Contributo di Ettore Capri Direttore Centro di Ricerca per lo sviluppo sostenibile Università Cattolica del Sacro Cuore Piacenza La sostenibilità oggi oltre ad essere una condizione per la sicurezza alimentare globale può rilevarsi una vera e propria opportunità strategica per il settore agro‐alimentare; del resto ‐ per le caratteristiche peculiari dell’ecosistema agro‐forestale, e il suo stretto legame con il territorio e le comunità locali ‐ risulta necessario per le aziende e gli imprenditori impegnarsi in percorsi di crescita sostenibile. Questa consapevolezza da parte del settore si è tradotta in una vera e propria "ondata" di sostenibilità che sta "travolgendo" le produzioni alimentari dei Paesi democratici e socialmente organizzati. Anche in Italia a partire da iniziative di tipo privato a quelle promosse dalle Istituzioni ‐ passando per i programmi praticati a livello associativo ‐ sono sempre di più marchi che decidono di agire concretamente al fine di monitorare e migliorare le proprie performance di sostenibilità. Se, da un lato, il proliferare di iniziative ha un risvolto positivo, perché riflesso di una crescente sensibilità nei confronti di tale tematica, d'altra parte c'è il rischio che si generi confusione nei confronti delle stesse aziende, che si trovano di fronte a molteplici programmi (con obiettivi e modalità operative differenti) senza comprenderne davvero l'utilità e le finalità. E non solo. Tale confusione può coinvolgere anche il consumatore finale, che si trova di fronte a prodotti reclamizzati con una terminologia facente parte, in diversi modi, del mondo della sostenibilità (bio, naturale, sostenibile, eco‐compatibile, biodinamico ecc.) e proveniente da aziende aderenti a svariati protocolli o programmi di sostenibilità, senza però poter realmente percepire il valore aggiunto di un prodotto alimentare realizzato nel rispetto di determinati criteri. Come distinguere, allora, un prodotto alimentare ed un’azienda sostenibile rispetto al resto ? Come è possibile smascherare operazioni commerciali di green washing volontarie o involontarie ? Le domande non sono di semplice risposta: sebbene, infatti, una definizione universalmente accettata di "sviluppo sostenibile" sia stata fornita dalla Commissione Brundtland parecchi anni fa, bisogna ammettere che essa rimane, ancora oggi, alquanto “variegata” nella sua esplicitazione rendendo, nel corso degli anni, non facilmente condiviso lo sviluppo di un paradigma operativo. Cominciamo però con il sottolineare che – nonostante l’accezione prettamente ambientale che di solito viene attribuita al concetto di sostenibilità ‐ lo sviluppo sostenibile non si può conseguire se non attraverso l’integrazione tra elementi ambientali, economici e sociali, e al corretto bilanciamento tra questi. La sostenibilità, dunque, non è solo attenta all’ambiente, ma integra questo aspetto a tematiche correlate alla giustizia sociale e alla fattibilità e praticabilità economica. Lo sviluppo non può dirsi sostenibile se non si realizza entro la “capacità di carico” dell’ecosistema, non rispetta le fondamentali leggi dell’economia e non mira alla promozione della dignità umana in tutte le sue forme. Se una comunità o una società realizza la crescita economica a spese di altre componenti dello sviluppo (come, ad esempio, la qualità dell’ambiente o l’equità sociale) è difficile affermare che si stia realmente sviluppando. Inoltre esistono diverse metodologie e indicatori utili per misurare la sostenibilità nelle sue componenti. Disporre di indicatori è molto importante per poter rendere facilmente comprensibile il risultato di un'analisi o gli effetti di una previsione, al tempo stesso preservando il più possibile la scientificità dell’analisi. Tali indicatori di sostenibilità, ovviamente, variano in funzione della tipologia del sistema analizzato (un territorio, un sistema aziendale, processi, prodotti, ecc), e devono rappresentare in maniera semplice e completa le interazioni del sistema in analisi con il comparto ambientale, sociale ed economico. Ad esempio per quanto riguarda il carico ambientale è evidente come i maggiori impatti siano rappresentati dall’emissione dei gas ad effetto serra (che hanno un effetto diretto sulle variazioni climatiche), dall’utilizzo e dall’inquinamento della risorsa idrica, e dalla capacità del territorio impiegato di fornire gli input necessari a sostenere i consumi e di assorbire i rifiuti generati. Per questo alcuni degli indicatori generalmente utilizzati per esprimere la sostenibilità ambientale di beni, prodotti e servizi sono l'impronta carbonica, l'impronta idrica e l'impronta ecologica. Anche le politiche europee spingono i responsabili politici ed i manager aziendali a valutare l’impatto ambientale di prodotti e servizi attraverso indicatori secondo un approccio Life Cycle Thinking (LCA), con l’obiettivo di promuovere un uso più sostenibile delle risorse e la progettazione di prodotti più sostenibili e l’obbiettivo è avere una classificazione dei prodotti alimentari secondo uno standard (Product Environmental Footprint) entro i prossimi anni. Il metodo di analisi LCA è regolamentato dagli standard internazionali ISO 14040 e 14044, che ne definiscono le caratteristiche peculiari. E non dimentichiamo gli indicatori agronomici e socio‐economici. Come interpretiamo gli indicatori di sostenibilità? La tentazione sarebbe quella di pensare che più basso è il valore di un indice di impatto, più eco‐compatibile sia il prodotto. Non è sempre così! È come confrontare il peso di due persone, senza valutare la loro altezza e la loro corporatura… non è detto che il più leggero sia il più magro! Inoltre la valutazione è ulteriormente complicata dal fatto che non si ha un solo indice da confrontare. Come fare, allora? Bisogna partire dal presupposto che chi si misura lo fa per migliorarsi, e che il “contesto” in cui l’azienda opera la porta a fare certe scelte e ad avere certi impatti. Queste considerazioni devono portare alla conclusione che il confronto tra gli stessi indici, misurati in diverse aziende, è inutile e dannoso, mentre diventa utile e significativo poter valutare il percorso dell’azienda nel tempo. L’azienda sostenibile non ha paura di misurarsi e di raccontarsi, ma soprattutto si pone l’obiettivo di migliorarsi continuamente nel tempo, nel vero spirito della “sostenibilità”! Ecco perché gli altri elementi paradigmatici del prodotto alimentare sostenibile sono il bilancio annuale di sostenibilità, l’etichetta e la verifica della sostenibilità da parte di un ente terzo. Attraverso questi elementi il consumatore può comprendere il significato delle sostenibilità negli impegni raccontati dall’imprenditore e da un ente di certificazione che ne ha verificato la veridicità. Lettura: Corbo C & Lamastra L (2014). Tutto l’eco (del) vino. Mattioli 1885, Fidenza.