Collana “Quaderni di Diogene” diretta da Stefano Scrima Elio Rindone, Francesco Dipalo, Mario Trombino DIO E IL DIV INO Quante vie sono possibili in filosofia per sapere se Dio esiste e, se esiste, per sapere chi è? Il Giardino dei Pensieri “... comme un arbre de son jardin” Copertina e impaginazione: Jimmy Knows S.C.P., Barcelona (ES) L’immagine della copertina riproduce la chiesa e il convento di San Francesco a Leonessa. È opera di Maria Teresa Chiaretti www.deco.pittoriche.too.it ISBN 978-88-98227-35-8 © Edizioni del Giardino dei Pensieri di Mario Trombino Via Nadi 12, 40139 Bologna I edizione, gennaio 2014 INDICE 6 6 9 9 INTRODUZIONE AUGUSTO CAVADI Il perché e il come di questo “Quaderno” RELAZIONI ELIO RINDONE Dio, gli dèi e il divino alle radici della nostra cultura Le tradizioni religiose e filosofiche dell’Antichità e del Medioevo 66 MARIO TROMBINO Chi è Dio? La ricerca filosofica su Dio, nel suo rapporto col mondo e con l’uomo, nell’età della rivoluzione scientifica 103 FRANCESCO DIPALO Il divino dopo la morte di Dio Verso un nuovo concetto di spiritualità ecumenica nel mondo contemporaneo 154 TAVOLA ROTONDA CONCLUSIVA 155 Riccardo Apolloni, Sintesi delle relazioni 165 Intervento di Salvatore Fricano 171 Intervento di Mario Mercanti 176 NOTE INTRODUZIONE IL P ERCHÉ E IL COME DI QUESTO “QUADERNO” È dal 1983 che quasi ogni anno ci rifugiamo, per una o due settimane estive, in una bella località montana (dalla Verna al Passo delle Mendola, dal Monte Rosa a Erice…) per regalarci una pausa di silenzio, di riflessione filosofica, di confronto amichevole, di convivialità. La finalità è semplice: dare ad alcuni filosofi di professione la possibilità di incontrarsi con un gruppetto di filosofi per passione che nella vita quotidiana sono impegnati in altro (magistrati e operai, assistenti sociali o medici, imprenditori o maestre elementari…). Altrettanto semplici, essenziali, le modalità di svolgimento: un seminario dalle 9 alle 10,30 del mattino e un altro dalle 18,30 alle 20. Per il resto, tempo assolutamente libero: per leggere o passeggiare, meditare o fare turismo, chiacchierare al bar in compagnia o girovagare da soli in bicicletta. Ognuno di noi, insomma, vive con una propria intenzionalità e con una propria tonalità le ormai trentennali “vacanze filosofiche per non…filosofi”, accomunato agli altri partecipanti dall’interesse per il tema dell’anno: l’amicizia o il dolore, il 6 tempo o il linguaggio, l’amore o l’impegno politico e così via.1 Nell’estate del 2013 (più precisamente dal 24 al 30 agosto) il luogo prescelto è stato Leonessa, accogliente località turistica del rietino, e “il divino al vaglio della filosofia” la tematica proposta. Più d’una persona che non ha potuto partecipare all’esperienza ci ha chiesto di recuperare, per quanto possibile, i contenuti veicolati. Da qui l’idea del volumetto che avete in mano e che, per ovvie ragioni, restituisce solo i testi su cui si sono basati i tre ‘facilitatori’ (o, secondo i casi, ‘complicatori’) per impostare la conversazione collettiva a ogni incontro: la ricchezza dei vari interventi estemporanei dei trenta partecipanti all’iniziativa è stata salvata, e restituita, solo in parte grazie ai brevi resoconti che chiudono il libretto. Come si evince dalle tre relazioni che state per leggere, il filo seguito è stato storico e teoretico a un tempo. Elio Rindone (grazie alla sua doppia formazione filosofica e teologica) ha lumeggiato l’idea del divino presso i Greci, nella tradizione ebraico-cristiana e, infine, nel Medioevo, riportando con fedeltà le “vie” tomistiche dal mondo a Dio senza tacere le sue riserve sulla affidabilità razionale di tali “vie”. Mario Trombino si è concentrato sulla pretesa della Modernità di trattare la questione di Dio con i metodi e gli strumenti euristici della razionalità umana, a suo avviso inscindibilmente scientifica e filosofica, come dimostrerebbero i testi di Newton, Cartesio, Spinoza e colleghi. Una pretesa irrinunciabile perché, quando si abbandona la ragione come facoltà per pronunziarsi sul divino, dall’ambito proprio del pensiero filosofico si scivola nel sociologismo o nello psicologismo. Non si parla più se Dio ci sia o meno, ma solo se l’uomo – come collettività o come individuo – ne avverta o meno il bisogno interiore. Feuerbach, Nietzsche, Sartre, Wittgenstein sono alcuni degli autori che – secondo Francesco Dipalo – hanno destrutturato ogni pretesa, antica e moderna, di attingere il divino mediante analisi concettuali e dimostrazioni argomentative: così facen7 do, hanno non solo seppellito per sempre una certa idea di Dio come Essere supremo, ma anche – quasi mai intenzionalmente – spianato il terreno per nuove prospettive religiose in cui alla dimensione dogmatica e istituzionale subentra, un po’ come nelle sapienze orientali quali il buddhismo, la centralità dell’esperienza interiore e della prassi quotidiana ‘laica’. Pleonastica l’osservazione conclusiva: questi sei giorni son serviti più a riaprire nell’intelligenza e nell’animo dei partecipanti la questione del divino che a definirla, in positivo o in negativo. Ciò è molto in sintonia con “lo spirito del tempo” che, spazzate le certezze granitiche dell’Ottocento, sembra concedere solo la possibilità o di una fede inquieta o di un’inquieta miscredenza. Augusto Cavadi www.augustocavadi.com 8 ELIO RINDONE DIO, GLI DÈI E IL DIVINO ALLE RADICI DELLA NOST RA CULT URA: LE TRADIZIONI RELIGIOSE E FILOSOFICHE DELL’ANTICHITÀ E DEL MEDIOEVO Esiste Dio? E, se esiste, chi o che cosa è? Ancor prima di tentare di rispondere a tali domande, sembra però inevitabile chiedersi: ha senso porre la questione oggi, in una società che da tempo si sente ormai adulta, rivendica la propria autonomia da forze superiori e considera le tradizioni religiose un fenomeno residuale? Domanda senz’altro pertinente, quest’ultima, perché almeno nel mondo occidentale sembra che si possa benissimo fare a meno di Dio. Milioni di uomini e donne non credono più in un Dio che interviene realmente nelle loro vite, “che assiste e provvede a compensare delle innumerevoli ingiustizie e sofferenze che ciascuno sa o ritiene di aver subito. Un Dio che amministra in modo misterioso le vicende della storia degli uomini, riservandosi di ristabilire la giustizia continuamente violata, di risarcire gli oppressi togliendo a chi ha avuto troppo per dare a chi invece ha sofferto ogni privazione. Un Dio che rimunera chi è afflitto da troppo dolore senza perché. […] [Que9 sta fede diffusa] da secoli di tradizione cristiana, tanto nei suoi aspetti nobili (di indignazione per la sofferenza di troppi, per lo più in assenza di qualsiasi colpa, almeno di gravità proporzionata alle pene), quanto, viceversa, nei suoi aspetti troppo umani (volontà di rivalsa nei confronti degli uomini, attitudine rivendicativa nei confronti di Dio stesso, sottoposto a giudizio per la mancata assistenza alle proprie creature, in particolare alle più deboli)”2 è irrimediabilmente in crisi. È vero: nonostante momenti di rinascita religiosa troppo spesso enfatizzati, l’idea stessa di Dio sembra aver perso diritto di cittadinanza nel sentire comune e ancor più nel mondo della cultura. E tuttavia credo che anche oggi sia possibile e addirittura necessario interrogarsi su Dio, perché si tratta di una questione ineludibile, quale che sia la risposta che si potrà dare. Se si vuole vivere con consapevolezza la propria vita, infatti, come non chiedersi se la realtà ha un senso, e quale questo possa essere e per che cosa in ultima analisi valga la pena vivere? È proprio per designare questo senso ultimo della realtà che tradizionalmente è stato usato il termine ‘Dio’3, e la ricerca di tale senso è un’esigenza attuale oggi come ieri. Censurare la domanda di senso, rinunciando a interrogarsi su Dio, sarebbe perciò una scelta razionalmente ingiustificata, segno d’incredibile superficialità: “che ne è di Dio è domanda che la filosofia non si può scrollare di dosso come un abito dismesso, solo che abbia memoria di quanto intrinsecamente l’esperienza e la ricerca di Dio abbiano segnato il suo riprendere di epoca in epoca le proprie interrogazioni”4. Se le cose stanno così, può essere di estremo interesse fare il punto sullo stato della questione, cominciando dall’antica Grecia per passare poi alla cultura ebraica e a quella medievale. La scelta degli argomenti mi sembra imposta dall’oggettiva rilevanza che hanno avuto per la civiltà occidentale sia la cultura greca che la tradizione biblica e la teologia cristiana. 10 1. IL MONDO GRECO Cosa s’intende con la parola ‘Dio’? Se vogliamo comprendere qualcosa del mondo greco, dobbiamo anzitutto mettere tra parentesi l’idea che, credenti o meno, riceviamo dal nostro ambiente culturale: quella del Dio cristiano. È indispensabile, poi, ricorrere all’indagine etimologica per risalire alle esperienze originarie che mediante quella parola hanno trovato espressione. L’italiano ‘Dio’, come il latino ‘Deus’ (e ‘dies’ = giorno) e il greco ‘Zeus’ (Djeus, al genitivo Diòs), deriva dalla radice ariana ‘DIV’, che significa ‘splendere’, ‘brillare’. L’esperienza primaria, variamente elaborata poi dalle differenti tradizioni religiose, è dunque quella della luce: lo splendore del cielo, il chiarore del giorno che dà gioia e sicurezza, liberando dall’oscurità delle tenebre notturne 5. Questa stupefacente esperienza, cui si aggiungono, da una parte, l’ammirazione per l’ordine dell’universo e il timore provocato dalla sproporzione tra le forze della natura e la fragilità umana, e, dall’altra, l’esigenza di dare una risposta alla domanda sul senso della realtà e della vita umana, è all’origine in Grecia non solo della fioritura di una sapienza poetico-religiosa di eccezionale profondità ma anche della creazione di quella rigorosa indagine razionale che va sotto il nome di filosofia. 1.1. La sapienza poetico-religiosa Il mondo, di cui l’uomo fa parte, si presenta con una sua stabilità ma, nello stesso tempo, è caratterizzato da continue trasformazioni. Ovvia, quindi, la domanda: la realtà è stata sempre così? No, risponde la tradizione mitologica: il mondo non è stato sempre come lo vediamo oggi, ma è il frutto di un lungo travaglio. Così attesta il racconto più antico giunto sino a noi, quello di Esiodo che agli inizi del VII secolo a. C. scrive sull’ar11 gomento un poema di mille versi: la Teogonia. Può sembrare strano che in un poema che narra la cosmogonia, la formazione del mondo, si parli di teogonia, della nascita degli dèi. Il fatto è che per gli antichi Greci il mondo e gli dèi non sono realtà distinte: il mondo stesso è un tutto divino. All’origine è il Caos Il punto di partenza di questa complessa vicenda è dunque, per il poeta ispirato dalle Muse6, qualcosa d’informe, di oscuro e disordinato: “prima nacque il Caos” (v. 116). Questa divinità, una sorta di buco nero privo di caratteristiche personali, ‘nasce’ non si sa come e perché, così come non si spiega come “poi [nascano] Gaia dall’immenso seno […] e il buio Tartaro, sotterraneo grande di tetre gallerie, ed Eros, che è il più bello fra gli dei immortali” (vv. 116-120). Non bisogna dimenticare, è ovvio, che siamo nel mondo del mito e non avrebbe senso pretendere dimostrazioni di ordine razionale. La seconda divinità è dunque Gaia, la madre terra, stabile e solida, su cui si muoveranno gli uomini e gli dèi, che ancora non sono stati generati. La terza divinità è il Tartaro, un luogo d’impenetrabile oscurità, in cui saranno relegati, quando ci saranno, gli dèi che si abbandonano alla cieca violenza e che saranno sconfitti dopo una terribile lotta. La quarta è Eros, l’amore, la primordiale forza cosmica da cui si sprigiona la vita, da non confondere col giovane Eros che susciterà la passione amorosa tra gli dèi e gli uomini. Da Urano a Crono Forse sotto l’impulso di Eros, Gaia genera da sola nuove divinità: “prima di tutto Gaia diede vita al suo simile, Urano stellato, perché tutta l’abbracciasse, e fosse per sempre dimora incrollabile per gli dèi beati; generò i bei Monti elevati, dove amano restare le divine Ninfe, che abitano fra i monti scoscesi; generò anche il mare mai stanco, che si agita e ribolle” (vv. 126-131). 12 Il mondo come lo conosciamo comincia così a prendere forma, ma la convivenza tra queste entità naturali, e a un tempo divine, non è per nulla pacifica. Urano, il cielo stellato, non è infatti distante dalla terra ma incombe su di essa: sembra non avere altri interessi al di fuori del coito, e da questi incessanti accoppiamenti nascono sempre nuovi figli. Temendo di essere spodestato da uno di questi, Urano dunque resta sempre appiccicato a Gaia, che è costretta così a tenere i figli nel proprio grembo. Per liberarsi dell’opprimente presenza, Gaia allora fabbricò una falce affilata e la diede all’ultimogenito Crono, il tempo, che “in un istante dal caro padre staccò il genitale” (vv. 180181). Urlando per il dolore, Urano si allontanò allora dalla terra, cosicché questa può ora portare alla luce i suoi figli. Si crea così sulla terra uno spazio abitabile e ha inizio una successione temporale che scandisce la serie degli eventi. Gli dèi dell’Olimpo Crono non è ossessionato dal piacere sessuale ma dal desiderio di conservare il potere. Si unisce, infatti, a una delle sue sorelle, Rea, ma, “avendo saputo da Gaia e da Urano stellato quello che era fissato per lui, per quanto forte fosse, che uno dei figli lo avrebbe sottomesso” (vv. 463-465), si affretta a divorarli subito dopo che sono stati generati. Rea, allora, ricorre all’inganno: nasconde l’ultimo nato, Zeus, e al suo posto fa inghiottire a Crono una pietra avvolta nelle bende. Divenuto un giovane di grande forza e bellezza, Zeus può ora affrontare Crono, che intanto, con uno stratagemma, era stato costretto a sputare “fuori i suoi nati” (v. 496). Con l’aiuto di fratelli e sorelle egli sconfigge in un memorabile scontro, che rischia di rigettare il mondo nel caos, Crono e gli esseri più o meno mostruosi che lo sostengono, rinchiudendoli nel Tartaro. Zeus è ormai il padre degli uomini (generati, secondo alcune tradizioni, anch’essi dalla terra) e degli dèi, garante dell’ordi13 ne dell’universo. Pur continuando a identificarsi con le forze della natura, gli dèi, che hanno ora la loro dimora sull’Olimpo, acquistano sempre più caratteristiche personali. Accanto a Zeus, signore della folgore e del tuono, troviamo la sua sposa, Era, protettrice della famiglia, Estia, dea del focolare, Demetra la dea delle messi e delle stagioni, Ade, che regna sul Tartaro, Poseidone, il dio dei mari, Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore, Efesto, il dio degli artigiani, Ares, il dio della guerra brutale, Atena, la dea della saggezza e della strategia militare, Apollo, il dio dell’intelligenza e della bellezza, Artemide, la dea della caccia, Ermes, il messaggero degli dèi e protettore degli imbroglioni, e infine Dioniso. Il ruolo di Zeus Per comprendere meglio la visione esiodea del cosmo è necessario soffermarsi un po’ su Zeus e Dioniso. Prima di Era, Zeus ha sposato Meti, dea dell’astuzia e della saggezza, ma, temendo di essere spodestato da uno dei figli che nascerà dal loro amore, ingoia la moglie (intanto Meti aveva concepito Atena, che nascerà quindi dalla testa del padre). Zeus, dunque, non sarà detronizzato e il suo potere non avrà fine perché ispirato a quella saggezza che egli ha incorporato ingoiando Meti. Ma Zeus ha sposato anche Temi, l’irremovibile dea della giustizia, che lo aiuterà a creare e a mantenere un ordine cosmico armonioso ed equilibrato. Dalla loro unione nasce Dike, che ristabilisce con la giusta punizione l’ordine violato dal delitto. L’insegnamento della mitologia è chiaro: “non è possibile essere il re degli dèi e il padrone del mondo soltanto con la forza bruta”7. Un potere stabile, per garantire l’ordine, la bellezza e la bontà del cosmo, deve fondarsi su saggezza e giustizia8. Dioniso: una divinità impresentabile Dioniso è figlio di Zeus e, unico tra gli dei dell’Olimpo, di una donna mortale, Semele: del resto sono innumerevoli le avven14 ture extraconiugali di Zeus. Semele è stata incenerita perché ha chiesto insistentemente a Zeus di mostrarsi in tutto il suo splendore e un mortale non può resistere a tale vista; ma Zeus strappa il feto dal corpo che sta bruciando e lo rinchiude nella propria coscia, che farà da utero. Dioniso, il dio del vino e dell’orgia sfrenata che inducono a gesti di efferata crudeltà e sadismo, è sentito come uno straniero nelle città della Grecia: accompagnato da un festoso corteo di Satiri, Baccanti e Sileni, regolarmente ubriachi, vi porta dolore, disordine e morte. Com’è possibile che un tipo così poco raccomandabile sia annoverato tra gli dei dell’Olimpo? Probabilmente il mito vuole ricordare che l’ordine del cosmo implica necessariamente una parte di disordine: mortali e immortali, saggezza e follia, gioia e dolore, cittadini e stranieri sono inscindibilmente presenti nel mondo. Il negativo ha una sua funzione e non può essere eliminato del tutto, ma deve essere contenuto. L’ordine cosmico, in effetti, è fragile e richiede continua vigilanza perché non prevalga il caos. I mortali La varietà e la completezza dell’universo implicano dunque, accanto agli dèi immortali, anche la presenza degli uomini, i mortali. Questi, narra sempre Esiodo in un altro suo poema, Opere e giorni, all’inizio vivevano, banchettando assieme agli dèi, una vita felice: senza lavorare, esenti da sofferenze e malanni, alla fine si addormentavano dolcemente nel sonno della morte, divenendo demoni e continuando a vivere come benevoli custodi degli uomini9. Va detto, però, che mentre ci sono dee immortali non ci sono per ora donne mortali ma solo maschi. Ma perché si passa, attraverso una serie di fasi alterne, dalla condizione felice dell’età dell’oro all’attuale età del ferro, caratterizzata da fatica, sofferenza, ingiustizia, violenza, malattia e morte? Perché – secondo Esiodo – gli uomini non accettano il posto loro assegnato: si ribellano all’ordine cosmico, non ri15 spettano la giustizia, si abbandonano all’hybris, alla dismisura orgogliosa. Proprio quest’atteggiamento di tracotanza, che porta gli uomini a misconoscere i propri limiti e a sfidare le forze divine della natura, è per i Greci l’origine di tutti i mali, perché esso rischia di riportare il cosmo al caos iniziale. A causa dell’hybris umana, quindi, gli dèi si ritirano ormai stabilmente sull’Olimpo e Zeus decide di punire gli uomini servendosi di uno strumento che li trarrà in inganno affascinandoli con le sue attrattive: la donna. Invia loro, quindi, Pandora, la prima donna appunto, che, aprendo per la sua sciocca curiosità l’orcio in cui stavano rinchiusi, sarà causa d’infiniti mali10. Ora, infatti, uomini e donne nasceranno dall’unione sessuale, conosceranno sofferenza e malattia e saranno davvero mortali; i primi dovranno inoltre affrontare la fatica del lavoro per soddisfare i desideri insaziabili delle loro mogli. Non dal nulla all’essere ma dal Caos al Cosmo Se ci fermiamo ora a riflettere sulla narrazione esiodea, possiamo mettere in luce alcune caratteristiche essenziali della visione greca della realtà. Il primo aspetto da evidenziare è il seguente: per gli antichi Greci l’esistenza del mondo è un fatto. Non si chiedono perché la realtà esiste11 ma perché è così come la vediamo oggi. Il mondo attuale è il frutto di una serie di trasformazioni ma, per quanto indietro si possa risalire, non si trova un principio primo. Per Esiodo, infatti, anche il Caos, come abbiamo visto, ‘nacque’. Cosa c’era prima di quest’oscura voragine, da cui deriva il mondo che conosciamo, non riusciamo a immaginarlo e neanche le Muse ce lo dicono: il sapere umano non può varcare questo limite. Va inoltre rilevato che il divenire dell’universo ha una direzione ben precisa: si può dire che c’è una tensione finalistica per cui si passa dal disordine all’ordine, dal Caos al Cosmo. Il trionfo dell’ordine, però, è il prodotto non dell’azione di un essere in16 telligente che guida tutto il processo ma di una lotta feroce, in cui domina una cieca necessità, tra potenze che si scontrano fra loro. È un fatto, tuttavia, che l’ordine riesca a prevalere sul disordine, tanto che, una volta realizzato l’equilibrio tra i vari elementi, questo, per quanto fragile, è in grado di conservarsi in maniera stabile e duratura, mentre la pura violenza è definitivamente sconfitta. Che significa theos? Gli elementi, poi, che costituiscono il mondo della natura sono, per la tradizione mitologica, ‘dèi’. Ma cosa significa ciò? Il termine theos, la cui etimologia è incerta, sembra che all’inizio indicasse un’esperienza particolarmente intensa, fuori dall’ordinario: “Pronunciare il termine theós equivaleva a dire: ‘Ecco qui, proprio qui c’è Dio’. Originariamente theós, lungi dal designare un’entità, indicava un accadimento. E allora Dio ‘chi’, ‘che cosa’? Appunto: la fonte che disseta, il fiume che lava e trascina, Dio è il mare in cui si naviga, tempestoso, calmo, navigabile, pescoso, ma anche distruttore di navi, soprattutto inesplorato, infinito”12. In quest’ottica, ovviamente, tutti i fenomeni naturali sono divini: gli alberi, i monti e soprattutto il cielo, contemplando il quale l’uomo è profondamente compreso di timore, per la sua incolmabile distanza, e di ammirazione, per il moto perfettamente regolare degli astri. Non è un caso, perciò, che proprio il cielo luminoso sia identificato con la divinità suprema, Zeus, parola che deriva, come abbiamo già ricordato, dalla radice ariana ‘DIV’, che significa ‘splendere’, ‘brillare’. L’esperienza della luce che scaccia le tenebre è appunto quella che, per antonomasia, viene percepita come divina. Divinità antropomorfe Ciò non toglie che anche le esperienze umane possano essere singolarmente intense, uscire dalla banalità del quotidiano ed 17 essere, perciò, qualificate come divine. Come le sorgenti o i venti, pure la guerra o l’amore – abbiamo visto – sono divinità: Ares e Afrodite13. E non solo i sentimenti umani14 ma anche manufatti, come templi o statue, che suscitano forti emozioni per la loro bellezza perfetta sono non simboli del divino ma divini essi stessi15. E quanto più l’uomo fa esperienza di sé, tanto più attribuisce agli dèi caratteristiche personali. Insomma, divino “è il mondo nel suo contenuto essenziale, la totalità delle forze in esso operanti”16, la vita nella varietà delle sue forme, che certo “non si cura delle leggi della morale umana”17. Acqua e fuoco, mondo vegetale e animale, uomini e dèi sono espressioni di questa inesauribile energia vitale18. L’espressione più perfetta è costituita ovviamente dagli dèi, che “si manifestano realmente in forma umana: era questa, infatti, l’unica forma esteriore, propria di un essere vivente dotato di spirito, che si conoscesse, e ingenuamente la si trasferiva anche a quella divinità che, di norma, è sottratta ai nostri sensi”19. Gli uomini, gli dèi e il fato L’esistenza degli dèi, quindi, per gli antichi greci non va dimostrata e neanche creduta per fede, ma è oggetto d’immediata e diretta esperienza20. È evidentemente impossibile, infatti, mettere in dubbio lo spettacolo del mare in tempesta, con cui si identifica Poseidone, o i turbamenti del delirio amoroso, con cui si identifica Afrodite. Esseri eccelsi e immortali, gli dèi intervengono nelle vicende umane e sono incomparabilmente kreittones, più forti degli uomini, i quali devono onorarli e rendere loro un culto adeguato per assicurarsi la loro benevolenza o per placare la loro ira. Ma, seppur degni di venerazione, sono sempre congiunti agli uomini dalla comune origine: come i mortali, anch’essi infatti nascono dalla Terra. Come non c’è un abisso incolmabile tra gli alberi e gli uomini, così non c’è tra questi e gli dèi. Un’ultima notazione sulla religiosità olimpica: il cosmo è retto 18 da leggi immutabili, e stolto sarebbe il tentativo di cambiare il corso degli eventi. Un ordine necessario regge l’universo, più forte non solo degli uomini ma anche degli dèi: il fato, le Moire nel linguaggio del mito, “è superiore perfino agli immortali”21. Alle gioie si accompagnerà sempre un inevitabile carico di dolori, perché il negativo, come abbiamo visto, fa parte anch’esso della realtà naturale. Liberi da vane illusioni, poeti e pensatori hanno detto più volte che per gli uomini sarebbe meglio non esser mai nati e, se nati, al più presto scendere nella tomba. Eppure i Greci amano appassionatamente la vita22, tanto che attribuiscono alle ombre che soggiornano nell’Ade un costante rimpianto di essa. Saggezza per l’uomo è, dunque, accettare il proprio posto nel mondo sapendo che una vita beata è esclusivo privilegio degli dèi. Questo è il senso del motto inciso sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: Conosci te stesso. È l’invito a trovare il proprio luogo “in seno al grande Tutto e soprattutto a restarci, a non peccare mai di hybris, arroganza e dismisura”23. Le religioni misteriche Bisogna però aggiungere, per completare la nostra analisi, che la Grecia ha conosciuto anche un’altra religiosità, tanto diversa da quella olimpica da essere sempre avvertita come straniera anche quando avrà una larga diffusione: la religiosità dei misteri. Questa, in particolare la tradizione orfica su cui è qui opportuno soffermarsi seppur brevemente, avrà sulla filosofia un’influenza non minore di quella olimpica. Conosciamo poco la dottrina di queste sette misteriche, perché caratterizzate dalla segretezza. Gli iniziati, infatti, erano obbligati a non rivelarne i contenuti, e il termine ‘mistero’ deriva proprio dal verbo myein che significa ‘tacere’. Possiamo però affermare con certezza che la cosmogonia orfica si allontana da quella esiodea, con cui pure ha alcuni punti di contatto, su una questione decisiva: la natura dell’uomo. 19 Secondo il mito orfico, infatti, la generazione degli uomini fu preceduta da quella dei Titani, astuti e crudeli figli di Urano e di Gaia, che uccidono un fanciullo divino, Dioniso (che non è per gli Orfici il dio della frenesia orgiastica dei misteri dionisiaci ma un divino maestro di saggezza), e ne divorano le membra dopo averle arrostite. Zeus, per punirli, li incenerisce col suo fulmine e da quelle ceneri nasce il genere umano. Gli uomini, dunque, sono un misto di bene e di male: da una parte conservano le malvagie inclinazioni dei Titani e dall’altra custodiscono in sé una particella del divino Dioniso, di cui quelli si erano nutriti. Essi sono, perciò, eredi di un crimine precedente, che causa nuove colpe e che deve essere espiato attraverso le sofferenze che accompagnano una lunga serie di reincarnazioni. Solo sottoponendosi a una dura ascesi l’anima, liberatasi dall’impurità corporea, potrà sottrarsi al “ciclo aspro e terribilmente doloroso” di nascita e morte, di cui parla una delle piccole lamine d’oro poste dagli orfici in mano ai loro defunti, e raggiungere la piena beatitudine. L’orfismo elabora quindi un’immagine dell’aldilà come luogo di premio e di punizione, in cui quelli che hanno raggiunto la piena purificazione fruiscono della mistica identificazione con la divinità, mentre chi ha disobbedito a tale imperativo etico-religioso soffre i più crudeli tormenti. L’antropologia orfica Ci troviamo – è chiaro – di fronte a un’antropologia fortemente dualistica, caratterizzata dalla contrapposizione tra un mondo materiale, identificato col male, da cui l’anima deve liberarsi per unirsi con una non meglio precisata divinità. E si tratta di un’identificazione ‘mistica’, di cui appunto non si può dire nulla: il termine ‘mistico’ deriva infatti sempre da myein e quindi designa qualcosa di indicibile, incomunicabile. È evidente, a questo punto, la distanza che separa la visione olimpica della realtà, e di conseguenza del senso della vita 20 umana, da quella orfica. Per la prima, il ciclo della natura comprende ugualmente nascita e morte, gioia e dolore, e nessun giudizio negativo grava sulla materia animata e vivente. L’uomo è parte del grande Tutto, che ha i suoi ritmi immodificabili, cui è impensabile sottrarsi. La vita, perciò, era in quest’ottica “insanabile, da accettare qual era, nella sua malignità e nel suo splendore. Si poteva solo desiderare di mantenersi ancora per qualche momento sulla cresta del flutto, prima di ricadere nell’ombra del ripido gorgo”24. Nella concezione orfica, invece, l’uomo, o almeno l’elemento divino che è in lui, l’anima, aspira a una vita più vera, del tutto libera dal dolore e dal male che sulla terra sono ineliminabili. La materia esiste, certo, ma è qualcosa di negativo e viene contrapposta all’anima, una sorta di demone che da essa tende a liberarsi. Va detto subito che la filosofia non rifiuterà questa prospettiva, intrecciandola in qualche modo con quella olimpica. Anzi, “sottrarsi all’esistenza come a un fardello e a una colpa, questo dogma fondatore degli Orfici venne trasmesso più dallo stile di Platone che dalle formule degli adepti”25. 1.2. La riflessione filosofica Intorno al mondo e al divino i primi filosofi si pongono le stesse domande della tradizione mitologico-religiosa, e le loro risposte sono ovviamente influenzate da quella. Ciò non toglie, però, che ci siano profonde differenze. Infatti, per comprendere la realtà, con le sue apparenti contraddizioni – il permanere di una totalità che non vien meno nonostante le continue trasformazioni delle sue parti – i filosofi, grazie alla libertà di cui godono 26, possono abbandonare il linguaggio delle immagini e il ricorso a divinità antropomorfiche, propri del mito, e affidarsi solo all’esperienza sottoposta al vaglio rigoroso della ragione27. 21 La natura e il divino I primi filosofi, comunemente detti naturalisti o presocratici, spiegano e riconducono all’unità la molteplicità e il divenire dei fenomeni che si offrono alla nostra esperienza mediante il concetto di physis, che i latini tradurranno con natura: un principio che fa nascere e crescere le varie realtà. Ciò che vediamo, ad esempio il mondo vegetale, è in continua trasformazione: le piante nascono da un piccolo seme, crescono sino all’attuazione delle loro possibilità e poi cedono il posto ad altre della stessa specie28. Ciò è possibile perché evidentemente c’è una forza generatrice, la natura appunto, che permane e che è all’origine di questo incessante rinnovarsi della vita29. Il concetto di natura, dunque, è per i Greci la chiave che da sola, senza ricorso a forze a essa estranee, apre le porte della comprensione della realtà30. In questo concetto unitario di physis, infatti, “la prima speculazione filosofica greca cerca non soltanto il centro di raccoglimento e sintesi della sparsa e caotica molteplicità fenomenica ma ancor più il principio permanente, di fronte alla mutazione e instabilità di tutte le cose”31. Questo principio che permane al di là del divenire, questa forza generatrice che mai viene meno è per i filosofi qualcosa di divino: “nei naturalisti presocratici il concetto di natura (physis) non si scompagna da quello del divino (to thèion); ma con esso anzi appare tuttora scambiarsi, come con concetto equivalente”32. E questa identificazione del divino col principio immanente che dà vita a tutte le cose resterà una caratteristica essenziale della visione greca del mondo33. Divina, dunque, è la natura stessa, principio di vita che pare eterno e indistruttibile, perché si perpetua attraverso le successive generazioni delle cose che da essa derivano: la physis, fonte inesauribile di vita, quindi “non vien concepita mai quale natura naturata [insieme dei fenomeni naturali], ma sempre quale natura naturans [forza generante], da tutti i filosofi che riconoscano i fenomeni e si propongano di spiegarli”34. 22 Poiché, inoltre, il mondo appare retto da un ordine immutabile – basta osservare l’immodificabile moto degli astri e il regolare succedersi delle stagioni – è ragionevole attribuire alla natura divina un moto necessario che escluda la casualità: “l’idea del divino conduce all’idea di una legge di ordine necessario e giusto inerente a tutta la natura: la physis, appunto perché identica al to theion, non è soltanto potenza di vita, di generazione e di nutrizione, che potrebbe per sé stessa essere anche pensata priva di regola e di legge, ma è dotata invece di una intrinseca necessità”35. Talete e Anassimandro Questa idea, che il mondo stesso sia un tutto divino, sembra presente già nel primo dei filosofi di cui ci è stato tramandato il nome: Talete di Mileto (637-547 a. C.). A lui, infatti, è attribuita l’espressione: “il tutto è animato e insieme pieno di dèi” (Diels-Kranz 11 A 23). Ma è, questa, un’opinione comune a tutti i primi pensatori greci. Come in Esiodo cosmogonia e teogonia erano inseparabili, così ora sono inseparabili cosmologia e teologia36. L’intuizione mitologica che identificava il divino con le forze della natura resterà, infatti, alla base della speculazione filosofica, anche se, evidentemente, verificata alla luce dell’esperienza e tradotta in coerenti termini concettuali. Così, mentre Esiodo, senza preoccuparsi della coerenza logica, faceva derivare il mondo che conosciamo dal Caos, che però non era un vero principio perché esso stesso era stato generato, Anassimandro di Mileto (610-545 a. C.) invece pone come origine di tutte le cose l’apeiron, un infinito “da cui gli esseri hanno origine e in cui trovano la loro distruzione secondo necessità: essi, infatti, pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (DK 12 B 1). Per Anassimandro la natura è il principio ingenerato ed eterno che regge e governa con una legge ferrea il ciclo di ciò che nel tempo nasce e poi muore per confondersi di nuovo col tutto: 23 “è ciò da cui tutto ha origine e in cui tutto ritorna. È dunque l’inizio (arche) e la fine (teleute) di tutto ciò che esiste”37. Il mondo è un cosmo, come diranno i pitagorici, cioè un tutto armonico in virtù delle sue proprie leggi, senza che sia necessario ricorrere a una divinità, come lo Zeus del mito, che faccia trionfare ordine e giustizia. Anzi l’antropomorfismo delle divinità mitologiche sarà contestato duramente, com’è noto, da Senofane di Colofone (570-475 a. C.). Parmenide Ma le esigenze della ragione portano Parmenide di Elea (515450 a. C.) ancora oltre. Se il reale, e cioè questo mondo, è un tutto eterno, ingenerato e indistruttibile, esso non può che essere sempre identico a se stesso. Se mutasse, infatti, che cosa diverrebbe se non qualcosa d’irreale, un non essere? Ma il non essere non può esistere, e quindi non si dà divenire. Divino, dunque, è per Parmenide un mondo della natura immobilizzato e pietrificato, una physis che però non genera più nulla. Il tutto, infatti, non solo è ingenerato, come già insegnava Anassimandro, ma neanche può generare. Cosa potrebbe generare: o qualcosa che è o qualcosa che non è. Ma non può generare essere, perché l’essere è già, né può generare non essere, perché il non essere non è: quindi “giammai la forza della convinzione verace concederà che dall’essere alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere né perire gli ha permesso la giustizia, disciogliendo i legami, ma lo tien fermo” (DK 28 B 8). E tanti filosofi faranno propria l’identificazione parmenidea del divino con l’essere immutabile ed eterno. Ma allora che cos’è quel mondo molteplice e diveniente, quell’insieme di fenomeni che con la loro varietà e col loro fascino s’impongono alla nostra esperienza? Non è che apparenza, risponde Parmenide. Di fronte all’evidenza che s’impone alla ragione – solo l’essere è, mentre il non essere necessariamente non è – non ci resta che dubitare dei sensi: “tu da 24 questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina che io ti espongo” (DK 28 B 8). Platone La contrapposizione tra conoscenza sensibile e razionale la ritroviamo in Platone (427-347 a. C.). Anch’egli separa il regno dell’essere conoscibile mediante la ragione, che però – si badi bene – non è più come in Parmenide il mondo della physis, da quello del divenire, il mondo delle apparenze sensibili, delle cose materiali che nascono e muoiono. Vero essere, dunque, è quella trama razionale, quel mondo di essenze eterne, immutabili e perfette che solo l’intelligenza può cogliere: è l’anima, infatti, che “contempla la giustizia in sé, la temperanza, la scienza: ma non quella legata al divenire, né quella che varia secondo le diverse cose che noi chiamiamo esseri, ma quella che ha come oggetto l’essere che realmente è”38. Il mondo sensibile, dunque, viene irrimediabilmente depotenziato da Platone. Non è più la natura naturans, il tutto divino di cui parlavano i filosofi naturalisti, e tuttavia non è neanche il nulla: non è semplice illusione ma possiede una sua consistenza. Platone ammette infatti, accanto al vero essere, e cioè quello immutabile, una realtà molteplice e diveniente: qui una cosa non è un’altra (un tavolo non è una sedia) e può cambiare (una sedia può diventare cenere). Tavolo, sedia, cenere sono cose diverse, ma sempre esistenti: ci troviamo ancora nell’ambito dell’essere e restiamo così fedeli al principio parmenideo per cui solo l’essere esiste mentre il non essere non può assolutamente essere. Il demiurgo e la materia informe Nel mondo sensibile, Platone vede una mescolanza di ordine e 25 di disordine, qualcosa di positivo e, a un tempo, di negativo. Per tentare di spiegare questa condizione ibrida, secondo Platone non possiamo che far ricorso al linguaggio mitologico, che non dimostra in maniera apodittica ma si affida a ipotesi plausibili. Il nostro mondo è verosimilmente opera di un demiourgos, un intelligente artigiano divino che, ispirandosi al modello perfetto delle idee, ha plasmato la khora, una materia informe preesistente, un ricettacolo universale, che è il luogo in cui si svolge il divenire e che in sé comprende le determinazioni della materia e dello spazio: essendo buono e “volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello”39. Quindi, se siamo lontani dall’idea di una divinità che crea dal nulla, perché la khora esiste di per sé, non ci troviamo neanche più di fronte alla physis autosufficiente dei naturalisti: posto l’ordine finalistico che si riscontra nel mondo, l’ipotesi di un’intelligenza ordinatrice sembra a Platone, come già ad Anassagora di Clazomene (496-428 a. C.), più ragionevole di quella che attribuisce alla natura la capacità di organizzarsi da sola in modo da produrre un cosmo armonicamente ordinato. Il cosmo corporeo non è stato sempre così come lo vediamo, ma, come già suggeriva la sapienza mitologica, è nato, ha avuto un inizio. Se ha ordine e movimento e bellezza, però, queste caratteristiche gli vengono da fuori, contrariamente a quanto ritenevano Esiodo e, in genere, i primi filosofi. È il demiurgo, infatti, che fa un’opera per quanto possibile bella, e poiché il vivente è superiore a ciò che è privo di vita, è lecito concludere che egli abbia dotato il mondo di un’anima, facendone un immenso organismo vivente: “seguendo un argomento verosimile, occorre dunque dire che questo mondo nacque come un vivente, davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla provvidenza divina”40. 26 L’idea del Bene e il divino Platone pensa, così, di avere corretto, senza rinnegarla, la posizione di Parmenide che, concependo il divenire come passaggio dall’essere al non essere, lo rendeva contraddittorio e quindi inammissibile: il divenire non è affatto contraddittorio perché, come abbiamo visto, una cosa che cambia diventa un’altra cosa e non il nulla. Ciò non toglie però – è bene ribadirlo – che alla physis non si possono più attribuire, come se li possedesse in proprio, quei caratteri di ordine, bellezza e intelligenza che essa pur manifesta. Tali perfezioni il mondo sensibile le riceve da una realtà superiore: da quella realtà perfetta e intellegibile che è l’essere immutabile, il vero essere al cui vertice c’è il Bene che a ogni cosa garantisce in giusta proporzione essere e intelligibilità, come nel mondo fisico il sole diffonde luce e calore. Ancora una volta il divino viene collegato all’esperienza della luce, non più però quella sensibile ma quella intellegibile. Le conseguenze di questa concezione metafisica sul piano antropologico e morale sono evidenti, così come è esplicito il richiamo alle credenze orfiche: l’uomo, che pure deve operare per portare quanto più è possibile nel mondo terreno l’ordine razionale, è soprattutto la sua anima, quella realtà spirituale che vive nel corpo come in una prigione e che tende a liberarsi da esso per trovare la propria piena realizzazione nella contemplazione del mondo ideale, della cui natura partecipa. In conclusione, Platone condivide la tradizionale identificazione del divino col principio eterno, immutabile e indistruttibile, solo che esso non è più la realtà naturale ma quella ideale. E divino può essere considerato tutto ciò che di quell’eternità in qualche modo partecipa, come gli astri, l’anima del mondo e le singole anime. Il divino, quindi, ammette gradazioni: c’è qualcosa di più o meno perfetto, qualcosa di più o meno divino, a seconda che possieda maggiore o minore somiglianza con quel principio. 27 Aristotele Anche Aristotele (384-322 a. C.), come Platone, pensa che l’idea di physis come forza generatrice immanente non sia sufficiente per spiegare la realtà che è sotto i nostri occhi. Per comprenderne il motivo, dobbiamo ricordare i punti nodali della sua metafisica. Le cose sensibili, secondo Aristotele, sono certo fatte di una componente materiale: un tavolo e una sedia sono, per esempio, di legno. Ma tavolo e sedia non sono soltanto legno, perché altrimenti sarebbero la stessa cosa. Se sono due cose distinte, è perché c’è un’altra componente, immateriale, che le caratterizza e fa che una sia un tavolo e l’altra una sedia. Questo elemento è ciò che Aristotele chiama forma, mentre chiama sostanza l’unione di una determinata materia e di una determinata forma: questo cane o questo albero. Noi non vediamo mai, quindi, realtà solo materiali: ferro e legno sono materia attuata dalla forma. È dunque la forma che fa esistere, che fa passare all’atto le potenzialità della materia. Le sostanze, poi, sono soggette al divenire: in presenza di determinate condizioni, un seme diventa un albero, un pezzo di legno cenere… Anche per Aristotele, quindi, il divenire non è affatto contraddittorio, come credeva Parmenide, perché non è il passaggio dall’essere al nulla ma dall’essere in un modo (il seme), la potenza, all’essere in un altro modo (l’albero), l’atto. Anzi non occorre dire, come faceva Platone, che il mondo sensibile e diveniente è una mescolanza di essere e non essere: esso è certamente essere, ma ciò non significa che non siano possibili altre modalità di essere, come, per ipotesi, esseri sottratti al divenire. L’essere, chiarisce infatti Aristotele, si dice in molti modi, con significati simili ma non identici: in breve, è un termine che ha una valenza analogica. Come usiamo la parola sano per indicare un uomo in buona salute, il colorito che ne è un indizio, l’aria che la favorisce…, così diciamo che esiste quest’uomo, la sua altezza, la sua simpatia… Nel linguaggio aristotelico, altez28 za e simpatia non sono sostanze ma accidenti. Sono elementi che caratterizzano la sostanza, che non esistono senza di essa: ciò non toglie, però, che siano reali, che abbiano un proprio modo di essere. Il primato dell’atto Se dunque è vero che ci sono molti modi di esistere, possiamo allora interrogarci sull’ipotesi di cui sopra: esistono, oltre alle sostanze sensibili e mutevoli di cui abbiamo esperienza, anche sostanze immutabili, che i nostri sensi non sono in grado di cogliere? La risposta di Aristotele è affermativa: c’è una realtà immateriale e immutabile, e tale certezza non si fonda su argomentazioni plausibili ma su dimostrazioni rigorose. Ecco come si sviluppa il ragionamento. Il punto di partenza è costituito dall’esperienza: c’è qualcosa che diviene, che passa dalla potenza all’atto. Perché questo mutamento sia possibile, debbono però esserci particolari condizioni: una statua, per esempio, non c’è senza un artista che scolpisca il marmo. Ovviamente, lo scultore e la volontà di scolpire la statua debbono già esistere, debbono essere già in atto, perché altrimenti il blocco di marmo resterà sempre tale e non diventerà mai statua41. Ciò significa che c’è un primato dell’atto sulla potenza: solo se è già in atto, A può causare il passaggio dalla potenza all’atto di B. Ora, se la materia è solo potenza e non può esistere se la forma non la attua, non può certo muoversi da sola, ma deve essere mossa da altro. La materia prima – che per Aristotele è il sostrato di cui sono fatte tutte le sostanze sensibili, e che è in qualche modo simile alla khora di Platone – non può perciò essere all’origine di tutto: essa è pura potenzialità, da sempre bisognosa della forma per esistere in atto. Siamo – è evidente – lontanissimi dalla physis intesa come forza generatrice che da sola passa dal caos al cosmo. 29 Il motore immobile All’origine di tutto ciò che diviene, quindi, non c’è il caos, la realtà informe, ma la forma che attua la materia e determina quei movimenti ordinati in vista di un fine che rendono il mondo un tutto armonico: l’albero, per esempio, produce fiori e frutti, il fuoco si dirige verso l’alto, che è il suo luogo naturale… Ora, prosegue Aristotele, se c’è qualcosa che diviene eternamente, la causa di questo divenire deve essere essa stessa eterna. Ma la successione temporale, che scandisce il mutare delle cose, è eterna, perché parlare di un ‘prima’ della nascita del tempo significherebbe ammettere ancora la dimensione temporale42. L’insieme delle sostanze sensibili, quindi, è un eterno divenire, che sarebbe contraddittorio senza una causa adeguata: una sostanza eternamente in atto. E possiamo essere certi che questa sostanza deve essere priva di potenza, e quindi di materia43, perché altrimenti, per muovere, avrebbe bisogno di passare essa stessa all’atto, e non sarebbe perciò la spiegazione adeguata dell’eterno divenire del mondo: si tratta quindi di un atto puro, di un motore immobile, che appunto muove senza essere mosso44, orientando come fine ultimo la tensione verso l’atto di ciò che è in potenza. È così dimostrata l’esistenza della sostanza soprasensibile e immutabile, di cui ovviamente non possiamo fare esperienza ma che la ragione deve necessariamente ammettere, perché altrimenti sarebbe contraddittorio il divenire di cui abbiamo esperienza. Caratteri dell’Atto puro Dell’atto puro possiamo, secondo Aristotele, intravedere anche alcune caratteristiche. È una realtà spirituale vivente, e la sua attività è quella più elevata, la vita intellettuale: “egli è vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed egli è appunto quell’attività”45. E l’oggetto di quest’attività intellettuale non possono essere le vicende mondane, perché in tal caso l’at30 to puro stesso sarebbe coinvolto nel divenire del mondo. Egli, quindi, senza occuparsi di quel mondo che eternamente diviene e che non è stato da lui plasmato (è caduta ovviamente l’ipotesi mitologica del demiurgo platonico), non può che contemplare eternamente se stesso e le proprie perfezioni: “se, dunque, l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, essa pensa se stessa, e il suo pensiero è pensiero di pensiero”46. Per Aristotele, dunque, ciò che egli chiama più volte Theòs ha i seguenti caratteri: è atto puro, e cioè atto senza potenza, forma senza materia, e quindi sostanza incorporea, perfezione assoluta e autosufficiente, pensiero di pensiero, vita intellettuale perennemente in atto ed eternamente beata, motore immobile e fine ultimo da cui “dipendono il cielo e la natura”47. Non bisogna attribuire, però, ad Aristotele una concezione monoteistica: egli ritiene, infatti, che il moto delle sfere celesti abbia bisogno di altre intelligenze motrici, e arriva a contarne ora 47 ora 55, ma le pone in posizione subordinata rispetto al primo motore immobile. Egli considera, inoltre, divini anche gli astri e l’anima intellettiva perché, nell’ottica greca, divino è tutto ciò che è eterno e incorruttibile. In conclusione, Aristotele pensa di aver dimostrato razionalmente l’esistenza di una sostanza incorporea che spiega, come causa finale, il divenire del mondo sensibile ma è separata da questo e per sé sussistente. Per designare tale soggetto spirituale egli non parla – e ciò va sottolineato – di to theion ma di Theos. Anche se divine sono per lui pure altre realtà, può essere chiamato Dio solo il primo motore, la contemplazione del quale costituisce per l’uomo la vera felicità48. Plotino Con Plotino di Licopoli (205-270 d. C.), l’ultimo grande rappresentante della metafisica greca, ci allontaniamo sempre più dai primi filosofi, che identificavano il divino con la physis, e siamo ben oltre Platone e Aristotele, i quali, pur ammettendo una 31 realtà che trascende la materia come modello e causa dell’ordine del mondo terreno, riconoscevano l’irriducibile ed eterna consistenza della dimensione materiale: la khora plasmata dal demiurgo o la materia strutturata dalla forma. Per Plotino, invece, c’è una sola realtà, che però non è la physis ma un principio da cui tutto deriva e di cui non possiamo propriamente dir nulla, perché è radicalmente diverso da tutto ciò di cui abbiamo esperienza e che possiamo pensare49. Da tale principio divino, eterno, immutabile e amante della propria perfezione50, il mondo trae la propria consistenza non perché sia creato liberamente dal nulla ma perché da esso emana, per la ridondante pienezza del suo essere, con spontanea necessità come i raggi luminosi irradiati dal sole51. Ancora una volta, quindi, il divino è identificato con la realtà che abbaglia col suo splendore ed è assolutamente immutabile. Profondamente originale, invece, è la concezione del mondo sensibile e del suo rapporto col principio da cui deriva. Da quest’unica fonte emana anzitutto un mondo intelligibile, che ha una ricchezza ben maggiore di quello sensibile. L’anima, che è il grado più povero del mondo spirituale, si estrinseca poi in un mondo fenomenico e spaziale che non ha consistenza se non nell’anima stessa che lo produce. Il mondo visibile, che per i primi filosofi era vera realtà, non sussiste dunque in se stesso, ma ha la consistenza delle immagini percepite dall’anima: un mondo di sogni52. La materia è mancanza di bene Quindi la materia non è la divina natura naturans, da cui derivano le cose, ma ciò in cui appaiono le nostre sensazioni. Il mondo, con i colori, i sapori e gli odori delle forme sensibili che lo costituiscono, è, in ultima analisi, opera dell’anima, non certo come cosa sostanziale ma come luogo ideale delle sue possibili sensazioni: come il pensare s’identifica con l’oggetto del pensiero, così il sentire s’identifica con l’oggetto sentito, 32 che non esiste al di fuori di esso. La materia, quindi, non ha alcuna positività, è qualcosa di negativo, pura mancanza di bene, come l’oscurità non è che assenza di luce. È evidente che in questa prospettiva il fine dell’uomo debba essere non la semplice contemplazione ma l’estasi, l’unione mistica col principio di tutte le cose di un’anima che sembra separarsi totalmente dal corpo: “Ed ecco la vita degli dei e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo”53. In conclusione, per Plotino c’è una sola realtà, quella divina, e tutto ciò che esiste non è che sua manifestazione. Come definire questa prospettiva metafisica? L’idea di una realtà trascendente da cui tutto emana esclude sia il panteismo immanentistico, che identifica il divino con il mondo, come per esempio quello dei primi naturalisti o degli stoici, sia il dualismo aristotelico, che pone due principi irriducibili come l’atto puro e la materia prima, sia la creazione dal nulla di cui parleranno i pensatori cristiani. Panenteismo è forse l’espressione più appropriata per designare questa concezione metafisica, che in qualche modo riunisce sia i caratteri del teismo sia quelli del panteismo. Il panenteismo, infatti, da un lato afferma la dimensione trascendente del principio divino, e dall’altro non vede nel mondo altro che l’estrinsecazione empirica e temporale di tale eterno principio. Democrito L’idea che il mondo sia un tutto armonico, ordinato finalisticamente, è predominante nella filosofia greca e ha avuto grande seguito nel pensiero successivo. Essa è comune non solo a Platone e ad Aristotele, per i quali l’ordine dipende da un mondo ideale o da un motore immobile propriamente divini, ma anche agli stoici, secondo i quali l’ordine finalistico dipende da una divina ragione immanente, un soffio caldo che anima e dà forma a tutte le cose54. Ma occorre ricordare, seppur bre33 vemente, anche altre posizioni, nella cultura greca certamente minoritarie, che quel presupposto non condividono. Un sistema filosofico estremamente complesso è quello di Democrito di Abdera (460-360 a. C.), per il quale la realtà è fatta di atomi, particelle materiali invisibili e indivisibili, ingenerate e indistruttibili, che dall’eternità si aggregano e si disgregano muovendosi nel vuoto e formando i corpi che noi conosciamo. Il moto degli atomi è una proprietà della materia e non è regolato da alcuna divinità o forza esterna: è un moto spontaneo, che segue leggi meccaniche necessarie ed estranee a ogni finalismo55. Ci troviamo, dunque, di fronte a una concezione materialistica e deterministica che spiega il mondo e il suo divenire senza ricorrere a un disegno razionale immanente o a interventi divini, considerati frutto di ridicole superstizioni56, anche se Democrito ammette gli dèi della tradizione, la cui esistenza non può essere però ricavata dall’osservazione della natura. Epicuro Pure per Epicuro di Samo (341-271 a. C.), la realtà è fatta di atomi che si muovono eternamente nel vuoto, secondo proprie leggi, che non escludono la casualità, e senza alcun ordine finalistico. Gli dèi esistono, dato che attraverso i sensi li conosciamo e sappiamo che vivono la loro vita immortale e beata (come il Theos di Aristotele, che però non era conoscibile mediante i sensi ma mediante la ragione, in quanto fine ultimo del divenire di tutte le cose) negli spazi che si trovano tra un mondo e l’altro, ma non sono causa del moto regolare degli astri57 ed è certo che non intervengono nel mondo, dato che facciamo esperienza del male, incompatibile con la bontà e la potenza che attribuiamo loro. Come quello di Democrito, anche quello di Epicuro è un mondo desacralizzato, che rigetta la presenza incombente di esseri divini che, con la minaccia di punizioni terrene e ultraterre34 ne, terrorizzano gli uomini: compito prioritario della filosofia è proprio quello di liberare le menti da una falsa concezione del divino58. Protagora e Crizia Se per Epicuro l’esistenza degli dèi, concepiti in maniera antropomorfica, era assolutamente evidente, questa certezza non era stata affatto condivisa dai sofisti. Protagora di Abdera (486411 a. C.), per esempio, limitava la conoscenza umana a ciò di cui possiamo avere esperienza e quindi, come riferisce Diogene Laerzio, riguardo agli dèi assumeva una posizione rigorosamente agnostica: “Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né se esistono né se non esistono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere: sia l’oscurità dell’argomento sia la brevità della vita umana”59. Crizia di Atene (460-403 a. C.), invece, negava decisamente l’esistenza di esseri superiori, sostenendo che gli dèi erano stati inventati dai governanti per evitare che gli uomini infrangessero le leggi, convincendoli dell’esistenza di potenze divine capaci di osservarli e di punirli anche quando agivano di nascosto60. Socrate Assolutamente originale, infine, è la posizione di Socrate di Atene (469-399 a. C.). Egli, infatti, abbandona gli studi naturalistici61: sa, e lo dichiara apertamente, di non conoscere la struttura della physis. Anzi, riteneva che “chi si dedicava a tali questioni cadesse in vaneggiamenti”62, disinteressandosi di ciò che è più importante: l’uomo e le sua scelte di vita. È proprio l’indagine filosofica sui problemi morali che porta Socrate all’esperienza del divino: una divinità caratterizzata essa stessa da razionalità e moralità. Per quanto riguarda la religione tradizionale, Socrate ritiene che ogni cittadino debba attenersi al costume della propria città. Ma la sua religiosità va evidentemente ben oltre quella po35 polare, che rende culto agli dèi per ottenerne il favore. Gli dèi dell’Olimpo per lui sono soltanto espressioni dell’unico principio divino, al quale è lecito chiedere non già beni materiali, ma il vero bene, e cioè la virtù. Se l’intelligenza, la capacità di capire cosa è bene fare, è la caratteristica propria dell’uomo ed è quanto di più prezioso si dà nella nostra esperienza, è ovvio infatti che proprio queste caratteristiche dobbiamo attribuire al divino. E Socrate vive la ricerca filosofica come una missione: dal dio – gli fa dire Platone – ho ricevuto “l’ordine di vivere facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri”63. La ricerca coerente di verità e giustizia: questo è il compito che gli dèi, buoni e amanti del bene, gli hanno affidato64 a vantaggio dei suoi concittadini. Fede religiosa, ricerca filosofica e vita morale sono perciò secondo Socrate, strettamente connesse. Col mondo divino, infine, Socrate si sente in contatto attraverso un fenomeno sovrumano, demonico (to daimonion), che non gli suggerisce cosa fare ma lo distoglie da scelte dannose: “è come una voce che, sin da fanciullo, sento dentro. E tutte le volte che io la sento, mi trattiene da quello che sto per fare, e non mi esorta mai a fare”65. Si tratta, evidentemente, di un’esperienza di carattere intuitivo e non passibile di verifica razionale, ma non per questo per lui meno importante. 36 2. IL MONDO CRISTIANO Se, abbandonata la civiltà greca, passiamo a quella cristiana, ci troviamo di fronte a uno scenario ben diverso. La nozione cristiana di Dio, su cui pure hanno influito pensatori come Platone, Aristotele o Plotino, è stata infatti elaborata anzitutto sulla falsariga dell’esperienza religiosa ebraica condensata nella Bibbia. Ma qual è l’immagine di Dio contenuta in quei libri che i cristiani chiamano Antico e Nuovo Testamento? Chi non si accontenta della predicazione corrente, sa che libri composti nel corso di lunghi secoli, utilizzando generi letterari differenti e non di rado conservando, sovrapponendo e modificando tradizioni, leggende e ricordi storici di epoche precedenti, non presentano, ovviamente, una visione unitaria di Dio. Questi è certamente il protagonista di questa grande opera letteraria, ma i suoi tratti mutano, si arricchiscono, appaiono contraddittori, talvolta all’interno di uno stesso libro. La fisionomia di questo personaggio cercheremo ora di delineare soffermandoci, prima di passare al Nuovo Testamento, su alcune delle pagine più significative dei libri dell’Antico Testamento, esaminati nell’ordine proprio del canone ebraico, differente da quello proposto dai cristiani66. 2.1. La sapienza poetico-religiosa Protagonista assoluto della prima pagina della Genesi è un Dio che appare sulla scena da solo, senza moglie figli o compagni divini67, e che, con l’efficacia della sua parola, dà origine al mondo: “In principio Dio creò il cielo e la terra [cioè tutte le cose]. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”68. Dio, dunque, dà ordine all’universo separando la terra dalle acque, 37 ponendo nel firmamento il sole, la luna e le stelle, che non sono quindi delle divinità, facendo germogliare gli alberi e facendo “l’uomo a sua immagine”69, a partire da qualcosa che c’era già: una massa ‘informe e deserta’, un abisso avvolto nelle tenebre70. La nozione di creazione dal nulla, che tanto rilievo avrà nella filosofia cristiana, pare quindi che non abbia alcun fondamento biblico71. Ora, però, l’uomo non risponde alle attese divine e disobbedisce a un ordine esplicito, indotto a ciò dalla donna, plasmata da una sua costola e sedotta a sua volta da un serpente, “la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte da Jahvè, il dio”72. La punizione divina non si fa attendere: il serpente viene maledetto “più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche”73, la donna partorirà con dolore e sarà soggetta al marito, che la “dominerà”74, e l’uomo dovrà lavorare con fatica, perché la terra “spine e cardi produrrà”75, e conoscerà addirittura la morte. Piuttosto collerico e vendicativo il Dio presentato in queste pagine! Il diluvio Ma nei capitoli successivi si assiste a una vera esplosione dell’ira divina, perché la malvagità dilagava tra gli uomini, cosa che pare prendere Dio alla sprovvista, e “ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male”76. Jahvè allora “si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra […] [e] disse: Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato; con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti”77. La promessa di sterminio viene mantenuta e si salva soltanto Noè, un uomo giusto, con la sua famiglia e una coppia di ciascuna specie di animali, entrati in un’arca costruita su consiglio di Jahvè. Terminato il diluvio, Noè “offrì olocausti sull’altare. Jahvè ne odorò la soave fragranza e pensò: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo”78. E sembra così rabbonito dall’odore del sa38 crificio da rassicurare Noè e tutti i viventi: “Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”79. L’arcobaleno sarà il segno dell’avvenuta pacificazione. L’alleanza con Abramo Ma dopo questa alleanza con tutta l’umanità, Jahvè ne stabilisce un’altra con un uomo particolare, Abramo, a cui chiede di lasciare il suo paese e a cui promette più volte una numerosa discendenza. Quando Abramo ha ormai novantanove anni, il Signore gli rinnova la promessa, ma ora la condiziona a esigenze di carattere morale: “Io sono il Signore della montagna [comunemente tradotto con Dio onnipotente]: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto. […] Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne […]. Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne”80. E segno di tale alleanza, riservata a una sola casata, sarà la circoncisione. Discendenza e possesso della terra Abramo li otterrà grazie alla fiducia nelle promesse divine, fiducia che sarà messa, forse con un po’ di sadismo, a dura prova: infatti non solo Isacco nascerà, dopo una lunghissima attesa, da genitori stravecchi ma al padre sarà chiesto di sacrificarlo e la sua mano sarà fermata appena in tempo per evitare la morte del bambino. Quello che è certo è che ormai il Signore dell’universo, alleato di tutta l’umanità, acquista sempre più i caratteri del protettore di un individuo e del suo clan: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. E questa predilezione per Abramo e la sua discendenza provoca un ulteriore cambiamento nell’immagine di Dio. 39 Il liberatore dalla schiavitù Da Abramo infatti, e passiamo così al libro dell’Esodo, è nato ormai un popolo così numeroso da mettere in pericolo la sicurezza dell’Egitto, tanto che il faraone lo riduce in schiavitù e ordina di uccidere tutti i neonati maschi. Allora il Signore, che conosce le sofferenze del suo popolo, decide di intervenire e da un roveto che arde senza consumarsi chiama Mosè e lo invia dal faraone per ottenerne la liberazione. Conseguenze di enorme portata per la concezione cristiana di Dio ha avuto la risposta data a Mosè che chiede a nome di chi deve presentarsi come incaricato di una simile missione: “Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi”81. Gli esegeti, però, oggi sono concordi nell’attribuire all’espressione, cui non si può riconoscere una valenza ontologica82, il significato di ‘sono con voi’, ‘agirò per liberarvi’, ‘Io-agirò mi ha mandato a voi’. Ora Mosè può presentarsi al faraone, che però non vuole lasciar partire gli israeliti nonostante le piaghe che si abbattono sull’Egitto. E l’immagine di Dio che presenta il libro dell’Esodo si arricchisce di un aspetto singolare: è Jahvè stesso che indurisce il cuore del faraone83, quasi a voler infierire sulla popolazione egiziana. Pare che il Signore voglia impedire che il faraone ceda alle richieste di Mosè al fine di mostrare la sua potenza punitiva: “Io ho reso irremovibile il suo cuore e il cuore dei suoi ministri, per operare questi miei prodigi in mezzo a loro”84. E questi ‘prodigi’ culminano nell’uccisione dei primogeniti egiziani, mentre le case degli israeliti saranno risparmiate perché cosparse col sangue di un agnello immolato: “Io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o bestia […]. Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio”85. Questa è la pasqua: la salvezza dalla catastrofe che si abbatte sugli egiziani. Per gli israeliti, ma 40 ovviamente non per gli egiziani, è un giorno festivo di cui fare memoria: “di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne”86. Il legislatore La sconfitta dell’Egitto, la maggiore potenza militare dell’epoca, non è certo merito degli Israeliti: è opera di Jahvè, che è ormai diventato un dio guerriero invincibile, che usa la sua forza a vantaggio di Israele, assumendo alcune caratteristiche di Baal, la principale divinità cananea87. Ma le sorprese non sono finite! Jahvè, infatti, si mostra anche saggio ed equilibrato legislatore. Comunica a Mosè, sulla vetta di un monte e in mezzo a tuoni e lampi, dieci comandamenti (o, meglio, parole), un decalogo che ha conservato la sua attualità nel corso dei secoli, esigendo, al contempo, un culto esclusivo: “Non fate dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me”88. Purtroppo, invece il popolo costruisce un vitello d’oro da adorare, scatenando la collera di Mosè che ordina ai leviti di provare la propria fedeltà al Signore uccidendo le persone a loro più care: “uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente”89. Ma i circa tremila morti non sono sufficienti per Jahvè, che promette: “nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato”90. Il conquistatore della terra Ad ogni modo, le caratteristiche di Jahvè che sono emerse sin qui resteranno fissate una volta per tutte nel Deuteronomio. Egli è il Signore dell’universo, ha scelto come suo popolo Israele, lo ha liberato con la forza di un guerriero invincibile e gli ha dato una legge da mettere in pratica con assoluta fedeltà: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai 41 seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai”91. Dall’obbedienza alla legge – prosegue Mosè – dipenderà dunque la sorte di Israele: “Se tu obbedirai fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, preoccupandoti di mettere in pratica tutti i suoi comandi che io ti prescrivo, il Signore tuo Dio ti metterà sopra tutte le nazioni della terra”92 e ti arricchirà di benedizioni, mentre “se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, […] verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni”93. E in effetti, la conquista della terra promessa e la successiva storia del popolo ebraico dipenderanno dalla fedeltà a Jahvè. Quando saranno fedeli, gli israeliti passeranno di vittoria in vittoria, sterminando quei popoli che avevano la sola colpa di difendere il proprio territorio. Presa Gerico, per esempio, “votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino”94, e ciò su espresso ordine di Jahvè. Quando si abbandoneranno al culto di altri dèi, invece, gli israeliti saranno sconfitti dai loro nemici. Il dilagare dell’idolatria porterà addirittura al naufragio dell’alleanza. Allora il Signore si servirà delle potenze del tempo per infliggere la punizione definitiva: la deportazione degli abitanti dei due regni in cui si era divisa la nazione. Nel 722 a. C., infatti, il re d’Assiria Salmanassar, “occupò Samaria [capitale del regno di Israele e] deportò gli Israeliti in Assiria”95, mentre nel 587 a. C. il re di Babilonia, Nabucodonosor, “deportò tutta Gerusalemme [capitale del regno di Giuda], cioè tutti i capi, tutti i prodi, in numero di diecimila, tutti i falegnami e i fabbri; rimase solo la gente povera del paese”96. Padre, sposo, santo La storia potrebbe dunque finire qui se inaspettatamente Jahvè non acquistasse, ad opera dei profeti, nuove, e per certi ver42 si sconvolgenti, caratteristiche. Per limitarci a Isaia, egli appare ora come un padre, una madre, un marito, un amante, un re, un redentore, il Santo d’Israele. Non solo è pronto a ripristinare l’alleanza col suo popolo97 ma vuol fare di esso la guida che insegnerà agli altri popoli le vie della pace: “Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare sui suoi sentieri. […] Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”98. Il Santo d’Israele, che in alcune pagine mantiene ancora i tratti della violenza più crudele, non finisce di sorprenderci. Egli è nemico di “coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente”99. Siede su un trono regale, circondato da serafini che cantano “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”100. Non vuole più lo sterminio degli altri popoli che, come la natura stessa, entreranno a far parte di un mondo radicalmente trasformato: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto”101. Addirittura farà scomparire la sofferenza e la morte: “Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”102. Amante fedele I toni si fanno ancora più originali nella parte finale del libro, che gli studiosi attribuiscono a un altro autore, che chiamano Deuteroisaia. Il Signore per mezzo “del suo messia, di Ciro”103, re di Persia, sconfiggerà Babilonia e ricondurrà gli esuli a Gerusalemme, e lì condurrà anche gli stranieri, sul “monte santo […] [che diventerà] casa di preghiera per tutti i popoli”104, che prima dovevano essere semplicemente sterminati, mostrando così una sollecitudine che si estende a tutta l’umanità. Non si può negare che Jahvè riservi continue sorprese; è davvero un 43 Dio misterioso, che sfugge alla comprensione umana: “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore”105. Nei confronti di Gerusalemme, infatti, egli appare ora come una madre piena di tenerezza106, come uno sposo che ama la sua donna alla follia: “Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? […] Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore”107. Le stesse infedeltà di Israele, anziché disgustare il Signore, pare che abbiano scatenato in lui una vera passione amorosa e quelle sofferenze, che erano giusta punizione delle colpe, acquistano ora un valore redentivo. Israele è diventato il servo di Jahvè, percosso e umiliato: “al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”; ma la sua obbedienza ha una valenza salvifica: “si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”; e questa salvezza sarà accessibile a tutti: “il giusto mio servo giustificherà molti [cioè le moltitudini]”108. Anche capriccioso e crudele? Ripristinata l’alleanza, ritornati gli esuli da Babilonia e ricostruito a partire dal 520 a. C. il tempio di Gerusalemme, Israele gode sotto il dominio persiano di un paio di secoli di pace, durante i quali la religiosità ruota intorno alla legge e al culto liturgico. La sua attenzione, tralasciando i rapporti con gli altri popoli, sembra ora concentrarsi su una questione che pare davvero insolubile: se Jahvè ha promesso benedizioni a chi gli è fedele e maledizioni a chi si allontana dai suoi precetti, perché i malvagi prosperano mentre i giusti sono spesso oppressi dalla sventura109? In sostanza, la promessa, troppo spesso smentita dall’esperienza, di un giusto governo del mondo è credibile o no? Non è affatto facile rispondere, ci dice il libro di Giobbe. Non si può escludere che Dio non sia perfettamente buono e giusto, che in lui stesso ci sia una qualche presenza del male, o almeno una debolezza di fronte alla tentazione. In questo libro, infatti, il Signore si lascia tentare da un misterioso ‘avversario’, il satana, che insinua che Giobbe sia “uomo integro e retto”110 44 soltanto perché è stato colmato di benedizioni. Se fosse abbandonato alla sventura, Giobbe manterrebbe la sua rettitudine? In sostanza, è un uomo giusto perché ama la giustizia o perché la sua virtù è ampiamente ricompensata? Il Signore accetta di mettere alla prova la fedeltà di Giobbe, consentendo non solo che i suoi beni vengano distrutti ma anche che i suoi figli muoiano (ma non la moglie, che gli resta accanto: ulteriore prova da superare, secondo l’autore biblico?!) e che lui stesso sia colpito dalle più terribili malattie. Ma, così facendo, egli appare come un sovrano assoluto che si trastulla capricciosamente con gli uomini, indifferente alle loro tribolazioni. Tanto dolore può essere permesso per decisioni così arbitrarie? Ridotto al silenzio? Giobbe supera la prova: dimostrando l’autenticità di una virtù non dettata dalle convenienze, egli accetta senza ribellarsi tutte le sue disgrazie, ma dichiara con fierezza che esse non sono una punizione meritata dai suoi peccati. La questione, che all’inizio concerneva l’effettiva giustizia di Giobbe, è diventata così un’altra: si può credere davvero nella giustizia di un Dio che quasi per gioco permette la sofferenza di un uomo innocente111? Il Signore stesso sembra in difficoltà, tanto che cerca di ridurre al silenzio Giobbe, che protesta la propria innocenza, rivendicando non la propria giustizia ma la propria potenza. Come può pretendere l’uomo di giudicare le decisioni di Dio: “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!”112? Ma Giobbe non si lascia intimidire e addirittura si mostra piuttosto preoccupato per le sorti dell’umanità: “Ora che i miei occhi ti hanno visto, tremo di pena per l’argilla mortale”113. Certo, alla fine il Signore riconosce l’innocenza di Giobbe e anzi lo ricompensa benedicendolo più di prima: “egli possedette 45 quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie”114. Ma ciò non toglie che il libro consegni al lettore un’immagine di Dio piuttosto ambigua: “il mondo continua a sembrare più giusto che ingiusto, e Dio a sembrare più buono che cattivo”115. Ma il dubbio resta: possiamo fidarci senza riserve della giustizia divina? Un vecchio imperatore In effetti, a giudicare dai libri successivi, letti secondo l’ordine del canone ebraico, pare che per la soluzione dei suoi problemi Israele ora conti più sulle proprie forze che su straordinari interventi divini, mentre la presenza del Signore sembra a poco a poco rarefarsi116. Infatti, i discorsi di Jahvè riportati nei libri delle Cronache sono citazioni, senza sostanziali modifiche, dei libri di Samuele e dei Re. Nel Cantico dei cantici e nel libro di Ester il Signore non solo non parla ma viene raramente citato. La saggezza del Qoèlet sembra inclinare a un rassegnato scetticismo: “Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, perché l’uomo non trovi nulla da incolparlo”117. È vero, spesso gli empi prosperano, ma è inutile arrovellarsi su quella questione che angosciava l’autore di Giobbe e che pare ormai irrisolvibile: la storia umana è governata da un Dio giusto? L’idea deuteronomistica, che ha ispirato la storia d’Israele, secondo cui alla fedeltà corrisponde la benedizione e all’infedeltà la maledizione non viene rinnegata formalmente ma sembra riscuotere sempre meno consensi. Un’ultima volta appare il Signore nel libro, ricco di visioni apocalittiche, di Daniele, ma ormai ha l’aspetto di un Antico dei giorni, un vegliardo assiso in trono, dalla veste “candida come la neve”118. E la visione così prosegue: ecco “uno, simile ad un figlio di uomo, giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli nazioni e lin46 gue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”119. Gli imperi (assiro, babilonese, persiano, macedone) sorgono e cadono, ma Israele continua a sognare la propria vittoria definitiva. Questa, però, sarà opera, più che del vecchio imperatore ormai stanco, dei suoi angeli, Gabriele e Michele, che “guideranno e difenderanno la nazione fino alla vittoria finale”120. Ascoltate Gesù Lo scenario, almeno in parte, cambia, ancora una volta, con le Scritture cristiane. Infatti, mentre da secoli, ormai, la profezia sembrava estinta, nei vangeli appare un ultimo profeta, Gesù di Nazareth. E non è certo un caso se, per tratteggiarne la figura, gli evangelisti hanno utilizzato, tra i libri dell’Antico Testamento, soprattutto gli scritti profetici e se questi, nel canone ecclesiastico, occupano ora l’ultimo posto, quasi a chiudere la prima e ad annunciare la nuova alleanza. In particolare, tutta la passione di Gesù è stata riletta alla luce del Servo di Jahvè del Deuteroisaia. Nei vangeli sentiamo di nuovo la voce di Jahvè. Ma Theòs, Dio (tutto il Nuovo Testamento è scritto in greco), ha ora una sola cosa da dire: quando Gesù venne battezzato, “si sentì una voce dal cielo: Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”121. E ancora, al momento della trasfigurazione di Gesù, “uscì una voce dalla nube: Questi è il figlio mio prediletto; ascoltatelo!”122. Ormai Dio non parla e non opera più direttamente: l’attenzione dei vangeli si concentra sulle parole e sulle azioni di Gesù. Parole e azioni che sono portatrici di un lieto annuncio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”123. I vangeli quindi, come del resto l’Antico Testamento, non contengono speculazioni sulla natura di Dio124: sono, piuttosto, interessati al suo disegno salvifico. Dio è un padre125 che qui e ora ha a cuore il bene dell’uomo. La regalità di Dio annunciata da Gesù, infatti, non 47 è da lui intesa come un dominio oppressivo, come l’inappellabile condanna dei malvagi, ma al contrario come “l’amore indiscriminato per buoni e cattivi, la ricerca insonne dei perduti, il perdono accordato senza condizioni ai peccatori, l’amorosa cura degli indifesi e dei minacciati”126. Dio è agape Il Dio di Gesù, come è ovvio, non è radicalmente diverso da quello dell’Antico Testamento: anzi, conserva ancora aspetti del carattere violento di Jahvè127, ma questi restano in secondo piano. Ha una sua originalità, e credo che si possa essere d’accordo col grande biblista J. Dupont quando afferma che essa “risulta essenzialmente dall’accentuazione di certi tratti che il giudaismo non rifiuta, ma ai quali Gesù accorda un rilievo così vigoroso e un’importanza così assoluta che altri tratti tradizionali ne sono come relegati nell’ombra, anche se non formalmente contestati”128. Per gli evangelisti, in sostanza, Dio non si vede e non si sente, ma chi vuole conoscerlo e affidarsi a lui non deve far altro che guardare Gesù: “Chi ha visto me ha visto il Padre”129. Nel modo di essere e di parlare di lui, che si è messo a servizio degli altri operando il bene sino a rischiare la propria vita130, Dio si rende manifesto. Chi ha fatto dell’amore la legge della propria vita può, quindi, dichiarare con verità: “Io e il Padre siamo una cosa sola”131. La più profonda intuizione riguardante il significato che si può attribuire al termine ‘Dio’, infatti, è forse quella contenuta nel Nuovo Testamento: “Dio è agape”132, amore che si dona senza riserve. Un Dio non della natura ma della storia Se confrontiamo la visione ebraica con quella greca, possiamo rilevare notevoli differenze. Poeti e filosofi greci, come abbiamo visto, sono interessati al mondo della natura, al suo essere e al suo divenire, di cui cercano una spiegazione. La physis 48 stessa e, in particolare il principio che la anima, sono qualcosa di divino. La tradizione ebraica, invece, ha scarso interesse per il mondo della natura. Giunta al monoteismo, essa rielabora in poche pagine i miti dell’area mediorientale considerando un unico dio artefice dell’ordine del mondo, che viene quindi desacralizzato: sole e luna, per esempio, non sono dèi ma semplici luminari voluti da lui133. Tutto l’interesse, invece, si concentra sulla storia, in particolare sulla propria storia, tanto che all’unico Dio del cielo si attribuisce una predilezione per il popolo ebraico: col suo capostipite, Abramo, ha stabilito un’alleanza che, nonostante ripetute infedeltà, non verrà meno, e sarà rinnovata definitivamente, almeno per i cristiani, in Gesù. Mentre per i Greci, quindi, la storia umana è soggetta, come la natura, alla legge della necessità, il fato cui anche gli dèi debbono sottostare, per gli ebrei essa è guidata da un essere personale, che trascende l’universo e che nutre un interesse esclusivo per l’uomo: lo plasma, si pente di averlo fatto, lo vuole distruggere col diluvio, sceglie un clan a cui assicura straordinaria fecondità, lo libera dalla schiavitù, stermina i suoi nemici per assicurargli una terra su cui insediarsi, esige che cammini con fedeltà sui sentieri che gli indica, lo punisce con severità, si manifesta infine in Gesù come amore che si dona senza riserve. Un Dio, quindi, che non ha nulla a che fare con l’Atto puro di Aristotele, del tutto estraneo alle vicende umane. Ci troviamo qui di fronte a un essere non solo personale ma anche passionale e imprevedibile: sicuro protagonista della storia narrata dalla Bibbia, egli agisce all’inizio in prima persona, facendo sentire la sua voce tra tuoni e fulmini e distruggendo i suoi nemici, e solo a poco a poco sembra placarsi, lasciando sempre maggiore spazio all’azione degli uomini134: a loro spetta operare perché venga il suo regno. 49 2.2. La riflessione filosofica Mentre i pensatori greci, interrogandosi sul divino, si sono mossi in un ambiente culturale omogeneo, quello plasmato dalla loro tradizione mitologica, i pensatori cristiani, al contrario, si sono trovati di fronte a due mondi culturali molto differenti: quello ebraico e quello greco. Già con i primi Padri della Chiesa, formatisi in genere nelle scuole filosofiche ellenistiche, ha quindi avuto inizio, rifiutati ovviamente gli dèi della mitologia classica, la rilettura dei testi biblici alla luce di categorie filosofiche a essi del tutto estranee. Il Dio biblico – personale, passionale, volubile, che ha un debole per l’umanità – ha così acquistato a poco a poco, spesso senza perdere le prime, caratteristiche nuove, sino a essere identificato con l’Atto puro, immutabile e impassibile, della filosofia. E se ai pensatori della patristica e della scolastica si può concedere l’attenuante che non avevano adeguati strumenti critici e filologici per cogliere le differenze tra le due culture a cui si ispiravano, questa di sicuro non vale per i manuali di teologia dogmatica che ancora oggi, estrapolando una frase o l’altra da uno scritto biblico, pretendono che certe tesi filosofiche siano contenute nella rivelazione. Certo è che, per quanto riguarda l’esistenza di Dio, i pensatori cristiani hanno dovuto affrontare un’impresa davvero improba. Infatti, mentre l’ordine e il divenire di questo mondo erano già considerati divini, o tutt’al più inducevano, per esempio, Aristotele ad affermare la necessità di un Motore immobile che li giustificasse, i cristiani devono dimostrare che c’è qualche motivazione razionale per ammettere l’esistenza di quell’essere personale e trascendente, signore del cielo e della terra e, a un tempo, deciso ad allearsi una prima e una seconda volta con gli uomini, di cui parla la loro fede. L’impresa è resa ancora più ardua dal fatto che, a differenza dei Greci, che si rapportavano con totale libertà alla loro tradizione mitologica, i cristiani 50 muovono generalmente dal presupposto che tutti i contenuti della Sacra Scrittura sono da accettare senza riserve, perché rivelati da Dio e quindi assolutamente veri. Dio biblico e filosofia greca Allora, come procedere? Le categorie filosofiche disponibili sono quelle greche, e perciò quelle è gioco forza utilizzare. Scartata la divinizzazione della physis proposta dai primi filosofi ma incompatibile con la prospettiva biblica, la via sembra, quindi, obbligata: non pensavano già i grandi metafisici che questo mondo non si spiega da solo, che ciò che diviene ed è ordinato in vista di un fine rinvia a una Causa dell’ordine e del movimento? Non affermava già Platone che questo mondo è mescolanza di essere e non essere, mentre la realtà vera e divina è quella immateriale, immutabile ed eterna? E allora Jahvè può essere identificato con la Causa Prima del mondo, tanto più che anche la Bibbia lo presentava come signore dell’universo. Già molti Padri della Chiesa, tra cui per esempio Agostino d’Ippona, seguono questa via, rifacendosi esplicitamente a Platone. Ma quando, nel medioevo, si avrà un’adeguata conoscenza delle opere di Aristotele, i pensatori della Scolastica cominceranno ad attingere alla sua metafisica, che sembra tenere meglio conto dei dati d’esperienza. Così farà, in particolare, Tommaso d’Aquino, e poiché il suo tentativo di elaborare procedimenti di ordine razionale che conducano ad ammettere l’esistenza di Dio è comunemente considerato il più rigoroso, ci limiteremo, in questa sede, a esaminare gli argomenti da lui addotti. Tommaso e la nozione di ente Va ricordato, anzitutto, che Tommaso riprende le nozioni aristoteliche di materia e forma, potenza e atto, sostanza e accidente. Ritiene, però, che non basti concepire la sostanza come sinolo di materia e forma per descrivere adeguatamente la re51 altà che conosciamo mediante i sensi. L’uomo, per esempio, è un animale (materia) razionale (forma): ma ciò non è sufficiente per definire quest’uomo che mi sta di fronte. Questa persona, infatti, è un animale razionale che esiste qui e ora. Perché la descrizione sia completa, occorre dunque dire che è un animale razionale (materia + forma = essenza) che esercita un atto d’essere (esistenza). Ecco: la realtà per Tommaso è un insieme di enti, cioè di essenze che esistono in atto. Tali enti, poi, sono soggetti al divenire, si trasformano attuando le loro potenzialità: quest’albero esercita un suo atto d’essere, ma può diventare cenere e, se lo brucio, cessa di esistere come albero e comincia a esistere come cenere in atto. Ciò posto, ci chiediamo: gli enti di cui facciamo esperienza costituiscono tutta la realtà? Le cose sensibili che esistono, e che divengono, hanno in se stesse la ragione sufficiente della loro esistenza e del loro divenire? Se non l’hanno, e per Tommaso non ce l’hanno, questa costatazione diventa il punto di partenza di un cammino che porta la ragione a scoprire una realtà di cui non abbiamo esperienza ma che è necessario ammettere perché non siano contraddittori, in quanto privi di adeguato fondamento, l’esistenza e il divenire del mondo sensibile. L’esistenza di Dio, oggetto di dimostrazione Questo ragionamento Tommaso l’ha articolato in cinque modi, scegliendo come premessa l’uno o l’altro dei segni di fragilità, di contingenza della realtà di cui abbiamo esperienza. Dato che qui si tratta del Dio cristiano che, come dicevamo all’inizio, è quello a cui oggi pensiamo spontaneamente, mi sembra opportuno esaminare nei suoi passaggi decisivi, segnalandone qualche aspetto discutibile, il testo classico sull’argomento, l’articolo 3 della seconda questione della prima parte della Somma teologica. Ancor prima, però, va rilevato che per Tommaso l’esistenza di Dio può e deve essere dimostrata in maniera rigorosa. All’o52 biezione per cui essa è oggetto di fede e non di scienza, egli risponde infatti che l’esistenza di Dio, e altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale, “non sono articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede; difatti la fede presuppone la conoscenza naturale, così come la grazia presuppone la natura e la perfezione il perfettibile. Tuttavia nulla impedisce che una cosa, che è di per sé oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata come oggetto di fede da chi non arriva a comprenderne la dimostrazione”135. La tesi è formulata con la massima chiarezza, e non va edulcorata: l’esistenza di Dio ‘è di per sé oggetto di dimostrazione e di scienza’. Prima e seconda via Chiarito ciò, la prima delle cinque vie136 prende spunto dall’innegabile esperienza del divenire. Poiché tutto ciò che si muove, e cioè passa dalla potenza all’atto, è mosso da qualche altra cosa che è già in atto137, e poiché non si può procedere all’infinito perché altrimenti non ci sarebbe nessun movimento, dato che “i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano”, bisogna necessariamente concludere, sulla falsariga di Aristotele, che c’è “un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio”138. L’argomento è valido, ovviamente, solo se si accetta la negazione aristotelica della physis come forza generatrice autosufficiente. In quest’altra ipotesi, cara come abbiamo visto ai presocratici, il primo motore sarebbe la natura stessa, da loro considerata appunto divina. La seconda via prende le mosse dalla costatazione che nel mondo sensibile c’è una catena di cause efficienti. Poiché una cosa non può essere causa di se stessa e poiché non si può procedere all’infinito perché altrimenti nessuna cosa sarebbe in grado di causarne un’altra, necessariamente “bisogna am53 mettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio”. Questo argomento sembra una variante del precedente139, e quindi ha la stessa forza probativa e gli stessi limiti di quello. Quarta e quinta via Tralasciando per ora la terza, passiamo alla quarta via, che muove dalla costatazione che nella realtà il bene, il vero e altre simili perfezioni si trovano in grado maggiore o minore. Ma parlare di più o di meno non ha senso se non in riferimento a un livello massimo. Quindi c’è un essere che non solo possiede queste perfezioni in sommo grado ma anche le comunica alle altre cose: infatti, “ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutto ciò che appartiene a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore […]. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio”. Argomento, questo, convincente solo se sono valide le intuizioni metafisiche di Aristotele e ancor più di Platone: in particolare, una visione gerarchica della realtà e l’idea che ciò che un ente ha di essere e di bene lo ha per partecipazione dell’Essere e del Bene. La quinta via parte dalla costatazione che ci sono cose che operano regolarmente in vista di un fine: un albero di mele, per esempio, pur privo d’intelligenza produce sempre mele, e ciò non può essere un caso. Ma “ciò che è privo di conoscenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere dotato di conoscenza e intelligenza […]. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine, e quest’essere chiamiamo Dio”. Quest’argomento sembra presupporre una visione del mondo (specie fisse, finalismo) superata dalle acquisizioni della scienza. Se si accetta la teoria evoluzionistica e si riconosce il ruolo che hanno il caso e la necessità nelle trasformazioni del mondo della natura, la solidità dell’argomento resta gravemente com54 promessa. Infatti, la riflessione filosofica, che certo si muove su un piano diverso da quello della scienza, si basa pur sempre sull’esperienza, e oggi questa non è più quella immediata e ingenua di cui disponevano i pensatori dell’antichità ma quella elaborata con rigore scientifico, di cui il filosofo non può non tener conto. Terza via Sulla terza via140 credo che sia necessario fermarsi più a lungo, perché si basa sulla concezione dell’essere propria di Tommaso. Il punto di partenza è dato dalla costatazione che alcuni enti non ci sono stati sempre e non esisteranno sempre: questo gatto, per esempio, è nato un anno fa e tra alcuni anni morirà. L’essenza di questi enti, quindi, non implica di per sé l’esistenza: all’essenza questa si aggiunge, per così dire, dall’esterno, tanto che può essere perduta senza che l’essenza resti modificata. Gli enti che cominciano a esistere e cessano di esistere li chiamiamo ‘contingenti’: capita che esistano ma potrebbero benissimo non esistere. Ma, allora, come mai esistono? Da dove ricavano l’esistenza? In sostanza, come mai c’è qualcosa anziché il nulla? In effetti, sostiene Tommaso, se ci fossero solo realtà contingenti, la loro esistenza sarebbe contraddittoria, perché esse verrebbero tutte all’essere… dal non essere. Per evitare la contraddizione, non c’è che una possibilità, e cioè che non esistano solo realtà contingenti. La ragione, infatti, ci dice che ciò che esiste ma non ha di per sé l’essere non può che riceverlo da qualcuno o qualcosa che possiede l’essere in proprio, un essere cioè la cui essenza è appunto quella di esistere. Moltiplicare il numero degli esseri contingenti non servirebbe, essendo l’intera serie pur sempre contingente e quindi senza una ragione sufficiente del proprio esistere: allungando all’infinito la serie degli asini, è evidente che non si otterrà mai un elefante. Partendo dall’esperienza 55 ma oltrepassandola, possiamo perciò affermare con certezza che esiste un essere necessario, cioè un essere che non può non esistere, in cui appunto s’identificano essenza ed esistenza. In sintesi: 1) sappiamo che qualcosa esiste: alberi, animali, uomini…; 2) questi enti o hanno l’essere in proprio, e quindi non hanno bisogno di altro per esistere, o lo ricevono da altro; 3) ma non l’hanno in proprio, dato che lo ricevono nascendo e morendo lo perdono; 4) dunque, se esistono, esistono perché ricevono l’essere da altro; 5) una serie infinita di enti non è la soluzione, perché l’intera serie, per esistere, ha bisogno di ricevere l’essere; 6) quindi, perché l’esistenza di un insieme di enti che esistono ma potrebbero non esistere non sia contraddittoria, occorre ammettere un essere che esiste di per sé e che dà l’essere a ciò che altrimenti non esisterebbe. Perplessità Le mie perplessità in merito alla terza via riguardano non il rigore del ragionamento ma la solidità del punto di partenza. È vero, infatti, che noi costatiamo che ci sono enti che nascono e muoiono: ma ciò significa che qualcosa viene all’essere (dal nulla) e lo perde (tornando nel nulla), o piuttosto che c’è qualcosa che si trasforma, restando sempre essere? Un seme diventa albero, e poi tavolo e poi cenere: siamo sempre nel campo dell’essere141! Gli individui appaiono qualcosa di fragile (ora esistono, ora non esistono), ma la realtà di cui abbiamo esperienza si presenta, nel suo complesso, con una sua consistenza. In sostanza: l’esperienza attesta la contingenza dei singoli enti non quella del mondo della natura. Se questo, in base alla nostra esperienza, non è mai sfiorato dal nulla, conserva la sua legittimità la domanda: perché c’è l’essere e non il nulla, con la conseguente necessità di giustificare quell’essere? In altri termini: se, riguardo ai singoli enti, avessimo esperienza del passaggio dal nulla all’essere, allora quella domanda sa56 rebbe ineludibile e la ragione imporrebbe il ricorso a un essere sussistente che fa esistere tutta la serie degli enti contingenti, perché moltiplicare il loro numero non basterebbe certo a risolvere il problema. Se invece abbiamo esperienza di un essere che resta tale nella molteplicità delle sue manifestazioni, esso ha già una sua consistenza e quel ricorso non è più necessario. L’individuo, è vero, nasce e muore, ma la realtà nel suo complesso si trasforma, passando dalla potenza all’atto. È l’ipotesi aristotelica, di una materia prima che assume sempre nuove forme: il mondo esiste di per sé, eternamente attratto dal Motore immobile. Perché Tommaso esclude questa ipotesi? E perché esclude quella ancora più radicale, sostenuta dai presocratici, di una natura naturans assolutamente autosufficiente, se evidente è la contingenza dei singoli enti ma non quella del tutto, inteso come forza generatrice di quelli (e in tal caso il tutto non sarebbe l’improbabile elefante ottenuto moltiplicando gli asini ma la realtà di cui facciamo esperienza nel perenne fluire degli enti)? La sua posizione mi pare che si fondi non sull’esperienza, dato che non sperimentiamo mai passaggi dall’essere al non essere e viceversa, ma sulla Bibbia. Infatti, fa precedere i suoi cinque argomenti dalla citazione: “Nell’Esodo si dice, in persona di Dio: Io sono Colui che è”. Forse proprio su questa premessa, suggeritagli dalla Scrittura, tradotta per giunta, come abbiamo visto, in maniera poco corretta, Tommaso ha elaborato la sua metafisica dell’essere. Dio stesso ha rivelato il suo nome: egli è l’Essere per essenza. Ne consegue che, se solo lui ha l’essere in proprio, tutto il resto, se esiste, non può che ricevere l’essere da lui. Si ha così l’impressione che, grazie alla Bibbia, si abbia la certezza, ancor prima di elaborare la dimostrazione razionale, che Dio è l’essere necessario e il mondo la realtà contingente. 57 La metafisica dell’Esodo Ciò non deve stupire perché, come ricorda un tomista insigne quale Gilson, Tommaso non fa il filosofo ma il teologo. Quando parla dell’esistenza di Dio, egli cita, perciò, a buon diritto il versetto dell’Esodo ed elabora argomenti di ragione per confermare quella verità, sicché non si comprende nulla della Somma teologica “se si perdono di vista per un solo istante la rivelazione fatta da Dio della propria esistenza e il nome col quale vi si è rivelato”142. E lo stesso Gilson nota, cosa del resto ovvia, che sarebbe ridicolo pensare che filosofia e teologia non convivano e non collaborino nella mente di un uomo: Tommaso “non mantiene con tale fermezza la distinzione formale delle due luci e delle due sapienze che per meglio permettere loro di collaborare, senza confusione possibile ma senza falsi scrupoli e in intima familiarità”143. Credo, perciò, che il posto di rilievo che la citazione biblica occupa nell’articolo non possa e non debba essere sottovalutato. Ma, prescindendo dal versetto dell’Esodo e dalla sua traduzione poco corretta144, la tesi tomista che, affermando la semplicità di Dio perché in Lui si identificano essenza ed essere, considera invece gli enti composti di essenza ed essere, è razionalmente fondata? Con grande onestà intellettuale, Gilson riconosce che “molte ragioni suggeriscono la composizione negli enti di essenza ed essere, ma nessuna la dimostra in maniera rigorosa”145. Qualche riserva sulla validità della terza via mi sembra, dunque, legittima. La creazione dal nulla Alla concezione tomista di Dio come Ipsum esse subsistens è strettamente collegata, poi, la teoria della creazione del mondo dal nulla. Ma anche questa tesi è razionalmente fondata solo a condizione che si sia certi che Dio è l’essere stesso. In tal caso, infatti, fuori di Dio c’è il nulla: se esiste qualche ente, è perché lui l’ha creato traendolo dal nulla e mantenendolo 58 costantemente nell’essere. Il mondo, quindi, di per sé sarebbe nulla146; se esiste, deriva la sua reale consistenza dall’essere divino non per emanazione, alla maniera di Plotino, ma per partecipazione: e “partecipare non significa essere una parte di ciò di cui si partecipa, ma avere il proprio essere e riceverlo da un altro essere”147 Ma, se è dubbia la composizione negli enti di essenza ed essere, diventa per conseguenza dubbia anche la tesi della creazione dal nulla, suggerita dall’immagine biblica di un Dio creatore, che però, come abbiamo visto, forse è anch’essa frutto di un’errata traduzione della Genesi. Quel che è certo è che, con i pensatori cristiani, l’idea che i Greci avevano di Dio e del mondo viene trasformata ben più di quanto non appaia a prima vista. Per quanto riguarda Dio, infatti, divino in qualche modo era il mondo stesso, e non solo per i presocratici ma anche per Platone e Aristotele148. Per i cristiani, invece, Dio è totalmente svincolato dal mondo, lo trascende infinitamente149, anche se è presente in esso in quanto causa della sua esistenza150. Parimenti, per quanto riguarda il mondo, la teoria della creazione dal nulla per un libero atto di volontà è semplicemente inconcepibile per i Greci151. I pensatori cristiani negano, infatti, l’esistenza autonoma delle particelle che si aggregano dando origine ai mondi immaginati dagli atomisti, della materia informe e disordinata di Platone e dell’universo eterno di Aristotele152. Il mondo perde perciò ogni sua consistenza: esso ha ormai interamente fuori di sé la causa non solo del proprio ordine e della propria bellezza ma anche del proprio essere. Dato l’abisso che lo separa dal creatore, esso appare desacralizzato: diventa il mondo secolarizzato, che oggi conosciamo153. Motore immobile e Dio biblico Ma, ammesso che si possa dimostrare l’esistenza di un Motore immobile, di una Causa prima, di un Essere necessario, di un Essere perfetto, di un’Intelligenza ordinatrice, è stata così di59 mostrata anche l’esistenza di ‘Dio’? Tommaso pensa di sì, tanto che, come abbiamo ricordato, conclude le sue prove affermando, per esempio, che c’è “un primo motore e tutti riconoscono che esso è Dio”. Siamo però sicuri che l’idea di Motore che, in quanto fine ultimo, rende intelligibile il divenire possa identificarsi col Dio dell’esperienza religiosa? Sembra difficile credere che ai lettori cristiani di Tommaso venga spontaneo collegare al primo motore il Dio biblico che interviene nella storia e che in Gesù rinnova la sua alleanza! La filosofia, infatti, ha difficoltà a immaginare Dio come un Tu, perché lo concepisce come l’Assoluto, la Causa prima o il Fine ultimo, ma non come una Persona che interpella e ama altre persone. Quindi bisogna riconoscere, come fa Gilson, che ‘Dio’ è un termine proprio non del linguaggio filosofico ma di quello religioso: “l’ontologia del filosofo, se si interdice di prendere in considerazione tutto ciò che è diverso dal suo oggetto proprio, si interdice con ciò stesso di raggiungere il Dio della religione”154. Il Dio dei filosofi, il Fondamento dell’essere, ha poco a che fare, in effetti, col linguaggio della religione. Le grandi narrazioni mitiche, che parlano di un Dio misericordioso, di una Presenza benevola che ci avvolge e ci salva, di un essere personale da ringraziare e da lodare, non hanno molto in comune con l’imperturbabile Atto puro della filosofia. È solo all’interno dell’esperienza religiosa – che valorizza momenti diversi dal procedimento razionale, come l’intuizione poetica o la dimensione affettiva o la purezza del cuore – che il termine ‘Dio’ acquista la sua pregnanza e la sua incidenza sulla vita umana. ‘Dio’ non è un termine del linguaggio filosofico… Ma, prima di occuparci dell’esperienza religiosa, dobbiamo ancora chiederci se, servendoci solo della ragione filosofica, sappiamo di cosa stiamo parlando quando nominiamo Dio. A rigor di termini, no, risponde Tommaso. La ragione, infatti, può dire che Dio è, non che cosa è155, perché l’oggetto proporziona60 to alla nostra intelligenza è la realtà sensibile, e quindi i nostri concetti, come ‘bellezza’ o ‘bontà’, e persino la nozione di ‘essere’, riferendosi in senso proprio alle creature, non possono essere applicati a Dio. Perciò Tommaso afferma esplicitamente che, innalzandoci a Dio, dobbiamo negare non solo gli altri concetti ma la stessa nozione di essere156. È vero che per Tommaso è possibile, poi, affermare di Dio, e in maniera eminente, quanto è stato in precedenza negato, ma ciò non significa che si abbia, allora, una conoscenza di Dio. Affermare, infatti, che Dio è ‘essere’ in modo eminente non vuol dire che noi sappiamo quale sia il suo essere. Neanche per via analogica, dunque, come ribadisce il Gilson, conosciamo Dio: “partendo dall’essere, non si può in effetti arrivare che a dell’essere, ed è ciò che si fa ponendo Dio come l’Essere, puramente e semplicemente. È naturale che degli spiriti non metafisici credano di formarsi con ciò un concetto positivo di Dio, ma poiché noi lo poniamo come supremo in una linea che parte dalla creatura, Essere è ancora per Dio un nome di creatura”157. Bisogna, perciò, dare tutto il loro peso alle ripetute affermazioni di Tommaso sulla inconoscibilità di Dio: “l’ultimo passo della nostra conoscenza di Dio è nel conoscere che non lo conosciamo”158; “giunti al termine della nostra conoscenza, noi conosciamo Dio come inconosciuto”159. Anche chi pensa che, perché l’esistenza della realtà contingente non appaia contraddittoria, si debba ammettere una realtà divina, un Ipsum esse subsistens, sa che di essa non possiamo dir nulla, perché totalmente diversa da quella che conosciamo. … ma del linguaggio religioso La filosofia, dunque, non è in grado forse – e sottolineo il forse – di dimostrare l’esistenza di Dio, la cui natura, in ogni caso, resterebbe sconosciuta. Chiuso, allora, il discorso su Dio? Nient’affatto, perché quella filosofica non è l’unica via percorribile: anzi ‘Dio’ è un termine proprio di una differente espe61 rienza, quella religiosa160. E, anche nell’ipotesi che l’esistenza di Dio non sia dimostrabile in maniera rigorosa, non è detto che l’esperienza religiosa sia qualcosa d’irrazionale, da accettare per cieco fideismo. Pur ammettendo, infatti, che le prove dell’esistenza di Dio non siano cogenti, ciò non significa che l’autosufficienza del mondo sia evidente e che tutti i problemi siano perciò risolti. La filosofia, quindi, giustamente s’interroga su Dio, e forse, pur con crescente consapevolezza dei propri limiti, non cesserà mai di farlo. Ma, se non trova una soluzione definitiva161, lascia almeno spazio a esperienze di altro genere. Fatto salvo, dunque, il valore dell’interrogazione filosofica sul senso ultimo delle cose, e ridimensionata la pretesa di trovare con la ragione risposte incontrovertibili, credo che l’atteggiamento più ragionevole sia quello del rispetto per le diverse possibili opzioni riguardanti l’esistenza di Dio162. Non tutto, infatti, è dimostrabile o esprimibile col linguaggio della ragione163: come descrivere, per esempio, in termini concettuali l’esperienza dell’amore tra due persone? In effetti, è impossibile tradurre in linguaggio razionale la certezza di amare e di essere amati, ma ciò non significa che si tratti di esperienze irrazionali. A buon diritto Pascal ricordava che “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”164. Anche se non fosse dimostrabile razionalmente, l’ipotesi Dio potrebbe quindi essere tuttavia plausibile, e magari più credibile di quella di una natura divinizzata. L’esperienza, infatti, ci dice che la realtà è a un tempo affascinante e terribile: bellezza che riempie l’animo di ammirazione e problematicità che interroga la ragione, e non solo la ragione. Inevitabile allora chiedersi: il mondo ha o no un senso? E si può essere davvero certi che tale senso ci sia o non ci sia? Mentre il pensiero s’interroga, la vita pone di fronte alla necessità di fare delle scelte andando non contro ma oltre la pura ragione. Credere che la realtà abbia un senso, guardare alla vita con fiducia nonostante i suoi aspetti drammatici non è certo un’opzione irragione62 vole, e anzi questa fiducia è tanto più ragionevole quanto più essa trova il suo fondamento in quella X che chiamiamo Dio165. In tale prospettiva, l’esistenza di Dio è dunque non oggetto di dimostrazione ma di fede, intesa come fiducia, certo spesso condizionata da fattori accidentali166, nella possibilità che il mondo e la storia e la vita umana abbiano un senso. E in effetti “coloro che professano tale fede, siano essi cristiani o non-cristiani, vengono definiti a ragione credenti in Dio”167. Come nel caso dell’ateismo, che crede che il mondo dell’esperienza non esiga ulteriori spiegazioni, si tratta qui certamente di una scelta di fede, non però arbitraria ma plausibile; di una decisione, sempre esposta al dubbio, che crede “nella pienezza ultima di significato e valore della realtà, nell’origine, nel senso e valore supremo che [in qualche modo] traspaiono in superficie”168. Limiti del linguaggio religioso Se non è detto che l’esperienza religiosa sia qualcosa d’irrazionale, resta vero che un linguaggio che parla di Dio come di un Padre o di uno Sposo, e che in questi termini gli si rivolge nella preghiera, ha però i suoi pericoli, perché tali immagini rischiano costantemente di essere prese alla lettera, suscitando l’illusione di conoscere la realtà ultima169. Tuttavia, questo rischio è ineliminabile170, perché l’uomo non può riferirsi a Dio che muovendo dalla propria esperienza umana, tanto che non solo le immagini più grossolane ma persino il linguaggio teologico più rigoroso e raffinato sono sempre inadeguati per parlare di Dio, che resta in se stesso inconoscibile171. Per evitare di cadere nell’antropomorfismo più ingenuo è perciò necessario che i credenti abbiano una coscienza, costantemente rinnovata, del fatto che sia le immagini mitiche sia i concetti utilizzati per offrirne un ripensamento sistematico sono prodotti dell’uomo e non raggiungono la realtà di Dio. Il valore puramente simbolico delle rappresentazioni di Dio è efficacemente messo in rilievo dal Kaufman mediante la di63 stinzione di due termini di riferimento per la parola ‘Dio’: uno accessibile, l’immagine costruita dall’uomo mediante le metafore del linguaggio religioso, e uno reale, che resta inevitabilmente misterioso. È solo grazie al termine di riferimento accessibile che Dio influisce sulla vita dei credenti, mentre “il vero termine di riferimento che corrisponde a ‘Dio’ non ci è mai accessibile, come non è offerto alla nostra osservazione o alla nostra esperienza. Esso deve restare sempre un X sconosciuto, una semplice idealimite senza contenuto. Ciò consegue dal fatto che Dio trascende la nostra conoscenza secondo modi e forme che non conosceremo mai e di cui non abbiamo neanche alcun sospetto”172. In conclusione L’interpretazione in termini religiosi della realtà resta, dunque, frutto di una libera scelta, che ha tuttavia le sue ragioni. L’identificazione del mistero ultimo con Dio è, infatti, opera di quell’atteggiamento, che nell’esperienza religiosa è chiamato ‘fede’, per cui si accetta qualcosa che non è verificabile in modo puramente razionale. E la giustificazione più efficace della ragionevolezza della scelta religiosa, della sua capacità di fondare, con la speranza in Dio, l’impegno volto, nonostante tutte le smentite della storia, alla costruzione di un mondo più umano, potrebbe essere costituita, ancor più che dagli argomenti teorici, dalla vita stessa dei credenti. Infatti, pur divise quanto alla dottrina, le grandi tradizioni religiose – dal confucianesimo al buddismo e all’induismo, dall’ebraismo al cristianesimo e all’islamismo – non pongono tutte l’accento su una prassi che renda la vita umanamente degna? Non concordano su un principio che, pur con numerose varianti, si può sintetizzare così: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te? E forse proprio i testi fondativi dell’esperienza cristiana suggeriscono qualcosa del genere, esigendo più che una rigorosa ortodossia, e cioè una corretta cono64 scenza della verità, una generosa ortoprassi, e cioè una vita fondata sulla giustizia e sull’amore. Conosce veramente Dio chi difende il povero e l’indigente173, si legge nell’Antico Testamento, perché, conferma il Nuovo, “nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”174. 65 MARIO TROMBINO CHI È DIO? LA RICERCA FILOSOFICA SU DIO, NEL SUO RAPPORTO COL MONDO E CON L’UOMO, NELL’ETÀ DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA All’inizio del Seicento Francesco Bacone ha sostenuto che «la natura si comanda obbedendole». Diceva una cosa ovvia, ma a volte le cose ovvie, se usate come linee-guida per la ricerca e l’azione, possono assumere un ruolo dirompente. Qui le ovvietà poi sono due: - È ovvio che se vogliamo che la natura si comporti secondo i nostri desideri dobbiamo dominarla: di per sé la natura non è affatto sotto il nostro comando. - È ovvio che dominare la natura non significa cambiarne le leggi, ma solo sfruttarle ai nostri fini. Corollario a quanto diceva Bacone è quindi una sua seconda massima, davvero lapidaria: «sapere è potere». Vogliamo dominare la natura perché esegua i nostri ordini? Non possiamo fare questo cambiandone le leggi: niente miracoli. Ma possiamo far sì che le sue leggi siano sfruttate ai nostri fini. È quindi ovvio che queste leggi dobbiamo conoscerle. È questo a darci il potere sulla natura: sapere è quindi potere. 66 Immagino che stiate pensando: cosa c’entra questo con Dio, e soprattutto con la domanda “chi è Dio?” Non è forse la scienza ad occuparsi della ricerca sulle leggi della natura, e non è alla scienza che i tecnici si rivolgono per avere gli strumenti tecnologici con cui dominarla? E la scienza non si pone problemi teologici: si ferma ai problemi che riguardano la natura. Ora, è indubbiamente così finché non si pongono domande che riguardano le leggi che definiscono l’architettura profonda della natura. Ma è ancora così quando ci si chiede che cosa sono lo spazio e il tempo? È ancora così quando ci si chiede perché le leggi della natura sono queste e non altre? Gli scienziati sono persone prudentissime, quando sono davvero scienziati. E non usano spesso la parola Dio. O meglio non la usano più, se non metaforicamente (come quando Einstein dice che Dio non gioca a dadi). Bene, usiamo anche noi un altro termine. Ma di cos’altro sta parlando uno scienziato quando si chiede quali sono le forze fondamentali della natura che la unificano sino a formare un Tutto, e qual è il loro fondamento, cioè la ragione per cui sono così e non altrimenti? Al contrario di adesso, nel linguaggio scientifico del Seicento il termine Dio è ancora di casa. Non indica mai, in nessun caso, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – cioè il Dio della rivelazione che per i filosofi-scienziati del Seicento è ancora pericoloso da indagare (si rischia il carcere, o la vita, e non solo in aree cattoliche). Indica il fondamento della natura. L’ente su cui riposano le sue leggi, la sua architettura profonda e quindi, in primo luogo, lo spazio e il tempo. Perché è decisivo conoscere questo fondamento, se vogliamo davvero comandare alla natura obbedendole? Perché finché non avremo davvero capito quali sono le leggi che strutturano questa architettura non potremo dire di sapere, e noi vogliamo sapere perché sapere è potere. 67 Nel Seicento per gli scienziati Dio è quindi all’interno della loro problematica scientifica. Ma non fa miracoli, non manda qualcuno a salvare gli uomini, non è oggetto di adorazione. È il fondamento su cui riposa la struttura della realtà. Quindi è ovvio che ci sia: non è mai in discussione la sua esistenza, ma chi è, o che cosa è. L’ateismo è di un’altra e ben diversa età: nasce nel Seicento, quando porre domande sul fondamento della natura non è più di moda e altre preoccupazioni governano la mente degli scienziati, che ben raramente sono ancora filosofi. Il problema di Dio governa ancora la mente dei filosofi, ma ben difficilmente si tratta ancora di scienziati: scienza e filosofia hanno ormai preso direzioni diverse. È mia opinione che sia utile tornare al Seicento, e riunificare filosofia e scienza – anzi filosofia e qualsiasi altra forma del sapere. Ho due argomentazioni da portare a sostegno di queste tesi, ma ne accennerò solo brevemente, perché esulano dal nostro argomento, che è limitato al Seicento: - la prima argomentazione si basa sul fatto che un fondamento delle leggi di natura, cioè una ragione per cui sono così e non altrimenti, deve esserci, visto che la natura ha una architettura interna e non un’altra; - la seconda argomentazione si basa sul fatto che, come filosofo (cioè persona che vuole conoscere questo fondamento) è del tutto irrilevante usare una via o l’altra (la filosofia, la scienza, l’arte, o altro): è rilevante conoscere qual è questo fondamento. Sarà il caso di precisare che a questo fondamento in passato, oltre che il nome di Dio, è stato a volte dato il nome di essere, da Parmenide in poi in diretta contrapposizione col termine nulla. Ora, il termine nulla (in frasi del tipo: perché c’è l’essere piuttosto che il nulla?) non indica un contenuto del pensiero (un’idea), ma due: l’essere e la negazione. Non si pensa mai il nulla, come potrete rendervi conto con un semplice esperi68 mento mentale che adesso vi proporrò, ma solo qualcosa che c’è, per poi negarlo. Il termine essere invece è una idea, non due. Non che noi si sappia che cosa è (è quello che andiamo cercando), ma non è affatto dubbio che ci sia: qualcosa c’è, lo sappiamo attraverso l’esperienza del mondo esterno e attraverso le nostre sensazioni interne, a meno di non avere capito nulla di nulla (cosa mai da escludere del tutto, per la necessaria prudenza di chi vuol sapere davvero). In discussione è che cos’è l’essere di questa cosa che c’è, non se questo essere c’è. Così ragiona uno scienziato del Seicento, che non dubita mai che Dio esista, ma vuol sapere chi (o che cosa) è. (Sull’impensabilità del nulla: guardatevi bene intorno, qui ed ora; potete facilmente formarvi un’immagine mentale di questa stanza e di me che vi parlo, e poiché venite da fuori e sapete che lì c’è il centro storico di Leonessa, potete con la memoria collocare le immagini che vedete adesso nello spazio circostante; ma se nel corso di un esperimento mentale provate a eliminare a una a una le cose che vedete, poi Leonessa, poi il vostro corpo, poi tutto il resto, non riuscirete a portare sino in fondo l’esperimento e a togliere anche quel colore di fondo che vi rimane in mente, scomparso tutto il resto: finché pensate, pensate qualcosa; non accade mai che pensiate nulla; il nulla, non essendo qualcosa, è impensabile.) Le teorie che sono state elaborate nel corso del Seicento sono riconducibili a tre famiglie: - teorie che fanno riposare il fondamento del mondo su un Dio unico, perfetto ed esterno alla fisicità della natura, quindi altro rispetto allo spazio e al tempo: vedremo due esempi di questa visione del fondamento delle leggi di natura, parecchio diversi tra loro, nelle teorie di Cartesio e di Newton; - teorie che ritengono impossibile sapere quale sia questo fondamento, e quindi se l’immagine del Dio della tradizione cristiana è corretta; ovviamente questa teoria lascia la scienza 69 stessa senza basi teoriche unitarie, perché sono queste basi ad essere considerate inconoscibili (inconoscibili non vuol dire che non ci sono: vuol dire che non possiamo sapere di che si tratta); ne vedremo un esempio celeberrimo in Pascal; - teorie che fanno riposare il fondamento del mondo su una architettura interna ed eterna, sicché lo spazio e il tempo sono visti come una delle infinite manifestazioni del Tutto (e quindi il nostro universo fisico come una delle infinite realtà che esistono); l’esempio più celebre di questa visione è nelle teorie di Spinoza. È forse opportuno prima di descrivere queste teorie su Dio riflettere un momento sul fatto che le leggi di natura, per un filosofo-scienziato del Seicento, riposano su due entità non direttamente riconducibili alla materia eppure dal preciso significato fisico: lo spazio e il tempo. Che cosa sono? La difficoltà di sapere che cos’è lo spazio dipende dal fatto che non ha caratteristiche che ci consentano di inquadrarlo nel contesto delle nostre esperienze della materia: vediamo oggetti materiali nello spazio, facciamo esperienza dello spazio attraverso il nostro corpo, ma lo spazio non sembra interagire con la materia né è una cosa tra le cose. Ad esempio: di che cosa è fatto? che cosa è lo spazio vuoto? Anche da un punto di vista concettuale è una vera sfida: è finito o infinito? Ne derivano paradossi nell’uno come nell’altro caso (è finito: cosa c’è intorno? è infinito: come fanno due punti nello stesso spazio ad essere ad una distanza infinita tra loro?). Per il tempo le cose sono ancora più complesse: sulla base delle riflessioni dei Greci, è Agostino a sintetizzare il problema in questi termini: il passato non c’è più, il futuro non c’è ancora, il presente passa e non è mai identificabile in un momento che non passi, sospeso quindi tra il passato e il futuro; dunque la realtà del tempo, il suo essere, che cos’è? Partiamo da qui perché qui è il problema. Non possiamo avere 70 alcuna comprensione reale delle leggi che governano la natura (e quindi, baconianamente, non possiamo avere alcuna speranza di dominarla davvero) finché non avremo capito la realtà dello spazio e del tempo, che fanno parte dell’architettura interna alla natura, non essendoci nessun ente naturale a nostra conoscenza al di fuori dello spazio e del tempo. Dove hanno un fondamento? e a quando risale questo fondamento? Le due domande sono poste utilizzando lo spazio (dove?) e il tempo (quando?), ma riguardano il loro fondamento. Ora, questo fondamento è nello spazio e nel tempo? Cartesio e Newton ritengono di no. Entrambi riposano su una realtà eterna. 71 1. DIO COME FONDAMENTO UNITARIO DELLA NATURA, ALTRO DALLO SPAZIO E DAL TEMPO: CARTESIO Cartesio scrive una quarantina d’anni prima di Newton, ed è quindi corretto partire dalla sua risposta al problema. Con un complesso ragionamento che si affida solo alle procedure interne alla mente senza nessun ricorso all’esperienza, Cartesio ha ritenuto di poter dimostrare con certezza razionale che esiste un ente eterno, che ha le caratteristiche dell’infinità e della perfezione. Benché ne abbia proposto una versione ben integrata al contesto della sua teoria generale della mente, Cartesio riprende di fatto un argomento sull’esistenza di Dio che risale a molti secoli prima, essendo stato proposto da Anselmo d’Aosta già nell’XI secolo. È il celebre argomento ontologico, argomento che richiede una notevole attenzione per essere valutato. Anselmo (in una cornice medioevale che in questo contesto non gioca alcun ruolo importante, per cui non la riproporrò) fa dialogare tra loro un credente e un non credente. Il credente porta il suo interlocutore ad accettare questa definizione di Dio: ciò di cui non si può pensare nulla di più grande. I due non sono affatto d’accordo se un simile ente esista, ma per poter discutere hanno bisogno di intendersi sulle parole, e quindi innanzitutto sulla parola Dio. Esiste o non esiste? È chiaro che una questione preliminare è: di cosa, o di chi, stiamo parlando, chiedendoci se esiste o non esiste? Ebbene stiamo parlando dell’ente più grande, il più grande che io possa pensare. Ovvio che esista: deve esistere per forza, perché se penso quest’ente non esistente non è il più grande che io posso pensare. Io, infatti, posso pensarne uno che ha tutte le “grandezze” del primo, e in più l’esistenza. 72 L’argomento è apparso a molti un sofisma, uno di quei ragionamenti di cui ti chiedi dov’è il trucco, come in uno spettacolo di illusionismo. Ma non è affatto stato proposto come un sofisma, e Anselmo (e Cartesio, e molti altri prima e dopo di lui, e io concordo con loro) lo difende contro le accuse: il punto è che un ente totale può essere pensato, ed è difficile sostenere che non esiste, visto che esiste qualcosa. Anselmo, e poi Cartesio, non lo identificano con la totalità della realtà, perché utilizzano la nozione cristiana di creazione, sostenendo che qualsiasi ente deriva da questo fondamento assoluto. Cartesio lo considera del tutto indipendente dallo spazio e dal tempo perché la sua realtà non può essere soggetta a nessuna incompletezza: e qualsiasi realtà nello spazio-tempo lo è, perché non è mai tutta insieme. Diviene, non semplicemente è. Eternità non significa dunque affatto la permanenza in tutti i tempi, perché sono i tempi a non coesistere tra loro (il passato non coesiste col presente, e così via). Eternità è piuttosto l’esistere senza tempo, qualcosa di cui noi – figli del tempo – possiamo solo formarci concetti vagamente nebulosi, matematica a parte (ma Cartesio ragiona proprio da matematico: e gli enti matematici non hanno tempo). Nella visione cartesiana della natura Dio ha quindi il ruolo di fondamento. Ed avendo la natura caratteri spazio-temporali, ha il ruolo di fondamento esterno. Dio non è natura. Ma la conoscenza di Dio è essenziale per la conoscenza della natura perché altrimenti non conosceremmo il fondamento delle leggi di natura, che invece sono per Cartesio molto chiare una volta posto il loro fondamento in Dio. La natura e lo spazio coincidono, non esiste alcuno spazio vuoto per la semplice ragione che dire spazio e dire materia è la stessa cosa: due nomi per lo stesso ente. Questo spazio-materia (il termine latino cartesiano è res esten73 sa, cioè sostanza estesa) è dotato di leggi interne che trovano la loro ragion d’essere nell’azione “eterna” di Dio che crea così la natura, e non altrimenti. Dio è un Dio-geometra, e la natura è una macchina spazio-temporale in cui le forze interne sono in movimento così come, all’origine, è stato definito. Questa visione della natura come macchina, alla quale apparteniamo anche noi avendo un corpo materiale, pone in Cartesio un serio problema, definibile in questi termini: poiché l’uomo non è solo corpo, ma anche qualcosa di non riconducibile alla materia, cioè il pensiero, l’uomo appartiene interamente alla natura? La risposta cartesiana, molto celebre, è negativa: l’uomo non è affatto solo natura, è anche un ente che non ha caratteristiche spazio-temporali: è una sostanza che pensa (nel latino di Cartesio: res cogitans) totalmente altra rispetto alla natura. Due enti in uno. Letteralmente. Ed entrambi riconducibili, quanto ai loro fondamenti, a Dio. Questo spiega perché è pensabile che l’anima-mente (che per Cartesio è pensiero) sopravviva dopo la morte: semplicemente perché non appartiene allo stesso ordine spazio-temporale della natura, ma vi è solo (provvisoriamente) collegato nell’unità della vita umana. Ma l’anima-mente-pensiero non ne dipende in realtà nel suo essere. La lucida visione cartesiana crollerebbe interamente senza il Dio-geometra che spiega sia la natura che la mente. Le leggi che governano questi enti risulterebbero incomprensibili: potrebbero forse essere descritte, enunciate in termini logici e matematici, ma non compresi. In effetti, si pensi all’analogia con una macchina. Se un ente capace di far ricerca scientifica proveniente da un altro pianeta visitasse il nostro pianeta e studiasse le automobili parcheggiate nel parcheggio del nostro albergo senza badare agli uomini, e si chiedesse che cosa sono, 74 potrebbe senza difficoltà (se possiede le stesse conoscenze sulla natura che possediamo noi – e soprattutto che possiedono gli ingegneri che le hanno progettate!) comprendere le leggi che ne consentono il funzionamento, ma fino a che non risalisse a chi le ha costruite e al motivo per cui sono state costruite non potrebbe dire di avere capito che cosa sono le automobili. Se guardiamo, come faremo stasera, il cielo stellato, questa immensa e complessa macchina di cui conosciamo ormai le leggi matematiche che ne governano il movimento e l’intima struttura, che senso ha non cercare di risalire al loro fondamento? Forse Cartesio ha torto e le cose non stanno come pensa lui. Ma in qualche modo devono pur stare, no? 75 2. DIO COME FONDAMENTO UNITARIO DELLA NATURA, ALTRO DALLO SPAZIO E DAL TEMPO: NEWTON Una quarantina d’anni dopo l’elaborazione delle teorie cartesiane, l’idea che la natura sia una macchina aveva conquistato i cuori e le menti degli scienziati. Ma, certo, una macchina veramente complessa. Complessa al punto da non poterne definire le leggi in modo unitario e coerente? Diciamo mediante un numero limitato di equazioni? L’unificazione completa delle forze che formano l’architettura interna della natura attraverso la loro descrizione in un complesso organico di teorie a base matematica è un compito che la scienza si è dato, ma non è stato portato a termine neppure oggi. Un tassello decisivo però venne proposto da Newton alla fine del Seicento nel suo celebre Principi matematici della filosofia naturale, in cui tutti i fenomeni riconducibili alla gravità venivano interpretati unitariamente e unificati in una teoria rigorosa e descritta matematicamente. Nei decenni successivi si poté osservare che il grado di precisione con cui la teoria newtoniana poteva descrivere (e quindi prevedere) il comportamento della natura era altissimo. Il modello galileiano-newtoniano finì col diventare, e restò a lungo, il paradigma stesso della scienza. In una sorta di commento al testo, aggiunto in una seconda edizione, Newton precisò che il fondamento della sua teoria riposava su un preciso ruolo assegnato a Dio nell’ordine fisico del mondo. Non che di questo Dio si possa dire molto: Newton riconosce anzi il fatto che non sappiamo quasi nulla di Lui e soprattutto del modo in cui conosce il mondo e agisce. Ma è assolutamente necessario – da un punto di vista fisico – ammetterne l’esistenza e assegnargli un ruolo perché lo spazio e il tempo nella teoria newtoniana sono “assoluti”, realtà dalle caratteristiche immutabili e costanti che non possono essere 76 spiegate se non ricorrendo ad un fondamento in una realtà assoluta. Ed è questa assolutezza il carattere di Dio che importa sottolineare: “Dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, fonda la durata e lo spazio”. Così Newton nel suo Scolio generale, che avete in fotocopia. Questa necessità di un ancoraggio assoluto della fisica in Dio è tipica dell’impostazione newtoniana della teoria della gravitazione universale. Nel corso del Settecento, insoddisfatti del mistero che questa impostazione porta con sé sui fondamenti gli scienziati cercheranno altre strade, che non prevedono un ancoraggio in Dio. Non che sia venuta meno la questione dei fondamenti: non è mai venuta meno, nemmeno nel XXI secolo. È che la scienza ha cominciato a muoversi sul suo terreno, là dove la luce che la ricerca può fare sul comportamento della natura è, per così dire, a portata di mano, per quanto complesso sia il lavoro dei ricercatori, e lungo nel tempo. I problemi sui fondamenti sono rimasti sullo sfondo, ripresi solo dalle ultime generazioni di scienziati a noi più vicini. Newton non sarebbe d’accordo. È passato alla storia per la teoria della gravitazione universale e per altre teorie fondamentali (ad esempio sulla natura della luce), ma la sua ricerca non si è mai limitata all’ambito della teoria fisica. È stato un grandissimo esperto di metalli, e nei laboratori annessi al suo studio a Cambridge i forni erano accesi giorno e notte. Studiava antichi testi, la tradizione teologica era al centro dei suoi interessi. Cosa cercava nella chimica dei metalli, nella Sacra Scrittura, in ricerche estese in ogni direzione, a 360 gradi, del tutto al di fuori di quelli che dopo sarebbero diventati i confini della scienza? Ceracava quello che cercava con le sue ricerche di ottica, di fisica teorica, di matematica: la comprensione profonda delle leggi che governano la realtà. La natura? Non solo: la realtà. Tutta. Dio compreso. 77 3. DIO COME FONDAMENTO UNITARIO DELLA NATURA, MA IL FONDAMENTO NON SI TROVA: PASCAL Negli anni che stanno tra Cartesio e Newton, Pascal si è dedicato alla stesura di materiali per una sorta di apologia del Cristianesimo. Non si trattava affatto del “Dio dei filosofi”, ma di quello “di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. La differenza è notevole, perché il primo è oggetto di una conoscenza che chiede di essere scientifica, il secondo è oggetto di fede. Ed è a questa che Pascal pensa, dedicando al contempo riflessioni fondamentali al Dio della scienza (e, per conseguenza, alla stessa natura della scienza). E, vale la pena anticiparlo, Pascal scrive per le persone della sua cerchia, molti dei quali erano scienziati, ma “libertini”, profondamente scettici in sede religiosa. Certo, nell’ambiente giansenista in cui Pascal viveva e a cui aderiva, non è scontato che avesse senso una apologia del Cristianesimo. Tutto sommato, infatti, per un giansenista Dio salva chi vuole, e la schiera degli eletti è piccola; è inoltre del tutto incomprensibile per l’uomo sulla base di quale criterio Dio conceda la sua grazia che salva, né esiste il benché minimo indizio che permetta di stabilire se un uomo sia o meno tra gli eletti. Dunque, non potendo l’uomo di fatto far nulla di concreto per ottenere questa grazia, ed essendo essa un libero dono di Dio, che senso ha un’apologia del Cristianesimo, che inviti gli uomini, e i libertini in specifico, ad aderire alla fede? La stessa fede, in fondo, è un dono di Dio, e se non si ha questo dono non si riesce a credere neppur volendo (Pascal lo chiarirà nel celebre brano sulla “scommessa” a favore dell’esistenza di Dio). Per rispondere a questi interrogativi sollevati da vari interpreti, è opportuno riportare un passo del giansenista Barcos citato da Goldmann: “Quanto a voi che mi dite: se io sono nel numero dei reprobi, che cosa mi vale praticare il bene? Non siete 78 forse troppo crudele verso voi stesso destinandovi alla peggiore infelicità, senza sapere se Iddio vi abbia o no destinato ad essa? Egli non vi ha rivelato il segreto della sua decisione sulla nostra salvezza o la nostra dannazione. Perché vi attendete più i castighi della sua giustizia che non le grazie della sua misericordia? Forse egli vi concederà la sua grazia, e forse no, ma perché non sperate nella stessa misura in cui temete (…)? Con la disperazione perdete infallibilmente quello che forse la speranza vi potrebbe dare. (…) Ma a che cosa mi serviranno le buone opere, se non sono predestinato? Che cosa perdete se obbedendo al vostro creatore, amandolo, facendo la sua volontà, o meglio, che cosa non guadagnerete se vivete e perseverate nell’amarlo? (…) Non costituisce forse il vostro bene e la vostra felicità sia sulla terra che in cielo l’adorarlo, l’amarlo e il seguirlo?”. Se erano queste le idee che circolavano negli ambienti giansenisti vicino a Pascal, la decisione di spendere le proprie ultime energie (Pascal era molto malato, e ormai vicino alla fine, al momento in cui mise mano al progetto di una apologia del Cristianesimo) per convincere il “mondo” a convertirsi e ad cercare Dio – il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non quello dei filosofi! – appare motivata: come dirà nelle battute conclusive del brano sulla scommessa, è bene per l’uomo vivere come se Dio esistesse. Nella insensatezza della vita, in Lui risiede la concreta felicità. E non sappiamo se esiste! Infatti, che cosa significa sapere? Si tratta di individuare quali sono le fonti della conoscenza. Su quale fondamento è possibile costruire un percorso di ricerca della verità? Sono i grandi temi della ricerca filosofica di Cartesio, temi che all’epoca della formazione giovanile di Pascal erano all’ordine del giorno nella Francia colta alla quale la famiglia Pascal apparteneva. Più in generale sono i temi del secolo, dominato 79 dalla questione del metodo della ricerca scientifica e dallo studio della mente dell’uomo. Ora, Pascal distingue radicalmente - la fondazione teologica della conoscenza, che riposa su una fonte esterna (le Scritture in quanto verità rivelata) e su una interna all’uomo (la facoltà di conoscenza che Pascal chiama cuore); - la fondazione filosofica della conoscenza, che si basa esclusivamente sulle facoltà di conoscenza dell’uomo, che operano con stili e modalità diverse, ma dipendono comunque solo da lui (e, a monte, dal doppio ordine della natura di cui l’uomo è espressione: l’ordine materiale a cui appartiene il corpo, l’ordine spirituale a cui appartiene lo spirito). Tra le due fondazioni non c’è né ci potrà essere alcuna comune misura né mai il sapere umano potrà avere una sola fondazione. Le ragioni sono riassumibili in sintesi in questo modo: a) le facoltà di conoscenza dell’uomo non possono, per la loro stessa natura, accedere all’infinito e al tutto (e la teologia appartiene a quest’ordine); hanno però nello stesso campo scientifico l’esigenza insopprimibile di accedere all’infinito e al tutto, un’esigenza che non può essere né soppressa né soddisfatta: infatti - l’infinito è chiamato in causa in qualsiasi tipo di conoscenza come possibilità o necessità logica (lo richiede l’immaginazione che vede il finito e si chiede che cosa c’è oltre; lo richiede la ragione, che pone domande sulla infinità dello spazio, dei numeri, e così via); - qualsiasi conoscenza parziale è, in modo compiuto, comprensibile solo come frammento del tutto (quindi senza conoscere il tutto la conoscenza delle parti rimane per forza di cose parziale e, in fondo, limitata); 80 b) la facoltà del cuore è fondamentale - tanto per la conoscenza scientifica, perché è quella che consente di intuire in modo compiuto i principi delle scienze (ad esempio gli assiomi e i postulati della matematica), - quanto per la conoscenza di Dio, perché Dio nel rivelarsi all’uomo con la rivelazione parla al cuore e non alla ragione; ma il cuore può non essere sensibile a questa rivelazione (serve la fede perché l’uomo sia sensibile e ascolti Dio) né la conoscenza che ne deriva può essere armonizzata con le conoscenze che derivano all’uomo dall’uso delle altre facoltà. Uno stesso uomo, quindi, - con la ragione ha l’esigenza di accedere al mondo dell’infinito e del tutto, e non può; - con il cuore è in grado di accedere ai principi delle scienze (che comunque non appartengono all’ordine dell’infinito e del tutto, ma restano al finito), dai quali la ragione parte per la costruzione delle teorie scientifiche; - sempre con il cuore è anche in grado di comprendere la rivelazione con cui Dio gli parla, se ha fede; - non è però mai in grado di integrare la conoscenza razionale con la conoscenza di Dio, perché la ragione non può fare sull’intuizione di Dio offertale dal cuore (se gliela offre, e non è detto che lo faccia) lo stesso tipo di operazioni che compie sull’intuizione che lo stesso cuore offre (sempre) dei principi scientifici: sull’intuizione dei postulati la ragione costruisce una geometria; sull’intuizione di Dio non costruisce nulla. L’infinito e il tutto, quindi anche Dio, sono al di fuori della sua portata. Non solo Dio, s’intende, ma tutto il campo dell’infinito e del tutto: quindi una teoria scientifica sulla natura dell’infinito è impossibile da costruire e altrettanto lo è una teoria del 81 tutto. A maggior ragione è impossibile costruire una teoria del tutto che comprenda Dio (il contrasto con la metafisica, ed anche con la concezione della scienza, cartesiana non potrebbe essere più netto). Lo ripetiamo: tra le due fondazioni non c’è né ci potrà essere alcuna comune misura né mai il sapere umano potrà avere una sola fondazione. Tuttavia... Tuttavia Pascal ha un problema pratico: intende, da cristiano, scrivere un’opera apologetica che è innanzitutto rivolta alle persone della sua cerchia; quindi a intellettuali colti, spregiudicati, abituati alla logica della ricerca scientifica, a volte libertini, a volte scettici. Deve parlare alla loro ragione, non solo al loro cuore. Deve quindi mostrare due cose: - che la ragione non può sapere nulla su Dio: nulla, neppure qualcosa che ne neghi l’esistenza; quella di Dio è quindi una possibilità aperta per l’uomo di scienza, non in contraddizione con le sue ricerche scientifiche e con il sapere consolidato che la scienza consente (peraltro, per le ragioni che prima elencavamo, quello scientifico è un sapere sempre frammentario, parziale, anche se progressivamente estendibile); - che c’è un motivo preciso per cui il cuore può non essere disponibile ad ascoltare la rivelazione che Dio fa all’uomo: il cuore può essere reso insensibile dalle passioni, che vanno quindi (per calcolo razionale) tenute sotto controllo (tesi che non può non suonar bene ad orecchie abituate alla filosofia e ai suoi modelli tradizionali di razionalità). Pascal si trova quindi, per così dire, a ragionare ai bordi dell’inconoscibile. Ad usare le armi della ragione restando nel suo 82 campo, ma al confine. E il confine, naturalmente, ha un versante che è al di là del conoscibile, proprio perché è un confine. Ora, la ragione opera con l’obiettivo di conoscere la realtà, che tuttavia ha più di una caratteristica strana: non è mai interamente presente, non è mai, per così dire, reale tutta insieme. È infatti soggetta al fluire del tempo e ha aspetti, con tutta evidenza, infiniti. Ma Pascal ha sostenuto che la conoscenza di una parte non è pienamente possibile se non si conosce il tutto di cui è parte. Quindi per l’uomo non è mai possibile usare la ragione in modo da poter dire di conoscere pienamente l’oggetto studiato. La ragione richiede un’apertura verso ciò che non c’è, o è diversamente, e che (non essendoci, o essendo diversamente) è tuttavia parte dello stesso tutto di cui è parte ciò che c’è: il riferimento è - a ciò che non c’è più (il passato); - a ciò che non c’è ancora (il futuro); - alle realtà infinite di cui abbiano notizia ma che non sappiamo che realtà hanno (ad esempio il numero infinito, o l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande nello spazio). La dimensione della realtà in cui vive l’uomo, e alla quale appartiene (non interamente) è collocata tra due confini, che la ragione conosce come confini, ma che non supera (non ne conosce quindi il bordo esterno, che pure sa esistere, essendo un confine): - rispetto al tempo è nel presente; questo significa che l’uomo esiste e vive tra i confini del passato (la cui realtà è al di là della sua comprensione) e del futuro (la cui realtà è egualmente al di là, e soprattutto è fuori dal suo controllo); - rispetto allo spazio l’uomo esiste e vive nella dimensione finita del suo corpo e dell’ambiente esterno, tra i confini dell’infinitamente piccolo (basta pensare alle parti di cui è composto un acaro per averne l’immagine simbolica) e 83 dell’infinitamente grande (basta guardare il cielo per averne un segno). Da qualsiasi parte la ragione osservi il mondo, lo trova circondato nella sua realtà da un mistero di cui nulla sa e verso cui non ha strumenti. Non sorprende quindi che Pascal abbia usato le armi della ragione per esplorare questi confini, senza mai superarli per l’impossibilità per l’uomo di farlo. E tuttavia senza rinunciare a nessuna delle sue armi. Nasce così uno dei più “strani” e controversi argomenti razionali a sostegno dell’esistenza di Dio: è il celebre argomento della scommessa, su cui la letteratura filosofica riporta molte posizioni. L’argomento è costruito intorno alla nozione di probabilità, uno di quei concetti matematici che avevano attratto l’attenzione di Pascal. Era successo non nel contesto di ricerche scientifiche, ma ai tavoli da gioco: proprio in quel mondo che Pascal aveva ben frequentato nel suo periodo mondano a cui appartenevano le persone a cui con la sua apologia del cristianesimo intendeva rivolgersi. Pascal aveva scambiato molte osservazioni con altri su questo tema, e aveva, da matematico, costruito alcuni ragionamenti e sostenuto alcune tesi che, per noi, costituiscono le basi del moderno calcolo della probabilità (ci restano alcune lettere di Pascal su questo tema). Nessuno obietterà che ci si stia movendo al di fuori dei limiti del finito e delle possibilità di conoscenza della ragione. È vero che ogni ragionamento sulla probabilità è un calcolo di tipo matematico - su realtà che non si conoscono ancora (qual è la probabilità che, gettando i dadi, esca una certa combinazione delle loro facce?) 84 - e che implicano un ragionamento sul nulla (gettando i dati, comparirà una e una sola combinazione, ma il calcolo riguarda anche tutte le possibili, che non saranno mai reali in quel lancio di dati e sono quindi un puro nulla). Questo non spaventa certo un matematico, abituato a ragionare, e quindi a calcolare, trattando lo zero come un numero, quindi come una realtà, seppure molto diversa dalle altre. (Ai tempi di Pascal, ed anche sotto il suo impulso, stava anche sviluppandosi il calcolo che tratta l’infinito come una realtà calcolabile: Pascal era ancora molto sospettoso sul tema, ben a ragione dato il livello a cui era giunta la discussione nei suoi anni, ma la generazione successiva alla sua è quella dei Leibniz e dei Newton, che di questo calcolo sarebbero venuti a capo). Siamo ai confini della realtà e della conoscibilità del reale, ma sul bordo interno. Lì, e senza spostarsi da lì, Pascal scommette sull’esistenza di Dio, proponendo il suo argomento ad un ipotetico interlocutore. È essenziale comprendere che Pascal non sta affatto portando la ragione del suo interlocutore al di fuori dei limiti delle sue possibilità. Se lo facesse, l’argomento non sarebbe più razionale e cadrebbe, agli occhi di chi non ha fede. E infatti non cade (non per questa ragione, almeno!): - si parte dalla constatazione che la ragione non ha nulla da dire, né in positivo né in negativo, sull’esistenza di Dio, perché questa ricerca è al di fuori dei confini su cui ha strumenti per operare; - si constata che l’uomo (non la ragione: l’uomo, come soggetto pensante che ha una dimensione esistenziale assai più ampia e complessa rispetto a quella sola della ragione) non può non scegliere se Dio esiste o meno, ma deve farlo necessariamente (non è libero di essere libero se scegliere o meno); - si enunciano le probabilità che Dio esista, e le si trovano perfettamente pari (è un calcolo razionale quello che viene 85 proposto); - si propone un calcolo razionale degli esiti delle due possibilità, e si trova che puntare su una (che Dio esista) è infinitamente più conveniente che puntare sull’altra. Non sono importanti tanto i dettagli di quest’ultimo calcolo, molto tecnico e legato agli studi sulla teoria della probabilità di Pascal; è importante sapere che di un calcolo matematico si tratta: Pascal non fa un ragionamento su cose che la ragione non sa (se esiste Dio), ma su cose che sa benissimo (che cosa dobbiamo supporre accada all’uomo nel caso che una delle due possibilità, pari tra loro, sia reale – e una delle due non può non essere reale: Dio esiste o non esiste). La ragione non è andata oltre se stessa. Ha calcolato la possibilità dell’essere totale e del nulla e le ha trovate uguali; ha posto a confronto il finito con ciò che è possibile stia al bordo esterno dei suoi limiti (il nulla e l’infinito). Ha calcolato. Né più né meno che chiedersi che cosa accade, per riproporre il celebre esempio di Pascal, se sottraiamo 4 da 0. O se ci chiediamo se la metà di un infinito è infinito e quindi pari al tutto di cui è metà. La scommessa di Pascal non dice se Dio esiste o meno: non è in senso stretto una prova dell’esistenza di Dio, ma un argomento a favore della scelta per l’esistenza di Dio. Il testo esamina se, all’uomo che intende seguire la sua ragione e solo la sua ragione, conviene scommettere che esiste o che non esiste. Perché scommettere, dice Pascal, è necessario. È un calcolo dell’utile, analogo ad ogni altro calcolo dell’utile che le filosofie utilitariste non hanno mai smesso di proporre, da Epicuro agli utilitaristi contemporanei: si parla di cose che sono al di là di quelle che sappiamo, ma restando nei limiti di quelle che sappiamo (che cosa conviene fare? è la domanda; quando? nel futuro, anche immediato, ma comunque futuro, che appunto non c’è ancora, non siamo certi se – per noi – ci 86 sarà, non è ancora reale e ha aspetti necessariamente ignoti; eppure una creatura razionale deve ben calcolare, se vuole comportarsi in modo razionalmente tale da mirare al proprio utile; sulla base di cosa calcolerà? sulla base dei dati che ha, e non su altri). 87 4. DIO COME NATURA O, SE SI PREFERISCE, COME TUTTO: SPINOZA Negli stessi anni di Pascal, Spinoza ha elaborato una teoria che suscitò subito un vasto interesse, ma era nota solo a una ristretta cerchia di studiosi di tutta Europa con cui Spinoza era in contatto epistolare e ai suoi amici di Amsterdam che si riunivano per leggere i suoi scritti. Ma la sua opera principale, che si intitola semplicemente Etica, venne pubblicata solo dopo la sua morte, proprio dagli amici del circolo spinoziano di Amsterdam, quando ormai non c’erano più rischi per il filosofo. Chiedo scusa se sarò costretto a introdure alcuni conceti molto tecnici, ma la filosofia di Spinoza lo richiede. Ha una elevata complessità tecnica, benché sia stata scritta in termini per nulla complessi. Il concetto fondamentale è quello di sostanza, che ha una lunga storia prima di Spinoza. Il termine era presente nel lessico di Cartesio, che lo usava per indicare ciò che non ha bisogno d’altro per essere concepito. Seguendo questa definizione, sostanza potrebbe essere solamente Dio in quanto unica realtà originaria e auto-sussistente. Cartesio aveva però definito sostanze anche la res cogitans (la realtà fisica) e la res extensa (la realtà del pensiero) in quanto entrambe non hanno bisogno d’altro per sussistere se non di Dio. Spinoza riprende il significato originario in piena e completa coerenza: sostanza è “ciò che in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato”. Ciò significa che per Spinoza la sostanza contiene in sé il proprio fondamento ontologico e gnoseologico: essa, cioè, non ha bisogno di altro né per esistere né per essere conosciuta, essendo una realtà autonoma ontologicamente e concettualmente. Sono nozioni che conosciamo, le abbiamo viste in Cartesio applicate a Dio. Ma se si vuole essere coerenti, non può esistere null’altro oltre 88 la sostanza, quindi la Sostanza è, semplicemente, tutto – o, per essere più chiari, è un nome per il Tutto. Nel lessico spinoziano i termini Sostanza, Dio, Natura175, sono sinonimi e indicano il Tutto. Dire: totalità del reale, significa dire una cosa che va intesa in senso assoluto e non relativo: non una realtà o l’altra, non un tipo di realtà particolare (ad esempio: una realtà di fatto, una mentale, una fisica, una potenziale, una virtuale, e così via), non una forma o l’altra assunta dalle cose o dai pensieri nel continuo trasformarsi a cui sono soggetti. Spinoza parla del tutto: qualunque forma assuma, in qualsiasi tempo, in qualsiasi luogo, in qualsiasi dimensione, a noi nota o ignota. Dove cercheremo il fondamento di questa totalità? Visto che è la totalità, pensare che esista qualcosa di esterno ad essa sarebbe contraddittorio, quindi la sua origine va cercata al suo interno: nel linguaggio spinoziano, il Dio-Natura (il Tutto) è causa di sé. Abbiamo appena utilizzato due termini: interno/esterno per riferirci alla ricerca dell’origine della totalità. Bisogna però prestare attenzione perché interno/esterno sono termini relativi: ha un senso parlare di interno in relazione ad un esterno, e viceversa. Ma il Dio-Natura non ha alcun esterno, e quindi in senso proprio non ha neppure nulla di interno. Questa terminologia e questo apparato concettuale non possono essere utilizzati in riferimento al Tutto, ma possono essere utilizzati in modo proprio se si parla dell’una o dell’altra forma che la realtà assume. Quindi: - utilizzerò la nozione di assoluto per indicare ciò a cui non si possono applicare i termini che hanno senso solo in relazione a termini opposti (come interno-esterno, sé-altro); diremo quindi che il Dio-Natura è un essere assolutamente 89 infinito: non cioè un infinito che possa essere contrapposto o distinto dal finito o da altri infiniti (ad esempio: l’infinitamente piccolo contrapposto all’infinitamente grande; l’infinito della serie dei numeri distinto dall’infinità dello spazio, e così via), ma un infinito in assoluto, fonte di ogni distinzione e di ogni possibile relazione; va precisato che dire che il Dio-Natura deve essere concepito come infinito è del tutto ovvio, perché altrimenti si dovrebbe concepire qualcosa di esterno che lo limita e lo rende finito; - utilizzerò invece le nozioni relative (sé-altro, finito-infinito, bene-male, e così via) per indicare il carattere di una particolare modalità dell’essere del Dio-Natura: parleremo secondo verità a patto di ricordare che non si tratta di nozioni assolute, e cioè che niente è in sé bene e niente è in sé male, ma si dice bene o male di qualcosa solo in relazione a qualcos’altro. Spinoza, con una catena di deduzioni, individua le proprietà della sostanza: - è increata perché non ha bisogno di altro per esistere essendo causa di sé; - è eterna perché possiede l’esistenza che non riceve da altro; - è infinita perché se fosse finita dipenderebbe da altro da sé; - è unica perché se ci fossero molteplici sostanze della stessa natura, queste si limiterebbero reciprocamente. Queste deduzioni, a partire dalla definizione di sostanza fornita, portano Spinoza ad affermare che la sostanza, come abbiamo anticipato all’inizio, coincide con Dio o l’Assoluto. E questo Dio, avendo in sé la propria ragione d’essere, non può non esistere. 90 Se, utilizzando una definizione vera, ossia una frase che individui la vera essenza della cosa definita, definiamo Dio (o Natura, o Sostanza) come un essere assolutamente infinito, ebbene questo essere necessariamente esiste. La nozione a cui il filosofo si riferisce, al di là delle dimostrazioni tecnicamente molto complesse, è intuitivamente comprensibile: l’ente di cui si parla è il Tutto (ciò di cui ogni cosa esistente nella realtà delle cose e del pensiero è parte) ed è quindi ovvio che esista per il solo fatto che lo si sta pensando e se ne sta parlando. Qualcosa infatti esiste, ed è quindi razionalmente contraddittorio dire che il Tutto può non esistere. Non si tratta quindi tanto di dimostrare che il Dio-Natura esiste, ma di accorgersi che è una contraddizione il pensiero che non esista o che possa non esistere. Il che è lo stesso che dire che il Dio-Natura esiste necessariamente. Se il Dio-Natura è assolutamente infinito, allora la sua essenza è infinita, e quindi nessuna specifica modalità in cui si esprime può esaurirne la realtà. La mente vive in un mondo di pensieri, che Cartesio ha definito come res cogitans, e concepisce il corpo come appartenente ad un universo fisico, che occupa una estensione, un universo definito da Cartesio come res extensa. Spinoza nota che queste due res (la traduzione italiana è sostanze) sono del tutto indipendenti l’una dall’altra, e Cartesio ha molto ragione a sottolinearlo; ma appartengono comunque al Tutto, e devono quindi essere concepite non come sostanze a se stanti, ma come espressione di essenze diverse del DioNatura: propone di chiamarli attributi, intendendo con questo termine le qualità essenziali o strutturali della sostanza, e di utilizzare il termine sostanza esclusivamente per il Dio-Natura, perché solo il tutto è realmente assoluto. Il pensiero e l’estensione sono quindi, scrive Spinoza, attribuiti della sostanza assoluta, perché ciascuno di essi ne esprime una certa essenza. 91 Bisogna a questo punto fare attenzione perché quando Spinoza parla del Dio-Natura non si riferisce all’universo fisico o all’universo della mente, ma alla totalità che si esprime per queste due vie. E poiché questa totalità è infinita in modo assoluto (e non relativamente a qualcosa), devono esistere infiniti attributi: ossia oltre all’estensione e al pensiero, devono esistere infinite dimensioni dell’essere che esprimono infinite essenze del tutto. Tuttavia di questi infiniti attributi della totalità noi nulla sappiamo perché apparteniamo soltanto alla dimensione del pensiero e della materia estesa. Il dualismo cartesiano di pensiero ed estensione deve conseguentemente essere rifiutato: pensiero ed estensione non sono due realtà autonome, ma solo due aspetti di un’unica realtà. E così pure Dio non può essere ridotto e racchiuso né nell’universo fisico né nella sola dimensione del pensiero. Se poi partiamo dalla considerazione delle singole cose e dei singoli pensieri, si osserverà che ciascuna cosa e ciascun pensiero esprime in un certo modo, e non in un altro, una particolare essenza del Dio-Natura (l’essenza-pensiero o l’essenzaestensione: delle infinite altre essenze nulla possiamo dire, se non che devono necessariamente esistere). Ma una cosa o un pensiero ora c’è, ora non c’è. La loro realtà è instabile, passa. Il loro passare non è però senza conseguenze e come tutto ha una causa così tutto ha un effetto: dunque se si vuole comprendere che cosa sono realmente una cosa e un pensiero, è necessario interpretarli come punti di una rete di cause e di effetti. Presi isolatamente, sono incomprensibili. Diremo dunque che ciascuna singola cosa e ciascun singolo pensiero è, rispettivamente, un modo in cui nell’attributo dell’estensione e nell’attributo del pensiero si esprime il Dio-Natura. Schematizzando abbiamo quindi: il Dio-Natura, sostanza unica e totale, realtà assolutamente infinita che esprime ciascuna 92 delle sue infinte essenze in infiniti suoi attributi che hanno infinite modalità, o modi, di essere. L’Etica, l’opera in cui Spinoza espone questa teoria sul Tutto, ha una specifica finalità etica: vuole indicare la strada per una vita libera e felice. Il terzo, il quarto e il quinto libro si occupano di questo ed espongono una teoria delle passioni, che applica all’uomo quanto abbiamo fin qui detto. Per iniziare ad indagare la vita emotiva dell’uomo e il modo in cui questi può raggiungere la felicità, dobbiamo partire da due domande fondamentali: - il Dio-Natura è libero o agisce secondo l’intima necessità della sua natura? - l’uomo è libero, o il libero arbitrio è solo un’illusione? La prima domanda ha una risposta che abbiamo già anticipato: Dio non è un soggetto, non è una persona che sceglie; non potrebbe non esprimere le sue essenze nei modi in cui le esprime, per ciascuno dei suoi attributi. Ma la parola libertà è perfettamente adeguata a descrivere questa situazione perché, ovviamente, il Dio-Natura non agisce condizionato da qualcosa di diverso da sé, perché nulla è diverso da sé: è il Tutto, è assoluto, e quindi è libero, nel senso che esprime se stesso, esprime quel che è. Non subisce mai alcun condizionamento dall’esterno. La tesi che abbiamo appena esposto è chiara solo se si tiene presente che quando Spinoza usa la parola «libertà» rispetta la seguente definizione (che Spinoza propone come vera, cioè adeguata alla natura dell’oggetto definito): “Una cosa è libera quando esiste per la sola necessità della sua natura e non è determinata ad agire che da se stessa” (è la definizione 7 della Parte Prima dell’Etica). Dunque Dio è assoluta libertà in quanto agisce per la sola necessità della propria natura. 93 Da qui deriva che il libero arbitrio dell’uomo è un’illusione. Se l’uomo conoscesse dettagliatamente le singole cause che determinano le sue scelte (c’è sempre una ragione per cui accade quel che accade) saprebbe di non essere lui a scegliere, ma di essere parte di un flusso di eventi fisici e mentali (o fisicomentali, perché il corpo e la mente sono espressione della stessa sostanza secondo due essenze diverse). La natura, del resto, segue leggi che l’uomo in parte conosce e sono leggi deterministiche, necessarie. Le leggi di natura sono invarianti (su questo scienziati e filosofi del Seicento concordano). In quanto ente immerso nella natura, e sua parte, è del tutto ovvio che l’uomo non costituisca alcuna eccezione rispetto a tutti gli altri enti: scrive Spinoza nella Prefazione alla terza parte dell’Etica che “le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose avvengono e si mutano da una forma all’altra, sono ovunque e sempre le stesse”. Quindi anche l’uomo è sottoposto a quelle stesse leggi. Altrimenti bisognerebbe concepire il libero arbitrio, sulla cui base il corpo è determinato ad agire, come una eccezione alle leggi di natura. Il che è assurdo perché le leggi di natura sono costanti, invarianti. Riprendiamo la definizione di libertà vista fin qui: la mente è determinata ad agire da cause a lei esterne, che controlla solo in parte. Non agisce per la sola necessità della sua natura, perché la sua natura non è quella di una sostanza che sia in se stessa: la mente (come il corpo) è in altro e quindi è da altro determinata. Spinoza si propone di conseguenza di studiare (come ha già fatto Cartesio) le passioni come forze naturali che determinano la mente ad agire come agisce. Non è diverso studiare il comportamento fisico di un corpo e la struttura psichica di un uomo: entrambe seguono leggi deterministiche. Spinoza dedica quindi molta attenzione nell’Etica alla costruzione di una teoria generale delle passioni, considerate come forze. 94 Coerentemente con queste premesse, Spinoza procede ad una trattazione delle passioni a partire da due nozioni di base. - La prima ha una validità molto generale: la mente possiede una energia interna che la fa essere ciò che è, una energia che si esprime innanzitutto nello sforzo di conservare se stessa (l’espressione latina è conatus sese conservandi). Il principio non è specifico della mente, ma di qualsiasi individualità, che se così non fosse non potrebbe mantenere se stessa: qualsiasi ente, infatti, “si sforza di perseverare nel suo essere per una certa durata indefinita”. Anche una pietra resiste ai tentativi di frantumarla. Così la mente ha una organizzazione interna che la difende mantenendola nel suo specifico modo d’essere. Tuttavia, al contrario di una pietra, la mente ha coscienza di sé a vari gradi, da un minimo a un massimo, e ha parallelamente coscienza generica del corpo (ne ha invece una conoscenza di dettaglio molto bassa: Spinoza sottolinea con forza che noi non conosciamo a fondo e dettagliatamente la struttura del nostro corpo). Lo sforzo di conservare se stessa è quindi nell’uomo consapevole, ed entra nel gioco complessivo delle cause che ne determinano l’azione. Questo sforzo, se riferito alla sola mente, viene definito da Spinoza volontà; se riferito al corpo e alla mente si chiama appetito. - La seconda nozione di base è specifica e riguarda direttamente le passioni, che possono essere tutte ricondotte ad alcune elementari: - il desiderio, che è lo stesso sforzo della mente di conservare se stessa divenuto consapevole; - la gioia, che è l’emozione connessa alla conservazione e al perfezionamento del proprio essere; - la tristezza, che è l’emozione contraria, e dipende dal fatto che questa conservazione e questo perfezionamento del proprio essere diminuiscono. 95 Da questi tre affetti primari discendono tutte le altre passioni, e il gioco delle forze psichiche è in grado di spiegare la loro azione. Ad esempio, l’amore è la gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna; l’odio è il dolore accompagnato dall’idea di una causa esterna. Tutte le passioni dipendono, in ultima analisi, dall’energia psichica di fondo che ci costituisce, cioè dall’energia che si esprime nello sforzo di conservare noi stessi. Poiché questo principio di autoconservazione è universale e vale per ogni ente, anche inanimato e privo di coscienza, è chiaro che la vita psichica è solo la presa di coscienza del gioco delle forze necessarie che agiscono in noi. Se la mente subisce l’effetto delle passioni, senza comprenderne le dinamiche necessarie, non è libera: secondo la definizione prima data, infatti, non è determinata ad agire da se stessa, ma da altro, essendo le passioni legate al movimento complessivo della natura e degli eventi esterni e interni al corpo. Conoscere queste dinamiche significa spiegare il comportamento umano e le sue ragioni. Non c’è libero arbitrio, ma forze naturali in atto. L’uomo si illude di essere il padrone delle proprie scelte e delle proprie azioni. Ma non è così, non lo è. Immerso nella natura, di cui è parte ed espressione, ne segue semplicemente le leggi. L’uomo però non è solo un insieme di forze fisiche e psichiche, accompagnate da immagini del mondo eterno di cui comprende la verità in modo non sempre preciso. È anche una mente che può avere vari gradi di consapevolezza. È chiaro che se rimane prigioniero della sfera dell’immaginazione comprende poco quanto accade, e prevede ancora meno, essendo la sua esperienza sempre limitata. Le cose tuttavia cambiano molto se l’uomo attiva quei processi intellettivi che lo portano ad una conoscenza adeguata delle cose, secondo le indicazioni della scienza. Allora la sua com96 prensione delle ragioni per cui accade quel che accade – ivi comprese le ragioni che lo portano a provare determinate passioni e non altre – cresce moltissimo. Ora, se la mente ha idee adeguate delle passioni, le vedrà in modo diverso perché potrà prevederne il corso e seguirne mentalmente la dinamica. Non ne sarà dominato nello stesso modo, benché non possa certo modificare le leggi della natura, che costituiscono la sua stessa più profonda identità. Possiamo quindi affermare che se le passioni, dettate da idee inadeguate, guidano il nostro comportamento, siamo schiavi; se invece a guidare il nostro comportamento sono idee chiare e adeguate, allora saremo consapevoli delle forze che ci muovono, e dunque saremo meno passivi. Date queste premesse dobbiamo quindi introdurre un’importante distinzione concettuale: - chiamiamo passioni le forze psichiche quando non vengono comprese adeguatamente in quanto la mente le conosce attraverso l’immaginazione; - chiamiamo affezioni le stesse forze psichiche quando vengono comprese secondo la loro effettiva realtà nell’ordine della natura. Questa distinzione non è soltanto una precisazione terminologica, perché la passività della mente nei confronti delle passioni dipende dalla inadeguatezza della conoscenza che ne ha e diminuisce a mano a mano che la conoscenza diviene più adeguata. Quando è del tutto adeguata (è il caso della esposizione che Spinoza ne fa nel terzo libro dell’Etica), la mente non le vive passivamente. Comprende infatti che l’ordine della natura e la realtà di cui è testimone conoscendo le passioni è immutabile e necessaria. Comprende che non è né buona né cattiva, che l’universo dei valori che costituiscono la dimensione etica del mondo è determinata dall’immaginazione sulla base del fatto che le passioni sono vissute passivamente; che nell’or97 dine reale delle cose non esistono valori positivi o negativi, e che tutto è come deve essere e non potrebbe non essere, né potrebbe essere diversamente. L’atteggiamento filosofico corretto è quello non della valutazione moralistica delle passioni, bensì della loro comprensione in quanto si tratta di forze e leggi che regolano il comportamento dell’uomo: solo attraverso idee adeguate l’uomo può sottrarsi alle conseguenze negative delle passioni. La realtà dell’uomo e della natura, se osservate dalla prospettiva ora esposta, appaiono alla mente non secondo l’angolazione specifica di un particolare interesse o di un particolare ente, ma nella dimensione dell’eternità, secondo l’espressione latina utilizzata da Spinoza, sub specie aeternitatis. Lo sguardo del filosofo diviene allora libero e quelle che prima erano vissute come passioni e rendevano la mente schiava, dominata da altro da sé, sono ora concepite correttamente come affezioni nell’ordine universale necessario che costituisce ogni cosa, quindi anche la stessa mente, e l’io. L’eternità non è una dimensione del tempo (non è ciò che esiste sempre nel tempo), ma ne è del tutto indipendente. Concepire una cosa nella dimensione dell’eternità significa, secondo la definizione che ne dà Spinoza, concepirla nella necessità della sua esistenza, una necessità che può essere compresa solo se si ricorda che (tranne il Dio-Natura) nessuna cosa è semplicemente se stessa, ma tutte sono in altro e la loro esistenza deve quindi essere concepita rispetto a quest’altro. All’origine dell’esistenza c’è dunque Dio, che esprime necessariamente una propria essenza in un determinato modo, ed è questa espressione necessaria che chiamiamo l’esistenza di una cosa. Nessuna cosa è allora al di fuori dell’eternità, e tutte sono eterne, non nel senso che esistono sempre nel tempo (è vero il contrario: tutto passa nel tempo), ma nel senso che la loro esistenza esprime la 98 realtà eterna di Dio in un determinato e specifico modo. Solo se lo sguardo della mente sul mondo cambia radicalmente, solo se ci si abitua a vedere le cose sotto la dimensione dell’eternità, allora anche se le affezioni non cambiano, cambia il loro effetto sulla mente, perché non sono più vissute passivamente, ma attivamente, e la mente le riferisce non a sé, ma a Dio come loro fonte (questo infatti significa riconoscere l’eternità in ogni cosa: riconoscere che tutte esprimono una essenza di Dio nel modo che è loro proprio). È questo il terzo genere di conoscenza, che consente di intuire il legame che unisce l’essere di ciascuna cosa e della mente stessa al Dio-Natura. Spinoza propone l’espressione “amore intellettuale di Dio” per indicare il legame che la mente percepisce intuitivamente quando comprende che i desideri in cui si manifesta la forza che mira alla conservazione di sé (conatus sese conservandi) sono espressione del Dio-Natura, che la sua stessa vita e quella del corpo sono sua espressione (l’espressione, nel tempo, dell’eternità). Spinoza utilizza il termine amore coerentemente con la definizione che ne ha dato: come abbiamo già visto, l’amore è la gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna. Ma in questo ed unico caso questa causa non è realmente esterna, perché il Dio-Natura non è veramente altro rispetto alla mente dell’uomo, al corpo e a tutte le altre cose che esistono, perché tutte queste realtà sono in quanto sono in altro, cioè nel Dio-Natura. La gioia allora accompagna la mente (da qui il ricorso al temine amore) quando percepisce intuitivamente col terzo genere di conoscenza che la fonte della propria gioia è Dio. Tutto questo è difficile, perché la mente continua a dover conoscere le cose sensibilmente, e quindi mediante l’immaginazione, che abbiamo visto essere all’origine di un tipo di conoscenza molto diverso. E tuttavia la strada è percorribile. L’Etica di Spinoza si conclude ricordando la concretezza della 99 dimensione dell’eternità con cui guardare le cose e la vita. E la difficoltà di farlo: tutte le cose belle sono tanto difficili quanto rare, scrive, omnia praeclara tam difficilia quam rara sunt176. 100 5. C’È UNA VIA PRIVILEGIATA PER LA RICERCA DEL FONDAMENTO DEL TUTTO? Sono stato molte volte attaccato, o anche irriso, avendo sostenuto tesi che tre secoli fa appartenevano al comune modo di sentire tra filosofi e scienziati, benché non senza eccezioni. L’idea che il problema di Dio, cioè del fondamento della realtà, o del Tutto, sia troppo importante per lasciarlo al di fuori della ricerca razionale e scientifica appare a molti un’ingenuità. Ad altri una sorta di sacrilegio. Io ritengo che esitano buone ragioni per sostenere che non è un’ingenuità. E men che meno un sacrilegio. Sostengo infatti la tesi che non esiste alcuna via privilegiata per la ricerca di Dio, o del fondamento del Tutto, e che nessuna via può avere la pretesa di essere l’unica. Se la verità ci appare, deve reggere all’esame di qualsiasi via, per la semplice ragione che è del Tutto che stiamo parlando. E non può esserci un ambito della realtà, o delle facoltà di conoscenza dell’uomo, che ne sia fuori. È per questa ragione che i filosofi del Seicento si sono impegnati nell’esame di quelli che certamente sono errori della nostra conoscenza: il Sole non è di dimensioni uguali alla Luna, perché dunque così ci appare? Se non fossero riusciti a spiegare questo, le loro teorie sarebbero crollate, perché anche allo scienziato che conosce con grande precisione le loro dimensioni reali essi appaiono uguali. Ci deve essere una ragione per cui ci appaiono così, e deve essere coerente con la loro dimensione reale, con le nostre capacità di conoscenza, e così via. L’arte, la religione, la scienza, la filosofia, e le altre vie, sono strade. Da qualche parte portano, e la realtà comprende tutti questi percorsi. Escluderne uno, significa escludere una parte della realtà. Questo discorso appare a molti viziato da relativismo, figlio dello scetticismo. Ma non è affatto scetticismo rispondere con un sereno “Non lo so” ad una domanda di cui non conosciamo 101 la risposta. Ci sono semplicemente moltissime cose che non sappiamo, moltissime che non riusciamo a spiegare. Il non sapere non implica scetticismo, implica piuttosto la necessità della ricerca. E se una via è cieca, come accade nelle grotte molte lunghe, forse ci sono passaggi laterali. Ogni via è buona. È del Tutto che parliamo. Del fondamento, ed è troppo importante sapere. Vorrei fare un esempio. Noi regoliamo la nostra vita collettiva sulla base di principi che sono politici ed etici, separatamente o insieme. Ma non conoscendo il fondamento della realtà, questi principi sono per noi privi di basi. Non poggiano su solida roccia. Poggiano su convinzioni, speranze, e spesso solo sulla punta della baionetta dei vincitori dell’ultima guerra, in attesa della prossima. È troppo importante sapere. Ma sapere è cosa davvero diversa che credere, ed è del sapere che adesso parlo. 102 FRANCESCO DIPALO IL DIVINO DOP O LA MORT E DI DIO: VERSO UN NUOVO CONCETTO DI SPIRITUALITÀ ECUMENICA NEL MONDO CONTEMPORANEO La “svolta soggettocentrica” della filosofia moderna Dal cogito ergo sum cartesiano in avanti la filosofia moderna si era caratterizzata per il progressivo spostamento del baricentro della riflessione dall’oggetto della conoscenza al soggetto conoscente, come dire dal “mondo”, inteso come totalità dei fenomeni, all’“uomo”. L’irruzione sul palcoscenico storico-filosofico del soggetto conoscente come componente fondamentale dell’atto conoscitivo, in grado di modificarlo e dirigerlo sino ad assorbire totalmente in sé l’oggetto, ha senza dubbio determinato una svolta decisiva anche nella concezione del divino, cifra ultima e totalizzante della realtà in sé. Se l’attività del pensiero precede l’essere – “penso dunque sono” –, allora la coscienza di sé (o “auto-coscienza”) precede la coscienza del mondo, cioè delle cose che lo compongono: prima che il mondo mi si dia è necessario che Io sia, ma dato che la dimensione del mio essere risulta connaturata con l’atto del pensare, esso finisce col risultare fondativo rispetto allo stesso darsi del mondo. La via che conduce dal cogito cartesia103 no al trascendentalismo kantiano è aperta: ciò che di distintivo e di razionalmente ordinato si ritrova nell’oggetto conosciuto è lo stesso soggetto a mettercelo, un soggetto trascendentale, ovvero le cui funzioni catalogative e rielaborative di ciò che si presenta alla coscienza (il fenomeno, “ciò che appare”) precorrono e fondano la possibilità di comprensione razionale dello stesso. Dal soggetto kantiano al soggetto assoluto dell’idealismo hegeliano il passo è breve. Ad essere messa in discussione e negata è l’autonomia ontologica dell’oggetto della conoscenza, che pure in Kant (1724-1804) persisteva come “cosa in sé”, sostrato solo pensabile (noumeno), ma non conoscibile, del dato fenomenico. L’essere delle cose si annulla completamente nell’“esser pensato”: dal soggetto non dipendono soltanto le caratteristiche razionali dell’oggetto, bensì la sua stessa esistenza. Il pensare diviene atto creativo, che pone in essere le cose. Protagonista di questa vicenda al contempo gnoseologica e creativa non è, beninteso, l’io psicologico individuale, bensì il soggetto trascendentale, un “esser pensiero totalizzante” che ha del tutto soppiantato l’“esser cosa”, l’oggettualità del reale. Il mondo ci appare razionale in quanto prodotto dello Spirito Assoluto che è Razionalità e che, nel suo processo auto-conoscitivo, si fa Storia: il divenire storico, di cui il filosofo può riuscire a darsi conto attraverso la nuova dialettica triadica (tesi-antitesi-sintesi), è il luogo in cui lo Spirito si manifesta, si fa “fenomeno” (da cui Fenomenologia dello Spirito, il titolo della celebre opera hegeliana del 1807). Possiamo dire che con Hegel (1770-1831) il trapasso dal realismo – l’atteggiamento di fondo di gran parte delle filosofie antiche e medievali – al soggettivismo idealistico è compiuto: la Verità non si consegue più con l’adeguare l’intelletto alla cosa (e viceversa), come uno specchio che “riflette” oggettivamente la realtà in sé, data una volta per tutte; essa è piuttosto “at104 tività veritativa”, “processualità auto-cosciente”, di cui si può ri-conoscere nella storia dell’umanità la direzione e il senso ultimo, tappa dopo tappa, ovvero figura dopo figura. Ebbene, il concetto di Dio, l’Ens realissimum della tradizione medievale, e ancora in Cartesio (1596-1650) “garante” della corrispondenza delle idee con le cose in sé, non poteva non risentire di questa vera e propria rivoluzione copernicana in ambito gnoseologico e metafisico. Con progressione lenta ma inesorabile, le principali prerogative attribuite al Dio dei filosofi vengono assorbite dal soggetto conoscente, sempre più razionalizzato e dunque “antropomorfizzato”. Non rimane spazio per la trascendenza e per il mistero: lo Spirito Assoluto hegeliano, è assimilabile ad una sorta di Dio immanente, spersonalizzato, che dispiega la sua intima essenza razionale nella dialettica del divenire storico. L’“ente realissimo” è infine trasformato in “soggettualità”, calato giù nel mondo, fatto anzi coincidere con il mondo stesso. Ecco perché “ciò che è reale è razionale e il razionale reale”. L’annuncio nietzschiano della morte di Dio Queste per sommi capi le premesse. È come se il tradizionale concetto di Dio si fosse a poco a poco svuotato di senso e significato, accrescendo a dismisura, dall’altra parte, la funzione della Raison scientifica ed illuministica. Una specie di travaso da vasi comunicanti. Visto da quest’ottica il pensiero moderno rappresenta un ponte che va dal teocentrismo medievale all’antropocentrismo tutto dispiegato dell’idealismo ottocentesco. L’evento culminante di questo percorso, da cui, potremmo dire, prende simbolicamente le mosse la contemporaneità, è il celebre annuncio nietzschiano della morte di Dio. Parlare del divino nella filosofia e nella cultura europea tra Ottocento e 105 Novecento significa essenzialmente evocare la graduale presa d’atto collettiva della scomparsa del Dio della tradizione cristiana, provare a giustificarla, farci i conti a vari livelli. E non si tratta di un’operazione indolore. Non basta dire: “toh, Dio non c’è più: era solo un’illusione”. Realizzare che il tempo del Dio con cui l’Occidente si era identificato per secoli è finito o in procinto di finire, significa essenzialmente assumersi la responsabilità di dover ripensare il senso della collocazione dell’uomo nel mondo, i confini entro cui si estende il suo orizzonte culturale, esistenziale, etico e socio-politico. Se Dio altro non è stato che lo specchio in cui l’uomo si misurava con la propria immagine deformata in senso infinitivo e moralmente positivo, come ad esempio sostiene Feuerbach, c’è da chiedersi ora a quale immagine di sé si possa fare riferimento e su quale sfondo, da quale prospettiva diventi lecito osservarsi. Giacché, come ebbe a dire Dostoevskij, «se Dio non esiste tutto è permesso». Ma se tutto è permesso, qual è il discrimine tra bene e male, realtà e illusione, senso comune e pazzia? Non a caso è un uomo “folle” a proclamare che Dio è morto (Gott ist tot!) nell’aforisma 125 della Gaia scienza (1882) di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Vale la pena leggere attentamente il passo, è agghiacciante: «L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto 106 questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazio107 ni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?». Quest’uomo folle rappresenta un personaggio fino ad allora del tutto sconosciuto alla cultura europea, perché inedita è la forma di pensiero divergente attraverso cui si manifesta la sua pazzia. Negare l’esistenza di Dio, in passato, costituiva un chiaro segno di insania, se non di possessione diabolica. O altrimenti si poteva diventar “pazzi di Cristo”, come Jacopone da Todi, per eccesso di devozione. La lucida demenza del personaggio nietzschiano – che si richiama da presso alla figura di Diogene il Cinico, detto “Socrate Pazzo”, il quale, lanterna alla mano in pieno giorno, andava a caccia dell’uomo – consiste invece nel cercare Dio in un’epoca e in mezzo a gente che, semplicemente, non si pone più il problema della presenza del divino nel mondo, che da tempo vive “come se Dio non ci fosse” (etsi Deus non daretur). Per secoli filosofi e teologi si erano arrovellati nella ricerca di argomenti razionali che sostenessero l’esistenza di Dio. A guidarli era stato il pungolo della fede, il comune humus culturale di appartenenza, nonché la necessità di convincere, caritatevolmente, l’ateo dissidente. Di contro, in età moderna gli alfieri del laicismo e dello scientismo avevano cercato di comprovare la sua non-esistenza. Anche quel tempo è passato giacché, afferma Nietzsche in Aurora (1881), «oggi si mostra come ha potuto avere origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non-esistenza di Dio diventa superflua». La fede, o piuttosto l’istinto di vita, precedono la ragione e le sue pretese onnicomprensive. Figlio di un pastore luterano, il 108 filosofo tedesco ben sapeva che Dio non si dimostra, si teme e si adora. Il disamore degli uomini, il credere di poter fare a meno di Lui, l’essersi arrogati prerogative divine ne ha decretato la morte. Si è trattato dunque di un deicidio. Ma chi lo ha ammazzato – la gente del mercato, ovvero tutti noi, la nostra desacralizzante visione del mondo, il nostro concreto stile di vita – non è ancora cosciente di avere le mani macchiate del sangue divino, non si capacita dell’enormità del gesto. La “sacra pazzia” del novello Diogene sta tutta nella sua capacità di profetizzare le conseguenze vicine e remote di questo evento epocale presagendo ciò che ai più sfugge. Essi non sanno della loro condizione di “ateo-devoti”, di orfani alle prese con un complesso edipico di portata planetaria: sono “nichilisti inconsapevoli”, giacché la notizia del deicidio è ancora per strada. Eppure già si fa buio e un vento gelido alita su tutti noi. Il destino dell’Occidente ha dunque per nome “nichilismo”, di cui Nietzsche fu uno dei primi teorizzatori. Un dramma metafisico, che si riverbererà nella storia del Novecento, proiettando ombre inquietanti sin su questo scorcio di inizio secolo. La parola “nichilismo” è composta dal latino nihil, “nulla”, unitamente al suffisso –ismo che generalmente si riferisce ad un’ideologia, una dottrina, un movimento politico o religioso. Nichilista è dunque chi sceglie l’assenza di senso e di valore al posto della pienezza ontologica e morale assicurata dalla presenza divina, chi, consapevolmente o meno, mette il Nulla al posto dell’Essere. Perché la sanguinosa dipartita del Dio ebraico-cristiano non riguarda soltanto la sfera religiosa. Il grande defunto reca con sé nella tomba l’intera metafisica occidentale basata sull’Essere parmenideo, sul concetto di parola-Verità salvifica, sul principio che esista qualcosa di immutabile e di permanente al di là della disorganica mutevolezza del mondo sensibile, in grado di fornirgli in sommo grado ordine e sensatezza. Con Dio è giunta al tramonto la credenza in quel mondo delle idee platonico specchio razionale e perfetto della nostra umbratile 109 terrestrità. Il velo è caduto, la Natura mostra il suo volto di Gorgone: la finzione non sta più in piedi giacché la sua funzione “consolatoria” si è di fatto esaurita. Non rimane alcuno spazio per la trascendenza, per un Bene superno, per un Fine ultimo. Nessun “oltre” è più in vista. Questa vita qui nel suo caotico, tragico – e, al contempo, meraviglioso – fluire circolare rappresenta la cifra ultima del nostro destino, che dovrebbe aprire e ultimare il nuovo orizzonte metafisico dell’Occidente. Ma occorre voler essere degli “oltre-uomini” (übermenschen) per sposare in pieno una visione del genere, avere occhi e stomaci da aquila, per poter lungi-mirare e digerire quel che profetizzerà lo Zarathustra nietzschiano. Per andare oltre la voragine del nichilismo apertasi con l’uccisione di Dio, è necessario farsi creatori di nuovi valori, ovvero, in primo luogo, di una nuova idea di “sacralità”. Una responsabilità che si è rivelata troppo grande per un’umanità, quella del Novecento, passivamente nichilista e “senza qualità”, come è stata descritta nel celebre romanzo di Robert Musil. Anche se l’uomo folle dichiara d’esser giunto “troppo presto”, poiché “fulmine e tuono vogliono tempo”, troppo profonda e vasta è la portata dell’evento, la civiltà occidentale e la sua “auto-coscienza filosofica” da quel momento in poi non saranno più le stesse. L’annuncio della morte di Dio segna dunque uno spartiacque storico, di cui conosciamo abbastanza bene il “prima”, ma, ad oltre un secolo di distanza, riusciamo solo ad intravedere il “dopo”. Il divino come alienazione in Feuerbach e Marx Anche se la pubblicazione della Gaia Scienza di Nietzsche è solo del 1882, la morte di Dio, come si è detto, è nell’aria già da tempo. Celebre è l’espressione marxiana “la religione oppio del popolo”, che compare in un’opera giovanile del filosofo di 110 Treviri (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1844). Dio è «la realizzazione fantastica dell’essere umano» e la religione un sogno ad occhi aperti cui danno consistenza emozionale ed immaginativa uomini e donne in carne ed ossa, concretamente dati, sfogando la loro insofferenza verso un sistema economico e sociale che li immiserisce e disumanizza. Pertanto «la miseria religiosa è ad un tempo l’espressione della miseria reale e la protesta contro di essa. La religione è il singhiozzo della creatura oppressa, è il senso effettivo di un mondo senza cuore, come è lo spirito di una vita priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo». Abolire la religione significherebbe dunque aiutare le masse proletarie a risvegliarsi alla realtà degli effettivi rapporti di produzione in cui sono coinvolte, a prender coscienza di come il loro lavoro sia sfruttato, la loro esistenza quotidiana angariata e svilita. Contro gli “spacciatori di Dio” che alla domenica provvedono a somministrare la giusta dose di narcotico, vagheggiando di “mondi alla rovescia” affinché nulla concretamente cambi, occorre attraverso la critica della religione «disilludere l’uomo, onde pensi, operi, atteggi il suo essere reale, come uomo spogliato d’illusioni, che ha aperti gli occhi della mente onde si muova intorno a se stesso». Va da sé che nella concezione marxiana non c’è posto per il divino in senso metafisico e teologico. La religione è, da una parte, alienazione consolatoria, dall’altra strumento di dominio dell’uomo sull’uomo, basato sullo stato di insipienza, in cui viene mantenuta, giocoforza, la gran parte degli oppressi. Alla nuova scienza sociale e all’internazionale socialista – il mondo va trasformato, non basta più soltanto interpretarlo – spetterà il compito di dissipare le tenebre dell’ignoranza, promuovendo lo sviluppo di un’effettiva coscienza di classe attraverso la diffusione dei moderni mezzi di informazione e di istruzione. Antidoti all’avvelenamento da religione sono dunque da considerarsi la scienza e la prassi economico-politica. Grazie ad esse l’umanità progrediente, superando dialetticamente le contrad111 dizioni implicite nel sistema capitalistico, sarà in grado di costruire una società di eguali, senza più oppressi né oppressori, in cui l’uomo, risvegliato infine alla propria essenza, potrà fare a meno una volta per tutte della “favola” religiosa. In Marx (1818-1883) la questione del divino è palesemente assorbita da una logica estranea al tradizionale discorso metafisico e teologico e declassata a mera sociologia della religione. In questa prospettiva portare delle prove a sostegno dell’esistenza o della non esistenza di Dio, come affermerà qualche anno dopo Nietzsche, non ha più alcun senso. Già al culmine dell’età illuministica, del resto, Kant aveva messo in luce a quali inevitabili contraddizioni giunga la ragione qualora pretenda applicarsi ad ambiti che vanno oltre l’esperienza possibile. Nella Dialettica trascendentale, parte della Critica della Ragion Pura (1781), il filosofo aveva ampiamente dimostrato l’inconcludenza dei vari argomenti prodotti nel corso dei secoli dalla teologia razionale a favore o contro la divinità. Del sovrasensibile, dunque, non si dà alcuna scienza. Alle scienze sociali interessa piuttosto spiegare l’eziologia e la genesi del sentimento religioso in relazione al soggetto umano nonché le sue implicazioni culturali e socio-politiche. Marx si limita a constatare che esso attecchisce soprattutto presso gli ultimi, come estremo grido di protesta e sogno di rivincita dinanzi ad un sistema che, in nome della riproduzione del capitale, li priva della loro umanità, trasformandoli in forza-lavoro, merce di scambio, che il capitalista può comprare a suo piacimento. È difficile tirare innanzi se si ha la pancia vuota. Ma senza speranza non si va da nessuna parte. A questa necessità, nella migliore delle ipotesi, supplisce la religione. Da qui, se si vuole, la straordinaria assonanza tra alcuni passaggi dell’Evangelo e la promessa di “palingenesi” rivoluzionaria offerta agli uomini del XIX e XX secolo dal marxismo, all’insegna del materialismo storico e dell’ingegneria sociale. In un orizzonte storico oramai svuotato dell’ingombrante presenza della Prov112 videnza divina, dovrà essere l’Uomo, inteso in senso collettivo, a provvedersi con le sue sole forze di un futuro radioso, dando risposta concreta, immanente e terrena, alla sete di uguaglianza e giustizia che gli arde dentro. Infatti «compito della storia è […] di stabilire la verità del di qua dopo che si è dileguata la verità del di là. Prima di tutto il compito della filosofia che è al servizio della Storia, è quello di smascherare l’annientamento della persona umana nella sua forma profana, dopo che è stata smascherata la forma sacra dell’annientamento della persona umana. La critica del cielo si muta così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica». L’utopia marxiana – “utopia” perché non ha sin qui trovato piena realizzazione nella storia – si basa su una concezione antropologica, tutto sommato, positiva. Non l’individuo, ma la classe, la società, la storia in ultima istanza, dovrebbero fare le veci di quel Dio, il quale, in quanto prodotto di alienazione, va messo da parte come un vecchio, polveroso schermo, reso oramai inutile dal progresso scientifico, su cui l’umanità, vagheggiante, proiettava un tempo la propria sembianza. Ma il vero autore del “ribaltamento” del discorso teologico in discorso antropologico, poi ripreso e riutilizzato da Marx in termini storico-materialistici è il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872), uno dei più importanti esponenti della cosiddetta “Sinistra hegeliana”. A lui si deve l’invenzione del concetto di “alienazione religiosa”, che, declinando in maniera positivista la dialettica hegeliana, aprirà inediti spazi di manovra alle antropologie contemporanee e alla storia delle religioni. Il rapporto tra l’uomo e il divino, a ben guardare, si è sempre caratterizzato nel tempo per un’ingenua “inversione dei termini”: si è considerato oggettivo quel che era in realtà soggettivo e viceversa. Quel Dio-persona (soggetto) che nella tradizione giudaico-cristiana avrebbe plasmato Adamo (oggetto) a sua immagine e somiglianza è in realtà frutto del processo di au113 toconsapevolezza dell’umanità. Nella figura del Dio vivente, infatti, viene oggettivizzata l’essenza soggettiva delle diverse stirpi di uomini, civiltà dopo civiltà. L’idea della divinità diventa sempre più spiritualmente densa e concettualmente elevata, dai politeismi arcaici ai monoteismi fondati sulla rivelazione biblica, dal paganesimo al cristianesimo. Per questo al progresso delle religioni corrisponde un costante progresso civile e scientifico. Nel tracciare l’evoluzione del pensiero religioso, dalle mitografie alle teologie razionali, ci è dunque dato cogliere la storia di un’umanità che diventa sempre più lucidamente consapevole di sé, riappropriandosi di quel che aveva “spostato” nella sfera del divino. Ascoltiamolo dalla “viva voce” del nostro, in un passaggio centrale de L’essenza del cristianesimo, che fu dato alle stampe nel 1841: «L’uomo, prima ancora di trovare la sua essenza in sé, la traspone fuori di sé. In un primo tempo la sua propria essenza gli è oggetto come se fosse l’essenza di un altro. Nelle religioni il progresso storico consiste quindi in questo, che ciò che per la religione precedente era considerato qualche cosa di oggettivo è adesso qualche cosa di soggettivo; in altri termini, ciò che era contemplato e pregato come Dio viene ora conosciuto come qualche cosa di umano. Per i posteri la religione precedente è idolatria: l’uomo ha pregato la propria essenza. L’uomo si è oggettivato, ma non si è reso conto che l’oggetto era la sua essenza; la religione successiva fa questo passo. Ogni progresso nella religione è quindi una più approfondita conoscenza di sé. […] Dato che ha un altro oggetto e un altro contenuto, dato che si è innalzata su un piano superiore al contenuto della religione precedente, essa si illude di essersi sottratta alle leggi necessarie ed eterne che costituiscono l’essenza della religione: si illude che il suo oggetto, che il suo contenuto sia sovrumano. Ma, in cambio, a penetrare in quella essenza della religione che a lei stessa è nascosta è il pensatore; per lui la 114 religione è oggetto, come essa non può essere a se stessa. E il nostro compito sarà appunto di dimostrare che l’opposizione di divino e di umano è del tutto illusoria, e che, per conseguenza, anche l’oggetto e il contenuto della religione cristiana è interamente umano». Il compito del filosofo, pertanto, consiste in primo luogo nello svelare l’illusione su cui si fonda la religione, chiudendo, per così dire, il “cerchio” del processo auto-conoscitivo di una umanità incarnata, sensibilmente e naturalmente data – e non di un soggetto astratto, quale lo Spirito Assoluto di Hegel, una specie di “uomo capovolto sulla testa” che tanto Feuerbach quanto Marx si adopereranno a rimettere con i piedi ben piantati a terra. Successivamente, attraverso lo studio “scientifico” della religione si potrà indagare sempre più a fondo l’essenza umana, in maniera sociologicamente produttiva, mettendo in luce le sue caratteristiche precipue, nonché quanto di più puro e nobile si cela in fondo ai nostri cuori. Giacché in una società in cui la laicità giunga a piena maturazione l’uomo può rivelarsi a sé bastante, sia in relazione alla propria persona che al prossimo. Dando rinnovato significato al noto adagio di Cecilio Stazio, anche secondo Feuerbach homo homini deus est (“l’uomo è per l’uomo un dio”): un punto di vista rivoluzionario in grado di trasformare ogni residuo “amor di Dio” in filantropia a tutto tondo, impegno solidale a favore della comunità e dell’Altro. Sotto questo profilo il messaggio del cristianesimo – data l’epoca il nostro filosofo non poteva affatto andar esente da un certo “eurocentrismo” – si era storicamente dimostrato quello più adatto ad esprimere in modo compiuto l’essenza filantropica e sociale che caratterizza la specie umana. Prefigurando l’avvento di un “umanesimo del tutto compiuto”, nel mito cristiano Dio si fa uomo innalzando l’uomo a sé attraverso il Cristo. Proprio la figura di Gesù rappresenta, infatti, l’ultima tappa del processo di alienazione 115 dell’uomo da sé. L’atto di “alienare” (dal latino alienus, “appartenente ad altri”, “estraneo”) era consistito nel concepire un essere a se stante (la divinità) estraniando a suo favore ciò che gli stava più a cuore (la propria amorevole essenza). L’“incarnazione” del Figlio – che considerata sotto questa luce perde l’aureola di “mistero della fede” – preannunzia allora l’estremo momento sintetico, in cui l’umanità, letteralmente, si “riappropria” di quanto si era inconsapevolmente deprivata. Dinanzi alla presa di coscienza dei propri limiti individuali, alla propria precarietà e finitudine, l’uomo aveva cercato di eternarsi in Dio, di dare comunque consistenza ad una facoltà desiderante interiormente avvertita come incommensurabile e tendente all’infinito. In una temperie, quella idealistica e positivista, dove la dimensione della Storia e del Progresso hanno oramai soppiantato l’immobile fissità ontologica della divinità premoderna, a tale “brama d’infinito” potranno fornire adeguata risposta, così almeno parrebbe, «dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive». Il tempo di “quel Dio” è giunto al suo giorno estremo. L’ateismo di Feuerbach, infatti, rappresenta qualcosa di inedito, che è impossibile confondere con la critica alla religione di stampo illuministico o con un anticlericalismo di maniera. «Non è compito dei miei scritti – troviamo in un passo di Spiritualismo e materialismo (1866) – negare l’esistenza della divinità e dell’immortalità – chi può negare che esistono almeno in libri e immagini, nella fede e nella rappresentazione? – bensì solo riconoscere il senso e il motivo vero, il testo originale e non falsificato della divinità e dell’immortalità o, che è tutt’uno, della fede in esse, un riconoscimento attraverso cui la questione della loro esistenza o non esistenza si risolve da sé». Con questo la teologia si è definitivamente volta in antropologia. Il passaggio dal divino all’umano, la svolta “soggettocentrica” e “antropocentrica” della modernità si può dire compiuta: «tanto meno è Dio, tanto più è l’uomo; tanto meno l’uomo, tanto 116 più Dio. Se vuoi avere Dio, devi perciò rinunciare all’uomo; e se vuoi avere l’uomo devi rinunciare a Dio; altrimenti tu non hai né l’uno né l’altro» (in Tesi provvisorie per la riforma della filosofia, 1843). Dio e uomo sono diventati “incompatibili”. Scelto l’uomo, in Marx la stessa alienazione religiosa passerà in secondo piano. Ben più grave del fatto religioso, ridotto, come si è detto, ad oppiaceo, sul capo delle plebi pesa la continua e sistematica espropriazione del prodotto del loro lavoro, che sovente si svolge in condizioni assolutamente disumanizzanti (alienazione economica), l’estromissione dal controllo della cosa pubblica (alienazione politica), nonché la profonda diseguaglianza sociale determinata dalla divisione della società in classi (alienazione sociale). La salvezza dell’anima non è più un problema all’ordine del giorno. Dio sul lettino dello psicanalista Ne Il visitatore, pièce teatrale in un solo atto rappresentata per la prima a volta a Parigi nel 1993, Éric-Emmanuel Schmitt, filosofo e drammaturgo francese, immagina il dottor Sigmund Freud (1856-1939), oramai vecchio e malato, alle prese con un misterioso visitatore, che, d’improvviso, fa capolino nel suo studio viennese. Siamo alla fine di aprile 1938. Da un mese l’Austria è stata annessa al Terzo Reich e per le strade infuria la violenza nazista. Freud è in ansia per la figlia Anna arrestata dalla Gestapo. Il visitatore, all’apparenza giovane e brillante, si rivela un personaggio ambiguo. Sulle prime il suo eloquio volutamente sibillino e provocatorio suscita l’irritazione dell’anziano e compassato signore che vorrebbe sbatterlo fuori. Ma poi, deformazione professionale, inizia a sospettarlo affetto da qualche forma di delirio psicotico e lo fa accomodare sul lettino riservato ai suoi pazienti. La seduta psicoanalitica ha luogo ma a parti invertite. Il visitatore dimostra di conoscere nei mi117 nimi dettagli i ricordi d’infanzia e il vissuto interiore del padre della psicanalisi, uno dei campioni dell’ateismo novecentesco, il quale finisce con il confessare l’angoscia che lo coglie dinanzi alla prospettiva della morte incombente (un tumore alla gola lo condurrà alla tomba l’anno dopo), del vuoto esistenziale, del non-senso. In un crescendo di battute tragiche e umoristiche al tempo stesso, l’identità del visitatore è svelata: egli è nientepopodimeno che Dio, e quella del giovanotto un po’ petulante è la forma che ha scelto per manifestarsi a Sigmund. Una forma che, dopo tutto, esprime grande comprensione ed amorevolezza, dinanzi alla corrosiva incredulità dello scienziato. Mentre a Vienna vanno in scena le prove generali dell’Olocausto – simbolo della peggiore offesa che l’umanità abbia arrecato e continui ad arrecare a se stessa – questo Dio disarmato ed impotente, che non può opporsi all’arroganza e alla dilagante stupidità criminale degli uomini perché ha loro donato la libertà, si dilegua dalla finestra, lasciando di sasso il suo interlocutore. «C’è stato un tempo in cui l’uomo si accontentava di sfidare Dio, oggi prende il suo posto» – afferma il giovane. E, nel bene e nel male, l’uomo dimostrerà tutta la sua, spaventosa, manchevolezza: Freud, che pure ha speso tutta la vita ad elaborare un approccio clinico atto ad alleviare le sofferenze psichiche dei pazienti, è consapevole d’esser disarmato nell’affrontare la sua personale disperazione e ha il presentimento che al cospetto delle questioni ultime ben poco potrà la scienza. Il soggetto della commedia di Schmitt è assai esemplificativo per il tema che stiamo trattando. Terzo dopo Nietzsche e Marx tra i cosiddetti “maestri del sospetto” – l’espressione è stata coniata nel 1965 dal filosofo francese Paul Ricœur – Freud riconduce l’origine del divino alla sfera della psiche, in quel “sottosuolo” a-razionale che è costituito dall’inconscio. In esso, come nella struttura economica marxiana e nella volontà di potenza nietzschiana, è destinato a naufragare ogni tentativo 118 di spiegazione razionale della realtà o di ordine metafisico fondato su un’idea forte di Dio. Una volta ridotta a mero fatto antropologico, l’essenza della religione si presta ad esser indagata in termini psicoanalitici. La domanda, anche in questo caso, non verte più su Dio come problema in sé, bensì sul significato e sull’eziologia del sentimento e della credenza religiosa. Dunque non “Dio esiste?” o “Dio chi è?”, ma “che senso ha credere in Dio?”, o meglio “quale ipotesi scientifica è più adatta a spiegare l’origine psichica del fatto religioso?”. Ne L’avvenire di un’illusione (1927) Freud giunge alla conclusione che la devozione religiosa rappresenti una sorta di “surrogato” dell’amore rivolto alla figura paterna, ovvero risponda al desiderio di poter godere anche in età adulta di quelle cure genitoriali da cui discendeva il senso di rassicurazione e di benessere emotivo tipico dell’infanzia. Dio è “padre” perché la sua immagine “spirituale” si costruisce individualmente e collettivamente sull’aspirazione nostalgica d’esser protetti ed etero-guidati, beneficiando d’una specie di prolungamento indefinito della fanciullezza. Dunque, deresponsabilizzazione e protezione (illusoria) contro i colpi della sorte in cambio della propria obbedienza cieca ed incondizionata: il padre va compiaciuto perché il suo affetto e le sue salvifiche attenzioni devono “meritarsi”. Questo il significato psicologico di quel che correntemente chiamiamo “fede”. In barba al principio di realtà la religione è una specie di panacea naturalmente autoindotta, uno psico-farmaco lenitivo, da assumersi quando si intravedono tutti i dolorosi limiti della condizione umana, ovvero l’ineludibile finitezza contro cui sono destinate ad infrangersi le smisurate energie libidiche dell’Ego-bambino: «Il motivo che la psicoanalisi adduce per il formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua motivazione manifesta [...]. Il motivo del desiderio ardente del padre coin119 cide pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l’insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico sul modo di reagire dell’adulto contro la sua fatale impotenza, ossia sulla formazione della religione». Ma anche di questo “complesso del padre” ci si può e ci si deve liberare quando, esaurita la sua funzione palliativa, produca veri e propri sintomi nevrotici. La stessa ritualità del culto religioso, la coazione a ripetere atti che non trovano motivazioni realistiche, del resto, presenta tutti i connotati sintomatologici delle cosiddette “nevrosi ossessive”, mentre fanatismi e fondamentalismi variamente declinati possono essere avvicinati a veri e propri deliri psichiatrici. I loro effetti nefasti – è la storia ad insegnarcelo – sono sotto gli occhi di tutti. L’ignoranza, peraltro, non può più esser considerata una seria giustificazione della credenza in Dio, dal momento che la scienza positiva, pur con tutti i suoi limiti, ne ha svelato il carattere illusorio: «Se mai ci sia stato il caso di una cattiva scusa, ecco noi lo abbiamo qui. L’ignoranza è ignoranza; nessun diritto a credere in qualcosa può essere derivato da essa». L’ateismo manifestato da Freud si colloca, chiaramente, al di là dell’evento “morte di Dio”. Esso non entra nel merito della questione in termini metafisici – essi sono stati del tutto banditi dalle nuove scienze umane. Quello dello scienziato moderno è un ateismo, per così dire, “funzionale”, giacché obbedisce alle esigenze del nuovo paradigma filosofico e culturale impostosi a cavallo tra i secoli XIX e XX. In effetti sono ora i criteri del positivismo imperante a marcare la differenza tra “realtà” ed “illusione”: «la nostra scienza – afferma il nostro – non è un’illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci». Per converso, come ha ben evidenziato Éric-Emmanuel Schmitt ne Il visitatore, da questo quadro rimane esclusa la sfera 120 personale ed autobiografica, la sola da cui, in effetti, trae origine ed alimento la religione intesa come spiritualità e scelta di vita. In presenza degli abissi interiori, che ci si spalancano nelle cosiddette “situazioni limite” – l’angoscia legata al presentimento della morte o la noia generata dall’incalzante necessità di provvedere il mondo di senso compiuto – le distinzioni intellettuali sfumano, le certezze positive scoloriscono lasciandoci, come il protagonista del dramma, dubbiosi ed afasici. E proprio alla dimensione personale, sia con argomenti razionali che con metafore tendenti al mistico, e comunque inventando un linguaggio filosofico che va oltre gli stilemi della metafisica classica e dello scientismo psicologista, proveranno a parlare, come vedremo, i filosofi esistenzialisti. In ogni modo, a prescindere dalla visione del mondo di ciascuno, laica o religiosa che sia, siamo tenuti a riconoscere ai “maestri del sospetto” il grande merito di averci fornito delle argomentazioni valide, e in alcuni casi conclusive, per individuare i principali errori prodotti dalla nostra tendenza, più o meno inconsapevole, ad “umanizzare” il divino. È proprio grazie all’ateismo critico (e post-metafisico) di Nietzsche, Marx e Freud, che siamo oggi in grado di distinguere le forme di religiosità veritiere e autenticamente vissute, dalle credenze basate rispettivamente sulla superstizione, sulla banalizzante ortodossia di facciata dietro cui occhieggia l’odierno nichilismo da supermarket, sul dato sociologico e politico, sulla miseria economica o, peggio, sulla nevrosi individuale. Potrebbe suonar paradossale, ma proprio a loro, tutti quanti, credenti o meno, siamo debitori dei nuovi orizzonti di spiritualità ecumenica che, in questo principiar di secolo, paiono dischiuderci dinanzi modelli alternativi di globalizzazione, più centrati sull’uomo e dunque più gravidi di speranza. 121 Il divino al vaglio delle filosofie novecentesche La tradizionale concezione della metafisica e del divino si è definitivamente infranta contro il frangiflutti della critica nietzschiana, marxiana e psicoanalitica. Con il positivismo lo spazio speculativo della filosofia viene progressivamente colonizzato dalle nuove discipline basate sul metodo sperimentale e sulla matematica. L’indagine filosofica, in particolare nei paesi anglosassoni, viene retrocessa in posizione “ancillare”, al servizio della scienza. Se nel medioevo essa era considerata propedeutica all’esperienza intellettuale e spirituale del sacro, la teologia, ora è chiamata a fornire supporto al lavoro dello scienziato, come analisi volta a depurare il linguaggio da “incrostazioni” metafisiche e non-sense, o, al più, ad affinare gli strumenti logici e metodologici delle neoscienze, come loro organon. È all’interno del cosiddetto Circolo di Vienna (organizzato da Moritz Schlick negli anni Venti e poi diffusosi nel resto d’Europa dopo la diaspora provocata dall’avvento di regime hitleriano) che s’inizia a parlare di “morte della filosofia”. Il panorama della conoscenza si avvia ad essere vieppiù desacralizzato: se i grandi pensatori ottocenteschi avevano “archiviato” il dibattito intorno alla divinità e ai suoi attributi, sul palcoscenico del Novecento scientista pare non dover andare più in scena nemmeno il dramma del rapporto uomo-dio – che pure dopo la rivoluzione soggettocentrica continuava a venir rappresentato, benché, rispetto al passato, a parti rovesciate. Eludendo il vicolo cieco dello scientismo e la conseguente morte della filosofia, le filosofie novecentesche si muovono su due tracciati speculativi diversi (ma complementari), lungo i quali si ripropone in maniera sostanziale il tema del divino. In entrambi i casi, sebbene alcuni spunti di riflessione affondino chiaramente le loro radici nella storia della filosofia precedente la dipartita di Dio e l’avvento del nichilismo profetizzati da Nietzsche, le derive e gli approdi teoretici e pratici, il lin122 guaggio utilizzato nonché alcune domande di fondo appaiono inedite. A saper prestar loro orecchio, esse interrogano senza mezzi termini la nostra contemporaneità. Il primo percorso è quello dei filosofi esistenzialisti. Il termine “esistenzialismo” può essere utilizzato in due accezioni. In primo luogo indica un movimento di pensiero specificamente novecentesco cui appartengono alcuni autori, per esempio JeanPaul Sartre (1905-1980) o Karl Jaspers (1883-1969), cui faremo riferimento più avanti. In subordine serve a connotare un particolare approccio filosofico – come pure il genere letterario ad esso collegato, narrativo ed autobiografico – senza tempo, se tra i grandi “esistenzialisti” possiamo annoverare pensatori del calibro di Sant’Agostino, Michel de Montaigne, Blaise Pascal o, nell’Ottocento, il danese Søren Kierkegaard. Qualunque sia l’esito dell’orientamento esistenziale, fideistico, agnostico o dichiaratamente ateo – nel Novecento le diverse correnti sono state tutte degnamente rappresentate – la questione del divino è ricondotta nello spazio interiore e morale del “singolo”, affidata alla sua responsabilità e messa alla prova nell’autobiografia. Quel che più preme al filosofo è definire il senso della propria esistenza alla luce di una scelta impegnativa, che vien maturando nel crogiuolo della riflessione quotidiana. Quando è il proprio destino personale ad esser messo in gioco, non si danno, in effetti, verità indiscutibili, razionali o rivelate che siano. Con esse, al limite, si è “in relazione” (razionale o fideistica) e il passaggio dal concepirle intellettualmente all’incarnarle nella vita di tutti i giorni è sempre e comunque drammatico; ha, per usare un termine tratto dal lessico di Pascal, il sapore aspro di una “scommessa”. Anche l’esistenzialismo è, dunque, “soggettocentrico”. Ma non si tratta qui del soggetto trascendentale di kantiana memoria colto nella sua purezza disincarnata, bensì della persona in carne ed ossa, storicamente data, questo-uomo-qua, ecceità vivente e relazionale. Se la morte di Dio, come evento epoca123 le, ha fatto venir meno l’assolutezza della dimensione religiosa e spirituale in termini sociologici e civili – non essendoci più alcun Assoluto, Essere o Verità, a garantire l’ordine supremo, tutto si è relativizzato, persino spazio e tempo secondo la teoria della relatività di Einstein –; ebbene, è ora la persona, nel chiuso della sua singolarità, a doversi accollare la domanda fondamentale e a portarne il peso schiacciante della responsabilità. In metafora, giacché non è più Dio, la Chiesa o lo Stato a “tenermi legato” (secondo una possibile etimologia la parola “religione” deriverebbe dal verbo latino re-ligare, “unire insieme”), sono chiamato io, in prima persona, a produrre una qualche “forza di attrazione gravitazionale”, se non voglio correre il rischio di andare alla deriva nell’infinita vuotezza del Tutto. All’uomo del Novecento, resosi individuo-massa, si confà un gran senso di solitudine. In una società in cui tutto è relativamente privo di valore, se non siamo noi a darglielo, anche proclamarsi “atei” ha poco senso. L’esistenzialismo novecentesco parte da questa presa d’atto. Nulla è più come prima. Con il diffondersi della prospettiva nichilista alla coscienza dell’uomo occidentale si presenta un dilemma, in certo senso, sconosciuto, inaudito, terribile: non si è più chiamati a configurare la propria “forma di vita” in base ad un “Bene” e ad un “Male” predefiniti e “garantiti” una volta per tutte dalla misericordia d’un Dio trascendente, ma a dover stabilire contestualmente il “bene” e “male” su cui poi orientare la propria, terrestre, scelta di vita, senza l’assicurazione di alcuna prova d’appello ultraterrena. Una responsabilità, come si capirà, ben più radicale e spiazzante di quella dell’uomo medievale o moderno, il quale, al massimo, disponeva del libero arbitrio di sottomettersi o no all’infallibile Verbo divino. Dopo il parricidio di Dio, l’effimera libertà da un ordine prestabilito reca con sé la necessità di pensarsi individualmente liberi di creare nuovi valori – anche di sottomettersi al Signore di Abramo ed Isacco o di abbracciare la croce con il Cristo. Ma lo si 124 deve soggettivamente volere. Ecco perché l’esistenzialismo, ateo o cristiano che sia, prefigura comunque un modo del tutto diverso di vivere e pensare l’assenza o la presenza di Dio in rapporto con se stessi. Il secondo percorso, pervaso anch’esso di spunti esistenzialisti, riconduce la filosofia verso il tema originario e fondamentale dell’Essere e dell’Intero, ossia del senso ultimo della realtà. Le scienze positive, per loro natura, sono specialistiche e settoriali, si muovono all’interno dei recinti, più o meno ristretti, del loro oggetto, una specie di “ragione sociale” esclusiva (o quanto meno parziale). Ad esempio il “bio-logo” si occupa, previa sperimentazione, di produrre argomenti razionali intorno alle cose viventi (bìos in greco significa “vita”), ma non sottopone ad esame il necessario collegamento tra il vivente e il non-vivente, l’organico e l’inorganico. Gli sfugge la visione d’insieme, l’“interezza”. Di questo si occupa, in ultima istanza, la filosofia, al di là della presunta “morte della filosofia”. È uno sguardo che tende ad abbracciare l’intero orizzonte del reale, impiegando la ragione nel tentativo di dare vita a discorsi complessivi, come pure indagando i confini dello stesso linguaggio, al di là dei circoscritti tecnicismi del lessico positivista. Si tratta, in effetti, di immaginare un pensiero metafisico inusitato, che facendo propria la lezione nietzschiana, vada oltre la superata ontologia occidentale, basata sull’Essere di Parmenide e sulla Sostanza di Aristotele – in tal senso esso si manifesterà paradossalmente come “anti-metafisico” – senza per questo rinunciare a porsi la domanda fondamentale: “che cos’è l’Essere?”. Da questa prospettiva privilegiata, potremmo dire che la riflessione filosofica, lungi dal calare nella tomba, riguadagna nel corso del Novecento un suo spazio specifico, più ampio ed arioso. Liberata dal peso della multidisciplinarietà e della sistematicità che ancora caratterizzavano l’hegelismo e le dottrine di ispirazione hegeliana – a comporre un quadro completo dell’umanesimo scientifico provvedono ora antropolo125 gia, sociologia, economia politica, psicologia e le altre scienze sociali – la filosofia può aspirare a riconsiderare il molteplice alla luce dell’unità, tracciando originali itinerari teoretici, in grado di farci ripensare il rapporto dell’uomo con il pianeta e con il Tutto. Il disegno di una metafisica innovativa risponde, in ultima istanza, al bisogno dell’uomo contemporaneo di riconsiderare sotto una diversa luce, relazionale, globalizzata, ecumenica e, soprattutto, “pratica” il tema del divino. Tra i protagonisti di questa straordinaria avventura metafisica ci accosteremo a due personaggi che hanno lasciato un’impronta decisiva nella storia del pensiero novecentesco, entrambi pensatori profondissimi dalle biografie controverse e tormentate: il tedesco Martin Heidegger (1889-1976) e l’austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951). L’accostamento dei due pensatori non risponde a rigorosi criteri storico-filosofici, ma è senz’altro funzionale al discorso che stiamo portando avanti. Sartre: Dio è il Silenzio, Dio è l’Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini Jean-Paul Sartre è considerato uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo ateo del Novecento. Filosofo, romanziere, commediografo, critico letterario, egli ha rappresentato il prototipo dell’intellettuale engagé, politicamente e socialmente impegnato, una vera e propria icona per la gioventù europea degli anni Sessanta. Con Sartre l’esistenzialismo diventa una concezione e, soprattutto, una prassi libertaria. L’uomo è l’unico ente in cui l’esistenza precede l’essenza: la consapevolezza di esser vivi, il sentirsi gettati nel mondo, vien prima rispetto al senso e alle connotazioni che daremo alla nostra vita, al destino che ci procureremo. È un fatto. Non abbiamo scelto di venire alla luce, né di dover chiudere gli occhi per sempre: moriremo e basta, comunque, un giorno. Tra i due estremi, però, tutto è possibile 126 e siamo noi a determinarlo. Impugnata la penna, ogni giorno scriviamo la nostra personale, inimitabile storia, sfidando la bianchezza del taccuino che la sorte c’ha messo tra le mani. Così facendo progettiamo e realizziamo la nostra essenza, ovvero la nostra autobiografia. Anzi v’è di più: siamo costretti a farlo. Non possiamo decidere in assoluto di non scegliere, perché anche questa è, in ogni caso, un’opzione. “Mi sono risolto a non scegliere”, “ho stabilito di lasciarmi vivere” o “di sottomettermi all’altrui volontà”: comunque la si metta è un atto di libertà. Per questo, «l’uomo è condannato ad esser libero». L’uomo di cui parla Sartre non è un’entità metafisica o psicologica, non l’homo oeconomicus delle scienze sociali o il sapiens dell’antropologia. È un’entità personificata e storicizzata, sei proprio tu o sono proprio io, è il protagonista del pensiero ottocentesco di Kierkegaard, al quale dobbiamo l’invenzione in chiave esistenziale ed antihegeliana del concetto di “singolarità”. La realtà umana non è composta di generi ideali, di categorie statistiche, di classi sociali, ma di singole persone. Sono loro ad interpretare quella drammatica avventura che chiamiamo vita. Il resto è astrazione. Ma perché l’esser liberi è “condanna”? Perché libertà significa affrontare la dimensione del “possibile” e l’angoscia ad essa intimamente connessa. Per ogni possibilità che incarno, un’altra, ineluttabilmente, scivola via, si nullifica. Se con Dio è sfumato quel Bene-in-sé di platonica memoria, non solo giudice a posteriori del mio agire, bensì legislatore io sono: a me spetta determinare non solo cosa fare dei miei giorni e delle mie ore, ma anche perché e in nome di che cosa farlo. E avere l’ardire di scegliere, nel mio piccolo, per l’intera collettività, perché ogni mio pensiero, ogni mia azione, non importa quanto essa possa sembrare insignificante, si riflette sul destino complessivo del genere umano. Come “forzato” della libertà, l’individuo è costretto, in almeno un senso, a far le veci della divinità. Egli è sostanzialmente 127 impotente, fragile, meschino, insipiente, costantemente sotto scacco. Eppure nei limiti della sua finitudine è libero di stabilire, agendo, cos’è bene e cos’è male. Come Dio egli è “al di là del bene e del male”, perché il bene corrisponde, di fatto, alla sua volontà, che nelle faccende umane si estende prospetticamente all’umanità intera. In un famoso passaggio della conferenza intitolata L’esistenzialismo è un umanismo (tenuta nel 1945, poi data alle stampe l’anno successivo) Sartre afferma: «Scegliere d’essere questo piuttosto che quello è affermare, nello stesso tempo, il valore della nostra scelta, giacché non possiamo mai scegliere il male; ciò che scegliamo è sempre il bene e nulla può essere bene per noi senza esserlo per tutti. Se l’esistenza, d’altra parte, precede l’essenza e noi vogliamo esistere nello stesso tempo in cui formiamo la nostra immagine, questa immagine è valida per tutti e per tutta intera la nostra epoca. Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché essa coinvolge l’umanità intera». Una responsabilità schiacciante: ecco cosa è inestricabilmente intrecciato a quella libertà cui siamo condannati. È la croce che anche il laico di buona volontà, tutto teso ad un agire filantropicamente orientato, deve portare. Sartre, ad esempio, aveva abbracciato in politica la fede marxista e ad essa rimase coerente sino alla morte, cercando di conciliarvi le principali idee esistenzialiste. Dopo la dipartita del Dio della metafisica classica, come un orfano cresciuto troppo in fretta, l’uomo del Novecento si trova a dover sostenere il fardello della responsabilità paterna, angustiato dalla consapevolezza di fondo che le sue spalle non saranno mai abbastanza larghe per sostenere un simile peso. Perché nel progettare e determinare praticamente la propria essenza, in termini etici e politici, è ora irrimediabilmente solo. In tale fondamentale circostanza – una sorta di a priori dell’esistenzialismo –, indipendentemen128 te dall’esito ultimo della propria auto-determinazione, per lui Dio simboleggia l’oceano di silenzio ove riecheggia inane la sua voce, l’assenza di significato assoluto, l’estrema metafora della propria solitudine. Nella scelta esistenziale sono solo: anche nel momento in cui scegliessi di convertirmi, di gettarmi tra le braccia del Cristo (come ad esempio avevano deciso di fare Pascal e Kierkegaard), in quel preciso istante sarei comunque chiamato a risponderne unicamente a me stesso. Ecco perché l’esistenzialismo di Sartre è irrimediabilmente “ateo”. Ma in ciò, d’altra parte, consiste il suo eroismo. L’impegno ad autodeterminarsi, affrontando coraggiosamente l’angosciosa vertigine del possibile, dà comunque valore alla vita, la rende degna d’esser vissuta. È dunque foriero, checché se ne dica, di un atteggiamento produttivo e ottimista. Alle polemiche suscitate dalle sue prese di posizione “irreligiose” Sartre replica così: «L’esistenzialismo non vuole essere ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non ci cambierebbe nulla, ecco il nostro punto di vista. Non che noi crediamo che Dio esista, ma pensiamo che il problema non sia quello della sua esistenza; bisogna che l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio. In questo senso l’esistenzialismo è un ottimismo, una dottrina d’azione, e solo per malafede confondendo la loro disperazione con la nostra, i cristiani possono chiamarci ‘disperati’». Jaspers: il naufragio nella Trascendenza La specificità dell’esistenzialismo di Karl Jaspers sta nel rilievo da lui dato all’idea di Trascendenza. Rispetto alla “terrestrità” laica ed impegnata di Sartre, l’esito della riflessione di Jaspers è 129 di tipo, per così dire, “mistico”. Se l’esistenza precorre quell’essenza che ognuno è chiamato ad auto-determinare attraverso la chiarificazione e l’incarnazione coerente del proprio credo in senso autobiografico, la condizione umana – l’esserci (in tedesco Dasein, “essere lì”, “trovarsi in una determinata situazione personale e storica”), inteso come sinonimo di esistenza – data la sua finitudine non può non rimandare al supremamente Altro-da-sé. Detto altrimenti, non vi è esistenza senza Trascendenza. Esserci per ciascuno di noi significa sporgersi momentaneamente, transitoriamente fuori dal Tutto-indistinto cui sentiamo, in ultima istanza, di appartenere. Non si dà alcun esserci senza Essere. Soltanto a partire dall’indeterminatezza dell’Essere prendiamo corpo in quanto enti dotati della particolare consapevolezza di essere-al-mondo, obbligati a progettare la nostra parabola di vita. La quale parabola, però, a prescindere dalla qualità peculiare di ciascun progetto, non può che essere orientata verso quell’Ulteriorità che infine tutto e tutti sovrasta e “divora”. Essa sfugge a qualunque abboccamento di tipo intellettuale o razionale. L’Essere è per sua natura un Oltre, indistinto e dunque indistinguibile, alogico e perciò non razionalizzabile: assomiglia all’Àpeiron anassimandreo, oppure al Tao della tradizione taoista cinese. Ad esso la mia individualità transeunte si accosta nel presentimento della Trascendenza, nello scoprire che la caducità del proprio essere-in-sé rimanda a ciò che semplicemente è. La vita è come il volteggiare d’un trapezista che nel bel mezzo della traiettoria matura la consapevolezza d’esser senza rete. Egli farà di tutto per rimanere concentrato, se è buon acrobata. Ma alla fine, accetterà il vuoto che lo circonda da ogni lato, e dopo aver lottato per la sua salvezza, ad esso infine si abbandonerà, un giorno. Meraviglioso ed enigmatico questo celebre brano di Filosofia (1932) in cui Jaspers tratteggia il significato esistenziale del naufragio: 130 «Da ultimo c’è il naufragio; lo dimostra l’orientazione nel mondo che inesorabilmente si attiene ai fatti. [...] Per l’orientazione nel mondo, il mondo in quanto esserci naufraga, perché in sé e da sé non si lascia comprendere. [...] Nella chiarificazione dell’esistenza naufraga l’inseità [l’essere in sé] dell’esistenza: infatti là dove sono propriamente me stesso, non sono solamente me stesso. [...] Se dunque il naufragio, a cui io mi abbandono a piacere, è solo il nulla vuoto, allora il naufragio che mi coglie, quando ho fatto veramente di tutto per evitarlo, bisogna che non sia solo naufragio. Allo stesso modo, io sperimento l’essere quando nella sfera dell’esserci ho fatto quello che potevo per difendermi; e analogamente, quando, come esistenza, rispondo completamente di me, e da me tutto esigo; ma non posso sperimentare l’essere quando, nella coscienza della mia nullità di creatura di fronte alla Trascendenza, mi abbandono alla caducità propria dell’essere creatura». L’Essere non si capisce. È inafferrabile. Nella sua abissale indeterminatezza, che come un gorgo ogni ente particolare inghiotte, in ultimo si fa naufragio. La metafora jaspersiana del naufragio è assai profonda. Da una parte, essa si riferisce a quella prodigiosa capacità umana – tutti quanti in fondo ne disponiamo – di avvertire distintamente il limite e, nello stesso tempo, di intuire ciò che questo limite preannunzia: quella sensazione di infinito e di immensità in cui, come dice il poeta, «s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare». Dall’altra, indica un evento preciso, il compiersi inesorabile di una disposizione che c’accompagna lungo tutta la vita e riecheggia sino a stordirci nei momenti di maggiore discernimento, una campana che, impassibile, rintocca il suo Es muß sein! (“Dev’essere!”). L’evento può essere “premeditato” in tutta la sua drammaticità: non a caso la praemeditatio mortis è uno degli esercizi spirituali più comuni e filosoficamente rilevanti di tutti i tempi. Di portata universale, esso è pure quanto di più 131 autenticamente personale ci è dato immaginare e sperimentare. Nel momento in cui la nostra “navicella s’infrange” (“naufragio” dal latino navis frangere, “rompere”, “frantumare” la “nave”) durante la tempesta finale siamo soli. Eppure se non ci attacchiamo alla nostra condizione di creature, se accettiamo, dopo esserci sino all’ultimo fatti carico della nostra responsabilità umana, “ciò che sta oltre”, paura e dolcezza si fondono insieme. Il naufragio, è chiaro, apre la porta ad una concezione del divino che ben si concilia con i presupposti dell’esistenzialismo novecentesco e, contemporaneamente, richiama alla mente tematiche romantiche e contemplative. Un Dio, quello cui Jaspers fa indirettamente riferimento, senza-nome e senzavolto, non Essere immutabile e promessa di salvezza, inteso come “permanenza”, bensì “indefinitezza tutt’avvolgente”, “divenire”, autentica “imprevedibilità”. Eppure, a ben guardare, è in grado di riconciliarci con il mondo, di farci sentire, nel rapportarci con esso, “a casa nostra”: «Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un’indefettibile fiducia in esso». 132 La “rivoluzione” ontologica di Heidegger Se con la pubblicazione di Essere e tempo (1927) Martin Heidegger aveva tracciato la strada maestra degli esistenzialismi novecenteschi, che gli sono in gran parte debitori sia in termini concettuali che lessicali, è con Lettera sull’umanismo (1947) che egli inaugura una visione ontologica veramente “rivoluzionaria”. La domanda intorno all’Essere, già centrale nelle prime opere, è qui riproposta in maniera più attenta alle sue implicazioni etiche e storiche e tiene conto, in maniera coerente ed efficace, della morte di Dio, cui Heidegger dedicherà uno scritto, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto” (pubblicato nel 1950 in Sentieri interrotti), e alcuni corsi universitari. Ad esser scomparso dal panorama ideale e civile delle società occidentali – anche se ancora di ciò non si ha una percezione del tutto chiara – è il Dio-Essere della tradizione, la cui nozione era fondata sulla ontologia del padre Parmenide, così come era stata recepita da Platone, Aristotele e Plotino, per citare solo i più grandi filosofi dell’antichità, e ripresa in chiave cristiana da Tommaso d’Aquino nel medioevo. Di questo avvenimento Nietzsche si era fatto interprete profetico. Heidegger gli riconosce il merito di aver intuito la portata epocale della scomparsa di Dio. Essa era inscritta, in un certo senso, nel destino della stessa metafisica occidentale. L’opera di Nietzsche si era però interrotta sul crinale che separava il vecchio dal nuovo. La pars construens della filosofia nietzschiana era stata solo abbozzata attraverso le metafore della volontà di potenza, dell’eterno ritorno e dell’oltreuomo, dalle quali erano derivate visioni senz’altro portentose, ma che alla fine risultavano ambigue ed incomplete. Heidegger ritiene pertanto che occorra pensare una metafisica, che “superi” effettivamente il concetto di Essere antico-medievale, svelando nuovi orizzonti alla nostra civiltà. Giacché, in effetti, sul diverso modo in cui ci collochiamo dinanzi alla domanda fondamentale, “che cos’è 133 l’Essere?”, poggia tutto l’impianto culturale, istituzionale, sociale ed economico della nostra epoca: non possiamo non fare i conti con il divino “sconosciuto” che si staglia oltre il Dio della scolastica. Un Dio-Essere forse più “debole”, “aperto”, “sfuggente”, non riducibile a mera nozione concettuale. Tant’è: Heidegger lo paragona ad una foresta oscura ed intricata lungo i cui sentieri si è costretti a vagare per giungere, di tanto in tanto, ad una “radura”, dalla quale è possibile averne una visione più estesa ed integrale, pur rimanendovi dentro. Prima di avventurarci nell’intrico della foresta heideggeriana è però opportuno ripercorrere, in estrema sintesi, il cammino della metafisica classica. Secondo la teologia della scolastica Dio è Ens perfectissimum, ossia l’ente (la cosa che è) a cui tutti gli attributi devono essere riferiti al massimo grado (per esempio la bontà, Dio è il Bene; il vero, Dio è la Verità; ecc.). In senso squisitamente ontologico, Egli è l’ente che ha per essenza l’Essere in sé. Detto altrimenti, ciò che definisce Dio in quanto tale (la sua essenza) è l’Essere, ovvero la pura, adamantina, incontrovertibile pienezza ontologica. Tra il Dio dell’Antico Testamento israelitico e l’Essere della filosofia greca si è così venuta a stabilire, nei secoli, una relazione identitaria, tenuta saldamente dal principio di non-contraddizione. In questa maniera, negare l’esistenza di Dio equivale, necessariamente, ad affermare il Non-essere, cadendo in contraddizione. Su tale nesso si basa, ad esempio, la prova ontologica dell’esistenza di Dio formulata da Anselmo d’Aosta. La definizione scolastica veniva suffragata, tra l’altro, dall’autorità della Sacra Scrittura. In un passo del Libro dell’Esodo (3, 14) Jahvè parlando con Mosè afferma: “io sono colui che sono” (o “io sono io-sono”). Trasposta nei termini della metafisica classica, tale espressione suonerebbe così: “io sono colui che per propria natura è Essere”, “io sono l’Essere di per sé”. Del tutto estranea alla mentalità greca antica – vale la pena qui 134 rammentarlo di passaggio – è invece l’idea di un Dio “persona” o “personificazione” di un concetto astratto. In realtà, l’esegesi biblica novecentesca ha dimostrato come tale traduzione, dall’ebraico al latino, abbia prodotto, nei secoli, un fraintendimento di fondo. Il verbo “essere”, in ebraico, ha infatti un valore “causativo” piuttosto che “esistenziale”. Stando così le cose, la locuzione “io sono io-sono” andrebbe correttamente resa con “io sono colui che fa essere”, “colui che decide”, “colui che guida il popolo d’Israele”, e non con “colui che riassume in sé l’Essere di tutte le cose”. Quest’ultimo concetto sarebbe del tutto estraneo alla visione del mondo e al linguaggio veterotestamentario. Il che vanificherebbe l’argomentazione medievale basata sull’autorità della Bibbia. Resta il fatto che sin dalle origini la filosofia occidentale ha considerato teologia ed ontologia in stretta connessione, di modo che l’interrogativo intorno all’Essere e quello intorno al Divino si siano vicendevolmente implicati sino a coincidere. Difficile, e anche, tutto sommato, inutile, provare a stabilire tra i due ambiti di ricerca un rapporto “gerarchico” di priorità (ovvero: è una specifica concezione del divino a determinare quella data visione ontologica o viceversa?). Va da sé, dunque, che ponendosi in maniera originale la questione intorno all’Essere si dia luogo, esplicitamente o meno, ad una diversa visione del divino. Quando si ragiona intorno ai massimi sistemi, provando ad investire di significato l’interezza del reale, è inevitabile che ci si imbatta nel tema del “sacro”, a prescindere dal retroterra culturale ed esperienziale di cui si è portatori. Ma in cosa consiste esattamente la “rivoluzione ontologica” proposta da Heidegger? Facendosi la fatidica domanda intorno all’Essere la metafisica classica secondo il filosofo si era in realtà chiesta “che cos’è l’ente?” ovvero “come viene ad essere ciò che è?”. L’Essere aveva finito con l’obliarsi, perché era stato di fatto confuso con l’ente, con il mero “esser presente delle cose che sono”. Ma l’Essere in sé è altro rispetto all’ente, non 135 si esaurisce in ciò che è. In parole povere, ciò che fa essere quest’albero ciò che è, non deve esser confuso con l’albero, perché lo trascende, lo sovrasta, va oltre il puro darsi dell’albero inteso come semplice presenza ovvero disponibilità a venir percepito come qualcosa che mi sta dinanzi nel qui e nell’ora. La concezione originata da tale modo di porsi la questione ontologica è stata, in certo senso, fuorviante e va, dunque, superata. Occorre dunque ripensare la domanda fondamentale (e fondante: in tedesco Grundfrage) dell’ontologia in forma rigorosa: “che cos’è l’Essere?”, ossia “come giunge ad esprimersi l’Essere (attraverso l’ente)?”. Questo è il problema originario. Da esso si diparte un sentiero di ricerca che mira ad andare oltre l’ente – e la sua “entificazione” (ossia il suo “farsi ente”) – per aprire un panorama attraverso il quale l’Essere in sé possa mostrarsi come ulteriorità rispetto al mero “esser cosa” (cosalità) degli enti. L’errore in cui era incorsa la metafisica platonico-aristotelica consisteva nel considerare l’Essere come causa degli enti, ovvero come qualcosa che, pur gerarchicamente superiore, condivide con l’ente il suo modo d’essere, come “universale” rispetto ad un “particolare”. Una specie di “super-ente”, un “genitore” (Dio è padre), che pur nella sua alterità, risulta dotato dello stesso codice genetico. Insomma, una volta trasformato in concetto-parola con l’apposizione dell’articolo determinativo all’infinito del verbo “essere”, l’Essere-Dio è stato catapultato tra le cose del mondo, una cosa speciale, certo, “motore immobile” o “pensiero di pensiero” per Aristotele, fine ultimo cui tende il cosmo o, per dirla con l’Alighieri, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ma pur sempre “ente”. In questo consiste l’oblio dell’Essere, ovvero il progressivo venir meno della splendente ulteriorità del dio, il suo terrestrizzarsi, desacralizzarsi, condividendo infine con gli enti il destino di morte. Per distinguere i due concetti di ente ed Essere Heidegger usa 136 rispettivamente gli aggettivi “ontico”, riferito al primo, ed “ontologico”, riferito propriamente soltanto al secondo. La dimensione “ontica” nel momento storico attuale è così configurata che l’ente si presenta essenzialmente sotto il controllo della “tecnica”. Se oggi ci interroghiamo sull’ente sarà la tecnica a fornirci la risposta: «quale esso ‘è’ ci vien detto dal predominio dell’essenza della tecnica moderna, il cui dominio si manifesta in tutti i campi della vita, come appare dal fatto che si hanno espressioni caratteristiche come funzionalizzazione, massimo rendimento (Perfection), automazione, burocratizzazione, informazione» (in La concezione onto-teo-logica della metafisica, 1967). Il modo di rivelarsi dell’Essere, invece, è onto-logico ciò “discorsivo”, “linguistico”: «Nel pensiero l’Essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’Essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori ed i poeti sono i custodi di questa dimora” (in Lettera sull’umanismo). Non la tecnica, non la scienza positiva, quindi, ma un nuovo approccio teoretico che rimetta al centro l’uomo nella sua integralità – un “umanismo” appunto – è il solo in grado di avvicinarci davvero all’Essere. Così facendo l’uomo diventa il “pastore dell’Essere”, “la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’Essere stesso a custodia della sua verità». Dunque, di contro ad una concezione “presenzialistica” dell’Essere Heidegger ne propone una “de-entificata”. L’Essere è propriamente “ni-ente”, cioè “non-ente”. Il che non equivale affatto a nullificarlo, facendolo coincidere con il famigerato “Non-essere” parmenideo. La terribile trappola del principio di contraddizione che aveva condizionato la filosofia sin dal suo sorgere può essere evitata là dove si arrivi a comprendere che la negazione dell’ente, ovvero del particolare, non comporta la negazione, bensì l’affermazione dell’Essere, inteso come totalità di apertura, possibilità, vuotezza di determinazioni prestabilite. Se l’Essere fosse qualcosa invece che “ni-ente”, gli 137 enti vedrebbero chiudersi quello “spazio generativo”, “quella assenza ontica” che sola permette loro di manifestarsi come tali. Potremmo dire che esso rappresenta la pura bianchezza dello schermo che rende possibile la messa in scena delle cose del mondo, il flusso continuo del loro emergere dal ni-ente per poi in esso rituffarsi. Un’ontologia basata su tali presupposti consente di evitare sia i rischi dell’eternalismo che quelli del nichilismo. Da un lato non è possibile parlare di sostanze sempiterne; dall’altro non si può propriamente dire che le cose divengano nulla. Grazie ad un Essere vuoto di determinazioni ontiche, gli enti hanno la possibilità di manifestarsi, di venire temporaneamente alla luce. Le cose del mondo sono nel tempo; l’Essere invece è temporalità, avvenimento. Il rapporto che c’è tra Essere ed enti assomiglia, in metafora, a quello che si dà tra la luce e le cose visibili. La luce non è in sé visibile, né si può affermare sia qualcosa di particolare. Essa è piuttosto la “condizione di visibilità” di tutto ciò che viene illuminato. Così come il silenzio è la “condizione di udibilità” di tutti i suoni. Senza il silenzio non si produrrebbe alcuna melodia. Questa è la caratteristica principe dell’Essere e, dunque, del divino. Esso è propriamente “inconcepibile” (“non capibile”, dal latino capio, “piglio”, ossia non afferrabile con la mente, non intellettualmente classificabile), poiché si rivela nel suo “toglimento”, nell’atto di auto-sottrarsi affinché gli enti possano venire ad essere. Come la luce e il silenzio, questo Dio misterioso non lo si può “comprendere” perché rappresenta esso stesso la possibilità di comprensione degli enti. Si possono “prendere insieme”, “abbracciare” – questo il significato del verbo latino cum-prehendere – le cose che si stagliano sull’orizzonte, ma non l’orizzonte in sé: lo si contempla, ne si rimane abbacinati e in esso, come aveva detto Jaspers, si finisce con l’affondare. Quella di Heidegger è una concezione del divino “debole” e “al femminile”. Un Dio absconditus (nascosto) che non “riempie”, 138 ma “contiene”, non s’impone attraverso la violenza del concetto, ma gentilmente si fa da parte affinché le sue creature – gli enti – possano dar vita ad una fenomenicità danzante. Un Dio siffatto, non essendo concettualizzabile, non dogmatizza, non si lascia strumentalizzare, né dà adito a fondamentalismi. Ad esso l’Occidente può pervenire recuperando quello spazio di spiritualità che la tecnica trionfante sembra aver del tutto estinto. Non questo o quel Dio, non il Dio dei cattolici o quello dei musulmani, ma la verdeggiante regione del sacro, che giace inespressa in ciascun essere umano. A simili pascoli dovrà condursi l’uomo in quanto “pastore dell’Essere”, poetando, di contro alla prosaicità della tecnica, in attesa di salvezza divina, giacché – come ebbe a dichiarare il filosofo in un’intervista rilasciata al quotidiano Der Spiegel nel 1976 – «soltanto un Dio può ancora salvarci. La sola possibilità che ci resta nel pensiero e nella poesia, è la possibilità per la manifestazione di questo Dio». Wittgenstein: il Mistico si colloca al di là delle possibilità del linguaggio All’ineffabilità dell’Essere heideggeriano fa eco, idealmente, la non dicibilità del concetto di “Mistico” formulato da Ludwig Wittgenstein nel celebre Tractatus Logico-Philosophicus (1921). Alla sua pubblicazione, realizzata su interessamento dei filosofi inglesi Bertrand Russell e George Edward Moore, l’opera dell’allora giovane e sconosciuto Wittgenstein fu salutata come una sorta di manifesto del neopositivismo logico. Il Tractatus avrebbe dovuto contribuire a sgombrare definitivamente il campo del linguaggio dai tanti fraintendimenti e non-sense introdottivi nel corso dei secoli dal suo uso filosofico. La metafisica occidentale, infatti, aveva costruito il proprio impianto teoretico su una serie di asserzioni che apparivano scientifica139 mente insensate, giacché ad esse non corrispondevano stati di cose verificabili. La sensatezza di una proposizione è data dalla sua idoneità a descrivere un fatto, ovvero a “fotografare” un accadimento possibile. Solo a tali condizioni la si può effettivamente utilizzare nelle scienze positive. Un pensiero che non sia “immagine logica” dei fatti, non conduce ad alcuna conoscenza effettiva, in quanto non produce asserti che si possano dimostrare veri o falsi attraverso la sperimentazione. Pertanto, le proposizioni di contenuto teologico o religioso, come pure quelle etiche od estetiche, non hanno alcuna valenza scientifica. Compito della filosofia analitica è depurare il linguaggio dal vecchiume di incrostazioni metafisiche accumulato nei secoli, consegnando alle scienze uno strumento neutro, atto a descrivere il mondo in termini squisitamente fattuali: «Il Metodo corretto della filosofia sarebbe questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale; dunque qualcosa che nulla ha a che fare con la filosofia, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno» (Tractatus 6.53). In realtà, l’interpretazione del Tractatus si è successivamente rivelata – anche alla luce degli altri scritti del filosofo austriaco pubblicati solo dopo la sua morte – assai più complessa ed articolata di quanto avessero ipotizzato i neopositivisti nei primi anni Venti. Al punto che, secondo un’altra linea interpretativa, il pensiero di Wittgenstein, lungi dal “neutralizzare” qualsivoglia prospettiva metafisica sul mondo, andrebbe riletto in chiave mistica e spirituale. La filosofia non è propriamente dottrina, bensì “attività”, pratica razionale di chiarificazione dei diversi modi di utilizzo del linguaggio. Partendo dall’indagine del linguaggio ordinario si giungono infine a scandagliare i limiti estremi delle nostre possibilità di significazione, oltre i quali il 140 mondo c’appare come un “tutt’intero” che rimanda a ciò che è fuori da sé: «La soluzione dell’Enigma della vita nello spazio e tempo è fuori dello spazio e tempo» (6.4312). Dunque, l’Enigma del senso della vita, che nondimeno ci si presenta al di qua dello spazio-tempo, non trova soluzione nel mondo. A tale Enigma la scienza non è in grado di fornire nessuna risposta. Anzi, per quanto si percorrano in lungo e in largo i sentieri logici e matematici delle scienze naturali, si ha la netta sensazione che le questioni per noi essenziali non giungano neanche minimamente a porsi: «Noi sentiamo che anche qualora tutte le possibili domande scientifiche avessero avuto risposta, i problemi della vita non sarebbero stati ancora neppure toccati. Certo, allora non resta più domanda alcuna, e questa appunto è la risposta» (6.52). Non resta più domanda perché i confini del linguaggio sono stati toccati e con essi quel che si poteva dire su “come” il mondo si configurasse ai nostri occhi. Ma come l’occhio che guarda non vede se stesso nell’atto del guardare, così il dire non può spingersi oltre la constatazione che il mondo è: «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è» (6.44). Questa è la “risposta”. Ma non ha nulla di logico, nulla che, per quanto sforzi si facciano, possa esser espresso in termini razionali. Qui s’arresta la pretesa della filosofia di raziocinare sul senso complessivo delle cose. La struttura formale del mondo e le modalità con cui si danno i fenomeni sono oramai dominio dell’analisi scientifica. A questo conduce, invero, la stessa riflessione filosofica. Eppure, sulla cresta che separa il regno 141 dello scibile-dicibile (non esistono propriamente domande che non abbiano risposta, perché esse non si possono nemmeno formulare) da quello dell’inconoscibile-indicibile al vero ricercatore si rivela l’esperienza del Mistico. Esperienza, non conoscenza; un “vedere” piuttosto che un “capire”. Una sorta di illuminazione: «Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo» (6.54). Lì è il Mistico, cui si può accennare soltanto in maniera afasica. È il regno del silenzio. Tanto che il Tractatus si chiude con la nota asserzione numero 7, che a differenza delle prime sei, intorno a cui si sviluppa il complesso ordito dell’opera, rimane senza commento: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Dopodiché, al lettore di Wittgenstein non rimane che chiudere il libro. Ma come onde sonore prodotte dal rintocco di una campana, queste parole sembrano dilatarsi senza fine nella sua coscienza. Al Mistico possiamo assimilare lo spazio del divino, per come ci è dato intenderlo. L’unica traccia che ci è dato scorgere di Dio, paradossalmente, è la sua non-presenza intra-mondana, il suo non-palesarsi nell’ordine naturale: «Come il mondo è, è del tutto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé nel mondo» (6.432). Anche in Wittgenstein, dunque, il divino si configura come ul142 teriorità. La sua “indicibilità” non produce affatto un silenzio rassegnato, nichilistico, ma sviluppa nuove possibilità di comprensione, in senso meditativo ed esperienziale. Non a caso alcuni studiosi hanno provato ad accostare in termini comparativistici il contenuto del Tractatus al buddhismo Zen. Ad ogni modo, a prescindere dalle abissali profondità del silenzio wittgensteiniano, nonché da certe derive spiritualiste, va riconosciuto alla filosofia del linguaggio del Novecento il merito d’aver svolto un incontestabile lavoro di delimitazione e chiarificazione degli ambiti di ricerca, ripulendo il campo dai “residui” della vecchia metafisica. Operazione comunque necessaria affinché una concezione del divino veramente nuova possa avere in futuro agio di manifestarsi. Che ne è di Dio dopo Auschwitz? Posta dinanzi alla terrifica incommensurabilità della Shoah la coscienza dell’uomo contemporaneo ha vacillato, ammutolita. A scavalcare le possibilità denotative del linguaggio, questa volta, non è il Mistico, ma l’orrore: impossibile trovare le parole per significare l’abisso di disumanità in cui il Terzo Reich ha sprofondato la civiltà europea. Nei crematori dei campi di sterminio insieme ai cadaveri di milioni di ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, sacerdoti cattolici e protestanti, prigionieri politici e altre minoranze, sono andati in fumo gli stessi ideali settecenteschi ed ottocenteschi di un umanismo progressivo e filantropico. L’uomo non si è rivelato un dio per il prossimo, tutt’altro. Alcuni hanno contribuito fattivamente a raschiar via il volto stesso dell’Uomo, hanno scelto l’abiezione. Altri hanno girato la testa per non vedere, defraudandosi della loro coscienza. Altri ancora hanno assaggiato l’erba amara di un’immensa, sconsolata, impotenza. Su tutti si è allungata – non ancor oggi dissipata – l’ombra del nichilismo. 143 La morte di Dio profetizzata dall’uomo folle della Gaia Scienza di Nietzsche, con Auschwitz è sembrata fare irruzione nella storia, prender corpo in un evento preciso, imprimersi nella memoria collettiva di un’intera generazione a livello planetario. Nulla è stato più come prima. Perché, comunque la si pensi, tutto quel che avviene nella sfera dell’umano si riflette in quella del divino. E viceversa. Nel secondo dopoguerra, dunque, la filosofia non ha potuto fare a meno di interrogarsi sulla questione del rapporto uomodivinità dopo l’Olocausto. Fondamentale è stato il contributo di alcuni pensatori di origine ebraica. Passeremo in rassegna, in breve, le posizioni di Lévinas, Rubenstein e Jonas. Se pure Dio esiste, è stato detto, ad Auschwitz Egli ha taciuto. Dallo stupore dinanzi al “silenzio di Dio” è germogliata, tra le altre, la riflessione di Emmanuel Lévinas (1906-1995). A mettere in moto il pensiero, nota il filosofo francese di origini lituane, è sempre un evento traumatico, che genera incertezza, profondo scoramento, incapacità, nell’immediato, di verbalizzare. Il silenzio di Dio lascia storditi. Ma nello stesso tempo ci parla di una Trascendenza, di una forma di “Alterità” assoluta, che pure ci viene incontro, disvelandosi nelle relazioni umane, nel modo in cui accogliamo il “diverso”. Nel volto dell’Altro uomo Dio si esprime. È lì, nel campo dell’etica, dell’autobiografico che si gioca la partita decisiva: accettare l’assoluta diversità del prossimo, senza cercare di ridurlo a sé, di trasformare l’alterità in identità, significa prestare orecchio alla parola di Dio, permettere che Egli ci parli. Dipende da noi. Nostra è la responsabilità, di uomini dinanzi ad altri uomini. Preso nelle maglie dell’accadimento storico «nessuno, in questo momento può dire: ho fatto tutto il mio dovere». Si tratta di un’apertura etica volta all’infinito, un compito progressivo di testimonianza di responsabilità reciproca cui nessuno può sottrarsi, pena il disumanizzarsi. Di conseguenza, il silenzio di Dio rappresenta, per un verso, la nostra incapacità di ascoltare, per l’altro, accenna alla Sua irraggiungi144 bilità e irriducibilità alle categorie umane. Lo statunitense Richard Rubenstein (1924), in un saggio pubblicato nel 1966 intitolato Dopo Auschwitz, è stato decisamente più radicale: se si vuole essere intellettualmente onesti occorre ammettere che parlare del Dio di Israele dopo l’Olocausto non ha più alcun senso. Del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, si è persa ogni traccia nella storia. La Sua tomba è ad Auschwitz: lì è seppellito il ricordo della Sua onnipotenza e dell’Alleanza stretta con il popolo eletto. Con Dio è morta la speranza che la vita umana abbia un significato e un destino ultimo. Impossibile illudersi ancora o trovare consolazione nella preghiera. A chi crede che l’ateismo sia una strada impercorribile, non resta per il futuro che immaginare una qualche forma di neopaganesimo. Più articolata la posizione formulata dal tedesco, naturalizzato statunitense, Hans Jonas (1903-1993) ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1984). Dopo Auschwitz, che per il popolo d’Israele (e l’umanità tutta) ha simboleggiato l’irrompere sul palcoscenico della storia mondiale del Male assoluto, un Dio che sia al tempo stesso sommamente buono, comprensibile per l’uomo ed onnipotente non è più dato concepirlo. Se non si vuole fare a meno di Dio, s’impone, quanto meno, la formulazione di una diversa teodicea, che risponda in maniera inedita alla domanda intorno all’origine del male (unde malum?). Disgiungere il Bene dall’idea di Dio ci risulta assurdo. Il Male è del tutto estraneo alla divinità: la Shoah, in ebraico “tempesta devastante”, “distruzione”, non può essere opera di Dio. A meno che, dati i limiti della capacità di comprensione umana, non ci sfugga il Suo disegno provvidenziale. Forse che dietro il Male assoluto possa celarsi il Bene? No. Anche questa via sembra sbarrata. Infatti, se è vero che l’essenza ultima di Dio è destinata a restarci fatalmente ignota, Egli si è rivelato al Suo popolo attraverso i Profeti e la Scrittura, stringendo con l’umanità un Patto si è reso ad essa sufficientemente comprensibile. 145 Il concetto di un Dio totalmente alieno rispetto all’uomo, di cui non si possa comprendere la Parola, cantare le lodi o invocare la compassione, è per noi – ebrei e cristiani (anche se Jonas si riferisce ai primi) – inammissibile. Non rimane che l’ultimo degli attributi divini, l’onnipotenza: «Di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, [...] intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. [...] Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo». «Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo. [...] La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina». Questa, dunque, la conclusione di Jonas: ad Auschwitz il Dio di Abramo non ha proferito parola né alzato un dito per salvare la Sua gente perché impossibilitato a farlo. Rispetto al mondo degli uomini Dio si rivela impotente. Sua è stata la scelta ab origine: all’atto della creazione Egli ha deliberato di rinunziare a qualsivoglia potere sul creato, si è, in un certo senso, de-assolutizzato e de-potenziato affinché l’uomo potesse assumersi appieno la responsabilità personale e collettiva della propria autodeterminazione. 146 La concezione di Jonas ha senza dubbio contribuito ad aprire nuovi scenari alla riflessione teologica contemporanea, sia in ambito ebraico che cristiano. L’idea di un Dio che abdica volontariamente alla Sua onnipotenza suggerisce quella di un amore sconfinato per l’umanità, di una infinita “apertura di credito” per delle creature che Egli ha voluto a propria immagine e somiglianza e dunque essenzialmente libere. Perché non vi è vero amore, né vero bene senza libertà. È un divino apparentemente “debole” quello che ci lascia in eredità l’indicibile barbarie della Shoah. Ma è grazie a questa sua intrinseca debolezza che agli uomini di buona volontà s’impone oggi chiara e coerente la distinzione, a nostro avviso decisiva, tra brama di potere e spiritualità, sete di dominio ed amore, paternalismo e cura genitoriale. Se Auschwitz è l’estremo prodotto di una volontà di potenza cieca ed insensata, di una libertà fraintesa e mal utilizzata, il vicolo cieco in cui si è cacciata un’umanità che ha creduto di poter fare a meno di Dio, avocando a sé quella che riteneva essere la Sua principale peculiarità, ossia la potenza su tutto e tutti; ebbene, attribuire alla divinità, al principio dei tempi onnipotente, la libera preferenza per l’impotenza estrema, significa prendere le distanze in maniera radicale e definitiva da una concezione del divino basata sulla forza, sulla violenza, sulla prevaricazione, sul terrore. Ecco, quel Dio lì non c’è più. L’orizzonte è finalmente libero. Da questa vicenda si ricava un grande insegnamento: il potere infine nulla può contro la paura. C’eravamo illusi – e c’illudiamo ancora – che acquistando sempre più potere, politico, economico, tecnologico, saremmo stati in grado di curare l’angoscia che ci prende dinanzi allo sconosciuto, alla virulenta labilità del tutto. Avevamo inventato un Dio forte, giudicante, paternalistico, che sopperisse alla nostra comprovata incapacità. Quando, grazie alla scienza moderna, ci siamo sentiti più sicuri, abbiamo provato a sostituirlo con la tecnica. Pensava147 mo di poter controllare tutto. Il sogno di un’umanità trionfante, “superomistica”, si è trasformato nell’incubo del campo di sterminio, vera e propria industria di disumanizzazione in cui tanto la vittima innocente quanto lo spietato carnefice hanno perduto ogni attributo di umanità (l’una ne è stata barbaramente deprivata, l’altro, col suo agire, ha perso il diritto a dirsi umano). Paura e potere sono facce della stessa medaglia. L’uno non è antidoto all’altra: al contrario si alimentano vicendevolmente. Trasposto dall’ebraismo al cristianesimo il divino debole di Jonas ci fa intravedere un Dio-Uomo scalzo, reietto, impotente, ultimo tra gli ultimi, una specie di Cristo redivivo, spogliato di ogni simbolo forte, antidogmatico, innamorato del volto dell’uomo al di là di ogni confine ideale e politico, un Cristo ecumenico. Solo l’amore libera. Verso un nuovo concetto di spiritualità ecumenica Come è emerso da questa sintetica – e niente affatto esauriente – carrellata dedicata alla filosofia contemporanea, la morte di Dio, provocata dalla svolta soggettocentrica della modernità, segna la fine di un percorso metafisico che, sin dalle origini, ha legato il divino e l’Essere ad un’idea di Verità “epistemica” (scientifica), incrollabile ed immutabile. Dio ha rappresentato per secoli l’icona stessa della permanenza, della sostanzialità dell’Essere, suprema garanzia contro l’angosciosa liquidità del Divenire, bastione di Verità contrapposto alle tenebrose regioni dell’ignoto, del Non-essere. Questo concetto del divino ha simboleggiato, per così dire, la proiezione dell’esigenza, tutta umana, di “capire”, “afferrare” la realtà, per possederla, tenerla sotto controllo, prevenendone l’imprevedibilità. Una reazione antropologicamente comprensibile all’ambiente, basata su di un uso aggressivo della forza intellettuale (come metafora 148 della forza fisica) in risposta al “sacro” terrore dello sconosciuto. Riplasmare l’ambiente circostante a propria immagine e somiglianza in senso simbolico (oltre che tecnico): questa la sfida che si è posta la civiltà occidentale. E sin dall’antichità ha cominciato a farlo, prima attraverso la produzione di miti poi con l’invenzione della metafisica razionale, nella quale, col tracciare il confine sacro e profano, ha riposto la speranza di dare risposte significative e consolatorie alle sue domande più radicali: “chi sono?”, “da dove vengo?”, “perché mi trovo qui?”, “perché soffro?”, “che ne sarà di me?”. Alla visione metafisica imperniata su un’idea dell’Essere (e del divino) stabile, piena, a tutto tondo, si è accompagnata anche una ben determinata concezione dei rapporti tra esseri umani, nonché tra uomo e mondo, ossia di quella che chiamiamo “politica” e “organizzazione sociale”. Ad una metafisica (e religione) che si pretende “forte” – perché della forza in senso intellettivo e psicagogico fa uso – è corrisposta una visione politica altrettanto “forte”, edificata sul binomio “potere-paura” e sul cosiddetto “principio di autorità”. Con la modernità questa concezione entra in crisi sia dal punto di vista storico-politico che filosofico. Impossibile distinguere le due prospettive. Così, eventi epocali come la rivoluzione scientifica – “rivoluzione” è, in origine, il termine che utilizza Niccolò Copernico per indicare il movimento che la Terra compie intorno al Sole – e la rivoluzione francese costituiscono altrettante tappe della progressiva disgregazione della roccia metafisica su cui si era innalzato per secoli l’edificio della civiltà e del potere politico europeo. Non a caso nell’Ancien Régime “trono” e “altare” formano un binomio indissolubile: la sovranità, ossia la legittimazione all’esercizio del potere, è di diritto divino. Il sovrano regna “per grazia di Dio”. All’interno di siffatta visione del mondo, ideologicamente ed istituzionalmente incarnata dalla chiesa cattolica (e, dopo la riforma protestante, in certa misura, dalle nuove chiese ri149 formate), religione e spiritualità, “ortodossia” e “ortoprassi”, sono state a lungo tenute confuse insieme. Dalla chiesa son germinati, indifferentemente, sia santi che inquisitori, tanto uomini di pace quanto banditori di crociate. Ancor oggi, a ben guardare, ad alcuni preti cristianamente autentici, ammazzati delle mafie o dal tiranno di turno, fanno da contrappunto paradigmatico i tanti ecclesiastici collusi col potere. La riflessione filosofica contemporanea con il suo mettersi in costante rapporto critico nei riguardi della tradizione, producendo un progressivo disvelamento delle contraddizioni presenti nel sistema della metafisica classica (sia in senso religioso che politico), ha avuto il merito di “liberare” l’Essere dal dominio della Verità epistemica, dalla tirannia del “concetto-dogma”. Processo che storicamente è corrisposto, come abbiamo visto, ad un rivolgimento epocale della civiltà occidentale che ha generato indicibili tragedie: all’annichilimento di Dio ha fatto da corollario quello dell’umanità nei tanti lager di cui è costellata la storia del XX secolo e di questo scorcio di XXI. Con ciò si è aperto un nuovo cammino, che intuiamo ricco di prospettive seppur in gran parte ancora da esplorare. Esso dipende dalla nostra capacità di immaginare l’Essere come possibilità, apertura, disponibilità, e, di conseguenza, un Dio la cui amorevolezza verso il mondo si manifesterebbe nella sua assenza, nel lasciar essere, nel dileguarsi a favore dei fenomenico. Un “luogo divino” meravigliosamente “vuoto”, che richiama da vicino l’idea di “vacuità” (śūnyatā), declinata in base ai principi essenziali della metafisica buddhista di nonsostanzialità (anattā), impermanenza (anicca) e interdipendenza condizionata tra i molteplici aspetti della realtà (paṭicca samuppāda). Il richiamo al buddhismo non è casuale. Si tratta di una forma di spiritualità che in passato alcuni studiosi hanno sbrigativamente giudicato atea, in quanto ispirata ad una visione del mondo non conforme all’idea “forte” di Dio tipica della metafisica 150 greco-cristiana. In realtà, tanto più “debole” ed insostanziale viene considerato il divino, tanto più ampio e permeabile risulta essere lo spazio di sacralità che da esso promana. In ultimo è la stessa natura delle cose ad essere sacralizzata, a divenire un tutt’uno con il divino. L’atteggiamento etico-esistenziale del praticante buddhista è tendenzialmente opposto a quello sotteso alla metafisica occidentale tradizionale: tanto l’uno si sforza di afferrare il concetto, di dominare l’aleatorietà della natura, di controllare il divenire, tanto l’altro invece si esprime nell’accettazione dell’impermanenza di tutte le cose, nel liberarsi dalla morsa dei giudizi intellettuali, nel “lasciar andare”. Questa è la via che conduce all’estinzione della sofferenza, capace di placare paura e rabbia, di vincere insicurezza ed aggressività. In questa scoperta consiste il cuore del messaggio di Siddhartha Gautama, il Buddha storico, come ci racconta con parole semplici ed alate il monaco Zen vietnamita Thich Nhat Hanh (1926) in questo passo tratto dal suo Vita di Siddhartha il Buddha (1992): «Illuminando i fiumi del corpo, delle sensazioni, delle percezioni, delle formazioni mentali e delle coscienza, Siddhartha comprese che l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioni indispensabili alla vita. Senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi. Se un chicco di riso non avesse la natura dell’impermanenza e del non sé, non potrebbe trasformarsi una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sé e impermalenti, non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e priva di un sé, un bambino non potrebbe diventare adulto. «Quindi» pensò, «accettare la vita significa accettare l’impermanenza e l’assenza di un sé. La causa della sofferenza è la falsa nozione della permanenza e di un sé separato. Vedendo ciò, si giunge alla comprensione che non c’è né nascita né morte, né creazione né distruzione, né uno né molti, né dentro né fuori, né 151 grande né piccolo, né puro né impuro. Sono tutte false distinzioni create dall’intelletto. Penetrando nella natura vuota delle cose, le barriere mentali vengono scavalcate e ci si libera dal ciclo della sofferenza». I nuovi orientamenti metafisici germinati in Europa dopo la morte di Dio – pensiamo soprattutto all’ontologia heideggeriana –, da una parte, hanno il merito di liberare le energie spirituali che il defunto Dio teneva, per così dire, compresse e impuramente mescolate ad una concezione forte ed autoritaria del mondo. Dall’altra, consentono ad un uomo occidentale sempre più globalizzato di guardare verso il sol levante, di confrontarsi con modelli metafisici e stili di vita più vicini alla nuova idea di Essere. In questo senso, dall’Oriente e dal buddhismo in particolare abbiamo molto da imparare. In primo luogo, perché il buddhismo ha dalla sua parte una ininterrotta tradizione plurimillenaria di pratiche spirituali e stili di vita conformi a questa nuova – per la cultura “ufficiale” dell’Occidente, ma non per quelle indiana e cinese – concezione dell’Essere. Il mondo non è più lo stesso neanche al di là del fiume Indo. Ne siamo consapevoli. Il modello di globalizzazione che soffia da Occidente e parla la lingua dei prodotti ultimi e nichilisti della sua antica metafisica “forte”, il tecnicismo e lo scientismo, il liberismo selvaggio, il feticismo della merce e la mercificazione dell’umano, ha già mutato, più o meno profondamente, equilibri sociali ed economici delicati e preziosi, inquinando insieme all’ambiente – Fukushima docet – rituali e dinamiche culturali ancestrali. Ma facendo tesoro, ecumenicamente, delle consuetudini spirituali ed etiche basate sul concetto buddhista di vacuità o su quello taoista di wu wei, “non-azione” o “azione senza sforzo”, “agire in armonia con il Tutto”, possiamo immaginare di dare vita ad un’inedita visione umanistica del mondo, una sorta di “contro-globalizzazione”, o meglio, “co-globalizzazione”, in cui l’umano e la natura ri152 guadagnino nella pratica quell’idea di sacralità che gli antichi attribuivano loro. Gli “antichi”, beninteso, sono anche i “nostri” antichi. Perché, questo è il secondo punto, l’esperienza c’insegna che con l’accostarsi a forme di spiritualità apparentemente aliene alla comune mentalità occidentale molti praticanti hanno avuto modo di riscoprire e di irrorare con nuova linfa vitale molti aspetti della propria tradizione religiosa e filosofica. È un po’ come guardarsi allo specchio: praticando la meditazione buddhista si finiscono col ritrovare le proprie radici cristiane, rinverdendole. Un “ritrovare” che non implica un tornare indietro, bensì un andare avanti: ci si scopre più disponibili all’ascolto, vuoti di pregiudizi, attenti alla realtà umana dell’ortopratica piuttosto che alle sottigliezze dell’ortodossia. In una parola, più disponibili ad accogliere l’Altro in nome di un divino senza nome, che ha il volto di tutti e non si lascia “afferrare” da nessuno. La sfida che abbiamo dinanzi – per la prima volta nella storia mondiale quel “noi” è da intendersi come l’umanità intera – non è di votarci ad un Dio comune, di imporci l’un l’altro una qualche “Verità”, quanto piuttosto di riuscire a contemplare con occhi puri e mente limpida l’infinita bellezza che ci pervade da dentro a fuori, ad accettarci per quel che autenticamente siamo, a considerare nostro inderogabile e sacro dovere il provare a vivere una vita relazionale dignitosa, intelligente, grata. Per tutto questo era necessario che Dio morisse. Perché «se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto» (Giovanni 12,24). 153 TAVOLA ROTONDA CONCLUSIVA 177 RICCARDO APOLLONI LEONESSA 2013 SINTESI DEGLI INTERVENTI PREMESSA Nelle pagine che seguono presenterò una sintesi degli interventi fatti dai professori Elio Rindone, Mario Trombino e Francesco Dipalo in occasione della sedicesima “Settimana filosofica per…non filosofi” svoltasi a Leonessa (Rieti), dal 24 al 30 agosto. Il tema dei seminari – che prevedevano, due volte al giorno, una lezione tenuta dal docente seguita da un dibattito aperto – è stato “Il divino al vaglio della filosofia”. In particolare, il prof. Rindone ha illustrato le concezioni fondamentali del divino e degli dèi nella cultura (sia mitologica che filosofica) greca, nella sapienza ebraico-cristiana e nella filosofia medievale; il prof. Trombino ha presentato – spesso attualizzandoli – alcuni esempi emblematici di ricerca razionale (filosofica e scientifica) volta al problema di Dio nell’Età moderna; il prof. Dipalo, infine, ha trattato la contemporaneità concentrandosi in particolare sulla “morte di Dio” e, inoltre, su alcune riflessioni che hanno condotto a un nuovo concetto di spiritualità ecumenica. 155 Gli interventi, culminati con una passeggiata serale organizzata da Trombino per contemplare il cielo stellato, hanno sempre catturato l’interesse dell’uditorio, dando luogo a vivi dibattiti. La sintesi seguente tratta però solo degli interventi dei relatori, riportando anche, inevitabilmente, quella lieve discontinuità presente nel passaggio da un approccio all’altro la quale, forse, ha contribuito a formare un’atmosfera coerente ma allo stesso tempo diversificata, rituale e allo stesso tempo democratica. 1. L’ETÀ ANTICA E IL MEDIOEVO Il mondo greco Nella sapienza mitologica – ha spiegato Rindone – il mondo è percepito come un Tutto in divenire che racchiude in sé una particolare energia vitale. Questa energia, insieme alle sue espressioni dinamiche nei vari livelli – in primis gli dèi (che si manifestano antropomorficamente), ma anche le cose tangibili – è il divino. Il divino è, in altre parole, il mondo nel suo contenuto essenziale, i cui elementi si esperiscono come accadimenti della natura, la perpetua attività generatrice (physis). Benché queste siano intuizioni profonde, esse non rappresentano ancora quella ricerca razionale delle cause ultime che è tipica della filosofia greca; soltanto agli albori di questa, infatti, nella natura – che da sola basta a offrire una valida comprensione della realtà – si ricerca un principio generatore permanente (arche): l’acqua, l’illimitato, l’aria, il fuoco... Un passo decisivo viene fatto col pensiero di Parmenide, poiché si ha un passaggio dal concetto di una natura (o physis) in senso letterale (una realtà che si rinnova continuamente in un processo di generazione-corruzione) al concetto di una realtà immobile: l’essere è, esso è qualcosa di immutabile che rimane tale, come argomenta l’eleate mostrando l’illogicità dei vari passaggi dall’essere al non-essere e quindi, in definitiva, del divenire. 156 Molti caratteri fondamentali dell’essere parmenideo – eternità, immutabilità, perfezione – vengono trasferiti, dalla filosofia di Platone, alle sostanze o essenze (o, ancora, idee), ossia quelle realtà universali e intellegibili che sono l’essenza delle cose di questo mondo, cioè i paradigmi del mondo sensibile (mutevole, materiale, imperfetto). Nella realtà – che è stata plasmata da un demiurgo – c’è dunque un dualismo che condanna la materia e postula, peraltro, un aldilà (riprendendo elementi della sapienza mitologica orfica). Con Platone, in sostanza, la natura non è più autosufficiente e divina: la realtà divina è infatti il principio eterno e immutabile presente nella realtà sovrasensibile (iperuranio). Nella filosofia di Aristotele – che supera la contraddittorietà del divenire denunciata da Parmenide – tale concezione è ripresa solo in parte: il Dio è il motore immobile che è causa indivenibile (“atto puro”) del divenire che vediamo intorno a noi; tuttavia, vi sono altri motori incorporei e, in generale, divino è tutto ciò che è eterno. Il monoteismo rimane – come si vede – estraneo al mondo greco, sebbene col pensiero di Plotino venga descritta una Sorgente di tutto l’essere che trabocca, détta Uno: da questa Fonte deriva la molteplicità di ciò che ci circonda. Siamo qui di fronte, evidentemente, a un ulteriore distacco dalla physis così come era stata descritta dalla mitologia e dai filosofi naturalisti. Infine, tra le svariate correnti dell’antichità passate un po’ nell’ombra nel corso della storia – ma non per questo meno rilevanti dal punto di vista filosofico – possiamo ricordare, ad esempio, l’atomismo (Leucippo, Democrito, Epicuro): secondo tale concezione naturalistica e materialistica, la realtà è fatta di atomi e vuoto che rispondono a leggi meccaniche necessarie. Lo spazio per gli dèi, in questo contesto, è assai limitato; secondo Epicuro, per esempio, essi, incuranti del nostro mondo, vivrebbero negli spazi tra un mondo e l’altro. Interessante la posizione di Socrate che, abbandonata la via della ricerca cosmologica, perviene al divino grazie all’esperienza morale. 157 La sapienza ebraico-cristiana Dopo aver trattato il mondo greco, Rindone è passato alla descrizione del Dio ebraico – indiscusso protagonista della Bibbia (affrontata semplicemente in quanto testo letterario) – il quale, seguendo l’ordine del canone ebraico, dapprima interviene con gesti clamorosi nel mondo: Egli plasma (barah) il mondo e si rapporta all’uomo con atteggiamenti talvolta vendicativi; si pensi, a tal proposito, all’“indurimento” del cuore del faraone (Esodo 11, 10) perché non lasci partire gli Ebrei o, ancora, all’invito rivolto a Saul di sterminare gli Amaleciti (1 Samuele 15, 3). Non mancano, inoltre, atteggiamenti collerici (è celebre il racconto del diluvio universale). Il “primo” Jahvè appare sempre più come il Dio guerriero di Israele; Egli diviene poi anche legislatore, e dall’obbedienza alla sua legge dipenderà ogni benedizione. Il Dio ebraico assume nuove caratteristiche con i libri profetici: in particolare, ai tratti di violenza si affiancano tratti pacifisti. La violenza, tuttavia, non scompare, tanto che poi – per fare un esempio – nella vicenda di Giobbe vediamo Jahvè che, quasi per diletto, fa soffrire una persona retta. Ci si può chiedere criticamente, di fronte ad atteggiamenti come questi, se un tale Dio sia effettivamente buono e giusto, o se non sia il caso, piuttosto, di non fidarsi di lui. In effetti, la sfiducia comincia a serpeggiare nella Scrittura, tanto che, come è attestato dal tenore pessimistico e disilluso dei dodici capitoli del Qoèlet, ci si orienta verso un’accettazione della vita così com’è, con i suoi beni e con i suoi mali. Infine, in Daniele, il Signore appare un’ultima volta come un vegliardo stanco, ormai lontano dall’idea di intervenire direttamente nella storia umana. Nei Vangeli, infine, Dio apparirà direttamente solo per dire di esser compiaciuto del figlio e per esortare gli uomini ad ascoltarlo; il Dio nei Vangeli si mostra sempre più come agápe: amore gratuito, disinteressato. Una nota conclusiva: nella tradizione ebraica, a differenza che 158 in quella greca, l’accento non è posto sulla natura ma sulla storia: il dio agisce, fondamentalmente, nella storia (ora più marcatamente in quella del popolo ebraico, ora più “cattolicamente” in quella di tutti gli uomini). La riflessione medievale Giustificare razionalmente l’esistenza dell’essere personale di cui abbiamo appena parlato è stata l’impresa improba dei filosofi cristiani. Di Tommaso d’Aquino, massimo rappresentante della teologia medievale, Rindone ha ricordato la visione della realtà (e la connessa ripresa e correzione dell’aristotelismo) e ha illustrato la terza delle cinque vie, secondo cui Dio è un essere necessario che esiste di per sé e che dà l’esistenza agli enti possibili e contingenti. Sulla validità della terza via sono stati sollevati dei dubbi: in particolare, se la contingenza dei singoli enti è parsa confermata dall’esperienza, non si è trovata una sufficiente giustificazione della contingenza della natura nel suo insieme. In effetti, Rindone ha avanzato l’ipotesi secondo cui l’idea di Tommaso non derivi dall’esperienza (che di fatto non mostra passaggi dall’essere al non-essere) ma piuttosto dalla volontà di giustificare l’“Io sono colui che è” dell’Esodo (3, 14), inteso come affermazione di un Essere necessario opposto agli esseri contingenti. Ma tale passo, secondo una moderna linea esegetica, significherebbe piuttosto “io sono con voi” o “io agirò” (nel senso di essere coinvolto nell’avventura dell’uomo). Possiamo affermare in conclusione – come ha fatto il relatore – che, rispetto ai Greci, siamo di fronte a una desacralizzazione del mondo, separato dal Creatore da un abisso. Questo è, in fondo, il nostro mondo secolarizzato: quello che il Medioevo ha consegnato alla modernità. 159 2. LA MODERNITÀ Un principio fondamentale del pensiero moderno (ma, in qualche modo, da sempre impiegato) è – ha spiegato Trombino – quello secondo cui la natura si comanda obbedendole. Tuttavia, per rispettare le leggi naturali (ossia per obbedirvi) occorre conoscerle e bisogna, quindi, penetrare il senso della natura. Un tale compito, secondo Trombino, non è strettamente filosofico, bensì anche scientifico e, poiché la realtà è una sola, non v’è nulla di male nell’accettare che le scienze siano in grado di descriverla a fondo e in modo chiaro (sebbene esse non rappresentino l’unica via di conoscenza). Così, Dio o il fondamento della natura, si trovano in stretta relazione alla ricerca scientifica. Per fare un esempio, nella concezione di Newton ci deve essere un Dio: Egli deve sorreggere lo spazio, ossia il contenitore del mondo, e il tempo, il “metronomo universale”. Uno dei problemi principali della modernità è quello di individuare il fondamento della natura e comprendere se esso possa essere conoscibile oppure no. La risposta di Cartesio a quest’ultimo problema è affermativa. Senza fare affidamento sull’esperienza – in un’indagine aprioristica (deduttiva) tipica del matematico – Cartesio si rende conto della possibilità di poter elaborare diversi mondi; ma, proprio per questo, si rende anche conto della necessità di un Dio benevolo che confermi e garantisca il metodo e quindi la nostra conoscenza effettiva del mondo fisico. In altri termini, il compito di Dio è quello di porre i fondamenti della realtà o, per meglio dire, delle due realtà (res cogitans e res extensa). Differentemente da Cartesio, Pascal offre invece alla suddetta domanda – è conoscibile il fondamento della natura? – una risposta negativa: la strada d’indagine sperimentale conduce Pascal ad affermare, in modo scettico, che il fondamento è inconoscibile e che, sullo stesso Dio, dobbiamo scommettere. Non è difficile, nel pensiero moderno – ha continuato Trom160 bino – rintracciare il concetto secondo cui siamo noi uomini, facenti parte della natura intesa come un tutto, a porre il senso nelle cose. Così, secondo Spinoza, nella natura esiste semplicemente un ordine necessario percepibile guardando la natura o Dio – che è lo stesso – sub specie aeternitatis. Dunque, non c’è in natura un ordine morale gerarchico che definisca il bene e il male in senso assoluto: siamo noi che facciamo queste attribuzioni verso le cose del mondo in base alla loro utilità. Le conclusioni di Leibniz a tal proposito sembrerebbero dover essere le stesse, poiché egli descrive un Dio che ha scelto per noi questa realtà, che è il miglior mondo possibile. In realtà, però, la scelta sembrerebbe necessaria, perché la natura di Dio è ultra-buona e quindi non avrebbe potuto fare altrimenti: dunque questo discorso sulla possibilità non sembrerebbe essere in effetti diverso dalla identificazione tra libertà e necessità in Spinoza. 3. IL PENSIERO CONTEMPORANEO Con l’intervento di Dipalo l’uditorio è stato messo di fronte al fatto che il concetto di Feuerbach secondo cui la religione altro non è che la coscienza umana (e di conseguenza l’essenza divina è, in fondo, l’essenza umana oggettivata) ha avuto una forte eco nella contemporaneità. Tant’è che con Marx – qualche anno più in là – il fondamento della critica religiosa sarebbe stata la denuncia che l’uomo fa la religione e quindi Dio, non viceversa. La religione secondo il filosofo tedesco è, in quanto proiezione fantastica, una droga – un oppio – a cui l’uomo ricorre perché la realtà socio-politica è opprimente. Il messaggio tipico della contemporaneità, strettamente connesso al suddetto capovolgimento, è – secondo Dipalo – quello della “morte di Dio”, evidente nelle suggestive parole de La gaia scienza (aforisma 125) di Nietzsche. Noi uomini abbiamo 161 ucciso Dio (per Dipalo si tratta sia di quello dei teologi che di quello della gente comune); la nostra condizione attuale è rappresentata – e ben descritta da Nietzsche – come un eterno precipitare da tutti i lati (“...all’indietro, di fianco, in avanti ...”). Non sono certo argomenti razionali contro il teismo quelli appena descritti – ha ammesso il relatore – ma non per questo tali pensieri sono meno filosofici. La stessa cosa si può dire per l’altro distruttore della ratio filosofica, per l’altro “maestro del sospetto”: Freud. Se avesse ragione questi, secondo cui Dio altro non è se non il surrogato della figura paterna, potremmo dire di aver smarrito nostro padre. Quanto detto non esaurisce tuttavia le tendenze del pensiero contemporaneo in cui è presente anche – come ha mostrato Dipalo – un atteggiamento mistico o un desiderio di interrogarsi sul tutto. Di ciò hanno dato la prova, tra gli altri, due filosofi molto diversi. Da una parte Wittgenstein, il quale, con la sua emblematica prudenza, fa trapelare l’importanza della dimensione mistica: Dio non si rivela nel mondo e, comunque, non ci è dato parlarne. Dall’altra parte abbiamo Heidegger che, all’interno delle sue tipiche denunce verso la tecnica (che ci sradica e ci strappa dalla terra), propone la critica della ragione calcolante e l’apertura al mistero dell’esistenza. L’appello di Heidegger è, anzi, rivolto a un dio; il che echeggia una soluzione mistico-religiosa al problema dell’uomo, gettato nel mondo e usato dalla sua stessa tecnica. Il passaggio da Heidegger al buddhismo sembra spontaneo per Dipalo, che connette, in particolare, la critica heideggeriana della “cosità” all’anatta (assenza di atman, ossia di sostanza individuale permanente) buddhista. Secondo Thich Nhat Hanh – monaco buddhista vivente – occorre penetrare nel cuore della realtà e farne così esperienza diretta. Scopriremmo, allora – spiega il monaco in Vita di Siddharta il Buddha – che in una foglia, ad esempio, c’è l’intero universo; sentiremmo, inoltre, l’impermanenza delle cose e, allo stesso tempo, la loro inter162 dipendenza. Tutto è dentro di noi e noi siamo dentro tutto. Nascita e morte non sono che apparenza, come lo sono le onde che nascono e muoiono solo apparentemente poiché in realtà esse sono parti indissolubili dell’oceano eterno. Per dirla con Heidegger, l’essere è un non-ente – conclude Dipalo – spiegando che il buddhismo è terapia filosofica senza quel vecchio Dio: il divino, infatti, è la realtà stessa (come pure, potremmo aggiungere, nella mitologia e agli albori della filosofia). 4. SINTESI DELLA SINTESI: A MO’ DI CONCLUSIONE Può essere interessante notare, ricorda Dipalo, che l’illuminazione del Buddha raccontata da Thich Nhat Hanh non si limita a essere un’esperienza di massima gioia, liberazione e appagamento individuale. Gautama realizza infatti – scrive il monaco – che la comprensione (che dissolve l’odio capendo le vere cause dell’agire umano) e l’amore sono un tutt’uno. In particolare, l’autore scrive che “la comprensione origina compassione e amore, i quali a loro volta determinano la giusta azione”. Quanto appena detto sembra confermare la tesi che Rindone aveva avanzato nella conclusione dei suoi interventi, e cioè che le principali religioni si concentrano sull’azione umana nel senso più alto del termine (si pensi, ad esempio, alla “regola aurea”). Forse la fede autentica – aveva suggerito Rindone – è quella esemplificata dalla vita dei credenti, in difesa della giustizia, della comprensione reciproca, di quel divino che, in fondo, è l’amore agapico. E già Socrate, messe da parte le speculazioni cosmologiche sulla totalità della natura, era giunto al divino passando attraverso la morale (la ricerca personale e collettiva della virtù, cioè del vero bene, era la missione religiosa del filosofo). Alla valorizzazione dell’ortoprassi potrebbe indurre anche l’affermazione, più volte ribadita, di Tommaso: noi conosciamo Dio come inconosciuto. 163 Tutto ciò è parso piuttosto divergente rispetto alla visione offertaci da Trombino: infatti, secondo questi – che si è fatto in qualche modo portavoce della modernità – spetta alla filosofia, in dialogo con la scienza, scoprire concretamente se esiste Dio: sapere ciò è una necessità teoretica (sebbene possa anche avere, consequenzialmente, risvolti pratici)! Lungi dall’esser interessato, almeno in questo contesto, alla religione o al problema (ritenuto, in fondo, meramente sociologico) della “morte di Dio”, Trombino ha sostenuto che è opportuno compiere un’indagine per mezzo della più matura delle forme di conoscenza, ossia la scienza, a partire dall’assunto secondo cui il nulla non ha proprietà. Problemi astratti? Nient’affatto: il fondamento della natura possiede evidenti sviluppi di tipo pratico (etico, politico, economico), come mostra una lezione di Trombino che prende piede a partire dall’analisi della politica statunitense. Seguendo Spinoza nel negare qualsivoglia gerarchia nella natura e ventilando – con forte distacco dallo spirito heideggeriano – l’identificazione di scienza e filosofia, Trombino sembra criticare la sfiducia nella possibilità di scoprire i fondamenti del mondo. Ma ciò non conduce il relatore a cadere in una rigida epistemologia razionalista: l’ordine a cui le leggi dell’Universo partecipano si rivela a noi non soltanto attraverso la ragione, ma anche attraverso un sentimento di assoluto, nutrito dal silenzio (interiore ed esterno); quando la notte stellata, cioè, sussurra i suoi misteri, donando profonde intuizioni. Ne emerge una consapevolezza di quella sacra armonia universale analoga – si direbbe – a ciò che Einstein chiamò “il dio di Spinoza”. 164 INTERVENTO DI SALVATORE FRICANO Permettetemi di dividere il mio intervento in più parti. Difatti desidero fare osservazioni che vanno in due direzioni, non collegate fra di loro. E sono quelle che più hanno sollecitato e catalizzato i miei pensieri, sia durante che dopo i nostri incontri giornalieri. Ma prima di indicare queste mie considerazioni, una piccola premessa, per ringraziare. Avevo promesso a voi e a me stesso che avrei posto la massima attenzione a quanto avrebbero esposto i nostri relatori e più in generale alle sollecitazioni che arrivavano da tutti noi. L’argomento “Il divino al vaglio della filosofia” è nelle mie corde e non ho faticato a porre attenzione, per quel che può dipendere dalle mie forze, a tutto quanto veniva di volta in volta comunicato. Ho apprezzato i contenuti e lo stile, pur diverso, di Elio, Francesco e Mario. Quindi un affettuoso grazie soprattutto rivolgo a loro. La prima considerazione Non possiamo non tenere conto di 2500 anni di storia del pensiero, almeno per quanto riguarda il versante occidentale. Il lavorio incessante di grandi pensatori sul tema del Divino ha prodotto esiti non sempre conciliabili: Dio c’è, è una proiezione delle ambizioni umane, atto puro privo di materia, Dio è plurale, Dio catalizzatore delle sofferenze, e così via. Dato che lo spinoso argomento viene declinato nei suoi aspetti filosofici e non, ad esempio, negli aspetti teologici, ho tenuto a mente soprattutto le argomentazioni che man mano ci prospettavano i nostri amici relatori. Forse ha scombinato un poco le carte del sentiero logico l’aver esposto prima Francesco178, che ci ha parlato della contemporaneità, e poi Mario che ha invece approfondito il razionalismo 165 classico. I 2500 anni di pensiero li dobbiamo sentire comunque sulle nostre spalle. Sebbene la filosofia abbia cercato, e continui a cercare affannosamente, un proprio statuto il più possibile identitario, ritengo che lo strumento principe che la caratterizza rimanga la razionalità, l’argomentazione. Con tutto quello che si può intendere come ragione, logica, tesi ed esposizione argomentata. Ad esempio, l’aspetto profetico che hanno assunto spesso i filosofi è per me sbagliato. È un peccato veniale perdonabile solo nella misura in cui il filosofo si senta incompreso dai contemporanei, ma non può attecchire ab aeterno. Così hanno poco da dire, secondo me, l’ascolto delle emozioni e delle passioni dato che, strutturalmente, non argomentano. Così si sa, al cuore non si comanda, perché il cuore non ascolta… ‘ragioni’! Ritorniamo quindi alle argomentazioni. Qual è l’argomento più forte sul senso del divino, ora? “Dio è morto”, senz’altro. Ormai la metafisica occidentale ha fatto il suo corso, almeno quella metafisica che pensava di risolvere tutte le questioni a tavolino, deducendo da principi ‘primi’. Mi sembra quindi di fondamentale importanza tenere conto dell’esito più drammatico nel quale si è ritrovata la filosofia contemporanea, ovvero l’annuncio della morte di Dio, operato da Nietzsche (accidenti, proprio un filosofo che fa di tutto per apparire profetico – quindi inviso a chi, come me, non accetta profezie – ma cela un pensiero profondissimo, strutturato179, che tiene tutto il peso della storia del pensiero occidentale). Quindi, la morte di Dio è un evento filosofico, solo marginalmente può apparire come un momento sociologico o storico, quindi transeunte. È invece un passaggio fondamentale, una pietra miliare diremmo con Francesco Bacone, che mette in evidenza l’impotenza del pensiero dinnanzi al divino. Il nichilismo è l’esito filosoficamente più visibile nella società e nel pensiero di ciascuno di noi. 166 “Dio è morto” è dunque una affermazione squisitamente filosofica, come lo era “Pan è morto”, che riferisce Plutarco, relativamente alla consapevolezza dello spegnersi dello spirito greco arcaico e che non a caso non è più risorto. Ce lo ricorda lo stesso Nietzsche nella Nascita della Tragedia180. Che significa, per quello che ci riguarda, ciò? Significa questo: è estremamente aumentata la consapevolezza della complessità. Il pensiero forte, di stampo seicentesco, quello di Cartesio, Leibniz e soprattutto di Spinoza, come ci ha brillantemente proposto Mario non può più, ahimè, essere praticato. Rischieremmo l’ingenuità. È tanta la complessità che adesso la filosofia arranca rispetto ai risultati a cui perviene la scienza. Fino a quando si era nel sentiero della cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ galileiana i filosofi più avveduti riuscivano a capirci qualcosa. Locke poteva andare a trovare Newton per chiedere delucidazioni, ad esempio. Hegel, Schopenhauer e a quanto pare anche Nietzsche erano avidi di letture scientifiche. Ma è negli ultimi 150 anni che il sapere scientifico ha veramente visto tante epocali rivoluzioni. E i filosofi, così assimilabili idealmente – ha ragione Mario – ai fisici teorici, non hanno più arrancato, con il fiato corto, ma ho l’impressione che si siano fermati. Sono al palo, come si usa dire. Non dobbiamo nasconderci che la filosofia, rispetto al sapere che cerca ancora il vero, viva attualmente ai margini. Per un filosofo odierno è assai arduo seguire da presso le discussioni scientifiche, entrare nei dettagli, proporre seriamente qualcosa all’attenzione dei ‘pensatori scientifici’181. Ben venga, nonostante tale difficoltà, il confronto con gli esiti della scienza. Anzi è necessario leggere Godel, Heisenberg182, il carteggio Bohr-Einstein, le riflessioni sulla epistemologia. Ma lo stesso Mario ha dovuto affermare che affrontare il carteggio fra Pascal e Fermat sul calcolo della probabilità è illeggibile per un non specializzato in matematica… Quindi mettiamo in 167 dubbio che possa esistere adesso un pensiero filosofico forte. In futuro, anche se lo ritengo altamente improbabile, chissà! La seconda considerazione Ecco adesso proverò ad esporvi la seconda riflessione. Se volete, di carattere più tecnico, dato che tengo ferma la più convincente argomentazione, secondo me, su Dio proposta in questi giorni. È quella esposta da Mario che, ripercorrendo i grandi razionalisti del Seicento, riafferma Dio come Essere Necessario. Tutta la natura comprende se stessa. Tutto è nella natura. Tutto è (uguale) Natura. Non è possibile quindi pensare un Dio trascendente, perché già sarebbe altro rispetto alla Natura. Spinoza è stato il pensatore più conseguente rispetto a tale principio. Difatti ne fa conseguire che l’Essere Necessario è impersonale, non giudica, non distingue bello da brutto, buono da cattivo. La musica è bella per uno, brutta per un altro, indifferente per un sordo! Tutto è stretto da una tetragona necessità alla quale nessuno, cosa o essere vivente, si può sottrarre. La tesi stoica della Ragione del Mondo viene qui dispiegata alla massima potenza. Se l’Essere è necessario allora valgono solo le leggi della Natura. Il male può esistere solo nelle singole situazioni, ma sub specie aeternitatis non ha senso parlare del Male. Mentre Leibniz appronta una gerarchia a partire da Dio-Tutto, Spinoza spazza via qualsiasi rapporto gerarchico. Tutte le cose, i modi, stanno sullo stesso piano. Un filo d’erba vale quanto vale un individuo. E viceversa. Ebbene, non è bellissimo? Il divino è ovunque, in ogni aspetto della realtà. Abbiamo gustato tutti noi, qualche sera fa su proposta di Mario, gli stimoli che ci provenivano dall’osservazione dell’immensità del cielo notturno. Potremmo gustare Dio in tutte le condizioni e considerarci beati se riusciamo a coglierne i fili sottili che legano logicamente, necessariamente, tutte le cose. Va bene dunque un Essere Necessario. È convincente. Ma ciò che non convince, e pongo quindi alla vostra attenzio168 ne, è che avremmo così terminato la corsa! Anzi proprio questo ci spinge a rimboccarci le maniche, eccome! Come tenterò di argomentare adesso. Anche ammesso – e non abbiamo problemi ad affermarlo – che valga l’Essere Necessario di Spinoza, esistono ancora milioni di cose da fare e pensare. E a chi tocca? A noi, mortali che ci agitiamo nei pensieri, che poniamo incessantemente delle domande, anche forse presentendo che non troveremo risposta. In sostanza, c’è uno specifico dell’uomo. Non perché l’uomo sia superiore oppure ontologicamente distinto dagli altri esseri viventi o dalle altre cose. È proprio perché siamo quello che siamo (la nostra natura, potremmo dire) che ci tocca in sorte di avventurarci in problemi che non vengono posti dalla natura. La specificità degli umani deve comprendere almeno la politica, l’etica, l’estetica. Ammesso questo ne conseguono problemi affatto nuovi, che la natura non si è posta e non si porrà mai. Il terremoto di Lisbona del 1755 o il recente tsunami del 2004 per la natura sono fatti, ma fatti di nessuna importanza! La realizzazione della bomba atomica e il successivo utilizzo sono per gli umani invece della massima importanza! Il campo politico, etico ed estetico è quello dove l’uomo è chiamato a dover dire qualcosa. E proprio un dovere. Perché è necessario per gli umani, ma non esiste in natura. L’indifferenza del divino postula lo specifico antropologico Va costruito un mondo se non in opposizione alla natura – voglio sperare – almeno accanto. In ogni caso va distinto. E se tutto ciò dipende da quanto l’uomo direziona, sancisce, dispone, sarà l’uomo stesso a risponderne. Non può essere diversamente. Viene quindi qui affermata la responsabilità originaria, ineliminabile. Siamo quindi responsabili di fronte alle nostre scelte politiche, etiche ed anche estetiche. 169 Dobbiamo dedurne infine che, se siamo responsabili, siamo liberi. Spinoza ne sarebbe inorridito, come tutti i deterministi duri e puri. Ma, con buona pace del Dio di Spinoza (che è pure quello di Einstein), proprio quest’Essere Necessario ci ha dato un campo sconfinato di ricerca, dove tutto ciò che viene proposto è nuovo, tutto è lecito, tutto può essere sbagliato. Siamo condannati, sì, ad essere liberi (come affermava Sartre). 170 INTERVENTO DI MARIO MERCANTI Al termine di questa intensa ed appassionante settimana, ho maturato la convinzione che delle tre celeberrime domande nelle quali Kant riassume tutta la problematica filosofica: “che cosa possiamo conoscere? che cosa dobbiamo fare? che cosa possiamo sperare?” sia suscettibile di un tentativo di risposta fondato sul “vaglio della ragione” soltanto la seconda, concernente il problema etico. Le questioni teoretico-metafisiche concernenti l’inizio e la fine del Cosmo (in senso spaziale e temporale), l’esistenza di Dio, l’esistenza dell’Anima e la sua (eventuale) immortalità trascendono infatti – come lo stesso Kant insegna – l’ambito dell’intelletto umano, che per sua intrinseca e non superabile natura può solo ordinare attraverso le categorie i “dati” forniti dall’esperienza. A questa conclusione sono giunto anche con il conforto dell’insegnamento di Giambattista Vico, secondo cui può comprendere veramente un oggetto solo chi ne è l’artefice. Questi, infatti, ne conosce la causa efficiente (se stesso), la causa materiale (ciò di cui è fatto) la causa formale (la struttura che ne realizza l’idea), la causa finale (lo scopo che intende realizzare). Il mondo della storia è costruito dall’uomo e, quindi può, in linea di principio, essere da lui conosciuto. Il problema etico attiene, a sua volta, al dispiegarsi nella storia dei rapporti tra gli uomini che abitano il mondo e quindi può essere sottoposto ad un’indagine che abbia delle possibilità di riuscita. Preliminarmente, riguardo alla dibattuta questione dei fondamenti ultimi dell’etica – salve le personali convinzioni religiose di ciascuno – si dovrebbe comunque convenire, a mio parere, che: a) i tentativi di fondarla sulla Volontà rivelata di un Dio legislatore non soltanto ripropongono la domanda teoreticometafisica sulla sua esistenza, ma presuppongono anche la specifica concezione della Divinità propria delle tre religioni monoteiste abramitiche; 171 b) la fondazione religiosa dell’etica ha la conseguenza logica che “se Dio non esiste tutto è permesso” e quindi per l’ateo i rapporti umani rimarrebbero privi di qualsiasi criterio che non sia quello del capriccio, dell’arbitrio, della legge del più forte. Io sono invece convinto che sia possibile costruire su basi immanenti e razionali un’“etica minima”, da tutti condivisibile, consistente in un insieme di principi e regole intesi a rendere possibile l’ordinata convivenza umana. Sono inoltre convinto che il punto di partenza per tale “etica minima” sia quello che Spinoza chiama “conatus sese conservandi”, l’amore che ogni uomo, per natura, ha verso se stesso, il desiderio di conservare il proprio essere, che lo spinge a ricercare tutto quanto sia utile a tal fine. Ma per conservare il proprio essere l’uomo – che non ha zanne, non ha artigli, non ha una vista, un udito, un odorato particolarmente sviluppati, non è particolarmente veloce nella corsa – ha avuto a sua disposizione nella lotta per la sopravvivenza alcune peculiari caratteristiche fisiche, come la mano e la stazione eretta, che gli hanno consentito di potere materialmente fabbricare utensili e armi, e degli organi vocali in grado di emettere suoni articolati in linguaggio nonché, soprattutto, una caratteristica neuro-psichica, l’intelligenza, unita strettamente ad uno spiccato istinto di socialità. Un’unione talmente intensa da rendere l’uomo un essere essenzialmente socio-culturale, in grado di sopravvivere e realizzare la propria umanità esclusivamente all’interno del consorzio con i propri simili. Solo in tale ambito, infatti, è possibile la collaborazione nell’affrontare e trasformare l’ambiente naturale, la trasmissione delle esperienze e delle conoscenze accumulate dalle precedenti generazioni nonché, per l’aspetto che qui rileva, l’elaborazione delle norme morali che rendono possibile l’ordinata convivenza. È interessante, in proposito, notare che Nietzsche, volendo motivare il suo disprezzo per tali norme, sostiene, per l’ap172 punto, che esse sono dipendenti dall’istinto di conservazione e che, formatesi storicamente per l’utilità comune, sono poi state sublimate come principi metafisico-religiosi. Si può essere d’accordo con Nietzsche riguardo alla “sublimazione”. Il ragionamento secondo cui le norme morali per il fatto di essere meramente utili alla sopravvivenza del genere umano sarebbero prive di intrinseca validità appare invece spiegabile solo con l’indifferenza che egli ostenta per la sorte degli “uomini comuni”. Mi sembra infatti che una filosofia fondata sul buon senso dovrebbe ritenere, al contrario, che proprio in tale utilità (riconosciuta da Nietzsche) esse abbiano il loro più saldo fondamento razionale. Rimane, naturalmente, il problema di trovare un criterio oggettivo che consenta di determinare – nella varietà delle comunità umane e dei relativi sistemi economici, sociali, politici, ideologici, religiosi – le norme di comportamento necessarie all’ordinata convivenza, che è garanzia di sopravvivenza delle comunità stesse. A mio parere il genio di Kant ci ha fornito la risposta più adeguata a tale problema con la celebre formulazione dell’imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale”. Tale formula – se ho ben compreso – esprime, in estrema sintesi, un criterio di valutazione dei comportamenti umani basato sulla possibilità ovvero sull’impossibilità logica della loro generalizzazione. Quei comportamenti che risultano logicamente suscettibili di una applicazione generalizzata sono da considerare eticamente ammissibili, quelli che non la tollerano sono da considerare contrari alla ragione e quindi eticamente inammissibili. Come esempio tipico si può pensare all’atto del rubare – comprendendo in esso ogni comportamento inteso ad impadronirsi con la destrezza, con la frode o con la forza dei beni che gli altri hanno prodotto o acquistato come frutto del proprio 173 lavoro – e chiedersi se sarebbe logicamente possibile che tutti vogliano vivere a spese degli altri. Ciò non è evidentemente possibile. Di conseguenza il furto risulta un comportamento contrario all’imperativo categorico. Innumerevoli altri esempi si potrebbero fare (dall’uccidere, al mentire e – perché no – al non pagare le tasse, al gettare i rifiuti dove capita, etc.) tutti sostanzialmente accomunati dal fatto di essere in contrasto con l’ordinata convivenza. Secondo molti commentatori, peraltro, la formulazione kantiana dell’imperativo categorico corrisponde, declinata in termini “psicologici”, alla celeberrima “regola aurea” delle grandi tradizioni religiose e sapienziali: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, nel senso che chi adotta un determinato comportamento nei confronti del prossimo deve mettere in conto, se tale comportamento venisse generalizzato, di essere trattato allo stesso modo dagli altri e chiedersi se ciò gli piacerebbe o meno. Conclusivamente, riguardo alla concezione etica fondata su basi razionali, vorrei fare le seguenti considerazioni. - Tale concezione non esclude affatto il soccorso e l’assistenza verso chi si trova in situazioni di difficoltà. Al contrario essa svincola tali attività da credenze religiose e sentimenti compassionevoli - che possono esserci o non esserci – e le fonda razionalmente. Tutti, infatti, possiamo trovarci, prima o poi, in situazioni di difficoltà. Risulta pertanto pienamente coerente con lo spinoziano “conatus sese conservandi” prevedere che in tali casi intervenga a sostegno la mano pubblica, con azioni che possono essere logicamente suscettibili di ordinaria applicazione. Purché si precisi che l’assistenza deve essere erogata subordinatamente ad un rigoroso accertamento delle effettive e non colpevoli condizioni di bisogno. Sì, dunque, all’assistenza no all’assistenzialismo! (distinzione non sempre chiara a cittadini, amministratori e politici italiani) . Un’etica fondata su basi razionali non implica costitutivamente 174 gesti straordinari di altruismo ma – ovviamente – non impedisce in alcun modo, a chi vuole, di porli in essere, purché se ne assuma la responsabilità e gli oneri. Ritengo peraltro che vi sia necessità non di straordinari (ed isolati) gesti eroici (infelice quel popolo che ha bisogno di eroi!) quanto, piuttosto, di cittadini consapevoli che i loro interessi possono ricevere efficace tutela solo nel quotidiano rispetto delle regole di una comunità bene ordinata secondo principi razionali, che – in quanto tali – siano comprensibili da tutti e vincolanti per tutti. 175 NOTE 1 Le “vacanze filosofiche per...non filosofi”, avviate sperimentalmente sin dal 1983, si sono svolte regolarmente dal 1998. Per saperne di più si possono leggere: A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Breve introduzione al philosophical counseling (Rubbettino, Soveria Mannelli 2002) oppure Autori vari, Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni (Di Girolamo, Trapani 2008) oppure, A. Cavadi, Filosofia di strada. La filosofiain-pratica e le sue pratiche (Di Girolamo, Trapani 2010). È attivo anche il sito www.vacanzefilosofiche.altervista.org curato da Salvatore Fricano (Bagheria). 2 M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, San Vittore Olona 1997, p. 9. 3 “Dio è la risposta alla questione che soggiace alla finitudine dell’uomo; è il nome di ciò che preoccupa l’uomo ultimamente. […] Ciò significa che tutto ciò che preoccupa l’uomo ultimamente diviene Dio per lui, e, inversamente, ciò significa che l’uomo non può essere ultimamente preoccupato che da ciò che è Dio per lui” (P. Tillich, Théologie systématique, II vol., Paris 1970, p. 105). 4 M. Ruggenini, op. cit., p. 28. Similmente Panikkar: “Qualsiasi ideologia e qualsiasi cosmologia non fanno che tentare di risolvere, ciascuna a suo modo, il problema dell’ultimo e definitivo. Qualsiasi sistema filosofico, inoltre, finisce per scontrarsi, in un modo o nell’altro, con il limite ultimo del prprio filosofare e deve vedersela con quello che, tradizionalmente, si chiamerebbe il problema di Dio” (R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, Milano 2011, p. 248). 5 Traccia di questa esperienza originaria si ritrova nel Nuovo Testamento: “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre”(Giovanni 1, 5) e ancora nel Credo cristiano, che afferma che Gesù è “Dio da Dio, Luce da Luce”. Basandosi sull’etimologia del termine, uno scrittore contemporaneo rilegge così il Credo: “Credo in una sola Luce […]. Credo in Gesù Cristo, figlio della Luce” (G. Squizzato, Il Dio che non è “Dio”. Credere oggi rinunciando a ogni immagine del divino, Verona 2013, p. 54). 6 “Muse che sull’Olimpo avete dimora, raccontate il principio, e chi fu il primo di loro [degli dèi] a nascere” (Esiodo, Teogonia, vv. 114-115). 176 7 L. Ferry, Imparare a vivere. La saggezza dei miti, Milano 2012, p. 78. 8 Crono voleva imporre da solo il suo dominio mentre, “Con Zeus al potere, lo scenario dell’universo che si viene disegnando è alquanto diverso. Sono le divinità sue pari a sceglierlo come re e fra loro Zeus spartisce, con grande giustizia, gli onori: a ciascuno quello che più merita” (J.-P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, Torino 2001, p. 30). 9 “Medesima origine fu agli dèi e ai mortali. Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo; come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, ricchi d’armenti, cari agli dèi beati. Poi, dopo che la terra coprì questa stirpe, essi sono démoni, per il volere di Zeus grande, benigni, sulla terra; custodi degli uomini mortali della giustizia hanno cura e delle azioni malvagie, vestiti di nebbia, sparsi dovunque per la terra, datori di ricchezza: ebbero infatti questo onore regale” (Opere e giorni vv. 108-126). 10 Con ironia Zeus sentenzia: agli uomini “darò un male, e di quello tutti nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d’amore” (ivi, vv. 5758). Cedendo alla seduzione femminile, infatti, gli uomini sono così stolti da non rendersi conto che abbracciano con amore proprio la causa dei mali che riempiono la terra: “infinite sciagure si aggirano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n’è il mare; le malattie giungono agli uomini, sia di giorno che di notte, ai mortali malanni recando” (ivi, vv .100-103). 11 La realtà esiste di per sé, da sempre, e non comincia ad esistere, perché sarebbe impossibile un passaggio dal nulla all’essere. Anzi, “per i Greci, come per gli antichi Germani, il nulla è qualcosa d’inconcepibile; perciò anche la loro matematica ignora lo zero” (M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1989, p. 68). 12 S. Natoli, La salvezza senza fede, Milano 2008, p. 248. Anche Raimon Panikkar afferma che “Theós è semplicemente un nome generico, che indica un evento, un evento divino. Con il diffondersi del cristianesimo, il termine generico – proveniente da ambiente ‘politeista’ – fu attribuito al padre di Gesù di Nazaret, nella versione greca e latina (theós, deus). [E così, col tempo,] il nome comune ‘dio’ finì con l’assumere la funzione di nome proprio di Dio per antonomasia” (R. Panikkar, op. cit., p. 189). 177 13 “Quando qualcosa di indefinito e possente scuote la mente e le fibre, fa tremare la gabbia di ossa, quando la stessa persona, fino a un attimo prima torpida e agnostica, si sente squassata dal riso o dalla smania omicida o dallo struggimento amoroso […], allora il Greco riconosce di non essere solo. C’è qualcuno accanto a lui, ed è un dio” (R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 1988, pp. 274-275). 14 “Nel mondo proprio dell’uomo greco le forze che dominano la vita umana e che noi conosciamo come disposizioni dell’animo, inclinazioni, entusiasmi, sono figure dell’essere, di natura divina, che come tali non hanno solo da fare con l’uomo ma, infinite ed eterne, dominano la terra e il cosmo” (W. F. Otto, Theophania, Genova 1996, p. 62). 15 “L’antropomorfismo degli dèi greci, quale lo possiamo cogliere nei miti e che sarà più tardi aspramente rimproverato dai filosofi, ritrova il suo significato religioso nella statuaria divina. […] la perfezione del corpo umano [è vista] come la rappresentazione più adeguata degli dèi” (Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Milano 2006, p. 287). 16 M. Pohlenz, op. cit., p. 78. 17 Ivi. Quando ci si stupisce dei comportamenti immorali degli dèi greci, ci si dimentica che essi sono forze della natura, a cui sono evidentemente inapplicabili i criteri morali. L’unico atteggiamento inaccettabile, come abbiamo visto, è quello dell’eccesso, della dismisura che mette in pericolo l’equilibrio dell’universo. 18 Divino è “il fondamento di ogni essere e di ogni accadere, e tale fondamento traspare così chiaramente attraverso ogni cosa e fatto, che [se ne parla] anche in rapporto alle cose e ai fatti più naturali e comuni” (W. F. Otto, Gli dèi della Grecia, Milano 2004, p. 25). 19 M. Pohlenz, op. cit., p. 82. 20 “Per i Greci gli dèi sono così evidenti e naturali che essi non riescono nemmeno a immaginare che altri popoli possano avere un’altra fede o altri dei” (B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1963). 21 L. Ferry, op. cit., p. 84. 22 La visione tragica della realtà non li porta al disinteresse per la vita, che pur sanno essere effimera; al contrario, quella visione implica la “valorizzazione religiosa del presente; il semplice fatto di esistere, di vivere nel tempo, comporta già una dimensione religiosa. La gioia di vivere scoperta dai Greci non è però un godimento di tipo profano: rivela la beatitudine di esistere, di partecipare – anche in modo fuggevole – alla spontaneità della vita e alla 178 grandiosità del mondo. Come tanti altri prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in fondo la ricchezza, a prima vista insospettabile, dell’attimo fuggente” (Mircea Eliade, op. cit., p. 288). 23 L. Ferry, op. cit., p. 100. 24 R. Calasso, op. cit., p. 307. 25 Ivi, p. 308. 26 “La religione dei Greci, come ogni religione positiva, sta con la filosofia di questo popolo in relazioni che sono in parte di affinità, in parte di opposizione. Ciò che per altro la differenzia dalle religioni di tutti gli altri popoli, è la libertà che essa ha lasciato fin da principio allo sviluppo del pensiero” (E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, par. I, vol. I, Firenze 1967, pp. 102-102). 27 Il logos, cioè la ragione, è “lo spirito umano in quanto attivo in due direzioni, nel raccogliere il materiale empirico e nel rielaborarlo soggettivamente con l’ausilio delle capacità intellettive” (M. Pohlenz, op. cit., p. 317). 28 Il termine physis “indica ancora con evidenza l’atto del phynai, cioè il crescere e nascere in quanto processo” (W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze 1961, p. 32). Lo stesso rapporto c’è, in latino, tra natura e nascor. 29 Quindi il termine physis “abbraccia anche l’origine dalla quale sono sorte e continuano a sorgere [le cose che vediamo], vale a dire la realtà che sta alla base delle cose della nostra esperienza” (W. Jaeger, ibidem). 30 La physis “comprende e regola tutto ciò che accade nel mondo, seguendo le sue proprie leggi immanenti e inviolabili, le quali non richiedono alcun intervento dall’esterno” (M. Pohlenz, op. cit., p. 319). 31 Zeller-Mondolfo, op. cit,, par. I, vol. II, p. 60. 32 Ivi, p. 61. 33 “Il sentimento-nozione di un’universale potenza di vita, di generazione, di fecondità è dunque la forma in cui primamente si costituiscono e si affermano il senso e l’idea del divino” (Ivi, p. 69). 34 Ivi, pp. 62-63. 35 Ivi, p. 69. Non è difficile, a questo punto, scorgere la sintonia, già rilevata a suo tempo da Aristotele, tra la sapienza mitologica e il pensiero dei primi filosofi: “Il concetto generale unitario del divino (to theion), che tutto abbrac179 cia […] risulta, per testimonianza di Aristotele, documentato fra gli antichi ed antichissimi teologi, anteriori al sorgere della filosofia. Fra i quali appunto il divino ha rispetto alla totalità cosmica quella funzione di περιέχον, che non ha un significato soltanto spaziale, di abbracciare, ma anche e più quello attivo di alimentare e governare”(ivi, p 62). Il rapporto tra mitologia e filosofia è sottolineato anche dallo Jaeger: “Il pensiero filosofico che subentrerà a quello di Esiodo cercherà, in contrasto con la teologia sorta dalla Genesi, il divino nel mondo, non al di là di esso. Seguirà non tanto l’Esiodo teogonico quanto il cosmogonico e sulle sue orme cercherà il divino nelle forze che hanno prodotto tutto ciò” (W. Jaeger, op. cit., p. 20). 36 “Non si può separare la componente teologica dalla fondamentale struttura fisica o ontologica del loro [di un Anassimandro o di un Eraclito] pensiero” (Ivi, p. 8). 37 Ivi, p. 42. 38 Platone, Fedro, 247 d-e. 39 Platone, Timeo, 29 a. 40 Platone, Timeo, 30 b. 41 “Come tutto sarebbe stato posto in movimento, se non ci fosse una causa in atto? Il materiale di una casa certamente non può muovere se stesso, ma lo muove l’arte del costruttore” (Aristotele, Metafisica, XII, 6, 1071 b). 42 “È impossibile che il movimento cominci o finisca: esso fu sempre. E così il tempo: perché non potrebbe esserci il prima e il poi se il tempo non esistesse” (ibidem). 43 “Deve, dunque, esserci un principio tale che la sua sostanza sia l’atto stesso. Inoltre, sostanze del genere debbono essere senza materia, perché debbono essere eterne” (ibidem). 44 “C’è qualcosa che muove senza essere mosso, eterno, che non è altro se non sostanza e atto. Ma in questo modo, per l’appunto, muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono non mossi. […] Dunque [il motore immobile] muove come ciò che è amato, e per mezzo di ciò che da esso è mosso muove tutto il resto” (Aristotele, Metafisica, Λ, 7, 1072 a-b). 45 Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072 b. 46 Aristotele, Metafisica, XII, 9, 1074 b. 47 Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072 b. 48 Aristotele è un deciso sostenitore del primato della vita teoretica: “L’uo180 mo non deve, come dicono alcuni, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi per quanto possibile immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto” (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b), tanto che sarà bene tutto ciò che favorisce la vita contemplativa, mentre “qualsiasi cosa che, per eccesso o per difetto, impedisce di servire e contemplare Dio, sarà cattiva” (Aristotele, Etica Eudemia, VIII, 3, 1249 b). 49 “Noi siamo incerti sulle parole che dobbiamo adoperare e parliamo dell’Ineffabile ed escogitiamo dei nomi con il desiderio di denominarlo, per quanto ci è possibile” (Plotino, Enneadi, V, 5, 6). 50 Cfr. Plotino, Enneadi VI, 8, 15. 51 L’emanazione è “un irradiamento che si diffonde da lui, da lui che resta immobile, com’è nel sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile” (Plotino, Enneadi, V, 1, 6). 52 “Coloro che ripongono l’essere nei corpi fanno come chi sogna; costui ritiene che esistano attualmente cose che vede come essere: ma non sono altro che sogni!” (Plotino, Enneadi, III, 6, 6). 53 Plotino, Enneadi, VI, 9, 11. 54 Questa concezione rigorosamente panteistica si ritrova in tutti i principali esponenti della scuola, da Zenone di Cizio (333-263 a. C.) a Cleante di Asso (330-232 a. C.) e a Crisippo di Soli (278-208 a. C.), per i quali ci sono “due principi del tutto, il principio attivo e quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza proprietà, la materia, e quello attivo è la ragione che si trova in essa, la divinità; quest’ultima, che è eterna, scorrendo per la materia foggia tutte le realtà” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 134,). 55 “Democrito, lasciate da parte le cause finali, riconduce alla necessità [meccanica] tutte le operazioni della natura” (DK 68 A 66). 56 “Gli uomini primitivi, nell’osservare i fenomeni celesti, come tuoni lampi e fulmini […], furono presi di terrore e credettero che ne fossero causa gli dei” (DK 68 A 75). 57 “Per quanto riguarda i corpi celesti, non bisogna credere che i loro moti e le loro rivoluzioni, e il sorgere e il tramontare e altri fenomeni di questo tipo avvengano per opera di qualche essere che così disponga o così abbia disposto” (Epicuro, Lettera a Erodoto, 76). Anche per Lucrezio di Pompei (9450 a. C.) il mondo esiste di per sé, formato da un’aggregazione di atomi: gli uomini “vedono accadere sulla terra e in cielo molte cose, del cui prodursi 181 non riescono a scorgere la causa, e che perciò attribuiscono alla potenza divina. Ma quando avremo capito che nulla può nascere dal nulla, allora comprenderemo più chiaramente ciò che stiamo indagando: donde ogni cosa si generi e in che modo ognuna accada, senza intervento degli dei” (Lucrezio, La natura, I, 155-158). 58 “Gli dei esistono: abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo […]. Empio non è colui che rinnega gli dei del volgo, ma colui che applica le opinioni del volgo agli dei” (Epicuro, Lettera a Meneceo, 123). 59 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51. 60 “Io credo che per la prima volta un uomo astuto e saggio inventò per gli uomini il terrore degli dei, perché i malvagi temessero anche per ciò che in modo occulto facessero o dicessero o pensassero. […] Così, ritengo, in principio qualcuno indusse gli uomini a credere che gli dei esistano” (DK 88 B 25). 61 Socrate “non discuteva sulla natura dell’universo, come la maggior parte degli altri, indagando in che modo esista quello che i dotti chiamano cosmo e per quali necessità accadano i vari fenomeni celesti: quanti si mettevano in tali ricerche li definiva insipienti” (Senofonte, Memorabili, I, 1, 11). 62 Senofonte, Memorabili, IV, 7, 6. 63 Platone, Apologia di Socrate, 28 e. 64 “Gli dei non si disinteressano delle faccende dell’uomo buono” (Platone, Apologia di Socrate, 41 d). 65 Platone, Apologia di Socrate, 31 d. 66 Per descrivere lo sviluppo dell’immagine di Dio nella religiosità ebraica sembra infatti corretto seguire l’ordine originario, perché “La Bibbia ebraica e l’Antico Testamento […] sono due edizioni molto diverse della medesima raccolta” (J. Miles, Dio. Una biografia, Milano 1998, p. 26). A questo autore faremo spesso riferimento nelle pagine seguenti. 67 Il monoteismo non si trova certo al punto di partenza di questa esperienza religiosa: infatti, anche se del politeismo iniziale del popolo ebraico restano solo poche tracce nella Bibbia, essa attesta tuttavia senza ombra di dubbio che c’è stato un processo che va “dal politeismo al monoteismo passando attraverso la monolatria” (H. Küng, Ebraismo, Milano 2012, p. 49). Persino nelle lettere paoline si trovano echi della credenza in potenze sovraumane: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano le regioni celesti” 182 (Efesini 6, 12). Va qui ricordato che il modo di leggere la Bibbia è cambiato molto negli ultimi decenni. Per una rapida informazione sulle novità riguardanti le nozioni di rivelazione, ispirazione, fede, cfr. E. Rindone, L’ispirazione della S. Scrittura dal Vaticano I al Vaticano II, Palermo 1982. 68 Genesi 1, 1. Gli studiosi riconoscono, come è noto, nella Genesi la presenza di diverse tradizioni letterarie precedenti: la prima pagina del libro appartiene alla tradizione sacerdotale. 69 Genesi 1, 27. Simile, anche se utilizza un linguaggio più marcatamente antropomorfico, il racconto della tradizione jahvista, anteriore a quella sacerdotale: “Quando Jahvè, il dio, [comunemente tradotto con il Signore Dio] fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra […], allora plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. […] [Poi] plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (Genesi 2, 4-5. 7. 22). 70 La massa ‘informe e deserta’ sembra dunque preesistere all’azione divina. In effetti, “non c’è solo il fatto che nella Bibbia la dottrina cattolica della creatio ex nihilo è assente; occorre anche aggiungere che i testi biblici presentano la creazione come avvenuta a partire da una materia preesistente informe e caotica” (V. Mancuso, Il principio passione, Milano 2013, p. 224). Lo stesso teologo, nelle pagine successive, mostra quanto sia poco credibile la tesi che quella dottrina si possa fondare su 2 Maccabei 7, 28. 71 Le prime pagine della Genesi non hanno, infatti, una valenza metafisica ma “mostrano un Dio che organizza e domina il caos al fine di rendere la vita possibile per tutto ciò che si muove sulla terra” (E. Schillebeeckx, L’histoire des hommes, récit de Dieu, Paris 1992, p. 355). Non si comprende nulla della Scrittura se si dimentica che essa utilizza un linguaggio non concettuale ma immaginifico per parlare di Dio sempre e soltanto come salvezza dell’uomo, e va letta perciò in chiave soteriologica e non come descrizione rigorosa della natura e delle azioni di Dio. 72 Genesi 3, 1. Nell’antica Mesopotamia si credeva il mondo frutto della vittoria divina sul caos, “rappresentato come una divinità rivale, uno spaventoso drago acquatico […]. I materiali mitici antichi sono stati riscritti così integralmente che il serpente […] non è più un dio rivale ma […] null’altro che una delle creature di Dio” (J. Miles, Dio. Una biografia, p 43). 73 Genesi 3, 14. 74 Genesi 3, 16. 75 Genesi 3, 18. 183 76 Genesi 6, 5. 77 Genesi 6, 6-7. Mentre nel mito babilonese è Tiamat, il mostro del caos acquatico, che si oppone al dio buono Marduk, nella Genesi è lo stesso Jahvè che scatena il diluvio e che salva da esso. 78 Genesi 8, 20-21. 79 Genesi 9, 11. 80 Genesi 17, 1-2. 7-8. 81 Esodo 3, 14. 82 “Con questa risposta non viene affatto definita in maniera statico-ontologica l’essenza di Dio, come ritenevano alcuni teologi cristiani antichi, medievali e moderni […]. Qui viene annunciata in forma di promessa la volontà di Dio: l’esistenza dinamica, l’essere presente e operante di Dio” (H. Küng, Ebraismo, p. 60). E ancora: “Il nome rivelato a Mosè non aveva in sé alcun nesso con l’Essere dei filosofi. […] [Ciò che Yahveh rivela] non è tanto il suo essere quanto la sua azione salvifica” (R. Panikkar, op. cit., p. 191). Si tratta di un dato ormai acquisito: “L’esegesi biblica sia essa giudaica o cattolica o protestante ritiene, infatti, che il termine ‘sono’ sia da intendere non tanto nell’accezione di puro essere e neppure di esistente quanto piuttosto in quello di essere presente, di intervenire, di stare accanto” (S. Natoli, op. cit., p. 252). 83 “Il Signore aveva reso ostinato il cuore del faraone, il quale non lasciò partire gli Israeliti dal suo paese” (Esodo 11, 10). L’attribuzione a Jahvè di intenzioni che potremmo dire malvagie è una conseguenza del monoteismo, mentre nelle religioni politeistiche intenzioni diverse possono essere riferite a divinità differenti. Lo stesso Jahvè che ha scelto Mosè per liberare il popolo, per esempio, a un certo punto sembra volersene sbarazzare: infatti, mentre Mosè “si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire” (Esodo 4, 24.). 84 Esodo 10, 1. 85 Esodo 12, 12-13. 86 Esodo 12, 14. 87 “Baal era contemporaneamente un dio della guerra, un dio della tempesta e un dio della montagna o del vulcano” (J. Miles, op. cit., p. 120). Similmente, Jahvè è chiamato talvolta dio della montagna e parla da un roveto ardente. 88 Esodo 20, 23. 184 89 Esodo 32, 27. 90 Esodo 32, 34. Un volto più mite rispetto al guerriero dell’Esodo presenta Jahvè nel Levitico, esortando, per esempio, a un atteggiamento benevolo nei confronti dei poveri e addirittura degli stranieri: “Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo. […] Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi” (Levitico 19, 13. 33-34). Riguardo alla condizione degli stranieri, tuttavia, non mancano passi che vanno in altra direzione, ammettendo, per esempio, che i loro figli possono essere ridotti in schiavitù: “Potrete anche comprarne [di schiavi] tra i figli degli stranieri, stabiliti presso di voi” (Levitico 25 45). 91 Deuteronomio 6, 4-7. 92 Deuteronomio 28, 1. 93 Deuteronomio 28, 15. 94 Giosuè 6, 21. Similmente il Signore, per bocca di Samuele, ordina a Saul: “Colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini” (1 Samuele 15, 3). 95 2 Re 17, 6. 96 2 Re 24, 14. 97 “Il Signore stenderà di nuovo la mano per riscattare il resto del suo popolo superstite dall’Assiria e dall’Egitto” (Isaia 11, 11). 98 Isaia 2, 3-4. 99 Isaia 5, 23. 100 Isaia 6, 3. La santità esprime la distanza incolmabile che separa il mondo da Jahvè, che si allea con l’uomo e che tuttavia è l’assolutamente altro. In termini filosofici, si parlerà di trascendenza. 101 Isaia 11, 6. 102 Isaia 25, 8. 103 Isaia 45, 1. 104 Isaia 56, 7. Non mancano gli studiosi che attribuiscono i capitoli 56-66 a un Tritoisaia. 185 105 Isaia 45, 15. Vantandosi di causare sia il bene che il male, Jahvè conserva sempre un carattere ambiguo: “Io sono il Signore e non v’è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo” (Isaia 45, 6-7). 106 “Come una madre consola un figlio così io vi consolerò” (Isaia 66, 13). 107 Isaia 54, 6-7. E poco dopo: “Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Isaia 62, 5). La stessa passione di Jahvè per il suo popolo, che pure lo ha tradito più volte, ritroviamo in Osea: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (2, 21). 108 Isaia 53, 10-11. 109 Come testimonia il libro dei Salmi, per il pio israelita è uno scandalo continuo vedere “la prosperità dei malvagi. Non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo. Non conoscono l’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. […] Ecco, questi sono gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina” (Salmo 73, 3-5. 12-14). 110 Giobbe 1, 8. 111 In effetti, “Giobbe cambia l’argomento, provocando sulla giustizia di Dio, anziché sulla propria, un interrogativo nella mente del lettore” (J. Miles, op cit., p. 382). 112 Giobbe 38, 4. 113 Giobbe 42, 6. Questa traduzione sembra più corretta di quella, che capovolge il senso delle parole di Giobbe, proposta dalla CEI: “Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere”. 114 Giobbe 42, 12-13. 115 J. Miles, op. cit., p. 383. 116 Da questo momento in poi, infatti, Dio non parla più, tanto che non è eccessivo affermare che “È Giobbe ad avere ridotto Dio al silenzio” (ivi, p. 385). 117 Qoèlet 7, 13-14. Meglio affidarsi, per la riuscita di una vita umana, al buon senso spicciolo: “Non esser troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti? Non esser troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire innanzi tempo?” (Qoèlet 7, 16-17). 186 118 Daniele 7, 9. 119 Daniele 7, 13-14. 120 J. Miles, op. cit., p. 433. 121 Marco 1, 11. 122 Marco 9, 7. 123 Marco 1, 15. 124 Nel Nuovo Testamento non si trova “nessun trattato De Deo, tipico della manualistica teologica” (G. Barbaglio, Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso, Bologna 2006, p. 167). 125 Gesù non è certo il primo a chiamare Dio padre. Tale appellativo si ritrova non solo nella tradizione veterotestamentaria ma anche presso i greci e i romani: “il fenomeno si registra già nei poemi omerici, dove Zeus, figlio di Crono, figura padre della famiglia degli dei [e degli uomini]. […] [La novità dei vangeli è costituita dal fatto che Gesù] riferisce la paternità anche ai reprobi e agli ingiusti, motivando con questa integrale paternità di Dio quell’amore dei nemici che è specificamente suo” (H. Küng, Essere cristiani, Milano 2011, pp. 410, 412). 126 Barbaglio, op. cit., p 182. Vedi, per esempio: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo 5, 43-45). Quello di Gesù non è certo il Dio dei vincitori e dei potenti: se ha una predilezione, questa è per i deboli, i disprezzati e i vinti, e solo “il nostro secolare imborghesimento, la nostra appartenenza a una comunità di ‘benpensanti’ ci hanno probabilmente resi ciechi di fronte al senso ovvio del messaggio di Gesù e delle parabole che l’illustrano” (E. Schillebeeckx, op. cit., p. 185). 127 “Il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Matteo 22, 13-14). 128 J. Dupont, Le Dieu de Jésus, in NRT 1987, p. 323. 129 Giovanni 14, 9. 130 Certamente si può dire che “là dove il bene trionfa e dove la sofferenza e l’ingiustizia sono sconfitte, ‘Dio’ è messo in pratica”(E. Schillebeeckx, op. cit., p. 199), ma Dio è presente anche quando è il male che ha la meglio se, 187 come nel caso di Gesù, si è condannati perché si lotta per la liberazione degli oppressi: infatti la sua “morte è la conseguenza di una vita radicalmente a servizio della giustizia e dell’amore, la conseguenza di una scelta per gli ultimi e gli esclusi” (ibidem). 131 Giovanni 10, 30. 132 1 Giovanni 4,8. Siamo, qui, molto lontani dalla prospettiva greca: infatti, mentre le migliori pagine bibliche presentano un Dio innamorato dell’uomo, Plotino, al contrario, concepiva l’Uno come invaghito della propria perfezione e ripiegato sull’amore di sé stesso (cfr. Plotino, Enneadi VI, 8,15). 133 “Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte” (Genesi 1, 16). 134 Ad agire, nella Bibbia, sono soltanto Dio e gli uomini, e non c’è “una terza alternativa: né Fato, né Natura, né Cosmo, né Fondamento di tutto l’essere” (J. Miles, op. cit., p. 464). 135 Tommaso, Somma teologica I, 2, 2 ad 1. 136 Tommaso parla di ‘vie’, percorsi che conducono alla scoperta di Dio, ma ciò non significa che per lui l’esistenza di Dio sia solo un’ipotesi ragionevole. È bene ribadire, infatti, che per Tommaso si tratta di argomenti cogenti: “Che Dio esista si può provare per cinque vie” (I, 2, 3; salvo diversa indicazione, anche le altre citazioni di Tommaso si riferiscono a questo articolo della Somma teologica), tanto che, almeno nelle prime tre, la conclusione è introdotta da un perentorio “necesse est” (ibidem). 137 Una cosa non potrebbe infatti, nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista, essere principio motore e cosa mossa; la causa, quindi, deve essere esterna a ciò che cambia: per esempio, “il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera”. 138 L’affermazione dell’esistenza di un motore immobile “non è che la trasformazione da negativo in positivo del principio di causalità: ciò che diviene, in quanto diviene, non ha in sé la ragione sufficiente del suo divenire” (A. Masnovo, La filosofia verso la religione, Milano 1963, p. 66). 139 Secondo alcuni studiosi, al motore immobile della prima via si arriva facendo leva sulla serie non di cause efficienti ma di cause finali. A ogni modo, a proposito della seconda via Gilson nota che “ciò che abbiamo detto delle cause del movimento, possiamo dirlo delle cause in generale” (E. Gilson, La philosophie au moyen âge, Paris 1962, p. 531). 140 Ecco il testo: ci sono enti “che possono esistere e non esistere; infatti, 188 alcune cose nascono e periscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose esistenti sono tali che possono non esistere, in un dato momento niente esistette. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non ad opera di qualche cosa che è. Perciò, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora nulla esisterebbe, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualcosa di necessario […] e questo tutti lo chiamano Dio”. 141 In effetti, non abbiamo “l’esperienza dell’incominciare assoluto; noi vediamo sempre e soltanto trasformazioni, non inizi dal nulla: la pianta nasce dal seme” (S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, Brescia 1964, vol. II, p. 105). Questa constatazione, che infirmerebbe la validità dell’argomento, sarebbe però superata, secondo la Vanni Rovighi (ma io resto piuttosto perplesso), dall’esperienza della soggettività umana, qualcosa cioè di radicalmente nuovo che non potrebbe perciò ridursi a semplice trasformazione di una realtà precedente: “quando guardo in me stesso mi accorgo che io non sono affatto l’atteggiarsi di un tutto impersonale, ma sono una persona distinta da ciò che mi circonda” (ivi, p 108). 142 E. Gilson, Introduction à la philosophie chrétienne, Paris 1960, p. 53. 143 Ivi, p. 113. 144 Già a suo tempo il nostro autore era informato dei dubbi interpretativi formulati dagli esegeti: “Dio è l’essere; la Scrittura lo dice o, almeno, si afferma spesso che la Scrittura lo dice” (ivi, p. 59). 145 Ivi, p. 55. 146 “La creatura non ha l’essere se non da altri; se abbandonata a se stessa, in sé considerata essa è nulla” (Tommaso, De aeternitate mundi contra murmurantes, in Opuscola philosophica, Torino 1954, capitolo 7, p. 106). Senza l’atto creatore, infatti, per Tommaso non ci sono non solo le cose ma neanche la materia prima aristotelica, perché la creazione è productio ex nihilo sui (cioè della cosa che si crea) et subiecti (cioè della sua materia). 147 E. Gilson, La philosophie au moyen âge, p. 534. Solo in quanto ne è causa si può dire che Dio è intimo al creato: “Dio stesso è causa propria e immediata di ciascuna realtà, e in qualche modo causa più intima a ciascuna natura di quanto essa non lo sia a se stessa” (Tommaso, De veritate q 8, a 16, ad 12). 148 “Ancora con Platone e Aristotele la filosofia non va alla ricerca del Dio, 189 ma è presso la divinità e nutre di questa prossimità la propria esperienza del mondo. La meraviglia è rivelazione di quanto di divino è nascosto in ciò che è […]. Il pensiero platonico-aristotelico della separatezza del divino non desacralizza il mondo, perché al contrario adempie la necessità che la filosofia avverte di pensare convenientemente il divino fondamento del tutto. Il divino è così separato di quel tanto che permette di pensarlo come riferimento indefettibile della realtà” (M. Ruggenini, op. cit.,, p. 40). 149 Da Esodo 3, 14 “è ispirata una concezione del divino che lo svincola radicalmente dal mondo nel momento in cui sospende alla sua libera volontà e potenza creatrice ogni rapporto con una realtà diversa da lui e per ciò stesso creata. Dio viene così sciolto dal mondo, definitivamente ab-solutus” (M. Ruggenini, op. cit., p. 44). 150 Si può dire che per Tommaso Dio è non solo trascendente ma anche immanente? Per rispondere è necessaria qualche precisazione terminologica. Gli scolastici distinguono le cause transeunti, la cui attività si esaurisce nel momento in cui producono il loro effetto, da quelle immanenti, la cui attività permane sia nel soggetto agente che nell’effetto prodotto. Solo in questo senso si può dire che Dio, l’Essere trascendente, è immanente, presente nel mondo: in quanto, cioè, causa permanente del suo emergere dal nulla. Tommaso afferma, infatti, che Dio si trova in tutto il creato come un re, che esercita il suo potere in tutto il suo regno, come un padrone, che conosce tutto ciò che c’è nella sua casa e come creatore, che dona l’essere: “Egli è in tutte le cose con la sua potenza, perché tutte sono soggette alla sua potestà; vi è con la sua presenza, perché tutto è nudo e scoperto davanti ai suoi occhi; vi è con la sua essenza, perché è presente a tutte le cose quale causa dell’essere” (Tommaso, Somma teologica I, 8, 3). Gli esempi su riportati, proposti da Tommaso stesso, mostrano con quali limiti si possa parlare di immanenza del creatore in una creatura che è soltanto soggetta al suo potere, da lui interamente conosciuta e a lui debitrice del proprio essere. Non sarebbe corretto, invece, usare il termine immanenza per designare una realtà che sussiste senza potersi separare ontologicamente da un’altra alla cui costituzione essa contribuisce, perché, al contrario, il Dio di Tommaso è trascendente, in quanto esiste al difuori e al disopra del mondo, che dipende da lui mentre egli non dipende da esso. Trascendenza e immanenza sono perciò, nel significato oggi corrente, termini antitetici, e per Tommaso Dio non è immanente ma trascendente. 151 “Ciò che esprime nel modo più netto la distanza insormontabile che separa il pensiero cristiano da quello greco, e li fa appartenere a mondi collegati, ma semplicemente intraducibili l’uno nell’altro, nonostante ogni conclamata continuità speculativa, è proprio la riduzione della natura a prodotto 190 dell’onnipotenza divina” (M. Ruggenini, op. cit., p. 53). 152 Tommaso infatti, tra gli errori dei filosofi riguardanti la creazione, indica prima quello di Democrito ed Epicuro, per i quali gli atomi si aggregavano tra loro senza alcun intervento divino, poi quello di Platone e di Anassagora, che ammettevano una materia esistente di per sé, e come terzo quello di Aristotele “che affermò che il mondo non aveva avuto inzio ad opera di Dio ma esiste dall’eternità, contro quanto si dice in Genesi 1, 1: In principio Dio creò il cielo e la terra” (De articulis fidei). Secondo Tommaso, però, la verità che il mondo non sia eterno è solo oggetto di fede e non può essere dimostrata con la ragione. 153 Dall’idea della trascendenza è derivato il disincanto del mondo: “Nella trascendenza il divino si denaturalizza ed è in forza di tale denaturalizzazione che la natura può apparire effettivamente e nudamente come natura, spazio per l’azione libera dell’uomo” (S. Natoli, op. cit., p. 242). Non era così per i greci: “Non era soltanto mondo il cosmo antico, inabitato dagli dei. Diventa soltanto mondo quest’universo creato, separato da Dio dalla sua insormontabile finitezza, dunque disertato da una divinità che da esso non si lascia contenere” (M. Ruggenini, op. cit., p. 61). 154 E. Gilson, Constantes philosophiques de l’être, Paris 1983, p. 226. 155 Cfr. Tommaso, Somma teologica I, 12, 12. 156 “Quando procediamo verso Dio per via di esclusione, anzitutto allontaniamo da lui le caratteristiche sensibili, poi anche quelle spirituali, nella forma in cui sono nelle creature, come bontà e sapienza; allora rimane nella nostra intelligenza solo che è, e niente di più: per cui essa resta in una certa confusione. Infine anche questo stesso essere, come si trova nelle creature, lo allontaniamo da lui, e allora l’intelligenza resta in una specie di notte di ignoranza che ci unisce a Dio nel modo più perfetto, per quanto é possibile in questa vita” (Tommaso, Commento alle Sentenze I, d. 8, a. 1 ad 4m). Commentando un analogo passo della Somma, il Sertillanges osserva: “l’esclusione di ogni elemento di definizione riguardante Dio si estende sino alla qualificazione di Dio come essere. Dio non è un essere, nel senso umano della parola [...]. Noi non sappiamo dunque affatto, per nulla, in alcuna misura, ciò che Dio è. Sappiamo che é; ma in questa proposizione ‘Dio è’, il verbo essere non significa affatto l’essere reale, l’essere considerato come un attributo; esso non è che il legame logico di una proposizione vera” (Saint Thomas d’Aquin, Somme Théologique I, 12-17, Paris-Tournai-Rome 1956, a cura di A.-D. Sertillanges, p. 383). 157 E. Gilson, Constantes philosophiques de l’être, pp. 207-208. Mediante l’analogia infatti, scrive il Sertillanges nel commento già citato, “non si vuol 191 definire Dio, ma pensarlo in funzione della creatura, che ne deriva, e che esige questo mistero per avere un senso e per sussistere” (Saint Thomas d’Aquin, Somme Théologique, p. 388). 158 Tommaso, De Potentia q. 7, a. 5 ad 14m. Tommaso, del resto, riecheggia una lunga tradizione. Scoto Eriugena, per esempio, scrive: Dio “si conosce meglio non conoscendolo; l’ignoranza di lui è vera sapienza” (Tommaso, De divisione naturae I, 510b). 159 Tommaso, In Boëtium de Trinitate q. 1, a. 2 ad 1m. L’esistenza di Dio, quindi, non appare in sostanza che la condizione di intelligibilità del relativo, sicché il filosofo, come ribadisce anche il De Lubac, “si riposerà della sua ricerca nella contemplazione dell’effetto ormai pienamente compreso” (H. De Lubac, Sur les chemins de Dieu, s.l. 1966, p. 178). 160 Esperienza che ha un suo linguaggio che, se usato con critica consapevolezza dei suoi limiti, ha una sua autonomia e una sua validità: “Le possibilità del nostro linguaggio sono molto più ampie di quelle della tradizionale ontologia e proprio per questo l’uscita da quella ontologia non significa l’uscita dal linguaggio” (S. Natoli, op. cit., p. 232). 161 Come notava Kant, “La ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana” (I. Kant, Critica della ragion pura, Torino 1965, p. 7). È vero, poi, che i progressi delle scienze hanno dato risposta a domande impropriamente in passato rivolte alla filosofia o alla religione, tanto da esigere, specie su alcune questioni riguardanti il mondo della natura, una “rimessa in discussione dei propri convincimenti filosofici” (T. Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Milano 2011, p. 161); sarebbe tuttavia un errore cadere nell’eccesso opposto, affidandosi solo alla scienza, perché “noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati” (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Milano-Roma 1954, prop. 6. 52). 162 È un’ovvietà, ma può essere utile ricordare che Dio, se esiste, trascende “ogni pensiero e ogni riflessione; noi non ascoltiamo da nessuna parte la sua voce, non vediamo da nessuna parte il suo volto. La realtà di Dio non è verificabile; essa è oggetto di controversie che dividono gli uomini” (E. Schillebeeckx, op. cit., p. 125). È bene, perciò, prendere atto che “per il credente l’interpretazione religiosa [della vita] è più intelligibile e più ragionevole. Il non-credente, al contrario, trova una maggiore ragionevolezza nell’interpre192 tazione agnostica” (ivi, p. 158). 163 Accanto alla conoscenza concettuale, anche “la dimensione emotiva possiede un suo proprio valore conoscitivo, capace di rivelare la realtà. Essa non è, dunque, un semplice fenomeno senza significato proprio, che si accompagna alla dimensione scientifica dichiarata portatrice esclusiva di valori conoscitivi. L’intenzionalità conoscitiva della fede in Dio non può essere oltre identificata con la conoscenza concettuale” (ivi, p. 105). 164 B. Pascal, Pensieri 477/277. E ancora: “L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano: essa non è che debole cosa se non arriva a riconoscere questo” (Pascal, Pensieri 466/267). L’esperienza religiosa, quindi, ha un suo senso, una sua intelligibilità, “sprovvista tuttavia di forza razionale dimostrativa universalmente persuasiva” (E. Schillebeeckx, op. cit., p. 140). 165 La meraviglia e il timore che la realtà suscita sono all’inizio non soltanto della filosofia, ma anche della religione. “Con che cosa, partendo da che cosa si dovrà spiegare questa realtà così universalmente problematica? Che cosa la rende possibile? Qual è la condizione della possibilità di questa realtà problematica?” (H. Küng, Essere cristiani, p. 83). L’ipotesi-Dio proposta dalla religione potrebbe essere questa ‘condizione di possibilità’. 166 Il paese e la famiglia in cui si nasce hanno, innegabilmente un peso rilevante nelle scelte di fondo: “Trovarsi a proprio agio nella tradizione religiosa o areligiosa ricevuta nell’infanzia è uno dei fattori decisivi condizionanti la fede o l’incredulità di un individuo” (E. Schillebeeckx, op. cit., p. 136). 167 H. Küng, Essere cristiani, p 88. Può essere opportuno ribadire che per ‘fede’ si intende qui non l’accettazione di una rivelazione soprannaturale ma l’apertura fiduciosa alla vita, nonostante le sue pur ineliminabili oscurità e contraddizioni. In tale prospettiva, con la parola Dio si vuol significare “la Verità che cerchiamo in ogni nostra conoscenza, il Bene che vogliamo in ogni atto di amore, la Giustizia che perseguiamo in ogni nostra decisione, tutti quei valori, cioè, che sono la ragione costante delle nostre tensioni e che cogliamo presenti nelle situazioni storiche, anche se mai perfettamente realizzati in esse” (C. Molari, La fede e il suo linguaggio, Assisi 1972, p. 47). 168 H. Küng, Essere cristiani, p. 93. I sistemi filosofici più rigorosi si rivelano, in effetti, “o una razionalizzazione o tematizzazione teorica di una fede religiosa in Dio, precedentemente ammessa, oppure una razionalizzazione di una tradizione atea, anch’essa ammessa precedentemente. La negazione o l’affermazione filosofiche di Dio non sono in effetti conclusioni di quei sistemi filosofici in quanto tali. La fede in Dio o il rifiuto di questa fede si trovano al punto di partenza delle loro riflessioni, non al loro termine” (E. 193 Schillebeeckx, op. cit., p. 113). Se quella dell’ateo, che scommette sull’autosufficienza del mondo, è una scelta, lo è anche quella del credente. Fede e incredulità “sono quindi un rischio. Proprio la critica delle prove dell’esistenza di Dio fa emergere che la fede in Dio ha un carattere decisionale e, viceversa, la decisione in favore di Dio ha un carattere di fede” (H. Küng, Dio esiste?, Roma 2012, p. 764). È una decisione che non riguarda solo la ragione ma investe “l’uomo intero nella sua vitale concretezza di spirito e corpo, ragione e istinti, nella sua ben precisa situazione storica, nella sua dipendenza da tradizioni, autorità, schemi di pensiero e scale di valori, nei suoi interessi personali e nelle sue relazioni sociali” (H. Küng, Essere cristiani, p. 94). 169 Le antiche tradizioni religiose ci presentano le esperienze di uomini che parlano del mistero divino secondo le possibilità umane, con un linguaggio poetico-mitologico che mescola inevitabilmente profonde intuizioni, immagini inadeguate e addirittura idee francamente inaccettabili. Chi legge la Bibbia con metodo storico-critico si accorge che essa non costituisce affatto un’eccezione alla regola: infatti, sebbene la religiosità ebraica abbia conosciuto un’evoluzione che ha portato, “nell’ultimo periodo dell’Antico Testamento e all’inizio dell’era cristiana, a una concezione purificata di Dio in quanto essere morale, Yahvé resta sino alla fine essenzialmente una creazione dell’immaginazione poetica, non controllata da un’analisi critica sistematica. Non c’è quindi da stupirsi che nei miti, negli inni, nelle preghiere, nelle profezie e nelle storie della Bibbia si trovino eccessi e illogicità di ogni tipo; è molto più sorprendente costatare che un discorso così metaforico possa essere preso per la descrizione letterale di un essere divino al quale ci sarebbe domandato di credere” (G. D. Kaufman, La question de Dieu aujourd’hui, Paris 1975, p. 220, nota 6). 170 Si tratta di un rischio ineliminabile perché l’alternativa sarebbe un assoluto silenzio: infatti, “se cerchiamo di epurare il nostro concetto di Dio da tutti i predicati che non possono essergli attribuiti con precisione letterale, il concetto stesso tende a svuotarsi di ogni contenuto [… e] per molti e, forse, il più delle volte, per tutti, non potrà assolvere nella vita religiosa a quelle funzioni che erano svolte da analogie e immagini” (F. C. Copleston, Religione e filosofia, Brescia 1977, p. 124). 171 Le religioni sono grandi macchine narrative che rinviano a ciò che non è altrimenti dicibile, sistemi simbolici che generano strutture di senso, alludendo a qualcosa che deve restare inafferrabile. La sapienza mitologica contiene grandi intuizioni, capaci di fecondare, come attesta la storia della filosofia, la stessa indagine filosofica: il simbolo, infatti, dà a pensare perché in fondo, seppur in forma di mito, sono state già toccate tutte le questioni essenziali. Sarebbe, invece, un errore interpretare le immagini mitiche come adegua194 ta descrizione della realtà, cosa che accade quando la teologia, con le sue straordinarie e spesso affascinanti acrobazie concettuali, e il magistero, che si dichiara addirittura infallibile, pretendono che i loro umani, troppo umani insegnamenti siano accettati come informazioni oggettive sulla realtà divina. E se è vero, come ritengono José María Vigil e altri teologi cattolici, che stiamo entrando in una fase post-religiosa della storia dell’umanità, prendere coscienza della valenza puramente simbolica delle immagini tradizionali del divino potrà favorire il superamento della contrapposizione teismo-ateismo. Panikkar parla “della necessità di una purificazione e riforma dell’idea stessa di Dio. Forse la parola stessa deve essere sostituita” (R. Panikkar, op. cit., p. 248). La nostra epoca non possiede ancora gli strumenti intellettuali necessari per una nuova formulazione, ma è certo che “non è sufficiente il Dio delle religioni così come esse ce lo rappresentano, non è sufficiente l’assoluto dei filosofi, né il limite indefinito degli scienziati o l’orizzonte indescrivibile dei poeti” (ivi, p. 249). 172 G. D. Kaufman, op. cit., p. 114. E già il Sertillanges, riecheggiando una lunga tradizione, metteva in guardia contro il pericolo di scambiare Dio con l’idea che ci facciamo di lui, perché, “divenuto verità in noi, non è più allora il vero Dio, e il pensiero non si indirizza che a un idolo” (A.-D. Sertillanges, Les grandes thèses de la philosophie thomiste, Paris 1928, p. 68). Oggi si é giustamente sensibili al pericolo di considerare Dio ‘oggetto’ della conoscenza umana. L’errore di credere che le rappresentazioni della filosofia o della teologia corrispondano alla realtà, scrive un pensatore cristiano contemporaneo, “é ciò che Paul Ricoeur chiama, nel suo linguaggio filosofico particolare, il rischio dell’oggettivazione, che egli oppone alla categoria di orizzonte, ‘metafora di ciò che si avvicina senza mai divenire oggetto posseduto’. Ora questa condizione di orizzonte ha anch’essa le sue vicissitudini, che Paul Ricoeur esprime in un passo assolutamente decisivo: ‘sembra proprio che un tale orizzonte, per una specie di conversione diabolica, tenda incessantemente a convertirsi in oggetto. Kant, per primo, ci ha insegnato a considerare l’illusione una struttura necessaria del pensiero dell’incondizionato. Lo Schein [illusione] trascendentale non é un semplice errore, puro accidente della storia del pensiero; é un’illusione necessaria [...]’ [P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, p. 509]. Proiettare i propri schemi su Dio, progettare un Dio per poterselo appropriare, per poter fare se stessi Dio, ecco ciò che apparirà ben presto come il rischio fondamentale dell’illusione religiosa. [...] Appartiene dunque alla fede lottare perpetuamente contro questa illusione oggettivante del Tutt’Altro” (J.-M. Pohier, Au nom du Père. Recherches théologiques et psychanalytiques, Paris 1972, p. 34-35). 173 Rimproverando il re Ioakim, Geremia gli ricorda che il padre di lui “tutelava la causa del povero e del misero e tutto andava bene; questo non 195 significa, infatti, conoscermi? Oracolo del Signore” (Geremia 22, 16). 174 1 Giovanni 4,12. E oggi i cristiani possono rendere intelligibile ai noncredenti che cosa intendono col termine ‘Dio’ se si dimostrano capaci di incarnare in forme nuove l’amore di cui parla la Scrittura riconoscendo “la necessità di partecipare con tutto il cuore e con tutte le forze all’opera contemporanea di emancipazione politica, culturale e sociale” (E. Schillebeeckx, op. cit., p. 208). 175 Li indico con la maiuscola, come vuole la tradizione, perché sia più chiaro che si tratta di sinonimi. 176 Nella relazione di Leonessa ho fatto cenno, in chiusura, ad un confronto tra Spinoza e Leibniz, mostrando come le teorie del secondo siano meno lontane di quanto sembri da quelle del primo. Nel dibattito questo cenno è stato poi sviluppato da diversi interventi, sicché lo si ritrova, correttamente, nella sintesi proposta da Riccardo Apolloni e qui pubblicata più avanti. Nel testo non ho ritenuto di dover inserire questo confronto perché ha un marcato carattere tecnico. 177 La tavola rotonda conclusiva è stata coordinata da Rossella Cocchi e ha visto un ampio dibattito a seguito della sintesi proposta da Riccardo Apolloni. Di questo dibattito riportiamo solo due interventi ampi e strutturati. 178 Per esigenze organizzative Francesco Dipalo a Leonessa ha tenuto le sue relazioni prima di Mario Trombino. La sequenza storica non si è quindi potuta rispettare nel suo ordine cronologico. 179 Come ha ben mostrato Alberto Giovanni Biuso, e personalmente mi ha convinto in modo definitivo, in Nomadismo e benedizione: Ciò che bisogna sapere prima di leggere Nietzsche, Di Girolamo Editore, Trapani 2006. 180 Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Laterza, Roma-Bari 1978, cap. XI, p. 106. 181 Preferisco chiamare così quegli scienziati che hanno a cuore i problemi ultimi, almeno quanto i filosofi. 182 Heisenberg ha scritto un buon libro sui rapporti fra pensiero e scienza che può essere una serena introduzione alla storia del pensiero filosofico vista dalla prospettiva ‘scientifica’. Il libro è: W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 2008. 196