SILVIO SPAVENTA (1822 – 1893) Politico e patriota

PERSONAGGI ILLUSTRI IN TERRA D’ABRUZZO
SILVIO SPAVENTA
(1822 – 1893)
Politico e patriota
“Italiano innanzi tutto
e ad ogni patto”.
S. Spaventa
Silvio Spaventa nacque a Bomba, in provincia di Chieti, il 10 maggio 1822 da
una famiglia benestante. Suo fratello maggiore era il filosofo Bertrando
Spaventa, di cinque anni più grande.
Silvio ricevette la prima educazione in casa da un pedagogo che gli insegnò
anche a suonare il flauto. Proseguì
gli studi nel seminario di Chieti e
poi in quello di Montecassino, dove
già il fratello Bertrando insegnava
matematica e retorica. Qui conobbe
il filosofo Antonio Tari.
Nel 1843 si trasferì a Napoli.
L’intento
era
quello
di
intraprendere studi giuridici ma i
suoi interessi lo portarono verso le
discipline filosofiche e politiche.
Nella città partenopea seguì i corsi
di matematica e quelli dei filosofi
Pasquale Galluppi e del kantiano
Silvio Spaventa. foto tratta da www.picus.sns.it
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Ottavio Colecchi, con i quali strinse amicizia.
Quanta importanza rivestisse la filosofia nella sua vita lo sottolinea Capograssi
quando dice che per lui “…come per tutti gli spiriti di ordine superiore, vivere,
meditare, agire è tutt’uno”. E ancora “…per lui la filosofia era il dovere più
austero e più degno dell’uomo...non era contemplazione inerte, riposo o astratto
pensare ad alcuni problemi, come punti e quesiti di cultura, ma il complemento
vitale ed indispensabile della pratica quotidiana…”. Se l’inclinazione per la vita
pratica ed attiva e gli eventi non lo avessero distolto, certamente egli avrebbe
rivolto la sua vita alla disciplina filosofica, come già il fratello aveva fatto.
Nel 1844 fondò una Rivista di filosofia con la collaborazione del Galluppi e del
Bavarese. Nel 1846 istituì, insieme al fratello Bertrando, un corso privato di
filosofia ispirato al pensiero hegeliano e liberale, in contrasto con la mentalità
borbonica e con i principi della politica borbonica, impersonata in quel momento
da Ferdinando II Borbone (1810-1859). La scuola era gratuita ed ebbe grande
frequenza di giovani.
A causa dei principi cui si ispirava, dopo un anno la scuola venne chiusa dalla
polizia e Silvio, per scampare all’arresto per motivi politici, lasciò Napoli e si
rifugiò in Toscana dove entrò in contatto con la classe politica moderata e con gli
ambienti liberali. In quel periodo conobbe Gino Capponi, Vincenzo Salvagnoli,
Gian Pietro Vieusseux, Giuseppe Giusti, Fanny Targioni-Tozzetti e Giuseppe
Massari, che rimase uno dei suoi più grandi amici.
Il 29 gennaio 1848, in seguito ai moti rivoluzionari siciliani, Ferdinando II
concesse la Costituzione e questo permise a Silvio di tornare a Napoli. Qui trovò
una situazione nuova rispetto a quella che aveva lasciato.
Per prima cosa pensò di fondare un organo di stampa con il quale intendeva
sostenere il moto popolare, l’azione e la lotta come momenti necessari per
l’indipendenza e l’unità d’Italia. Nacque così il Nazionale di cui assunse la
direzione che per alcuni mesi fu l’unica sua attività. Molti suoi articoli
esprimevano la convinzione della necessità dell’unificazione e la fede che presto
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sarebbe stata raggiunta. Già in quegli articoli si andò formando la concezione di
Stato che egli elaborerà in maniera definitiva qualche anno più tardi, cioè uno
stato costituzionale in cui i vari organi abbiano autonomia e libertà di
funzionamento. “Libertà nell’ordine” è la formula che definisce il suo pensiero
liberale. “La nazione vuole essere e sarà libera; essa vuole libertà vera ed intera,
ma regolata e civile, non incomposta e sbrigliata. Essa vuole un governo forte,
che la preservi da’ disordini e dall’anarchia, ma che attinga la sua forza dalla
legge, non dall’arbitrio, dal rispetto de’ diritti del popolo, non dalla violazione di
essi. (…) Il vero ordine è nel rispetto della libertà di ciascuno e nella limitazione
dell’arbitrio di qualsiasi individuo”.
In quegli articoli egli così definisce lo Stato: “ Lo Stato è il popolo considerato
non come la collezione degli individui, ma come la loro unità universale e
concreta”. Ed ancora: “Ciò che vi ha di più veramente nuovo nella coscienza
europea è che lo Stato non sia qualcosa di esterno a noi, di divino o fatale, di
casuale o di convenzionale; ma è
intrinseco a noi come il nostro
naturale organismo, perché la legge, il
diritto, l’autorità, che ne sono le
funzioni essenziali, sono pure volere
umano; volere….avente per iscopo
immediato,
non
il
bene
nostro
individuale, ma il bene comune, nel
quale il nostro, che vi è compreso, si
purifica e idealizza”.
Il 15 aprile del 1848 venne eletto
deputato al parlamento napoletano,
un’esperienza che ebbe vita breve a
causa dei nuovi rivolgimenti politici.
Statua in bronzo di Silvio Spaventa a Bomba. foto
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Il 15 maggio il re revocò la Costituzione e bombardò Napoli per placare la
rivolta. Il Nazionale sospese le sue pubblicazioni ma Spaventa riuscì ugualmente
a far uscire qualche numero in cui continuava la campagna contro i Borboni e a
favore dell’unità. Questa attività gli provocò numerose minacce, polemiche ed
aggressioni.
Intanto fondò, insieme a Luigi Settembrini, Carlo Poerio, Luigi Agresti ed altri la
Società dell’Unità Italiana, divenendone presidente. L’obiettivo primo ed
immediato della società era quello di combattere i Borboni, di allontanarli dal
trono napoletano e puntare all’unità d’Italia. Per questa attività venne arrestato il
19 marzo 1849 e rinchiuso nel carcere di San Francesco, quindi venne processato
per cospirazione contro la sicurezza interna dello stato.
Il processo durò tre anni e l’8 ottobre 1852 venne emessa dalla gran Corte
Speciale la condanna a morte per impiccagione, che fu poi commutata in
ergastolo. Silvio Spaventa pronunciò la sua difesa con vigore e logica: “Io
attenderò il vostro pronunciato con sicura e tranquilla coscienza; con coscienza
certamente più imperturbata di quella con cui il mio accusatore chiede la mia
morte”. E adottando le parole dette da Giordano Bruno ai suoi giudici così
dichiarava di attendere il giudizio: “minori tamen timore, qua mille sententiam in
me fert”.
Trascorse oltre sei anni nel carcere di Santo Stefano dedicandosi agli studi
storici, filosofici, politici e giuridici, e all’apprendimento delle lingue straniere,
l’inglese e il tedesco. Dalle lettere che scrisse dal carcere si desume il suo stato di
serenità e calma; mai uscirono dalle sue labbra parole di ira, disperazione o
sconforto. In una delle tante lettere inviate al fratello Bertrando così scrive: “Il
carcere, la malattia, la povertà, le insidie, i tormenti possono consumare questo
mio debole corpo, ma non soggiogar l’animo e la mente immortale”. Mai perse la
speranza che presto le cose sarebbero cambiate e che la tirannia borbonica
sarebbe caduta sotto il peso dei sui stessi errori. Una fede così forte gli permise di
sopportare le sofferenze degli anni della prigionia.
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Scrisse anche un opuscolo dal titolo Avvertimenti
politici in cui esprimeva tutta la sua fiducia nella
giustizia e nella necessità storica di mutare le
sorti dell’Italia.
Nel 1859 la pena venne nuovamente commutata
in esilio perpetuo, in seguito alla morte del re
Ferdinando II. Spaventa era destinato ad andare
in America ma il piroscafo su cui si era imbarcato
dirottò verso l’Irlanda. Da qui Silvio raggiunse
Londra e poi tornò in Italia, a Torino, dove con
grande
commozione
riabbracciò
il
fratello
Bertrando.
Qui ebbe modo di venire a contatto con la politica
cavouriana divenendone sostenitore, una politica
Monumento a Silvio Spaventa a
Roma. foto tratta da
www.wikipedia.org
che mirava all’unificazione dell’Italia in nome del re di Savoia, Vittorio
Emanuele II, che aveva dimostrato fedeltà agli ideali liberali e nazionali.
Spaventa riteneva che il Piemonte fosse l’unico stato in grado di perseguire una
politica nazionale e perciò addossava ad esso la responsabilità e il peso della
guerra di liberazione dallo straniero. Dal programma federalistico, che aveva
condiviso e sposato negli anni Quaranta, Spaventa passò alla tattica
annessionistica.
Da quel momento l’impegno di Spaventa fu tutto rivolto a questo obiettivo.
Tornò a Napoli nel luglio 1860 per creare le condizioni all’annessione del
meridione al Regno d’Italia prima dell’arrivo di Garibaldi e in nome di Vittorio
Emanuele II. Il piano prevedeva l’unificazione di Napoli al Regno d’Italia
attraverso l’annessione piuttosto che attraverso la conquista. A tal fine era
necessario promuovere una rivoluzione in nome di Vittorio Emanuele prima
dell’arrivo di Garibaldi.
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Questa posizione lo portò ad inasprire i rapporti con Garibaldi che, individuato in
Spaventa l’artefice di questo orientamento, lo allontanò invitandolo a lasciare
nuovamente il Regno di Napoli e a tornare a Torino.
Garibaldi entrò a Napoli il 1° ottobre 1860, prima che si realizzasse il piano
dello Spaventa e degli altri patrioti. Spaventa tornò a Napoli dopo che Vittorio
Emanuele era entrato nel Regno delle Due Sicilie
In quel periodo Silvio Spaventa fu nominato Professore di Filosofia del diritto
nell’Università di Modena, ma non accettò l’incarico non ritenendo adeguata la
sua preparazione.
Dal novembre 1860 assunse la carica di Direttore generale (vale a dire
sottosegretario) al ministero dell’Interno e di Polizia e così fu impegnato a
contrastare la difficile e turbolenta situazione napoletana fino al luglio 1861. Il
problema più grave che dovette affrontare fu quello della camorra che lo portò ad
epurare il sistema di polizia dalla presenza dei camorristi, procurandosi minacce
per la sua stessa vita.
Intanto il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia sotto la dinastia dei
Savoia.
Da quel momento Silvio Spaventa rivestì molte cariche pubbliche. Fu deputato
ininterrottamente tra il 1861 e il 1889, come esponente della Destra storica. Fu
segretario generale degli Interni tra il 1862 e il 1864 nei governi Farini e
Minghetti; si occupò della sicurezza interna dello stato attraverso la repressione
del brigantaggio meridionale e delle manifestazioni torinesi del settembre 1864,
scatenate dalla Convenzione di settembre che prevedeva lo spostamento della
capitale da Torino a Firenze.
Fu Consigliere di Stato nel 1868 e ministro dei Lavori Pubblici tra il 1873 e il
1876, nel secondo governo Minghetti, l’ultimo governo di Destra. Decisiva, in
qualità di ministro, fu la sua proposta di legge per la nazionalizzazione della rete
ferroviaria; a tal proposito egli disse che “le strade ferrate d’interesse nazionale
debbono essere proprietà dello Stato, ed esercitate dallo Stato”. Questa legge, per
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effetto dell’opposizione dei deputati toscani, causò la caduta del governo di
Destra (18 marzo 1876) e l’ascesa della Sinistra con il governo Depretis. Dopo le
iniziali difficoltà col nuovo governo, causate principalmente dall’avversione di
uno dei più decisi nemici della destra, Giovanni Nicotera, Spaventa continuò a
ricoprire il ruolo di deputato fino al 1889 quando passò all’altro ramo del
Parlamento, il Senato, con la nomina di Senatore del Regno.
Silvio Spaventa criticò il trasformismo politico dei partiti, espresso in quegli anni
dal Depretis e dai suoi seguaci, che aveva come scopo la formazione di
maggioranze di governo allargate a gruppi politici eterogenei dal punto di vista
politico. A questo sistema egli opponeva un sistema politico bipartitico sul
modello di quello inglese basato sull’avvicendamento e la critica costruttiva da
parte del partito di opposizione.
Il suo pensiero politico trovò espressione in un celebre e significativo discorso
sulla
giustizia
nell’amministrazione,
pronunciato
il
7
maggio
1880
all’Associazione Costituzionale di Bergamo, in cui egli sosteneva il “dovere
dello Stato di garantire a tutti i cittadini, qualunque fosse il partito al potere, la
giustizia nell’amministrazione pubblica”. Lo Stato deve essere forte ma non
autoritario, deve essere garantista e capace di guidare la nazione verso il bene
comune. Il fine dello Stato e perciò dello statista moderno è “accrescere la civiltà
e la moralità degli uomini”. Per tutto questo è necessario, secondo Spaventa,
tenere distinta la sfera politica da quella amministrativa. A tal fine egli sosteneva
la necessità di un organismo con funzioni di controllo sulla legittimità dei decreti
e dei provvedimenti pubblici.
Francesco Crispi, allora capo del governo, riconobbe l’intuizione del suo
avversario politico e fece istituire, tramite legge (2 giugno 1889), la IV sezione
del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali e con competenza generale
sulle controversie tra le autorità ed i privati, che fino ad allora erano devolute alla
magistratura ordinaria. Questo nuovo organo dell’amministrazione aveva il
dovere di ispezionare sull’amministrazione stessa.
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A quell’atto normativo generalmente si fa risalire la nascita del sistema della
doppia giurisdizione (ordinaria ed amministrativa), tuttora vigente in Italia. Lo
stesso Crispi volle nominare Silvio Spaventa presidente del nuovo organismo. A
quest’attività lo Spaventa dedicò gli ultimi anni di vita, emanando sentenze
famose che ancora oggi fanno testo e creando la giurisprudenza della giustizia
amministrativa, fino ad allora inesistente in Italia.
Intanto una malattia agli occhi lo aveva privato del piacere della lettura e gravi
problemi di salute gli resero sempre più difficile una partecipazione attiva ai suoi
incarichi politici ed istituzionali.
Negli ultimi anni tenne la presidenza dell’Associazione Abruzzese, fondata nel
1886, che si proponeva di riunire gli abruzzesi dimoranti a Roma e di riallacciare
i rapporti tra l’Abruzzo e Roma all’indomani dell’unità d’Italia.
Seppure egli aveva vissuto gran parte del suo tempo fuori regione, rimase sempre
molto legato alla sua terra natale, di cui fu sempre orgoglioso, come emerge dalle
parole di un suo discorso: “Italiano innanzi tutto per educazione e per mente, io
sono orgoglioso di custodire nel cuore un cantuccio, dove non mi sento che
abruzzese. È un orgoglio non smisurato, perché viene solo da un’idea di certe
modeste qualità della nostra stirpe, cui l’altezza delle montagne, in cui vive,
impedì che degenerasse anche sotto il più barbaro servaggio. (…) Ora questa
coscienza del proprio sangue e del luogo natio è una forza morale, che giova
conservare anche in seno della grande patria che ci abbiamo acquistata”.
La sua morte avvenne a Roma nel giugno del 1893. A lui furono riservati
funerali di Stato.
Sembra parlare anche di sé Spaventa quando in uno dei suoi discorsi così parla
del Risorgimento italiano: “Quanta meraviglia di eventi nel periodo storico del
Risorgimento italiano, e in pari tempo quanti uomini! Grandiosi gli eventi, ma
uomini eguali se non maggiori degli stessi eventi. A ricostruire una nazione con
tutto il favore della fortuna, era d’uopo di avere uomini cosiffatti. (…) Nei ricordi
della loro vita sono raffigurate le vicende della patria; dalle loro virtù, dal loro
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carattere e dalle loro individualità emanarono le influenze che decisero dei nostri
destini. (…) Evocando quei ricordi, si rivive; perché si sente il palpito dell’Italia
in tutte le vicende della sua formazione e del suo compimento e in tutta la maestà
dei suoi dolori e dei suoi gaudi, nelle ansietà e nelle trepidazioni dei giorni
avversi, nella serenità e nei conforti dei giorni propizi, nei suoi timori e nelle sue
speranze; perché si contempla lo spettacolo di una nazione prostrata, che vuol
risorgere e che risorge”.
Opere
• Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti e documenti, pubblicati da Benedetto
Croce, Bari, 1923.
• Lettere politiche, edite da G. Castellano, 1926.
• La politica della Destra , scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce,
1910.
• Lo Stato e le ferrovie. Riscatto ed esercizio. Note presentate al
Parlamento italiano, Milano, 1876.
• Discorsi parlamentari, Roma, 1913.
Bibliografia
• Michelangelo Paglialonga, Spaventa Silvio, in “gente d’Abruzzo”,
Dizionario biografico, Andromeda editrice, Castelli (Te), 2007
• Giuseppe Capograssi, Il ritorno di Silvio Spaventa in Opere, Giuffré,
Milano, 1959
• Silvio Spaventa, Scritti e pensieri, Casa tipogr. Editr. N. De Arcangelis,
Casalbordino, 1922
• Paolo Romano, Silvio Spaventa, biografia politica, Laterza, Bari, 1942
• Raffaele Autunni, Dizionario Bibliografico della Gente d’Abruzzo, vol. III,
Cooperativa Tipogr. “Ars et Labor”, Teramo, 1952.
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