Paul Krugman Fuori da questa crisi, adesso! 2012

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Economia
Paul Krugman
Fuori da questa crisi, adesso!
2012
PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO
Il famoso premio Nobel per l’economia ed editorialista del New York Times Paul Krugman
afferma, senza giri di parole, che l’economia americana è in depressione. La stentata
ripresa dopo la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato quasi 24 milioni di disoccupati o
sottoccupati. Krugman ritiene che il paese avrebbe potuto evitare questa calamità, e può
ancora risolverla, se gli uomini politici e i banchieri centrali adottano misure decisive e
coraggiose di tipo keynesiano. L’esperienza passata e i nuovi dati disponibili indicano,
secondo Krugman, che la spesa pubblica di stimolo alla domanda è l’unico modo per
convincere la gente a lavorare e consumare di nuovo. L’autore segnala i costi umani e
sociali della disoccupazione, e spiega che più a lungo si esiterà ad affrontare questo
problema, maggiore sarà nel lungo periodo il danno per l’economia americana.
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PUNTI CHIAVE

Con il 15 per cento della forza lavoro disoccupata o sottoccupata, l’America è in
depressione.

Per riportare la gente al lavoro e far ripartire l’economia occorre stimolare la
domanda con la spesa pubblica e il debito.

Il bilancio federale non è come un bilancio familiare, perché se tutti risparmiano
nessuno più guadagna.

Non è vero che il governo ha causato la crisi dei mutui del 2008.

Le disuguaglianze di reddito sono aumentate a causa dei tagli alle tasse e delle
deregolamentazioni.

Le disuguaglianze di reddito provocano la polarizzazione politica.

I 787 miliardi di stimolo non sono stati sufficienti per far ripartire l’economia.

Non è vero che il governo sta spendendo in maniera incontrollata.

L’austerità porta alla recessione e alla disoccupazione.

La spesa pubblica ha un positivo effetto moltiplicatore sull’economia.

Gli uomini politici devono trovare la volontà politica di porre fine a questa
depressione adesso.
RIASSUNTO
Gli effetti della crisi
Negli Stati Uniti la recessione che ha avuto inizio nel dicembre 2007 si è ufficialmente
conclusa nel giugno 2009, ma poco è migliorato per la maggior parte delle persone. Le
statistiche sulla disoccupazione hanno raggiunto il picco nell’ottobre 2009, ma il 15% dei
lavoratori americani, circa 24 milioni di persone, sono ancora disoccupati o sottoccupati.
Altri milioni soffrono nella “penombra della disoccupazione formale”, come i
commercianti con un minor numero di acquirenti o i parenti e gli amici dei disoccupati.
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La disoccupazione cronica è un problema umano che va ben al di là delle riflessioni
teoriche di economisti. Devasta i redditi delle famiglie, consuma il risparmio e conduce
alla disperazione. E più a lungo una persona sta senza lavoro - un quarto dei 24 milioni di
disoccupati lo sono da più di sei mesi - più le proprie competenze sul mercato del lavoro si
svalutano, e più diventa difficile trovare un altro lavoro. Per di più gli Stati Uniti offrono
una rete di sicurezza sociale, sotto forma di sussidi di disoccupazione, più limitata rispetto
alla maggior parte dei paesi.
Oggi i candidati sono quattro volte più numerosi dei posti di lavoro, un quarto dei
neolaureati non trova lavoro, e molti giovani che non possono permettersi di vivere da
soli stanno tornando a casa dei loro genitori. In mezzo a questa situazione è veramente da
cinici pensare che i disoccupati siano persone senza voglia di lavorare o in cerca di sussidi
statali. Nell’ottobre 2011 gli impiegati alla borsa di Chicago presero in giro i manifestanti
lanciando verso di loro delle domande di lavoro per McDonald; quello stesso anno, la
catena ha ricevuto circa unmilione di richieste per 50.000 posti di lavoro.
La disoccupazione di lunga durata danneggia la capacità futura dell’economia e le singole
esistenze. Per fare un esempio, le persone che si laureano nei momenti di crisi non
riescono mai a guadagnare nel corso della loro vita lavorativa quanto quelli che si
laureano nei periodi in cui l’economia va bene. La riduzione dell’attività economica
corrente si traduce in un calo di circa un trilione di dollari all’anno di produzione
potenziale. Nel futuro questo significa avere un’economia meno prolifica, meno
investimenti delle imprese e tagli nei programmi di governo. La disoccupazione ha anche
costi politici e sociali, perché l’estremismo fiorisce quando la popolazione soffre, e le voci
rispettabili non offrono soluzioni.
È tutta una questione di domanda
I leader americani hanno il potere di rimettere l’economia di nuovo in pista, stimolare la
crescita dei posti di lavoro e alleviare la miseria. Le aziende non crescono a causa della
mancanza di domanda; di conseguenza, se la gente potesse spendere, l’economia si
riprenderebbe. Ma gli individui e le aziende non spendono se non possono contare su
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guadagni affidabili. Solo il governo, con le grandi risorse che ha a disposizione, è in
grado di alimentare l’economia aumentando la spesa in prestazioni sociali (che la gente
usa per acquistare beni e servizi), in aiuti statali e locali (per assumere insegnanti, agenti
di polizia e vigili del fuoco), e in progetti pubblici (che accrescono l’occupazione
migliorando nello stesso tempo le infrastrutture fatiscenti dell’America).
Coloro che si oppongono all’aumento della spesa pubblica puntano il dito contro il debito
pubblico, paragonando la nazione ad una famiglia che deve fare economie, tagliare le
spese e risparmiare denaro. Ma un’economia nazionale o globale non è come una
famiglia. Le famiglie possono rinunciare a spendere per sostenere i propri bilanci, ma se
nell’intera economia tutti risparmiano, nessuno guadagna. Tutto si blocca.
La Federal Reserve ha iniettato liquidità nel sistema, triplicando dal 2008 la base
monetaria. Perché non ha funzionato? Perché gli Stati Uniti si trovano in una “trappola
della liquidità”. La politica monetaria della banca centrale americana influenza l’economia
attraverso la manipolazione dei tassi di interesse, ma quando i tassi sono vicino allo zero
diventa inefficace. Le banche non prestano a tassi bassi, per cui i consumatori non hanno
accesso al credito.
La grande bugia
I politici e gli esperti offrono molte spiegazioni per la crisi finanziaria del 2008. Alcuni
sostengono che il governo era in gran parte responsabile perché, spingendo un
programma progressista di alloggi per tutti, ha costretto gli istituti di credito, attraverso
istituti para-governativi come Fannie Mae e Freddie Mac, a concedere mutui agli
acquirenti di case non qualificati. Quando non sono stati più in grado di restituire i prestiti
il sistema finanziario è andato quasi in rovina.
Questa grande bugia non tiene conto del fatto che il credito è andato a tutti i tipi di
mutuatari in tutti i tipi di mercati, non solo agli acquirenti di casa a basso reddito, e che
questa esplosione nel credito è avvenuta anche fuori dagli Stati Uniti. Fannie e Freddie poi
non erano i leader nella baldoria di prestito, ma arrivarono tardi. La forza trainante è
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stato il settore privato, in particolare il sistema “bancario ombra” off-shore come
quello che ha dato concesso prestiti di breve periodo a Lehman Brothers, talvolta anche
da un giorno all’altro.
Eppure la grande menzogna persiste, anche perché demolendola si arrecherebbe
pregiudizio alla credenza politica ed economica che ha guidato il governo degli Stati Uniti
per decenni, ovvero l’idea che la deregolamentazione e il libero mercato siano la via
migliori per la crescita e la prosperità.
In realtà, ritornando alle regole finanziarie dell’era della Grande Depressione ed elevando
la ricchezza come valore supremo, nel 2008 il sistema finanziario degli Stati Uniti è andato
vicino al collasso. Le politiche di libero mercato non hanno generato una crescita così
robusta come l’espansione dopo la seconda guerra mondiale, quando una forte
espansione della classe media innescò una crescita straordinaria.
C’è però un gruppo che ha beneficiato di una crescita straordinaria: lo 0,1 per cento della
popolazione più ricca, e soprattutto lo 0,01 per cento più ricco. I megaricchi hanno goduto
gli incrementi di reddito più elevati dal 1979 al 2007. Tra l’1 per cento più ricco, i redditi
sono aumentati del 277,5 per cento, mentre i percettori di medio livello hanno visto un
aumento di circa un terzo, e i redditi più basso solo del 18 per cento. Gli economisti
tradizionali non sono in grado di spiegare, con la legge della domanda e dell’offerta o del
valore marginale, perché i super-ricchi hanno prosperato in tale misura.
I redditi più alti spesso beneficiano di un “effetto contagio”: i consigli di amministrazione,
spesso composti da CEO, decidono le ricompense per altri amministratori delegati. Spesso
ritengono che gli elevati profitti finanziari giustificano compensi fuori misura in altri
settori d’affari. Ci sono altri tre fattori che, combinati insieme, creano la formula perfetta
per l’aumento delle disuguaglianza nei redditi: i tagli fiscali hanno incoraggiato il
perseguimento di una maggiore ricchezza, la deregolamentazione ha aperto ulteriori
opportunità per fare soldi, e l’opposizione dell’opinione pubblica ai salari eccessivi dei
dirigenti è quasi scomparsa.
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La polarizzazione politica
Utilizzando i dati degli ultimi cento anni, gli scienziati politici hanno collegato la
diseguaglianza nei redditi alla polarizzazione politica. Al contrario, quando tutte le classi
beneficiano più o meno allo stesso modo dalla crescita economica, tendono a prevalere i
compromessi politici e le posizioni centriste. Dal 1980, tuttavia, il compromesso politico è
diventato quasi impossibile. I politici si sono allineati agli interessi commerciali, credendo
che tutto ciò che li ostacola porti al disastro economico. Così i politici compiacenti
tagliano le tasse e le regolamentazioni alle aziende, e si ritirano dalla carriera per svolgere
attività lucrative nelle industrie che hanno favorito.
La promozione delle fiducia delle imprese, ritenuta fondamentale per la salute
dell’economia americana, mette in ombra l’importanza delle politiche fiscali keynesiane.
Gli economisti, molti dei quali con redditi molto elevati, screditano e giudicano inefficace
ogni intervento del governo dell’economia, ma a partire dagli anni ‘40 le politiche
keynesiane hanno funzionato per decenni.
Troppo poco, ma è troppo tardi?
Mentre il Relief Program Troubled Asset del 2008 (TARP) ha rafforzato il settore
finanziario e ha tenuto a galla la maggior parte delle banche, la nuova amministrazione di
Barack Obama ha dato la priorità a un piano di salvataggio per l’economia reale della
produzione e del lavoro. Anche prima del debutto del piano, i critici si sono avventati sulla
sua dimensione, in modo che i sostenitori riducessero le proprie aspettative sulle cifre che
il Congresso avrebbe approvato. Il Recovery and Reinvestment Act (ARRA) del 2009, un
pacchetto di stimolo da 787 miliardi di dollari, è stato sufficiente per arginare la
recessione, ma non abbastanza per riaccendere la ripresa dell’economia. Normalmente
l’economia degli Stati Uniti genera circa 15 trilioni di dollari all’anno, ma nel mezzo di un
rallentamento durato tre anni 787 miliardi non potevano avere molto effetto.
Gli avversari hanno attaccato il disegno di legge, accusando il governo di spendere in
maniera incontrollata. Hanno fatto notare che le spese federali sono cresciute dal 19,7
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per cento del 2007 al 24,1 per cento del 2011. Questa affermazione presenta due
problemi: in primo luogo il rapporto è maggiore, perché il PIL del 2011 è stato inferiore a
quello del 2007; in secondo luogo, la spesa ha in gran parte finanziato aiuti di emergenza
come l’assicurazione contro la disoccupazione e i buoni pasto, non un espansione del
potere del governo. La maggior parte delle misure di spesa ha aiutato gli individui e i
governi locali, e compensato i tagli fiscali; una porzione più piccola è andata nella spesa in
infrastrutture.
Indebitamento e inflazione
Poiché il pacchetto di stimolo venne considerato fallimentare, alla fine del 2009
l’attenzione si concentrò più sulla spesa pubblica che sui posti di lavoro. I falchi contro il
disavanzo condussero una campagna martellante contro la spesa fuori controllo,
invocando per la nazione la necessità di stringere la cinghia. Profetizzarono l’imminente
reazione dei “vigilantes del mercato obbligazionario”, gli investitori globali che avrebbero
abbandonato i titoli del debito degli Stati Uniti a causa dell’irresponsabilità fiscale,
spingendo così i tassi di interesse verso l’alto. Ma col passare del tempo i tassi rimasero
stabili o in calo, per cui dal mercato obbligazionario sembrò arrivare il messaggio che
l’America dovrebbe prendere in prestito più, non di meno. Infatti nel 2012 i rendimenti
dei titoli di Stato americani erano vicini al livello più basso di tutti i tempi.
I tassi di interesse permangono bassi e inflazione è minima a dispetto del debito e del
deficit, perché l’economia sta funzionando a un livello subottimale. Se l’economia fosse
produttiva e attirasse investimenti, allora i prestiti al governo spiazzerebbero gli
investimenti nel settore privato e farebbero pressione sui tassi e sull’inflazione. In assenza
di attività economica normale, invece, il debito pubblico assorbe l’eccesso di risparmio.
Gli Stati Uniti non corrono assolutamente il rischio di perdere la fiducia degli investitori
perché il rapporto tra debito e PIL non è elevato come in altri paesi, né come in altri
momenti della storia degli Stati Uniti. In ogni caso, le previsioni di un’impennata dei tassi
di interesse a seguito della degradazione nel 2011 da parte di Standard & Poor del debito
degli Stati Uniti si sono rivelate infondate.
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La diminuzione della spesa potrebbe rendere più difficile la ripresa dell’economia,
e potrebbe ridurre il PIL. Infatti, una riduzione di spesa di cento miliardi di dollari
potrebbe deprimere il PIL di oltre 150 miliardi di dollari, creando problemi più grandi di un
debito in crescita. I vantaggi derivanti dai tagli delle tasse in tempi come questi sono
piccoli, forse inesistenti, mentre i costi sono grandi. Questo non è davvero un buon
momento per essere ossessionati dal deficit. Né è il momento di preoccuparsi per
l’inflazione, che resterà bassa fino a quando l’attività economica non si riprenderà, a
prescindere dalla spesa del governo. In realtà un’inflazione leggermente superiore a
quella normale, mettiamo al 4 per cento, sarebbe vantaggiosa perché stimolerebbe
maggiori prestiti, dando slancio all’economia.
L’austerità europea
Gli Stati Uniti non sono i soli che cercano di risolvere una situazione economica difficile.
Quando si confrontano lo stallo dell’America e i problemi dell’Europa sembra di assistere
a una corsa tra un paralitico e uno zoppo. È una gara a chi combina più pasticci nel
rispondere alla crisi. I leader europei prescrivono severe misure di austerità per
contrastare l’irresponsabilità di bilancio dei loro paesi in difficoltà. Ma l’Irlanda e l’Italia,
come la maggior parte delle nazioni in difficoltà, ad eccezione della Grecia, avevano
cominciato ad affrontare i problemi del loro indebitamento molto prima che la crisi li
colpisse.
Con una moneta unica è impossibile, per le singole nazioni, svalutare per uscire dalla crisi,
ma i tagli di spesa e l’aumento delle tasse imposti dal centro stanno soffocando l’attività
economica, mentre i pacchetti di salvataggio insufficienti estendendo l’incertezza degli
investitori globali, rafforzando in tal modo i problemi dell’Europa.
I sostenitori dell’austerità hanno vinto anche in Gran Bretagna, dove i leader politici,
convinti che stringere la cinghia avrebbe riportato la fiducia nei mercati, decisero dei tagli
massicci ai programmi sociali. Come risultato la fiducia delle imprese e dei consumatori è
scesa drasticamente, e il paese è sull’orlo di una nuova recessione.
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Cosa fare adesso?
Dal 2008 l’economia americana è in stallo, e né le imprese né i consumatori sono in grado
di rimetterla in moto. L’esperienza degli Stati Uniti nel dopoguerra ha dimostrato che lo
stimolo fiscale è efficace. Gli alti deficit e l’elevato debito non hanno ancora scoraggiato la
fiducia degli investitori negli Stati Uniti, ed è improbabile che questo avvenga se
l’economia migliora. Ripristinando il programma scaduto di aiuti ai governi statali e locali
(ARRA) i governi avrebbero creato più di un milione di posti di lavoro e dato un impulso
all’economia di circa 300 miliardi di dollari. I progetti abbandonati dopo l’esaurimento dei
foni ARRA potrebbero riattivarsi velocemente.
Le nuove ricerche dimostrano che l’austerità economica porta alla stagnazione e alla
disoccupazione, mentre la spesa pubblica ha un effetto moltiplicatore positivo: un dollaro
di spesa aumenta la produzione di circa 1,50 dollari. Quindi la risposta agli attuali
problemi degli Stati Uniti è chiara: forti politiche di spesa che riportino la gente al lavoro. I
leader politici americani devono trovare la volontà politica di por fine a questa
depressione, adesso.
CITAZIONI RILEVANTI
Politiche per i ricchi
«La crescente influenza dei ricchi ha portato a una serie di scelte politiche che non
piacciano ai liberal (come me): la minore progressività delle imposte, la riduzione
dell’assistenza ai poveri, il declino della scuola pubblica e così via. Particolarmente
significativa per questo libro, tuttavia, è stata la persistenza del sistema politico nella
deregolamentazione e nella non regolamentazione, nonostante i tanti segnali di allarme
da cui si poteva facilmente dedurre che un sistema finanziario deregolamentato porta
inevitabilmente alla crisi» (p. 106).
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Lo spauracchio dell’inflazione
«Negli ultimi tre anni – e soprattutto, naturalmente, da quando è entrato in carica Barack
Obama – i dibattiti radiotelevisivi e le pagine economiche dei giornali si sono riempiti di
moniti sull’imminente arrivo di un’elevata inflazione. E non si tratterà di un’inflazione
normale: si parla di iperinflazione, di un’America destinata a emulare lo Zimbabwe
dell’ultimo decennio o la Germania di Weimar. La destra politica americana ha cavalcato
abbondantemente questi timori. Ron Paul, un seguace della scuola economica austriaca
che lancia continuamente moniti apocalittici sull’inflazione …. È riuscito a imporre la sua
ideologia economica come l’ortodossia del partito repubblicano» (p. 171).
Un imperativo morale
«Ciò che impedisce la ripresa è una mancanza di lucidità intellettuale e di volontà politica.
Ed è compito di tutti coloro che possono fare la differenza, dagli economisti ai politici, ai
cittadini responsabili, fare tutto ciò che è in loro potere per rimediare a quella carenza.
Possiamo mettere fine a questa depressione: dobbiamo reclamare politiche che vadano
in quel senso, a partire da oggi stesso» (p. 258).
L’AUTORE
Paul Krugman (1953-) è nato a Long Island il 28 febbraio 1953. Ha ottenuto il dottorato in
economia al MIT nel 1977. Ha insegnato in varie università, e dal 2000 è professore di
Economia e di Relazioni Internazionali a Princeton. Nel 2008 ha vinto il Premio Nobel per
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l’economia. Dal 2000 è diventato collaborare del New York Times, per il quale
scrive una colonna quindicinale.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Paul Krugman, Fuori da questa crisi, adesso!, Garzanti, 2012, p. 273, traduzione di Roberto
Merlini.
Titoli originale: End This Depression, Now!
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