& SOCIETA’ SPETTACOLI CULTURA FIRENZE SPORT ■ XI MERCOLEDÌ 7 APRILE 2010 Il forum nella nostra redazione col musicista bolognese. Che parla di Gaber, Facebook e Sanremo Di come scrive i testi e sceglie le camice ma anche di elezioni e tv. Il 13 aprile è al Saschall Samuele Bersani “Racconti, musica e ironia il mio show senza trucchi” è chi gira con grandi orchestre. Con nani e ballerine. Lui no. Nell’era in cui tutti rincorrono l’idea di concerti Barnum da riempire con mille espedienti, Samuele Bersani preferisce togliere, «far ascoltare le canzoni come sono nate». Ieri il cantautore di Cattolica è stato ospite della nostra redazione, in vista del concerto del 13 aprile al Saschall, per incontrare i lettori: Bernardo Bandinelli, Alessandro Latini, Maria Leo, Daniela Martini, Rosanna Marrone, Patrizia Mazzocchi, Paola Micheletti, Edoardo Nofri, Veronica Pane, Carlo, Cosimo e Cesare Vanni, Giacomo Vivarelli. Un concerto ridotto all’osso. Come mai? «Perché non sono un ottimo ballerino. Scherzi a parte, non amo gli spettacoli troppo vicini alla tivù. A me piace che le canzoni vengano ascoltate, non ho una stylist che mi scelga gli abiti, dalla Dandini vado con la stessa camicia di tre anni fa. E poi volevo che stavolta la mia voce risaltasse di più: negli ultimi tempi l’ho molto curata. Attraverso l’uso smodato di sigarette e non tramite lezioni anche se, forse, sarebbe arrivato il momento di farlo: l’otorinolaringoiatra mi ha svelato che non so usare la respirazione quando canto. Il problema è che lo studio può snaturarti. In tivù vedo tutti questi bambini che a nove anni già cantano benissimo, e ho paura. Sono molto competitivi perché i genitori li incitano ad esserlo, e con violenza. In loro proiettano tutto ciò che, da piccoli, non hanno potuto fare». Nei suoi concerti lei si racconta molto. E’ tentato dal teatro canzone? «La prima cosa che cerco è di creare una situazione di intimità con chi viene ad ascoltarmi, e un canovaccio non mi aiuterebbe. Mi intristisce fare lo stesso concerto in ogni data. E, a differenza di Gaber, non so recitare: ci provo ogni tanto, ma mi sto antipatico da solo. Mi limito a intrattenere raccontando la quotidianità. Il teatro ha uno schema ferreo. Io sbrodolo». C’ ‘‘ La voce Volevo che risaltasse più di prima: negli ultimi anni l’ho molto curata, fumando come un matto... I maestri Sono molto legato a Battiato e De André ma voglio togliermi di dosso la pelle dell’orso del cantautore Che cosa significa fare il cantautore oggi? «I miei punti di riferimento sono Battiato e De Andrè ma voglio togliermi di dosso la pelle dell’orso del cantautore perché questo termine oggi è anacronistico. Credo di essere nato nel decennio sbagliato. Mi sarei sentito più a mio agio in un altro periodo storico, quando non c’era la cultura dell’ iPod, resisteva la voglia di ascoltare un album fino in fondo e le canzoni non erano numeri. Sono un eterno fuori posto. L’importante però è non arrivare ad avere paura degli altri». Lei è molto attivo su Facebook. Perché? «Innanzitutto perché prima che mi mettessi in gioco io, altri lo facevano a mio nome. Quindi ho preso la grande decisione. Poi perché Facebook fa parte dell’oggi: probabilmente, avrei usato questo social network anche se avessi fatto il maestro d’asilo. Mi piace ritrovare amici che avevo perso, mantenere un filo diretto con chi mi segue agli spettacoli. Di negativo c’è che Facebook non è altro che una protesi del proprio egocentrismo e una specie di collezione di figurine: all’inizio accetti l’amicizia di tutti, poi scopri che prima di te nella lista ci sono già Fabrizio Corona e Topo Gigio. In un momento in cui c’è così poca partecipazione mi piace che da una frase o da una foto sulla mia bacheca possa nascere una discussione». Una provocazione: a Sanremo fa più male la vittoria di Valerio Scanu o la partecipazione di Ema- Concerto al Verdi il 15 aprile Un’orchestra toscana per Renga con la musica degli altri I È sempre considerato un cantautore sui generis. «Il canto, a prescindere dalla scrittura, resta il mezzo con cui riesco a esprimermi meglio: troppo spesso l’ho piegato all’urgenza di spiegare qualcosa» dice Francesco Renga che con il suo tour insieme a un’orchestra di 35 elementi, toscanissima tra l’altro, l’Ensemble Symphony di Massa Carrara diretta da Giacomo Loprieno (il 15 il concerto approda al Verdi, ancora biglietti da 17,50 a 40 euro), mette in musica se stesso attraverso le canzoni di altri: «Sono pezzi italiani di quel decennio che va dal 1965 al ’75, che ho sempre ascoltato e che amo. Da Pugni chiusi di Demetrio Stratos a L’immensità di Johnny Dorelli e Don Backy. Ricantandoli prima S sul mio ultimo album e poi ora, dal vivo, riesco a dire molto di me, a svelarmi nell’intimo. E poi raccontano un’Italia differente, un Paese che si 1965-1975 Da quel decennio Renga prende pezzi di Stratos e Don Backy risollevava dal disastro della guerra, che conosceva il benessere attraverso il boom economico e che viveva una nuova serenità anche nella musica». Una fuga dal rock? «In realtà ogni cambiamento, nella mia storia di artista, non è stato cercato, ma ha rappresentato il frutto di un’evoluzione naturale. Una cosa è certa: in molti mi hanno detto che non sono mai stato centrato e a fuoco come in questo tour. Per quanto riguarda il passato rock, dietro l’aspetto rude e cattivo di quel Francesco Renga dai lunghi capelli che cantava con i Timoria, si nascondeva una grande fragilità. Oggi sono un uomo più ri- solto, ma sopravvive una mia metà oscura». E poi, confessa Renga, «questo progetto è nato 21 anni fa, quando rifeci per la prima volta Pugni chiusi: è vero che la melodia è nel dna di noi italiani, ma c’è stato un momento in cui l’inusuale mix tra rock e classica ci ha resi famosi all’estero, ben prima di Laura Pausini. Fu quando l’Italia si tuffò nel grande sogno del rock progressivo. In questa mia nuova avventura ho chiesto a Celso Valli, che ha riarrangiato tutti i pezzi, di far suonare gli strumenti dell’orchestra sinfonica come se fossero quelli di una rock band. Per questo ho voluto musicisti giovani, che si accostassero al progetto con un’attitudine tutta contemporanea». (f.p.) © RIPRODUZIONE RISERVATA nuele Filiberto? «La seconda. Scanu è la conseguenza di un fenomeno di costume che prima o poi si esaurirà, anche se oggi la discografia è nelle mani dei talent show. E pensare che un tempo i discografici erano una specie di padre eterno che non incontravi mai. Ora li vedi tutti i giorni in tivù a fare da motivatori, come tanti giornalisti. E gli emarginati dai talent: tristissimi. Ma il fenomeno Emanuele Filiberto è molto più grave: mi dà noia che la musica, specialmente in questo momento, faccia da cassa di risonanza a operazioni che hanno a che vedere con il pettegolezzo, la televisione del pomeriggio, annessi e connessi che alimentano un certo tipo di economia. Quello che temo per Sanremo è che gli artisti con una lunga storia alle spalle si allontanino sempre di più, si autoghettizzino per non confrontarsi con fenomeni di questo tipo». A ottobre compirà 40 anni. Bilanci? «Ho cominciato molto giovane, avevo 21 anni, pochi più di Chicco e spillo. Con l’età ho trovato un po’ più di serenità, sono finiti gli attacchi di panico. E faccio più sogni. Le migliori canzoni le scrivo di notte prima di addormentarmi: se ho pensieri pesanti sul cuscino, mi alzo, scrivo e torno a letto. I versi sono come il pane: se sono buoni, lievitano ed è bello, al mattino, rileggerli e rimarne sorpresi. Non c’è cosa più triste di avere una bella musica e riempirla di parole scritte non col cuore, ma con l’Iva». Cosa ha fatto il giorno delle elezioni? «Sono andato a votare, ho preso due treni nell’arco di tre ore: dopo aver scritto Lo scrutatore non votantenon potevo esimermi. Ma ho fatto grande fatica. Sono entrato nel seggio dieci minuti prima che chiudesse e ci sono stato un po’. Ma non voglio parlare di politica, negli ultimi anni ho dato un’immagine troppo politicizzata di me. E poi con il cognome che mi ritrovo...». (testo raccolto da fulvio paloscia e gaia rau) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Firenze