontare delle imposte pagate in via definitiva in
relazione ai medesimi, nonché la misura
del credito spettante, determinato sulla
base della formula di cui al primo comma
dell’art. 165 del TUIR;
• la copia della dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero, qualora sia ivi previsto tale adempimento;
• la ricevuta di versamento delle imposte pagate nel Paese estero;
• l’eventuale certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi di fonte
estera;
• l’eventuale richiesta di rimborso, qualora
non inserita nella dichiarazione dei redditi.
In merito alla lingua con cui i diversi documenti devono essere scritti o presentati, è
utile richiamare quanto statuito dalla Corte di Cassazione con sentenza 17.6.2015
n. 12525 11. La Suprema Corte, in particolare,
ha affermato come fuori dall’ipotesi in cui
le parti siano concordi sul significato delle
espressioni contenute nel dato documento,
ovvero quando vi sia una traduzione non oggetto di alcuna contestazione, il giudice di
merito non può decidere ritenendo come non
acquisiti agli atti i documenti redatti in lingua
straniera, ma deve procedere alla nomina di
un traduttore.
I termini temporali di esercizio
del diritto
Il secondo aspetto da tenere in conto, nella
prospettiva di reclamare il recupero delle imposte estere, attiene il momento in cui tale
richiesta può e deve essere avanzata.
Ai sensi dell’art. 165 comma 4 del TUIR, opera
un principio generale di competenza: la detrazione, infatti, deve essere richiesta nella
dichiarazione relativa al periodo al quale appartiene il reddito prodotto all’estero; il tutto,
però, a condizione che il pagamento “a titolo
definitivo” dell’imposta avvenga prima della
relativa presentazione 12.
La “definitività” del versamento, o meglio la
sua “irripetibilità”, per usare il termine riportato nella circolare n. 50/2002, è esclusa nei
casi in cui i pagamenti operati all’estero siano
avvenuti a titolo di acconto, in pendenza di
controversia o nella previsione di un rimborso, come succede tipicamente ove sia stata
applicata una ritenuta in uscita dal Paese
superiore a quella riconosciuta dal Trattato
esistente con l’Italia 13.
Ove la condizione ora citata sia integrata in
un momento successivo, così prosegue il
comma 7 primo periodo, si deve procedere sì
ad una successiva liquidazione, ma sulla base
dei dati originari, considerando al più l’eventuale maggior reddito estero emerso. Nell’eventualità di un’incapienza dell’imposta netta
dovuta sui redditi di periodo, la detrazione si
trasformerà in un diritto di riporto, rimborso o
eventuale compensazione, ai sensi degli artt.
11 comma 4, 22 comma 2 e 80 del TUIR, nonché dell’art. 17 del DLgs. 241/1997.
Nell’ipotesi opposta, ovvero quella in cui le
imposte estere siano pagate a titolo definitivo prima che il reddito estero sia
divenuto imponibile in Italia, il credito rimane sospeso, sino alla sua inclusione in una
dichiarazione dei redditi nazionale 14.
11In Banca Dati Eutekne.
12 Circolare n. 9/2015: “Il principio trova applicazione anche nel caso in cui il contribuente presenti la dichiarazione
tardivamente, purché entro i novanta giorni successivi alla scadenza dell’ordinario termine”.
13 Sul tema, si segnalano la risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2001 n. 104, la circolare Agenzia Entrate 16.6.2004 n. 26 e la
risoluzione Agenzia Entrate 3.7.2008 n. 277.
14 Un caso “scuola”, ripreso peraltro dalla circolare n. 9/2015, è quello rappresentato dalle c.d. “partnerships”, ovvero le
società estere per le quali la tassazione nel Paese di localizzazione dei relativi utili, in capo al socio italiano, non avviene
“per cassa”, e quindi in sede di loro effettiva distribuzione, ma per mera trasparenza.
73
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
74
La questione è invero ben più complessa di
quanto sin qui esposto. Tra gli aspetti più significativi affrontati dalla circolare n. 9/2015,
meritano di essere segnalati i seguenti.
Non è raro, innanzitutto, che le imposte
estere siano versate in maniera frazionata,
nel corso di più anni: in tale ipotesi, afferma
l’Agenzia delle Entrate, la misura di detrazione massima consentita (i.e. il “foreign tax
credit”) rimane quella “originaria”, ovvero
quella calcolata nel periodo in cui il reddito estero ha concorso a formare il reddito
complessivo.
In caso poi di accertamento di un maggior
reddito all’estero, e quindi di versamento nel
tempo di maggiori imposte oltreconfine, gli
scenari possibili sono tre:
1. ove tale fatto sia privo di effetti in Italia,
e quindi non si operi alcuna rettifica del
reddito originariamente dichiarato, è necessario procedere negli stessi termini appena descritti: nel caso di specie, infatti,
si assiste “semplicemente” ad una nuova
ipotesi di pagamento frazionato delle imposte estere;
2. ove l’accertamento estero si accompagni
all’emersione di maggiore base imponibile anche nel nostro Paese, vuoi per effetto dell’attività di controllo svolta da parte
dell’Amministrazione, vuoi per iniziativa
del contribuente, è necessario procedere ad
un nuovo calcolo del “foreign tax credit” e
quindi del plafond di capienza massima della detrazione;
3. nell’eventualità, infine, in cui siano decorsi i termini di accertamento in Italia del
periodo d’imposta in cui il reddito estero
ha concorso alla formazione del reddito complessivo, ipotesi questa regolata
dall’art. 165 comma 7 secondo periodo, la
detrazione per quanto versato oltreconfine potrà essere chiesta solo per la parte di
imposta estera corrispondente al reddito
acquisito definitivamente a tassazione in
Italia. Situazione questa che, in buona sintesi, diversamente dal primo caso, esclude
la possibilità di recuperare imposte assolte
oltreconfine, pur in presenza di un “foreign
tax credit” iniziale sufficientemente capiente.
Un ultimo scenario prospettato dal documento di prassi attiene le ipotesi in cui l’imposta
estera, pagata a titolo definitivo e già detratta,
sia oggetto di rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria estera. Tale situazione
può ricorrere, ad esempio, in quelle giurisdizioni ove è consentito il c.d. “carry back”, ovvero
il riporto all’indietro delle perdite conseguite
da una stabile organizzazione, al fine di compensare utili pregressi. In questa evenienza,
il contribuente è tenuto alla presentazione di
una dichiarazione integrativa a sfavore ex art.
2 comma 8 del DPR 322/1998, nonché al versamento della maggiore imposta dovuta.
Si conclude sul tema illustrando il secondo
intervento operato dal DLgs. 147/2015.
Il Governo, in particolare, ha ampliato la
platea dei contribuenti in grado di usufruire della previsione di favore contemplata
dall’art. 165 comma 5 del TUIR, ovvero quella per cui è possibile operare la detrazione
anche se alla data di presentazione della
dichiarazione le imposte estere non siano
state versate a titolo definitivo: il beneficio
finanziario, infatti, interessava sino all’anno
scorso i soli redditi prodotti all’estero per il
tramite di una stabile organizzazione o da
società estere controllate aderenti al c.d.
“consolidato mondiale”.
I requisiti per non rendere la facoltà controproducente, invece, sono rimasti immutati. La
norma, in merito, richiede che:
• da un lato, il contribuente dia evidenza in
dichiarazione della scelta operata, e quindi,
con buona sintesi, dell’utilizzo della detrazione pur in carenza di un’imposta estera
“definitiva”;
• dall’altro, il pagamento “irripetibile” di
quest’ultima abbia luogo entro la scadenza prevista per la presentazione della
dichiarazione relativa al periodo d’imposta
successivo.
Diversamente, secondo quanto già indicato
dalla circolare n. 9/2015, si assisterà al recupero delle maggiori imposte italiane e all’applicazione della sanzione ordinaria ex art. 13
del DLgs. 471/1997, fatta salva, ovviamente,
la duplice possibilità per il contribuente di
presentare una dichiarazione rettificativa e di
optare per il ravvedimento operoso della propria posizione 15.
5
Le “eccedenze”
d’imposta estera
Il meccanismo. La nuova platea
di contribuenti interessati
L’aspetto forse più innovativo del recente intervento del Governo concerne l’ampliamento
della platea di contribuenti che possono fare
uso delle c.d. “eccedenze” di imposta estera:
tale meccanismo, infatti, in ragione delle
novità recate dal DLgs. 147/2015, non è più
appannaggio delle imprese.
Nel merito, si ricorda come l’art. 165 comma
6 del TUIR riporti da anni una disposizione il cui scopo, con buona sintesi, è quello di
“livellare” la tassazione dei redditi esteri alle
aliquote nostrane, compensando le (eventuali) oscillazioni di senso contrario registrate su
quelli prodotti nel medesimo Paese.
Per realizzare tale obiettivo, è previsto che se
un contribuente produce reddito in un Paese
estero, l’eventuale “eccedenza” di imposte ivi
pagate a titolo definitivo rispetto alla detrazione operata in Italia rappresenta un credito
d’imposta “virtuale”. Lo stesso, infatti:
• può essere utilizzato da subito, sino a concorrenza dell’“eccedenza” di imposta italiana riferibile al medesimo Paese estero
creatasi negli 8 esercizi precedenti (“carry
back”);
• può essere riportato per il residuo e utilizzato sino a concorrenza dell’“eccedenza”
di imposta italiana riferibile al medesimo
Paese estero che si genererà negli 8 esercizi successivi (“carry forward”).
I presupposti perché si generi l’“eccedenza”
in commento possono essere ricondotti a due
fattispecie oggi di portata generale, ovvero:
• un livello di tassazione estero superiore a
quello italiano;
• una minor quantificazione del reddito
estero in Italia, se non il suo annullamento integrale. Tipica delle imprese, invece, è
l’ipotesi che il credito d’imposta “virtuale”
tragga origine da un reddito complessivo
inferiore a quello prodotto all’estero, per
il tramite di una stabile organizzazione, a
causa, ad esempio, della presenza di risultati di gestione negativi o, come si scriveva
in precedenza, di perdite pregresse in Italia.
Note operative
Tra gli aspetti di dettaglio, merita di essere
affrontata in primo luogo la questione delle
modalità con le quali si forma l’“eccedenza”
in caso di versamento frazionato nel tempo dell’imposta estera. Il tema viene ripreso
dalla circolare n. 9/2015 che afferma a chiare
lettere la necessità di avere riguardo, per la
determinazione del credito “virtuale”, agli elementi reddituali, alla quota di imposta italiana
e all’imposta netta del periodo di appartenenza del reddito; in tale scenario, continua il documento di prassi, l’“eccedenza” assumerà, ai
fini del riporto, la classe di anzianità del periodo in cui le imposte estere sono state pagate
(par. 7.3.3 e 7.3.4).
Sicuramente di rilievo è poi l’apertura dell’Agenzia delle Entrate circa un uso ponderato
delle perdite pregresse, nella prospettiva di
non annullare del tutto il reddito imponibile di periodo: così facendo, infatti, l’impresa
italiana può far emergere un’imposta italiana, meglio, un “foreign tax credit”, pari alla
tassazione estera, evitando il prodursi di una
qualunque “eccedenza” (par. 7.3.2).
La stessa libertà viene infine riconosciuta in
un’altra ipotesi, ovvero quella per cui il reddito
complessivo sia pari o inferiore a quello este-
15 Ricorda il documento di prassi come in tale scenario, alla luce della precisa lettera della norma, la tardiva presentazione della dichiarazione nei 90 gg. di legge non ha alcun effetto sanante.
75
ro, in ragione, ad esempio, dell’utilizzo nuovamente di perdite pregresse, e quest’ultimo
sia stato prodotto in più Stati. In tale scenario, il “foreign tax credit” non solo risulta pari
all’intera imposta lorda italiana, come scritto
in precedenza, ma funge anche da unico limite di recupero. In questo quadro, la circolare n. 9/2015 (par. 7.3.5) legittima una scelta
del contribuente di recupero della tassazione
estera su base discrezionale: l’impresa nostrana potrà così detrarre le imposte assolte nel
Paese dove è più improbabile che si generi in
futuro un’“eccedenza” di imposta italiana.
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
L’“eccedenza” negativa d’imposta
italiana
76
Il presupposto perché il credito d’imposta
“virtuale” sia recuperato è quello, come detto, che nell’arco temporale oggetto di monitoraggio il contribuente italiano produca nel
medesimo Paese un reddito con un livello di
tassazione italiano superiore a quello locale.
Tale situazione, speculare a quella “iniziale”,
conosce un correttivo introdotto dalla prassi
ministeriale16 al fine di impedire la creazione
di un’“eccedenza” di imposta italiana “fittizia”.
Il caso al quale ci si può riferire è il seguente.
Si ipotizzi un’impresa italiana che produca
all’estero una perdita, per il tramite di una stabile organizzazione, atta a compensare, sino a
concorrenza, un reddito italiano conseguito a
parità di esercizio.
Ove nel periodo d’imposta successivo, la perdi-
ta fosse idonea a compensare un reddito prodotto nel medesimo Stato, si verrebbe a creare
in modo pressoché naturale un’“eccedenza” di
imposta italiana: questo in quanto il reddito
estero verrebbe incluso sic et simpliciter nel
reddito complessivo del contribuente, concorrendo così alla determinazione dell’IRPEF o
dell’IRES di competenza.
Osservando complessivamente il fenomeno, tuttavia, si registrerebbe l’inesistenza di
un’“eccedenza” di imposta italiana su redditi
esteri realmente appresi dal sistema: quella in
oggetto, infatti, sarebbe null’altro che la tassazione relativa ai redditi prodotti nel nostro
Paese nel primo dei due periodi in ipotesi.
Riconoscere in situazioni come quella ora descritta la creazione di un plafond, utile ai fini
del meccanismo regolato dall’art. 165 comma
6 del TUIR, solleverebbe pertanto un rischio
enorme per l’Italia, ovvero quello di finanziare
in toto nel lungo termine (i.e. 8 anni avanti e
8 indietro) il pagamento di imposte estere da
parte del contribuente.
Nella prospettiva di impedire il realizzarsi di
risultati così nefasti per le casse erariali, è
stato quindi introdotto il correttivo cui si faceva cenno in premessa, ovvero il concetto di
“eccedenza negativa” di imposta italiana: tale
grandezza, pari, nei fatti, al risparmio IRPEF
o IRES conseguito in ragione di perdite generate oltreconfine, deve essere memorizzata e
portata in riduzione dell’“eccedenza” positiva
di imposta italiana che si dovesse registrare
in futuro, su redditi prodotti a parità di Stato.
16 Istruzioni ai modelli dichiarativi e da ultimo circolare n. 9/2015, in linea con le raccomandazioni OCSE.
TRIBUTI
GLI EFFETTI FISCALI
DELLE MODIFICHE ALLE REGOLE
CONTABILI SUI DERIVATI
Francesco BONTEMPO
Funzionario del Settore Imposte sui Redditi e sulle Attività Produttive –
Direzione Centrale Normativa Agenzia delle Entrate
La nuova rappresentazione contabile degli strumenti finanziari derivati, contenuta nel DLgs.
139/2015, in attuazione della direttiva 2013/34/UE, identifica i derivati sulla base della definizione di cui allo IAS 39 (integrandola espressamente con il richiamo ai derivati collegati
a materie prime). I soggetti che adottano i principi nazionali, quindi, rileveranno in bilancio
questi strumenti finanziari – e non solo come impegni tra i conti d’ordine – procedendo alla
valutazione degli stessi sulla base del loro fair value. Regole specifiche, ispirate alla tecnica
di cash flow hedging degli IFRS, sono, inoltre, previste per le ipotesi di copertura dei flussi finanziari attesi con conseguente indisponibilità delle relative riserve. La modifiche introdotte
si riflettono sulle modalità di applicazione dell’art. 112 del TUIR, rafforzando indirettamente
l’obiettivo del legislatore fiscale di garantire, in tale materia, identità di trattamento tra le
banche e gli enti finanziari (soggetti che adottano gli IFRS) e le altre imprese (incluse quelle
che non adottano gli IFRS nei propri bilanci).
1
Premessa
Il restyling dei bilanci d’esercizio dei soggetti
che non adottano i principi contabili internazionali IFRS, operato con il DLgs. 18.8.2015
n. 139 – in attuazione della direttiva 2013/34/
UE relativa ai bilanci d’esercizio e consolidati1
– presenta tra le novità di grande rilievo l’identificazione di una precisa modalità di contabilizzazione degli strumenti finanziari derivati.
Chi si “diletterà” a leggere un bilancio, a partire dal 1° gennaio 2016, noterà tra gli asset
delle imprese italiane non IFRS adopter la rilevazione degli strumenti derivati attivi o nella sezione contrapposta gli eventuali derivati
passivi, ritrovandosi tra le rettifiche di valore
del Conto economico la registrazione delle
relative oscillazione di fair value. Ma non
è solo questo l’effetto del recepimento della direttiva bilanci, infatti, tra i fenomeni più
sorprendenti ci sarà la visualizzazione tra le
riserve dello Stato patrimoniale di una riserva
che accoglie le oscillazione del fair value degli
strumenti finanziari detenuti con finalità di
copertura dei flussi finanziari attesi.
Tale nuova rappresentazione contabile che,
prendendo atto dell’evoluzione delle tecniche di
finanza aziendale, rende certamente più realistica la rappresentazione del bilancio dei soggetti che adottano i principi contabili nazionali
comporta, tuttavia, la necessità di esaminare
l’adeguatezza della vigente disciplina fiscale riguardante le “operazioni fuori bilancio” (art. 112
1“[…] recante modifica della direttiva 2006/43/CE e abrogazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, per la parte relativa
alla disciplina del bilancio di esercizio e di quello consolidato per le società di capitali e gli altri soggetti individuati dalla legge”.
77
del TUIR2) al fine di identificare gli effetti sulla
determinazione della base imponibile IRES, sia
della transizione alla nuova rappresentazione
contabile sia del trattamento a regime dei derivati. Le medesime questioni, pur con presupposti
diversi, si pongono in ambito di determinazione
del valore della produzione netta per l’IRAP3.
2
La nuova modalità
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
di rappresentazione
in bilancio
78
Prima di esaminare nel dettaglio gli effetti sulla
disciplina fiscale delle operazioni fuori bilancio,
riportiamo un breve riepilogo della nuova disciplina contabile, rinviando gli approfondimenti
di tali aspetti ad altri interventi di dottrina4.
Per quanto concerne le previsioni riguardanti
gli strumenti finanziari derivati contenute nella direttiva 2013/34/UE5, si possono sinteticamente evidenziare i seguenti macro argomenti:
• l’identificazione;
• le modalità di valutazione.
Con riferimento al primo punto, il comma 2
dell’art. 8, definisce espressamente quali stru-
menti finanziari derivati “quelli collegati a materie prime che conferiscono all’una o all’altra
parte contraente il diritto di procedere alla
liquidazione del contratto per contanti o mediante altri strumenti finanziari6”. Resta, ovviamente, ferma per gli Stati membri la facoltà di
“autorizzare o prescrivere” la rilevazione degli
strumenti finanziari, anche con riferimento
ai derivati, in conformità ai principi contabili
internazionali (art. 8 comma 6 della direttiva).
Passando agli aspetti riguardanti la valutazione, si consente ai singoli Stati di derogare al
criterio del prezzo di acquisto o del costo
di produzione [cfr. art. 6, par. 1, lett. i) della
direttiva] autorizzando o prescrivendo la valutazione al “valore netto”7 di tali strumenti
e prevedendo, qualora tale opzione non sia
adottata, che il valore netto degli strumenti
vada riportato comunque in Nota integrativa.
Muovendosi all’interno di questo framework
contenuto nella direttiva, il legislatore delegato ha operato diverse modifiche al codice
civile ed, in particolare, agli articoli dal 2424
al 2426 dello stesso, al fine di identificare, in
primis, le voci degli schemi di bilancio 8 che,
adesso (o meglio dal 1° gennaio 2016), sono
2 DPR 22.12.1986 n. 917.
3 Ai sensi del DLgs. 15.12.1997 n. 446. In proposito si segnala che gli effetti più rilevanti riguardano i soggetti che
operano nei settori diversi da quelli finanziari ed assicurativi che determinano la propria base imponibile secondo quanto previsto dall’art. 5 del medesimo DLgs. 446/1997.
4 Si rinvia a Latorraca S. “Gli strumenti derivati «entrano» nel bilancio”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.
info, 29.9.2015; Id. “Derivati da rilevare sempre al fair value”, ivi, 5.10.2015.
5 Direttiva (UE) 26.6.2013 n. 34 (G.U. UE 29.6.2013 L-182).
6 Pur prevedendo le seguenti eccezioni, ossia le ipotesi in cui tali contratti: a) siano stati conclusi e siano mantenuti per
soddisfare le esigenze di acquisto, di vendita o di utilizzo previste dall’impresa al momento della loro conclusione
e successivamente; b) siano stati designati sin dall’inizio come contratti relativi alle materie prime; e c) siano prevedibilmente regolati mediante consegna della materia prima.
7 Definizione di valore netto ex art. 8 co. 7 della direttiva 2013/34/UE: “Il valore equo a norma del presente articolo è
determinato con riferimento a uno dei seguenti valori: a) nel caso di strumenti finanziari per i quali sia possibile
individuare facilmente un mercato attendibile, al valore di mercato; qualora il valore di mercato non sia facilmente
individuabile per un dato strumento, ma possa essere individuato per i suoi componenti o per uno strumento analogo,
il valore di mercato può essere derivato da quello dei componenti o dello strumento analogo; b) nel caso di strumenti
finanziari per i quali non sia possibile individuare facilmente un mercato attendibile, al valore che risulta da modelli
e tecniche di valutazione generalmente accettati, purché questi modelli e tecniche di valutazione assicurino una
ragionevole approssimazione al valore di mercato”.
8 Cfr. art. 6 co. 4 del DLgs. 139/2015: “Al primo comma dell’articolo 2424 del codice civile, sono apportate le seguenti modificazioni: […] d) le parole: «4) azioni proprie, con indicazioni anche del valore nominale complessivo;» sono sostituite
dalle seguenti: «4) strumenti finanziari derivati attivi;»; […] f) le parole: «5) azioni proprie, con indicazione anche del
valore nominale complessivo;» sono sostituite dalle seguenti: «5) strumenti finanziari derivati attivi;»; […] a i) le parole:
«2) per imposte, anche differite; 3) altri.» sono sostituite dalle seguenti: «2) per imposte, anche differite; 3) strumenti
destinate ad accogliere gli strumenti finanziari derivati attivi e passivi (nello Stato patrimoniale) e le oscillazione del loro fair value
(nel Conto economico).
Sulla base del nuovo dettato normativo, inoltre, la definizione 9 di strumento finanziario
derivato deve essere estrapolata dai principi
contabili internazionali adottati dall’Unione
europea (ovvero dagli IFRS) includendo, in ottemperanza alla più volte citata direttiva, tra
gli strumenti finanziari derivati “anche quelli collegati a merci”, così come identificati
nella direttiva stessa. In continuità con tale
scelta, anche la modalità di rilevazione dei
derivati, individuata in un apposito numero –
il n. 11-bis dell’art. 2426 c.c. – è ispirata alle
regole contenute nello IAS 39.
Il nuovo n. 11-bis impone l’iscrizione al fair
value degli strumenti finanziari derivati –
anche se incorporati in altri strumenti finanziari – con rilevazione direttamente al Conto
economico delle relative oscillazioni di valore netto. Disposizioni ad hoc bloccano, poi,
la distribuibilità degli utili che derivano da
tale criterio di valutazione per gli strumenti finanziari derivati c.d. speculativi (ossia
quelli, secondo le nuove disposizioni del codice civile, “non utilizzati o non necessari per
la copertura”).
Nell’ipotesi in cui il derivato sia parte di una
strategia di copertura – ferma restando la
sua valutazione con il metodo del valore netto – la nuova formulazione codicistica determina due effetti differenti sulla base della
tipologia di rischio oggetto di copertura:
1.se lo strumento è destinato a coprire il
rischio di variazione dei flussi finanziari
attesi di un altro strumento finanziario (o
di un’operazione programmata), le oscillazioni di valore sono imputate ad una riserva positiva o negativa di patrimonio netto.
Tale riserva dovrà essere imputata al Conto
economico “nella misura e nei tempi corrispondenti al verificarsi o al modificarsi dei
flussi di cassa dello strumento coperto” (o
al verificarsi dell’operazione oggetto di copertura);
2. nell’ipotesi di protezione dal rischio di variazioni dei tassi di interesse o dei tassi
di cambio o dei prezzi di mercato o del
rischio di default, s’impone al redattore
del bilancio di adottare un criterio di valutazione simmetrico che attrae al criterio
utilizzato per lo strumento finanziario gli
elementi oggetto di copertura.
Anche in riferimento alle riserve c.d. cash
flow hedging (punto sub 1) è prevista una disposizione speciale che rende non utilizzabili
ai fini della copertura delle perdite le riserve
di patrimonio positive e, coerentemente, le
riserve di patrimonio negative non considerabili nel computo del patrimonio netto per
le finalità di cui agli artt. 2412, 2433, 2442,
2446 e 2447 c.c.
Solo un cenno, infine, alla nozione di “relazione di copertura” che, secondo le disposizioni
del nuovo codice civile, sussiste “in presenza,
fin dall’inizio, di stretta e documentata correlazione tra le caratteristiche dello strumento o
dell’operazione coperti e quelle dello strumento di copertura”. La rilevazione degli strumenti
finanziari derivati tra le voci di bilancio e la
relativa valutazione, peraltro, non è una novità assoluta per le imprese. Se, infatti, si fa
riferimento ai soggetti operanti nel settore
finanziario, già le disposizioni contenute nel
finanziari derivati passivi; 4) altri.»“; art. 6 co. 6 del DLgs. 139/2015: “All’articolo 2425 del codice civile, sono apportate le
seguenti modificazioni: […] e) dopo le parole: «18) rivalutazioni: a) di partecipazioni; b) di immobilizzazioni finanziarie
che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti all’attivo circolante che non costituiscono partecipazioni;» sono
aggiunte le seguenti: «d) di strumenti finanziari derivati;»; f) dopo le parole: «19) svalutazioni: a) di partecipazioni; b)
di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti nell’attivo circolante che non
costituiscono partecipazioni.» sono aggiunte le seguenti: «d) di strumenti finanziari derivati;» […]”.
9 Previsione riguardante anche la definizione di “attività finanziaria” e “passività finanziaria”, di “strumento finanziario”, di
“costo ammortizzato”, di “fair value”, di “attività monetaria” e “passività monetaria”, “parte correlata” e “modello e tecnica
di valutazione generalmente accettato”.
79
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
80
DLgs. 87/199210 prevedevano la registrazione
di tali strumenti finanziari in bilancio. Rappresentazione confermata ed integrata, a far data
dal 200611, con l’adozione degli schemi ispirati alle regole internazionali IFRS, elaborati
dalla Banca d’Italia secondo quanto disposto
dall’art. 9 del DLgs. 28.2.2005 n. 38.
Per i soggetti diversi dalle banche ed enti finanziari, tuttavia, le regole contabili domestiche –
secondo una disciplina non integralmente definita contenuta negli OIC 22 e 19 – comportavano
esclusivamente la rilevazione dei derivati “sotto
la riga” (per meglio dire, come impegni tra i conti
d’ordine), la registrazione di un accantonamento
ad apposito fondo nell’ipotesi di perdite attese in
base al principio di prudenza e l’imputazione al
Conto economico dei soli fenomeni realizzativi.
In relazione ai soggetti che operano nel settore industriale e non adottano i principi contabili
internazionali IFRS, pertanto, la rilevazione in
bilancio di “nuovi” fenomeni patrimoniali e reddituali determina riflessi, sia sulla determinazione della base imponibile IRES sia in relazione al
calcolo del valore della produzione netta IRAP.
3
L’identificazione delle
operazioni fuori bilancio
Primo effetto da considerare deriva dalla necessità di identificare tra gli strumenti finanziari
derivati detenuti dalle imprese quelli riconducibili alla categoria fiscale delle “operazioni fuori
bilancio”, di cui all’art. 112 del TUIR. Sul piano
fiscale, infatti, l’identificazione delle “operazioni
fuori bilancio” è disciplinata nel comma 1 del citato 112 in cui, in particolare, sono menzionati:
a) i contratti di compravendita non ancora regolati, a pronti o a termine, di titoli e valute;
b) i contratti derivati con titolo sottostante;
c) i contratti derivati su valute 12;
d)i contratti derivati senza titolo sottostante
collegati a tassi di interesse, a indici o ad
altre attività.
Si tratta di un’elencazione che – in linea generale – è stata modellata dal legislatore fiscale
sulla base dei chiarimenti forniti da Banca d’Italia, per i soggetti operanti nel settore finanziario,
già con la circolare n. 166 del 1992; documento
di prassi che, oggi, risulta sostituito dalla circolare 22.12.2005 n. 26213 (al 3° aggiornamento
del 22.12.2014). Ciò rende indispensabile, al fine
di interpretare in maniera sistematica la nozione fiscale di operazione fuori bilancio, integrare
il dato letterale con le definizioni di “operazioni
fuori bilancio” e “derivato finanziario” espressamente riportate nella prassi di Banca d’Italia. In
particolare, dalla circolare n. 262/2005 emerge
che:
• la locuzione “operazioni fuori bilancio” indica l’insieme dei derivati, creditizi14 e finanziari, delle garanzie rilasciate e degli impegni irrevocabili a erogare fondi;
• con il termine “derivati finanziari” si fa riferimento agli strumenti derivati, diversi dai derivati su crediti, come definiti dallo IAS 39.
Prescindendo dalla distinzione tra derivati creditizi e finanziari, quindi, può sinteticamente
affermarsi che il presupposto della disciplina di
vigilanza, da integrare nell’interpretazione della nozione di operazione fuori bilancio fiscale,
sia l’identificazione di ciò che assume la veste
di derivato sulla base della definizione contenuta nello IAS 3915.
10 Il decreto è stato abrogato dall’art. 48 co. 1 del DLgs. 18.8.2015 n. 136, in G.U. 1.9.2015 n. 202, a decorrere dal 16.9.2015.
11 Su base opzionale del 2005.
12 Il trattamento fiscale di questi strumenti deve essere coordinato con la disciplina per le operazioni in valuta di cui
all’art. 110 del TUIR.
13 Disponibile in Banca Dati Eutekne.
14 Con il termine “derivati creditizi” si indicano quei contratti derivati che perseguono la finalità di trasferire il rischio di
credito sottostante a una determinata attività (c.d. “reference obligation”) dal soggetto che acquista protezione
(c.d. “protection buyer”) al soggetto che vende protezione (c.d. “protection seller”).
15 In particolare nei paragrafi destinati alle “definizioni” dello IAS 39, sono previsti tre requisiti per identificare un derivato:
“(a) il suo valore cambia in relazione al cambiamento in un tasso di interesse, prezzo di uno strumento finanziario, prez-
Si tratta delle medesime fondamenta della nuova modalità di rappresentazione contabile. Come
già accennato, infatti, dalle disposizioni del DLgs.
139/2015 si evince come la qualificazione di uno
strumento finanziario derivato deve determinarsi in base alla nozione indicata nei principi contabili internazionali IFRS.
Considerate queste premesse, in linea di principio, non sono rinvenibili aree di non coincidenza
tra i due insiemi, quello contabile e quello fiscale,
che identificano le operazioni fuori bilancio (gli
strumenti finanziari derivati). Ciò ha un effetto
più ampio sul sistema paese poiché si determina
un allineamento “nozionale” per tutti gli operatori economici, sia essi IFRS o ITA gaap adopter:
in sintesi, in bilancio ed al momento dell’applicazione della disciplina fiscale ciò che è
derivato lo si stabilisce sulla base di un’unica
definizione.
Provando ad aggiungere ulteriori spunti di
analisi, l’inclusione tra i derivati degli strumenti collegati a materie prime che conferiscono
all’una o all’altra parte contraente il diritto di
procedere alla liquidazione del contratto per
contanti o mediante altri strumenti finanziari
non incide sulle conclusioni appena descritte,
poiché si tratta di una tipologia di operazioni già incluse tra quelle fuori bilancio di cui
all’art. 112 del TUIR.
Diversamente, presenta profili di criticità interpretativa, che per esigenze di spazio non
possono essere oggetto del presente testo, l’inclusione tra la categoria dei derivati di quelli
incorporati in altri strumenti finanziari, c.d.
embedded derivatives. A tal riguardo, infatti,
si pone una questione ben nota ai soggetti
che determinano il proprio reddito sulla base
delle risultanze di un bilancio IFRS compliant,
riguardante l’impossibilità di dare rilievo fiscale – in assenza dell’adozione del principio
di derivazione rafforzata (art. 83 post modifiche finanziaria 2008) – alla rappresentazione
sostanziale nella misura in cui, sulla base di
quest’ultima, si estrapola un derivato incorporato da uno strumento finanziario (o da un
unico contratto) costituente un unicum sul
piano giuridico.
4
Gli effetti sull’azienda
fiscale della transizione
alla nuova modalità
di rappresentazione
contabile
La rilevanza tra gli asset della teorica azienda fiscale degli strumenti finanziari derivati,
ed il conseguente trattamento delle relative
componenti di origine valutativa e da realizzo, è stata nel tempo disciplinata da apposite
norme fiscali. Prima sulla scorta dell’art. 103bis del vecchio TUIR – norma il cui ambito di
applicazione era inizialmente circoscritto ai
soggetti operanti nel settore finanziario e poi
è stato esteso anche agli altri operatori economici16 – e, successivamente, dall’art. 112 del
nuovo TUIR, articolo riscritto ulteriormente a
seguito della riformulazione della disciplina ri-
zo di una merce, tasso di cambio in valuta estera, indice di prezzi o di tassi, merito di credito (rating) o indici di credito
o altra variabile […]; (b) non richiede un investimento netto iniziale o richiede un investimento netto iniziale che sia
minore di quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti da cui ci si aspetterebbe una risposta simile a cambiamenti
di fattori di mercato; e (c) è regolato a data futura”.
16 L’evoluzione della disciplina fiscale può essere cosi schematizzata: dal 1994, solo per gli enti finanziari, con le modifiche
apportate con DL 29.6.1994 n. 416, conv. L. 8.8.1994 n. 503, introducendo nel TUIR l’art. 103-bis al fine di eliminare il
doppio binario civilistico-fiscale derivante dalla redazione del bilancio, secondo quanto disposto dal DLgs. 87/1992, si
prevede la rilevanza dei componenti derivanti dalla valutazione dei derivati; successivamente, l’ambito soggettivo dell’art.
103-bis venne esteso a tutte le imprese commerciali e industriali, imponendo una valutazione di natura solo fiscale dei
derivati con la registrazione degli effetti, restando fermo il rispetto dell’art. 109 del TUIR (certezza e oggettiva determinabilità ed imputazione); con il DLgs. 344/2003, l’art. 103-bis venne sostituito dall’art. 112 del TUIR, il quale non prevedeva
nella sua prima formulazione alcun obbligo di valutazione dei derivati; con le modifiche operate nel DLgs. 38/2005 dalla
L. 24.12.2007 n. 244 (legge finanziaria 2008), si arriva all’attuale formulazione che contiene la disciplina applicabile a tutti
i contribuenti (enti finanziari e non) a prescindere dall’obbligo di applicazione dei principi contabili internazionali nella
redazione del bilancio.
81
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
82
guardante le operazioni fuori bilancio operata
con le norme contenute nel DLgs. 38/200517.
Per i soggetti che operano nei settori vigilati dalla Banca d’Italia il riconoscimento degli effetti della rappresentazione contabile
dei derivati ha, quindi, “da sempre” assunto
rilievo fiscale secondo la disciplina speciale
indicata nei citati articoli del TUIR. Per coloro
che non rientrano in tale alveo ma che hanno
adottato i principi contabili internazionali, la
rilevanza fiscale dei derivati rilevati in bilancio è stata riconosciuta parimenti secondo le
previsioni ad hoc contenute nell’art. 103-bis
e, successivamente, in base al riconoscimento
delle qualificazioni, classificazioni ed imputazioni temporali di bilancio secondo quanto
disposto dall’art. 83 del TUIR (principio di derivazione rafforzata).
Circoscrivendo l’esame ai soggetti industriali e
commerciali che non hanno optato per redigere i propri bilanci secondo gli IFRS, emerge
come la transizione alla nuova modalità di rappresentazione contabile18 potrebbe comportare
per la teorica azienda fiscale due situazioni opposte. Quest’ultima, infatti, potrebbe ritrovarsi
“arricchita” riflettendo la presenza di derivati
registrati nell’attivo di bilancio oppure, il patrimonio fiscale potrebbe subire una riduzione a
causa del riverbero dell’iscrizione nel passivo di
uno strumento finanziario derivato.
Si tratta, a dire il vero, di fenomeni derivanti
dalla transizione a regole contabili diverse
(o generati a seguito di modifiche al criterio
di rappresentazione contabile) i cui effetti
fiscali sono di norma espressamente disciplinati da specifiche disposizioni, con un’impostazione di sostanziale sospensione degli
effetti sulla determinazione delle basi imponibili (neutralità fiscale). Nel caso, ad esempio, dell’adozione degli IFRS, gli effetti fiscali
della first time adoption sono stati sterilizzati,
in linea di principio, dalle norme contenute
nell’art. 13 del DLgs. 38/2005 e ulteriormente
calmierati mediante l’istituzione di un apposito regime transitorio, quello, regolamentato
con l’art. 15 del DL 185/2008.
Ferma restando la necessità di valutare le
modalità contabili con cui avverrà la predetta transizione, in assenza di una regola
fiscale che neutralizzi i predetti effetti, sembra plausibile ritenere che la registrazione di
un derivato di natura speculativa dell’attivo
dello Stato patrimoniale comporti l’assoggettamento a tassazione dei valori d’iscrizione,
con conseguente riconoscimento del costo
fiscale dello strumento, ai sensi dell’art. 110
del TUIR (come, peraltro, la rilevazione di un
derivato passivo della medesima categoria
andrebbe a garantire la rilevanza del componente negativo iscritto in contropartita ed il
riconoscimento del relativo valore fiscale dello strumento). Si tratta di effetti che in talune
ipotesi potrebbero riguardare anche i derivati
posseduti con finalità di copertura19.
Ciò detto, tuttavia, la clausola di invarianza finanziaria disciplinata con l’art. 11 del
DLgs. 139/2015, come chiarito nella relazione illustrativa al provvedimento, impone che
dall’attuazione del provvedimento non debbano “derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Gli effetti appena
accennati, dunque, non potrebbero mai essere coerenti con un tale previsione normativa,
con la conseguente necessità di predisporre
un percorso interpretativo che individui un
regime transitorio finalizzato a depurare i valori fiscali dei derivati iscritti in bilancio dagli effetti della transizione, determinando un
doppio binario tra valori contabili e fiscali de
gestire negli anni futuri.
17 L’art. 11 co. 1 lett. f) del DLgs. 38/2005 provvede alla riformulazione dell’art. 112 del TUIR disciplinante le c.d. “operazioni fuori bilancio”.
18 Qualora, invece, l’impresa avesse sempre valutato in bilancio gli strumenti finanziari derivati che ha in possesso, la
transizione non risulta generatrice di effetti sulla determinazione della base imponibile.
19 A titolo esemplificativo si può far riferimento a quegli strumenti finanziari derivati destinati a coprire attività/passività
dell’impresa, rispetto ai quali i fenomeno di ordine valutativo assumono rilievo ai fini fiscali.
5
I riflessi sul trattamento
fiscale dei derivati
di copertura
Definito l’aggregato contabile e fiscale costituito dagli strumenti finanziari derivati e gli
effetti della transizione, per applicare in maniera corretta la disciplina fiscale è necessario
distinguere i derivati sulla base della finalità
per cui l’impresa acquista tali prodotti, ossia
è necessario identificare le ipotesi in cui
si è in presenza di operazioni con finalità
di copertura o con fini speculativi. Ciò avrà
effetto sul trattamento fiscale dei fenomeni
di origine valutativa e delle componenti derivanti dal realizzo.
Il primo step è individuare la nozione fiscale di
relazione di copertura. Per i soggetti che non
adottano gli IFRS, la disciplina fiscale definisce
la finalità di copertura focalizzandosi sullo scopo della stessa, indipendentemente, dall’efficacia (c.d. copertura gestionale). Infatti, secondo
quanto previsto nel comma 6 dell’art. 112 del
TUIR, si considerano con finalità di copertura
quelle operazioni che hanno lo scopo di proteggere dal rischio di avverse variazioni dei tassi di
un indicatore (tasso di interesse, tassi di cambio
o prezzi di mercato) “il valore di singole attività
o passività in bilancio o «fuori bilancio»”.
Ai fini della rappresentazione di bilancio, invece, come accennato nel paragrafo introduttivo
sulle novità contabili, sussiste una relazione di
copertura qualora esista una stretta correlazione tra le caratteristiche dello strumento (o
dell’operazione coperta) ed il derivato stesso.
Tale circostanza deve, ovviamente, essere documentata ed, inoltre, deve esistere sin dall’inizio
dell’operazione.
Un confronto di natura sostanziale tra le due definizioni di relazione di copertura non comporta
situazioni di divergenza tra la qualificazione contabile di operazione di copertura e quella fiscale.
È palese, infatti, che un’impresa che acquista sul
mercato un interest rate swap che ha lo scopo
di coprire, ad esempio, dal rischio di oscillazione
dei tassi di interesse di mercato un prestito obbligazionario emesso a tasso variabile, si premuri
di acquistare uno strumento che (fin dall’inizio)
abbia caratteristiche strettamente correlate con
la passività che si vuole proteggere dal rischio
di oscillazione dei tassi di interesse (ad esempio,
valore nozionale, durata, elementi di determinazione del tasso). Quanto detto, risulterà di certo
documentabile dalle informazioni di cui deve essere in possesso ogni consumatore, già in sede di
acquisto di uno strumento finanziario.
Detto ciò, le ipotesi in cui potrebbe accadere che
non ci sia coincidenza tra la qualificazione di
copertura contabile rispetto a quella fiscale appaiono del tutto marginali, si tratterebbe, infatti,
dei casi un cui tale stretta correlazione tra le caratteristiche di strumento derivato e attivo/passivo coperto non possa considerarsi tale perché:
• non può essere opportunamente documentata;
• le caratteristiche degli strumenti sono totalmente o considerevolmente difformi;
• si realizza in un fase successiva dell’avvio
dell’operazione a seguito di modifiche subite o dalle caratteristiche del derivato o
degli attivi/passivi oggetto di copertura.
Le conseguenze fiscali dell’identificazione della
relazione di copertura sono disciplinate da una
regola generale contenuta nel comma 4 dell’art.
112 del TUIR, nel quale, in particolare, si declina
il principio fiscale di valutazione simmetrica,
prevedendo che i componenti positivi e negativi derivanti da valutazione o da realizzo di un
derivato di copertura concorrono a formare il
reddito “secondo le medesime disposizioni che
disciplinano i componenti positivi e negativi, derivanti da valutazione o da realizzo, delle attività
o passività rispettivamente coperte”. In dichiarazione, a differenza di quanto avviene in bilancio,
sarà il criterio di valutazione del derivato ad essere attratto alla disciplina fiscale prevista per le
componenti da valutazione degli attivi o passivi
(o derivati) oggetto di copertura. Peraltro, il medesimo effetto si applica anche alle componenti
reddituali derivanti da fenomeni realizzativi.
Anche sul fronte bilancio, nell’ipotesi di protezione dal rischio di variazioni dei tassi di
interesse o dei tassi di cambio o dei prezzi
di mercato o dal rischio di default, la sussistenza di una relazione di copertura, determi-
83
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
84
na l’applicazione di un principio di valutazione
simmetrica tra derivato e attività/passività oggetto di copertura. Tuttavia, la disciplina contabile impone che gli attivi o passivi di bilancio
ad essere ricondotti alla modalità di valutazione del derivato, ossia gli elementi coperti dovranno essere valutati al loro valore netto.
Stesso principio, valutazione simmetrica tra strumento di copertura ed elemento coperto, ma con
un driver diverso. Ciò determina quale effetto
sulla disciplina fiscale, come già ordinariamente
avviene per i soggetti che adottano in bilancio
gli IFRS, la creazione di un doppio binario permanente, in tutte le ipotesi in cui la valutazione al
fair value degli attivi/passivi oggetto di copertura
sia sterilizzata da apposite norme fiscali20.
All’interno di questo quadro generale che disciplina le regole di valutazione degli strumenti
finanziari derivati e dei sottostanti, già in bilancio, è stata introdotta una modalità specifica
di rappresentazione contabile delle operazioni
in cui lo strumento è destinato a coprire il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi
di un altro strumento finanziario (o di un’operazione programmata21). Sul piano contabile
s’introduce una rappresentazione “simile” alla
tecnica di cash flow hedging, con la rilevazione
in una riserva patrimoniale delle oscillazioni del
fair value del derivato che, come per i soggetti
che adottano i principi contabili internazionali,
“rigira” al Conto economico nella misura e nei
tempi corrispondenti al verificarsi dei flussi di
cassa dello strumento coperto.
Si tratta di una rappresentazione contabile, i
cui riflessi fiscali sono stati già disciplinati con
le modifiche apportate all’art. 112 del TUIR
mediante il DLgs. 38/2005. In tale circostanza,
avendo riguardo ai soggetti IFRS, è stato formulato il comma 5, disponendo per le operazioni
poste in essere con finalità di copertura dei rischi relativi ad attività e passività produttive
di interessi che, “i relativi componenti positivi e
negativi concorrono a formare il reddito, secondo
lo stesso criterio di imputazione degli interessi”.
Da questo dato letterale, promanano due effetti
principali. Il primo riguarda l’irrilevanza fiscale
dei plusvalori o minusvalori iscritti nella c.d. riserva da cash flow hedging, con la creazione di
un doppio binario tra valori contabili e fiscali22. Il
secondo è costituito dall’applicazione ai componenti imputati al Conto economico (al verificarsi
dei flussi di cassa) della disciplina fiscale prevista per gli interessi passivi. In estrema sintesi, in
presenza di una relazione di copertura, i flussi
del derivato, che è destinato a coprire flussi finanziari attesi, concorreranno alla formazione
del reddito imponibile al momento in cui sono
rilevati gli interessi dello strumento coperto
e, come precisato nella circolare Agenzia Entrate
21.4.2009 n. 19, secondo le modalità di deduzione contenute nell’art. 96 del TUIR.
6
I riflessi sul trattamento
fiscale dei derivati
speculativi
Con riferimento ai derivati posseduti con finalità
speculativa, la disciplina fiscale, individuabile al
comma 2 dell’art. 112 del TUIR, prevede espressamente la rilevanza dei componenti positivi e
negativi di origine valutativa (per le operazioni in corso alla data di chiusura dell’esercizio).
L’art. 112 estende, in linea di principio, anche
20 Il doppio binario permane anche in relazione ai fenomeni di natura realizzativa qualora gli attivi oggetto di copertura
possiedano i requisiti per accedere al regime di esenzione della pex di cui all’art. 87 del TUIR.
21 Secondo le definizioni contenute nello IAS 39, una operazione programmata “è una anticipata operazione futura per
la quale non vi è un impegno”. In assenza di apposito rinvio nel testo del DLgs. 139/2015 sarà necessario valutare
se tale definizione sia conforme al framework dei principi contabili nazionali.
22Circostanza meno rilevante per i soggetti diversi dagli IFRS adopter, per i quali non è espressamente prevista la
rilevanza delle imputazioni di componenti reddituali nello Stato patrimoniale; cfr. art. 109 co 4. Tale irrilevanza a fini
della determinazione della base imponibile IRES, peraltro, risulta coerente con il trattamento contabile della riserva
di cui si tratta che, come detto, non è tra quelle “disponibili” se di segno positivo e non impone obblighi di ricapitalizzazione, qualora presenti segno negativo.
agli effetti di quantificazione la rilevanza ai fini
dell’IRES dei componenti di natura realizzativa.
Occorre, tuttavia, considerare che gli effetti sul
reddito imponibile delle riduzioni di valore dei
derivati, con le norme di cui al comma 3, sono
calmierati mediante una forfetizzazione della
deducibilità sulla base di un parametro collegato
alla differenza tra il valore del contratto o della
prestazione alla data della stipula o a quella di
chiusura dell’esercizio precedente e il corrispondente valore alla data di chiusura dell’esercizio23.
Le novità contabili in tema di strumenti finanziari derivati detenuti con finalità diverse dalla
copertura, come già accennato, prevedono la
valutazione secondo il criterio del valore netto
e la contestuale registrazione delle oscillazioni
del valore in apposite voci del Conto economico.
La natura di norma di derivazione piena dei
commi dell’art. 112 del TUIR (ad eccezione dei
limiti alla deducibilità delle valutazioni negative) che disciplinano il trattamento fiscale
delle componenti di origine valutativa e da
realizzo dei derivati speculativi, non genera
particolari criticità di natura fiscale in relazione agli effetti della nuova rappresentazione contabile di questa categoria di derivati.
7
Brevi cenni ai riflessi
sulla determinazione
del valore della produzione
netta IRAP
L’evoluzione subita dalla disciplina IRAP, a
partire dalle modifiche apportate nel 200824,
si caratterizza per lo sganciamento della determinazione del valore della produzione netta
dalle regole previste nel TUIR per l’IRES (c.d.
principio di presa diretta dal bilancio) ed il
rinvio a specifiche voci del Conto economico,
redatto secondo le norme del codice civile, per
l’identificazione delle componenti rilevanti.
Tale impianto di base deve essere integrato con
i numerosi chiarimenti contenuti nella prassi
dell’Amministrazione finanziaria che, con una
interpretazione di carattere sistematico, hanno
disciplinato alcuni aspetti che la norma primaria non ha regolamentato nel dettaglio25.
Ciò detto, appare chiaro che, per quanto concerne l’identificazione degli strumenti finanziari derivati, la presa diretta dal bilancio orienta la qualificazione dei derivati e la loro inclusione nella
categoria dei derivati con finalità di copertura o
speculativa esclusivamente sulla base delle risultanze di bilancio. Anche in ambito IRAP, tuttavia,
si possono riproporre le criticità interpretative riguardanti determinazione del valore fiscale degli
strumenti derivati a seguito della transizione26.
Le modifiche alle voci di bilancio di cui all’art.
2425 c.c. prevedono l’indicazione delle rivalutazioni e delle svalutazioni di strumenti
finanziari derivati espressamente alle voci
D.18, lett. d) e D.19, lett. d). Per i soggetti che
determinano il valore della produzione netta
secondo quanto disposto all’art. 5 del DLgs.
446/1997, si tratta di voci non rilevanti ai
fini IRAP, in quanto non incluse tra quelle
espressamente menzione dalla norma27.
23 Cfr. art. 112 co. 3 del TUIR: “[…] Per la determinazione di quest’ultimo valore, si assume: a) per i contratti uniformi a
termine negoziati in mercati regolamentari italiani o esteri, l’ultima quotazione rilevata entro la chiusura dell’esercizio;
b) per i contratti di compravendita di titoli il valore determinato ai sensi delle lettere a) e b) del comma 4 dell’articolo 94;
c) per i contratti di compravendita di valute, il tasso di cambio a pronti, corrente alla data di chiusura dell’esercizio, se si
tratta di operazioni a pronti non ancora regolate, il tasso di cambio a termine corrente alla suddetta data per scadenze
corrispondenti a quelle delle operazioni oggetto di valutazione, se si tratta di operazioni a termine; d) in tutti gli altri
casi, il valore determinato secondo i criteri di cui alla lettera c) del comma 4 dell’articolo 9”.
24 Rif., L. 244/2007 (legge finanziaria 2008).
25 Tra le più rappresentative si ricordano le circolari Agenzia Entrate 26.5.2009 n. 27; 22.7.2009 n. 39; 19.5.2010 n. 25;
20.6.2012 n. 26.
26 V. il precedente § 4.
27 Cfr. art. 5 del DLgs. 446/1997 “la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore e i costi della produzione
di cui alle lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile, con esclusione delle voci di cui ai numeri 9), 10), lettere
c) e d), 12) e 13), così come risultanti dal conto economico dell’esercizio”.
85
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
86
Per i citati soggetti, quindi, i fenomeni di origine
valutativa non influenzano la base imponibile
IRAP, proprio perché rilevati in bilancio in voci
che non concorrono alla determinazione del valore della produzione netta, con la conseguenza che le nuove modalità di rappresentazione
contabile non incidono sull’IRAP. Alle medesime conclusioni si può giungere in relazione alla
registrazione contabile delle operazioni in cui
lo strumento è destinato a coprire il rischio di
variazione dei flussi finanziari attesi di un altro
strumento finanziario (o di un’operazione programmata). Diversamente, potrebbe generare riflessi sulla determinazione della base imponibile
IRAP il trattamento contabile dei derivati oggetto di relazioni di copertura di attività o passività
le cui componenti reddituali appartengono all’area caratteristica del Conto economico28.
8
Riflessioni conclusive
La diffusione degli strumenti finanziari per la
gestione del rischio ha fatto emergere la necessità di disciplinare la loro corretta rappresentazione in bilancio. Tale processo evolutivo risulta oggi concluso, mediante l’esercizio
di una delle facoltà previste dalla direttiva bilanci, con il recepimento di una rappresentazione per molti aspetti simile a quella prevista
dai principi contabili internazionali IFRS.
La medesima esigenza di regolamentazione ha
interessato nel tempo anche il sistema fiscale,
innescando un processo di modifica della disciplina riguardante le operazioni fuori bilancio che
si sarebbe dovuto considerare concluso con la
riscrittura dell’art. 112 del TUIR, operata con il
DLgs. 38/2005. Infatti, pur presupponendo rap-
presentazioni contabili non identiche tra gli operatori economici, con tale decreto, come emerge
dalla relazione illustrativa, l’art. 112 è stato riformulato “per ragioni di ordine sistematico e di
coordinamento […]”, al fine di:
• eliminare la distinzione tra disciplina applicabile alle banche e alle altre imprese relativamente al trattamento fiscale dei
contratti derivati come risultanti in bilancio;
• estendere il principio valutazione simmetrica delle componenti da valutazione
e realizzo relative ai derivati di copertura
con le corrispondenti componenti positive
e negative, da valutazione o da realizzo,
derivanti dalle attività o passività coperte;
• disciplinare, con il comma 5, in modo coerente con i principi contabili internazionali, il concorso alla formazione del reddito
dei risultati della valutazione secondo la
tecnica della cash flow hedge.
I riflessi delle nuove modalità di rappresentazione contabile sulla determinazione della
base imponibile IRES, come già ampiamente
descritto, contribuiscono al raggiungimento
degli obiettivi della norma fiscale del 2005.
Tuttavia, le criticità non possono considerarsi del tutto eliminate, in quanto ne emergono
di nuove derivanti, ad esempio, dagli effetti
dell’identificazione dei derivati incorporati o
del trattamento contabile della transizione; si
ripropongono, inoltre, i fenomeni di disallineamento tra il dato contabile e fiscale, già presenti per i soggetti IFRS adopter. Ai fini IRAP,
invece, i riflessi delle nuove disposizioni contabili appaiono meno rilevanti in tutte quelle
ipotesi in cui incidono su voci di bilancio non
incluse nella determinazione del valore della
produzione netta.
28 Permane, infatti, nonostante le nuove modalità di rappresentazione dei derivati connessi a materie prime, la criticità
riguardante la natura (finanziaria o meno) delle componenti relative ai derivati che sono oggetto di relazioni di copertura
di attivi o passivi inclusi nella gestione caratteristica delle imprese industriali (c.d. derivati su commodities).
TRIBUTI
LA PERFORAZIONE DEI MARI OLTRE
LE 12 MIGLIA NON CONFIGURA
STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA
Marco MARANI
Avvocato - Senior Manager Studio Legale Tributario EY
Nei meandri dei risvolti che regolano la tassazione in Italia dei soggetti non residenti, negli
ultimi tempi sta venendo alla ribalta il tema della configurabilità, quale stabile organizzazione, della piattaforma dedita all’attività di perforazione del fondo marino. In assenza di
una convenzione contro le doppie imposizioni, per norma interna il reddito di impresa è
assoggettato a tassazione in Italia solo se l’attività è resa dentro le 12 miglia marine dalla
costa. La previsione di extraterritorialità prevista dall’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR può
infatti riguardare solo il soggetto titolare dei permessi di ricerca in mare, e non anche il
trivellatore.
1
Premessa
Il tema della stabile organizzazione costituisce una delle problematiche più complesse
nell’ambito del diritto tributario internazionale,
sia per quanto riguarda la difficoltà di coniugare le definizioni normative con un concetto in
continua evoluzione, che per i numerosi aspetti
operativi che vengono nel tempo a presentarsi.
L’intera rivista non basterebbe per trattare i soli
aspetti principali che ruotano attorno al concetto di stabile organizzazione, figuriamoci un
solo articolo.
Un caso affrontato nella pratica professionale, riguardante l’attività di perforazione del
fondo marino ad opera di un soggetto non residente (c.d. driller), offre lo spunto per spendere qualche considerazione su un argomento
specifico.
Vale a dire sino a dove lo Stato italiano può,
dal punto di vista territoriale, esercitare il
proprio potere impositivo sul profitto ritratto da un non residente dall’attività di
perforazione (c.d. drilling services) del fondo.
La scoperta di giacimenti petroliferi e gassosi
nei mari antistanti le coste italiane sta incrementando commesse avviate dalle società titolari dei permessi di ricerca in mare.
A queste commesse, solitamente avviate tramite gare, partecipano, tra le altre, le società
dedite all’attività di perforazione del fondo marino, le maggiori delle quali sono non
residenti in Italia, o meglio residenti in paradisi fiscali privi di accordi contro le doppie
imposizioni con l’Italia.
Le attività di perforazione sono eseguite tramite piattaforme (c.d. jack-up) o apposite imbarcazioni di rilevanti dimensioni (c.d. drilling rig),
con personale proprio e per periodi di tempo più
o meno prolungati.
Ricondotto il reddito spettante a tali soggetti
87
nell’ambito della categoria fiscale del reddito
di impresa, e dando per scontata la presenza di una stabile organizzazione 1, il luogo
di esecuzione della perforazione è determinante per capire se lo Stato italiano può, o
meno, esercitare il proprio potere impositivo
su detto reddito d’impresa.
Tutto ruota attorno alla definizione del “territorio dello Stato” ed alla combinazione
interpretativa tra il comma 1 ed il comma 2
lett. f) dell’art. 162 del TUIR.
2
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
La definizione di stabile
organizzazione nel TUIR
88
La definizione generale
Come noto, l’art. 162 comma 1 del TUIR contiene una definizione di stabile organizzazione sostanzialmente coincidente con quella
dell’art. 5 del Modello OCSE di convenzione
contro le doppie imposizioni sul reddito.
Ai sensi del predetto comma 1 “l’espressione
stabile organizzazione designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa
non residente esercita in tutto o in parte la
sua attività sul territorio dello Stato”.
Dalla definizione riportata la configurabilità
di una stabile organizzazione presuppone la
contemporanea sussistenza di tre requisiti:
1. l’esistenza di una sede di affari (c.d. place of
business), cioè locali o luoghi (c.d. premises)
di cui la società estera abbia la disponibilità
a qualunque titolo ovvero, in determinate
ipotesi, macchinari o apparecchiature;
2.la tendenziale fissità spaziale e temporale
della sede, che deve essere, in linea di principio, stabilita in un luogo individuato con
un certo grado di permanenza (c.d. distinct
place with a certain degree of permanence);
3.lo svolgimento dell’attività d’impresa at-
1 Da un punto di vista prettamente fiscale, con un soggetto estero paradisiaco, la soluzione della stabile organizzazione si fa
preferire rispetto all’incorporazione di una vera e propria controllata. Si tratta di un argomento che ho recentemente trattato
in “Interessi «virtuali» della stabile organizzazione italiana senza ritenuta”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.
info, 9.11.2015. Sui componenti di reddito (siano dividendi, royalties o interessi) in uscita dall’Italia verso un paradiso fiscale,
una controllata si troverebbe ad applicare le ritenute previste dalla normativa interna in misura piena, senza fruire di esenzioni o di riduzioni d’aliquota. In caso di stabile organizzazione, anzitutto è nota l’assenza di ritenute sui profitti che la stessa
rimette alla casa madre estera (c.d. remittance of profit) ancorché questa sia residente in un Paese non white listed. Meno
pacifica è invece la soluzione applicabile per gli interessi figurativi allocati dalla casa madre estera sulla stabile organizzazione
italiana. La questione dell’assoggettamento a ritenuta in Italia degli interessi figurativi allocati sulla stabile italiana, nel non
esser disciplinata da una norma interna o trattata in un documento ufficiale di prassi, è contesa tra due diverse tesi. Da un
lato vi è chi è favorevole al prelievo fiscale alla luce di un generale obbligo di sostituzione di imposta in capo alle stabili.
Secondo tale tesi, anche nei finanziamenti interni tra casa madre estera e stabile italiana interverrebbe una vera e propria
corresponsione degli interessi, al ricorrere del quale l’art. 26 co. 3 del DPR 600/1973 fa scattare la ritenuta. A ciò viene aggiunto il pensiero secondo il quale la deducibilità in campo alla stabile e l’imponibilità degli interessi figurativi in capo alla casa
madre andrebbero di pari passo. A tale tesi se ne contrappone una diversa, sulle seguenti considerazioni. La prima fa perno
attorno al profilo civilistico della stabile organizzazione. La stabile, pur essendo fonte autonoma di produzione del reddito
nello Stato in cui è localizzata, è priva di un’autonoma soggettività giuridica distinta da quella della casa madre estera, motivo
per cui un’attività intra- soggettiva (qual è l’allocazione di un debito ad una propria articolazione estera) confliggerebbe con
il concetto di corresponsione. Un ulteriore spunto viene tratto dall’art. 26 co. 5 del DPR 600/1973 ove è disposta l’applicabilità
della ritenuta anche per gli interessi “corrisposti a stabili organizzazioni estere di imprese residenti, non appartenenti all’impresa erogante”. Come chiarito dalla relazione governativa al DL 323/1996 istitutivo il co. 5, la previsione non è applicabile ai
redditi corrisposti dalla “casa madre ad un’articolazione estera del medesimo soggetto giuridico”, ritenendosi tale previsione
applicabile anche al caso opposto, in cui è la stabile che eroga il reddito a favore della propria casa madre. Altra considerazione
viene tratta dall’art. 64 co. 1 del DPR 600/1973 che dispone l’obbligo di rivalsa per chi (il sostituto), in forza di disposizioni
di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri (il sostituito). La sostituzione di imposta necessita una dualità
giuridica dei soggetti, mentre nel caso di specie si è di fronte ad un unico soggetto giuridico, costituito da casa madre e stabile
organizzazione, per cui accedere alla tesi dell’assoggettabilità a ritenuta vorrebbe dire ammettere che il sostituto di imposta
sia obbligato ad applicare la ritenuta a se stesso (coincidendo con il sostituito). Ed ancora, in chiave internazionale, il § 3.4.1
del Report della Commissione UE dell’aprile 2009 di proposta di modifica della direttiva c.d. interessi & royalties (recepita in
Italia nell’art. 26-quater d del DPR 600/1973) si proponeva di esplicitare l’applicabilità dell’esenzione anche agli “actual or
notional payments between a head office and a PE, or between two PEs of the same company”, indirizzandosi dunque verso
la tesi dell’esenzione da ritenuta sui pagamenti figurativi tra la stabile e la casa madre estera.
traverso tale base fissa (o comunque nello
Stato in cui la base è situata).
Il tutto deve avvenire, come espressamente richiesto dal comma 1, “sul territorio dello Stato”,
e ciò è coerente con il principio di territorialità
fissato dall’art. 23 comma 1 lett. e) del TUIR, a
mente del quale il reddito di impresa di un soggetto non residente è soggetto ad imposizione
in Italia a condizione che lo stesso sia derivante
da attività esercitate “nel territorio dello Stato”
mediante una stabile organizzazione.
Relativamente al requisito della fissità temporale della sede, l’art. 162 comma 1 del TUIR
non prevede un limite temporale di permanenza al di sotto del quale può essere esclusa l’esistenza di una stabile organizzazione.
Il Commentario al Modello OCSE precisa che
la sede di affari, per essere considerata stabile organizzazione, deve avere un certo grado
di permanenza, nel senso che non deve avere
natura puramente temporanea.
Nello stesso tempo ammette però la possibilità
che sia configurabile una stabile organizzazione quando la sede fissa è utilizzata per un breve periodo di tempo in quanto l’attività esercitata – per mezzo di detta base fissa – necessita
di essere svolta in un breve arco temporale2.
Il medesimo Commentario precisa inoltre che
la durata di 6 mesi, adottata da diversi Stati quale termine minimo di permanenza per
configurare l’esistenza di una stabile organizzazione, non può essere considerata in senso
assoluto in quanto la prassi seguita dagli Stati
non è omogenea. Il termine di 6 mesi va quindi
piuttosto considerato come un’indicazione di
massima, idonea ad essere adattata qualora le
circostanze lo richiedano.
Posta l’assenza di un termine minimo di permanenza nella norma nazionale (così come
nel Modello OCSE nonché nelle Convenzioni
stipulate dall’Italia) occorre quindi procedere
ad una analisi c.d. case by case.
La c.d. positive list ed il suo
rapporto con la definizione
generale
L’esame del comma 1 non esaurisce l’ambito
di indagine poiché la stabile organizzazione
c.d. materiale si struttura in una definizione
generale (comma 1) ed in una esemplificazione positiva (comma 2), tra loro collegate.
L’art. 162 comma 2 del TUIR 3 reca infatti un
elenco di installazioni costituenti prima facie
una stabile organizzazione materiale.
Ai sensi della predetta disposizione, infatti,
l’espressione stabile organizzazione “comprende in particolare:
a) una sede di direzione;
b) una succursale;
c) un ufficio;
d) un’officina;
e) un laboratorio;
f) una miniera, un giacimento petrolifero o
di gas naturale, una cava o altro luogo di
estrazione di risorse naturali, anche in zone
situate al di fuori delle acque territoriali in cui,
in conformità al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale
relativa all’esplorazione ed allo sfruttamento
di risorse naturali, lo Stato può esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali”.
Rispetto alla menzionata lista positiva, per
tempo si è discusso in ordine al suo rapporto con la definizione generale contenuta nel
comma 1.
Premesso che l’elencazione di cui al comma 2
è meramente esemplificativa, per cui è possibile ritenere esistente una stabile organiz-
2 § 6 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“Since the place of business must be fixed, it also follows
that a permanent establishment can be deemed to exist only if the place of business has a certain degree of permanency, i.e. if it is not of a purely temporary nature. A place of business may, however, constitute a permanent establishment even though it exists, in practice, only for a very short period of time because the nature of the business
is such that it will only be carried on for that short period of time”).
3 E ci riferiamo solo a questo, e non alla corrispondente previsione convenzionale, avendo premesso l’assenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni con l’Italia, attesa la residenza paradisiaca del c.d. driller.
89
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
90
zazione anche al di fuori dei casi specifici ivi
contemplati, la portata reale della lista positiva è stata contesa tra due tesi.
Da un lato la tesi per la quale la c.d. positive list
elencasse delle ipotesi che si configurano sempre
e comunque una stabile organizzazione e ciò a
prescindere dalla ricorrenza o meno delle condizioni di cui al comma 1 dell’art. 162 del TUIR.
Dall’altro lato la tesi secondo la quale la lista
avrebbe valenza solo “procedimentale”, per cui
le ipotesi elencate nel comma 2 costituirebbero dei casi in cui andrebbe solo presunta, salvo
prova contraria incombente sul contribuente,
l’esistenza di una stabile organizzazione.
A tal fine vale osservare che, sino alla versione
del Commentario del 2008, l’Italia aveva apposto una espressa osservazione secondo la
quale le ipotesi contemplate al par. 2 dell’art.
5 del Modello OCSE – in linea, in sostanza, a
quelle contenute nella norma interna – avrebbero dovuto essere considerate sempre costituenti, a prescindere dall’esistenza congiunta
dei tre requisiti madre, un’ipotesi di stabile
organizzazione.
Tale osservazione era in linea con l’indicazione resa già nel 1977 4 dal Ministero delle
Finanze secondo la quale il par. 2 dell’art. 5
del Modello OCSE forniva “una lista di esempi
caratteristici, che a priori possono configurare
individualmente una stabile organizzazione”.
La ragione dell’osservazione posta dall’Italia nel
Commentario poteva poi essere ricercata nella
circostanza che le Convenzioni contro le doppie
imposizioni siglate dall’Italia seguono di regola
il Modello OCSE nella versione del 1963 ed anche il Commentario del tempo considerava gli
esempi riportati al par. 2 come costituenti a priori il tipo della stabile organizzazione materiale.
Ad ogni modo, a decorrere dalla versione del
Commentario del 2010 l’Italia ha ritirato tale
osservazione sposando la tesi fatta propria an-
che dall’OCSE a partire dalla versione del Commentario del 1977.
Ad oggi, pertanto, l’Italia concorda con le attuali indicazioni internazionali5 secondo le
quali, ai fini della configurabilità di una stabile
organizzazione, anche per le ipotesi della c.d.
positive list vanno comunque verificati i requisiti generalmente previsti per ritenere integrata la stabile organizzazione materiale.
3
Le c.d. natural resources
di cui all’art. 162 comma 2
lett. f) del TUIR
Tornando al caso di “una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava
o altro luogo di estrazione di risorse naturali”,
l’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR prevede
un’estensione del principio di territorialità.
Per tali fattispecie, infatti, la sede fissa si configura quale stabile organizzazione anche quando queste non risultino fisicamente collegate
con il territorio (in senso stretto) dello Stato
italiano, con quest’ultimo che si riserva di poter comunque esercitare la propria potestà impositiva in deroga all’art. 23 comma 1 lett. e)
del TUIR.
Si tratta dunque di una forma di extraterritorialità della potestà tributaria dello Stato
italiano, giustificata dalla considerazione che
se lo Stato italiano può esercitare il diritto di
sfruttamento del fondo del mare, del suo sottosuolo e delle risorse naturali anche al di fuori dei confini territoriali, anche la potestà tributaria può essere estesa a tale sfruttamento.
Premesso che per individuare una miniera, un
giacimento petrolifero o di gas naturale ed
una cava è sufficiente far riferimento al significato comune che è a queste attribuibile, una
notazione particolare si rende necessaria in
4 La circolare Min. Finanze 30.4.1977 n. 7/1496, in Banca Dati Eutekne.
5 § 12 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“This paragraph contains a list, by no means exhaustive, of
examples, each of which can be regarded, prima facie, as constituting a permanent establishment. As these examples
are to be seen against the background of the general definition given in paragraph 1, it is assumed that the Contracting States interpret the terms listed, «place of management», «a branch», «an office», etc. in such a way that such
places of business constitute permanent establishments only if they meet the requirements of paragraph 1”).
relazione alla locuzione “altro luogo di estrazione di risorse naturali”.
Sul punto occorre rifarsi alle indicazioni rese dal
Commentario OCSE, secondo il quale la suddetta espressione, che va a completare l’elencazione formata dalla miniera, dal giacimento
di petrolio o di gas naturale e dalla cava, deve
essere interpretata in senso ampio includendo
ad esempio qualsiasi luogo di estrazione di
idrocarburi sia in terra che in mare6.
Un punto controverso è rappresentato dall’attività di esplorazione, che costituisce il presupposto necessario dell’estrazione di risorse
naturali.
Trattasi di attività sulla quale in sede OCSE
non è stata raggiunta una posizione comune
sia per ciò che concerne il problema fondamentale dell’attribuzione del diritto d’imposizione, sia per quanto riguarda la qualificazione dei redditi derivanti da tale attività.
In questa situazione di incertezza, la norma interna non la cita, ferma restando la possibile
configurabilità di una stabile organizzazione
sulla base dei requisiti richiesti dalla definizione generale di cui al comma 1 dell’art. 162
del TUIR (a meno che l’attività di esplorazione
possa rientrare tra le attività con carattere preparatorio e ausiliare7, beneficiando così dell’esclusione prevista dalla c.d. negative list di cui
al comma 4).
4
I confini spaziali
del “territorio
dello Stato” off-shore
Nel concetto di sede “fissa” di affari è implicito il requisito che essa sorga su un territorio,
richiedendosi la sua presenza “sul territorio
dello Stato” in senso fisico.
L’elemento di difficoltà sta nel fatto che il
menzionato art. 162 del TUIR, come peraltro il
resto della normativa fiscale in materia di imposte sui redditi, non contiene una definizione del territorio dello Stato, differentemente
da quanto avviene ad esempio nell’art. 7 del
DPR 633/1972 ove è espressamente disposto
cosa debba intendersi, agli effetti dell’IVA, per
Stato o territorio dello Stato.
L’esatta individuazione di cosa debba intendersi
per “territorio dello Stato” è quanto mai necessaria nel caso delle attività di c.d. drilling eseguite in mare, dunque in spazi non terrestri, che
vanno così identificati con estrema attenzione.
Innanzitutto va individuato lo spazio marino
attratto nella sovranità dello Stato italiano, da considerarsi vero e proprio territorio
dello Stato.
A tal fine occorre far riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del
10 dicembre 1982 (c.d. Convenzione di Montego Bay), ratificata dall’Italia con la L. 689/1994.
La L. 689/1994 stabilisce, secondo i principi
della Convenzione di Montego Bay, che la sovranità dello Stato costiero si estende, al di
là del suo territorio e delle sue acque interne,
ad una fascia adiacente di mare denominata
“mare territoriale”, sullo spazio aereo soprastante tale mare territoriale e al relativo fondo marino e al suo sottosuolo.
Per mare territoriale o acque territoriali si intende la fascia di acque che si estende dalla
linea di bassa marea lungo la costa fino al limite massimo di 12 miglia marine.
Una attività di impresa, condotta da un soggetto non residente nel territorio italiano da intendersi sino alle 12 miglia marine, al ricorrere del-
6 § 14 del Commentario OCSE all’art. 5 del relativo Modello (“The term «any other place of extraction of natural resources»
should be interpreted broadly. It includes, for example, all places of extraction of hydrocarbons whether on or off-shore”).
7 Se l’attività di esplorazione viene condotta da un’impresa mineraria che, in caso di esito positivo, intraprende nella stessa
installazione l’attività di estrazione, l’installazione per il periodo in cui ha svolto l’attività di esplorazione non costituisce
stabile organizzazione. Se, invece, l’attività di esplorazione viene svolta dall’impresa mineraria su commissione di un’altra
impresa, tale attività diventerebbe attività autonoma (indipendentemente dall’esito) e l’installazione costituirebbe senza
dubbio stabile organizzazione dell’impresa mineraria ed il relativo reddito verrebbe tassato nello Stato in cui viene esercitata l’attività di esplorazione.
91
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
92
le condizioni previste dal comma 1 dell’art. 162
del TUIR configura una stabile organizzazione il
cui reddito è assoggettato al potere impositivo
dello Stato italiano.
La previsione di extraterritorialità fiscale prevista dall’art. 162 comma 2 lett. f) del TUIR per
le c.d. natural resources necessita poi di individuare le zone, fuori dalle acque territoriali,
sulle quali lo Stato italiano vanta comunque
il diritto di sfruttamento (ed anche il potere
impositivo).
I principi adottati dall’Italia per la regolamentazione della ricerca ed estrazione delle risorse
naturali sono contenuti nella L. 613/1967, che
disciplina le condizioni per il rilascio dei permessi di ricerca in armonia con la IV Convenzione di Ginevra del 1958, emendata poi dalla
Convenzione di Montego Bay.
Ogni Stato costiero, ivi inclusa l’Italia, vanta
diritti sovrani di esplorazione e di sfruttamento delle risorse naturali (da intendersi quali le
risorse minerali e le altre risorse non viventi)
sulla piattaforma continentale.
La piattaforma continentale di uno Stato costiero comprende il fondo e il sottosuolo delle aree sottomarine che si estendono al di
là del proprio mare territoriale attraverso il
prolungamento naturale del territorio emerso
sino al limite esterno del margine continentale,
o sino alla distanza di 200 miglia dalle linee
di base qualora il margine continentale non
arrivi a tale distanza.
Un confine diverso di delimitazione della piattaforma continentale tra stati a coste opposte
o adiacenti può poi esser fissato per accordo,
ed in tal senso l’Italia ha stipulato trattati di
delimitazione con i Paesi mediterranei frontisti (Iugoslavia, ossia ora Slovenia, Croazia e
Montenegro; Tunisia; Spagna; Grecia; Albania), da analizzare caso per caso.
5
La c.d. drilling rig quale
stabile in Italia solo se opera
nelle 12 miglia dalla costa
Chiarito l’ambito spaziale in cui lo Stato italiano è titolato ad esercitare il proprio pote-
re impositivo, non resta che qualificare il c.d.
driller, o per meglio dire la piattaforma o la
specifica imbarcazione dedita alla perforazione del fondo marino.
Nella maggior parte dei casi questa, ancorché
concettualmente mobile o galleggiante, va considerata quale installazione fissa, poiché collegata tramite supporti ovvero ancorata al fondo
marino mediante apparecchiature elettroniche.
Essendo poi dotata di una precisa localizzazione e qualora non operi in modo tale da considerarla come temporanea, la c.d. drilling rig
configura una sede fissa di affari, ricorrendo i
requisiti per ritenere così integrata una stabile
organizzazione.
Ciò detto i redditi attribuibili alla piattaforma per il servizio di trivellazione potranno
essere attratti ad imposizione unicamente
qualora la c.d. drilling rig sia localizzata, ed
abbia quindi operato la sua attività di perforazione, all’interno delle acque territoriali,
dunque entro le 12 miglia marine dalla costa.
Al c.d. driller, difatti, non risulta applicabile la previsione di cui all’art. 162 comma 2
lett. f) del TUIR che estende territorialmente
lo spazio (di terra o di mare) in cui lo Stato
italiano si arreca il proprio potere impositivo.
Dal punto di vista letterale, difatti, secondo l’elencazione positiva contenuta nella predetta
lett. f) possono costituire stabili organizzazioni (e rientrano così nell’estensione territoriale
ai fini impositivi) una miniera, un giacimento
petrolifero o di gas naturale, una cava o altro
luogo di estrazione di risorse naturali.
La formulazione della norma non lascia dubbi sul fatto che, per dette fattispecie, è il
luogo stesso (di estrazione) che può configurare una stabile organizzazione (al ricorrere
dei presupposti madre di cui al comma 1),
e non già qualunque installazione fissa per
mezzo della quale una qualsiasi tipo di attività viene condotta sul medesimo luogo fisico.
Per dirla diversamente, la c.d. positive list
e l’estensione del potere impositivo da parte
dello Stato italiano sulla piattaforma continentale può riguardare il soggetto non residente titolare del diritto di sfruttamento
del giacimento e sul reddito che lo stesso
consegue dal giacimento8, e non il non residente che presta una attività sulla miniera,
sulla cava o sul giacimento petrolifero o di gas
naturale, ancorché queste siano localizzate
all’interno della piattaforma continentale.
Quanto detto in ordine alle c.d. natural resources
e dunque alla configurabilità di una stabile organizzazione per i soli soggetti titolati allo sfruttamento dei luoghi naturali e che ritraggono un
reddito da detti luoghi è altresì accolto in campo
internazionale.
Vale citare, per tutti, la massima dottrina internazionale9 che, commentando le c.d. natural
resources e l’identica previsione convenzionale (“a mine, an oil or gas well, a quarry or any
other place of extraction of natural resources”),
ha affermato come “a place for extraction of
natural resources will constitute a PE only for
the taxpayers who pursue the extraction business through the place”.
In aggiunta, un ulteriore riscontro interpretativo a supporto è tratto da alcune specifiche
convenzioni contro le doppie imposizioni, tra
le quali viene a mente quella stipulata tra l’Italia e la Danimarca.
In tale convenzione, ad esempio, a fronte della consueta previsione convenzionale (art. 5)
per la quale un giacimento può costituire una
stabile organizzazione, vi è una specifica previsione (l’art. 2210) volta a chiarire che l’esercizio da parte del residente di uno Stato di
attività connesse all’estrazione di idrocarburi nell’altro Stato configura l’esistenza di
una stabile organizzazione o una base fissa
in detto altro Stato.
Al di là delle condizioni temporali richieste per
configurarsi una stabile (secondo detta convenzione gli impianti di trivellazione in alto
mare costituiscono una stabile organizzazione
solo se le attività sono svolte per più di 365
giorni nell’arco di 18 mesi), l’elemento interpretativo di interesse torna ad essere, nuovamente, la circostanza che anche in chiave
convenzionale la c.d. drilling rig può costituire
stabile organizzazione o per previsione generale (comma 1 dell’art. 5) o per previsione specifica (l’art. 22), e non per effetto di una sua
riconducibilità ai luoghi di estrazione elencati
nella c.d. positive list.
Nel caso prospettato in premessa, dunque
di c.d. driller residente in un paradiso fiscale
che opera il servizio di trivellazione nei mare
antistanti l’Italia, può certamente aversi una
stabile organizzazione ma il reddito di impresa da questa conseguito potrà esser tassato
in Italia solo se l’attività di perforazione sia
eseguita “sul territorio dello Stato” ai sensi del
comma 1 dell’art. 162 del TUIR, dunque entro
le 12 miglia delle acque territoriali.
L’eventuale localizzazione del giacimento
al di fuori del mare territoriale ma dentro
la piattaforma continentale, farà sì che l’Italia per difetto di territorialità non potrà
tassare il reddito di impresa del c.d. driller,
che sarà così assoggettato ad imposizione
nel suo Stato di residenza (ovvero in altro
Stato che, per normativa interna o convenzionale, si arreca il diritto di esercitare il
proprio potere impositivo, ma comunque non
l’Italia).
8 È ovvio che qualora tale soggetto sia fiscalmente residente in Italia ne seguirà la sua tassazione in Italia, a prescindere dal
luogo di localizzazione dell’attività estrattiva, ciò in base al c.d. worlwide taxation principle.
9 Ci riferiamo a Skaar A.A. “Permanent Establishment: Erosion of a Tax Treaty Principle”, Deventer: Kluwer Law and Taxation
Publishers, Boston, 1991, § 9.4, p. 118-119.
10 Rubricato “attività connesse alla prospezione preliminare alla ricerca o all’estrazione di idrocarburi”.
93
TRIBUTI
PER LE “SORELLE” A CONTROLLO
ESTERO LA DESIGNAZIONE
APRE LE PORTE
DEL CONSOLIDATO PREESISTENTE
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Antonio MASTROBERTI
Esperto fiscale
94
Tra le fattispecie regolate dal provvedimento del 6 novembre 2015 dell’Agenzia delle Entrate
particolare interesse suscita la gestione dei casi in cui in un consolidato già attivo si verifica
l’ingresso nel perimetro della fiscal unit di una società residente, controllata dalla società
estera UE o SEE, con la conseguente designazione della consolidante a svolgere le funzioni
connaturate agli adempimenti tipici della tassazione di gruppo.
1
Designazione
e continuità
del consolidato
in caso di subentro
Il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del
6.11.2015 attua quanto previsto dall’art. 6 comma 4 del DLgs. 14.9.2015 n. 147, ed in particolare il contenuto dell’ultimo periodo di tale disposizione, che rinvia all’emanazione di misure
specifiche per le opzioni già in corso alla data
di entrata in vigore delle nuove disposizioni (7
ottobre 2015), attenendosi al criterio di consentire, sussistendone i presupposti di legge, l’eventuale inclusione nella fiscal unit delle stabili organizzazioni o delle controllate di soggetti esteri
senza interruzione dei consolidati esistenti.
1 Cfr. art. 117 co. 2-bis lett. a) del TUIR.
In base a quanto previsto in materia di decorrenza dall’art. 6 comma 3 del DLgs. 147/2015, la
chance del subentro a matrice estera si pone, va
subito sottolineato, come una declinazione della
più ampia possibilità di attivare entro il 31 marzo 2016, con effetti per il triennio 2015-2017, in
via eccezionale, nuovi consolidati nei quali siano
coinvolte società con controllo a matrice estera.
Anche dopo le modifiche apportate dall’art. 6 del
DLgs. 147/2015 alla disciplina del consolidato rimane fermo il principio per il quale nell’ambito
di ciascun consolidato vi è un unico soggetto
tenuto ad adempiere agli obblighi formali connaturati alla dichiarazione del reddito del gruppo, alla correlata liquidazione delle imposte e ad
assumere diritti, obblighi ed oneri, previsti dagli
artt. da 117 a 127 del TUIR1. Nel caso in cui vi sia
una società residente controllata dalla società
estera UE o SEE questo ruolo viene ad essere
assunto, per le società aderenti alla medesima
fiscal unit, dalla società designata, e opera l’assunzione, in via sussidiaria, delle responsabilità
previste dall’art. 127 del TUIR per le società o
enti controllanti da parte della società non residente UE o SEE2. In quest’ottica viene specificato, al riguardo, che la controllante non residente
può designare un’unica società controllata (punto 2.4 del provvedimento del 6.11.2015).
Sembra rimanere ferma la possibilità di diverse opzioni parallele nell’ambito del medesimo
gruppo (a controllo estero)3, sempre che una
stessa società eserciti l’opzione solo in qualità
di consolidante o solo in qualità di consolidata (cfr. art. 119 comma 1 del TUIR). L’identità
del consolidato segue la posizione della consolidante (o designata) e delle correlate opzioni
bilaterali, assicurando anche una continuità
nel tempo rispetto, ad esempio, allo scomputo
delle perdite prodotte in costanza di opzione4.
In questo scenario, possono sussistere, in un
unico gruppo, anche più consolidati; uno, ad
esempio, retto da una consolidante domestica
ed un secondo retto da una società designata.
In questo caso tutte le società residenti5 sono
controllate, in via diretta od indiretta, dalla società estera UE o SEE. L’unico limite è quello
previsto dall’art. 6 del DLgs. 147/2015, secondo cui la società designata non può esercitare
l’opzione con una società da cui è partecipata.
Al riguardo il provvedimento, al punto 2.6, specifica che la designata non può esercitare tale
opzione con le società da cui è partecipata in
posizione di controllo di diritto e con i requisiti
di cui all’art. 120 del TUIR.
Avremo modo di verificare che nei casi particolari di subentro previsti dal punto 7.1 del
provvedimento il compito di gestire gli adempimenti della fiscal unit è assunto dalla stessa
società che prima realizzava la figura della
società consolidante; ciò evita gli effetti interruttivi della tassazione di gruppo, poiché
di fatto il gruppo preesistente fagocita la posizione della sorella a controllo UE o SEE, ma
permanendo l’identità della figura della consolidante rimane ferma anche l’identità del
gruppo, con effetti sulla determinazione del
reddito globale.
2
Subentro per designazione
della consolidante
Il punto 7.1 del provvedimento concerne la
situazione relativa al periodo d’imposta in
corso alla data di entrata in vigore del DLgs.
147/2015 (7 ottobre 2015). Si tratta del caso,
relativo al periodo d’imposta 2015, in cui si verifica per la prima volta la possibilità di accedere in un gruppo preesistente su base domestica con un consolidamento a matrice estera
di altra sorella sinora “esclusa dai giochi”6.
Emerge l’esigenza di individuare nuovi termini per l’opzione relativa al periodo d’imposta 2015, poiché le disposizioni del decreto internazionalizzazione sono intervenute
dopo la scadenza del 30 settembre.
In effetti dal 2016 per i soggetti con periodo
d’imposta coincidente con l’anno solare tutte
le opzioni saranno esercitate, ricorrendone i
presupposti e in aderenza a precise pianifica-
2 Cfr. art. 117 comma 2-bis lett. c) del TUIR.
3 Cfr. circolare Agenzia Entrate 20.12.2004 n. 53: all’interno di un determinato gruppo possono generarsi tanti consolidati quanti sono i soggetti consolidanti, e tante opzioni quante sono le consolidate.
4 Si veda infra § “Unitarietà ed identità del consolidato”.
5 O le stabili interne di soggetti esteri, di cui al co. 2-ter dell’art. 117 del TUIR.
6 La disposizione riguarda, come è naturale, i casi in cui subentra un’opzione con altra società del gruppo che sino a questo momento (prima della novella) non poteva essere ammessa nel perimetro di consolidamento (altro tipo di subentro
sarebbe dovuto intervenire entro il 30 settembre 2015). Non sembra poi possibile cambiare la struttura del consolidato,
designando la consolidante e mutando la natura dell’opzione in consolidato orizzontale nei casi di controllo a catena da
parte della società estera. Se i soggetti rimangono sempre gli stessi, come ad esempio nel caso di una opzione tra Alfa,
consolidante e Beta, con Delta società estera UE che controlla entrambe, il passaggio al consolidato su base orizzontale
non sembra rientrare nella logica del provvedimento.
95
zioni fiscali, entro il 30 settembre 2016, ed
anche gli eventuali casi di subentro rispetto ad
opzioni bilaterali già attive nel periodo d’imposta in corso al 7 ottobre 2015, di entrambi i tipi,
faranno affidamento su una normativa già cristallizzata e nota in tutti i suoi effetti; dunque,
varranno le regole già contemplate dal decreto
attuativo per siffatte situazioni e dai punti 5. e
6. del provvedimento per quanto concerne termini e modalità di opzione7. In altri termini, si
deve ritenere che il subentro con designazione
della consolidante non debba necessariamen-
te maturare nell’attuale fase ma che lo stesso
possa intervenire anche successivamente, poiché l’unica condizione prevista è che l’opzione
verticale sia già in corso nel periodo d’imposta
2015. Ciò che cambia, inevitabilmente, sono i
tempi e le modalità dell’opzione.
Nel seguente schema n. 1 si evidenzia, a titolo esemplificativo, una situazione relativa ad
un’opzione già in essere, esercitata dal 2014,
in cui la consolidante sia designata dal 2015
ad esercitare un’opzione a matrice estera
(orizzontale).
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
1. SUBENTRO DI GAMMA NEL CONSOLIDATO “RETTO” DA ALFA
96
Consolidato iniziale
tra Alfa e Beta dal 2014
(fino al 2016)
Delta (Germania)
Alfa = consolidante poi
designata da Delta
Alfa (100%)
Italia
Area di consolidamento
dal 2015 in azzurro: due
opzioni bilaterali di Alfa,
con Beta e Gamma
Beta (100%)
Italia
Si profila, nel caso esaminato, previa designazione ed opzione, uno schema con due distinte opzioni bilaterali, ciascuna con una sua
durata parametrata all’anzianità di opzione8,
e con una disciplina che non è completamente
sovrapponibile, se si pensa all’eventuale riattribuzione delle perdite in caso di interruzione della tassazione di gruppo. Il consolidato,
basato su diverse opzioni, rimane unico per
quanto concerne gli effetti in corso d’anno e
quindi la compensazione intersoggettiva dei
redditi e delle perdite, che assorbe anche i
Gamma (100%)
Italia
redditi della controllata sinora esclusa dal recinto di gruppo (Gamma nello schema n. 1).
Per la società subentrante è necessario esercitare l’opzione, da parte della designata, entro
il 31 marzo 20169.
3
Determinazione del reddito
globale nei casi di subentro
Il decreto attuativo contempla l’ipotesi del
subentro a posteriori della controllata (art.
7 Per l’anno 2016 la comunicazione per la designazione va inviata in via telematica, dall’inizio del primo periodo d’imposta
del triennio e fino all’esercizio dell’opzione (dall’1 gennaio al 30 settembre 2016, cfr. punto 5.1 del provvedimento), dalla
società estera.
8 Cfr. art. 15 del DM 9.6.2004 e la circolare n. 53/2004, cit.
9 Cfr. punto 7.4 del provv. Agenzia Entrate 6.11.2015.
2 comma 3 del DM 9.6.2004), e regola, peraltro, anche le modalità di determinazione
del reddito per questa ipotesi, stabilendo, con
l’art. 15, innanzitutto il principio secondo cui
il relativo reddito concorre a tutti gli effetti al
meccanismo di compensazione intersoggettiva del consolidato. In linea generale questi
principi valgono anche per la nuova ipotesi
di subentro con consolidamento a matrice
estera, ma in questo caso si pone la necessità di ricorrere alla designazione per regolare
i rapporti con la “sorella” subentrante. Nel
già richiamato punto 7.1 del provvedimento
viene affermato il principio per il quale per
il consolidato preesistente a seguito della
designazione della consolidante – e quindi
del subentro della sorella estera – non si producono gli effetti interruttivi previsti dall’art.
124 del TUIR. Si tratta di una previsione che,
come si è già sottolineato, varrebbe solo per
le opzioni in corso nel periodo d’imposta
2015, anche se in realtà si fatica a comprendere i motivi per i quali in relazione a opzioni,
ad esempio attive dal 2016 su base tradizionale, non possa subentrare, nelle annualità
successive, altra consorella a controllo estero,
ovviamente attivandosi entro i canonici termini previsti per esercitare l’opzione. In realtà, sembrerebbe che la designazione della
consolidante (in consolidato preesistente),
che è pur sempre una controllata dalla società UE o SEE, sia sempre praticabile, ma che
venendo meno la disposizione prevista dal
punto 7.1 del provvedimento, a regime in un
caso come questo maturino gli effetti interruttivi previsti dal citato art. 124 del TUIR, e
dunque è come se rispetto a tali situazioni si
intendesse precisare che siamo di fronte ad
un nuovo consolidato, anche se poi in realtà
il ruolo tipico della consolidante è assunto dal
medesimo soggetto ed il recinto della fiscal
unit è lo stesso con l’aggiunta dell’ulteriore
posizione della sorella prima non consolidabile, anche rispetto alla questione dello scomputo delle perdite residue della fiscal unit (e
della correlata riattribuzione). Nel rinviare ai
chiarimenti del caso, si sottolinea che in un
simile scenario la situazione di una sorella
che subentri in un consolidato di tipo verticale (tradizionale) non sembra posta sullo stesso piano rispetto alla situazione di una sorella
che intenda subentrare in un consolidato di
tipo orizzontale, esercitando l’opzione con la
medesima società designata.
Per quanto concerne il reddito globale, in
particolare, gli effetti contemplati dall’art. 15
del DM 9.6.2004 dovrebbero maturare anche
in relazione al subentro per il 2015, previa
designazione della consolidante, di una società consorella controllata (non dalla consolidante) dalla società estera UE o SEE. Per tale
fattispecie non emergono specifiche disposizioni, salvo che per l’ambito delle perdite da
restituire, di cui si dirà oltre. Siamo quindi al
cospetto di un caso di estensione del perimetro di consolidamento alla posizione di
altra società residente, e questa impostazione si presterebbe ad incidere sul trattamento
delle perdite fiscali già in dotazione del consolidato, ossia riportate in avanti nel Modello
CNM 2015 (per il periodo d’imposta 2014),
all’atto del subentro della nuova consorella a
matrice estera, con effetti già per il periodo
d’imposta 2015 (Modello CNM 2016). Infatti,
tendenzialmente il subentro di altra consolidata non impedisce l’utilizzo delle perdite del
gruppo nel Modello CNM, e può verificarsi, in
sostanza, un uso di perdite prodotte da una
consolidata (e poi oggetto di riporto in capo al
gruppo consolidato) in anni precedenti, in cui
non vi era un legame “di gruppo” da parte di
quest’ultima con la consolidata subentrante, a
scomputo dei redditi prodotti da quest’ultima
dopo il subentro ed in costanza di opzione (a
fattore comune con la consolidante/designata). Secondo quanto precisato dalle Entrate
con l’assetto domestico della disciplina della
tassazione di gruppo (circolare Agenzia Entrate 20.12.2004 n. 53) in queste ipotesi la società consolidante potrà utilizzare le perdite
residue del consolidato, cioè quelle riportate
a nuovo e non attribuite ai soggetti nel frattempo fuoriusciti dalla tassazione di gruppo,
anche per compensare gli imponibili positivi
trasferiti al consolidato da società poi “subentrate” nella tassazione di gruppo.
97
4
Identità del consolidato
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
e durata delle opzioni
98
È essenziale, in tale contesto, chiarivano le
Entrate (nella citata circolare n. 53/2004),
che il consolidato prosegua senza perdere la
propria identità, stante che il divieto previsto
dall’art. 118 del TUIR vieta l’utilizzo di perdite
anteriori all’inizio della tassazione di gruppo.
A tali fini per “gruppo” si intende l’insieme
delle imprese che in un dato periodo d’imposta partecipano al medesimo consolidato,
caratterizzato dalla presenza di un determinato soggetto consolidante che conferisce al
gruppo un’univocità e continuità nel tempo,
nonostante l’ingresso o la fuoriuscita di altre
società. Tale unitarietà viene meno, in questo
quadro, solo se il consolidato si deve ritenere
cessato nel suo complesso, caso in cui un’eventuale opzione esercitata, sempre in quali-
tà di consolidante, dal medesimo soggetto in
precedenza operante in tale veste con una società prima non compresa nella tassazione di
gruppo, darà luogo ad un nuovo consolidato,
nel quale, tuttavia, il consolidante non potrà
utilizzare in compensazione la perdita residua
del precedente consolidato eventualmente non
attribuita alle consolidate (nel caso non si sia
ricorsi alla facoltà di cui all’art. 13 comma 8
del DM 9.6.2004).
Nel caso regolato nel punto 7.1 del provvedimento l’opzione esercitata entro il 31 marzo
2016, che attribuisce alla consolidante designata l’ulteriore compito di regolare le vicende relative alla consorella (o alle consorelle) a matrice
estera, non sembra alterare questa unitarietà
di fondo della fiscal unit10, e dunque dovrebbe
consentire di utilizzare le perdite del consolidato preesistente per ridurre il reddito globale
come alimentato anche dai redditi della sorella
subentrata. Si consideri l’esempio che segue:
CONSOLIDATO TRA ALFA E BETA CON SUBENTRO DI GAMMA
Società
Anno 2014
Alfa
100
50
Beta
– 300
– 80
Reddito CNM
– 200
170
Riporto perdite CNM
– 200
– 30
Gamma
Anno 2015
200
In questa semplice ipotesi Alfa e Beta hanno esercitato l’opzione per il consolidato dal
2014, anno in cui hanno generato, rispettivamente, un reddito pari a 100 ed una perdita
pari a 300. Per l’anno 2015 la società estera designa Alfa (consolidante) ad esercitare
l’opzione bilaterale con Gamma, realizzata
entro il 31 marzo 2016. Le perdite maturate
in costanza di opzione del consolidato (tradizionale), oggetto di riporto nel Modello CNM
2015, sono utilizzate per scomputare i redditi
della nuova fiscal unit, che ha assorbito anche
la posizione della società Gamma, partecipata
direttamente dalla società estera UE e, di fatto, in questo modo le perdite prodotte da Beta
sono state utilizzate per annullare l’imposizione sui redditi prodotti dalla consorella che nel
2014 non aveva ancora esercitato l’opzione.
Invero, mancano specifiche disposizioni al
riguardo, il che fa propendere per l’applicazione delle regole generali contemplate dal
decreto attuativo per i casi di subentro (senza
interruzione della tassazione di gruppo), ma
lascia comunque dei margini di incertezza,
10 Cfr. ancora la circolare n. 53/2004, cit.: nel disegno della riforma il consolidato, pur se realizzato con più opzioni a
coppia tra consolidante e singole consolidate, mantiene una sua unità, essendo, pertanto, riferibile a tutto il gruppo
di imprese che fa capo al soggetto consolidante e che partecipa alla tassazione di gruppo.
i quali saranno fugati, probabilmente, in via
interpretativa 11.
Va sottolineato che le due opzioni cristallizzate con l’opzione esercitata entro il 31 marzo
2016, ai sensi del punto 7.1 del provvedimento,
pur essendo ricondotte ad unico consolidato,
presentano una diversa estensione temporale: l’una esaurisce la sua portata nel corso del
2016 (consolidato preesistente), l’altra, invece,
è destinata a completare il triennio nel 2017
(opzione a matrice estera), ferma la possibilità
di rinnovare, in entrambi i casi, l’opzione12.
5
Le perdite riattribuite
alle società che
le hanno prodotte
In realtà le uniche differenze sostanziali delineate con le modifiche apportate con il citato
DLgs. 147/2015 tra i due ambiti di opzione,
di per sé distinti sul piano dei presupposti di
accesso, si riscontrano in relazione al trattamento delle perdite in caso di interruzione della tassazione di gruppo. Nel caso del
consolidamento a matrice estera tali perdite
sono attribuite esclusivamente alle controllate che le hanno prodotte, al netto di quelle
utilizzate e nei cui confronti viene meno il requisito del controllo, secondo i criteri stabiliti
dai soggetti interessati. La normativa primaria
non impone che l’attribuzione alle società che
hanno prodotto le perdite debba essere effettuata in modo proporzionale, anche se questa
rimane la via maestra sul piano operativo e logico. Difatti, secondo quanto previsto dal punto 2.7 del provvedimento, al riguardo se non
è stato scelto il criterio all’atto dell’opzione,
queste perdite sono attribuite proporzionalmente alle controllate che le hanno prodotte.
Per l’opzione a matrice estera viene quindi
meno la regola che prevede l’attribuzione delle
perdite alla consolidante13. In base alla prassi
sinora diffusa nei casi in cui le perdite sono
attribuite alle società che le hanno prodotte
esse possono essere utilizzate solo sul piano
soggettivo14, tornando utili i criteri adoperati
in relazione allo scomputo delle perdite dai
maggiori redditi accertati in capo al consolidato. Infatti, stabilire se a seguito di interruzione o di mancato rinnovo le perdite riattribuite
sono scomputabili ex post dal rilievo vuol dire
dar conto della possibilità di utilizzare ab origine queste perdite all’atto della determinazione
del reddito complessivo del gruppo (quadro CN
del Modello CNM)15. Tali perdite, pertanto, non
risultano utilizzabili nella dichiarazione dei
redditi del gruppo, ma ciascuna consolidata
potrà “spenderle” ai sensi dell’art. 118 comma
2 del TUIR, ossia prima di trasferire i propri redditi (quadro GN di Unico SC) al gruppo consolidato.
6
Perdite riattribuite
alla consolidante
Per quanto riguarda le perdite riattribuite alla
11 In realtà, la nota essenziale è come deve essere considerato il nuovo consolidato a seguito del subentro, ossia se si può
parlare, come sembra anche in virtù delle disposizioni recate dal punto 7.1 del provvedimento, della continuazione
del preesistente consolidato sotto una nuova veste (su base orizzontale), in virtù della sostanziale permanenza della
figura del soggetto deputato a realizzare gli adempimenti di gruppo.
12 In dottrina (Michelutti R. “Nel consolidato «allargato» perdite a utilizzo limitato”, Il Sole-24 Ore, 10.11.2015) è emersa
anche un’impostazione che tendenzialmente suggerisce, nelle ipotesi di innesto per il periodo d’imposta 2015 di opzioni
a matrice estera su opzioni preesistenti, di uniformare i periodi di durata delle diverse opzioni, nonché di allineare i riflessi
scaturenti in relazione alle perdite oggetto di riattribuzione (v. § successivo).
13 Cfr. art. 124 co. 4 del TUIR e quanto previsto dall’art. 13 co. 8 del DM 9.6.2004, secondo cui in alternativa a tale criterio è possibile attribuire le perdite alle società che le hanno prodotte nei cui confronti viene meno il requisito del controllo in base ai criteri
stabiliti dai soggetti interessati. Tali criteri vanno comunicati all’atto dell’opzione e, dal 2015, direttamente in dichiarazione.
14 Cfr. circolare Agenzia Entrate 6.6.2011 n. 27, in merito allo scomputo delle perdite in accertamento, ai fini dell’art.
40-bis del DPR 600/1973 e alla presentazione del Modello IPEC.
15 V. circolare Assonime 11.6.2013 n. 17, p. 59 e ss.; Trettel S. “Utilizzo in compensazione di perdite del consolidato in caso di
99
società consolidante nell’ambito dell’opzione
relativa al consolidato preesistente al subentro
delle sorelle controllate dalla società estera UE
o SEE, si consideri un caso in cui, ad esempio,
Alfa, consolidante, aveva esercitato l’opzione con due società residenti, Beta e Gamma,
entrambe controllate al 100%, dal 2014, ed in
cui il controllo su Beta viene meno nel corso
del 2015, mentre la società estera UE decide
di designare Alfa (consolidante) per esercitare
l’opzione di accesso alla fiscal unit dal 2015 insieme ad altra controllata (Delta). Si tratta del
caso previsto al punto 7.1 del provvedimento,
ma si è aggiunta la specifica situazione relativa
all’interruzione del consolidato con riferimento
a Beta. In questo caso se le perdite residue del
gruppo, riportate nel Modello CNM 2015, sono
riferibili alla società fuoriuscita (Beta) e si assume che la scelta in sede di opzione sia stata
per l’attribuzione alla consolidante, si deve verificare se nel Modello CNM queste ultime possono essere utilizzate a scomputo del reddito
globale (in cui transitano anche i redditi trasferiti da Delta). Si veda il seguente schema n. 2:
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
2. SUBENTRO DI DELTA E FUORIUSCITA DI BETA
100
Consolidato iniziale
tra Alfa, Beta e Gamma
dal 2014 (fino al 2016)
Lambda
(Germania)
Alfa = consolidante poi
designata da Delta
Interruzione della fiscal
unit rispetto a Beta
Alfa (100%)
Italia
Beta (100%)
Italia
Al riguardo bisogna distinguere i casi di interruzione totale da quelli di interruzione parziale, cui va ricondotta l’ipotesi di cui allo schema n. 2: in questo secondo caso il consolidato
viene meno solo rispetto ad una o più consolidate e dunque l’opzione rimane in piedi tra la
consolidante ed una sola consolidata (Gamma).
A quest’ultimo proposito è stato chiarito che
permanendo l’opzione con altre consolidate,
le perdite attribuite alla consolidante possono
essere utilizzate anche a scomputo dei redditi
apportati al consolidato da società consolidate
che abbiano esercitato l’opzione in un momen-
Delta (100%)
Italia
Gamma (100%)
Italia
to successivo16. Per quanto detto ai paragrafi
precedenti, salvo i chiarimenti del caso, queste
precisazioni si prestano a trovare applicazione
anche per i redditi relativi al periodo d’imposta
2015 e, con particolare riferimento, nel caso di
cui allo schema n. 2, ai redditi trasferiti dalla
subentrante (Delta) al consolidato in virtù della designazione della società estera (Lambda),
con susseguente opzione realizzata da Alfa
(caso di cui al punto 7.1 del provvedimento).
Fuori dal caso specifico esaminato, se invece l’interruzione della tassazione di gruppo è
totale e riguarda tutte le consolidate, le per-
verifica”, il fisco, 2014, p. 2353 e ss.; Dalmonte A., Murgo P. “Utilizzo delle perdite fiscali riattribuite a seguito di interruzione del regime nell’accertamento da consolidato”, Corr. Trib., 2014, p. 2747 e ss.; nonché Salvini L. “Atto di accertamento
«Unico» per le rettifica dei redditi dei soggetti aderenti al consolidato”, Corr. Trib., 2011, p. 2824 e ss.
16 Cfr. circolare n. 53/2004, cit.
dite, attribuite alla consolidante o a ciascuna
consolidata che le ha prodotte (criterio alternativo) assumono, in ogni caso, una natura
soggettiva17 , divenendo perdite della consolidante o delle suddette consolidate. Nel caso
dell’interruzione totale con attribuzione alla
consolidante vale, pertanto, il trattamento riservato alle perdite attribuite alle società che
le hanno prodotte18.
7
Allineamento delle opzioni
su base orizzontale
Al fine di semplificare la gestione delle vicende
relative alle perdite nei casi previsti dal punto
7.1. del provvedimento in dottrina19 si è prospettata l’esigenza di convertire il consolidato
verticale preesistente in consolidato orizzontale, e dunque allineare il trattamento delle
perdite in dotazione del consolidato nei casi in
cui a seguito dell’innesto di un’opzione a matrice estera su un consolidato preesistente si
determina, in caso di interruzione, una divaricazione nel trattamento delle perdite oggetto
di riattribuzione. Questa impostazione tende,
pertanto, oltre ad allineare la durata delle
diverse opzioni, ad uniformare il trattamento delle perdite in caso di interruzione della
tassazione di gruppo, con qualche distinguo in
relazione al trattamento delle perdite prodotte e trasferite al gruppo preesistente fino al
periodo d’imposta 2014.
In quest’ottica in ogni caso a partire dal periodo d’imposta 2015, in vigenza delle nuove
regole introdotte con il DLgs. 147/2015, in
caso di interruzione della tassazione di gruppo tutte le perdite imputate dalle consolidate
potrebbero essere riattribuite solo alle società che le hanno prodotte, a prescindere dal
fatto che siamo in presenza di un’opzione tra
due soggetti residenti già avviata in vigenza
delle regole pre decreto internazionalizzazio-
ne. Invero, va osservato che se si accoglie la
ricostruzione operata nei paragrafi precedenti
in relazione agli effetti sul reddito dichiarato dal gruppo, vi sono casi in cui le perdite
eventualmente riattribuibili alla consolidante
possono essere scomputate dal reddito globale anche dopo l’evento interruttivo (caso
dell’interruzione parziale con attribuzione alla
sola consolidante), e pertanto in tale quadro
sembrerebbero adombrarsi, adottando il criterio dell’allineamento ai criteri di più recente
introduzione (su base orizzontale), effetti pregiudizievoli: le perdite considerate riattribuite
alle società che le hanno prodotte, pur avendo
indicato un diverso criterio in sede di opzione,
rimarrebbero infatti utilizzabili solo su base
soggettiva.
Se si guarda al complesso delle regole contemplate dal decreto attuativo in materia di
tassazione di gruppo si tratta, ad ogni buon
conto, di un sentiero non del tutto coerente
e rispondente al dato normativo, che sembra
rivelarsi, di fatto, in talune ipotesi, pregiudizievole rispetto agli interessi degli stessi attori
in campo, nella misura in cui vengano confermate le indicazioni già rese per altri versi
dai competenti Organi, per le quali la riattribuzione delle perdite alle società che le hanno
prodotte implica un utilizzo che può essere
unicamente soggettivo. Identiche considerazioni emergono in relazione alla concreta
estensione della durata delle opzioni in essere nel periodo d’imposta 2015. Senza contare,
peraltro, come è stato già evidenziato, che la
questione del subentro non dovrebbe maturare
tout court per il solo periodo d’imposta 2015,
con il rischio, di per sé paradossale, di rendere
modificabili, per precisa scelta, sia la durata
che i criteri di riattribuzione delle perdite, in
relazione a futuri (e pianificabili) subentri di
sorelle estere (ad esempio dal periodo d’imposta 2016), su opzioni preesistenti comunque in
corso nel periodo d’imposta 2015.
17 Cfr. anche Dalmonte A., Murgo, P., cit., p. 2747 e ss.
18 Cfr. anche la circolare Agenzia Entrate n. 27/2011 e la circolare Assonime n. 17/2013, cit.
19 Michelutti R., cit.
101
8
Opzione della consolidante
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
con società designata
102
Il punto 7.2 del provvedimento reca una previsione che ricalca quanto già previsto dall’art.
13 comma 5 del DM 9.6.2004, estendendo i
criteri ivi previsti ad un caso in cui il transfert
da consolidante a consolidata emerge con riferimento alla posizione di società designata
nell’ambito del consolidato a matrice estera.
Viene previsto che se in corso di opzione per
la tassazione di gruppo la consolidante opta,
ai sensi del comma 2-bis del medesimo articolo, per la tassazione di gruppo in qualità di
consolidata, congiuntamente con altra società designata residente o non residente di
cui al comma 2-ter, si verifica l’interruzione
della tassazione di gruppo del consolidato in
cui aderiva in qualità di consolidante, con gli
effetti previsti dall’art. 124 del TUIR. Queste
previsioni si rendono applicabili anche ai periodi d’imposta successivi a quello di entrata
in vigore delle nuove disposizioni. Per quanto
riguarda le perdite riattribuite, l’evento interruttivo sembra implicare, in ogni caso, un
utilizzo limitato al piano soggettivo da parte
della società ex consolidante, poiché il caso
previsto dal punto 7.2 del provvedimento concretizza a ben guardare un ipotesi di interruzione totale della pregressa opzione per far
spazio ad una nuova dimensione di consolidato che coinvolge anche la “vecchia” consolidante. Ne deriva che in questo caso le perdite
del “vecchio” consolidato non trovano spazio
nel consolidato a matrice estera, se non secondo le regole previste dall’art. 118 comma
2 del TUIR, e quindi su mera base soggettiva
(scomputo da parte di ciascuna società che dispone delle perdite).
9
Opzione totalitaria
delle consolidate
con la designata
Dispone infine il punto 7.3 del provvedimento
che nei casi di cui al punto 7.2 (ossia nei casi in
cui la consolidante opta con la designata assumendo il ruolo di consolidata) se tutte le altre
società aderenti alla tassazione di gruppo in
qualità di controllate per le quali sussistano
tutti i requisiti di cui al comma 2-bis dell’art.
117 del TUIR optano anch’esse nel medesimo
esercizio con la società designata per il periodo
d’imposta in corso alla data di entrata in vigore
del DLgs. 147/2015, ossia per il periodo d’imposta 2015, in relazione al consolidato preesistente non si producono gli effetti di cui all’art.
124 commi 1, 2 e 3 del TUIR (regolazione della
questione degli acconti e dei versamenti tra le
società fuoriuscite dal gruppo). Non si applica
quanto previsto dal comma 4 del citato art.
124 del TUIR, che in materia di riattribuzione
delle perdite, in particolare, rimanda al criterio generale dell’attribuzione alla controllante
salvo eccezioni, ed è stabilito che alle perdite
fiscali di cui al citato comma 4 si applicano, in
ogni caso, le disposizioni previste dall’art. 118
comma 2 del TUIR, ossia la possibilità di scomputare queste perdite su base soggettiva da
parte delle società a cui le stesse perdite sono
riattribuite. In entrambe le ipotesi contemplate
dai punti 7.2 e 7.3 del provvedimento siamo, infatti, al cospetto degli effetti dell’interruzione
totale della tassazione di gruppo, e l’ultimo
periodo di cui al punto 7.3 sembra confermare
questa visione per la quale, in presenza di questa tipologia di evento interruttivo, le perdite
si considerano comunque nella titolarità del
soggetto che le ha ricevute, profilandosi, pertanto, l’impossibilità di scomputarle dal nuovo
consolidato.
10
Conclusioni
Nel commentare il caso regolato dal punto 7.1
del provvedimento del 6.11.2015 dell’Agenzia
delle Entrate si è cercato, per quanto possibile,
di restare ancorati ai criteri validi, in linea generale, per i casi di subentro di una consolidata
in un perimetro di consolidamento preesistente attraverso una nuova opzione bilaterale con
la consolidante. Da questa impostazione deriva, ad esempio, la conclusione per la quale,
nei casi di designazione della consolidante,
ferma restando l’identità del consolidato preesistente (che non si interrompe), le diverse
opzioni conservano una differente durata.
L’assunto implica anche l’utilizzo in capo alla
fiscal unit su base orizzontale delle perdite
pregresse disponibili nel Modello CNM 2015
da parte della designata (già consolidante).
Questo effetto deriva dall’applicazione delle
regole generali del decreto attuativo e in considerazione di una sostanziale perpetuazione
della struttura del gruppo, la cui identità rimane ancorata alla stessa figura societaria,
dal che può derivare, in determinati casi,
anche l’utilizzo in capo al gruppo di perdite
riattribuite alla consolidante.
Facendo proprie queste regole, sarebbe in
qualche modo pregiudicante aprire le porte
ad un ampliamento del periodo di irrevocabilità dell’opzione in relazione, ad esempio, ad
una serie, anche numerosa, di opzioni preesistenti solo per allineare e semplificare la gestione del consolidato alla nuova situazione
conseguente al subentro della controllata a
matrice estera.
Analoghi profili di criticità si intravedono,
salvo ulteriori approfondimenti, in relazione
alla più complessa questione delle perdite da
riattribuire a seguito dell’interruzione del consolidato. Sembrerebbe, in base alle impostazioni applicate nel corso degli anni (si vedano i
chiarimenti emersi in relazione alla questione
dello scomputo delle perdite in accertamento),
che nei soli casi di interruzione parziale con
attribuzione alla società consolidante delle
perdite, le stesse perdite possano poi rientrare nel “circolo” dell’area di consolidamento nelle annualità successive, trattandosi
di un consolidato che di fatto mantiene la sua
identità in base ad altre opzioni con capofila
il medesimo soggetto. Per entrambi i casi, in
base ad essenziali esigenze di semplificazione,
in dottrina si è proposto un allineamento della
disciplina sullo schema contemplato dal comma 2-bis dell’art. 117 del TUIR, che non consente l’attribuzione delle perdite alla società
consolidante. In verità, se nei casi di subentro
con opzione di tipo orizzontale le perdite in
questione si considerassero tout cort sempre
attribuite alle società che le hanno prodotte
emergerebbe, in particolare, che le stesse potrebbero considerarsi utilizzabili solo su base
soggettiva, e dunque solo nella dichiarazione
dei redditi delle diverse società consolidate
(prima di trasferire i redditi al gruppo); il che
può sortire, ex abrupto, effetti sfavorevoli per
il gruppo nel suo insieme.
Senza contare, peraltro, che la questione del
subentro non sembra maturare, salvo i chiarimenti del caso, per il solo 2015 in relazione alle
opzioni comunque in corso in tale anno (nel
senso che l’opzione può innestarsi comunque
dal 2016 su un consolidato in essere nel periodo d’imposta 2015) e quindi si giungerebbe
al paradossale effetto di rendere modificabili,
per precisa scelta, sia la durata che i criteri di
riattribuzione delle perdite, in relazione ai futuri subentri di sorelle estere (ad esempio dal
2016), anche costituite a tal preciso fine.
In linea generale dovrà essere chiarito, infine,
il modo di intendere il subentro nei periodi
d’imposta successivi rispetto alla situazione
di un consolidato preesistente. Nello schema tradizionalmente conosciuto l’operazione
è del tutto lecita e comporta, tra le altre
cose, un pieno utilizzo anche delle perdite
pregresse del gruppo nel reddito globale relativo all’anno del subentro. Attualmente dovrebbe rendersi praticabile, ad esempio, sia il
subentro di una società italiana in un consolidato orizzontale (non si intravede alcun
problema al riguardo), previa opzione con la
società designata, sia il subentro di una sorella in un consolidato preesistente su base
verticale, con designazione della consolidante. Dalla constatazione che il provvedimento dispone che le clausole di cui al punto
7.1 valgono solo per l’anno 2015 ne potrebbe
derivare che, nella fattispecie, operano gli effetti interruttivi previsti dall’art. 124 del TUIR,
anche se non se ne comprendono appieno le
ragioni, dato che il gruppo ed i soggetti chiamati in causa sono sostanzialmente gli stessi
del consolidato preesistente con l’aggiunta
della nuova opzione e la metamorfosi della
consolidante in società designata.
103
TRIBUTI
LA TREMONTI AMBIENTE
“ORA PER ALLORA”
Stefano CHIRICHIGNO
CMS – Adonnino Ascoli & Cavasola Scamoni
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Vittoria SEGRE
CMS – Adonnino Ascoli & Cavasola Scamoni
104
Alla luce di recenti interventi sembrerebbe risorgere dalle sue ceneri l’agevolazione comunemente nota come “Tremonti Ambiente”, originariamente prevista dalla L. 388/2000 e abrogata dal DL
83/2012 a far data dal 26 giugno 2012. Già l’Assonime in tempi non sospetti aveva precisato che
potevano comunque fruire di tale agevolazione gli investimenti ambientali completati (e, quindi, i
costi sostenuti) entro tale data. Il 18 giugno scorso il MISE è intervenuto con una breve nota avente ad oggetto il dibattuto tema della cumulabilità di tale agevolazione con le tariffe incentivanti
previste per gli impianti fotovoltaici, ma non è passato inosservato che, quasi en passant, abbia
menzionato di esprimersi “di concerto con l’Agenzia delle Entrate”, ribadendo la perdurante applicabilità dell’agevolazione ad investimenti effettuati in passato. L’articolato meccanismo procedurale previsto dalla normativa di riferimento apre la strada ad una serie di interrogativi in ordine a
come operare “ora per allora”. Il presente contributo intende ripercorrere i tratti salienti dell’agevolazione, focalizzandosi sull’ambito oggettivo costituito da campi fotovoltaici e soffermandosi sui
profili più controversi della disciplina.
1
I presupposti
dell’agevolazione
L’agevolazione nota come “Tremonti Ambiente” consiste, in sostanza, nella possibilità di
non far concorrere alla formazione del reddito
imponibile ai fini delle imposte sul reddito la
quota di reddito destinata a taluni “investimenti ambientali”, legittimando, quindi, una
variazione in diminuzione da effettuare in
sede di dichiarazione dei redditi.
Presupposto soggettivo: le PMI
Possono fruire dell’agevolazione solo le “pic-
cole e medie imprese” (PMI) senza però che
nell’ambito della L. 388/2000 sia fornita una
compiuta definizione di quali siano le PMI.
Ne deriva, come peraltro confermato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 3.1.2001
n. 1, che è necessario ricercare la suddetta
definizione nella normativa comunitaria e nel
relativo recepimento da parte del legislatore1.
A tal fine, si deve fare riferimento all’art. 2
del DM 18.4.2005 con cui è stata recepita la
raccomandazione della Commissione europea
6.5.2003 n. 2003/361/CE. Tale documento definisce “micro, piccole e medie imprese” quelle
che soddisfano i seguenti due parametri: a)
meno di 250 occupati; b) fatturato annuo non
superiore a 50 milioni di euro oppure, in alter-
1 L’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 1/2001, ha precisato che possono avvalersi dell’agevolazione per investimenti
ambientali i soli soggetti titolari di reddito di impresa (piccola o media) che determinano il reddito in contabilità ordinaria (per effetto del combinato disposto di cui all’art.6 co. 13 e 16 della L. 388/2000).
nativa, totale dell’attivo patrimoniale di bilancio non superiore a 43 milioni di euro.
Ai fini della verifica del fatturato, vanno considerati i ricavi delle vendite e delle prestazioni
relativi alla gestione caratteristica, di cui alla
voce A.1. del Conto economico, che si intendono al netto degli sconti concessi e dell’IVA
e delle altre imposte direttamente connesse al
volume d’affari.
Presupposto oggettivo:
gli “investimenti ambientali”
Quanto all’ambito oggettivo di applicazione,
con la dicitura “investimenti ambientali” il
legislatore ha espressamente inteso riferirsi
al costo di acquisto delle immobilizzazioni
materiali di cui all’art. 2424 comma 1 lett. B)
II c.c., “necessarie per prevenire, ridurre e riparare danni causati all’ambiente” 2. Da tale definizione ha escluso, tuttavia, gli investimenti
realizzati in attuazione di obblighi di legge.
Alla luce della definizione di “investimento
ambientale” prevista dalla norma in commento, nonché del rinvio all’art. 2424 comma 1
lett. B) II c.c., è stato precisato che rientrano nell’agevolazione i costi – sostenuti per
adempiere volontariamente alla prevenzione,
riduzione e riparazione dei danni provocati
all’ambiente dall’attività di impresa – per l’acquisto dei seguenti beni: terreni e fabbricati;
impianti e macchinari; attrezzature industriali
e commerciali; altri beni; immobilizzazioni in
corso e acconti. L’Agenzia delle Entrate, nella
predetta circolare n. 1/2001, ha poi precisato
che sono esclusi dall’agevolazione in parola i
costi sostenuti in dipendenza di contratti che
non comportano l’acquisto di detti beni bensì,
ad esempio, la loro locazione, oppure la concessione in uso, l’usufrutto, ecc.3
2
Applicabilità
dell’agevolazione
agli investimenti
in impianti fotovoltaici
In via preliminare, è lecito domandarsi se
l’investimento in impianti fotovoltaici possa
considerarsi, per sua natura, un “investimento
ambientale” nel senso sopra precisato.
Ebbene, su tale questione si era espressa già
nel 2011 Assonime4 che aveva affermato che
l’impianto fotovoltaico, consentendo di ridurre le emissioni di CO2 nell’ambiente rispetto
all’uso di energia tradizionale, potesse rientrare nel novero degli investimenti ambientali. Tale questione è stata, successivamente,
confermata tanto a livello di prassi5, quanto
a livello normativo, a seguito dell’emanazione
dell’art. 19 del V Conto energia che ha riconosciuto, seppur con taluni limiti di cui si dirà
oltre, l’applicabilità della Tremonti Ambiente
ai costi riferibili agli investimenti operati nel
settore della produzione di energia elettrica di
fonte solare che danno diritto all’erogazione
delle c.d. tariffe incentivanti, in tal modo qualificando gli impianti fotovoltaici quali investimenti ambientali nel senso sopra precisato.
3
Gli incentivi per il settore
fotovoltaico e i relativi
divieti di cumulabilità
In ordine alla questione circa la cumulabilità
2 Per completezza si precisa che il co. 14 dell’art. 6 reca una disposizione antielusiva applicabile qualora i beni che formano
oggetto degli investimenti agevolati siano ceduti entro il secondo periodo di imposta successivo a quello in cui sono
stati effettuati. In tal caso, il reddito escluso dall’imposizione si determina diminuendo l’ammontare degli investimenti
ambientali di un importo pari alla differenza tra i corrispettivi derivanti dalle predette cessioni e i costi sostenuti nello
stesso periodo di imposta per la realizzazione degli investimenti ambientali.
3 Al contrario, gli investimenti in beni ambientali effettuati mediante contratto di locazione finanziaria potranno rilevare
(per l’utilizzatore) ai fini della detassazione del reddito (cfr. risoluzione 25.7.2005 n. 95).
4 Cfr. Approfondimento 8/2011, p. 3.
5“Gli impianti fotovoltaici […] rientrano nel novero degli investimenti ambientali in quanto consentono di sfruttare
105
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
106
della tariffa incentivante con l’agevolazione
della Tremonti Ambiente, il punto di partenza
cui fare riferimento è l’assenza, nell’ambito di
quest’ultima disciplina, di uno specifico divieto di cumulo. Pertanto, in base ai principi più
volte affermati dall’Agenzia delle Entrate6, non
sussistendo, dal tenore letterale della norma,
una previsione di non cumulabilità della Tremonti Ambiente con altre agevolazioni, in prima analisi dovrebbe concludersi che il cumulo
è, in linea di principio, consentito e che eventuali condizioni di cumulabilità dovrebbero,
al più, essere verificate nell’ambito della disciplina relativa alla tariffa incentivante.
Tenuto conto del complesso quadro normativo di riferimento, è necessario ripercorrere
tutti gli interventi normativi succedutisi nel
tempo che hanno espressamente affrontato il
tema della cumulabilità della tariffa incentivante con agevolazioni di carattere fiscale.
A tal riguardo deve, in primo luogo, richiamarsi
l’art. 2 comma 152 della L. 244/2007 che, con
specifico riferimento alla produzione di energia elettrica da impianti alimentati da fonti
rinnovabili entrati in esercizio in data successiva al 30 giugno 2009, incentivata mediante
il rilascio di certificati verdi, ha espressamente
previsto che il diritto di accesso a tali incentivi
spetti solo “a condizione che i medesimi impianti non beneficino di altri incentivi pubblici
di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto energia, in conto capitale o in
conto interessi con capitalizzazione anticipata
assegnati dopo il 31 dicembre 2007”. Tale divieto assoluto di cumulo, in quanto espressamente riferito agli impianti che hanno avuto
accesso agli incentivi di cui alla L. n. 244/2007,
non sussiste, tuttavia, per gli incentivi costi-
tuiti dalla tariffa incentivante. Per quest’ultima, infatti, si applicano i provvedimenti attuativi dell’art. 7 del DLgs. 29.12.2003 n. 3877.
L’art. 7 del DLgs. 387/2003 rinvia a più decreti
interministeriali per la definizione dei criteri
per l’incentivazione della produzione di energia elettrica, nonché per la definizione delle
condizioni per la cumulabilità dell’incentivazione con altri incentivi. Trattasi, in particolare, dei seguenti decreti: il DM 28.7.2005 (c.d. I
Conto energia); il DM 19.2.2007 (c.d. II Conto
energia); il DM 6.8.2010 (c.d. III Conto energia); il DM 5.5.2011 (c.d. IV Conto energia); il
DM 5.7.2012 (c.d. V Conto energia). Orbene, il
primo punto di riferimento è costituito dall’art.
9 del DM 19.2.2007, che ha previsto che “le tariffe incentivanti […] non sono applicabili all’elettricità prodotta da impianti fotovoltaici per
la cui realizzazione siano o siano stati concessi
incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto capitale e/o in
conto interessi con capitalizzazione anticipata,
eccedenti il 20% del costo dell’investimento”.
Ne consegue che, sulla base di tale previsione di legge, la tariffa incentivante di cui al II
Conto energia è cumulabile con altri incentivi
pubblici (quale la Tremonti Ambiente), purché
questi ultimi non superino il 20% del costo
dell’investimento. Una conferma di tale conclusione si è avuta solo con il decreto relativo
al V Conto energia che, seppur con tecnica legislativa non del tutto lineare, ha previsto, con
norma di esplicito carattere interpretativo, che
con riferimento al II Conto energia “il limite di
cumulabilità ivi previsto si applica anche alla
detassazione per investimenti di cui all’art. 6, c.
13 e ss. della legge 23 dicembre 2000, n. 388”.
Viceversa, l’art. 5 comma 4 del DM 6.8.2010,
l’energia solare, contribuendo alla protezione dell’ambiente, allo sviluppo sostenibile e alla riduzione delle emissioni
di CO2 rispetto all’uso di energia da fonte tradizionale” (cfr. interpello DRE Toscana 14.3.2012, in Banca Dati Eutekne).
Analogamente, il Ministero per lo Sviluppo economico, con nota 15.9.2011 n. 0018485, ha chiarito che “gli impianti
fotovoltaici […] ricadono […] nell’ambito applicativo dell’art. 6, commi da 13 a 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388”.
6 Cfr. in particolare, circolare Agenzia Entrate 27.10.2009 n. 44 e risoluzione Agenzia Entrate 11.7.2002 n. 226.
7 Tale norma prevede che, al fine di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili, la produzione di energia elettrica da fonte solare sia agevolata attraverso una specifica tariffa incentivante di importo decrescente e di durata tale da
garantire una equa remunerazione dei costi di investimento e di esercizio. Tale incentivo è erogato per venti anni, in ragione
dell’energia fotovoltaica prodotta annualmente dall’impianto.
dopo aver elencato espressamente i benefici
e contributi pubblici cumulabili con le tariffe
incentivanti, richiamando l’art. 9 del II Conto
energia sopra menzionato, ha posto un’ulteriore condizione alla predetta cumulabilità,
ovverosia che “i bandi per la concessione degli
incentivi siano stati pubblicati prima della data
di entrata in vigore del presente decreto e che
gli impianti entrino in esercizio entro il 31 dicembre 2011”.
L’art. 5 del DM 5.5.2011, poi, discostandosi ulteriormente dai precedenti conti energia, ha
stabilito in primo luogo che pur dovendo farsi
salvo quanto richiamato dall’art. 5 comma 4
del III Conto energia, i benefici e contributi
pubblici cumulabili con le tariffe incentivanti
sono solo quelli ivi elencati espressamente; in
secondo luogo che “le tariffe incentivanti di
cui al presente decreto non sono applicabili
qualora, in relazione all’impianto fotovoltaico,
siano state riconosciute o richieste detrazioni
fiscali”8; e, infine che “Dal 1° gennaio 2013 si
applicano le condizioni di cumulabilità degli
incentivi secondo le modalità di cui all’art.
26 del D.lgs. n. 28/2011, come definite con i
decreti attuativi di cui all’art. 24, c. 5, dello
stesso decreto”9. Sarebbe, quindi, ammessa
la cumulabilità tra tariffa incentivante e
Tremonti Ambiente, solo a decorrere dal 1°
gennaio 2013. Tale “apertura” è del tutto irrilevante attesa la sopra citata sopravvenuta
impossibilità di avvalersi della Tremonti Ambiente per gli investimenti successivi al 26
giugno 201210.
Da ultimo, il V Conto energia, ha ribadito il
contenuto dell’art. 5 del IV conto energia, ivi
inclusa la previsione di cumulabilità a decorrere
dal 1° gennaio 2013 (art. 12 del DM 5.7.2012).
La questione circa la possibilità di fruire
dell’agevolazione in rubrica unitamente alle
varie tariffe incentivanti da parte dei soggetti
in possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi
per beneficiarne è stata oggetto di particolare
attenzione da parte degli operatori, anche prima che intervenissero i chiarimenti forniti per
effetto dell’emanazione del V Conto energia
(peraltro espliciti solo per quanto riguarda il II
Conto energia). Tale dibattito si è incentrato,
in particolare, proprio sulla cumulabilità con
gli incentivi di cui al IV Conto energia, la cui
disciplina appare particolarmente articolata.
In tale dibattito un ruolo centrale è stato svolto
dalla risposta del gennaio 2013 fornita dal Ministero dello Sviluppo economico ad un quesito proposto da Assonime, successivamente
resa pubblica11. In tale occasione il Ministero
dello Sviluppo economico ha affermato che la
cumulabilità della tariffa fotovoltaica con la
Tremonti Ambiente è variamente regolata dai
diversi conti energia succedutisi nel tempo.
Orbene se nessun dubbio si pone in merito alla
cumulabilità tra Tremonti Ambiente e II Con-
107
8 Fermo restando per gli impianti facenti uso di energia solare per la produzione di calore o energia, il diritto al beneficio
della riduzione dell’IVA di cui al DPR 633/1972 e al DM 29.12.1999 del Ministro delle Finanze.
9 Tale disposizione ha quindi qualificato la Tremonti Ambiente quale “incentivo pubblico di natura nazionale, regionale,
locale o comunitaria in conto capitale e/o in conto interessi con capitalizzazione anticipata”. Tale qualificazione, seppur
con specifico ed espresso riferimento alla sola tariffa incentivante di cui al II Conto energia, dovrebbe potersi estendere
anche al III e IV Conto energia, alla luce anche della sostanziale identità della formulazione delle disposizioni di cui al III
e IV Conto energia nonché della natura interpretativa di tale disposizione.
10 Sulla base delle condizioni previste dal c.d. Decreto Romani (DLgs. 3.3.2011 n. 28). Secondo quanto affermato da Confindustria Modena (cfr. circolare 29.11.2011 n. 11097, in Banca Dati Eutekne) la ratio della norma (art. 26) che prevede la
possibilità di cumulo dal 1° gennaio 2013 è quella di rendere più efficiente ed omogeneo il generale sistema degli incentivi, riconducendo a decorrere dal 2013 la cumulabilità per gli impianti fotovoltaici alla regola generale della cumulabilità
valevole per tutte le altre fonti rinnovabili. In particolare è consentito cumulare le tariffe incentivanti con la detassazione
dal reddito d’impresa per acquisto di apparecchiature e macchinari, compreso l’acquisto per investimenti ambientali.
11 Si veda la notizia pubblicata da Assonime il 23.1.2013, in Banca Dati Eutekne. Gli uffici regionali dell’Amministrazione
finanziaria che in precedenza erano stati chiamati ad esprimersi sul tema (interpelli alle DRE Toscana 14.3.2012 e
Marche 30.6.2012) si erano limitati ad affermare che “rientrando la disciplina della descritta tariffa incentivante
nella competenza del Ministero dello Sviluppo Economico, spetta a tale Autorità ogni valutazione in ordine all’attuazione della normativa richiamata, anche in termini di cumulabilità”.
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
to energia12, la tariffa incentivante di cui al III
Conto energia non sarebbe, invece, cumulabile
con la Tremonti Ambiente, posto che tale agevolazione non compare nell’elenco tassativo di
cui all’art. 5 del predetto III Conto energia, né
può considerarsi un incentivo pubblico erogato “previo bando” in base al successivo comma
413; parimenti la tariffa incentivante di cui al
IV Conto energia non sarebbe cumulabile con
la Tremonti Ambiente, posto che nemmeno
tale agevolazione compare nell’elenco tassativo di cui al IV Conto energia, né il rinvio al
III Conto energia può considerarsi d’aiuto a tal
fine, visto che anche per il III Conto energia il
divieto di cumulo sarebbe assoluto14.
Nel giungere a tali conclusioni, il Ministero
ha richiamato la ratio delle norme in materia
di cumulabilità delle tariffe incentivanti con
altre agevolazioni, tale essendo “l’opportunità
di evitare che sullo stesso investimento si concentrassero più benefici pubblici, atteso che
la tariffa fotovoltaica già remunera i costi di
investimento e di esercizio”.
La risposta fornita dal Ministero dello Sviluppo economico è stata accolta negativamente
dalla dottrina. Ad avviso di chi scrive ciò che
va sottolineato è che la asserita cumulabilità
solo per il II Conto energia, ma non per i
successivi, a ben vedere, non può in alcun
modo ritenersi coerente da un punto di vista sistematico: difatti, da ciò conseguirebbe
un diverso trattamento ai fini della cumulabilità, basato esclusivamente sul momento
in cui l’impianto fotovoltaico cui spetta la
tariffa incentivante è entrato in esercizio, a
prescindere dal periodo oggetto della scelta
incentivante del legislatore che presiede alla
Tremonti Ambiente (che va ben oltre l’ambito
del II Conto energia).
Il tema della cumulabilità della tariffa incentivante, tuttavia, assume connotati particolarmente preoccupanti ove si abbia riguardo
ad una pronuncia avente ad oggetto un’altra
agevolazione di carattere ambientale (nel caso
specifico il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno, c.d. Visco Sud)15: l’Agenzia delle Entrate ebbe ad affermare che, in
caso di utilizzo del credito d’imposta per una
percentuale superiore al 20%, il contribuente
“perderà il beneficio della tariffa incentivante
erogata per l’energia prodotta annualmente
dall’impianto fotovoltaico”. Appare quindi particolarmente significativo che anche in tempi
più recenti (7 novembre 201416), una associazione di categoria dia conto di un’interlocuzione con il GSE che conferma in toto le conclusioni cui è giunto il MISE nel gennaio 2013 (per
quanto inappaganti).
108
12 Alla luce di quanto previsto dall’art. 19 del DM 5.7.2012 (V Conto energia), in base al quale il limite di cumulabilità del
20% si applica “anche alla detassazione per investimenti di cui all’art. 6, c. da 13 a 19 della L. 23 dicembre 2000, n. 388”.
13 Il Ministero, nella sopra menzionata risposta, ha motivato tale interpretazione restrittiva affermando che “la ratio della
norma risiedeva nella necessità di evitare che il divieto di cumulo stabilito dal III e IV conto energia sacrificasse le iniziative oggetto di bandi già pubblicati alla data di entrata in vigore dei medesimi conti energia; inoltre, il tenore derogatorio della disposizione conferma, per un verso, la eccezionalità dell’ipotesi ivi considerata e, per l’altro, la generalità della
regola di divieto di cumulo, con salvezza delle sole ipotesi specificamente previste”. Ebbene, proprio tale affermazione
è stata da taluni ritenuta non condivisibile giacché il riferimento all’esistenza di “bandi”, dal punto di vista sostanziale,
non dovrebbe ritenersi indispensabile per individuare gli incentivi cumulabili; al contrario, ben potrebbe interpretarsi che
la Tremonti Ambiente, in quanto incentivo pubblico, seppur privo di un iter che presupponga l’esistenza di un “bando”,
rientri comunque nelle agevolazioni ammesse al cumulo nel limite del 20%.
14 A tale interpretazione si può muovere l’obiezione di non tenere in debito conto il rinvio normativo operato dal IV Conto
energia al III Conto energia che, a sua volta, rinvia al II Conto energia, e per tale via giungere a concludere per l’ammissibilità
del cumulo anche per il IV, seppur nel limite del 20% del costo dell’investimento (in tal senso Assonime nella videoconferenza del 25.9.2012).
15 Nella quale è stato affermato che il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno “potrà essere fruito e cumulato
con la tariffa incentivante solo nella misura del 20%, costituente la soglia massima di cumulabilità” (risoluzione Agenzia
Entrate 27.1.2009 n. 20).
16 Relazione periodica “assoRinnovabili” del novembre 2014 recante segnalazione delle criticità riscontrate dagli operatori e resoconto sul funzionamento del servizio informatico di supporto ai soci.
4
Profili procedurali
La fruizione del beneficio fiscale è automatica, non essendo richiesta la presentazione di
alcuna istanza preventiva. Tuttavia, al fine di
poter usufruire di tale agevolazione, le imprese interessate sono tenute a rappresentare nel
bilancio di esercizio gli investimenti ambientali realizzati e a comunicare, entro un mese
dall’approvazione del bilancio annuale, gli investimenti effettuati che possiedono i requisiti
per rientrare nell’agevolazione17.
Tale comunicazione è finalizzata a consentire
al Ministero delle Attività produttive, di intesa con il Ministero dell’Ambiente e della tutela
del territorio, di operare, entro il 31 dicembre
dell’anno successivo a quello di riferimento, il
censimento degli investimenti ambientali effettuati e comunicati dalle piccole e medie
imprese nonché di istituire un apposito fondo
presso il Ministero delle Finanze, per provvedere
all’onere derivante dalle misure agevolative18.
Per i soggetti con periodo di imposta coincidente con l’anno solare, la determinazione
della quota di reddito agevolata è determinata come segue: per il periodo d’imposta in
corso al 1° gennaio 2001 19 e per il successivo
(2002), in misura pari all’ammontare degli in-
vestimenti ambientali realizzati; a decorrere
dal 1° gennaio 2003 e per i periodi d’imposta
successivi, in misura pari all’importo eccedente rispetto alla media degli investimenti ambientali realizzati nei due periodi di imposta
precedenti 20.
Tanto premesso, le sopra descritte incertezze in tema di cumulabilità hanno indotto
buona parte degli operatori del fotovoltaico
a comportamenti prudenti. Via via che si
andava consolidando la certezza della cumulabilità (seppur nel limite del 20%) per quanto riguarda in particolare il II Conto energia,
si è posto il tema di come dare per rispettata
la sopra descritta procedura quando ormai i
bilanci relativi agli esercizi in cui si era sostenuto l’investimento e una (o più) dichiarazioni dei redditi erano ormai stati predisposti.
Quali strade erano esperibili per un ripensamento? La nota del MISE di giugno21 e la circostanza
che la stessa desse conto di una interlocuzione
con l’Agenzia delle Entrate ha costituito la attesa conferma ufficiale della possibilità di essere
di fatto rimessi in termini, anche laddove si
fosse omesso di rappresentare in bilancio gli
investimenti ambientali22 realizzati e di effettuare la relativa comunicazione entro trenta
giorni23 al MISE ai fini del censimento degli investimenti da parte del Ministero medesimo. In
17 Sulla base del comunicato del Ministero dello Sviluppo economico del 8.2.2013 (in Banca Dati Eutekne), tale comunicazione per gli investimenti del 2012 (ultimi ad essere agevolati) doveva avvenire “tassativamente” entro e non oltre
30 giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio 2012.
18 Cfr. circolare Agenzia delle Entrate n. 1/2001, cit.
19 La norma in commento è entrata in vigore a decorrere dal 1º gennaio 2001.
20 L’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 1/2001 sopra citata ha proposto il seguente esempio: - investimenti realizzati
nel periodo di imposta 2001: lire 1.000.000; - investimenti realizzati nel periodo di imposta 2002: lire 1.500.000; - investimenti realizzati nel periodo di imposta 2003: lire 2.000.000; - quota di reddito 2003 che non concorre a formare il
reddito imponibile: lire 750.000 (ossia 1.000.000 + 1.500.000: 2 = 1.250.000 - 2.000.000).
21 Nota Min. Sviluppo economico 18.6.2015, in Banca Dati Eutekne.
22 Evidentemente, stante l’espressa disposizione normativa, non è sufficiente che il bilancio accolga tra le voci delle “Immobilizzazioni materiali” gli importi dell’investimento ambientale, ma è necessaria una specifica indicazione al riguardo.
Secondo il documento n. 4/2001 della Fondazione Aristeia, la condizione richiesta dalla norma richiede l’iscrizione,
nell’ambito della voce “Immobilizzazioni materiali”, di un’apposita voce di dettaglio denominata “Immobilizzazioni tecniche ambientali” che accolga i soli costi incrementali anziché l’intero costo di acquisto sostenuto. Di parere analogo,
l’Assonime che, nel corso della videoconferenza del 25.9.2012, aveva affermato la necessità che in Nota integrativa fosse
riportata la determinazione dei “sovraccosti” utilizzati ai fini del calcolo della detassazione ambientale.
23 A tal riguardo la DRE Lazio, con risposta a specifico interpello del 6.6.2013, in Banca Dati Eutekne, in effetti, aveva precisato (in controtendenza a quanto sopra riportato con riferimento al 2012 da parte del MISE) che la comunicazione
relativa agli investimenti agevolati “non è prevista a pena di decadenza dell’agevolazione”.
109
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
110
tale contesto già l’Assonime, nella citata videoconferenza di settembre 2012, aveva sottolineato la necessità di riapprovare il bilancio stesso
ed effettuare la comunicazione al MISE entro
trenta giorni dalla riapprovazione.
Si poneva poi l’ulteriore tema della mancata indicazione della detassazione nella dichiarazione dei redditi in cui si sarebbe dovuto beneficiare della variazione in diminuzione e, soprattutto,
se la stessa fosse “recuperabile a posteriori” tramite una dichiarazione integrativa alla luce della
circolare dell’Agenzia delle Entrate 24.9.2013
n. 31 e delle procedure ivi illustrate.
La richiamata circolare prevede la possibilità
per il contribuente di rappresentare all’Amministrazione finanziaria l’esistenza di elementi
di costo non dedotti in precedenti annualità
attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa limitatamente ai periodi di
imposta ancora suscettibili di attività accertativa al momento di scadenza dei termini di
presentazione della dichiarazione integrativa medesima. Per avvalersi di tale facoltà il
contribuente è tenuto a ricostruire tutte le
annualità d’imposta interessate dall’errore risalendo fino all’ultima annualità dichiarata. In
altri termini, il contribuente deve provvedere
a riliquidare autonomamente la dichiarazione
relativa all’annualità dell’omessa imputazione
– imputandovi il relativo componente negativo
– e, nell’ordine, le annualità successive, fino a
quella emendabile ai sensi dell’art. 2 comma
8-bis del DPR 322/1998; tale norma prevede
che le dichiarazioni dei redditi possono essere
integrate dai contribuenti a proprio favore mediante dichiarazione da presentare non oltre il
termine prescritto per la presentazione della
dichiarazione relativa al periodo successivo24.
Non si può sottacere che tale circolare si riferisce a una procedura speciale stabilita per
riequilibrare fiscalmente la correzione degli
errori in bilancio che abbiano determinato violazione del principio di competenza25 e, quindi,
per consentire la correzione di “errori contabili” ossia “errori commessi nella redazione del
bilancio” derivanti dalla mancata imputazione a Conto economico nel periodo di competenza di un componente negativo di reddito
che produce, in un esercizio successivo, una
sopravvenienza passiva indeducibile. Nel caso
della mancata applicazione dell’agevolazione
Tremonti Ambiente, ci si trova di fronte ad una
fattispecie differente. Non si tratta infatti della commissione di un errore contabile che ha
determinato la mancata imputazione in bilancio di un componente negativo e, conseguentemente, un vizio di competenza, ma della
mancata rilevazione in sede di dichiarazione
dei redditi dell’effetto dell’agevolazione, che
si sarebbe tradotto in una variazione in diminuzione da esporre in un apposito rigo della
dichiarazione medesima.
Ciò non di meno, in considerazione dell’“apertura” dimostrata dall’Agenzia delle
Entrate con detta circolare, in un’ottica di
“equità fiscale”, non sembrava affatto irragionevole ipotizzare una procedura anche per
fattispecie assimilabili a quella di specie, ossia
comportamenti del contribuente “imposti” da
ragioni di prudenza – resa necessaria dall’ambiguità del legislatore – e rivelatisi successivamente come fiscalmente penalizzanti.
Viceversa, la risposta dell’Agenzia delle
Entrate in occasione di un question time in
Commissione Finanze del 15 ottobre u.s., in
netta controtendenza, ha negato la possibi-
24 La circolare specifica, inoltre, che tale dichiarazione rappresenta il momento in cui gli esiti di tale attività di autoliquidazione da parte del contribuente vengono resi noti all’Amministrazione finanziaria; ne consegue che, a seguito dei controlli
automatizzati, emergendo degli importi esposti nella predetta dichiarazione integrativa non coerenti con la dichiarazione
del periodo di imposta precedente, sarà generata una comunicazione di irregolarità il cui esito sarà comunicato al contribuente; quest’ultimo, in tale sede, dovrà esibire la documentazione idonea ad evidenziare le modalità di rideterminazione
delle risultanze che emergono dalla dichiarazione integrativa. La struttura dell’Agenzia preposta al controllo di tali fattispecie esaminerà la documentazione presentata ai fini dell’eventuale annullamento della comunicazione.
25 Si tratta quindi dell’ipotesi in cui il contribuente non ha imputato in bilancio il componente negativo nel corretto esercizio
di competenza e, in un periodo d’imposta successivo, ha contabilizzato, al Conto economico o nello Stato patrimoniale,
lità di ricorrere alla “dichiarazione a favore
pluriennale”. Poiché, ormai, l’ultima dichiarazione emendabile a favore è per forza di cose
successiva rispetto a quella che avrebbe dovuto accogliere la variazione in diminuzione in
cui si sostanzia l’agevolazione, l’unica strada
percorribile rimane quella dell’istanza di rimborso. Una soluzione decisamente poco appagante: basti pensare che i benefici in termini
di minore imposta (pur a fronte di un’unica
variazione in diminuzione che sovente cade
in un esercizio – quello dell’investimento iniziale – in cui non vi sono o vi sono in misura
limitata, ricavi e quindi con l’effetto di incrementare la perdita fiscalmente riportabile a
nuovo) possono riverberarsi per più periodi di
imposta per ognuno dei quali occorrerà calcolare e chiedere il rimborso dell’imposta che
la variazione in diminuzione avrebbe consentito di risparmiare, ai sensi dell’art. 38 del DPR
602/1973, entro 48 mesi dal versamento26.
Occorre comunque sottolineare che l’individuazione del dies a quo del termine decadenziale per la presentazione della domanda
di rimborso ha formato oggetto di numerose
pronunce della prassi amministrativa e della
giurisprudenza.
In particolare, nonostante la prassi amministrativa sia sostanzialmente ferma nel ritenere che
il decorso del termine di 48 mesi debba farsi
risalire alla data dell’errato versamento dell’imposta, senza eccezione alcuna, diversa è la posizione della giurisprudenza, in seno alla quale
esistono invece pronunce di segno opposto.
La pronuncia più recente e di maggiore aper-
tura è quella espressa dalla Cassazione con la
sentenza 16.1.2013 n. 959; tale pronuncia riconosce l’esigenza di introdurre un certo temperamento del principio di intangibilità dei
meccanismi decadenziali, per renderli maggiormente compatibili con la tutela dei diritti
soggettivi del contribuente. In particolare, è
stata riscontrata l’esigenza che i termini di
decadenza (incluso quello di 48 mesi previsto dall’art. 38), previsti al fine di garantire
la certezza del diritto, debbano garantire che
l’inerzia del titolare del diritto ad esercitarlo
sia sanzionata solo quando l’inerzia stessa sia
frutto di trascuratezza e non quando derivi da
forza maggiore o errore incolpevole, tanto più
se determinato da un soggetto di diritto pubblico (qual è l’Amministrazione finanziaria) 27.
5
La quantificazione
dell’agevolazione:
l’approccio incrementale
Ai fini della determinazione del costo di acquisto nel senso sopra precisato, il legislatore
ha altresì chiarito che “gli investimenti ambientali vanno calcolati con l’approccio incrementale”.
Sulla base delle interpretazioni fornite in materia dall’Agenzia delle Entrate28, il costo cd.
“incrementale” dovrebbe derivare dal confronto
tra i costi dell’impianto fotovoltaico rispetto ai
costi caratteristici di una centrale elettrica tradizionale29. In tal modo si determina il maggiore
costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto del
un componente negativo per dare evidenza dell’errore, con conseguente ripresa a tassazione. La circolare, in effetti, è
stata emanata “alla luce dell’esigenza di evitare lo spostamento del momento impositivo e di garantire tanto il rispetto
del divieto di doppia imposizione (derivante dalla mancata deduzione di un componente negativo) quanto la corretta
determinazione del reddito rappresentativo della capacità contributiva riferibile al singolo periodo di imposta”.
26 Tale norma prevede che è possibile presentare l’istanza per il rimborso di un versamento effettuato “entro il termine
di decadenza di quarantotto mesi dalla data di versamento dello stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed
inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”.
27 Disponibile in Banca Dati Eutekne. La Cassazione ha poi sollecitato le Sezioni Unite a dirimere il contrasto esistente in
seno alla giurisprudenza, le quali allo stato non ci risulta si siano ancora pronunciate.
28 Risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002, cit., secondo cui “i benefici per gli investimenti ambientali sono rigorosamente
limitati ai costi di investimento supplementare (sovraccosti) necessari per conseguire gli obiettivi di tutela ambientale”.
29 Da calcolarsi sulla base della più recente disciplina comunitaria del 2008 in materia di “Disciplina comunitaria degli
aiuti di stato per la tutela ambientale” (2008|C 82|01).
111
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
112
bene con le caratteristiche di tutela ambientale
rispetto al minor costo che l’impresa avrebbe
sostenuto se, nell’acquisizione del bene stesso,
non avesse valutato gli effetti sull’ambiente.
Anche qualora il costo supplementare sostenuto non sia facilmente isolabile dal costo totale
dell’investimento, il metodo di calcolo dell’investimento deve, comunque, “ispirarsi a criteri
oggettivi basati, per esempio, sul costo di un investimento analogo sotto il profilo tecnico ma
che non consenta di raggiungere lo stesso grado
di tutela ambientale”30.
Solo nel giugno scorso è arrivata l’attesa conferma del MISE31 che precisa che il “costo dell’investimento” richiamato nella disposizione in
questione si riferisce all’intero costo imputabile all’investimento per l’impianto fotovoltaico, iscritto nel bilancio di riferimento.
Una volta così determinato, dovrebbe poi essere rettificato dei “vantaggi economici ottenuti
in conseguenza dell’investimento ambientale
realizzato, valutati in termini di aumento di
capacità produttiva, di risparmi di spesa e di
produzioni accessorie aggiuntive”, tra i quali
sarebbero ricompresi anche i ricavi derivanti
dalla vendita di energia nonché i contributi
ricevuti sotto forma di tariffa incentivante32.
La Regione Toscana, nella delibera della Giunta
Regionale dell’11.5.2009 n. 372 ha proposto un
metodo di calcolo matematico per l’analisi dei
sovraccosti, che è stato considerato da Assonime33 “un utile riferimento oggettivo e affidabile
per determinare il sovraccosto dell’investimento fotovoltaico”. Anche la Regione Veneto, con
delibera 16.6.2009 n. 1713 ha adottato un modello matematico similare.
Entrambi i metodi di calcolo proposti dagli
enti regionali richiedono dapprima la determinazione del sovraccosto da investimento e
successivamente la determinazione del profitto operativo connesso agli investimenti in impianti di produzione di energia rinnovabile34. Il
sovraccosto netto è pertanto determinato in
misura pari alla differenza tra il sovraccosto
30 Cfr. risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002, che rinvia alla normativa comunitaria in materia.
31 Nota informativa 19.6.2015, cit.
32 Regione Toscana, delibera 11.5.2009 n. 372; Regione Veneto, delibera 16.6.2009 n. 1713; C.T. Prov. Treviso 10.1.2013
n. 7/5/13, in Banca Dati Eutekne; Approfondimento Assonime n. 8/2011.
33 Cfr. Approfondimento n. 8/2011, cit.
34 Tale analisi richiede, quindi, in primo luogo, secondo la delibera della Regione Toscana:
a) la determinazione del costo dell’impianto per singolo KWp installato (pari ai costi sostenuti rapportati alla potenza
nominale); b) l’individuazione del costo medio di un impianto di produzione di energia tradizionale per singolo KWp
installato (che assumiamo pari a 438 €/KWp, come da tabella a p. 106 della delibera); c) l’individuazione del numero di
ore medie equivalenti di funzionamento annuale dei due impianti (stimabile per l’impianto tradizionale in misura pari a
8.000 ore, come da tabella a p. 106 della delibera); d) il rapporto tra i due valori di cui al punto c) che precede consente di
determinare il coefficiente di pari capacità produttiva legata alla producibilità degli impianti per singolo KWp installato.
Ipotizzando per l’impianto fotovoltaico un numero di ore medie pari a 1.400 ore, il rapporto è pari a 0,175; e) moltiplicando tale rapporto con il costo di cui sub b), si ottiene il costo per la realizzazione di un impianto di energia tradizionale
comparabile ad un impianto fotovoltaico, pari a 76,65 €/KWp; f) la differenza tra il costo per KWp installato per la realizzazione dell’impianto fotovoltaico di cui sub a), e il costo per KWp installato per la realizzazione di un impianto di produzione
di energia tradizionale, pari a € 76,65, rappresenta il sovraccosto medio per unità di potenza installata.
Una volta individuato il sovraccosto medio, si passa ad individuare il profitto operativo connesso con gli investimenti effettuati. Tale determinazione passa attraverso: a) la determinazione del costo medio per KWp di energia prodotta
dall’impianto fotovoltaico; b) la determinazione del ricavo medio per KWp di energia prodotta dall’impianto fotovoltaico.
Quanto al costo medio, questo si determina come segue: C = CI + CO + I – (VR * (1 + i) elevato a – n) dove:
CI= costi d’investimento totale
CO= costi totali di gestione e manutenzione
I= interessi passivi maturati sulle somme necessarie per la realizzazione dell’impianto
VR= valore residuo a fine vita dell’impianto
n= vita media dell’impianto
i= tasso di interesse applicato.
Quanto al ricavo medio, lo stesso tiene conto dei ricavi per tariffa incentivante, dei ricavi per energia in ritiro dedicato e dell’eventuale risparmio di costo per energia autoprodotta e consumata in sostituzione dell’energia acquistata dall’estero. Il ricavo
da investimento e il profitto operativo rilevato
nei primi cinque anni di vita dell’impianto35.
Peraltro, a garanzia dell’oggettività del calcolo, l’Agenzia delle Entrate ha reputato “quanto mai opportuno che le caratteristiche tecniche dei beni oggetto d’investimento, tanto con
riferimento alla loro capacità di ridurre l’impatto ambientale quanto di generare futuri
risparmi di spesa, siano certificate da soggetti
preposti a tale scopo con la specifica menzione che gli stessi sono necessari per prevenire,
ridurre e riparare danni causati all’ambiente
e che non trattasi di investimenti realizzati in
attuazione di obblighi di legge”36.
La quota di reddito agevolata è determinata in
misura pari all’importo eccedente rispetto alla
media degli investimenti ambientali realizzati
nei due periodi di imposta precedenti. Ne consegue che si rende necessario prima determinare il valore medio annuo degli investimenti
ambientali compiuti nel biennio precedente e
successivamente commisurare tale valore alla
deduzione, deducendolo dall’ammontare dell’investimento ambientale realizzato nell’anno.
6
Considerazioni conclusive
Gli interventi del legislatore e di prassi sono
palesemente convergenti verso una maggiore
elasticità (e per tale via appetibilità) nell’applicazione dell’agevolazione in commento 37.
Ad avviso di chi scrive, gli sforzi fatti non possono essere in alcun modo sottaciuti perché
– seppur con un percorso assai accidentato –
consentono ora di affermare con ragionevole convinzione che l’agevolazione è tuttora
fruibile, seppur nei limiti e nel rispetto delle
condizioni previste dalla Legge e dai successivi
interventi di legislazione secondaria e prassi.
Permangono comunque difficoltà applicative
concrete (e a questo punto le speranze di un
mutamento di rotta sono veramente esigue) su
cui il legislatore e l’Agenzia non sono riusciti
a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ci riferiamo,
evidentemente alla disparità di trattamento
dei vari Conti energia (cumulabilità con gli incentivi di cui al II Conto energia ammessa, con
i successivi non ammessa) e alla procedura di
rimborso (con riferimento alla quale era più
che lecito attendersi un’apertura, non foss’altro
per ragioni di economia delle risorse della PA).
La partita che rimane da giocare, auspicabilmente senza morti e feriti, è ora quella delle concrete
modalità di quantificazione dell’agevolazione.
Ma su questo aspetto l’Agenzia delle Entrate,
in un atteso contributo che colga l’evoluzione
dei tempi, potrà mostrare il coraggio necessario
per fornire un quadro di prassi ragionevolmente
aderente alla realtà economica sottostante.
113
complessivo, rapportato alla quantità di energia producibile, consente di determinare il ricavo medio per KWp. Utilizzando
la metodologia di calcolo indicata nella delibera, sottraendo il costo medio dal ricavo medio, si ottiene il profitto operativo
medio per KWp di energia prodotta. Il profitto operativo medio, commisurato al numero di KWh prodotti nei primi cinque
anni di vita dell’impianto, consente di individuare il costo medio ammissibile quale differenza con il sovraccosto medio. Tale
valore, parametrato alla potenzia nominale dell’impianto, consente di individuare il costo di investimento ammissibile totale.
35 Conformemente alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato ambientali.
36 Risoluzione Agenzia Entrate n. 226/2002. Proprio alla luce di tutto quanto sopra, Confindustria, nella circolare n. 11097/2011,
cit., ha reso noto che, per la peculiare caratteristica della Tremonti Ambiente (e, in particolare, del criterio dell’approccio
incrementale che caratterizza il calcolo della quota ammissibile di aiuto), il vantaggio effettivo derivante dal cumulo potrebbe essere, di fatto, annullato in quanto il beneficio derivante dalla tariffa fotovoltaica dovrebbe essere detratto dai
costi ammissibili alla detassazione. Anche in ambito giurisprudenziale, la Commissione Tributaria Provinciale di Treviso,
nell’esaminare un caso nel quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato le modalità di determinazione della detassazione
ambientale di un contribuente in relazione ai costi di realizzazione di un impianto fotovoltaico, ha stabilito che il calcolo
effettuato dal contribuente fosse condivisibile “nella sussistenza di oggettive difficoltà per dare esecuzione e ossequio alla
norma”, pur rilevando l’assenza di una perizia con la quale fornire precisi termini di confronto (C.T. Prov. Treviso 10.1.2013
n. 7/5/13, cit.). Nello stesso senso anche C.T. Prov. Treviso 12.7.2013 n. 66/4/13, in Banca Dati Eutekne, con cui la medesima
Commissione Tributaria ha valorizzato in modo significativo quanto indicato nelle perizie rilasciate dai tecnici, considerando
la carenza di indicazioni operative con riferimento alle modalità di calcolo da adottare.
37 Cfr. art. 1 co. 1 lett. c) del DM 7.9.2007 n. 174.
TRIBUTI
NUOVE AGEVOLAZIONI PER
L’INGRESSO IN ITALIA DI LAVORATORI
Giuseppe MARIANETTI
Avvocato – Studio Tributario Societario Deloitte
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Anna Maria ZANGARDI
Avvocato – Studio Tributario Societario Deloitte
114
Il decreto legislativo del 14 settembre 2015 n. 147 recante “Misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”, in vigore dal 7 ottobre 2015, è intervenuto in ambito di fiscalità
nazionale e internazionale, in attuazione della delega fiscale, ridisegnandone la disciplina e
apportando numerose novità in materia. In particolare, l’art. 16 del decreto ha previsto un
regime fiscale di particolare favore per incentivare l’ingresso in Italia di lavoratori altamente
specializzati.
1
Premessa
Il c.d. “decreto internazionalizzazione” (DLgs.
14.9.2015 n. 147), emanato in attuazione
della delega fiscale approvata dal Parlamento con la L. 11.3.2014 n. 23, è finalizzato alla
riduzione degli ostacoli e dei vincoli alle operazioni frontaliere delle società operanti nel
panorama economico odierno, nell’ottica della creazione di un sistema normativo stabile e
trasparente per gli investitori.
Le misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese si pongono il fondamentale obiettivo, da un lato, di garantire un contesto di maggiore certezza nella determinazione
delle basi imponibili ai fini delle imposte sul
reddito e, dall’altro, mirano a favorire l’internazionalizzazione delle imprese, italiane.
Tra le previsioni contenute nel menzionato
decreto si vuole porre l’accento sullo speciale
regime fiscale introdotto dall’art. 16 per l’ingresso di lavoratori in Italia. L’obiettivo specifico che intende perseguire il legislatore è di
incentivare ed attrarre in Italia i “talenti” provenienti dall’estero. Come noto, la tematica
della “fuga dei cervelli” è al centro del dibattito politico da oramai molti anni e per cercare
di arginare (ovvero invertire) il fenomeno sono
state introdotte normative fiscali di favore, tra
le quali spicca la L. 30.12.2010 n. 238 volta
proprio a incentivare il rientro di tali soggetti
nel nostro Paese. La menzionata legge, prima
dell’emanazione del DLgs. 147/2015, era stata
prorogata sino al 31 dicembre 2017; il decreto
annulla tale proroga e, pertanto, la L. 238/2010
è destinata ad esaurire i propri effetti alla scadenza del periodo d’imposta 2015. Deve, tuttavia, segnalarsi che la legge di stabilità 2016, in
corso di approvazione, prevede espressamente
che potranno continuare a godere, sino al 31
dicembre 2017, dei benefici previsti dalla L.
238/2010 i lavoratori rientrati in Italia entro il
31 dicembre 20151.
Prima di addentrarci in un primo commento
della novella normativa, riteniamo utile svolgere alcune considerazioni sull’impianto della
L. 238/2010, anche al fine di individuare le
principali differenze tra i due provvedimenti.
2
Excursus normativo:
la legge 238/2010
La L. 238/2010 è stata emanata con l’intento
di contribuire allo sviluppo del Paese mediante
la valorizzazione delle esperienze professionali
maturate dai cittadini comunitari che hanno
studiato, lavorato o che hanno conseguito una
specializzazione post lauream all’estero.
L’agevolazione si sostanza in una riduzione
della base imponibile; in particolare i redditi
di lavoro dipendente, di lavoro autonomo e
d’impresa concorrono alla formazione della
base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in misura ridotta e
più precisamente al 20%, per le lavoratrici e
al 30%, per i lavoratori 2.
L’incentivo è, però, “a termine”: rispetto all’originaria previsione che lo estendeva fino al 31
dicembre 2013, il DL 29.12.2011 n. 2163 aveva
provveduto ad ampliare la durata dell’agevolazione fino al 31 dicembre 2015 e, da ultimo,
l’art. 10 comma 12-octies del DL 31.12.2014
n. 192 c.d. milleproroghe4, come modificato
dalla legge di conversione 27.2.2015 n. 11, ha
disposto l’estensione degli incentivi fino al 31
dicembre 20175.
Come accennato il DLgs. 147/2015 ha soppresso tale ultima estensione temporale; per
semplicità di esposizione si farà comunque
riferimento alla citata normativa utilizzando
il presente, anche considerando che la legge
di stabilità 2016 potrebbe neutralizzare, in
taluni casi, l’abrogazione dell’incentivo.
Dal punto di vista soggettivo, la parziale esenzione è riservata ai cittadini dell’Unione Europea
assunti con un contratto di lavoro dipendente o
che avviano un’attività di lavoro autonomo o
d’impresa sul territorio nazionale che siano disposti a trasferire il proprio domicilio, nonché la
propria residenza, in Italia entro 3 mesi dall’assunzione ovvero dall’avvio dell’attività.
Naturalmente, la L. 238/2010 contempla tutta
una serie di condizioni per poter fruire del beneficio fiscale che si differenziano a seconda
che i beneficiari abbiano trasferito all’estero
la propria residenza6 per svolgere attività di
1 La legge non è stata ancora approvata al momento della redazione del presente articolo. Al riguardo, il disegno di legge
stabilità 2016 aggiunge al co. 4 dell’art. 16 del DLgs. 147/2015 il seguente periodo: “i soggetti di cui all’articolo 2, comma
1, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, che si sono trasferiti in Italia entro il 31 dicembre 2015 applicano, per il periodo
d’imposta in corso al 31 dicembre 2016 e per quello successivo, le disposizioni di cui alla medesima legge nei limiti e alle
condizioni ivi indicati; in alternativa possono optare, con le modalità definite con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, per il regime
agevolativo di cui al presente articolo”.
2 Il successivo DM 3.6.011 ha delineato in modo più puntuale l’ambito soggettivo dei beneficiari dell’incentivo; il provvedimento Agenzia Entrate 29.7.2011 n. 97156 è intervenuto sugli aspetti operativi e, da ultimo, la circolare Agenzia Entrate
4.5.2012 n. 14 ha fornito i necessari chiarimenti in ambito sia sostanziale che procedurale.
3 Conv., con modificazioni, L. 24.2.2012 n. 14.
4 Art. 10 co. 12-octies del DL 31.12.2014 n. 192, conv., con modificazioni, L. 27.2.2015 n. 11.
5 Si veda Marianetti G. “Nuova proroga per l’incentivo al rientro dei lavoratori in Italia”, Corr. Trib., 2015, p. 1075 e ss.
6“L’Agenzia delle entrate considera il termine «residenza» come sinonimo di «residenza anagrafica». Al riguardo, l’iscrizione anagrafica si risolve in un elemento meramente formale; su tale requisito la circolare n. 14/E del 2012 ha fornito una
importante precisazione ritenendo che ciò che rileva ai fini dell’agevolazione è che il soggetto interessato abbia effettivamente svolto attività di lavoro o di studio all’estero e sia in grado di dimostrare tale circostanza. Se questa condizione
viene soddisfatta, dunque, l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) corrispondente al periodo di
attività all’estero non assume rilevanza e, pertanto, la condizione dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente si considera soddisfatta anche per coloro che, pur lavorando o studiando all’estero, non si sono mai iscritti all’AIRE,
sempreché il trasferimento del domicilio in Italia avvenga entro il termine dinanzi precisato”. V. delli Falconi F., Marianetti
G. “Il punto sui benefici fiscali per il rientro dei lavoratori in Italia”, Corr. Trib., 2012, p. 1907 e ss.
115
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
116
studio finalizzato all’ottenimento di un titolo
accademico oppure che abbiano svolto all’estero attività di lavoro post lauream 7.
In quest’ultima categoria rientrano coloro i
quali sono in possesso di un titolo di laurea,
avevano risieduto in Italia per almeno 24 mesi
continuativi e che negli ultimi due anni o più,
avevano risieduto fuori dal proprio Paese d’origine e dall’Italia svolgendovi continuativamente attività di lavoro dipendente, di lavoro
autonomo o d’impresa.
Nella cerchia della prima categoria di beneficiari che hanno svolto attività di studio, i c.d.
“cervellini”, rientrano i soggetti che avevano risieduto continuativamente per almeno 24 mesi
in Italia, ma che negli ultimi due o più anni,
hanno risieduto fuori dal proprio Paese d’origine e dall’Italia conseguendovi un titolo di laurea o una specializzazione post lauream.
L’ambito di applicazione dell’agevolazione fiscale, come specificato dalla circolare Agenzia Entrate 4.5.2012 n. 14, sopra richiamata, era stato
esplicitamente esteso anche ai redditi assimilati
a quelli di lavoro dipendente “in forza del rinvio
contenuto nell’art. 52, comma 1, del Tuir, all’art.
50 del medesimo Tuir. Ciò significa, ad esempio,
che l’agevolazione ricade anche sui redditi di
collaborazione coordinata e continuativa o di
collaborazione a progetto di cui alla lettera cbis dell’art. 50 del Tuir e sulle somme ricevute a
titolo di borse di studio di cui alla lettera c) del
medesimo art. 50 del Tuir”8.
In merito al trasferimento della residenza e
del proprio domicilio in Italia e quanto al limite temporale entro il quale effettuarlo, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che l’accesso al beneficio è consentito anche nei casi di
trasferimento della residenza qualora lo spostamento venga effettuato prima dell’inizio
dell’attività, ma sia comunque funzionale allo
stesso. L’Agenzia ritiene che si possa ritenere
“funzionale” il rientro che avviene nei tre mesi
che precedono l’inizio dell’attività medesima.
La circolare n. 14/2012 esclude la necessaria iscrizione all’AIRE (Anagrafe degli italiani
residenti all’estero) del beneficiario nel corso
dello svolgimento del periodo di lavoro all’estero, Ne deriva che la mancata cancellazione
dall’anagrafe nel corso del periodo di permanenza all’estero non è considerata come causa di decadenza del beneficio, a patto che il
trasferimento del domicilio in Italia avvenga
nel rispetto dei termini sopra indicati.
L’Amministrazione, poi, ha confermato che
l’esenzione ha valenza esclusivamente sui
redditi prodotti nel territorio italiano. Pertanto, nel caso in cui un soggetto abbia prodotto nei primi mesi dell’anno redditi al di
fuori del territorio dello Stato e, in quanto
rientrato in Italia in corso d’anno, risulti
fiscalmente residente in Italia, tali ultimi redditi concorrono alla formazione del reddito
complessivo in via ordinaria. Per la quota non
sottratta ad imposizione, in buona sostanza, trovano applicazione le normali regole
di determinazione del reddito imponibile e
dell’imposta. È possibile, pertanto, scomputare gli oneri deducibili di cui all’art. 10 del
TUIR ed operare le ordinarie detrazioni d’imposta. Secondo quanto previsto dalla circolare n. 14/2012, le detrazioni per carichi di
famiglia e quelle stabilite dall’art. 13 del TUIR
(ad esempio, detrazioni per lavoro dipendente), che decrescono al crescere del reddito,
devono essere determinate tenendo conto
del reddito complessivo ridotto per effetto
del beneficio fiscale in questione.
Quanto alla decadenza, il beneficiario va in-
7“L’Agenzia pone fine anche ad un’altra questione oggetto di numerose discussioni ed incertezze: la possibilità o meno
di concedere l’agevolazione fiscale ai c.d. expatriates. Il dubbio riguardava la verifica del requisito dello svolgimento di
attività di lavoro all’estero nel 24 mesi precedenti il rientro in Italia”. V. Quartana C. “Via libera alle agevolazioni fiscali per
il rientro dei lavoratori in Italia”, Fisc. comm. int., 7, 2012, p. 37.
8 Deve tuttavia essere rilevato che “sia la legge n. 238/2010 che il D.M. 3 giugno 2011 fanno riferimento al concetto
di «assunzione» che sembra connotare in modo esclusivo i titolari di un rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, probabilmente, da un punto di vista prettamente tecnico i collaboratori coordinati e continuativi dovrebbero rientrare
nel beneficio in quanto svolgenti un’attività di lavoro, civilisticamente, autonomo”. V. delli Falconi F., Marianetti G., cit.
contro alla perdita degli incentivi sopra descritti nel caso in cui trasferisca nuovamente
la propria residenza o il proprio domicilio fuori dell’Italia prima del decorso dei cinque anni
dalla data della prima fruizione del beneficio.
L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che, in
caso di contratto di lavoro dipendente a tempo determinato avente scadenza anteriore al
decorso del quinquennio, o di risoluzione del
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, o
di cessazione dell’attività di lavoro autonomo
o d’impresa nei cinque anni dalla data di prima fruizione del beneficio, il lavoratore o la
lavoratrice non decadono dall’agevolazione
se non trasferiscono la residenza o il domicilio fuori dall’Italia prima del quinquennio.
In caso di perdita dei benefici fiscali per il venir
meno dei requisiti strettamente previsti dalla
norma, la disposizione prevede il recupero dei
benefici fruiti e l’applicazione delle relative
sanzioni ed interessi.
In relazione ai profili sanzionatori, nella norma mancano indicazioni sulle sanzioni applicabili. In termini teorici, la decadenza dal
beneficio potrebbe, oltre che rappresentare
una fattispecie di omesso versamento delle
imposte, anche integrare un’ipotesi di infedele dichiarazione dei redditi, anche se si ritiene
complesso giustificare, da un punto di vista
sistematico, l’applicazione di tali sanzioni. In
assenza di indicazioni, forse, il comportamento in questione potrebbe ricadere nella fattispecie di omesso versamento.
Da quanto sopra sinteticamente esposto risulta
evidente che l’agevolazione in parola è strettamente finalizzata ad incentivare il rientro in Italia di lavoratori (in senso lato) che erano “fuggiti” all’estero. La ratio del DLgs. 147/2015 è
diversa, in quanto la finalità perseguita è quella
di attrarre talenti a prescindere da una pregressa esperienza lavorativa in Italia.
3
Disciplina introdotta
dal decreto 147/2015
L’art. 16 del DLgs. 147/2015 dispone che il
reddito di lavoro dipendente prodotto in Ita-
lia da lavoratori che trasferiscono la propria
residenza nel territorio dello Stato ai sensi
dell’art. 2 del TUIR concorre alla formazione del reddito complessivo, nella misura del
70%, “al ricorrere delle seguenti condizioni: a)
i lavoratori non sono stati residenti in Italia
nei cinque periodi di imposta precedenti il
predetto trasferimento e si impegnano a permanere in Italia per almeno due anni;
b) l’attività lavorativa viene svolta presso
un’impresa residente nel territorio dello Stato
in forza di un rapporto di lavoro instaurato
con questa o con società che direttamente o
indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate
dalla stessa società che controlla l’impresa;
c) l’attività lavorativa è prestata prevalentemente nel territorio italiano;
d) i lavoratori rivestono ruoli direttivi ovvero
sono in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti con
il decreto del Ministro dell’economia e delle
finanze […]”.
Deve essere rilevato come l’art. 16 citato
preveda “che con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanarsi entro
novanta giorni dalla data di entrata in vigore
del presente decreto, sono adottate le disposizioni di attuazione del presente articolo
anche relativamente alle disposizioni di coordinamento con le altre norme agevolative
vigenti in materia, nonché relativamente alle
cause di decadenza dal beneficio”. Pertanto, sarà di fondamentale importanza capire
quali saranno i contenuti del decreto attuativo per definire l’ambito di operatività della
disposizione.
Trasferimento della residenza
in Italia
L’agevolazione si rende applicabile ai lavoratori che trasferiscono la residenza in Italia ai
sensi dell’art. 2 del TUIR il quale dispone che
“ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior
parte del periodo di imposta sono iscritte nelle
anagrafi della popolazione residente o hanno
117
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
118
nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile” 9.
Nel caso che ci occupa, la verifica della residenza fiscale dovrebbe essere abbastanza agevole posto che i lavoratori in questione dovranno operare prevalentemente in Italia e, in ogni
caso, si presume che provvederanno ad iscriversi all’anagrafe della popolazione residente.
Il richiamo all’art. 2 del TUIR, tuttavia, potrebbe non consentire la fruizione del beneficio
immediatamente; in particolare, posto che lo
status di residenza è collegato all’intero periodo d’imposta, i lavoratori che faranno ingresso in Italia dopo la prima metà dell’anno non
potranno acquisire la residenza fiscale italiana
(non soddisfacendo, dunque, la condizione richiesta dalla norma). Ad esempio, il lavoratore che dovesse essere assunto da una società
italiana a settembre 2016 potrebbe avvantaggiarsi del beneficio fiscale solo a decorrere dal
periodo d’imposta 2017. Secondo il comma 3
dell’art. 16, difatti, le disposizioni in commento
si applicano a decorrere dal periodo di imposta
in cui è avvenuto il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art.
2 del TUIR, e per i quattro periodi successivi.
Altra questione di interesse attiene al coordi-
namento della nozione di residenza accolta
dall’ordinamento italiano con le previsioni delle
convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. L’art. 16 rinvia ad un concetto “domestico” di residenza, ma potrebbe accadere che
un contribuente sia considerato fiscalmente
residente anche nel Paese di provenienza; in tal
caso è necessario fare ricorso alle Convenzioni
internazionali che contengono una disposizione
(normalmente art. 4) volta a dirimere tale conflitto10. Orbene, in applicazione della normativa
internazionale, il lavoratore, pur soddisfacendo
una delle condizioni fissate dall’art. 2 del TUIR,
potrebbe essere considerato fiscalmente non
residente in Italia. Ci si chiede se anche in tale
evenienza il dipendente possa godere del regime fiscale di favore e la risposta, ad avviso di
chi scrive, dovrebbe essere positiva alla luce del
tenore letterale dell’art. 16.
Assunzione in Italia
Il beneficio fiscale è riconosciuto ai titolari di
reddito di lavoro dipendente che svolgano la
propria attività presso un’impresa residente nel
territorio dello Stato in forza di un rapporto di
lavoro instaurato con questa o con società che
9 Per una disamina della nozione di residenza fiscale accolta dall’ordinamento italiano e in ambito OCSE si vedano, tra
gli altri: Capolupo S. “La residenza fiscale”, il fisco, 1998, p. 12999 e ss.; Gazzo M. “Profili internazionali della residenza
fiscale delle persone fisiche”, Riv. dir. trib., 2002, p. 669 e ss.; Cerrato M. “La residenza fiscale delle persone fisiche e gli
indici rivelatori del centro principale degli affari e degli interessi”, ivi, 2000, p. 19 e ss.; Maisto G. “Iscrizione anagrafica
e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche”, ivi, 1998, p. 222 e ss.; Melis G. “La nozione di
residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano”, Rass. trib., 1995, p. 1034 e ss.; Marino G. “La
residenza nel diritto tributario”, Cedam, Padova, 1999; Marianetti G. “Decisivo il domicilio nella determinazione della
residenza fiscale”, Corr. Trib., 2013, p. 373 e ss.
10 Il primo § dell’art. 4 del Modello OCSE prevede che, ai fini della nozione di residenza, si debba avere riguardo alle normative domestiche dei Paesi firmatari dell’Accordo. In caso di conflitto tra le normative nazionali, l’art. 4, § 2 del Modello
OCSE stabilisce dei criteri (c.d. Tie Breaker Rules) finalizzati a dirimere detta controversia. In dettaglio, il menzionato
articolo dispone che “quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona fisica è residente di entrambi gli
Stati contraenti, la sua situazione è determinata nel seguente modo:
a) detta persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale ha una abitazione permanente. Quando essa
dispone di una abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, è considerata residente dello Stato contraente
nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali);
b) se non si può determinare lo Stato contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali, o se la
medesima non ha una abitazione permanente in alcuno degli Stati contraenti, essa è considerata residente dello Stato
contraente in cui soggiorna abitualmente;
c) se detta persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati contraenti ovvero non soggiorna abitualmente in
alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità;
d) se detta persona ha la nazionalità di entrambi gli Stati contraenti, o se non ha la nazionalità di alcuno di essi, le
autorità competenti degli Stati contraenti risolvono la questione di comune accordo”.
direttamente o indirettamente controllano la
medesima impresa, ne sono controllate o sono
controllate dalla stessa società che controlla
l’impresa.
Si ritiene, dunque, non necessario un contratto di lavoro con una società italiana, essendo
ammissibile, ai fini del beneficio, anche un contratto di lavoro estero con una società facente
parte del gruppo ed una assegnazione presso
un’azienda italiana del medesimo gruppo.
Ci si chiede, inoltre, se possano avvantaggiarsi della disposizione anche i titolari di redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente; una
interpretazione testuale della norma porterebbe ad escludere tale eventualità, ma deve
essere ricordato che con riferimento alla L.
238/2010, l’Agenzia delle Entrate aveva esteso
il beneficio anche a tale platea di contribuenti.
Attività svolta prevalentemente
in Italia
Un’ulteriore condizione da soddisfare riguarda le modalità di esercizio della prestazione
lavorativa, la quale deve essere svolta prevalentemente in Italia, al fine, si ritiene, di valorizzare le competenze professionali “trasferite” nel territorio dello Stato. Tale circostanza
è coerente con quella innanzi analizzata; in
altri termini l’intento che sembra perseguire
il legislatore è quello di attrarre talenti a prescindere dall’instaurazione di un rapporto di
lavoro con una azienda italiana. Non a caso,
d’altra parte, il reddito agevolato è solo
quello prodotto in Italia (il testo dell’art. 16
è chiaro in tal senso). Al riguardo, al fine di
individuare il reddito per il quale è prevista
la parziale esenzione, si possono utilizzare i
criteri generali fissati dall’art. 23 del TUIR e,
in particolare, dalla lett. c) del comma 1 secondo la quale il reddito di lavoro dipendente
si considera prodotto in Italia se ritratto da
un’attività svolta nel territorio dello Stato.
In realtà il quesito di fondo è se la norma in
commento si limiti ad escludere il reddito percepito prima dell’ingresso in Italia (che sarebbe
tassato anche nel nostro Paese a fronte dello
status di residenza fiscale italiana del percet-
tore), ovvero se la stessa si riferisca anche al
reddito percepito dopo il predetto ingresso,
ma afferente ad un’attività prestata al di fuori
dei confini nazionali. Si consideri l’esempio di
un lavoratore (che soddisfi le condizioni stabilite dall’art. 16) che sia assunto da un’impresa
italiana ad aprile 2016, che in precedenza era
alle dipendenze di una società estera e che nel
mese di giugno 2016 svolga la propria attività all’estero. Posto che il trasferimento della
residenza fiscale in Italia comporterebbe la
tassazione anche dei primi tre mesi dell’anno
è evidente come tale reddito non possa essere
oggetto di agevolazione; ma una rigida interpretazione della norma porterebbe anche a
ritenere non applicabile il beneficio fiscale per
il reddito prodotto a giugno 2016, in quanto
l’attività non viene prestata nel territorio dello
Stato. Va da sé che tale interpretazione rigida
sembrerebbe scontrarsi con la ratio della disposizione. Inoltre, dal punto di vista procedurale sarebbe estremamente oneroso riparametrare il reddito percepito per i giorni di
attività svolta in Italia. Non può che auspicarsi
un chiarimento da parte del decreto attuativo.
Qualificazione professionale
Da ultimo, la fruizione del beneficio è subordinata alla circostanza che il lavoratore rivesta
ruoli direttivi ovvero sia in possesso di requisiti di alta qualificazione o specializzazione.
La logica, condivisibile, è quella di non introdurre un’agevolazione “a pioggia”, ma mirata
ad incentivare l’ingresso di lavoratori in grado
di apportare un notevole valore aggiunto alle
imprese italiane.
Sul punto non può che attendersi il decreto
attuativo che avrà la finalità principale proprio di individuare la platea di contribuenti che
potranno accedere alla norma di favore. Sarà
interessante valutare se i requisiti di alta qualificazione o specializzazione saranno collegati
al possesso di un determinato titolo di studio
ovvero se faranno riferimento ad una situazione di fatto; si presume che sarà percorsa la prima strada anche al fine di evitare le tipiche criticità che caratterizzano ogni analisi fattuale.
119
4
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Condiderazioni finali
120
Le brevi note innanzi riportate evidenziano come
la disposizione appena introdotta presenti ancora dei notevoli margini di incertezza interpretativa e che sarà pertanto necessario verificare se e
in che termini il decreto attuativo riesca a chiarire l’ambito di applicazione dell’agevolazione.
Come è accaduto in passato per normative analoghe, si presume che anche l’Amministrazione
finanziaria si pronuncerà sulla tematica.
In realtà, un aspetto che sta sollevando notevoli polemiche attiene alla neutralizzazione della proroga a suo tempo disposta per
l’incentivo previsto dalla L. 238/2010 che, se
non ci saranno ripensamenti, cesserà i propri
effetti al termine del periodo d’imposta 2015.
Il problema fondamentale è se i soggetti che
oggi si avvantaggiano delle L. 238/2010
potranno essere compresi o meno nell’ambito di operatività della nuova disposizione. C’è, dunque, un tema di affidamento da
parte di tali contribuenti che hanno fatto il
loro “ritorno” in Italia, confidando nella legislazione di favore e che oggi si potrebbero
trovare vincolati a restare nel nostro Paese
(per non decadere dall’incentivo) ad un livello di tassazione “pieno”. Tale criticità, d’altro
canto, riguarda anche i soggetti che potranno
usufruire delle previsioni del decreto internazionalizzazione, visto che la misura del bene-
ficio fiscale è decisamente inferiore rispetto a
quella sino ad oggi goduta.
Sul punto deve evidenziarsi come la legge di
stabilità 2016, in corso di approvazione, preveda espressamente che potranno continuare a
godere, sino al 31 dicembre 2017, dei benefici previsti dalla L. 238/2010 i lavoratori rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2015; ciò
dimostra l’estremo interesse per la questione.
Ulteriore tematica di sicuro interesse attiene
alla perdita dei benefici; sul punto non può
che auspicarsi che venga stabilita in modo certo la sanzione applicabile, che si ritiene debba
essere quella connessa all’omesso versamento
delle imposte. Inoltre, ipotizzando che la condizione della “permanenza” in Italia per due
anni abbia una finalità antielusiva, si dovrebbe ritenere che il lavoratore che si ritrasferisce all’estero per ragioni oggettive (si pensi al
dipendente licenziato che si trovi costretto ad
accettare un’offerta di lavoro in un altro Paese) non debba decadere dall’agevolazione a
suo tempo goduta; vero è che risulta estremamente complesso definire ex ante un’inapplicabilità del regime sanzionatorio che potrebbe
condurre ad abusi della disposizione. Sempre
sulla perdita dei benefici si rileva che l’uso del
termine a-tecnico “permanere”, ad avviso di
chi scrive, potrebbe portare notevoli margini
di incertezza; meglio sarebbe stato operare un
rinvio a concetti ben definiti quali quelli di residenza civilistica o fiscale.
03
FISCALITÀ
INTERNAZIONALE
FISCALITÀ
INTERNAZIONALE
IL NUOVO REGIME
DI BRANCH EXEMPTION
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Federico DI CESARE
Avvocato – Studio Professionale Associato a Baker & McKenzie
122
L’art. 14 del DLgs. 147/2015 introduce per le imprese residenti la possibilità, su opzione
irrevocabile, di escludere dalla tassazione in Italia i redditi prodotti all’estero per il tramite di stabili organizzazioni (branch exemption). Il meccanismo, alternativo a quello attualmente vigente, dovrebbe migliorare la competitività delle nostre imprese operanti all’estero,
secondo un principio di territorialità già operativo in altri Paesi europei ed extra europei.
Un’opportunità da valutare con attenzione considerato che la branch exemption, insieme
con il patent box, rappresenta una delle poche opportunità di legittima pianificazione fiscale.
La disciplina si rivolge a tutti i soggetti residenti esercenti attività d’impresa, società di persone e persone fisiche incluse.
1
Premessa
L’art. 14 del DLgs. 14.9.2015 n. 1471, di attuazione delle disposizioni contenute nell’art.
12 della legge delega 11.3.2014 n. 23, introduce nel TUIR il nuovo art. 168-ter, rubricato “Esenzione degli utili e delle perdite delle
stabili organizzazioni di imprese residenti”. Si
tratta della c.d. branch exemption, un istituto
da tempo adottato in altri Paesi che di fatto
rappresenta una deroga al worldwide taxation
principle2.
La norma è destinata a rivoluzionare uno dei
capisaldi della nostra disciplina interna riguardante la fiscalità internazionale, poiché,
sostanzialmente, per le imprese che decideranno di optare per questo nuovo regime
non assumeranno più alcun rilievo, per la
determinazione del reddito d’impresa italiano, i risultati fiscali (positivi o negativi
che siano) attribuibili alle stabili organizzazioni situate all’estero. Ne consegue che
le iniziative imprenditoriali estere dei nostri
gruppi potranno così beneficiare pienamente
delle agevolazioni e del tax rate nello Stato
di insediamento anche quando quest’ultimo
risulterà inferiore a quello imposto dall’ordi-
1 “Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”, pubblicato in G.U. 22.9.2015 n. 220.
2 È questo il caso, ad esempio, del Regno Unito (Corporate Tax Act 2009, Section 18A). Per ulteriori approfondimenti sul tema,
si rinvia a Gasparri T. “Il nuovo regime di branch exemption per le stabili organizzazioni all’estero”, il fisco, 2015, p. 2448;
Galassi C. “«Branch exemption»: un istituto ancora da conoscere”, Fisc. comm. int., 10, 2005, p. 14; Pennesi M. “Per le stabili
organizzazioni estere possibile l’esenzione fiscale in Italia”, I focus del Sole-24 Ore, 32, 30.9.2015, p. 9; Zanotti E., Santaromita Villa P. “Esenzione degli utili e delle perdite per le stabili organizzazioni estere”, in questa Rivista 4, 2015, p. 93-101.
namento interno, il quale rinuncerà a prelevare il differenziale d’imposta sui profitti3. La
contropartita dell’esenzione da imposizione
in Italia dei redditi prodotti dalla branch
estera, che è comunque facoltativa, è, coerentemente, l’esclusione della deducibilità dal reddito imponibile della casa madre
italiana delle perdite sofferte dalla stessa
branch.
Tale scelta del legislatore si propone un
obiettivo molto ambizioso, ovverosia favorire
la crescita economica e la competitività internazionale dei gruppi di imprese che mantengono una “testa” in Italia e ampliare così
l’attrattività del sistema fiscale italiano nel
suo complesso. Queste misure accompagnano e completano quelle previste dall’art. 7 del
medesimo decreto legislativo dedicate al restyling delle regole che disciplinano le stabili
organizzazioni in Italia di soggetti esteri.
2
Caratteristiche generali
dell’opzione
In considerazione degli importanti effetti
che essa comporta non solo per l’irrilevanza degli utili, ma anche per l’irrilevanza delle
perdite delle stabili organizzazioni, l’opzione
prevista dalla nuova normativa è subordinata al rispetto di condizioni molto stringenti,
finalizzate ad evitare che la coesistenza nel
nostro sistema dei due regimi di esenzione e
imponibilità delle stabili organizzazioni estere possa favorire strategie idonee a cogliere
i vantaggi di entrambi, in particolare l’esenzione dei profitti e la rilevanza delle perdite
in abbattimento della base imponibile nazionale.
Per gestire queste situazioni, la prima caratteristica, fissata dal comma 1 del nuovo art.
168-ter del TUIR, è la natura opzionale del
regime di esenzione. È, infatti, necessaria
un’esplicita scelta da parte dei soggetti interessati che, in base alle caratteristiche della
loro attività, potranno anche continuare ad
avvalersi dell’attuale regime di imponibilità.
Una scelta che l’impresa dovrà attentamente
ponderare, in quanto l’accesso all’esenzione
comporterà che le eventuali perdite estere
non potranno più essere utilizzate in Italia
per compensare gli altri profitti esteri e domestici. L’opzione (seconda caratteristica) è
inoltre “totalitaria”, nel senso che in presenza
di più stabili organizzazioni l’impresa non può
optare per l’applicazione del nuovo regime di
esenzione per alcune e per il mantenimento
del sistema del credito per le altre, compiendo
in sostanza un cherry picking delle situazioni
ad essa più convenienti. Si tratta, quindi, di
un’opzione all in – all out (già nota al nostro sistema con la disciplina del consolidate
mondiale) che potrà essere vantaggiosa per
l’impresa residente in Italia in tutte le ipotesi in cui risulti positivo, nel lungo periodo, il
saldo netto degli investimenti realizzati all’estero tramite stabili organizzazioni.
L’opzione è, infine, irrevocabile per tutta
la vita dell’impresa residente e deve essere
esercitata tempestivamente entro precisi termini 4. In assenza, infatti, sarebbe fin troppo
scontata la scelta imprenditoriale di “esentare” le stabili organizzazioni in utile, localizzate in Paesi a bassa fiscalità, e di continuare a
3 Si avrà pertanto un vero e proprio legittimo arbitraggio fiscale sulle aliquote. A titolo di esempio, si consideri la seguente
fattispecie: Alfa S.p.A. ha una stabile organizzazione localizzata in un Irlanda dove l’imposizione sui redditi è pari al 12,5%.
In assenza della branch exemption, sul reddito prodotto da tale stabile organizzazione la società italiana deve applicare
l’imposta italiana (IRES, 27,5%), ancorché sia possibile, se del caso, detrarre le imposte assolte nel Paese estero (considerando la massima detrazione consentita pari al 12,5%). Con il regime di esenzione, invece, sul medesimo reddito ora Alfa
S.p.A. potrà pagare le sole imposte estere (12,5%), con un conseguente risparmio fiscale del 15%. Per maggiori dettagli, si
veda Pennesi M. “In Europa il risparmio d’imposta può arrivare al 15%”, I focus del Sole-24 Ore, 32, 30.9.2015, p. 9.
4 Cfr. art. 168-ter co. 2 del TUIR. Trattasi di una caratteristica ritenuta da alcuni eccessivamente penalizzante ai fini del
successo dell’istituto in esame, anche nel confronto, ad esempio, con il diverso istituto del consolidato mondiale. In tal
senso, si rinvia a Mayr S. “Prime osservazioni sul decreto sull’internazionalizzazione delle imprese”, Boll. trib., 2015, p. 645
e ss.; Silvestri A. “Branch exemption senza ritorno”, Il Sole-24 Ore, 23.6.2015.
123
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
124
tassare in Italia, con riconoscimento del credito d’imposta, quelle in perdita ovvero quelle
localizzate in Paesi ad alta fiscalità 5.
Queste caratteristiche dell’opzione, tuttavia,
vanno misurate sulla singola impresa, sicché
ben potrebbe accadere che, all’interno dello
stesso gruppo, alcune società optino per il
regime della branch exemption mentre altre
scelgano di continuare a fruire, per le proprie
stabili organizzazioni, dell’ordinario meccanismo del credito d’imposta. In linea di principio
dovrebbe, dunque, essere sempre possibile
costituire una nuova struttura estera in
capo ad una società del gruppo neo costituita, senza che ciò debba essere di per
sé considerata un’ipotesi di aggiramento del
principio all in – all out, che, per precisa scelta
legislativa, è riferibile solo alla singola entità.
In ogni caso, vale evidenziare in questa sede
come l’applicazione del principio “all in” non
ha mancato di suscitare riserve, data la sua rigidità oggettiva, non essendo ragionevole che
le imprese possano assumere ex ante decisioni
su un arco di tempo indefinito. A questo primo aspetto problematico, si è aggiunta, come
già detto, la penalizzazione che detto regime
incide sull’avvio di nuove iniziative, di norma
esposte, nei primi esercizi di attività, al rischio
di incorrere in risultati economici negativi. La
regola “all in”, difatti, per queste situazioni,
combinata con il principio di irrilevanza della
perdita della stabile organizzazione interessata dall’opzione, non permette di escludere
dall’opzione la stabile organizzazione dalla
quale si teme che provengano perdite d’esercizio e, nel contempo, preclude alla casa
madre il consolidamento di questa perdita nel
proprio risultato mondiale.
Negli studi che hanno preceduto il varo di tale
disposizione, si sono pertanto prospettate due
possibili soluzioni:
1.contro il rischio di rigidità, l’opportunità di
limitare la durata dell’opzione, con facoltà
di rinnovo;
2. contro la penalizzazione a carico delle attività in avvio, la possibilità di preservare
– pur nell’irrevocabilità dell’opzione di base
– la facoltà di attribuire una rilevanza delle
perdite alla stabile organizzazione, consolidandole con gli altri risultati della casa
madre, salvo l’obbligo di assoggettare a
tassazione gli utili della medesima che si
fossero manifestati successivamente, fino a
concorrenza delle perdite di cui l’impresa
residente avesse nel frattempo beneficiato.
In senso contrario, muovendo dall’osservazione secondo cui il regime di esenzione è
fondato sull’irrilevanza di utili e perdite della
stabile organizzazione, si è tuttavia concluso
che un sistema misto basato sulla tassazione degli utili fino all’ammontare delle perdite
dedotte nei periodi d’imposta precedenti da
parte della casa madre avrebbe complicato
l’istituto, con inevitabili riflessi sulla complessità degli accertamenti tributari, cosicché la
seconda ipotesi stata esclusa.
Si è inoltre ritenuto che accordare un periodo
limitato di opzione (cfr. sub 1.) sarebbe stato
causa di confusione in ordine ai valori fiscali
da attribuire alle attività ed alle passività dei
beni delle branch “esenti”, per rientrare a far
parte del sistema fiscale italiano. Analoghi
problemi gestionali avrebbe causato prevedere una procedura specifica di interpello, volto
ad individuare tali valori fiscali 6.
3
Ambito applicativo
dell’esenzione
Ai sensi del comma 1 del nuovo art. 168-ter del
TUIR, l’opzione per la branch exemption può
essere esercitata (ambito soggettivo) dalla
generalità dei soggetti residenti che esercitano
5 Si noti come tale scelta non è una realtà isolata nel panorama internazionale, in quanto il principio all in – all out caratterizza
la branch exemption anche in altri Paesi in cui il regime è in vigore.
6 Cfr. Pacitto P. “Stabile organizzazione e branch exemption”, Crescita e internazionalizzazione delle imprese, Ipsoa, Milano,
2015, p. 84 e 85.
un’attività di impresa e, pertanto, non solo dalle società e dagli enti di cui all’art. 73 comma 1
lett. a), b) e c) del TUIR, ma anche dalle società
di persone e dalle imprese individuali.
La norma pone inoltre esplicito riferimento
(ambito oggettivo) alle “stabili organizzazioni”, e, quindi, ad una sede fissa d’affari o ad
un agente dipendente attraverso cui il soggetto residente esercita all’estero un’effettiva
attività d’impresa. L’applicazione del regime
di esenzione richiede, dunque, che la struttura estera sia qualificabile come stabile organizzazione dell’impresa residente, abbia cioè i
requisiti previsti dall’art. 162 del TUIR, ovvero,
se del caso, dall’art. 5 della convenzione contro le doppie imposizioni in vigore con il Paese in cui essa è localizzata. A tal riguardo, il
legislatore ha altresì previsto la possibilità per
ogni impresa residente di presentare apposita
istanza di interpello (ordinario) all’Amministrazione finanziaria, per richiedere un parere
in merito all’effettiva sussistenza di una stabile organizzazione ai fini dell’applicazione
del credito d’imposta o dell’esenzione.
Gli altri profitti derivanti dall’esercizio di attività commerciali non conseguiti tramite una
stabile organizzazione (quali, a titolo esemplificativo, le prestazioni di assistenza e consulenza rese a committenti esteri con personale
specializzato o cantieri di durata inferiore alla
soglia minima oltre la quale si manifesta una
stabile organizzazione) non godono perciò
dell’esenzione, a nulla rilevando che siano assoggettati a tassazione nel Paese della fonte o
in base a disposizioni interne o, in presenza di
una convenzione, per una espressa previsione
derogatoria dei criteri OCSE7.
Altro aspetto essenziale, ai fini del riconoscimento del regime di non imponibilità, è la
corretta determinazione del reddito della
stabile organizzazione, di cui occorre dare separate evidenza nella dichiarazione dei redditi,
per esigenze di monitoraggio e controllo. In
7 Così Gasparri T., cit., p. 2553.
8 Conv., con modificazioni, L. 30.7.2010 n. 122.
9 Si veda l’art. 167 del TUIR.
particolare, è stato previsto al comma 10 del
nuovo art. 168-ter del TUIR che il reddito della
stabile organizzazione dovrà essere determinato secondo i criteri del novellato (dallo stesso
DLgs. 147/2015) art. 152 del TUIR, che riguardano le stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti. Ne consegue che le disposizioni sui prezzi di trasferimento trovano ora
applicazione sia nelle transazioni tra la stabile
organizzazione e le altre imprese del gruppo
sia nella transazioni interne (internal dealings)
intercorse tra l’impresa e la medesima stabile
organizzazione, anche quando (è il caso della
branch exemption) l’impresa sia residente in
Italia. Il transfer pricing dovrà naturalmente
applicarsi anche con riferimento all’allocazione economica degli asset alla stabile organizzazione nonché alla congruità del relativo fondo di dotazione. Considerata la complessità del
tema, l’ultimo periodo del comma 10 del nuovo
art. 168-ter del TUIR, prevede che si applichino
le disposizioni dell’art. 26 del DL del 31.5.2010
n. 788 le quali, come è noto, prevedono la possibilità di optare per la tenuta della idonea
documentazione dei prezzi di trasferimento, al
fine di evitare l’irrogazione di sanzioni in ipotesi di rettifica dei prezzi da parte dell’Amministrazione finanziaria.
I soggetti legittimati, infine, prima di esercitare l’opzione dovranno verificare se possiedono stabili organizzazioni all’estero per le
quali sussistono i requisiti per l’applicazione
del regime CFC (Controlled foreign companies)9. La normativa esige, pertanto, che le
stabili organizzazioni siano diversamente valutate in ragione della localizzazione in Paesi
black list, o in un Paese diverso da quelli. In
quest’ultimo caso, come è noto, andrà valutata la presenza di prevalenti profitti “passivi”
e di una tassazione effettiva inferiore di più
della metà rispetto a quella italiana. Segnatamente, ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 168ter, in caso di opzione per l’esenzione, opererà
125
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
126
per le stabili organizzazioni l’automatica applicazione delle regole previste per le imprese
CFC, fatta salva l’applicazione delle relative
esimenti previste dai commi 5 lett. a) e b) e
8-ter dell’art. 167 del TUIR10.
In definitiva, il mancato ricorrere di una delle
esimenti per una stabile organizzazione o per
più stabili organizzazioni comporterà l’assoggettamento delle stesse al regime CFC (con
imputazione del reddito estero per trasparenza all’impresa residente e relativa tassazione
separata), con il risultato principale che non
solo non vi sarà alcuna esenzione dei redditi
provenienti da tali stabili organizzazioni, ma,
operando un regime di tassazione separata,
verrà meno ogni possibilità di compensazione
dei risultati positivi e negativi tra case madre
e stabile organizzazione.
Ne deriva, conseguentemente, un trattamento
svantaggioso rispetto al regime ordinario del
credito d’imposta in base al quale le perdite
delle stabili organizzazioni estere, localizzate
in Paesi black list, sono comunque deducibili
nel computo della base imponibile complessiva.
Non sarà tuttavia impedito all’impresa residente l’esercizio dell’opzione per l’esenzione con riferimento a tutte le altre stabili organizzazioni.
4
Distribuzione di utili
generati dalle stabili
organizzazioni
Secondo quanto previsto dal comma 5 del
nuovo art. 168-ter del TUIR, agli utili provenienti dalle stabili organizzazioni in possesso
dei requisiti per la disapplicazione del regime
CFC, si applicano le disposizioni di cui ai novellati (dallo stesso DLgs. 147/2015) artt. 47
comma 4 e 89 comma 3 del TUIR.
Posto che la stabile organizzazione e la casa
madre sono un unico soggetto giuridico e
che pertanto non può esserci formale distribuzione di utili dalla stabile organizzazione
all’impresa residente, la disposizione normativa acquista una sua ratio solo se riferita agli
utili provenienti da tali entità, che l’impresa
distribuisce ai suoi soci11. In altri termini, dal
combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art.
14 del DLgs. 147/2015, si desume che l’opzione per la branch exemption unitamente
alla disapplicazione del regime CFC determinano l’inclusione della stabile organizzazione
nel perimetro di esenzione con conseguente affrancamento degli utili conseguiti da
quest’ultima in capo all’impresa italiana,
che è libera di utilizzarli nel modo che ritiene
più opportuno, senza che scatti l’obbligo per
quest’ultima di pagare ulteriori imposte nel
territorio dello Stato.
L’unica distribuzione ipotizzabile è dunque
quella effettuata dalla casa madre a favore
dei propri soci, ai quali, come detto, si applicheranno i novellati artt. 47 comma 4 e 89
comma 3 del TUIR. Gli utili provenienti dalle
stabili organizzazioni black list incluse nel
perimetro di esenzione dovrebbero essere
tassati per l’intero importo in capo ai soci della casa madre, a prescindere dall’entità della
partecipazione da loro detenuta. L’investimento nella stabile organizzazione, infatti, è
realizzato direttamente dalla società italiana
che con la sua stabile organizzazione forma
un unico soggetto giuridico. Ciò determina, in
sostanza, una “partecipazione diretta” dei
soci della casa madre nella stabile organizzazione esente.
Naturalmente, la tassazione integrale in capo
ai soci italiani degli utili provenienti da una
stabile organizzazione black list, inclusa nel
10 Si segnala come il co. 3 dell’art. 168-ter non richiama espressamente il co. 5-bis dell’art. 167 del TUIR ai fini della disapplicazione del regime CFC alle stabili organizzazioni estere. Tuttavia, a parere di chi scrive, in attesa di chiarimenti ufficiali
sul tema, ciò non dovrebbe essere inteso come una mancata applicazione a tale fattispecie del citato co. 5-bis.
Quest’ultimo, infatti, è stato fino ad oggi ufficialmente riconosciuto come parte integrante della prima esimente.
Si veda, sul punto, la circolare Agenzia Entrate 6.10.2010 n. 51.
11 Così Mayr S., cit., p. 645 e ss.
perimetro di esenzione, avrà luogo a seguito
della dimostrazione dell’esimente di cui al
comma 5 lett. a) dell’art. 167 del TUIR. In questo caso, per attenuare la doppia imposizione
in capo ai soci, dovrebbe essere riconosciuto il
credito indiretto per le imposte pagate all’estero dalla stabile organizzazione non appena entreranno in vigore le nuove disposizioni
di cui agli artt. 47 comma 4 e 89 comma 3
del TUIR, come rivisitati dall’art. 3 del DLgs.
147/200512.
Non si dovrebbe invece avere la tassazione
integrale degli utili in capo ai soci italiani
in caso di applicazione delle ulteriori esimenti previste dal regime CFC. In queste ipotesi,
quindi, gli utili delle stabili organizzazioni affluiranno direttamente all’impresa residente
in esenzione e in caso di successiva distribuzione ai soci di quest’ultima, concorreranno
alla formazione del reddito in misura pari al
95% (art. 89 comma 3 del TUIR) o al 49,72%
(artt. 47 comma 1 e 59 del TUIR) in ragione
della diversa natura del socio.
Si potrebbero, pertanto, generare situazioni
complesse in cui in compresenza di stabili
organizzazioni di diversa origine e caratterizzazione, l’opzione per il regime di esenzione
richiederà addirittura una ripartizione degli
utili da esse generati in ciascun esercizio, di
cui l’impresa residente dovrà tener conto nel
momento della distribuzione ai soci:
1.gli utili generati dalle stabili organizzazione in Paesi white list (che non avverano i requisiti di cui alle lett. a) e b) del
comma 8-bis dell’art. 167 del TUIR per
l’applicazione del regime CFC oppure che,
pur avverando i predetti requisiti, possono
dare la prova liberatoria di cui al comma
8-ter del citato articolo), godranno dell’ordinario regime di esclusione parziale della
formazione del reddito, in misura diversa
in ragione della diversa natura del socio;
2.gli utili generati dalle stabili organizzazioni black list o white list (per le quale,
in mancanza di circostanze esimenti, troverà applicazione il regime CFC), verranno
completamente esclusi dal reddito ai soci;
3.gli utili generati dalle stabili organizzazioni black list (che, avendo le condizioni per la disapplicazione del regime CFC
in presenza dell’esimente di cui alla lett. a)
del comma 5 dell’art. 167 del TUIR, hanno
goduto della branch exemption), concorreranno al reddito dei soci per il loro intero ammontare. Come già detto potrà, in
tal ultimo caso, essere riconosciuto il credito indiretto per le imposte pagate all’estero dalla stabile organizzazione. Va da sé
che, se sussisteranno le condizioni applicative della seconda esimente di cui alla lett.
b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR, gli
utili dovrebbero seguire le regole di cui al
precedente punto 1. Si tratta, tuttavia, di
un’ipotesi difficilmente riscontrabile nella
realtà, e sulla quale sarebbe opportuno un
esplicito chiarimento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Si presentano infine alcune criticità strettamente connesse con la scelta del nostro legislatore di ampliare il perimetro applicativo del
regime di esenzione anche a persone fisiche,
enti non commerciali e società di persone.
Per questi soggetti, infatti, la tassazione dei
dividendi non potrà seguire le regole sopra
delineate e i profitti esenti della stabile organizzazione potranno affluire alla sfera personale degli imprenditori individuali, enti e soci
di società di persone senza ulteriori prelievi.
Problemi analoghi di coordinamento si pongono, a parere di chi scrive, anche per i soci non
residenti della società che subiranno il medesimo prelievo a titolo d’imposta sugli utili ad
essi attribuiti, anche se provenienti da strutture esenti black list.
12 A ben vedere la situazione non è dissimile da quella oggetto della risoluzione Agenzia Entrate 3.10.2008 n. 368, nella
quale con riferimento ad un consorzio con stabile organizzazione all’estero si è ammessa la possibilità che il credito per
le imposte assolte all’estero dal consorzio sugli utili della propria stabile organizzazione sia trasferito ai consorziati
stante l’impossibilità per lo stesso consorzio di utilizzare il credito.
127
5
Il meccanismo di recapture
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
delle perdite
128
I commi 7, 8 e 9 del nuovo art. 168-ter del
TUIR disciplinano il c.d. meccanismo recapture
delle perdite. La finalità di tali disposizioni è
quella di mettere sullo stesso piano l’impresa che, in sede di costituzione della sua prima
stabile organizzazione, opta dall’inizio per il
regime di esenzione e l’impresa che invece ha
già delle stabili organizzazioni ed intende passare dal metodo del credito d’imposta a quello
dell’esenzione. In tal senso, infatti, quest’ultima potrebbe trovarsi in una situazione di vantaggio in virtù delle minori imposte pagate nei
periodi d’imposta precedenti a seguito dell’imputazione delle perdite fiscali delle sue stabili
organizzazioni, che sono andate ad abbattere
direttamente la sua base imponibile.
Al fine di sterilizzare possibili effetti distorsivi è
stato così previsto (in via transitoria) il recapture delle perdite della stabile organizzazione
che sono state “imputate” nel precedente quinquennio al reddito della casa madre residente,
in misura pari all’eccedenza rispetto agli utili
di ciascuna stabile organizzazione. A tal fine,
l’impresa sarà tenuta ad indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’origine
dell’opzione, gli utili e le perdite di ogni entità estera. In presenza di una perdita netta di
quinquennio, gli utili successivamente realizzati da quella stessa stabile organizzazione non
potranno godere dell’esenzione fino a concorrenza dell’ammontare di questa stessa perdita.
Dall’imposta relativa a questi utili, l’impresa
potrà, comunque, scomputare “ordinariamente” le eventuali eccedenze di imposta estera
riferibili alla stabile organizzazione secondo le
regole poste dall’art. 165 comma 6 del TUIR.
Inoltre, i commi 8 e 9 del nuovo art. 168-ter,
prevedono delle disposizioni antielusive volte ad evitare un aggiramento del recapture
delle perdite mediante trasferimento a qualsiasi titolo della stabile organizzazione, prima
o in vigenza dell’opzione, ad un’altra impresa del gruppo che abbia già optato per il
regime di esenzione.
Tale comportamento, è contrastato prevedendo
che in caso di trasferimento a qualsiasi titolo di
una stabile organizzazione soggetta al meccanismo del recapture, quest’ultimo passi da cedente al cessionario infragruppo, che pertanto
sarà costretto ad assoggettare ad imposizione
i redditi della medesima stabile organizzazione
fino al totale riassorbimento del recapture.
In altri termini, il recapture segue la stabile
organizzazione che lo ha generato fino al suo
totale riassorbimento o alla liquidazione delle medesima stabile organizzazione. Nell’atto
di trasferimento, pertanto, l’impresa cedente
dovrà indicare l’ammontare dell’eventuale
recapture relativo alla stabile organizzazione
oggetto di trasferimento.
6
I rapporti con l’Agenzia
delle Entrate
Al fine di sviluppare con il contribuente un rapporto di trasparenza e collaborazione, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a pubblicare e
ad aggiornare periodicamente sul proprio sito
esemplificazioni delle fattispecie ritenute elusive del regime di branch exemption.
Con lo stesso obiettivo, l’impresa residente è
altresì ammessa a presentare una specifica
istanza di interpello ai sensi dell’art. 1 della L.
27.7.2000 n. 212 (“Statuto del contribuente”),
in merito alla sussistenza di una stabile organizzazione all’estero.
Naturalmente, come anche chiarito dallo stesso legislatore al comma 11 del nuovo art. 168ter del TUIR, la configurabilità “preventiva” di
una stabile organizzazione dovrà essere valutata in base ai criteri previsti da accordi internazionali contro le doppie imposizioni, ovvero,
alternativamente, seguendo le disposizioni
dell’art. 162 del TUIR.
7
Decorrenza
e regime transitorio
Le disposizioni del nuovo art. 168-ter del TUIR
si applicano a decorrere dal periodo di imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del DLgs. 147/2015. Per i soggetti
aventi la durata del periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, quindi, l’opzione
potrà essere esercitata a partire dal 2016.
Un regime transitorio è previsto, invece, per le
stabili organizzazioni già esistenti. Per tali fattispecie, le imprese potranno esercitare l’opzione
entro il secondo periodo d’imposta successivo
a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni in esame, con effetto dal
periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione. Conseguentemente, in tal caso,
salvo diversi chiarimenti ufficiali sul tema, per i
soggetti con periodo d’imposta coincidente con
l’anno solare, l’opzione sembrerebbe poter
essere esercitata sino al termine del 2017.
La possibilità di avere più tempo per l’esercizio dell’opzione, dovrebbe (si spera) ritenersi
riconosciuta anche alle imprese che si trovino
a costituire la prima stabile organizzazione nel
corso del 2016, pena una discriminazione non
voluta e, forse, non del tutto giustificabile.
Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate da emanarsi entro 90 giorni
dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo saranno individuate le modalità applicative delle norme.
129
04
IL FISCO
CHE VERRÀ
IL FISCO
CHE VERRÀ
RIDOTTO A 5 ANNI IL PERIODO
DI AMMORTAMENTO
DI AVVIAMENTO E MARCHI
A SEGUITO DI AFFRANCAMENTO
Giacomo ALBANO
Dottore Commercialista – Partner Studio Legale Tributario EY
Il disegno di legge di stabilità riduce da 10 a 5 anni il periodo di ammortamento dei maggiori valori di avviamento e marchi, qualora tali maggiori valori emergano nell’ambito di
operazioni straordinarie neutrali e siano affrancati ai sensi dell’art. 15 comma 10 del DL
185/2008. La deducibilità in 5 esercizi opera indipendentemente dall’imputazione a Conto
economico e pertanto potranno beneficiare delle nuove regole sia i soggetti IAS adopter, per
i quali le attività immateriali a vita utile indefinita non sono normalmente ammortizzabili,
che i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, anche se in bilancio ammortizzano marchi ed avviamento in un periodo superiore a cinque esercizi.
1
Premessa
Con il disegno di legge di stabilità il periodo
di deducibilità fiscale di avviamento e marchi
viene portato a cinque anni. Condizione richiesta è che i relativi valori siano iscritti in
bilancio a seguito di operazioni straordinarie
fiscalmente neutrali e siano oggetto di affrancamento, ai sensi dell’art. 15 comma 10 del
DL 29.11.2008 n. 185. Si tratta del regime di
riallineamento dei maggiori valori iscritti a seguito di operazioni straordinarie alternativo a
quello ordinario previsto dal TUIR che, a fronte
del pagamento di un’imposta sostitutiva del
16% indipendentemente dai valori coinvolti,
consente la deduzione dei maggiori valori imputati ad avviamento e marchi in dieci esercizi.
Secondo la modifica normativa, che interviene
sul testo dell’art. 15 comma 10, la deduzione dei maggiori valori dell’avviamento e dei
marchi affrancati potrà avvenire in misura
non superiore ad un quinto (anziché ad un
decimo) – indipendentemente dall’imputazione a Conto economico – con riferimento alle
operazioni di aggregazioni aziendale poste
in essere a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015.
La modifica normativa è per certi versi “complementare” alla disciplina del c.d. superammortamento contenuta nel Ddl. stabilità;
mentre con il super-ammortamento si agevola
– con la possibilità di maggiorare del 40% il
costo ammortizzabile – l’acquisto di determinati beni materiali strumentali effettuati entro
il 31 dicembre 2016, con la modifica al regime
di affrancamento si incentivano le operazioni
di riorganizzazione aziendale da cui emergono
beni immateriali (marchi ed avviamento).
A differenza della normativa sul super-ammortamento, peraltro, la nuova disciplina del riallineamento – che incentiva anche le operazioni
131
di emersione dei maggior valori nell’ambito
delle operazioni di riorganizzazione infragruppo (c.d. operazioni under common control per
usare una terminologia IAS/IFRS) – ha carattere permanente, e quindi rappresenta una
normativa a regime.
2
La neutralità fiscale
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
delle operazioni
straordinarie
132
Il regime fiscale delle operazioni straordinarie effettuate nell’esercizio di impresa è
improntata ad un regime generale di neutralità e di continuità dei valori fiscali: da una
parte, in capo ai soggetti partecipanti, non
emergono plusvalenze imponibili o minusvalenze deducibili, dall’altra il soggetto “avente
causa” subentra nella medesima posizione
fiscale del “dante causa”, conservando l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto in capo
a quest’ultimo degli elementi attivi e passivi in cui subentra. La neutralità fiscale non
rappresenta una normativa agevolativa o di
particolare favore – trattandosi come evidenziato di un regime essenzialmente simmetrico
– ma una normativa di sistema, coerente con
l’assenza di fenomeni realizzativi tipici delle
operazioni a carattere successorio (fusioni e
scissioni), cui sono equiparate ai fini fiscali le
operazioni di conferimento d’azienda o ramo
d’azienda; queste ultime, pur avendo carattere realizzativo da un punto di vista civilistico,
sono fiscalmente equiparate alle operazioni
civilisticamente neutrali a causa delle finalità
essenzialmente riorganizzative ordinariamente perseguite tramite le stesse.
Nel nostro ordinamento tributario il principio
di neutralità fiscale caratterizza, pertanto, le
operazioni di fusione, scissione e conferimento d’azienda, ai sensi degli artt. 172, 173 e 176
del TUIR1. Esso rende irrilevante ai fini delle
imposte dirette l’iscrizione nel bilancio della
società incorporante (in caso di fusione), beneficiaria (in caso di scissione) o conferitaria
(in caso di conferimento d’azienda/ramo d’azienda) di elementi patrimoniali a valori diversi da quelli fiscalmente riconosciuti in capo al
soggetto incorporato, scisso o conferente.
Ciò non impedisce, evidentemente, l’iscrizione
in bilancio – redatto secondo i principi contabili
nazionali – delle attività acquisite ai valori di
mercato; in tal senso l’art. 2504-bis c.c. – con
riferimento alla fusione2 – stabilisce espressamente che il disavanzo da annullamento
dovrebbe essere imputato, ove possibile, agli
elementi dell’attivo e del passivo della società
incorporata e, per la differenza ad avviamento3.
In presenza iscrizione di maggiori (minori) valori imputati agli elementi dell’attivo o all’avviamento viene, tuttavia, negata la rilevanza
fiscale dei maggiori (o minori) valori rispetto
al costo fiscalmente riconosciuto anteriormente all’operazione.
3
I regimi sostitutivi
Naturale conseguenza del diverso regime ci-
1 Al contrario, non ricade mai nel regime di neutralità l’operazione di cessione d’azienda, che riveste sempre carattere realizzativo, mentre le operazioni di scambio di partecipazioni di controllo e di collegamento (tramite conferimento o permuta),
pur assumendo ordinariamente carattere realizzativo, possono beneficiare del regime c.d. di realizzo controllato o neutralità
indotta, ai sensi degli artt. 175 e 177 del TUIR.
2 Lo stesso dicasi in caso di scissione, posto il richiamo al co. 4 dell’art. 2504-bis c.c. contenuto nell’art. 2506-ter c.c.,
mentre per il conferimento, trattandosi di operazione civilisticamente realizzativa, l’iscrizione dei cespiti conferiti a valori
correnti è connaturata con il carattere dell’operazione stessa.
3 L’impostazione è diversa per i soggetti che adottano i principi contabili internazionali, in base ai quali le operazione realizzate all’interno del medesimo gruppo difettano dei requisiti per essere contabilizzata applicando l’IFRS n. 3 (tramite il c.d.
“metodo dell’acquisto”), ma devono essere contabilizzate in continuità dei valori contabili. In tale ottica, nel documento
Assirevi OPI marzo 2007 n. 1, in Banca Dati Eutekne, è previsto che, per ragioni di prudenza, la società avente causa nell’operazione straordinaria storni la parte del valore che eccede il valore contabile dei beni ricevuti attraverso una rettifica in
diminuzione del patrimonio netto.
vilistico e fiscale è, quindi, il generarsi di un
doppio binario, ovvero di un disallineamento
tra valori contabili e fiscali.
Proprio con la finalità di riassorbire i disallineamenti che vengono a generarsi a seguito
di operazioni straordinarie, sono previsti due
distinti regimi opzionali che consentono alla
società avente causa (incorporante, beneficiaria o conferitaria) di riconoscere fiscalmente – ovvero riallineare – i maggiori valori
iscritti in bilancio in esito a dette operazioni,
eliminando o riducendo il disallineamento con
i valori civilistici.
Caratteristica comune dei due regimi opzionali
è che:
• il riconoscimento dei maggiori valori contabili iscritti in bilancio avviene attraverso
il pagamento di un’imposta sostitutiva e
• l’opzione è finalizzata a favorire il ravvicinamento del reddito imponibile ai risultati
di bilancio dei soggetti coinvolti nelle operazioni straordinarie.
Il primo regime sostitutivo (regime “ordinario”) è
quello disciplinato dal TUIR, all’art. 176 comma
2-ter4 e consente al soggetto conferitario (incorporante o beneficiario) di optare, in tutto o in
parte, sui maggiori valori delle immobilizzazioni materiali e immateriali che emergono a
seguito dell’operazione straordinaria, per l’applicazione di un’imposta sostitutiva “a scaglioni”:
• 12% sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di 5 milioni di euro;
• 14% sulla parte dei maggiori valori che eccede 5 milioni di euro e fino a 10 milioni
di euro;
• 16% sulla parte dei maggiori valori che eccede i 10 milioni di euro.
L’opzione per l’affrancamento dei maggiori valori può essere esercitata nel primo o nel secondo periodo d’imposta successivo a quello di effettuazione dell’operazione, mediante opzione
da esercitare, rispettivamente, nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso
del quale è posta in essere l’operazione ovvero
in quella del periodo d’imposta successivo.
Ad esempio, in relazione ad un’operazione di
conferimento d’azienda, fusione o scissione
perfezionata nel periodo d’imposta 2015, l’opzione per il regime di imposizione sostitutiva
potrà essere esercitata nella dichiarazione dei
redditi relativa al 2015, facendo riferimento ai
disallineamenti esistenti alla chiusura del 2015.
L’opzione può essere esercitata anche nel secondo periodo d’imposta successivo a quello
in cui è stata effettuata l’operazione, quindi
nell’esempio al più tardi nella dichiarazione dei
redditi 2016, facendo riferimento ai disallineamenti ancora esistenti al 31 dicembre 2016.
I maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini dell’IRES e dell’IRAP a partire dallo stesso periodo
d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione5. In caso di vendita dei beni affrancati
anteriormente al quarto periodo d’imposta
successivo a quello dell’opzione (periodo di
sorveglianza), è prevista un meccanismo di recapture dell’affrancamento.
Il versamento dell’imposta sostitutiva deve avvenire obbligatoriamente in tre rate; la prima,
pari al 30% dell’importo complessivamente dovuto, entro il termine per il versamento a saldo
dell’imposta sul reddito e dell’IRAP relative al
periodo d’imposta dell’operazione ovvero, in
caso di opzione ritardata, a quello successivo; la seconda, pari al 40%, e la terza, pari al
30%, entro il termine per il versamento a saldo
dell’IRES e dell’IRAP relative, rispettivamente, al
primo e al secondo ovvero al secondo e al terzo
periodo successivi a quello dell’operazione.
Il regime di affrancamento ordinario, tuttavia,
non ha avuto particolare appeal, soprattutto
per le grandi imprese; infatti, a fronte del versamento della sostitutiva in tre rate annuali, il
recupero fiscale dei valori affrancati avviene
su periodi medio/lunghi, in particolare quando
i maggiori valori si riferiscono ad avviamen-
4 Applicabile ai i conferimenti d’azienda o rami d’azienda e richiamato dagli artt. 172 co. 10-bis e 173 co. 15-bis, per
fusioni e scissioni.
5 Negli esempi precedenti, pertanto, dal 2016 o, in caso di opzione ritardata, dal 2017.
133
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
134
to e marchi, fiscalmente ammortizzabili in
un arco temporale minimo di 18 esercizi. La
convenienza è tanto minore quanto più elevati sono i valori da affrancare, in quanto al
crescere dei disallineamenti oltre i 10 milioni
di euro l’onere della sostitutiva tende verso
l’aliquota marginale del 16%.
Inoltre, per i soggetti IAS adopter, la possibilità
di dedurre le quote di ammortamento si scontra, da un lato, con le regole contabili che non
prevedono la possibilità di ammortizzare i beni
immateriali a vita utile indefinita, dall’altro con
le regole fiscali generali (art. 109 comma 4 del
TUIR) che impongono la preventiva imputazione
a Conto economico per la deducibilità dei costi.
Per far fronte a queste esigenze, l’art. 15 commi 10, 11 e 12, del DL 185/2008 ha introdotto
una forma di riallineamento alternativa, limitata solo ad alcune attività immateriali
iscritte nel bilancio a seguito di operazioni
straordinarie ed accessibile a tutte le imprese (anche se pensata soprattutto per quelle
di maggiori dimensioni).
L’opzione per il riallineamento alternativo è ammessa esclusivamente in relazione ai maggiori valori attribuiti in bilancio all’avviamento, ai
marchi d’impresa e alle altre attività immateriali,
risultanti dalle citate operazioni straordinarie, e
si perfeziona con il versamento, in unica soluzione, di un’imposta sostitutiva del 16% a prescindere dai valori coinvolti. La sostitutiva va versata
entro il termine di versamento a saldo delle imposte relative all’esercizio nel corso del quale è
stata posta in essere l’operazione straordinaria.
Il diritto alla deduzione fiscale delle quote di
ammortamento in relazione ai maggiori valori
affrancati decorre dal periodo d’imposta successivo a quello nel corso del quale è versata
l’imposta sostitutiva; pertanto, la deduzione
fiscale delle quote di ammortamento decorre
normalmente dal secondo esercizio successivo a quello di realizzazione dell’operazio-
ne, ovvero con un anno di ritardo rispetto
all’affrancamento ordinario.
Anche in questa forma di opzione, ai fini della determinazione della plus/minusvalenza in
ipotesi di realizzo delle attività immateriali
oggetto di riallineamento, i maggiori valori fiscali assoggettati ad imposta sostitutiva
rilevano a decorrere dal quarto periodo d’imposta successivo a quello di esercizio dell’opzione (c.d. periodo di sorveglianza).
Il vantaggio di questa opzione deriva dalla
circostanza che la stessa consente di ammortizzare fiscalmente i maggiori valori affrancati
in 10 anni6 anziché in 18 anni, indipendentemente dall’imputazione a Conto economico.
Ciò è di particolare rilievo per i soggetti IAS
adopter, per i quali, come già evidenziato, le
attività immateriali a vita utile indefinita –
quale l’avviamento – non sono ammortizzabili,
ma unicamente assoggettabili ad impairment;
ma anche per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, che
possono dedurre i valori affrancati in 10 anni,
anche in presenza di ammortamento in bilancio dell’asset in un arco temporale più ampio.
La possibilità di effettuare l’ammortamento
in via extracontabile in 10 esercizi, peraltro,
vale solo in caso di affrancamento di marchi
o avviamento, mentre in caso di affrancamento di “altre attività immateriali” la deduzione
avviene nei limiti della quota effettivamente
imputata a Conto economico.
4
La riduzione
dell’ammortamento a
5 anni
Anche il regime di affrancamento “alternativo”,
peraltro, non risulta particolarmente allettante, quanto meno considerando esclusivamente
i profili economico-finanziari associati al recupero dei maggiori valori affrancati7.
6 Inizialmente il periodo di deduzione fiscale dei maggiori valori era stato fissato in nove anni, poi esteso a dieci dall’art. 2
co. 59 del DL 29.12.2010 n. 225 (DL Milleproroghe), conv. L. 26.2.2011 n. 10.
7 In prospettiva, la convenienza potrebbe ridursi ulteriormente in presenza della prospettata riduzione dell’aliquota
ordinaria IRES al 24%.
In realtà, il ricorso all’affrancamento è risultato decisamente conveniente per il sistema bancario ove associato alla contabilizzazione delle imposte anticipate (DTA) ed in
presenza di perdite; in tale ipotesi, infatti, era
consentita la conversione di tali DTA in crediti di imposta, da utilizzare immediatamente
in compensazione senza limiti di importo. In
situazioni di perdita, pertanto, la monetizzazione immediata delle DTA derivanti dall’affrancamento degli intangibles rendeva immediatamente fruibili – sotto forma di credito
d’imposta – quelli che nell’impianto normativo previsto dal legislatore del DL 185/2008
dovevano essere benefici futuri conseguiti
sotto forma di maggiori ammortamenti deducibili in dieci anni 8.
In questo scenario interviene il disegno di legge di stabilità 2016, prevedendo che, per i riallineamenti effettuati ai sensi dell’art. 15
comma 10 del DL 185/2008, il periodo di
deducibilità degli ammortamenti sui maggiori valori affrancati di marchi ed avviamenti è ridotto da 10 a 5 anni; da un punto
di vista letterale, la modifica è attuata sostituendo nel testo del comma 10 citato le parole
“in misura non superiore ad un decimo” con “in
misura non superiore ad un quinto”. Per le altre
attività immateriali resta invece immutata la
deducibilità dei plusvalori affrancati nel limite
della quota imputata a Conto economico.
Ferme restando tutte le altre modalità di applicative dell’affrancamento (versamento imposta
sostitutiva, decorrenza degli effetti, ecc.), viene,
quindi, prevista una misura ancor più favorevole rispetto a quella attualmente riconosciuta
dal regime di affrancamento “ordinario”, che a
questo punto diventa decisamente poco attraente per l’affrancamento di avviamento e marchi; infatti nell’affrancamento ordinario, pur a
fronte di un’aliquota dell’imposta sostitutiva
leggermente inferiore (12% - 14% - 16%), con
versamento in tre rate, la deducibilità dei maggiori valori avviene in 18 anni anziché in 5.
Come già evidenziato, poiché l’ammortamento fiscale di marchi ed avviamento prescinde dall’imputazione a Conto economico, potranno beneficiare della nuova misura anche
i soggetti IAS adopter, per i quali le attività
immateriali a vita utile indefinita – tipicamente avviamento e marchi – non sono ammortizzabili, ma unicamente assoggettabili ad impairment; per questi soggetti la deduzione dei
valori affrancati avverrà in via extracontabile
in dichiarazione dei redditi.
Anche per i soggetti che redigono il bilancio
in base ai principi contabili nazionali, l’ammortamento dei maggiori valori affrancati
relativi a marchi e avviamento sarà deducibile fiscalmente in cinque esercizi, a prescindere dal periodo di ammortamento adottato
in bilancio 9. Ad esempio, in presenza di un
processo di ammortamento dell’avviamento
(o dei marchi) in bilancio in dieci esercizi, i
valori affrancati saranno deducibili in cinque periodo d’imposta, attraverso variazioni
in diminuzione operate in via extracontabile in dichiarazione dei redditi. Ciò evidentemente, richiederà lo stanziamento di imposte
differite in bilancio, da riassorbire al termine
dell’ammortamento fiscale, quando a Conto economico verranno imputate le quote di
ammortamento non più deducibili.
Va peraltro ricordato che nel regime dell’affrancamento del DL 185/2008 il maggior valore
delle attività immateriali si considera riconosciuto ai fini dell’ammortamento fiscalmente
deducibile solo a decorrere dal periodo d’imposta successivo al versamento dell’imposta sostitutiva; pertanto, per i soggetti non IAS l’ammortamento civilistico operato sul maggior
valore iscritto in bilancio a seguito dell’operazione straordinaria decorre normalmente dal
secondo esercizio precedente a quello di ef-
8 Tale possibilità di combinare gli effetti dell’affrancamento con la conversione delle DTA è oggi venuta meno per effetto delle
modifiche introdotte dall’art. 17 del DL 27.6.2015 n. 83 che ha eliminato la possibilità di trasformazione di DTA in credito
d’imposta relative al valore dell’avviamento e delle attività immateriali.
9 Circolare Agenzia Entrate 11.6.2009 n. 28.
135
ficacia fiscale dell’affrancamento10; ciò comporta che, nel periodo in cui emerge in bilancio
il maggior valore da affrancare e nel periodo
successivo, l’ammortamento effettuato risulterà indeducibile (con rilevazione di imposte
anticipate), per essere poi deducibile in quinti
(con rilevazione di imposte differite in caso di
ammortamento civilistico in un arco temporale
più elevato) a decorrere dall’esercizio successivo a quello in cui avviene il pagamento della
sostitutiva.
5
Il riallineamento
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
delle partecipazioni
o di controllo
136
Come accennato, il disegno di legge di stabilità interviene sul testo del comma 10 dell’art.
15 del DL 185/2008; la modifica, tuttavia, dovrebbe avere effetti anche sulla disciplina
dell’affrancamento dei plusvalori impliciti
nelle partecipazioni di controllo, regolamentata dai successivi commi 10-bis e 10-ter.
La disciplina dell’affrancamento dei plusvalori
impliciti è stata introdotta dall’art. 23 commi da 12 a 15 del DL 6.7.2011 n. 98, che ha
appunto esteso le ipotesi di affrancamento
“alternativo” anche ai maggiori valori impliciti
nelle partecipazioni di controllo, introducendo
una opzione, inizialmente una tantum, esercitabile con riferimento ad operazioni effettuate sino al periodo di imposta in corso al 31
dicembre 201011. La legge di stabilità 201412
ha poi ripristinato – pur con alcune modifiche
– la disciplina, attribuendo carattere permanente al regime opzionale.
In particolare, è consentito affrancare attraverso
il versamento di un’imposta sostitutiva del 16%:
• i maggiori valori delle partecipazioni di controllo emersi a seguito di operazioni straor-
dinarie neutrali, se incluse nel perimetro di
consolidamento, purché tali maggior valori
siano iscritti in via autonoma nel bilancio
consolidato a titolo di avviamento, marchi
d’impresa e altre attività immateriali (comma 10-bis dell’art. 15 del DL 185/2008);
• i maggiori valori – sempre ove imputati ad
avviamento, marchi di impresa e altre attività immateriali nel bilancio consolidato
– delle partecipazioni di controllo acquisite nell’ambito di operazioni di cessione di
azienda ovvero di partecipazioni (comma
10-ter dell’art. 15 del DL 185/2008).
Il comma 10-bis consente pertanto l’affrancamento dei maggiori valori che emergono
nel bilancio consolidato nell’ambito di operazioni straordinarie fiscalmente neutrali (fusione, scissione, e conferimento d’azienda, cui sono
equiparati i conferimenti e gli scambi di partecipazioni di controllo), mentre il comma 10-ter
consente l’affrancamento dei maggiori valori
riflessi nel valore di una partecipazione emersi
a seguito di operazioni fiscalmente realizzative, quali l’acquisto di azienda (nel cui ambito
sono ricomprese partecipazioni di controllo) o di
partecipazioni; anche in questa ipotesi, comunque, il riallineamento è concesso a condizione
che i maggiori valori siano autonomamente
esposti nel bilancio consolidato a titolo di avviamento, marchi e altri asset immateriali.
Il meccanismo di affrancamento consente, ad
esempio, al soggetto che acquista una partecipazione di controllo di ottenere, con il pagamento dell’imposta sostitutiva, il riconoscimento fiscale del maggior valore pagato rispetto al
patrimonio netto contabile della partecipata
pur in assenza di incorporazione della controllata, il tutto a condizione che tale plusvalore
(computabile nella differenza tra il costo di acquisto della partecipazione ed il relativo patrimonio netto contabile) sia attribuito nel bilan-
10 Ad esempio, in caso di operazione straordinaria realizzata nel 2015, l’imposta sostitutiva sarà versata a giugno 2016 e
gli ammortamenti fiscali sull’avviamento saranno deducibili a decorrere dal 2017. Gli ammortamenti civilistici verranno invece imputati dal bilancio 2015.
11 Termine poi esteso al 31.12.2011 per effetto dell’art. 20 del DL 6.12.2011 n. 201.
12 Art. 1 co. 150 della L. 27.12.2013 n. 147.
cio consolidato alla voce avviamento, marchi o
altra attività immateriale.
Ciò consente, pertanto, di ottenere lo stesso effetto finale, vale a dire il riconoscimento fiscale
del maggior valore delle partecipazioni di controllo, senza dover ricorrere alla fusione.
Sotto il profilo applicativo, i commi 10-bis e 10ter del DL 185/2008 non introducono un’autonoma disciplina fiscale per gli affrancamenti
delle partecipazioni, ma estendono la disciplina
prevista dal comma 10 alle ulteriori fattispecie
dei plusvalori impliciti nelle partecipazioni di
controllo, pur se con alcune differenze.
In base a tale opzione, infatti, a fronte del pagamento dell’imposta sostitutiva del 16%, i
maggiori valori affrancati – attribuiti nel bilancio consolidato ad avviamento, marchi ed altre
attività immateriali – si considerano fiscalmente riconosciuti ai fini IRES ed IRAP a decorrere dal secondo periodo d’imposta successivo a
quello del pagamento della sostitutiva stessa,
ovvero dal terzo periodo di imposta successivo a quello in cui si realizza l’acquisizione della
partecipazione di controllo13.
Gli effetti si intendono revocati in caso di atti
di realizzo riguardanti le partecipazioni di con-
trollo, i marchi d’impresa e le altre attività immateriali o l’azienda cui si riferisce l’avviamento affrancato, anteriormente al quarto periodo
di imposta successivo a quello del pagamento
della sostitutiva. Anche in tale regime è quindi un meccanismo di recapture, analogamente a quanto accade per i regimi contemplati
dall’art. 15 comma 10 e dall’art. 176 comma
2-ter, del TUIR14, che però nella disciplina in
esame si sviluppa su un duplice livello, avendosi riguardo sia alla partecipazione di controllo
che all’asset affrancato.
Poiché la disciplina dei plusvalori impliciti
nelle partecipazioni di controllo (art. 15 commi 10-bis e 10-ter) richiama la disciplina del
comma 10, si ritiene che anche i plusvalori imputati ad avviamento, marchi di impresa e altre attività immateriali nel bilancio consolidato potranno beneficiare dell’ammortamento
“accelerato” a seguito del pagamento della
sostitutiva del 16%. Anche in tale fattispecie,
l’ammortamento accelerato è ammesso con
riferimento alle operazioni di acquisizione o
aggregazioni aziendale poste in essere a decorrere dall’esercizio successivo a quello in
corso al 31 dicembre 2015.
137
13 Con la L. 24.12.2012 n. 228 (art. 1 co. 502 e 503) è stato, tuttavia, disposto il differimento di un quinquennio dei termini
per il riconoscimento dei maggiori valori conseguenti all’affrancamento delle partecipazioni di controllo secondo la
disciplina una tantum (dunque per le operazioni effettuate nel periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2010 e 2011).
14 Nell’ambito dei quali a seguito del realizzo il costo fiscale dei beni in precedenza affrancati è ridotto dei maggiori valori
assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale ammortamento dedotto medio tempore, mentre l’imposta sostitutiva
versata è scomputata dalle imposte sui redditi dovute.
05
CONTABILITÀ
E BILANCIO
CONTABILITÀ
E BILANCIO
IL COSTO AMMORTIZZATO
NELLA RIFORMA DEL BILANCIO
Stefano GUIDANTONI
Professore a contratto di Contabilità Internazionale nell’Università di Firenze
Dottore Commercialista – Studio Gagliano & Associati, Firenze
Il DLgs. 139/2015, recependo la direttiva 34/2013, ha modificato per tratti significativi la normativa del bilancio. Gli interventi riguardano tutto il corpo normativo del bilancio, dai principi
generali, agli schemi di bilancio, alla disclosure, per arrivare ai criteri di valutazione. Proprio
su questo ultimo punto si rileva l’introduzione del criterio del costo ammortizzato nella valutazione dei crediti, dei debiti e dei titoli (immobilizzati). Detto criterio ha origine dai principi
internazionali e deve essere compreso ed interpretato alla luce proprio di tale corpo normativo contabile, come dispone l’art. 2426 c.c. Si pone pertanto l’esigenza di analizzare il nuovo
criterio di valutazione del costo ammortizzato, verificando la portata della norma civilistica
e sottolineando le conseguenze a livello di prassi contabile nazionale e di normativa fiscale.
1
La riforma del bilancio
di esercizio
Il DLgs. 18.8.2015 n. 139, in recepimento della
direttiva 34/2013, ha profondamente modificato la normativa di bilancio contenuta nel codice
civile, sempre più improntato su una logica ispirata ai principi contabili internazionali IAS/IFRS.
L’introduzione contenuta nella proposta del Ministero delle Finanze sottolineava gli obiettivi del
recepimento della suddetta direttiva:
• la differenziazione degli obblighi informativi in base ad alcune soglie dimensionali
dell’impresa;
• l’introduzione di una nuova categoria di
imprese, le “micro imprese”, che si avvalgono di un regime di contabilità partico-
larmente semplificato;
• l’utilizzo di alcuni moderni istituti contabili
già contemplati dai principi contabili internazionali IAS/IFRS, quali l’indicazione a bilancio
del “fair value” per gli strumenti finanziari
derivati, diverse modalità di imputazione relativamente al “costo ammortizzato” e alla
“attualizzazione” delle attività e passività finanziarie.
Volendo provare a sintetizzare le maggiori variazioni intervenute, è possibile ripartirle in:
• cambiamenti nei principi generali: è stato
delineato il principio generale della rilevanza;
è stato inoltre chiaramente definito il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, sostituendo la precedente versione della
funzione economica, mai veramente chiara
nei suoi intenti1;
1 I futuri chiarimenti permetteranno di comprendere l’effettiva portata del principio della prevalenza della sostanza sulla
forma e del suo reale ambito applicativo.
139
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
140
• cambiamenti negli schemi di bilancio:
vengono aggiunte alcune voci sia nello
Stato patrimoniale che nel Conto economico (ad esempio, sono introdotte voci specifiche per rappresentare i rapporti con le
consorelle e i derivati); sono eliminate altre
voci (ad esempio, i conti d’ordine, le spese
di pubblicità, le spese di ricerca e i componenti straordinari nel Conto economico);
viene introdotto il rendiconto finanziario;
• cambiamenti nell’informativa di bilancio: la Nota integrativa prevede specifiche
informazioni sui fatti intervenuti dopo la
chiusura dell’esercizio2, sui derivati, sui
rapporti con gli amministratori e i sindaci,
sulla proposta di destinazione del risultato
di esercizio, sulle garanzie e passività potenziali, e sui ricavi e costi di entità o incidenza eccezionali; viene inoltre modificata
anche l’informativa in Nota integrativa per
le società che predispongono il bilancio in
forma abbreviata e per le micro imprese;
• cambiamenti nei criteri di valutazione:
sono stabilite nuove regole per la contabilizzazione dei derivati speculativi e di
copertura; vengono definiti i tempi di ammortamento dell’avviamento; è introdotto
il criterio del costo ammortizzato per i
titoli immobilizzati, per i crediti e i debiti;
• cambiamenti nella misurazione della dimensione aziendale: accanto alle società
che redigono il bilancio in forma ordinaria
e abbreviata, vengono introdotte le micro
società, che predispongono un bilancio con
prospetti di bilancio pari a quelli abbreviati,
con l’ulteriore semplificazione dell’esonero
dalla redazione della Nota integrativa3.
Tra le variazioni di maggior rilievo nel campo
delle novità nei criteri di valutazione si deve
mettere in primo piano l’introduzione del criterio del costo ammortizzato, di matrice spicca-
tamente di prassi internazionale. Detto nuovo
criterio dovrà trovare una sua declinazione e
descrizione a livello di principi contabili OIC.
Indubbiamente necessiteranno di una revisione gli OIC 15 (crediti), 19 (debiti), 20 (titoli), 12
(Composizione degli schemi) e 24 (immobilizzazioni immateriali). In questi dovrà essere descritto e illustrato il metodo del costo ammortizzato, per quanto il legislatore non rimetta
all’Organismo Italiano di Contabilità la qualificazione del criterio. Detto compito è infatti,
per espressa previsione, assegnato allo IASB.
Eventualmente l’OIC potrà darne una lettura
più focalizzata alle realtà aziendali alle quali
ordinariamente parla e quindi alle PMI, oltre a
risolvere i punti di incertezza dell’ambito applicativo illustrati nel prosieguo del lavoro.
2
Il costo ammortizzato
nel codice civile
Il codice civile ha visto introdurre, per la valutazione dei titoli immobilizzati, dei crediti e
dei debiti, il costo ammortizzato.
Le questioni poste sul punto in esame dal
nuovo contenuto del codice civile sono due:
• per quali elementi dell’attivo e del passivo
deve essere applicato il costo ammortizzato;
• come deve essere applicato il costo ammortizzato.
Ambito di applicazione
In merito al primo punto, si dovrebbe trovare
la risposta nell’art. 2426 n. 1 e n. 8 c.c.
L’art. 2426 n. 1 c.c. dispone che “le immobilizzazioni rappresentate da titoli sono rilevate in
bilancio con il criterio del costo ammortizzato,
ove applicabile”.
L’ art. 2426 n. 8 c.c. afferma invece che “i cre-
2 Queste informazioni sono state spostate dalla relazione sulla gestione alla Nota integrativa, divenendo pertanto informazione obbligatoria per tutte le imprese. Il n. 22-quater non è escluso per la Nota integrativa abbreviata.
3 In calce al Conto economico, in luogo della Nota integrativa, devono essere riportate le informazioni sugli impegni, garanzie
e passività potenziali, nonché sui rapporti con amministratori e sindaci. Sempre in calce devono ritrovarsi le informazioni
previste su azioni proprie e azioni e quote di controllanti.
diti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il
criterio del costo ammortizzato, tenendo conto
del fattore temporale e, per quanto riguarda i
crediti, del valore di presumibile realizzo”.
TITOLI IMMOBILIZZATI
Dalla lettura degli articoli sopra riportati si riesce a dare una parziale risposta al primo quesito posto. Sicuramente il costo ammortizzato
è un criterio da applicare ai titoli immobilizzati, anche se non è chiara la portata dell’inciso
“ove applicabile”. Ciò sembra sottintendere che
esistono titoli per i quali non è possibile applicare il criterio del costo ammortizzato, ma
sul punto tanto la legge quanto la relazione
di accompagnamento al decreto nulla dicono.
Volendo quindi provare a dare un senso applicativo a detto passaggio, si deve ricreare
un parallelismo con la prassi internazionale,
e in modo particolare con lo IAS 39. In tale
principio gli strumenti finanziari attivi sono
ripartiti in quattro categorie:
• strumenti finanziari a fair value a Conto economico
• strumenti finanziari posseduti fino alla scadenza
• finanziamenti e crediti
• strumenti finanziari disponibili per la vendita
La prima e la quarta categoria prevedono un
criterio di valutazione basato sul fair value.
Solo la seconda e terza categoria di strumenti finanziari sono valutate al costo ammortizzato.
Le attività finanziarie che ricadono in questi
due ambiti devono presentare alcuni specifici
requisiti. Le attività finanziare possedute fino
alla scadenza sono attività non derivate, con
pagamenti fissi o determinabili e scadenza
fissa che la società ha oggettiva intenzione
e capacità di possedere sino alla scadenza.
I finanziamenti e crediti sono, invece, attività
finanziarie non derivate con pagamenti fissi o
determinabili non quotati in un mercato attivo.
Volendo sintetizzare le caratteristiche delle
due categorie, contestualizzandole nell’ambito del bilancio civilistico, al fine di trovare
un denominatore comune ai titoli per i quali può essere applicato il criterio del costo
ammortizzato, si ritiene che il titolo debba
essere:
• con scadenza fissa o determinabile;
• con pagamenti fissi o determinabili.
Come si vedrà nel prosieguo, dette condizioni
sono essenziali per poter applicare metodologicamente il criterio del costo ammortizzato.
CREDITI
L’applicazione del criterio in esame ai crediti
non risulta chiara. Il dubbio nasce proprio dal
n. 1 dell’art. 2426 c.c., che prevede, per le immobilizzazioni, l’applicazione ai (soli?) titoli.
Non è infatti immediatamente comprensibile
la precisazione fatta dall’articolo ora citato. In
altri termini, si pone la domanda se i crediti immobilizzati diversi dai titoli debbano o
meno essere valutati al costo ammortizzato.
Volendo darne una prima interpretazione letterale, si potrebbe sostenere che fra le immobilizzazioni finanziarie solo i titoli sono
valutati al costo ammortizzato. Con ciò escludendo i crediti immobilizzati, che resterebbero
valutati al costo, nel rispetto del primo passaggio contenuto nello stesso punto. Tale lettura sosterrebbe che il n. 1 dell’art. 2426 c.c.
prevale, in termini di portata, sul n. 8.
In alternativa, si potrebbe affermare invece che
il n. 8 riguarda tutti i crediti, immobilizzati e
circolanti. In tale approccio, anche i crediti immobilizzati verrebbero valorizzati a costo ammortizzato, trasformando la precisazione del n.
1 in una sorta di nota di chiarimento del n. 8.
Dopotutto, anche i titoli sono crediti, ma proprio per la loro particolarità strutturale, nella
volontà del legislatore necessitavano di una
precisazione.
Dovendo orientare il pensiero di chi scrive, la
seconda interpretazione risulta più coerente con il sistema costruito dal legislatore.
Non avrebbe infatti senso valutare tutti i debiti a costo ammortizzato, senza alcuna distinzione di sorta, per quanto questa non esista
nell’impostazione strutturale dello Stato patrimoniale, e parallelamente creare distinzioni
sulle attività finanziarie. Optando per la prima
interpretazione, si andrebbero paradossalmente a estromettere dalla valutazione a co-
141
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
sto ammortizzato i crediti immobilizzati, che
peraltro potrebbero registrare, proprio per la
loro durata pluriennale, i maggiori effetti in
sede di applicazione del nuovo criterio.
142
TITOLI CIRCOLANTI
Altra voce che presenta dei dubbi valutativi è
quella dei titoli circolanti. Anche qui la struttura normativa non aiuta.
Da una parte si ritrova il n. 1, che richiama i
titoli immobilizzati. Il n. 9 dello stesso articolo, non modificato dal decreto in commento,
dispone invece che “le rimanenze, i titoli e le
attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritti al costo di acquisto
o di produzione, calcolato secondo il numero
1), ovvero al valore di realizzazione desumibile
dall’andamento del mercato, se minore”.
La questione verte sull’interpretazione del n. 9.
Qui si legge che i titoli circolanti devono essere
valutati al costo, secondo il numero 1. Nel punto 1 si parla di costo e, contemporaneamente,
di una configurazione particolare di costo, il
costo ammortizzato.
Seguendo l’origine della norma, il n. 9, non modificato, faceva e fa riferimento al n. 1 che nella
versione originaria prevedeva solo il criterio del
costo. Si deve pertanto presumere, in assenza
di modificazioni allo stesso n. 9, che il riferimento sia sempre e solo al costo e non al
costo ammortizzato.
Detta interpretazione, oltre ad essere aderente
al dettato normativo, è sensata in termini di
rilevanza dell’impatto del costo ammortizzato per i titoli circolanti. Applicare, infatti, tale
criterio ai titoli a breve termine renderebbe
complessa la valutazione di detti asset, con effetti economici marginali se non irrilevanti. Per
contro, analoghi effetti vi dovrebbero essere
per i crediti circolanti, anche se nessuna esclusione è stata prevista. L’esclusione si realizzerebbe comunque in applicazione del principio
di rilevanza, ora statuito dall’art. 2423 c.c.
Peraltro, la volontà del legislatore di limitare
l’applicazione del costo ammortizzato ai titoli
immobilizzati è confermata dall’art. 2435bis c.c., dove esplicitamente si esclude l’uso di
detto criterio per i soli titoli immobilizzati4.
DEBITI
Restando in ambito applicativo del criterio in
argomento, anche i debiti sono valutati al costo ammortizzato, senza distinzione di natura
e durata. Per questi non paiono ravvisarsi dubbi
interpretativi se non quello di dover applicare
il criterio a tutti i debiti, di qualsiasi natura e
qualsiasi scadenza.
Metodologia di applicazione
Definite le voci da valutare secondo il costo
ammortizzato, si pone il secondo quesito e cioè
secondo quale metodo deve essere applicato
detto criterio. L’art. 2426 c.c. dispone che “Ai
fini della presente Sezione, per la definizione di
«strumento finanziario», di «attività finanziaria» e «passività finanziaria», di «strumento finanziario derivato», di «costo ammortizzato», di
«fair value», di «attività monetaria» e «passività
monetaria», «parte correlata» e «modello e tecnica di valutazione generalmente accettato» si
fa riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea”.
A fronte del contenuto dei nuovi articoli del
codice civile, il concetto di costo ammortizzato deve essere compreso e interpretato sulla
base delle disposizioni contenute nei documenti di prassi contabile internazionale, come
definiti nei regolamenti UE di adozione.
Non è certamente questo il luogo per analizzare
e commentare tale metodo di legiferare, il quale rimette a organismi esterni (prima lo IASB,
poi gli organismi contabili dell’Unione Europea,
EFRAG e ARC) oggetti e metodologie contabili
per la costruzione del bilancio delle imprese non
soggette agli IAS/IFRS. Questo, infatti, impone
4“[…] Le società che redigono il bilancio in forma abbreviata, in deroga a quanto disposto dall’articolo 2426, hanno la
facoltà di iscrivere i titoli immobilizzati al costo di acquisto, i crediti al valore di presumibile realizzo e i debiti al valore
nominale. […]”.
ai redattori dei bilanci non IAS di seguire anche
regole contabili esterne al sistema contabile di
riferimento (il codice civile e i principi OIC), non
sempre con tale sistema coerenti.
A prescindere da quanto sopra detto, risulta
necessario verificare cosa prevedono i principi
contabili internazionali in merito al concetto
di costo ammortizzato.
Il principio contabile IAS 39 dispone che il
costo ammortizzato implica che un’attività o
una passività deve essere rilevata al termine
dell’esercizio ad un valore pari a:
Valore di prima iscrizione
(–) rimborsi di capitale
(+/–) Ammortamento della differenza fra il valore di prima iscrizione e il valore a scadenza
(dell’attività o della passività)
Il principio IAS 39 (par. 9) afferma infatti che
“Il costo ammortizzato di un’attività o passività
finanziaria è il valore a cui è stata misurata al
momento della rilevazione iniziale l’attività o
la passività finanziaria al netto dei rimborsi di
capitale, aumentato o diminuito dall’ammortamento complessivo utilizzando il criterio dell’interesse effettivo su qualsiasi differenza tra il
valore iniziale e quello a scadenza, e dedotta
qualsiasi riduzione (operata direttamente o attraverso l’uso di un accantonamento) a seguito
di una riduzione di valore o di irrecuperabilità”.
La ripartizione della differenza fra il valore di
prima iscrizione e quello a scadenza deve essere effettuata sulla base del criterio di interesse
effettivo.
Il primo punto che necessita una precisazione
sta nell’inciso dell’arti. 2426 n. 8 c.c. dove si
afferma che “i crediti e i debiti sono rilevati in
bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale”. La
precisazione del fattore temporale richiede
un chiarimento. La relazione di accompagnamento al decreto afferma infatti che “nella
nuova formulazione, la norma impone inoltre
che la valutazione dei crediti e dei debiti sia effettuata tenendo conto anche del fattore temporale. Ciò implica la necessità di attualizzare
i crediti e i debiti che, al momento della rilevazione iniziale, non sono produttivi di interessi (o
producono interessi secondo un tasso significativamente inferiore a quello di mercato)”. La
stessa relazione prosegue chiarendo che simile
previsione non è prevista per i titoli, essendo
questi rappresentati da obbligazioni emesse da
società private o da titoli pubblici che, di norma, generano interessi di mercato5.
Detto passaggio della relazione lascia quindi
intendere che tutti i crediti e debiti devono
essere attualizzati in prima iscrizione, con
conseguente registrazione in apertura al
loro valore attuale. Negli esercizi successivi
dovranno essere imputati gli interessi (attivi o
passivi) che andranno ad aumentare la posta
patrimoniale fino a ricomporre il valore nominale. L’attualizzazione riguarderà pertanto anche i crediti e i debiti finanziari, i quali, ad ora,
non devono essere espressi a valore attuale, per
esplicita previsione dei principi OIC 15 e 196.
L’impresa si troverà pertanto ad attualizzare crediti e debiti, rilevando, rispettivamente,
un costo da attualizzazione (per i crediti) e
un ricavo (per i debiti), poste economiche che
ragionevolmente dovranno confluire a Conto
economico interamente nell’esercizio di avvio
dell’operazione.
5 Sul punto si potrebbe dissentire. Non è infatti improbabile imbattersi i titoli emessi a condizioni non di mercato, soprattutto all’interno di gruppi societari. Tale previsione del fattore temporale poteva essere lasciata applicabile per tutti le
voci da valutare a costo ammortizzato, da verificare volta per volta in base al tasso di remunerazione previsto.
6 I due principi citati richiederanno una profonda revisione, in primo luogo volta a definire il criterio del costo ammortizzato e il suo ambito applicativo, e in secondo luogo, a fine di delineare le modalità di attualizzazione.
143
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
144
A tale valore attualizzato devono essere sommate algebricamente altre voci, così da determinare il valore di prima iscrizione 7:
• i costi di transazione;
• i premi;
• gli sconti.
Per costi di transazione lo stesso principio IAS
39 specifica che sono “i costi marginali direttamente attribuibili all’acquisizione, all’emissione
o alla dismissione di un’attività o di una passività
finanziaria (cfr. appendice A, paragrafo AG13).
Un costo marginale è un costo che non sarebbe
stato sostenuto se l’entità non avesse acquisito,
emesso o dismesso lo strumento finanziario”.
A titolo esemplificativo, i costi di transazione
includono:
• gli onorari e le commissioni pagati ad agenti (inclusi i dipendenti che svolgono la funzione di agenti di commercio), consulenti o
mediatori e operatori;
• i contributi prelevati da organismi di regolamentazione e dalle Borse valori;
• le tasse e oneri di trasferimento.
Sono invece esclusi dai costi di transazione i
premi, gli sconti, i costi di finanziamento, i costi interni amministrativi o di gestione.
Determinato il valore di prima iscrizione, il
passaggio successivo prevede il conteggio del
tasso di interesse effettivo, il tasso cioè di
reale onerosità dell’operazione finanziaria. Il
tasso effettivo è infatti il tasso che eguaglia il
valore iniziale al valore attuale dei pagamenti
(o incassi) futuri.
“Il criterio dell’interesse effettivo è un metodo
di calcolo del costo ammortizzato di un’attivi-
tà o passività finanziaria (o gruppo di attività
o passività finanziarie) e di ripartizione degli
interessi attivi o passivi lungo il relativo periodo. Il tasso di interesse effettivo è il tasso che
attualizza esattamente i pagamenti o incassi
futuri stimati lungo la vita attesa dello strumento finanziario o, ove opportuno, un periodo
più breve al valore contabile netto dell’attività
o passività finanziaria”.
Sulla base del tasso determinato verranno
rilevati a Conto economico gli interessi attivi o passivi.
3
Le questioni fiscali
derivanti dall’applicazione
del costo ammortizzato
La revisione del metodo di valutazione delle
poste contabili esaminate e la conseguente
doverosa riscrittura di alcuni principi contabili non potranno non avere conseguenze
anche sul piano fiscale. La prima ravvisabile
è il cambio di qualificazione di un costo.
I costi di transazione, prima capitalizzati e
annualmente ammortizzati, assumeranno una
diversa configurazione economica, divenendo
interessi passivi. La conseguenza è certamente rilevante. Se infatti prima detti costi rientravano nella gestione ordinaria ora verranno
rilevati nell’area finanziaria. Di conseguenza,
ai fini della norma sulla deduzione degli interessi (art. 96 del TUIR), si dovrà rilevare un
peggioramento delle condizioni fiscali delle
imprese, che vedranno togliersi dalla gestione
7 Un intervento di revisione significativo dovrà essere previsto per l’OIC 24. Questo infatti dispone, nell’attuale versione, che
(§ 76): “I costi accessori sostenuti per ottenere finanziamenti, quali le spese di istruttoria, l’imposta sostitutiva su finanziamenti a medio termine, e tutti gli altri costi iniziali sono capitalizzati nell’attivo dello stato patrimoniale (e classificati
nella voce “altre” immobilizzazioni immateriali). Se a seguito dell’istruttoria i finanziamenti non sono concessi, i costi
iniziali sostenuti sono interamente imputati al conto economico. I costi accessori su finanziamenti sono ammortizzati
secondo le disposizioni del paragrafo 94”. Al § 94 viene fissata la durata di tale immobilizzazione immateriale, disponendo
che “L’ammortamento dei costi accessori su finanziamenti è determinato sulla durata dei relativi finanziamenti in base a
quote calcolate preferibilmente secondo modalità finanziarie, oppure a quote costanti, se gli effetti risultanti non divergono in modo significativo rispetto al metodo finanziario”. Tale ultimo passaggio, con i dovuti aggiornamenti, potrebbe
essere conservato. Il metodo a quote costanti di riparto dei costi di transazione e delle differenze di emissione potrebbe
infatti portare a risultati non significativamente divergenti dal criterio del tasso effettivo, agevolando, per contro, la compilazione del bilancio medesimo. Detta eventuale precisazione del nostro standard setter risulterebbe inoltre coerente con
il nuovo principio generale della rilevanza.
caratteristica (e quindi dal ROL) un componente di reddito, peraltro ininfluente nella determinazione della grandezza reddituale sulla
quale viene parametrato il limite di deducibilità degli interessi, per trasformarla in interessi sui quali (salvo precisazioni del legislatore
fiscale) si applicherà il limite dell’articolo in
esame.
Ulteriore problematica riguarda l’attualizzazione dei crediti e dei debiti di natura finanziaria. Come sopra illustrato, tale pratica contabile determina un ricavo o costo in sede di
attualizzazione e un riversamento di interessi,
rispettivamente, passivi e attivi, nel futuro. Il legislatore fiscale dovrà esprimersi su come detti
componenti di reddito dovranno essere trattati.
Un terzo e ultimo problema, di ordine pratico e
temporale, riguarda la modalità di deduzione
dei costi di transazione e dei disaggi su prestiti (oltre che la tassazione degli aggi). In chiave pratica, le imprese adottano ad oggi metodi
di imputazione a costo di tali voci sulla base di
un criterio di ripartizione a quote costanti.
Il nuovo criterio del costo ammortizzato prevederà invece una ripartizione temporale dei
costi secondo un criterio finanziario e, quindi,
con una scansione diversa della ripartizione a
quote costanti.
ESEMPIO
Al fine di chiarire le questioni applicative del
costo ammortizzato, si presenta una esemplificazione pratica.
La società Alfa spa nel gennaio nell’anno x
emette un prestito obbligazionario del valore
nominale di € 1.000.000 costituito da 1.000
titoli, collocati sul mercato sotto la pari ad un
valore unitario di € 950. Le spese di collocamento del prestito ammontano a € 40.000.
Il debito finanziario prevede pagamenti annuali degli interessi al termine di ciascun
esercizio ad un tasso del 10%, per una durata
di cinque anni e integrale rimborso del capitale alla scadenza del prestito per l’importo
nominale.
Sulla base delle nuove indicazioni contenute
nell’art. 2426 c.c., viene prima di tutto determinato il tasso di interesse effettivo. A tal
fine è necessario mettere a confronto i flussi
di cassa in entrata derivanti dall’emissione del
prestito con i flussi finanziari in uscita derivanti dal servizio dello stesso. I flussi finanziari in
entrata sono pari all’ammontare riconosciuto
dai sottoscrittori diminuito dei conseguenti
costi di transazione. L’importo ammonta a €
910.000 (950.000–40.000).
I flussi in uscita sono pari agli interessi periodici (100.000 annui per cinque anni) e al rimborso del capitale al relativo valore nominale
(pari a € 1.000.000).
Utilizzando la formula TIR.COST è possibile determinare il tasso di interesse effettivo.
145
ESERCIZIO
OPERAZIONE
x
emissione
x
interessi
– 100.000
x+1
interessi
– 100.000
x+2
interessi
– 100.000
x+3
interessi
x+4
interessi e rimborso
Tasso effettivo di interesse
Sulla base di detto tasso viene ricostruito il
piano di ammortamento del prestito, il quale, a
fronte di un tasso effettivo superiore del tasso
nominale, implicherà la maturazione di interessi effettivi superiori a quelli liquidati ai sotto-
IMPORTO
910.000
– 100.000
– 1.100.000
12,530%
scrittori del debito. Detti maggiori interessi, non
essendo pagati, determinano una lievitazione
del debito, che crescerà durante la vita del prestito fino a raggiungere l’importo del rimborso
che dovrà essere erogato alla scadenza.
CAPITALE
INIZIALE
RIMBORSI
DI CAPITALE
INTERESSI
PAGATI
INTERESSI
EFFETTIVI
DIFFERENZA
CAP. FINE
ESERCIZIO
x
910.000
-
100.000
114.019
14.019
924.019
x+1
924.019
-
100.000
115.775
15.775
939.794
x+2
939.794
-
100.000
117.752
17.752
957.545
x+3
957.545
-
100.000
119.976
19.976
977.521
x+4
977.521
– 1.000.000
100.000
122.479
22.479
0
A livello di scritture contabili, le spese di collocamento vengono portare in diretta riduzione del debito, aperto inizialmente al valore di
sottoscrizione (e quindi non al valore nominale).
La rilevazione degli interessi effettivi presenta come contropartita, per la parte pagata, il
conto contabile della banca (in uscita) e per la
parte non pagata, il conto contabile del prestito obbligazionario.
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
• emissione obbligazioni
146
Banca
a
Prestito obligazionario
a
Banca
950.000
• spese di emissione
Prestito obligazionario
40.000
• rilevazione interessi
Interessi passivi
114.019
a
Prestito obbligazionario
Banca
14.019
100.000
06
CRISI
D’IMPRESA
CRISI
D’IMPRESA
RISTRUTTURAZIONI DEI DEBITI,
NOVITÀ PER PASSIVITÀ FINANZIARIE
E FINANZA INTERINALE
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Michele BANA
Dottore Commercialista, Revisore Legale e Pubblicista
148
Il DL 27.6.2015 n. 83 ha integrato la normativa riguardante gli accordi di ridefinizione delle
passività, disciplinando lo specifico caso in cui i debiti siano per almeno il 50% nei confronti di creditori finanziari, prevedendo la possibilità di suddividere costoro in categorie
omogenee, per posizione giuridica ed interesse economico (art. 182-septies L. fall.). È stato,
inoltre, ampliato l’ambito applicativo, comune al concordato preventivo, dell’assunzione dei
finanziamenti prededucibili che possono essere autorizzati anche per fare fronte ad urgenti
necessità dell’attività aziendale (art. 182-quinquies L. fall.).
1
Principi generali
L’accordo di ristrutturazione dei debiti è disciplinato dall’art. 182-bis del RD 267/1942,
che attribuisce al debitore in stato di crisi il
diritto di richiedere al Tribunale l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti,
purché soddisfi, congiuntamente, due requisiti:
in primo luogo, è necessario che l’intesa1 sia
stata raggiunta con un numero di creditori
rappresentanti almeno il 60% delle passività.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti, sotto
il profilo del contenuto, presenta, tra l’altro, le
seguenti caratteristiche:
• può avere finalità liquidatorie (cessione
dell’azienda a terzi, vendita totale o parziale di beni ai creditori, conferimento in una
società di nuova costituzione, ecc.), oppure
prevedere misure tipicamente conservative, funzionali alla prosecuzione dell’attività
aziendale 2 e, quindi, alla salvaguardia del
valore dell’impresa, nonché dei livelli occupazionali;
1 L’accordo di ristrutturazione dei debiti rientra nel novero dei contratti, e si perfeziona, quindi, per effetto dello scambio
dei consensi tra il debitore ed i creditori, a norma dell’art. 1326 co. 1 c.c., ovvero quando il proponente viene a conoscenza dell’accettazione della controparte.
2 L’oggetto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti può essere, infatti, rappresentato da erogazione di nuova finanza, anche
nella forma dell’emissione di un prestito obbligazionario, riduzioni totali o parziali delle passività (capitale e/o interessi), rinunzie agli interessi in corso di maturazione, dilazioni di pagamento, cessioni di attività aziendali non strategiche (ovvero tali
da non pregiudicare la continuità aziendale), acquisizione di nuove garanzie a favore dei creditori, effettuazione di operazioni
straordinarie o conversione in capitale di una quota dei debiti.
• può essere raggiunto con qualsiasi tipologia di creditore3 (ipotecario, privilegiato4,
chirografario, ecc.), sulla base dei presupposti ritenuti maggiormente opportuni,
non essendovi la necessità – a differenza
del concordato preventivo – della suddivisione dei creditori in classi omogenee per
posizione giuridica ed interesse economico, né di rispettare la par condicio creditorum. Rileva, pertanto, esclusivamente
la circostanza che la proposta di accordo
consegua il parere favorevole dei creditori rappresentanti almeno il 60% dei debiti
del proponente;
• deve garantire l’integrale pagamento dei
creditori estranei all’intesa, rispetto ai
quali non produce, pertanto, alcun effetto;
• deve essere perfezionato almeno nella
forma di scrittura privata autenticata, in
quanto la pubblicazione, presso il Registro
delle imprese, presuppone la certificazione
delle sottoscrizioni da parte di un soggetto terzo munito di tale potere. Può essere
costituito da un contratto unico, oppure da
una pluralità di accordi stipulati dal debitore con singoli creditori o gruppi degli stessi.
È, inoltre, indispensabile che il ricorso sia depositato 5 presso la competente cancelleria
del Tribunale, unitamente alla seguente documentazione:
• gli atti previsti per la richiesta di ammissio-
ne alla procedura di concordato preventivo
(art. 161 comma 2 L. fall.), ed in particolare:
-- una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria
dell’impresa, ovvero una dettagliata e critica analisi dei bilanci degli ultimi esercizi, ed anche un business plan nel caso in
cui l’accordo non abbia finalità liquidatorie, bensì il conseguimento dell’obiettivo
di un generale riequilibrio economico e
finanziario dell’impresa;
-- uno stato analitico ed estimativo delle
attività, asseverato dalla relazione di un
perito;
-- l’elenco nominativo dei creditori, con
l’indicazione dei rispettivi importi e delle
eventuali cause legittime di prelazione, al
fine di consentire al Tribunale di verificare
l’effettivo raggiungimento del quorum del
60% delle passività;
-- l’elenco dei titolari di diritti reali o personali sui beni di proprietà oppure in possesso del debitore;
-- il valore dei beni e i creditori particolari
degli eventuali soci illimitatamente responsabili;
-- un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta;
• la relazione sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità 6 dell’accordo di ri-
149
3 La circostanza che ai creditori estranei debba essere garantito il pagamento integrale, nonostante i creditori del medesimo
ordine e grado partecipanti all’accordo possono aver accettato una soddisfazione parziale, può indurre alcuni creditori a
non manifestare il proprio consenso: ciò può accadere nel caso dei creditori garantiti, come gli ipotecari, per i quali l’ipotesi dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è indifferente, in quanto hanno la ragionevole certezza della soddisfazione
integrale del proprio credito, sulla base del presumibile valore di realizzo del bene ipotecato.
Analogamente, qualora pochi creditori aderenti consentano di raggiungere il quorum del 60% (tipicamente le banche, per
i crediti privi di una causa legittima di prelazione), tutti gli altri creditori, compresi i chirografari, saranno orientati a non
partecipare all’accordo, acquisendo, quindi, il diritto – in qualità di creditori estranei – ad essere soddisfatti integralmente.
4 Per un approfondimento della disciplina riguardante i creditori privilegiati, si veda il contributo di Bonfatti S. “Il trattamento dei creditori privilegiati nelle diverse forme di regolazione della crisi”, in “Il ruolo del professionista nei risanamenti
aziendali”, a cura di Fabiani M., Guiotto A., Atti e documenti, Eutekne, Torino, 2012, p. 273-335.
5 Qualora l’impresa in crisi faccia parte di un gruppo interessato da un ampio progetto di risanamento, l’accordo di ristrutturazione dei debiti della singola impresa deve essere depositato congiuntamente al piano di revisione della holding (Trib.
Roma 5.11.2009, in Banca Dati Eutekne).
6 L’attestazione dell’attuabilità dell’accordo impone al professionista di valutare i principali rischi insiti nel piano, verificare la
fattibilità patrimoniale, finanziaria ed economica del progetto di risanamento, compresa l’idoneità dello stesso a garantire
il pagamento dei creditori aderenti nella misura e secondo le tempistiche concordate, nonché di quelli estranei in forma
integrale (entro 120 giorni dalla scadenza o, se decorsa, dalla data del decreto di omologazione giudiziale dell’intesa).
strutturazione dei debiti, con particolare
riferimento alla propria idoneità a garantire
l’integrale pagamento dei creditori estranei, entro 120 giorni dalla scadenza oppure, nel caso di crediti già scaduti, dalla
data del decreto di omologazione dell’intesa di cui all’art. 182-bis L. fall.
2
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Novità del DL 83/2015 –
Art. 182-septies
150
Una delle principali cause di insuccesso
degli accordi di ristrutturazione dei debiti è
l’eccessiva durata delle negoziazioni con il
ceto bancario, per una serie di motivazioni
legate alla complessità dei rapporti tra l’imprenditore in crisi e le banche finanziatrici:
la numerosità degli istituti coinvolti, l’entità
e la tipologia della loro esposizione, la loro
differente propensione al rischio, la solidità
delle loro garanzie, la qualità e la durata del
rapporto. La necessità di accelerare i tempi
della negoziazione e facilitare il raggiungimento di un accordo vincolante per l’intero
ceto bancario ha, quindi, indotto il legislatore ad uno specifico intervento. In particolare, l’art. 9 del DL 83/2015, in vigore dal
27.6.2015, ha introdotto l’art. 182-septies
L. fall., per stabilire che quando un’impresa
ha passività verso banche ed intermediari
finanziari in misura non inferiore alla metà
dell’indebitamento complessivo, la disciplina dell’art. 182-bis L. fall. – in deroga agli
artt. 1372 e 1441 c.c.7 – è integrata da alcune specifiche norme, fermi restando i diritti
dei creditori non finanziari.
Categorie omogenee di creditori
In primo luogo, l’art. 182-septies comma 2
L. fall. stabilisce che l’accordo di ristrutturazione dei debiti può individuare una o più
categorie8 tra i predetti creditori finanziari che abbiano tra loro posizione giuridica
ed interessi economici omogenei9: potrebbe
trattarsi, ad esempio, di creditori bancari che
abbiano crediti (bancari) privilegiati o comunque assistiti da garanzie reali, o invece
crediti causalmente simili (crediti da anticipazione bancaria, mutuo ipotecario, ecc.)10.
Rimane, in ogni caso, fermo che non sussiste
alcun obbligo di rispetto della graduazione
dei privilegi.
Il tema dell’omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici assume,
pertanto, rilevanza assorbente, costituendo il
vero punto critico, con particolare riguardo
alla rilevanza dei seguenti aspetti 11:
• valutazione;
• ordine dei privilegi;
• garanzie collaterali e loro capienza;
• garanzie esterne ricevute;
• impegni di canalizzazione dei flussi – ad
esempio, provenienti dalla locazione di
taluni cespiti – o presenza di finanziamenti destinati ad uno specifico affare (artt.
2447-bis e 2447-novies c.c.);
7 Tali disposizioni stabiliscono, rispettivamente, che il contratto ha forza di legge soltanto tra le parti e non produce effetto
rispetto ai terzi, e che anche la stipulazione a favore di terzi può avere effetto nei loro confronti esclusivamente quando
accettino di profittarne. La deroga prevista dall’art. 182-septies L. fall. consente, pertanto, all’accordo di ristrutturazione
dei debiti di esplicare i propri effetti anche nei confronti dei creditori bancari non aderenti.
8 Un eventuale errore nella formazione delle classi può essere fatto valere in sede di opposizione, con il rischio – in caso
di accoglimento, qualora la convenzione finisca per non operare rispetto ad alcuni intermediari finanziari – di pregiudicare la fattibilità del piano, costringendo il debitore a rinegoziare nuovamente l’accordo.
9 La disposizione è, pertanto, coerente con la Raccomandazione della Commissione Europea del 12.3.2014, che ha invitato
gli Stati membri a consentire l’adozione degli accordi di ristrutturazione dei debiti anche soltanto da parte di “determinati tipi o classi di creditori, a condizione che gli altri creditori non siano coinvolti”.
10 Lamanna F. “La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto «contendibilità e soluzioni finanziarie» n.
83/2015: un primo commento”, Parte IV, il Fallimentarista.it, 29.6.2015.
11 Ranalli R. “Speciale Decreto «Contendibilità e soluzioni finanziarie» n. 83/2015: gli accordi di ristrutturazione con
intermediari finanziari. Alcuni considerazioni critiche”, il Fallimentarista.it, 23.7.2015.
• tipologie di forme tecniche (crediti di cassa,
autoliquidanti, di firma, a medio termine,
ecc.).
Una possibile chiave di lettura, in sede di valutazione, potrebbe essere quella di considerare
omogenee le posizioni dei crediti in cui il grado e i tempi di soddisfazione nell’alternativa
concretamente praticabile non siano tra loro
significativamente diversi: in tal modo, sussisterebbe, quindi, un’unità di misura per valutare titoli prelatizi, garanzie collaterali esterne e
forme tecniche.
Estensione ai creditori finanziari
non aderenti
L’art. 182-septies comma 2 L. fall stabilisce,
inoltre, che il debitore può chiedere – mediante l’istanza di omologazione – che gli effetti
dell’accordo siano estesi anche ai creditori
non aderenti che appartengono alla medesima categoria omogenea, purchè risultino soddisfatte alcune specifiche condizioni:
• tutti i creditori della categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e messi in
condizione di parteciparvi in buona fede12;
• i crediti delle banche e degli intermediari
finanziari aderenti rappresentino il 75%
dei crediti della categoria.
L’osservanza di tali vincoli comporta, pertanto, un aumento delle formalità a carico
del debitore e dei propri consulenti, al fine
di dimostrare l’effettiva convocazione delle
riunioni, rivolta a tutti i creditori finanziari,
e la trasmissione di complete ed aggiornate
informazioni sulla situazione patrimoniale,
economica e finanziaria dell’impresa in crisi.
È, inoltre, riconosciuta la possibilità che una
banca oppure un intermediario finanziario sia
titolare di crediti inseriti in più categorie.
In sede di applicazione del suddetto art.
182-septies comma 2, non si tiene tuttavia
conto – analogamente a quanto già previsto in
ambito di concordato preventivo, con riguardo
a tutti i creditori (art. 168 comma 3 L. fall.) –
delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche
o dagli intermediari finanziari nei 90 giorni
precedenti alla data di pubblicazione dell’accordo nel Registro delle imprese13.
Opposizione all’estensione
e omologazione
Il debitore, in aggiunta agli ordinari adempimenti pubblicitari di cui sopra, deve altresì
notificare il ricorso, la documentazione di cui
all’art. 161 L. fall. e l’attestazione alle banche
e agli intermediari finanziari ai quali si chiede
di estendere gli effetti dell’accordo: costoro
possono proporre opposizione entro 30 giorni dalla data della predetta notifica. Tale
ulteriore incombente pare giustificato esclusivamente dalla consapevolezza che il regime di
pubblicità ordinariamente previsto, consistente nelle pubblicazione del ricorso nel Registro
delle imprese, è poco efficace nella realtà, a
maggior ragione in presenza di un termine di
soli 30 giorni per l’opposizione: il legislatore
12 Guiotto A. “Accordi di ristrutturazione più vincolanti con gli intermediari finanziari”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 28.8.2015: “la locuzione «buona fede» va ricondotta all’assenza di comportamenti maliziosi
finalizzati a ostacolare l’effettiva partecipazione dell’istituto alle riunioni o la sua piena conoscenza dell’andamento
delle trattative e delle informazioni rilevanti”.
13 Tale previsione dovrebbe rilevare ai soli fini della formazione delle classi di creditori. In tal senso, Lamanna F., cit.: “l’avere
iscritto ipoteca giudiziale nei novanta giorni che precedono la data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, non costituisce idonea ragione per inserire il creditore bancario o finanziario, che a tale iscrizione abbia proceduto
nel predetto termine, in un’autonoma categoria che eventualmente consideri quale posizione omogenea quella relativa
a crediti bancari garantiti da ipoteca giudiziale. Non vedo altre più confacenti soluzioni, poiché, da un lato, negli accordi
non hanno di per sé alcuna importanza né privilegi, né prelazioni, in mancanza di una graduazione; dall’altro, l’iscrizione di ipoteca giudiziale nulla toglie alla preesistenza del sottostante credito bancario cui tale garanzia accede; infine,
conseguentemente, il suddetto credito ben può ancora concorrere, come tale, sia alla formazione della soglia per accedere all’accordo speciale (50% di crediti bancari rispetto all’indebitamento totale), sia alla formazione della percentuale
qualificata (75%) necessaria per estendere gli effetti dell’accordo ai dissenzienti appartenenti alla medesima categoria,
sia per concorrere alla integrazione della soglia del 60%”.
151
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
152
ha, pertanto, ritenuto opportuno garantire l’effettiva conoscenza dell’istanza, tramite specifica notifica personale.
Il Tribunale procede, poi, all’omologazione, se
accerta – avvalendosi, ove occorra, di un ausiliario14 – che le trattative sono state svolte
in buona fede e ricorrono alcune circostanze
in capo alle banche ed agli intermediari finanziari ai quali il debitore chiede di estendere gli
effetti dell’accordo:
• hanno posizione giuridica ed interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti;
• hanno ricevuto complete ed aggiornate
informazioni sulla situazione patrimoniale,
finanziaria e reddituale del debitore, nonché
sull’intesa e sui propri effetti, e sono stati
messi in condizione di partecipare alle trattative;
• possono risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto a
quella delle alternative concretamente
praticabili.
Queste ultime non sono necessariamente quelle
dell’ipotesi fallimentare, bensì quelle derivanti
dal mancato raggiungimento dell’accordo ricadente sui singoli creditori, con l’effetto che per
valutarle occorrerebbe calarsi nello specifico
caso concreto. Nella maggior parte delle ipotesi,
il mancato raggiungimento dell’accordo pregiudica la continuità, ma la liquidazione che ne
deriva non è necessariamente fallimentare,
salvo che sia pendente un’istanza di fallimento,
e comunque potrebbe ben realizzarsi a valle di
un esercizio temporaneo dell’azienda, nella pro-
spettiva della sua cessione “ordinata” – ovvero
non coatta, con le garanzie consuete alle operazioni di M&A – in luogo della cessione atomistica dei propri beni15. Un tale raffronto è reso
ancor più difficile dal fatto che nell’accordo, per
definizione, la soddisfazione dei creditori non
segue le regole della graduazione: sarebbe,
pertanto, necessario predisporne una ad hoc per
eseguire il raffronto con un alternativo riparto
fallimentare, con tutte le complicazioni, poi,
connesse ai privilegi o alle prelazioni incapienti.
La valutazione di convenienza appare, inoltre, improponibile in re ipsa rispetto ad un
concordato preventivo, il quale non può
mai costituire un’alternativa concretamente praticabile, poiché o vi è l’accordo, con i
suoi specifici contenuti, o vi è un concordato
preventivo, con le sue altrettanto specifiche
clausole e condizioni, e l’uno e l’altro non
possono proporsi contestualmente, sì che non
è mai possibile alcun confronto concreto tra
l’uno e l’altro: tertium non datur. Rimane ad
un sommario inventario l’ipotesi delle procedure espropriative singolari, che costituiscono un’alternativa praticabile in concreto,
quanto meno quando procedure siffatte siano state già avviate ad iniziativa proprio dei
creditori non aderenti. Il debitore è, quindi,
gravato dall’onere di provare la sussistenza
del requisito della soddisfazione non inferiore
alle alternative concretamente praticabili16.
Convenzione di moratoria
Qualora il debitore stipuli, con uno o più credi-
14 La facoltà del Tribunale di ricorrere all’ausiliario è stata opportunamente inserita in sede di conversione del DL 83/2015, in
quanto la valutazione da parte dell’autorità giudiziaria del soddisfacimento in misura non inferiore a quella delle alternative concretamente praticabili impone una valutazione necessariamente quantitativa, e probabilmente anche temporale,
con riferimento ai termini di pagamento. L’art. 182-septies co. 8 L. fall. stabilisce che la relazione dell’ausiliario è trasmessa
a norma dell’art. 161 co. 5 L. fall., ovvero “è comunicata al pubblico ministero ed è pubblicata, a cura del cancelliere, nel
registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito in cancelleria”.
15 Ranalli R., cit.
16 Lamanna F., cit.: il debitore deve “dimostrare che nel fallimento alternativo i creditori non aderenti potrebbero riscuotere
meno di quanto loro riservato con l’accordo (o con maggiore ritardo, a parità di quantum). Ciò implica però che sia ben
nota la situazione patrimoniale e finanziaria complessiva del debitore, e sembra che a ciò sia funzionale – tra l’altro – il
già ricordato requisito concorrente che richiede siano fornite ai creditori complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore (dati peraltro già sempre richiesti per il combinato disposto
degli artt. 182-bis e 161 L.F.)”.
tori finanziari, una convenzione diretta a disciplinare, in via provvisoria, gli effetti della crisi
mediante una moratoria temporanea17 dei
crediti (funzionale al raggiungimento dell’accordo) e sia raggiunta la citata maggioranza
del 75%, tale sospensione produce effetto anche nei confronti delle banche e dei soggetti
finanziari non aderenti. È, tuttavia, necessario
che tali creditori siano informati dell’avvio
delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e che un professionista
(art. 67 comma 3 lett. d, L. fall.) attesti18 l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici tra i creditori interessati dalla
moratoria. Tali creditori possono comunque
opporsi, entro 30 giorni dalla comunicazione – effettuata tramite lettera raccomandata
o posta elettronica certificata – della convenzione stipulata, accompagnata dalla suddetta
attestazione del professionista designato a
norma della predetta disposizione. La banca o
l’intermediario finanziario, con l’opposizione,
può chiedere che la convenzione non produca
effetti nei propri confronti.
La disciplina in commento prospetta, pertanto, un ulteriore strumento di composizione
della crisi d’impresa, che presenta caratteristiche comuni – a partire dalla natura contrattuale – con alcuni istituti previsti dal RD
267/1942:
• il piano attestato di risanamento, per la
collocazione ordinariamente extraprocessuale, non essendo previsto un necessario intervento omologatorio del Tribunale,
salvo il caso dell’opposizione da parte dei
creditori non aderenti;
• l’accordo di ristrutturazione dei debiti, per
la qualità oggettiva delle passività e quella soggettiva dei relativi creditori, nonché
l’idoneità ad estendere i propri effetti – in
deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c. – anche
ai creditori non aderenti.
Il Tribunale, con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle
condizioni di cui all’art. 182-septies comma 4
terzo periodo L. fall.: nel termine di 15 giorni
dalla comunicazione, il decreto del Tribunale è reclamabile alla Corte d’Appello, ai sensi
dell’art. 183 L. fall.
L’art. 182-septies comma 7 L. fall. dispone che
in nessun caso – per effetto degli accordi e
delle convenzioni di cui ai commi precedenti – ai creditori non aderenti possono essere
imposti 19:
• l’esecuzione di nuove prestazioni 20;
• la concessione di affidamenti;
• il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di
nuovi finanziamenti.
Alla luce di quanto sopra riportato, appare
153
17 Ranalli R., cit.: la temporaneità della moratoria rende superflua la suddivisione dei creditori in categorie, e ben potrebbe applicarsi a tutti i creditori “bancari” indistintamente, in particolare se venisse previsto ex lege un termine
massimo della moratoria. Forse sarebbe stato più opportuno riferirsi semplicemente al 75% di tutti i creditori bancari,
espungendo ogni riferimento alle classi. Sempre con riferimento alla moratoria, occorre aggiungere che si tratta di
pactum de non petendo (più che di un vero e proprio stand-still, in quanto l’utilizzo degli affidamenti esistenti
per previsione normativa non può essere imposto a maggioranza), che pare non debba essere sottoposto ad omologa,
e che non è chiaro se debba essere o meno valutato dal Tribunale.
18 Non è, tuttavia, chiaro se tale attestazione – come è ragionevole ritenere – debba considerarsi “speciale” e separata
da quella generale di veridicità dei dati aziendali e fattibilità: il che non impedisce che possa costituire un di cui del
documento attestativo o della pre-opinion di cui all’art. 182-bis co. 6 L. fall. In tal senso, Ranalli R., cit.
19 Ranalli R., cit.: peraltro, ben potrebbero essere imposte, oltre che il riscadenziamento del debito, anche clausole del
tipo “pay if you can” o di non fattibilità e addirittura di stralcio e conversioni in equity e in strumenti finanziari
partecipativi pure nell’ottica di ristabilire il minimo legale del capitale sociale.
20 Agli effetti dell’art. 182-septies L. fall., non è considerata “nuova prestazione” la prosecuzione della concessione del
godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati. Sul punto, si veda anche il contributo
di Ranalli R., cit., secondo cui “da tale previsione si può fare discendere l’impedimento alla richiesta di risoluzione
per inadempimento in caso di mancato pagamento di canoni scaduti, per quanto occorra indagare se i contratti di
leasing costituiscono una classe obbligatoriamente a sé stante con la conseguente necessità, in caso affermativo,
di ottenere l’impegno alla prosecuzione del contratto da parte almeno del 75% dei locatori”.
evidente che il legislatore, con l’art. 182-septies L. fall., ha inteso accelerare i tempi della
negoziazione con gli intermediari finanziari:
uno, anche se non l’unico, dei motivi dell’insuccesso di un accordo di ristrutturazione è,
infatti, il tempo eccessivo che intercorre tra
l’inizio delle trattative con il ceto bancario e
la loro conclusione 21. Tale disposizione mutua
buona parte delle regole dell’art. 182-bis L.
fall., pur stravolgendone parzialmente la natura, che nella norma assume contenuti prevalentemente concorsuali, con l’assoggettamento della minoranza dei creditori finanziari
alla decisione della maggioranza.
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
3
154
Novità del DL 83/2015 –
Disposizioni penali
L’introduzione dell’art. 182-septies L. fall. ha,
inoltre, comportato l’integrazione – ad opera
dell’art. 10 del DL 83/2015 – dell’art. 236 L.
fall., nel senso di stabilire che è punito con
la reclusione da uno a cinque anni anche 22
l’imprenditore che, al solo scopo di ottenere
l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari o il
consenso degli stessi alla sottoscrizione della
convenzione di moratoria, si sia attribuito
attività inesistenti, ovvero – per influire sulla
formazione delle maggioranze – abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti.
È, inoltre, prevista l’applicazione delle seguenti disposizioni (art. 236 comma 3 L. fall.):
• artt. 223 e 224 L. fall. nei confronti di amministratori, direttori generali, sindaci e
liquidatori della società (bancarotta fraudolenta e semplice);
• art. 227 L. fall. agli institori dell’imprenditore (bancarotta fraudolenta e semplice,
ricorso abusivo al credito, denuncia di creditori inesistenti, ecc.);
• artt. 232 e 233 L. fall. ai creditori (simulazioni di crediti, distrazioni e mercato di
voto).
4
Novità del DL 83/2015 –
Finanziamenti
interinali “urgenti”
L’accordo di ristrutturazione dei debiti, congiuntamente al concordato preventivo, è stato, inoltre, interessato, da un’ultima novità,
riguardante la c.d. finanza interinale. L’art. 1
comma 1 lett. b) del DL 83/2015, in vigore
dal 27.6.2015 23, ha, infatti, aggiunto – dopo
il comma 2 dell’art. 182- quinquies L. fall.
– alcune specifiche disposizioni dirette a salvaguardare la continuità aziendale, qualora
il debitore presenti uno dei seguenti atti:
• domanda di concordato preventivo “in
bianco” (art. 161 comma 6 L. fall.), anche in assenza del piano concordatario
contenente la descrizione analitica delle
modalità e dei tempi di adempimento della
proposta, e l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che
21 Ranalli R., cit.: la dilatazione dei tempi comporta inevitabilmente, in particolare quando occorre nuova finanza, un
ritardo nell’attivazione delle azioni industriali e una deriva rispetto agli obiettivi del piano inizialmente designato.
22 La medesima pena è prevista se il debitore ha assunto la stessa condotta con l’esclusiva finalità di essere ammesso
alla procedura di concordato preventivo, ma non con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art.
182-bis L. fall. Sul punto, si veda il contributo di Lamanna F., cit.: la ragione di tale scelta legislativa è riconducibile
alla circostanza che solo nella disciplina dell’art. 182-septies L. fall. “è stata prevista l’estensione dei relativi effetti
in capo ai terzi non aderenti, con un conseguente aumento della loro potenzialità offensiva, e conseguente equiparabilità, sotto questo aspetto, al concordato preventivo, che produce effetti verso tutti i creditori anteriori anche se
non consenzienti e se siano rimasti assenti nella procedura. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis
L.F., invece, non prevedono – nella forma base o comune – tale estensione, se non limitatamente ad un modesto
slittamento dei termini di pagamento scaduti o a scadere”.
23La modifica normativa è ritenuta applicabile anche ai procedimenti concordatari e preconcordatari in corso al
27.6.2015, sul presupposto che l’art. 1 del DL 83/2015 si limita a puntualizzare le disposizioni esistenti riguardanti le
modalità di autorizzazione dei finanziamenti interinali. In tal senso, Lamanna F., cit., Parte I, 29.6.2015.
il proponente assicura a favore di ciascun
creditore [art. 161 comma 2 lett. e) L. fall.];
• istanza di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis
comma 1 L. fall.);
• “pre-accordo” di ridefinizione delle passività (art. 182-bis comma 6 L. fall.).
In sede di presentazione di uno dei predetti
atti, il debitore può chiedere al Tribunale di
essere autorizzato, in via d’urgenza, a contrarre finanziamenti – prededucibili ai sensi dell’art. 111 L. fall. – funzionali ad urgenti
necessità relative all’esercizio dell’attività
aziendale fino, rispettivamente, alla scadenza
del termine fissato dal Tribunale per il deposito del piano e della proposta di concordato
preventivo (art. 161 comma 6 L. fall.) oppure
all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis comma 4 L. fall.)
o alla scadenza del termine per la presentazione dell’intesa di ridefinizione delle passività (art. 182-bis comma 7 L. fall.). Il relativo
ricorso deve specificare la destinazione dei
finanziamenti, l’incapacità del debitore di reperirli in altro modo e che, in mancanza degli
stessi, deriverebbe un pregiudizio imminente
ed irreparabile all’azienda. In presenza di tali
presupposti, il Tribunale – assunte sommarie
informazioni sul piano e sulla proposta in corso di predisposizione, sentito il commissario
giudiziale eventualmente già nominato e, se
del caso, ascoltati senza formalità i principali
creditori – decide in camera di consiglio, con
decreto motivato, entro 10 giorni dal deposito
dell’istanza di autorizzazione.
La richiesta può avere anche ad oggetto il
mantenimento di linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito
della domanda 24.
Un’ulteriore modifica apportata dall’art. 1 del
DL 83/2015 all’art. 182-quinquies L. fall. ha
interessato il comma 3 di quest’ultima norma:
è stato, infatti, esteso il potere del Tribunale,
che può autorizzare il debitore non soltanto a concedere pegno o ipoteca, ma anche
a cedere crediti, a garanzia dei finanziamenti oggetto di istanza. La novità normativa in parola è significativa, in quanto la
cessione di crediti in garanzia, diversamente
dall’ipoteca e dal pegno, consente al creditore
garantito, in caso di inadempimento, di rifarsi
immediatamente sul credito ceduto.
155
24 Per l’analisi di alcune criticità della novità normativa, nell’ambito del concordato preventivo, si veda Bana M. “Concordato preventivo, novità per debitore, creditori e terzi”, in questa Rivista, 5, 2015, p. 112-123.
07
GIURISPRUDENZA
GIURISPRUDENZA
“TRANSFER PRICING” INTERNO
E VALORE NORMALE
Luca MIELE
Dottore Commercialista – of counsel di Studio Tributario e Societario, Deloitte
La Corte di Cassazione ha affermato, nella sentenza in rassegna, che per la valutazione ai fini
fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni va applicato il principio, avente valore
generale, stabilito dall’art. 9 del TUIR, in attuazione del divieto di abuso del diritto che preclude al
contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera
aspettativa di quei benefici.
1
La sentenza in breve
La sentenza in rassegna si inserisce nel filone
della giurisprudenza di legittimità secondo il
quale il criterio del valore normale può essere utilizzato per sindacare la congruità
dei corrispettivi pattuiti così come risultanti dalla contabilità, in quanto l’art. 9 del
TUIR impone, quale criterio valutativo, il riferimento al valore di mercato per corrispettivi
e altri proventi, anche nelle operazioni interne
(c.d. transfer pricing domestico).
La Suprema Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e rinvia la controversia
ad altra sezione della Commissione tributaria regionale affinché si proceda a una
nuova valutazione delle circostanze, anche
valutando se dalla operazione compiuta sia
derivato un vantaggio fiscale per il contribuente. Infatti, il giudice di seconde cure
non ha adeguatamente valutato, ad esempio, il notevole divario rispetto alle indicazioni OMI e la sospetta operazione societaria
posta in essere a pochi mesi dalla conclusione del contratto.
157
Corte di Cassazione 22.6.2015 n. 12844
Transfer pricing domestico – Applicabilità del criterio del valore normale
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Svolgimento del processo e motivi
della decisione
158
È stata depositata la seguente relazione:
1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione,
deducendo due motivi, avverso la decisione della
Commissione Tributaria Regionale della Lombardia
92/02/2012 del 1.6.2012 che rigettava l’appello
dell’Ufficio affermando la illegittimità di avviso di
accertamento IVA-IRES IRAP per l’anno 2004.
2. La contribuente si è costituita in giudizio.
3. Il ricorso è apparso al relatore fondato in base
a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (vedi da ultimo la sentenza n. 17955 del
24.7.2013) secondo cui per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va
applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del DPR n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio
valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del
divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti
mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con
alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici
idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta,
in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di
quei benefici. Tale principio, da un lato, trova fondamento in radici comunitarie a salvaguardia delle
risorse proprie dell’UE e nei principi costituzionali
di capacità contributiva e imposizione progressiva;
dall’altro, non contrasta con il principio della riserva
di legge, traducendosi nel disconoscimento di effetti
abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere
l’applicazione di norme fiscali. Tra tali operazioni rientrano le manovre sui prezzi di trasferimento interni, motivate dalla convenienza, in ambito nazionale
di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi
negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di
servizi “intercompany”. Si tratta del fenomeno del cd.
“transfer pricing domestico” (cfr. anche la sentenza
n. 7716 del 27.3.2013).
La contribuente ha depositato memoria.
Il Collegio ha disposto il rinvio della controversia
alla pubblica udienza.
Dopo la nuova discussione della controversia, il Collegio ha condiviso la relazione nella sua impostazione
“in diritto”, che – a ben vedere – è accolta nella sentenza impugnata; che non esclude affatto che una
operazione di “transfer pricing domestico”, fra società operanti in Italia, possa dar luogo ad una elusione
fiscale, e che nella valutazione del comportamento
delle società coinvolte si debba fare riferimento ai
principi di cui all’art. 9 del DPR n. 917 del 1986.
Il giudice di merito infatti si limita ad escludere che
nel caso si specie la Amministrazione abbia fornito
idonea prova dell’operazione economica.
Questo profilo della sentenza impugnata è però correttamente contestata nel secondo motivo di ricorso ove si indicano profili dell’operazione infragruppo
che il giudice di seconde cure non ha adeguatamente valutato; quali il notevole divario rispetto alle
indicazioni OMI e la sospetta operazione societaria
posta in essere a pochi mesi dalla conclusione del
contratto.
Sarà dunque compito del giudice di merito procedere ad una nuova valutazione delle circostanze,
anche valutando se dalla operazione compiuta sia
derivato un vantaggio fiscale per la contribuente.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata nei limiti del
motivo accolto e rinvia la controversia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della
Lombardia che deciderà anche sulle spese del presente grado.
2
Massima
Per la valutazione ai fini fiscali delle manovre sui
prezzi di trasferimento interni, va applicato
il principio, avente valore generale, stabilito
dall’art. 9 del TUIR che consente di rettificare
i corrispettivi contabilizzati sulla base del valore
di mercato, in applicazione del divieto di abuso del diritto che preclude al contribuente il
conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto di strumenti giuridici idonei
a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in
difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa
di quei benefici.
3
Il commento
Le affermazioni contenute nella sentenza in
rassegna vanno “criticamente” esaminate.
Occorre partire dall’assunto che nell’ambito
delle imposte sui redditi il criterio ordinario per
la valorizzazione delle transazioni è quello del
corrispettivo pattuito tra le parti e la regola
del valore normale dovrebbe essere applicabile
soltanto in alcune specifiche fattispecie espressamente previste dalla normativa, come deroga
alla regola del corrispettivo pattuito. Ad esempio, nell’ambito delle operazioni internazionali
intercompany soggette alla disciplina del transfer pricing, per i conferimenti di beni in società,
in caso di assegnazione ai soci o destinazione a
finalità estranee all’esercizio dell’impresa, nella
cessione dei contratti di leasing, nella disciplina
dei costi black list, nelle operazioni con società
soggette al regime della tonnage tax.
Al di fuori di tali eccezioni, il principio generale dovrebbe essere quello secondo il quale, in
conformità alla risalente risoluzione del Ministero Finanze 1.7.1980 n. 9/1437, “la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro
effettiva misura”.
D’altra parte, se quello del valore normale costituisse un principio di carattere generale che
consente di sindacare la congruità dei corrispettivi di tutte le transazioni non si comprenderebbe perché il legislatore abbia espressamente sancito nell’art. 110 del TUIR la regola
del transfer pricing e l’abbia limitata ai corri-
1In Banca Dati Eutekne.
2In Banca Dati Eutekne.
spettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente, facendo rinvio al valore normale soltanto ai fini della
valutazione di tali corrispettivi.
Tuttavia, non è la prima volta che la Suprema
Corte “sposa” una siffatta interpretazione. Ricordiamo la sentenza del 15.9.2008 n. 236351,
nella quale è stato affermato che “in tema di
determinazione del reddito d’impresa, per la
valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni
che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente
valore generale, stabilito dall’art. 9 del D.P.R.
n. 917/1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il
riferimento al normale valore di mercato (art.
9, comma 3, cit.) per i corrispettivi, proventi,
spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente. Ne consegue che il Fisco
non può considerare legittimamente appostati
costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato”. In tale sede, tuttavia,
non si faceva riferimento all’abuso del diritto.
In senso analogo alla sentenza in rassegna si
è espressa la sentenza del 27.3.2013 n. 7716 2.
Il principio affermato dalla Cassazione, oltre
a essere non rispondente alla lettura formale
delle norme, andrebbe a “scardinare” il principio di derivazione contabile, che costituisce un pilastro della imposizione sui redditi.
Al riguardo, l’Istituto di ricerca del Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti
contabili, nella circolare n. 9/IR del 2009 (par.
2.2.) ebbe modo di osservare che il richiamato
orientamento giurisprudenziale della Corte di
Cassazione suscita non poche perplessità laddove afferma che “gli uffici finanziari non sono
[…] vincolati ai valori o corrispettivi indicati in
delibere sociali o contratti” in quanto sarebbe
loro attribuito un generale potere di valutare la
“congruità” dei costi e dei ricavi esposti in bilancio, con conseguente possibilità di disconoscere i
componenti di reddito sproporzionati rispetto ai
valori di mercato.
159
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
160
Le perplessità del detto Istituto derivano soprattutto dalla constatazione che nella determinazione del reddito d’impresa l’impiego del
criterio del valore normale è previsto soltanto
in casi particolari, tipizzati dal legislatore. Basti
pensare alle operazioni realizzative che si caratterizzano per la mancanza di un corrispettivo
(autoconsumo, destinazione a finalità estranee
all’esercizio dell’impresa o assegnazione ai soci
di beni) e a quelle infragruppo transnazionali
(c.d.: transfer pricing internazionale), in cui è la
legge a prevedere espressamente la rilevanza
fiscale del valore di mercato in sostituzione del
corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti.
L’Istituto rileva, altresì, che nella maggioranza
delle occasioni in cui i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria un tale potere, le operazioni
censurate erano, in via di fatto, “manifestamente” antieconomiche, in quanto “la sproporzione e l’irragionevolezza della spesa rispetto
all’attività esercitata era rilevabile ictu oculi, in
modo talmente evidente che l’antieconomicità
diventava un elemento funzionale non tanto
per un sindacato delle scelte imprenditoriali da
parte dell’Amministrazione finanziaria, quanto
per l’accertamento della falsità materiale della
versione dei fatti fornita dal contribuente”.
In tal senso, il tema vero è quello della antieconomicità delle operazioni e della c.d.
inerenza quantitativa. E, al riguardo, è piuttosto consolidato il filone giurisprudenziale
per cui il valore normale può essere utilizzato
per rettificare operazioni in presenza di comportamenti palesemente antieconomici (non
giustificati dal contribuente) 3.
Si ritiene, nel merito, che l’Agenzia delle Entrate possa rettificare l’importo del corrispettivo
risultante dal contratto e dalla contabilità in
presenza di situazioni che palesino una antieconomicità non giustificata dal contribuente,
ma tale rettifica deve avvenire sulla base del
principio dell’inerenza quantitativa, affermato
in numerose sentenze di legittimità, in base
al quale, in presenza di comportamenti “antieconomici” dei contribuenti, gli Uffici delle
Entrate possono contestare la congruità dei
corrispettivi pattuiti di beni e servizi e procedere a un accertamento analitico-induttivo ex
art. 39 comma 1 lett. d) del DPR 600/1973, pur
in presenza di scritture contabili attendibili.
È, però, necessario che il comportamento del
contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente
considerata, può apparire antieconomica potrebbe, invece, risultare pienamente conforme
ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce
della complessiva strategia imprenditoriale.
In tale ottica, particolare attenzione va posta
alle operazioni infragruppo. La stessa Corte di Cassazione ha affermato nella sentenza
1.8.2000 n. 100624, con riguardo alla necessità di tenere sempre presenti le peculiarità dei
comportamenti economici dei gruppi di imprese rispetto a quelli degli altri soggetti, che è
evidente che “le strategie degli investimenti di
una impresa che si trova a capo di un gruppo
non può essere confinata nei limiti di quella
propria del c.d. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento
di una redditività in tempi brevi. L’impresa capogruppo può infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela
dell’immagine globale del gruppo o nell’intento
di assicurarsi una maggiore tutela sul mercato,
mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella
specie, stabili organizzazioni senza personalità
giuridica distinta, anche quando dalle stesse
non conseguano ricavi in tempi brevi”.
In altra occasione la stessa Corte ha evidenziato, nella sentenza 24.7.2002 n. 10802 5, che
non si può escludere che, ad esempio, “all’interno di un gruppo societario venga mantenuta in vita una società in se stessa in perdita,
3 Cfr., per tutte, Cass. 4.6.2014 n. 12502, in Banca Dati Eutekne.
4In Banca Dati Eutekne.
5In Banca Dati Eutekne.
ma funzionale all’attività di altre società del
gruppo, che alcuni oneri vengano assunti da
una struttura anziché da un’altra, ecc.”.
Sempre con riguardo ai gruppi di società, la Cassazione ha, pertanto, ritenuto che potrebbe non
risultare applicabile il principio, affermato in alcune sentenze6, secondo il quale la circostanza
che un’impresa commerciale dichiari, ai fini delle
imposte sui redditi, per più anni di seguito delle perdite ovvero sostenga costi sproporzionati
ai ricavi costituisce una condotta commerciale
anomala anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento, di per sé sufficiente
a giustificare la rettifica della dichiarazione.
Occorre, infine, evitare che le rettifiche dei corrispettivi delle transazioni effettuate tra due
società appartenenti allo stesso gruppo ed entrambe residenti in Italia provochino duplicazioni impositive. L’Agenzia delle Entrate ha, al
riguardo, affermato – nelle istruzioni emanate
con la nota dell’8 aprile 2008, n. 55440 – che
“se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo integralmente ed effettivamente tassato
in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del
rilievo perderà inevitabilmente di consistenza”.
In tali casi non sono, peraltro, utilizzabili gli
strumenti delle procedure amichevoli (Mutual
Agreement Procedures o MAP), previste dalle
Convenzioni bilaterali e dalla Convenzione arbitrale UE, e degli APA (Advance Pricing Agreement, concernenti gli accordi con l’Amministrazione finanziaria) la cui applicazione è possibile
soltanto con riguardo al transfer pricing “estero”.
In definitiva, in presenza di comportamenti
palesemente antieconomici (non giustificati
dal contribuente), l’Amministrazione finanziaria può utilizzare il valore normale per
rettificare operazioni interne. Ma questo deve
avvenire non sulla base dell’art. 110 comma 7
del TUIR (transfer pricing estero), ma sulla base
del criterio della inerenza quantitativa.
Nella sentenza in rassegna, i giudici, al fine di
applicare il principio del transfer pricing interno e rettificare transazioni domestiche, richia-
mano il valore di cui all’art. 9 del TUIR come
principio generale applicabile in base al divieto di abuso del diritto. Tuttavia, non può non
osservarsi che tale orientamento va “testato”
alla luce della nuova disciplina dell’abuso del
diritto introdotta dal DLgs. 5.8.2015 n. 128.
In tal senso, elemento determinante affinché
esista abuso/elusione è il conseguimento di un
vantaggio fiscale e che lo stesso risulti indebito7, cioè contrario alla ratio della norma e ai
principi dell’ordinamento. Nelle intenzioni del
legislatore, l’abuso deve costituire una fattispecie residuale, ben distinta dall’evasione che
include anche interposizione e simulazione.
L’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva.
Da ultimo, va osservato che nel DLgs.
14.9.2015 n. 147 (c.d. “decreto crescita e internazionalizzazione delle imprese”) è stata
introdotta una norma di interpretazione autentica volta a chiarire che la disciplina contenuta nel comma 7 dell’art. 110 del TUIR non
ha valenza per le operazioni che intercorrono
tra soggetti residenti o localizzati nel territorio dello Stato. In particolare, è stabilito che
“la disposizione di cui all’articolo 110, comma
7, del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con Decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista
non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato”.
Pertanto, la disciplina dell’art. 110 comma 7
del TUIR – il quale prevede che i componenti
di reddito derivanti da transazioni con società
non residenti nel territorio dello Stato che direttamente o indirettamente controllano l’impresa o ne sono controllate o che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa
nazionale siano valutati in base al valore normale dei beni/servizi ceduti/ricevuti – non ha
valenza per le operazioni “intercompany”
che intercorrono tra soggetti residenti o localizzati nel territorio dello Stato.
6 Cfr. Cass.15.10.2007 n. 21536 e Cass. 2.10.2008 n. 24436, in Banca Dati Eutekne.
7 Oltre alla assenza di sostanza economica dell’operazione.
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LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 06 2015
Questa norma, che invero statuisce un qualcosa che era già chiaro nel nostro ordinamento, non sembra modificare quanto sin qui
detto in merito alla possibilità di sindacare la
congruità dei corrispettivi. Voglio dire che il
presupposto normativo per contestare la congruità dei corrispettivi non potrà essere quello
dell’art. 110 comma 7, ma ciò non significa
che tale congruità non possa essere sindacata in base all’inerenza quantitativa o
all’abuso del diritto (se sussistono i presup-
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posti), con evidenti effetti sull’onere probatorio a carico delle parti.
In altri termini la norma di interpretazione
autentica non sembra idonea ad impedire
l’utilizzo del criterio del valore normale rilevando la palese antieconomicità dei comportamenti imprenditoriali nell’ambito degli
accertamenti c.d. analitici induttivi [art. 39
comma 1 lett. d) del DPR 600/1973] o la
sussistenza di un comportamento abusivo/
elusivo.
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