ABSTRACT L'aver ricostruito con semplici mezzi alcuni strumenti che anticamente venivano utilizzati per misurare il tempo (una meridiana armillare, una meridiana per piano orizzontale, una meridiana per parete verticale, una meridiana ad ore italiche e soprattutto un particolare orologio a "pendolo elettrico" inventato nel 1812 dall'abate Giuseppe Zamboni) è stato per noi occasione di arricchimento, soprattutto considerando quanto alcuni grandi pensatori come Seneca, Bergson, Newton, Fermat, Boltzmann ed Einstein ci hanno insegnato in merito al "grande sovrano della storia". A ben pensarci, anche dall'osservazione di alcune rocce, o del ritmo biologico di un organismo vivente, oppure della quantità di dettagli nell'immagine di una galassia distante miliardi di anni luce, o semplicemente osservando la traiettoria di uno spruzzo d'acqua all'interno di un "ascensore in caduta libera" (esperimento ideale suggerito da Einstein) si possono trarre profonde riflessioni sulla sorprendente natura del fluire del tempo. Liceo Scientifico “P. Levi” MONTEBELLUNA (TV) Docente referente: Flora Giuseppe Altri docenti: Spada Emanuele, Stocco Angela Classe 5 B Alunni: Baldo Giacomo, Bolzonello Luca, Bortignon Francesco, Facchin Martino, Gallina Sara, Gerlin Daniele, Giacca Francesco, Grollo Stefano, Menelle Luca, Michieli Eva, Soligo Matteo. Introduzione Due motivi ci hanno portato alla scelta dell’esperimento (la ricostruzione di un orologio “a pendolo elettrico”) : innanzitutto la notizia, da parte del nostro insegnante di fisica, che questo primo orologio storico a “pile elettriche” è stato inventato nel 1812 dal veronese abate Giuseppe Zamboni e in secondo luogo il fatto che il tema del “tempo” è stato ampiamente trattato durante il nostro quinto anno di liceo da diversi insegnanti e ci ha particolarmente appassionato per le sue sorprendenti caratteristiche. La visita alla mostra “Einstein, il genio all’opera”, realizzata nella Biblioteca Comunale della nostra città (Montebelluna) nel mese di gennaio 2006, è stata un’ulteriore occasione per approfondire le novità apportate dal grande fisico tedesco al concetto stesso del tempo, unificandolo con quello dello spazio. L’esperimento del pendolo elettrico non è stato dunque soltanto un’esercitazione di fisica ma è stato un punto di partenza per una ricerca molto più ampia sul tema del “tempo” e in particolare della sua “misura”. Per questo abbiamo voluto ricostruire anche altri antichi orologi: alcuni modelli di meridiana di diversa tipologia, un “orologio floreale” sul modello di Linneo e un “orologio a rocce” (alcuni campioni di rocce che riproducono la stratigrafia - e quindi una cronologia - di una regione dolomitica). Probabilmente pochi ne sono a conoscenza ma il primo orologio elettrico è stato inventato e costruito a Verona dall’abate Giuseppe Zamboni. Nato ad Arbizzano Veronese nel 1776, Zamboni divenne erudito non solo in filosofia e teologia ma anche in fisica. Egli era particolarmente interessato alle pile elettriche, al punto che alcuni tipi di pile a secco da lui ideate portavano il nome di “pile di Zamboni” (erano composte da centinaia di dischetti di carta ricoperti da un lato di foglia metallica e dall'altro di biossido di manganese). Il suo massimo contributo scientifico fu l’invenzione di un orolgio elettrico denominato “perpetuo”. Con l’aiuto di abili mastri orologiai veronesi egli riuscì infatti a progettare e realizzare nel 1812 un orologio il cui pendolo veniva spinto da forze elettriche. Il nome “perpetuo” era dovuto al fatto che il consumo di corrente era talmente piccolo da consentire il funzionamento dell’orologio per decine di anni senza bisogno di sostituire le pile. L’orologio di Zamboni assomiglia ad un tradizionale orologio a pendolo, ma il principio fisico con cui il pendolo viene mantenuto in oscillazione è ben diverso dagli orologi con carica “a molla” oppure “a peso”. Il pendolo termina con una sfera metallica che oscilla tra le due armature di un condensatore alimentato da pile a secco. Ad ogni urto con una delle due armature, la sfera si carica per contatto con una certa quantità di carica avente lo stesso segno dell’armatura urtata. Ne consegue che la sfera venga respinta dall’armatura e venga invece attratta dall’armatura opposta, carica di segno contrario, compiendo così mezza oscillazione. Appena la sfera tocca quest’ultima armatura il processo di caricamento sopra descritto si ripresenta tale e quale ma col segno invertito. In tal modo la sfera continuerà ad oscillare tra le due armature. Il consumo di energia elettrica è estremamente basso in quanto la carica che passa nel circuito è solamente quella che la sfera è in grado di acquisire nell’urto con un’armatura. Il conteggio del tempo avveniva con il metodo tradizionale degli orologi meccanici. Il principio di funzionamento di questo orologio è dunque assai semplice, ma non mancano problemi tecnici di entità tale che il suo sviluppo commerciale fu assai limitato, al punto che gli esemplari ancora esistenti sono soltanto una decina. Innanzitutto le pile in serie dovevano raggiungere una differenza di potenziale di circa 900 V (per garantire una spinta sulla sfera sufficiente a vincere gli attriti) e questo rendeva pericolosa la manutenzione dell’orologio. In secondo luogo il periodo del pendolo poteva venire alterato da accidentali vibrazioni dell’edificio o persino da variazioni dell’umidità dell’aria, cosicché la situazione di isocronismo delle oscillazioni risulta assai critica. L’abate Zamboni aveva comunque cercato di limitare questi rischi per l’utente e disturbi sul periodo di oscillazione rinchiudendo l’orologio all’interno di un mobiletto a vetrina. Nel modello da noi realizzato sono state apportate alcune modifiche rispetto al progetto originale di Zamboni, senza tuttavia alterarne il principio fisico. Per ottenere l’alimentazione a 900 V abbiamo preferito utilizzare un trasformatore di tensione alimentato dalla rete di corrente alternata a 220 V. Abbiamo utilizzato un normale trasformatore per campanelli ma con uno scambio dei circuiti primario e secondario, in modo da ottenere in uscita una differenza di potenziale maggiore di quella in ingresso. Naturalmente il trasformatore per campanelli non è progettato per essere alimentato con queste modalità e ci sarebbe stato il rischio di un surriscaldamento del circuito collegato alla rete urbana. Il problema è stato superato aggiungendo in ingresso, in serie al trasformatore, una lampadina da100W : la resistenza della lampadina limita infatti l’intensità di corrente nel trasformatore. All’uscita dal trasformatore abbiamo ottenuto una differenza di potenziale di 900 V in tensione alternata. Per renderla “continua” abbiamo utilizzato un raddrizzatore di tipo commerciale ma, anche in questo caso, abbiamo limitato la corrente in ingresso nel raddrizzatore collegandovi in serie un resistore di resistenza 10kΩ (vedi schema del circuito elettrico). All’uscita dal raddrizzatore abbiamo così ottenuto corrente continua con differenza di potenziale 900V. Il collegamento alle armature del condensatore è stato infine realizzato mediante un resistore di resistenza 10MΩ in modo da evitare qualsiasi rischio di shock elettrico per gli utenti: l’intensità massima di corrente attraverso il corpo di chi toccasse entrambe le armature sarebbe infatti di soli 0,09 mA, largamente inferiore all’intensità di 30mA che la normativa europea considera “pericolosa”. Anche il metodo di conteggio delle oscillazioni è stato da noi semplificato rispetto ai sofisticati metodi meccanici dei mastri orologiai veronesi: il filo del nostro pendolo è stato reso conduttore (rame) nella metà superiore, lontana dalle armature, in modo che ad ogni oscillazione del pendolo avvenga la chiusura di un interruttore elettrico. L’interruttore è stato poi collegato ad un contatore elettronico per il conteggio delle oscillazioni e quindi del tempo. Abbiamo regolato il periodo di un’oscillazione completa pari ad “un secondo” in modo da semplificare il conteggio del tempo. Abbiamo notato che il periodo dipende non solo dalla lunghezza del pendolo ma soprattutto dalla distanza “d” tra le armature del condensatore. SCHEMA ELETTRICO ANALISI FISICA DELLE ENERGIE DISSIPATE E PRODOTTE NELL’OROLOGIO DI ZAMBONI. Abbiamo voluto tentare di affrontare un’analisi fisica della quantità di energia elettrica fornita dall’alimentatore in un sua semi-oscillazione del pendolo per confrontarla poi con l’energia meccanica dissipata in una semi-oscillazione a causa degli attriti, presenti soprattutto durante l’urto tra la sfera e una delle due armature del condensatore. Presentiamo questo nostro tentativo, consci che esso possa essere soggetto a osservazioni critiche, e ringraziamo chi volesse lasciarci qualche suggerimento correttivo in merito. ENERGIA ELETTRICA CONSUMATA IN UNA SEMI-OSCILLAZIONE: Nell’urto con un’armatura è plausibile che la sfera acquisti “tutta” la carica elettrica Q presente in quell’armatura perché la sua superficie della sfera diametralmente opposta al punto di contatto è assai curva rispetto alla superficie delle armature (vedi potere disperdente delle punte). Il valore di ε A questa carica è facilmente ottenibile dalla legge del condensatore: Q = C ⋅ ΔV = 0 ⋅ ΔV d In base ai nostri dati sperimentali, secondo i quali risulta ΔV =900V, d=2,2 cm, A=78,5 cm2 , risulta Q=2,84.10-9 C. Il consumo di energia elettrica in una semi-oscillazione è dunque L=Q.ΔV=2,55.10-6 J. ENERGIA MECCANICA ACQUISTATA IN UNA SEMI-OSCILLAZIONE. La forza elettrica a cui la sfera è soggetta dopo l’urto con l’armatura è F=Q.E dove E è il campo elettrico generato dall’altra armatura. Il valore di quest’ultimo sarebbe la metà del campo del condensatore se l’alimentatore fosse rimasto scollegato. In realtà è plausibile pensare che ΔV l’alimentatore abbia rapidamente ricaricato il condensatore e che quindi risulti E = . d Infine l’energia acquistata dal pendolo nel suo moto verso l’altra armatura è L = F ⋅ ΔS = F ⋅ (d − Φ ) dove Φ è il diametro della sfera. In conclusione, in base ai nostri dati sperimentali, secondo i quali risulta ΔV =900V, d=2,2 cm, ε A Φ =1,6 cm, A=78,5 cm2 , risulta L = 0 2 ⋅ ΔV 2 ⋅ (d − Φ ) = 7,0.10-7 J. d ENERGIA DISSIPATA IN ATTRITI VARI IN UNA SEMI-OSCILLAZIONE Durante una semi-oscillazione del pendolo l’energia meccanica viene dissipata sia a causa dell’attrito viscoso con l’aria sia a causa del fatto che l’urto tra la sfera e l’armatura del condensatore non è affatto elastico. Poiché la velocità della sfera è, mediamente, ΔS d − Φ = = 0,012m / s , cioè estremamente bassa, la perdita di energia meccanica è vmedia = Δt T /2 dovuto sostanzialmente all’urto con l’armatura e non all’attrito con l’aria. Dette v1 la velocità di impatto tra la sfera e l’armatura e v2 la velocità di rimbalzo, l’energia meccanica perduta nell’urto 1 2 2 con l’armatura sarà Ldiss = m ⋅ (v1 − v 2 ) . 2 La stima sperimentale di v1 è assai difficile, tuttavia è plausibile che il suo “ordine di grandezza” sia pari a quello della velocità media sopra calcolata, ovvero v1=0,010m/s. Partendo da questo valore “approssimato” di v1, possiamo invece calcolare in modo abbastanza preciso il corrispondente valore di v2: esso è legato a v1 dalla relazione v2 =kv1, dove k è il coefficiente di restituzione. Per una misura sperimentale di quest’ultimo abbiamo disposto una delle due armature del condensatore nel punto di equilibrio del pendolo. Abbiamo quindi allontanato la sfera del pendolo di un certo tratto Δx1 dall’armatura, l’abbiamo lasciata rimbalzare sull’armatura e abbiamo misurato la distanza Δx 2 di allontanamento dall’armatura dopo l’urto. Da un analisi delle energie potenziali e cinetiche si ottiene con semplici passaggi v1 = 2 gΔh = 2 gl (1 − cos Δx1 ) e l Δx 2 ) dove l è la lunghezza del pendolo e g l’accelerazione di gravità. l v Dai nostri dati sperimentali risulta k = 2 = 0,30 . v1 Ritornando ora al problema del calcolo di v2 durante il normale funzionamento dell’orologio, è ora possibile ottenerne il valore di v2 a partire dal valore di v1=0,010 m/s: v2=k.v1= 0,003m/s. Otteniamo così infine Ldiss=7.10-7 J. v 2 = 2 gΔh = 2 gl (1 − cos BILANCIO ENERGIA OTTENUTA - ENERGIA DISSIPATA Considerato il fatto che la nostra analisi energetica è soltanto “approssimata”, il bilancio energetico tra l’energia meccanica ottenuta dall’alimentatore elettrico e l’energia meccanica dissipata dal pendolo è da considerarsi soddisfacente. ANALISI DEL CONSUMO ELETTRICO E DELL’AUTONOMIA DELL’OROLOGIO DI ZAMBONI In base all’analisi sopra esposta possiamo valutare l’autonomia di un orologio elettrico di questo tipo. Dalle descrizioni riscontrabili in bibliografia sulle “pile di Zamboni”, si può ritenere che la “quantità di carica erogabile” da una singola pila di quel tipo non fosse molto diversa da quella ottenibile da un’odierna pila a bottone da orologio da polso, ovvero dell’ordine di grandezza di 100 C. Benché il numero di pile da collegare in serie per ottenere 900 V di tensione sia molto elevato, nel momento in cui il pendolo dell’orologio urta un’armatura, ogni singola pila dovrà fornire una carica pari a quella “rubata” dalla sfera del pendolo all’armatura del condensatore, ovvero Q=2,84.10-9 C. A questo punto è sufficiente calcolare il rapporto tra la carica erogabile da una singola pila e quella utilizzata in un urto del pendolo per ottenere il numero di semi-oscillazioni possibili: 3,5.1010. In conclusione, essendo pari a mezzo secondo la durata di una semi-oscillazione, l’autonomia di tale orologio dovrebbe essere di circa 1,7.1010 s, pari a circa 500 anni! Naturalmente l’autonomia reale dell’orologio è invece limitata dalle possibilità di conservazione in stato di efficienza delle pile. Dalle notizie storiche risulta che gli orologi costruiti da Zamboni abbiano funzionato per decine e decine di anni e c’è persino chi, come il veronese Paolo Francesco Forlati, afferma che il suo “orologio di Zamboni” sia ancora oggi perfettamente funzionante! Abbiamo citato il Forlati anche per il fatto che il suo libro Segnatempo veronensis, stampato presso le Grafiche Fiorini di Verona nel 1987, è stato il testo da cui è iniziata la nostra “scoperta” dell’esistenza dell’orologio elettrico “perpetuo” dell’abate Giuseppe Zamboni. Uno degli esemplari dell’orologio perpetuo di Zamboni Le meridiane, dal latino meridies ( mezzogiorno): l’orologio più “naturale” inventato dall’uomo, un piccolo trattato di astronomia con le sue linee orarie e di declinazione del sole, per qualcuno un invito alla preghiera suggerita dai motti religioso-filosofici quali “horas non numero nisi serenas – io conto solo le ore belle” oppure “nulla dies sine linea – non passa nessun giorno che non sia caratterizzato da un segno” oppure “fugit hora, ora et labora – l’ora fugge, tu prega e lavora”. Opere d’arte? Forse no, o almeno in tal senso non sono ancora inserite tra i beni culturali protetti dalla Soprintendenza. Ma quale prezioso scrigno di sapienza! Testimonianza di un passato, meditazione sulle stagioni, sui tempi della natura, sul tempo della vita, sul Tempo. Questo sovrano che ci trascende, che resta e resterà un mistero anche dopo la nostra era dell’orologio atomico. Alcuni di questi orologi antichi segnano le ore secondo il Tempo Vero Locale, secondo cui la giornata è ripartita in 24 ore e le 12 sono a mezzo-giorno cioè al passaggio del sole sul meridiano del luogo in cui si trova l’orologio. Quest’ora non coincide con quella del nostro orologio da polso (Tempo Medio), sia perché quando il sole passa sul meridiano di Trieste non passa anche sul meridiano di Torino, sia perché il moto della terra attorno al sole non è circolare e uniforme ma ellittico e con velocità variabile. Tuttavia la differenza tra i due sistemi di regolazione non supera normalmente la mezz’ora. La maggior parte di questi quadranti risale al XIX secolo e sono anche chiamate “ore francesi” perché prima dell’invasione napoleonica in Italia si usavano le Ore Italiche. Già, chi le ricorda le ore italiche? Forse qualche commentatore de “I promessi sposi” di A. Manzoni intento a capire perché mai il romanziere inscena Renzo che torna a casa alle 23 e si mette a cenare? Le ore italiche infatti suddividono la giornata ancora in 24 parti ma l’ora 24 è posta al tramonto del sole, non alla mezzanotte. Solo le meridiane potevano seguire con semplicità questo modo di scandire la giornata mentre gli orologi meccanici importati dalla Francia si sarebbero dovuti regolare quasi quotidianamente a causa del variare del momento del tramonto con le stagioni. Le ore italiche erano così comode per il lavoro agricolo! Se la meridiana segnava le 22 sapevi che ti restavano ancora 2 ore di luce (qualche lettore di una certa età potrebbe ricordare che nel suo paese, verso sera, il campanaro suonava la cosiddetta “campana delle 22 ore”) . L’ora 24 è una linea orizzontale e l’ora 23 è lievemente inclinata verso il basso a destra, da cui il detto giunto fino ai nostri giorni “portare il berretto sulle 23”. Meridiane ad ore italiche, risalenti alla seconda metà del ‘600, nel trevigiano. Ma come nacque nell’uomo l’esigenza di misurare il tempo? Come nacque quest’arte di costruire meridiane, detta “gnomonica”? Essa si perde nella preistoria! L’archeologia ci evidenzia che molti monumenti risalenti al Neolitico: i megaliti di Stonehenge in Inghilterra, le grandi pietre dell’isola di Pasqua e, più vicino a noi, i megaliti del Piccolo San Bernardo presso La Thuile (AO), i “casteller” nei pressi di Montebelluna (TV), sicuramente fungevano da osservatori astronomici e misuratori del tempo (soprattutto per la determinazione della durata dell’anno) e probabilmente anche da centri di culto religioso. L’allineamento di queste pietre non è infatti casuale ma segue le direzioni in cui sorge il sole in particolari periodi dell’anno (ad esempio nel solstizio estivo e in quello invernale). Il sole era: luce, calore, vita, altezza divina, scansione del tempo (giorni, stagioni, anni): dedicare monumenti al suo studio coincideva con un vero e proprio culto. Comprendere i suoi movimenti apparenti nella volta celeste significava capire di più anche il senso della vita dell’uomo singolo e della sua tribù. Il ripetersi con precisione sovrumana degli eventi astronomici (i solstizi, ad esempio) non era distinto dal destino umano, talvolta ciclico nel passaggio da una generazione all’altra (da qui probabilmente anche il senso della reincarnazione secondo alcune religioni orientali…). Certamente questi monumenti non erano ancora “orologi solari” nel senso “orario” del termine ma lo erano nel senso “annuale”. Nei millenni successivi l’orientamento astronomico degli edifici umani resterà di importanza fondamentale: dalle piramidi d’Egitto fino alle nostre chiese, orientate tipicamente verso Est (sole nascente = risurrezione) oppure, nei casi di chiese dedicate ad un particolare santo, verso la direzione in cui sorge il sole nella data corrispondente alla morte del santo (talvolta addirittura la chiesa presentava un’apertura da cui la luce solare poteva entrare e illuminare un’icona dedicata al santo soltanto nel giorno ricorrente la sua morte). Con gli antichi Egizi inizia inoltre anche l’uso dell’orologio solare in senso “orario”: al museo del Louvre di Parigi è esposta una meridiana egizia datata 1500 a.c. La giornata veniva suddivisa in 12 ore, come ai giorni nostri, anche se il conteggio partiva dall’alba e la durata di un’ora non corrispondeva tutto l’anno con i nostri 60 minuti perché d’inverno le giornate sono più corte e d’estate più lunghe. Il motivo del numero “12” in questa suddivisione del giorno è quasi sicuramente di origine astronomica, infatti in un anno si osservano circa 12 pleniluni (da cui la suddivisione dell’anno in 12 mesi, operata presso tutti i popoli antichi e giunta fino a noi). L’orologio egizio era spesso realizzato mediante un gigantesco obelisco che fungeva da “gnomone” (dal greco γνωμωυ , che significa “indicatore”), ovvero tale da dare sul terreno un’ombra di lunghezza variabile nei giorni dell’anno e di direzione variabile durante la giornata. Questa meridiana funzionava quindi sia da calendario che da orologio. Sull’uso “gnomonico” degli obelischi egizi è interessante il fatto che uno di questi, alto oltre 20 m, sia stato trasportato fino a Roma dall’imperatore Augusto per realizzare una gigantesca meridiana (80m x 180m!) nel Campo Marzio (la zona attualmente compresa tra l’Ara Pacis e via di Campo Marzio (le tracce di questa meridiana sono state rinvenute pochi decenni fa dall’archeologo tedesco E. Buchner e l’obelisco egizio esiste ancora: è quello che oggi si trova in piazza Montecitorio, ivi fatto trasferire da papa Benedetto XIV nel 1748, probabilmente ignorando che quella stupenda pietra, miracolosamente salvatasi tra le macerie dell’antica città, avesse avuto un’importante funzione gnomonica. Meridiana di Augusto in Campo Marzio a Roma riscoperta tra il 1970 e 1980 dall’archeologo Edmund Buckner. Le meridiane antiche non segnavano di certo il minuto ma spesso segnavano le mezze ore e talvolta i quarti d’ora. Soltanto nel rinascimento nacque l’esigenza di poter “regolare” gli orologi meccanici (dei campanili ma anche dei centri di studio astronomico come quelli delle università) con precisione via via crescente. Così si realizzarono meridiane di precisione pari a 1 o 2 secondi! Lo gnomone non avrebbe mai consentito questa precisione perché qualsiasi asta fornisce un’ombra dai bordi incerti a causa del fenomeno della penombra (il disco solare non è puntiforme ma ha un’ampiezza angolare di circa mezzo grado). Si ottenne invece quella precisione suddetta mediante “meridiane a camera oscura”: sul soffitto o sulla parete di una stanza poco illuminata veniva praticato un foro assai piccolo (pochi centimetri di diametro) e l’ingresso dei raggi solari attraverso il foro dava luogo sul pavimento ad una “immagine” del disco solare priva di penombra. Stanze ideali a tale scopo potevano essere anche le chiese. Ecco allora le “linee del mezzodì” sul pavimento di alcune famose chiese: il duomo di Milano, il duomo di Firenze (qui il soffitto, alto più di 90 metri, consente una precisione estrema), la chiesa di San Petronio a Bologna, la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma (di fronte alla stazione Termini). Spesso la linea meridiana era arricchita dall’indicazione della posizione del “disco solare proiettato” in numerose date dell’anno. In tal modo la meridiana a camera oscura assumeva non solo la funzione di “indicatore del mezzodì” ma anche quella di “calendario estremamente preciso”, con cui riconoscere ad esempio il giorno dell’equinozio di primavera (importante per determinare la data della Pasqua cristiana). Ecco alcuni modelli di meridiana da noi ricostruiti: UNA MERIDIANA ARMILLARE L’armillare è il più elementare e immediato modello di meridiana che si possa realizzare. Essa deve essere orientata in modo che l’asse del semicilindro sia parallelo all’asse terrestre. Per far ciò è comodo usare di notte il riferimento della stella polare; oppure basta orientare suddetto asse verso nord e fare in modo che esso risulti inclinato, rispetto al piano dell’orizzonte, di un angolo pari alla latitudine del luogo (45°e25’ per Ponte di Brenta). Sull’asta situata sull’asse del cilinindro è stata fissata una sferetta (punto gnomonica della meridiana) la cui ombra sulla superficie cilindrica segna l’ora e le stagioni. Le 13 linee orarie risultano, in questa meridiana, tutte parallele e separate di un angolo di 15° rispetto all’asse del cilindro. Questo perché, mentre la terra gira su se stessa, questa meridiana sta semplicemente ruotando attorno al proprio asse con velocità angolare tale da compiere, rispetto al sole, un giro di 360° in 24 ore, ovvero 15° ogni ora. Il semicilindro può essere fissato, agendo sul morsetto, in varie posizioni a cui corrispondono diversi sistemi di misurazione del tempo. 1. Se si sceglie di fissarlo in modo che alla data odierna la meridiana segni l’ora coincidente con quella dei nostri orologi da polso, si dice che essa è stata regolata secondo il TEMPO MEDIO NAZIONALE. 2. Se si sceglie di posizionare la linea oraria delle ore 12 nella posizione più bassa possibile, ovvero di allinearla col meridiano locale, allora la meridiana segna il TEMPO VERO LOCALE. 3. Se da questa posizione si sposta la linea oraria delle ore 12 verso sinistra (osservando la meridiana col volto orientato verso nord) di un angolo di 3°e05’ (pari alla differenza tra la longitudine 15° del meridiano dell’Europa Centrale, su cui sono regolati i nostri orologi, e la longitudine 11°e55’ di Ponte di Brenta) la meridiana segna il TEMPO VERO DEL FUSO NAZIONALE. Quanto all’indicazione delle stagioni, essa è fornita dalle tre semicirconferenze ortogonali alle linee orarie: quella centrale, detta “equinoziale” ed indicata dai segni zodiacali dell’ariete e della bilancia, viene percorsa dall’ombra del punto gnomonico il 21 marzo (equinozio di primavera) e il 23 settembre (equinozio d’autunno). Quella superiore, indicata dal segno del capricorno, viene percorsa dall’ombra il 21 dicembre (solstizio invernale). Infine quella inferiore, indicata dal segno del cancro, viene percorsa dall’ombra il 21 giugno (solstizio estivo). La linea equinoziale segue la proiezione ortogonale del punto gnomonica sulla superficie cilindrica, questo perché i raggi solari risultano, in quei due giorni dell’anno, ortogonali all’asse terrestre e quindi anche ortogonali all’asse della meridiana. Le due linee solstiziali distano da quella equinoziale d= r tg(23°26’) dove r è il raggio della superficie cilindrica, infatti durante i due solstizi i raggi solari risultano spostati, rispetto alla precedente situazione, di un angolo pari all’angolo di cui è inclinato l’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica. Ancora un’informazione può venire da questo semplicissimo modello di meridiana: immaginando le intersezioni tra le tre semicirconferenze appena descritte e un piano orizzontale passante per la sferetta (su cui giacciono i raggi solari al tramonto), si possono comprendere le diverse durate del “dì” nei vari periodi dell’anno: nei due giorni equinoziali queste intersezioni avvengono alle ore 6 e alle ore 18 e ciò significa che il dì dura 12 ore; nel solstizio invernale le due intersezioni avvengono circa alle ore 8 e alle ore 16 e ciò significa che il dì è di sole otto ore; infine nel solstizio estivo le due intersezioni avvengono circa alle ore 4 e alle ore 20 (si immagini di prolungare il semicilindro) e ciò significa che il dì dura bel 16 ore. UNA MERIDIANA PER PIANO ORIZZONTALE La meridiana armillare descritta nel precedente paragrafo si può considerare “la madre delle meridiane”, nel senso che dalla comprensione del suo semplice principio di funzionamento, riesce più facile comprendere anche il grafico di meridiane più complesse come quella per “piano orizzontale”. Si immagini di appoggiare sopra il piano una meridiana armillare di piccole dimensioni (ad esempio di raggio 5 cm del semicilindro), il cui grafico sia stato tracciato, anziché su un semicilindro opaco, su un semicilindro in vetro o in pellicola trasparente. Si immagini poi che sul cui punto gnomonico venga posta, invece della sferetta, una lampadina. I raggi di luce emessi dalla lampadina e intersecanti il grafico della meridiana simulano le direzioni dei raggi solari nelle varie stagioni e nelle varie ore del giorno, per cui il grafico che la lampadina proietta sul piano orizzontale riproduce esattamente il grafico della meridiana su piano orizzontale: le linee orarie assumono la forma di segmenti convergenti, la linea equinoziale è una retta e le due linee solstiziali sono due rami di iperbole. Naturalmente, se si desidera ottenere un grafico con discreta precisione, questo “esperimento ideale” non si presta altrettanto facilmente ad una realizzazione pratica, pur essendo utilissimo per comprenderne il principio di calcolo geometrico. Nel realizzare il nostro modello abbiamo fatto invece riferimento ad uno dei programmi software reperibili su internet alla voce “gnomonica”. Il modello da noi realizzato è stato calcolato per le coordinate geografiche di Ponte di Brenta e per un’altezza gnomonica (distanza tra il punto gnomonico e il piano orizzontale) di 6 cm. Lo gnomone è inclinato (gnomone polare) in modo da “puntare la stella polare”, esattamente come nella meridiana armillare; in questo modo l’ombra dell’intero gnomone si sovrappone alle linee orarie e la lettura dell’ora ne risulta facilitata. Abbiamo scelto di calcolare le linee orarie secondo il TEMPO VERO DEL FUSO. Sul mezzodì abbiamo aggiunto anche una linea a forma di lemniscata: essa indica il TEMPO MEDIO. A mezzogiorno, dunque, si può verificare la perfetta coincidenza tra l’ora indicata dalla meridiana e l’ora indicata dai nostri orologi da polso (nel periodo primaverile ed estivo si deve ovviamente aggiungere un’ora per ottenere l’ora legale); per le rimanenti ore della giornata, invece, si possono riscontrare differenze variabili durante l’anno, con un valore masso di 16 minuti in novembre. La differenza tra i due sistemi orari si chiama “equazione del tempo” ed è tabulata in vari testi di astronomia (vedi testi di gnomonica indicati in bibliografia). UNA MERIDIANA PER PIANO VERTICALE Con lo stesso “esperimento ideale” descritto per la meridiana per piano orizzontale, si può ottenere il grafico di una meridiana per piano verticale pensando di avvicinare la meridiana armillare in vetro e con lampadina alla parete verticale su cui si vuole tracciare il grafico. Il modello da noi realizzato è stato calcolato per una parete orientata esattamente verso sud, per le coordinate geografiche di Ponte di Brenta e per un’altezza gnomonica di 6 cm. Lo gnomone è ancora di tipo “polare”. UNA MERIDIANA AD ORE ITALICHE Come già detto, le ore italiche sono un sistema orario che poneva le ore 24 al tramonto del sole anziché alla mezzanotte. Esso era ampiamente diffuso in Italia nel periodo rinascimentale e rimase il sistema orario di uso civile fino all’invasione napoleonica. Gli invasori francesi non ammettevano un sistema orario diverso dal loro anche per un fatto commerciale: gli orologi meccanici non si adattavano a questo sistema orario (l’ora del tramonto cambia continuamente durante l’anno) e non potevano dunque essere facilmente venduti in Italia. Lo gnomone di una meridiana ad ore italiche era normalmente costituito da un’asta ortogonale alla superficie e solo la sua estremità (punto gnomonico) serviva ad indicare l’ora (uno gnomone di tipo “polare” non avrebbe avuto senso in questo tipo di meridiana perché le linee orarie non sono convergenti verso un unico punto come nei due modelli precedenti di meridiana e l’ombra dello gnomone non si sarebbe sovrapposta interamente alle linee orarie). Per ottenere il grafico di questo tipo di meridiana si può pensare di partire dal grafico di una meridiana per parete verticale (vedi precedente paragrafo). Detta H la proiezione ortogonale del punto gnomonico (estremità dello gnomone), si traccia una retta orizzontale passante per H e si considera la sua parte AB dove A è sua intersezione con la linea solstiziale invernale e B un altro punto situato a destra di A ai bordi del quadrante. Il segmento AB costituisce la linea oraria delle ore 24 della meridiana ad ore italiche. Infatti nel momento del tramonto i raggi solari giacciono su un piano orizzontale e l’ombra del punto gnomonico cade necessariamente sulla linea orizzontale passante per H. Se la parete è rivolta verso ovest (molte meridiane ad ore italiche si trovavano effettivamente su pareti di campanili o ville “declinanti” ad ovest), il segmento AB interseca anche la linea equinoziale in un certo punto E. I due punti A ed E cadono, nel grafico della meridiana per parete verticale, in corrispondenza di due precisi momenti della giornata: rispettivamente all’ora del tramonto il 21 dicembre e l’ora del tramonto il 21 marzo. Se ci spostiamo indietro di un’ora sia lungo la linea solstiziale che lungo la linea equinoziale, otterremo due punti A’ ed E’ che, congiunti, ci danno la linea oraria delle ore 23 per la meridiana ad ore italiche. Si ripete poi il processo in modo analogo per ottenere la linea delle ore 22, 21, 20, etc. Il modello da noi realizzato è stato calcolato per una parete orientata a 45° verso sud-ovest (declinante di 45° verso ovest), per le coordinate geografiche di Ponte di Brenta e per un’altezza gnomonica di 6 cm. Lo gnomone è, questa volta, di tipo “ortogonale”. COME ORIENTARE CORRETTAMENTE I MODELLI Per orientare i modelli si può pensare di usare una semplice bussola, tuttavia va ricordato che oltre al problema di dover conoscere la declinazione magnetica del luogo (differenza tra la direzione del meridiano locale e del campo magnetico) vi è anche l’elevata probabilità che eventuali tubi in ferro presenti all’interno dei muri di un’abitazione, alterino la direzione del campo magnetico nel luogo in cui viene posta la bussola (queste alterazioni possono essere addirittura di decine di gradi!). Un metodo molto più preciso, che gli antichi “gnomonisti” usavano per tracciare sopra un piano orizzontale una linea perfettamente orientata in direzione nord-sud è il seguente: 1. Si dispone un filo a piombo in modo che la sua estremità inferiore sfiori la superficie piana e si traccia sul piano il punto H indicato dall’estremità del piombo. 2. Si fissa sul filo del piombo, ad un’altezza di circa 80 cm dal piano, una sferetta (in legno o in plastica, su cui sia stato praticato un forellino per il passaggio del filo “diametrale”) di diametro circa 1 cm. 3. Si traccia sul piano il percorso dell’ombra della sferetta durante un’intera giornata di sole (preferibilmente nel periodo autunno-inverno, per una maggiore precisione del risultato). La linea tracciata avrà la forma di un ramo d’iperbole. 4. Si traccia sul piano una circonferenza di centro H e di raggio sufficientemente ampio affinché l’arco di circonferenza intersechi in due punti A e B distanti circa 80 cm l’iperbole ottenuta sopra. 5. Si traccia il punto medio M del segmento AB 6. Si traccia la retta HM: essa rappresenta la direzione nord-sud. Il tema del tempo è sicuramente uno dei più fruttuosi e interessanti topoi della filosofia europea d’ogni tempo. Riflessioni su questo argomento sono state prodotte, fra gli altri, da Eraclito, da Orazio, da Seneca, da – in tempi più recenti – l’economista A.J. Marshall ed i pensatori Martin Heidegger e Henry Bergson. Molte anzi delle frasi a corredo di meridiane sono più o meno consapevolmente desunte da opere letterarie o filosofiche sull’argomento – si pensi, ad esempio, al celebre Carpe diem di ispirazione epicureo-oraziana. Quali dunque le implicazioni di un qualche interesse? Già i movimenti stoici ed epicurei avevano individuato quel carattere di indefinibilità della dimensione temporale che la stessa fisica moderna ha dovuto accettare. Il tempo dell’uomo è innegabilmente il presente: nulla anzi di ciò che appartiene al passato può sopravvivere se non a livello di ricordo individuale. Di qui la rilevanza dell’oraziano Carpe diem e del senecano Nihil differamus. Concedere il proprio tempo – a qualcuno o a qualcosa – equivale all’erogazione di un credito a fondo perduto: e dunque fruiamone in una maniera che permetta, giunti al termine dei nostri giorni, di distaccarci dalla vita imperturbabilmente, giacché alcunché in misura maggiore rispetto alla nostra condizione interiore che ci seguirà in un eventuale aldilà, ci ha mai dato una gioia superiore. Cambiamenti condivisi della concezione di tempo soggiacciono alle più grandi rivoluzioni culturali e sociali della storia specificatamente europea. Si pensi, a titolo d’esempio, allo sviluppo manifatturiero dei secoli XIII e XIV come analizzato in rapporto al tempo dal medievalista LeGoffe. In una società ancora profondamente e nichilisticamente cattolica, entro la cui ottica lo spessore dell’esistenza individuale naturale è ridotto in proiezione dell’eternità della vita spirituale, il tempo del mercante rivaluta prepotentemente la dimensione del qui e dell’ora. La concezione ciclica di una storia provvidenzialisticamente determinata, nel cui contesto l’agire dell’uomo comune risulta indifferente rispetto al fine ultimo, viene ad essere sostituita da un idea di linearità e concausalità degli eventi, contestato nei tempi antichi come nei moderni. In effetti, il concepire la dimensione temporale, sul piano della successione dei fatti (ciclicità o linearità) come su quello della consequenzialità (successione causale oppure flusso alogico) risente di un’alternanza mai sopita. Già Eraclito, cinque secoli prima della nascita di Cristo, trattava del passare del tempo in termini di eterno fluire; unico a sottrarsi al divenire perenne, il motore immobile, quell’identificarsi di pensiero, parola e azione, espressione di una volontà immanente al mondo e capace di determinarne l’evolversi. Ripresa dal filone idealistico di matrice hegeliana, dove è unificata allo sviluppo dello spirito dell’uomo, l’idea di un principio ordinatore è contestata in tempi già moderni da Friedrich Nietzsche. La concezione, medievalmente nichilistica, della ciclicità della storia si fonde armoniosamente con la coscienza dell’insensatezza e nondimeno il rifiuto coraggioso al lasciarsi vivere. È questo il fondamento della morale superomistica, l’ostacolo in vista del quale deve essere elaborata una nuova figura di essere umano. Solo con Martin Heidegger il sistema categorico innanzitutto aristotelico e kantiano, secondo il quale il divenire è fra le garanzie dell’essere, la concezione della dimensione temporale si riappropria del valore di selettore di senso. È in funzione del tempo che l’ente che è “temporalmente” ( i processi naturali e gli eventi storici) si separa da quello che è “nontemporalmente” (le relazioni spaziali e numeriche) e si contrappone a ciò che è “non temporalmente” (Dio). Questa funzione della dimensione temporale come criterio ontologico, è già presente nella concezione greca dell’essere dell’ente come ousia (essenza, sostanza): Heidegger rinnova l’idea avvalorandone l’elemento della presenza, ovvero postulando che l’analisi innanzitutto dell’essenza umana non può prescindere da un’ermeneutica della fatticità – l’uomo e deterministicamente influenzato dal contesto in cui vive. Di qui, anche sulla scorta dell’indagine psicanalitica freudiana, il rivolgimento bergsoniano all’idea del tempo della coscienza quale eterno fluire. L’attività della mente non può essere ridotta ad una serie numerabile e consequenziale di atti. L’impossibilità di estendere alla coscienza la temporalità spazializzante della fisica, ovvero l’impossibilità di ridurre la descrizione del tempo vissuto a estensione cronometrica e rapporto spaziale, è elemento fondante anche di molta produzione libraria novecentesca: l’Ulysses di J. Joyce e la Coscienza di un fumatore di Ettore Schmitz (Italo Svevo) sono illuminanti esempi del genere. … OSSERVANDO UNO SPRUZZO D’ACQUA Uno spruzzo d’acqua lanciato verso l’alto ricade a terra descrivendo, come è noto, la traiettoria parabolica di qualunque altro corpo lanciato in volo. La curvatura della parabola nel suo vertice è più evidente se lo spruzzo è relativamente lento mentre diventa meno accentuata se lo spruzzo è più veloce. Ma quale forma assumerebbe questo spruzzo se venisse prodotto all’interno di un ascensore libero di precipitare? La risposta a questa domanda apparentemente innocua la diede per primo Albert Einstein: seguirebbe una traiettoria rettilinea! L’idea dell’ascensore in caduta libera fu definita da Einstein “la più felice della mia vita”: mentre l’ascensore precipita, chi si trovasse al suo interno giurerebbe di trovarsi in assenza di gravità, vedrebbe gli oggetti fermi a mezz’aria oppure in moto rettilineo ed uniforme…Einstein concluse che anche un raggio di luce, prodotto all’interno dell’ascensore, viaggerebbe di moto rettilineo. Fin qui tutto chiaro. Ma le deduzioni che si traggono da queste premesse rappresentarono una svolta storica sulla teoria fisica riguardante la luce. Infatti, applicando le trasformazioni di coordinate (che, come è noto, sono di forma quadratica) dal sistema di riferimento “ascensore” al sistema di riferimento “edificio in cui l’ascensore è posizionato”, si ottiene che tutte le traiettorie che nel primo erano rettilinee, nel secondo diventano curvilinee: una parabola per lo spruzzo d’acqua, come appunto ci si aspettava…e per la luce? Ancora una curva, intuì Einstein! Da questa intuizione così semplice eppure così rivoluzionaria rispetto a quanto si credeva a fine ottocento, Einstein passò ad elaborare una teoria (la teoria della Relatività Generale) che gli permettesse di calcolare l’angolo di cui avrebbe dovuto deviare un raggio di luce che, provenendo da una stella, fosse giunto a noi dopo aver sfiorato il nostro sole. Nel 1916 riuscì nel suo intento: l’angolo di deviazione sarebbe dovuto essere pari a 1,75” di grado: molto piccolo ma misurabile con i telescopi di allora, che avevano sensibilità 0,1” di grado. Nel 1919 ci fu un’eclisse totale di sole e, dalle foto delle stelle visibili in quel momento in prossimità del sole nella volta celeste, risultò che veramente esse apparivano in posizione falsata ed esattamente di quanto Einstein aveva previsto. La curvatura della luce all’interno di un campo gravitazionale, come quello del sole, apparve un fatto paradossale e sembrava violare il principio settecentesco di Fermat: nel suo passaggio da un punto A ad un punto B dello spazio la luce segue, tra tutte le traiettorie possibili, quella più breve in termini di tempo, anche se non dovesse essere la più breve in termini di spazio (come accade nel caso in cui la luce passi dall’aria all’acqua subendo la rifrazione). Einstein, però, scoprì che in ogni caso il principio di Fermat resta valido: infatti all’interno di un campo gravitazionale succede che il tempo (e anche lo spazio) viene “deformato” ( dilatazione gravitazionale del tempo), cosicché una traiettoria rettilinea della luce non risulterebbe affatto più breve in senso temporale! Per osservare la curvatura della luce in un campo gravitazionale, oggi sono disponibili immagini stupende come quella qui riportata (oggetto astronomico MG1131+049 ): il dischetto luminoso al centro è l’immagine di un quasar la cui luce è giunta a noi dopo aver attraversato una galassia perfettamente interposta tra noi ed il quasar. L’anello di luce (anello di Einstein) che si vede attorno al dischetto è ancora luce proveniente dallo stesso quasar: raggi di luce che hanno sfiorato il bordo di quella galassia e che sono stati deviati dal suo campo gravitazionale, esattamente come se si trattasse di una immensa lente convergente. Immagine di un quasar e del suo anello di Einstein. … OSSERVANDO L’IMMAGINE DI UNA GALASSIA Due galassie in collisione Siamo talmente abituati, al giorno d’oggi, a vedere immagini con risoluzione sempre più alta degli oggetti astronomici, che raramente ci domandiamo quanto tempo sia trascorso tra il momento in cui la luce è partita da quegli oggetti e il momento in cui è giunta ai nostri telescopi. Nel caso in cui gli oggetti siano galassie, questo tempo può essere addirittura dell’ordine di grandezza dei miliardi di anni. Nasce allora una seconda domanda: “Come è possibile che le informazioni che la luce ci offre su questi oggetti (dettagli sulla forma, temperatura, composizione chimica, movimenti rotatori, etc.) siano così particolareggiate e precise anziché essere confuse dall’invecchiamento subito durante il viaggio?”. Se pensiamo ai reperti archeologici, ci rendiamo conto che anche i dettagli incisi su pietra dura vengono deteriorati dall’invecchiamento in sole poche migliaia di anni (vedi nella foto la famosa “Stele di Rosetta”). L’invecchiamento è inevitabile su tutto ciò che è materiale e segue il principio fisico dell’aumento di entropia nel tempo. Come è possibile dunque che la luce non risulti “invecchiata” neppure dopo un viaggio di miliardi di anni? La risposta ci viene ancora dalla teoria della Relatività di Albert Einstein: la durata del viaggio è diversa a seconda del sistema di riferimento inerziale da cui esso viene osservato. Se la durata del viaggio della luce per noi osservatori terrestri è Δt = 1 miliardo di v2 anni, nel sistema di riferimento solidale alla luce essa è Δt ' = Δt ⋅ 1 − 2 , dove v è la velocità c relativa tra i due sistemi di riferimento e c è la velocità della luce. Nel nostro caso la velocità relativa tra i due sistemi è ancora c, per cui risulta Δt’= 0. In conclusione, la luce non è invecchiata perché, nel suo sistema di riferimento, la durata del viaggio è stata nulla! … OSSERVANDO L’APERTURA E LA CHIUSURA DEI FIORI L'orologio floreale di Linneo Carlo Linneo (1707-1778), naturalista famoso per la scoperta e classificazione di molte specie (autore della classificazione binomiale), ideò nel suo giardino di Upsala un orologio floreale basato sulla periodicità di apertura di diverse specie vegetali: dall’alba al tramonto si assiste al susseguirsi di aperture e chiusure di fiori in risposta al percorso diurno del Sole. Riportiamo un disegno dell’epoca (Pearson) e la tabella originale costruita da Linneo. Qui sotto si legge lo schema originale di Linneo per l'orologio floreale in una edizione del 1763 Nel pannello esposto nella mostra abbiamo realizzato un orologio floreale utilizzando alcune piante indicate da Linneo: 1) Lassana (Lapsana communis) 2) Rosa del Giappone (Chaenomeles sp.) 3) Patata (Solanum tuberosum) 4) Giglio d’acqua (Nymphaea sp.) 5) Fiorancio (Calendula officinalis) 6) Escolzia ( Eschscholtzia sp.) 7) Ieracio ( Hieracium sp.) 8) Erba cristallina (Astenia cordifolia) 9) Cardo (Cynara cardunculus) 10) Bella di notte (Mirabilis jalapa) 11) Pigliamosche (Dionea sp.) 12) Regina della notte (Selinecereus) Per il mattino abbiamo considerato l’apertura cadenzata dei fiori, per il pomeriggio la graduale chiusura delle corolle e per la sera l’apertura dei fiori serali e notturni. … OSSERVANDO LE MIGRAZIONI DEGLI UCCELLI Il nostro ambiente organico interno (composto di fluidi e tessuti) mantiene nel tempo l'uniformità di una miriade di componenti, con un'alterna ed intricata rete di stimolazioni e inibizioni, azioni e retroazioni: una minima variazione comporta un'immediata risposta. Sembrerebbe dunque inconciliabile l'idea che i fenomeni biologici abbiano un andamento non uniforme. Eppure, omeostasi e bioperiodicità non solo sono compatibili, ma cooperanti. Potremmo dire che i processi che regolano l'omeostasi operano seguendo la ritmicità degli eventi biologici. I ritmi biologici, scoperti da Franz Halberg, seguono - in prima approssimazione - una curva simile a quella sinusoidale: cresce fino ad un massimo (acrofase) e poi scende fino a un minimo, variando intorno ad un valore mediano che si chiama mesor. Il tutto si completa in un periodo di tempo ben definito e caratteristico che può essere: un giorno (ritmi circadiani), una settimana (ritmi circasettani), un mese (ritmi circatrigintani), un anno (ritmi circannuali), e così via. In particolare, il ritmo circadiano, (dalle parole latine "circa" e "dies" = "ciclo di quasi un giorno") è il componente fondamentale di quello che potremmo chiamare "orologio biologico". Gli esempi più evidenti di questo "orologio" sono il battito cardiaco, il ciclo mestruale femminile, la variazione della temperatura corporea durante il giorno, l'apertura e la chiusura di certi fiori rispettivamente all'alba e al tramonto, le migrazioni periodiche di alcune specie animali, ecc. Poiché alcuni di questi fenomeni hanno periodi approssimativamente coincidenti con quelli di altri fenomeni ciclici ambientali, quali l'alternarsi giorno-notte, i cicli stagionali, le fasi lunari, ecc., è abbastanza naturale cercare fra queste variabili una possibile relazione di causa effetto. Dunque, gli esseri viventi hanno anche una struttura temporale. Ed i fenomeni bioperiodici esistono a tutti i livelli di organizzazione, dagli eucarioti unicellulari ai pluricellulari tra cui l'uomo. Le attività della maggior parte degli esseri viventi sul nostro pianeta si caratterizzano per l’influsso costante di due cicli geofisici: quello del giorno e quello della notte. Una delle numerose reazioni a questa periodicità sono le migrazioni. Molti di questi spostamenti periodici sono sorti in risposta alle stagioni che si avvicendano sulla Terra e coinvolgono molti pesci, quali le anguille, i salmoni e i tonni, anfibi, insetti, ma soprattutto gli uccelli. Questi vertebrati hanno occupato quasi tutte le regioni della Terra, e il tracciato dei loro viaggi avvolge come una rete l’intera superficie del pianeta, compreso l’emisfero meridionale. Gli spostamenti australi conducono perlopiù dalle regioni della nidificazione verso zone di stazionamento più prossime all’equatore. In casi eccezionali gli uccelli migratori effettuano percorsi che corrispondono all’intera circonferenza del globo, attraversando oceani, deserti, catene montuose e superfici ghiacciate, a eccezione forse dei poli, e non c’è mese dell’anno nel quale in qualche parte del mondo non sia in atto una qualche migrazione di uccelli. Per quanto riguarda le causa delle migrazioni lo studioso Rappole ne ha individuate otto categorie: 1)cambiamenti antichi nelle condizioni ambientali come le glaciazioni; 2)cambiamenti climatici più recenti; 3)cambiamenti ambientali di vasta portata; 4)presenza di risorse vitali in luoghi distanti dai quali si trovano gli uccelli; 5)fruizione di frutti o nettare in regioni contigue per il ciclo stagionale; 6)competizione tra le specie; 7)influssi di dominanza; 8)ipotesi dell’esistenza di un limite geneticamente determinato di sopportazione di condizioni ambientali avverse, il superamento del quale determinerebbe un inarrestabile impulso alla partenza. A proposito dell’ultima teoria si pensa che i migratori fossero in origine uccelli stanziali, e che “qualcosa” abbia messo in moto l’attività migratoria: infatti negli uccelli la scelta di intraprendere o no il viaggio migratorio corrisponde al superamento o al mancato superamento di una soglia geneticamente determinata da un’eredità poligenica (caratteri quantitativi). Prima delle migrazioni avvengono delle disposizioni migratorie che sono condizioni fisiologiche e comportamentali complesse che dimostrano in vari modi che un uccello è sul punto di partire. Mettendo a confronto uccelli stanziali ed uccelli migratori si notano differenti fasi di sviluppo nelle caratteristiche dei migratori, che per esempio devono portare a termine il ricambio del piumaggio in un tempo minore. In questo modo lo sviluppo giovanile dei migratori si adatta ai requisiti di comportamento migratorio della popolazione di appartenenza per accelerare gli stadi di sviluppo intermedi, e permettere loro di raggiungere la disposizione migratoria per partire. In generale prima dell’inizio della stagione migratoria gli uccelli cominciano ad assumere maggiori quantità di cibo, così attraverso l’iperfagia vengono accumulate le riserve di energia per l’immigrazione autunnale. E’ dimostrato che i migratori alternano un periodo d’ingrassamento con uno di dimagrimento, un fenomeno per molti aspetti governato da ritmi endogeni (orologi biologici). In questo periodo è stato notato che per aumentare le riserve di grasso gli uccelli che normalmente si cibano prevalentemente di insetti e altri animali hanno un più largo consumo di frutta e bacche, ma per riuscire a sopportare sforzi fisici elevati hanno bisogno di integrare la loro alimentazione con una quantità di cibo di origine animale. Durante il periodo migratorio alcune specie cambiano la loro struttura corporea mediante ipertrofia e atrofia muscolare, e i fisiologi delle migrazioni dopo aver estratto i depositi di grasso dai migratori hanno potuto studiarne la composizione sia a livello qualitativo che quantitativo. Il dimostrabile accumulo di grasso anche al rientro dalla migrazione, ossia durante il periodo degli accoppiamenti, è stato ricondotto a quattro possibili cause: 1)fornire il nutrimento per la formazione di cellule riproduttive; 2)evitare che i migratori si ritrovino in affanno per i tempi stretti e i ritmi serrati nei quartieri riproduttivi; 3)favorire la capacità di resistenza di fronte a condizioni avverse; 4)permettere agli uccelli di ritorno di dedicarsi ad una ricerca mirata delle sostanze necessarie al metabolismo riproduttivo. Grazie alle sorprendenti capacità energetiche fornite dal grasso come carburante per le migrazioni i migratori raggiungono autonomie di volo paragonabili a quelle di grandi aeroplani, e perciò è facile comprendere come riescano a superare barriere gigantesche come gli oceani. Mentre si trova in volo l’uccello presenta un metabolismo quintuplo rispetto a quello da fermo, e di dieci-trenta volte maggiore del metabolismo basale. I migratori, quindi, specialmente quelli che percorrono lunghi tragitti in temperature ambientali alte, vanno incontro al pericolo teorico di ipertermia e, se accanto al calore ceduto per irradiazione o per convezione, impiegano troppa acqua per la traspirazione, sono minacciati di disidratazione. E’ interessante inoltre osservare come negli uccelli in generale siano numerosi gli adattamenti alla permanenza a grandi altezze e ai cambi repentini di altitudine. I principali adattamenti sono i seguenti: il polmone parabronchiale lavora col sistema della corrente incrociata nel quale l’aria inspirata e quella espirata passa attraverso due parabronchi disposti in parallelo, senza mescolarsi. … OSSERVANDO LA SRATIFICAZIONE DELLE ROCCE Camminando in montagna ci è difficile pensare al trascorrere del tempo: eppure intorno a noi si apre un libro naturale le cui pagine (sapendo sfogliarle e leggere) ci raccontano di eventi straordinari, a volte veloci e catastrofici, più spesso lenti e inesorabili, che i sono svolti nel corso di milioni di anni. Nel pannello in mostra abbiamo provato a ricostruire una sequenza temporale attraverso le rocce che si trovano frequentemente nelle Dolomiti: non si tratta di una formazione precisa riferita ad un luogo particolare ma vuole essere un “riassunto“ dei principali strati rocciosi che si possono trovare, dai più antichi ai più recenti, in questa catena montuosa. Abbiamo perciò raccolto e ordinato cronologicamente le seguenti rocce: − Scisto metamorfico (Paleozoico) − Porfido (Paleozoico) − Arenaria da sedimentazione di ceneri vulcaniche (Paleozoico) − Dolomia principale (Mesozoico) − Calcare grigio (Mesozoico) − Rosso ammonitico (Mesozoico) − Biancone (Mesozoico) − Scaglia rossa (Mesozoico) − Arenaria glauconitica (Cenozoico) − Marna (Cenozoico) “Con i valloni deserti, con le gole tenebrose, con i crolli improvvisi di sassi, con le mille antichissime storie e tutte le altre cose che nessuno potrà dire mai…” Dino Buzzati (da “Barnabo delle montagne”) La datazione delle rocce Esistono due metodi per datare le rocce, i fossili e gli eventi del passato geologico. Essi vengono chiamati rispettivamente datazione relativa e datazione radiometrica o assoluta. Il primo metodo è quello più antico e, come dice la parola stessa, non fornisce una datazione quantitativa, ma soltanto relativa: una roccia o un fossile vengono riferiti a un certo periodo della storia della terra collocato in una scala temporale di cui, fino agli inizi del secolo scorso, non si conosceva la misura quantitativa. Il metodo radiometrico, basato sul processo fisico del decadimento degli elementi radioattivi, è invece in grado di quantificare con buona e sufficiente approssimazione l’età di un minerale, di una roccia o di un fossile. E’ stato così possibile, dopo la scoperta della radioattività e nel giro di pochi decenni, avere un quadro realistico del tempo geologico e della collocazione cronologica dei vari fenomeni succedutisi dalla formazione del nostro pianeta ad oggi. Ci si è così resi conto che si trattava non di migliaia (come riportato nelle Sacre Scritture), ma di milioni e di miliardi di anni. Datazione relativa Il metodo della cronologia relativa è fondato su due concetti base: quello della sovrapposizione degli strati e quello dell’evoluzione biologica. Il principio della sovrapposizione è stato usato fin dai primordi della geologia, a metà del Seicento. Già nel 1759, il veronese Giovanni Arduino stabiliva una suddivisione cronologica relativa delle formazioni geologiche del Veneto in quattro categorie, da lui dette “ordini”, e chiamate, dalla più recente alla più antica, quaternaria, terziaria, secondaria e primaria. La vita è presente sulla Terra da circa tre miliardi e duecento milioni di anni. La paleontologia è la scienza che cerca di capire i vari aspetti della vita di piante e animali succedutisi in questo lunghissimo lasso di tempo e perciò basata sullo studio dei fossili, ossia resti di organismo o tracce della sua attività che si sia conservata. Circa il problema dell’età della Terra, fino agli inizi del Settecento, in tutto il mondo cristiano veniva accettato ciò che era scritto nella Bibbia. Nel 1654, l’arcivescovo irlandese James Ussher, analizzando le Sacre Scritture, concludeva che la Terra era stata creata nel 4004 a.C.. L’idea di una Terra vecchia di seimila anni fu accettata almeno fino agli inizi del Settecento, ma i grandi geologi dell’Ottocento, quali lo scozzese James Hutton e l’inglese Charles Lyell, resero il mondo scientifico consapevole che il tempo geologico doveva avere un’estensione enorme. Già nel 1830 i geologi ragionavano in termini di milioni di anni. Si aprì così la strada alla teoria dell’evoluzione che verrà proposta da Darwin una ventina di anni dopo. L’attuale stato biologico del nostro pianeta è il risultato di un lungo processo di variazioni e sviluppi graduali e completi che nel loro insieme prendono il nome di evoluzione, perciò i fossili di uno stesso gruppo di organismi variano gradualmente nelle rocce via via più recenti. Impronte di dinosauro su di una superficie di strato di Dolomia Principale nel Monte Pelmetto (figura A); il blocco di Dolomia Principale con la superficie improntata esposta (figura B); veduta ravvicinata delle impronte (figura C) Datazione radiometrica La datazione assoluta è certamente un’aspirazione molto antica dell’uomo. Già Erodoto (484-424 a.C.) aveva pensato che il delta del Nilo fosse stato costruito dalle piene del fiume e che, siccome ogni alluvione aggiungeva solo pochi centimetri all’anno di limo e sabbia, dovevano essere state necessarie diverse migliaia d’anni per costruirlo. Fu però la scoperta della radioattività nel 1896 che offrì la possibilità di misurare il tempo geologico con una precisione che prima era impensabile. Appena nove anni dopo la scoperta della radioattività, Lord Rutherford annunciò nel 1905 la possibilità di usare il decadimento radioattivo per misurare l’età delle rocce e tre anni dopo fu in grado di attribuire un’età di 500 milioni di anni a un cristallo di fergusonite ( un ossido ittrio e niobio), in base al suo contenuto di uranio e elio. L’età così determinata viene definita età radiometrica. La radioattività naturale consiste nell’emissione di particelle alfa, beta e altre quali positoni, neutrini e antineutrini, e di radiazioni gamma. Mediante questo processo un elemento genitore (isotopo o nuclide radioattivo) si trasforma in un altro elemento figlio (isotopo radiogenico). La velocità di decadimento è data dal numero di atomi che decadono nell’unità di tempo. Questa velocità non solo è diversa per ogni isotopo radioattivo, ma varia anche per lo stesso isotopo. Infatti, la velocità di trasformazione nel prodotto finale decresce nel tempo. Ogni isotopo decade in un altro impiegando sempre lo stesso tempo per dimezzare la propria quantità. Tale grandezza costante viene chiamata tempo di dimezzamento ed è indicata col simbolo t 1/2. Con il ricorso a tale tempo è possibile calcolare facilmente il tempo intercorso dalla formazione del minerale ad oggi. Il rapporto tra la quantità di isotopo radioattivo e quella dell’isotopo prodotto dal suo decadimento permette di stabilire da quanto tempo l’isotopo iniziale emette radiazioni. Ciò equivale a dire che il rapporto tra i due isotopi ci consente di stabilire l’età del minerale o della roccia in cui essi sono contenuti. Quindi occorre conoscere tale rapporto. I metodi di datazione radiometrica attualmente più usati utilizzano le coppie potassio-argon (K/Ar), rubidio-stronzio (Rb/Sr), samario-neodimio (Sm/Nd), uranio-piombo (U/Pb), torio-piombo (Th/Pb) e carbonio-14 (14C). Mentre i primi cinque, a causa del lunghissimo tempo di dimezzamento, sono utilizzati per datare minerali e rocce molto antichi, il carbonio-14, che ha un tempo di dimezzamento di soli 5730 anni, può solo essere usato per datare materiali organici, quali ossa, legni, carboni negli ultimi 80000 anni. Tale metodo, quindi, è utilizzato per datare gli avvenimenti più recenti del Quaternario, per la preistoria e per l’archeologia. L’errore nella datazione di una roccia di alcune centinaia di anni è compreso in qualche milione di anni. Ecco, quindi, che, accanto a una cronologia relativa si ha una cronologia assoluta espressa in milioni di anni e con un insignificante margine di errore. Tali valori comunque vengono continuamente aggiornati, corretti e raffinati, datando con i vari metodi radiometrici migliaia di rocce di tutto il mondo, la cui età relativa è nota con sufficiente precisione. Se si riduce la storia della Terra (4 miliardi e 700 milioni i anni) a 12 ore, cioè a n giro di quadrante dell’orologio, le prime cellule viventi sono apparse verso le 3:30, mentre la fotosintesi, responsabile dell’immissione di ossigeno nell’atmosfera, è iniziata verso le 5:00. I protozoi, che si possono considerare i primi animali, compaiono verso le 9:00. Da questo momento i processi evolutivi accelerano i tempi: gli invertebrati compaiono prima delle 11:00, i pesci poco dopo, i mammiferi seguono verso le 11:30. L’uomo è l’ultimo ad arrivato, compare meno di mezzo minuto prima delle 12:00. La storia geologica delle Dolomiti Le Dolomiti, universalmente famose per la suggestività dell’ambiente e per l’interesse scientifico, hanno una lunga e complessa storia geologica e geomorfologia che ne ha determinato il tipico aspetto. In esse si trovano l’una associata all’altra due tipi di rocce, quella dolomica e quella vulcanica, che normalmente non lo sono perché derivano da processi e ambienti totalmente diversi. La roccia dolomica è molto più resistente agli agenti della degradazione meteorica rispetto alle rocce vulcaniche, le quali si alterano e infrolliscono facilmente. Risulta che i pallidi e torreggianti picchi dolomitici si trovano vicino o emergono dalle verdi valli e dai pendii, dove invece stanno le scure rocce di origine vulcanica. La dolomia e quasi tutte le rocce che affiorano nella zona dolomitica si sono formate in fondo al mare durante quello che viene chiamato “processo litogenetico” (o della formazione delle rocce). Ben diverso è il “processo orogenetico” in cui si ha la formazione delle montagne e che, nel caso delle Dolomiti, è separato da quello litogenetico da ben 100-150 milioni di anni. Le principali tappe nella storia geologica della Regione Dolomitica. I numeri sulla sinistra indicano i milioni di anni Processo litogenetico Le vicende che hanno consentito l’evoluzione del paesaggio dolomitico, decifrate attraverso lo studio delle rocce e delle forme del rilievo, si possono far risalire ad almeno 270 milioni di anni fa, durante il Permiano. In questo periodo, fra l’Europa e l’Africa, comincia ad aprirsi un grande oceano, conosciuto col nome di Tetide, dove per decine di milioni d’anni avviene la deposizione di ingenti quantità di sedimenti. La nostra regione appare come un’ampia pianura alluvionale dal clima arido e caldo, dove i fiumi accumulano detriti di vario genere, trasformatisi in seguito in solida roccia, nota con il nome di Arenaria di Val Gardena. Dall’inizio del periodo Triassico per 20-30 milioni di anni la profondità del mare oscilla più volte provocando a tratti l’emersione di alcune zone e la conseguente erosione delle rocce che si sono precedentemente formate sui fondali marini. Il clima Le Arenarie di Val Gardena; gli strati tropicale di quel periodo favorisce l’insediamento di bianchi sono gessi colonie di alghe calcaree in grado di costruire le prime piattaforme carbonatiche. Circa 255-260 milioni di anni fa il mare invade la nostra regione determinando inizialmente il formarsi di depositi salini bianchi e farinosi e poi di sedimenti scuri detti formazione di Bellerophon. A partire dal Ladinico (235 milioni di anni fa) i fondali cominciano a sprofondare, addirittura 1000 metri in pochi milioni di anni. Alcune zone si sollevano ed emergono dal mare formando isole. Alla fine di questo periodo, però, tutta la zona subisce un lento processo di sprofondamento (la “subsidenza”), che fa sprofondare le isole sopra citate, sulle quali hanno attecchito comunità organogene: si tratta di primitive scogliere coralline che cercano di tenere il passo della subsidenza per rimanere costantemente a pochi metri di profondità e che oggi costituiscono alcune delle più famose montagne dolomitiche quali lo Sciliar, il Latemar, la Marmolada, il Catinaccio, le Pale di San Martino, il Putia e la parte inferiore della Civetta. La roccia di cui sono Il Trias e le sue suddivisioni. La datazione tuttavia formate è detta calcare della Marmolada o viene continuamente aggiornata e quindi sono dolomia dello Sciliar a seconda della possibili piccole discrepanze composizione chimico-mineralogica. Alla fine del Ladinico, 230 milioni di anni fa, si formano due grossi vulcani che emergono dall’acqua ( uno vicino Predazzo e uno nei pressi della Val di San Nicolò) e dai quali fuoriesce un’ enorme quantità di lava e tufi che si riversa lungo i pendii delle scogliere riempiendo così i bacini marini. Interi gruppi sono formati da queste rocce vulcaniche: catena del Padòn, il Monte Pore e il Piz del Corvo, il Col di Lana, la Cima di Pape, il sottogruppo Colac-Buffaure. Tale attività vulcanica è accompagnata da terremoti, maremoti, variazioni del livello del mare e frane sottomarine, importanti per la modificazione dell’aspetto della regione. Grande blocco di “scogliera” inglobato nella Formazione di S.Cassiano del Passo Sella All’inizio del Carnico (227 milioni di anni fa) le successive fasi di stabilità documentate in questo periodo consentono il ristabilirsi di condizioni ambientali atte all’insediamento di nuovi organismi costruttori. La quasi totale assenza di fenomeni di subsidenza consente l’accrescersi di imponenti scogliere, che si possono espandere lateralmente anche al di sopra dei sedimenti terrigeni. In seguito si verifica un brusco abbassamento del livello del mare che determina l’emersione delle scogliere, di banchi carbonatici e degli edifici vulcanici. Le nuove condizioni subaeree portano alla fine del delicato ecosistema “di scogliera” e i vari edifici vulcanici vengono spianati dall’erosione e i detriti finiscono di riempire i bacini. In zone più lontane dai vulcani, comunque, persistono ampie aree bacinali. Adesso sono fenomeni tettonici a sconvolgere la regione: si formano faglie che portano alla deformazione, al piegamento e all’accavallamento delle rocce precedentemente deposte. Una volta terminata questa turbolenta fase, la zona dolomitica torna ad essere un tranquillo mare tropicale, nel quale prosperano coralli, alghe e spugne. Il risultato è che inizia a formarsi una nuova generazione di scogliere e piattaforme carbonatiche, la così detta Dolomia Cassiana, molto meno sviluppata in altezza e più in larghezza (in fondo, infatti, è più regolare e c’è meno subsidenza). Sullo Sciliar sono ancora preservati i depositi del Ladinico e del Carnico: le lave (V), le Dolomie stratificate carniche (DC) e in cima i rossi sedimenti della Formazione di Raibl Formazione di Raibl Rocce sedimentarie marine depositatesi tra 220 e 150 milioni di anni fa Nei bacini adiacenti, invece, si vanno accumulando i fini prodotti delle erosioni delle rocce vulcaniche mescolati a particelle calcaree di varia natura: è questa la Formazione di San Cassiano, nota per la straordinaria quantità di fossili in essa contenuti. Alla fine del Carnico (224 milioni di anni fa), un nuovo forte abbassamento del mare determina la fine dello sviluppo delle scogliere e un ulteriore riempimento dei bacini: la regione torna ad essere un’area piatta, in parte marina, in parte costiera. Su questa superficie si deposita la Formazione di Raibl, di spessore modesto e dal colore rosso-verde. E’ costituita di questi sedimenti la cengia che taglia tutto il Sella a metà altezza, come pure la base della Tofana di Rozes e delle Cinque Torri. Con il Norico (223 milioni di anni fa), in un mare sottile e caldo, in continua subsidenza, si deposita metro dopo metro una potente successione di dolomie stratificate, la Dolomia Principale (il suo spessore è di ben 1000 metri) che oggi costituisce alcune delle cime più famose delle Dolomiti cadorine e bellunesi: le Tre Cime di Lavaredo, il Cristallo, la Civetta, la Croda da Lago e molte altre ancora. Alla fine del Trias e all’inizio del Giurassico (210 milioni di anni fa), tutta l’Italia è coperta dal mare ed il clima diviene Dal basso: Dolomia Cassiana, Formazione di umido e di tipo marino. Non ci sono più dolomie o depositi Raibl e Dolomia Principale salini, ma calcari grigi, ben stratificati. Tra 170 e 135 milioni di anni fa, la regione sprofonda ulteriormente e si hanno i depositi di Ammonitico Rosso (un calcare caratterizzato dalla presenza delle ammoniti), mentre con il Cretaceo, l’ultimo periodo dell’era Mesozoica, si depositano le rocce più giovani della nostra regione (le Marne del Puez, materiali teneri e di colore grigio-verde). Successione di rocce stratificate nel Passo Rolle accumulatasi nel Trias inferiore Formazione di Calcari grigi e parete di ammonitici rossi Sezione semplificate della Regione Dolomitica: B - basamento e porfidi; P – terreni permiani; W – Formazione di Werfen; Li – Formazione di Contrin e successioni bacinali ladino-carniche; v – rocce vulcaniche; DS – piattaforme carbonatiche ladiniche e carniche; R – Formazione di Raibl; DP – Dolomia Principale La successione stratigrafica che compare nelle varie zone della Regione Dolomitica Processo orogenetico All’inizio del Cretaceo (120-130 milioni di anni fa) tutta la pila di rocce descritta precedentemente si trovava sepolta in fondo al mare Tetide. Verso la fine del Cretaceo (70-80 milioni di anni fa), il continente africano comincia ad avvicinarsi a quello europeo, determinando uno schiacciamento dei materiali interposti e il loro conseguente innalzamento (orogenesi = nascita di una catena montuosa). Le Dolomiti iniziano ad essere interessate da queste dinamiche circa 40 milioni di anni fa, ma è soprattutto negli ultimi 25 che si hanno gli effetti più forti, con un sollevamento tale da far emergere il tutto dal mare. Il maggiore definitivo sollevamento si è ha negli ultimi 4-5 milioni di anni. I corsi d’acqua scavano ed incidono sempre più, finchè compaiono i terreni triassici e permiani: le dure e resistenti Dolomie rimangono sempre più isolate, mentre le tenere rocce vulcaniche, con i loro derivati sedimentari, vengono spianate con facilità, dando luogo a valli, passi, altopiani. Circa 2 molini di anni fa, infine, le Dolomiti vengono ricoperte dai ghiacci, i quali danno il loro fondamentale contributo alla geomorfologia della zona. Infatti, assieme ai processi gravitativi, alle acque correnti, al disgelo, provocano processi di frane, per crollo dalle pareti dolomitiche oppure per scivolamento o colata sui pendii terrigeni. Nelle aree poste alle quote più elevate, oltre i 2200 metri, si possono osservare una serie di forme, la cui genesi è legata alla presenza della Modellamento dei neve e agli effetti ciclici del gelo e disgelo. Tra i più frequenti si fianchi della valle da possono ricordare le nivomorene (cordoni dalla forma allungata o a parte di un ghiacciaio festone), prevalentemente paralleli al versante, legati allo scivolamento vallivo di materiale detritico su superfici nevose o i grandi accumuli di detriti che si rinvengono alla base delle ripide pareti verticali dolomiche e che conferiscono al paesaggio un aspetto lunare. Rocce erose che per la loro particolare forma sono denominate “i frati” Tipica valle glaciale delle Dolomiti: la Vallunga Approfondimento: Dolomia, una roccia particolare E’ a un’intuizione di Dèodat Tancrède Gratet de Dolomieu (1750-1801) un francese di nobile famiglia, membro dell’Institut de France e studioso di mineralogia, che risale la scoperta di quella particolare composizione chimica (doppio carbonato di calcio e magnesio) che rende così diverse le rocce dolomitiche. Nel 1789 Dolomieu inviò al geologo Nicholas de Saussure dei campioni di alcune “strane” rocce, da lui stesso raccolte durante un viaggio in Sud Tirolo. Era incuriosito dalla loro anomala reazione all’acido cloridrico: al confronto delle altre formazioni calcaree, sviluppavano una ridotta effervescenza. L’intuizione che si trattasse di un minerale sconosciuto fu confermata e, nonostante Dolomieu avesse proposto il nome di “Saussurite”, il nuovo minerale fu catalogato, in onore del suo scopritore, con il nome di “Dolomite”, mentre fu chiamata “Dolomia” la roccia che lo conteneva. Successivamente, nel 1864, anche all’intera zona montuosa in cui prevaleva questa roccia fu dato il nome, appunto, di Dolomiti. … OSSERVANDO LA BIODIVERSITA’ I fossili sono stati fondamentali per la comprensione dell’esistenza dell’evoluzione biologica: le specie non sono immutabili ma cambiano nel tempo con ritmi diversi a seconda delle condizioni ambientali e della pressione selettiva. Oggi è possibile “misurare” il passare del tempo anche studiando gli organismi viventi attualmente e fra loro contemporanei grazie alle tecniche di biologia molecolare: il confronto tra proteine comuni a più specie e la comparazione della sequenza di geni presenti negli organismi sono diventati gli strumenti per ricostruire gli alberi genealogici e i rapporti filogenetici tra gli organismi. I risultati sono sempre più precisi e si riescono a dare interpretazioni temporali non solo qualitative ma anche quantitative e in accordo con i dati ottenuti da altre discipline quali la paleontologia e la geologia. LA NATURA NEL TEMPO: L’EVOLUZIONE BIOLOGICA L’evoluzione biologica rappresenta i cambiamenti del patrimonio genetico dei membri di una popolazione. Più in particolare, i cambiamenti relativi a un numero limitato di generazioni vengono indicati complessivamente come microevoluzione, mentre quelli che richiedono secoli, millenni o addirittura tempi più lunghi per verificarsi sono definiti cambiamenti macroevolutivi o macroevoluzione. I cambiamenti a breve termine che avvengono nelle popolazioni , cioè i cambiamenti che richiedono periodi di tempo di anni o decenni, appartengono complessivamente a cambiamenti microevolutivi. Studi sulla microevoluzione rappresentano un ramo importante della biologia evolutiva, perché i cambiamenti a breve termine possono essere osservati direttamente e manipolati sperimentalmente. Essi da soli tuttavia non possono fornire una spiegazione completa dei processi macroevolutivi. Attraverso una serie di studi, ad esempio, siamo in grado di misurare le varie forme delle zampe dei cavalli e correlare tali forme alla loro velocità di corsa e alla capacità di sfuggire ai predatori (microevoluzione). Studi di questo tipo non rivelano però per quale motivo Hyracotherium, piccolo progenitore a quattro dita del cavallo, vissuto nei boschi dell’Eocene, dette origine a discendenti di elevate dimensioni che pascolano nelle pianure e che sono caratterizzati da un singolo dito (macroevoluzione). I quadri dei cambiamenti macroevolutivi possono essere fortemente influenzati da eventi che accadono molto raramente (impatti di meteoriti, ad esempio) o con tale lentezza (cambiamenti climatici sul lungo periodo, movimenti delle masse continentali…) da non poter essere osservati nel corso degli studi sulla microevoluzione. Prove di altro tipo, soprattutto derivanti dallo studio dei fossili e delle rocce, devono essere raccolte per poter comprendere il corso dell’evoluzione avvenuta in un arco di tempo di miliardi di anni. I METODI DI DATAZIONE DEGLI EVENTI SULLA TERRA I geologi dividono la storia della Terra in quattro eoni: Adeano, Archeano, Proterozoico e Fanerozoico. Quest’ultimo viene a sua volta diviso in ere, ulteriormente suddivise in periodi. Il passaggio da una divisione temporale all’altra si basa sullo studio delle fondamentali differenze del materiale fossile rinvenuto in strati rocciosi successivi. Sono quindi gli organismi fossili, e non le rocce stesse, a fornire ai geologi le informazioni utilizzate per elaborare una scala temporale degli eventi, dato che la vita in evoluzione lascia tracce che possono essere ordinate cronologicamente. Non è sempre così invece per le rocce, in quanto una data roccia può formarsi in un periodo qualunque, se sottoposta alle medesime condizioni ambientali. Esiste tuttavia un metodo “assoluto” che consente di datare anche rocce prive di resti fossili, ed è il metodo della radiodatazione, che si basa sul fatto che per i materiali radioattivi in uguali intervalli di tempo decade la medesima frazione di materiale radioattivo. Non tutte le rocce contengono però materiali radioattivi in quantità misurabili; per questo è spesso più facile per stabilire l’età di un campione fare riferimento ai fossili che contiene. I FOSSILI Un fossile è quanto rimane di un organismo animale o vegetale vissuto nei tempi passati e conservato nei resti rocciosi. I fossili sono le uniche testimonianze rimaste degli organismi che popolarono la Terra nelle ere trascorse; permettono non solo di conoscere le caratteristiche morfologiche di questi organismi, ma forniscono dati essenziali per la ricostruzione dei processi evolutivi che hanno portato agli organismi attuali, delle condizioni ambientali del passato e delle variazioni di queste nelle ere geologiche. La fossilizzazione, il processo fisico-chimico che permette ad un organismo di conservarsi nel tempo è un processo lungo e piuttosto raro: essenziale è che l’organismo venga a trovarsi, dopo la morte, in ambiente privo di ossigeno. Infatti, quando non c’è contatto con l’aria le sostanze organiche di cui è composto il corpo dell’animale o del vegetale vengono lentamente sostituite da sostanze minerali (carbonati, silice…). Solo le parti molli si deteriorano, ma spesso il loro posto viene preso da sedimenti minerali, cosa che permette la conservazione dell’impronta (stampo) nello strato in cui giace il resto. Fino ad oggi sono state descritte circa 300 000 specie di organismi fossili, e il loro numero è in continuo aumento. Tuttavia, le specie fossili finora descritte non rappresentano che una piccola frazione delle specie realmente esistite. Tanto per fare un confronto, nel complesso dei biota attuali, vale a dire tra i componenti di tutti i regni (batteri, archea, protisti, piante, funghi e animali) sono state descritte 1,5 milioni di specie. In realtà il numero di specie viventi ammonta probabilmente ad almeno 10 milioni (non sono state ancora descritte la maggior parte delle specie di insetti).Di conseguenza, il numero delle specie fossili note costituisce meno del 2% del probabile numero delle specie viventi. Tra tutti questi organismi, particolare interesse destano i cosiddetti “fossili guida”, i più utili per l’indagine biostratigrafica, quella cioè che, basandosi sull’ovvio principio che i fossili rinvenuti in strati più bassi sono più antichi di quelli soprastanti e valutando i rapporti di posizione dei fossili nei singoli strati rocciosi, riesce a stabilire i tempi relativi di comparsa, di vita e di scomparsa delle singole specie, dei generi e delle categorie sistematiche di ordine superiore. I fossili guida sono resti di specie a rapida evoluzione e quindi di breve durata nel tempo, che presentano una estesa diffusione geografica e sono poco soggetti a fattori ambientali. Essi permettono di datare i sedimenti che li contengono e di stabilire la loro posizione nella scala cronologica. Permettono anche il confronto cronologico tra strati di località diverse, anche molto distanti, ma che contengono la stessa specie di “fossili guida”. Vengono quindi usati per la datazione dei diversi periodi della storia della Terra. Esempio classico di “fossili guida” sono le trilobiti, per il periodo del Cambriano (500-400 milioni di anni fa), o le ammoniti del Mesozoico (200-65 milioni di anni fa). I fossili sono la testimonianza più evidente dell’evoluzione biologica delle specie nel tempo. Nonostante l’incompletezza, rivelano chiaramente che passando, nella scala temporale geologica, da periodi storici remoti a quelli più recenti, i fossili somigliano sempre di più alle specie attuali. L’EVOLUZIONE MOLECOLARE Un altro fenomeno che ci permette di valutare gli effetti dello scorrere del tempo sugli organismi viventi è l’evoluzione molecolare. Esiste la possibilità di estrarre il DNA da alcuni fossili, più o meno recenti (è stato estratto DNA da campioni racchiusi in ambra di 135 milioni di anni). Tuttavia, anche nel caso in cui non sia possibile studiare direttamente le molecole presenti in organismi estinti, possiamo dedurre i modelli evolutivi confrontando la struttura delle molecole presenti negli organismi attualmente viventi. Un valido esempio dell’uso dell’approccio comparato per determinare i modelli di evoluzione molecolare è fornito dagli studi sulla proteina citocromo c. Il citocromo c è uno dei costituenti della catena respiratoria mitocondriale presente nelle cellule di tutti gli eucarioti. Oggi è nota la sequenza aminoacidica del citocromo c in almeno 100 specie di organismi, dai lieviti all’uomo. Esaminando tali sequenze aminoacidiche si può notare che esistono regioni che accumulano sostituzioni abbastanza rapidamente; per esempio le posizioni 44, 89 e 100 contengono residui diversi in molti degli organismi presi in esame. Al contrario, esistono anche delle posizioni invarianti, per esempio le posizioni 14, 17, 18 e 80. E’ noto che questi invarianti interagiscono con il gruppo eme, contenente ferro e essenziale per il funzionamento della proteina. Si pensa quindi che, avendo effetti negativi sul funzionamento della proteina, qualunque cambiamento di aminoacidi in tali zone sia stato eliminato per selezione naturale ogni volta che è comparso in un organismo. Al contrario le regioni che ammettono un ampio numero di sostituzioni sono probabilmente meno significative dal punto di vista funzionale; di conseguenza le sostituzioni aminoacidiche in tali regioni sono funzionalmente neutre e non risentono della selezione naturale. Una volta stimato il tasso di sostituzione aminoacidica, che per queste sequenze sarà simile al tasso di mutazione (per esempio 100 sostituzioni ogni 500 milioni di anni), è facile capire che due specie che differiscono per 10 aminoacidi sono imparentate tra loro in maniera più stretta di due che differiscono per 20 aminoacidi. Quanto maggiore è il numero delle differenze nella sequenza aminoacidica tra due molecole di citocromo c di due organismi differenti, tanto più lontano nel tempo può essere datato l’antenato comune. Ecco quindi che se la struttura di una molecola cambia con velocità costante, possiamo utilizzare la molecola stessa come un orologio molecolare per determinare le date a cui si sono verificati eventi evolutivi. E’ bene precisare che questo metodo non sostituisce la datazione per mezzo dei fossili, ma gli si affianca e può essere di aiuto nel caso esistano pochi reperti fossili di specie attualmente viventi. SULL’OROLOGIO ELETTRICO DELL’ABATE ZAMBONI: - Paolo Francesco Forlati: Segnatempo veronensis, Verona, Grafiche Fiorini, 1987 - G. Zamboni, Descrizione ed uso dell' elettromotore perpetuo, Verona, Tipografia Mainardi, 1814 - G. Zamboni, Sull'elettromotore perpetuo. Istruzione teorico-pratica, Verona, Tipografia di Giuseppe Antonelli, 1843 - sito internet: http://www.galileonet.it/Dossier/doss26/dossier26_4.html articolo di M. Tinazzi dal titolo: Il padre dell'elettromotore Perpetuo SULLE MERIDIANE -Cintio Alberto Le meridiane delle Marche, A. Livi Editore – Fermo, 1999 -Gian Carlo Rigassio Le ore e le ombre, Ed. Mursia, 1988 -Giuliano Romano et all. Il sole e il tempo, Ed. Sit, Treviso, 1990 -Gabriele Vanin Le meridiane bellunesi, Ed. Libreria Pilotto – Feltre BL, 1991 -D’Agnolo Mauro et all. Conto solo ore serene, pubblicato dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane ( una raccolta fotografica delle meridiane della Pedemontana, arricchita da commenti tecnici dello gnomonista Giovanni Flora e introdotta da piacevoli riflessioni del poeta A. Zanzotto e di altri personaggi di cultura e di scienza astronomica del territorio veneto, tra cui l’astronomo prof. G. Romano. -Sito internet: www.gnomonica.it SULLA DILATAZIONE RELATIVISTICA DEL TEMPO -E.F. Taylor e J.A. Wheeler Fisica dello spazio-tempo, Ed. Zanichelli SULL’ OROLOGIO FLOREALE -Sito internet: www.gnomonica.it SULLE MIGRAZIONI DEGLI UCCELLI -P. Berthold La migrazione degli uccelli, Bollati Boringhieri, 2003 -Sito internet: www.nemesi.net di Marcello Guidotti, 2002 SULLE ROCCE DOLOMITICHE - Alfonso Borsellini La storia geologica delle Dolomiti, Edizioni Dolomitiche, 1989 SULL’EVOLUZIONE -W. Purves, G. Orians, D. Sadava, H. Heller I processi evolutivi, Ed. Zanichelli, 2001