Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato

Il sistema imperfetto.
Difetti del mercato, risposte dello Stato
a cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu
© 2016 Luiss University Press – Pola s.r.l. a socio unico
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isbn 978-88-6105-230-7
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Indice
Introduzione.......................................................................................... p.9
1. Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia
Stato-mercato
di Valeria Termini.............................................................................. “17
2. Informazione asimmetrica
di Mauro Gallegati............................................................................. “47
3.Esternalità
di Ignazio Musu................................................................................. “63
4. Il difetto di concorrenza
di Giuliano Amato............................................................................. “83
5. Antitrust per la concorrenza dinamica
di Salvatore Rebecchini....................................................................... “101
6. Caccia a posizioni di rendita
di Magda Bianco................................................................................ “119
7. Vuoti di imprenditorialità
di Paolo Donzelli................................................................................ “133
8. Iniquità distributive
di Elena Granaglia............................................................................. “169
9.Instabilità
di Pierluigi Ciocca.............................................................................. “191
10. Disoccupazione
di Giorgio Rodano.............................................................................. “207
11. Problemi di crescita
di Giacomo Costa............................................................................... “225
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indice
12. Fra Stato e mercato
di Pier Angelo Mori........................................................................... p.245
13. Fallimenti dell’azione pubblica
di Ruggero Paladini............................................................................ “267
Notizie biografiche sugli autori................................................................ “287
Introduzione*1
Sulla scorta di una dovizia di analisi teoriche e di indagini empiriche negli stessi
manuali per studenti si ammette che l’economia capitalistica è affetta da imperfezioni, dette “fallimenti del mercato” (Bator, 1958).
Secondo Paul Samuelson (Samuelson, Nordhaus, 2009) «i tre casi più significativi riguardano le situazioni di concorrenza imperfetta (come i monopoli),
le esternalità (per esempio l’inquinamento) e i beni pubblici (come la difesa e
le autostrade). In ciascuno di questi casi il fallimento del mercato determina l’inefficienza della produzione o del consumo e può essere auspicabile l’intervento
dello Stato per porre rimedio alle imperfezioni del mercato» (ivi, p. 33). Samuelson soggiunge poi come sia «possibile che un’economia di mercato determini
disuguaglianze di reddito e consumo inaccettabili per gli elettori», quindi da
correggere (ivi, p. 37). Conclude che il sistema può unire a inefficienze e iniquità «problemi macroeconomici», cioè «cicli economici (elevati tassi di inflazione
e disoccupazione) e crescita economica lenta» (ivi, p. 39).
Joseph Stiglitz (2003, pp. 67-68) elenca quali motivi di inefficienza «sei
cause di fallimento del mercato: 1. Concorrenza imperfetta; 2. Beni pubblici;
3. Esternalità; 4. Mercati incompleti; 5. Informazione imperfetta; 6. Disoccupazione e altri problemi macroeconomici». Ma «anche se l’economia fosse Pareto-efficiente, esistono altre due motivazioni per l’intervento pubblico»: «la
redistribuzione del reddito e l’imposizione di beni meritori», che i privati non
domandano ma che lo Stato ritiene di grande utilità sociale.
In questo libro – anch’esso primariamente rivolto agli studenti – abbiamo
portato a… dieci i difetti dell’economia di mercato capitalistica (Ciocca, 2011) e
le corrispondenti risposte della politica economica, mentre i due saggi finali sono
dedicati alle difficoltà più generali che lo Stato – lo Stato democratico – e i corpi sociali intermedi incontrano nell’intervenire. Alle inefficienze d’origine microeconomica evocate da Stiglitz abbiamo aggiunto la “caccia alle rendite”, oltre a
dedicare due saggi al vuoto di concorrenza, data la centralità del paradigma con1 * I curatori sono grati agli autori dei capitoli e a Mirella Tocci per il contributo editoriale.
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introduzione
correnziale per il buon operare di ogni mercato. Il passaggio dalla dimensione microeconomica alla dimensione macroeconomica è offerto dalla funzione imprenditoriale, cruciale per l’allocazione delle risorse ai migliori produttori e soprattutto
per il progresso tecnico e lo sviluppo dell’intera economia. Iniquità distributiva,
instabilità (dei prezzi, della produzione, della finanza), disoccupazione anche permanente (keynesiani “equilibri di sottoccupazione”), ma anche arretratezza relativa e ristagno produttivo completano la lista dei mali che il sistema dei prezzi – dei
prodotti e dei fattori, e segnatamente le variazioni del tasso d’interesse, del saggio
salariale, del tasso di cambio – può non riuscire a prevenire e a risolvere.
Le carenze denunciate nel volume, nonostante i tentativi di superarle da
parte della politica economica e dell’ingegneria istituzionale, lungi dall’attenuarsi si configurano nella realtà come molto gravi. L’esigenza di beni pubblici,
di merito, comuni si accentua e si scontra con i limiti della dicotomia Statomercato (Valeria Termini). I vuoti d’informazione non sembrano colmati e le
asimmetrie informative superate dal fiume di notizie che i media vecchi e nuovi
diffondono (Mauro Gallegati). Le esternalità negative soverchiano le esternalità
positive, e padri e nonni, uomini politici compresi, cominciano concretamente
a temere per figli e nipoti, pur restando riottosi nel devolvere punti di Pil a risanare quelle esternalità, a cominciare dalla maggiormente nociva, l’ambientale
(Ignazio Musu). La concorrenza, statica e ancor più dinamica, nonostante l’azione antitrust resta esposta alla minaccia di collusioni fra produttori, posizioni dominanti e loro abuso, politiche economiche – del cambio, dei redditi, di
bilancio – che, sebbene animate dalle migliori intenzioni, dischiudono vie facili al profitto e dissuadono le imprese dall’impegno per l’efficienza e in modo
particolare per il progresso tecnico (Giuliano Amato; Salvatore Rebecchini). La
ricerca di posizioni di rendita trova alimento in una legislazione e in una giurisprudenza le quali giustificano che l’impresa si attrezzi in punto di avvocati e lobbisti piuttosto che di ricercatori, ingegneri, dirigenti (Magda Bianco).
La funzione imprenditoriale non sempre corrisponde agli assetti istituzionali e
strutturali di economie che si vogliono di mercato e con regole (Paolo Donzelli). Il capitalismo esalta il merito – è nato per questo – ma sia all’interno dei singoli paesi sia tra i diversi paesi la sperequazione dei redditi, dei patrimoni, delle
opportunità è su livelli al limite della tollerabilità sociale (Elena Granaglia). La
crisi, finanziaria e reale, del 2008 ha ricordato che l’instabilità, nelle sue molteplici forme, è radicata nel sistema e che curarla è difficile, prevenirla pressoché
impossibile (Pierluigi Ciocca). Al di là delle fasi recessive, la disoccupazione è
endemica, i senza lavoro e i sottoccupati si contano strutturalmente a centinaia
di milioni nel mondo (Giorgio Rodano). Lo stesso punto di forza del capitalismo – l’accrescimento della produzione – presenta la doppia criticità, di poter
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scadere nel ristagno delle economie avanzate e di non riuscire a superare l’arretratezza delle economie giunte per ultime allo sviluppo (Giacomo Costa).
Posti di fronte a questo coacervo di problemi espressi dal modo di produzione
di mercato e capitalistico, gli stati nazionali, i fori multinazionali, le varie espressioni della società civile e della democrazia partecipativa sono impegnati a rimuovere gli scompensi o quantomeno a lenirne manifestazioni ed effetti. Lo fanno fra
non poche difficoltà e non di rado con scarsi risultati, tanto da far parlare da alcuni anche di “fallimenti dello Stato” (Pier Angelo Mori; Ruggero Paladini).
Le carenze non si sono peraltro dimostrate tali da far sì che i “fallimenti” di
singoli mercati, settori, aspetti del sistema – e dello stesso Stato – si traducessero nel “fallimento” del sistema medesimo, nel suo rifiuto da parte della società,
nella sua sostituzione con altre organizzazioni produttive.
Nella storia alta del pensiero economico il quesito di fondo – se gli specifici
difetti si sarebbero, o meno, risolti in una più generale crisi del sistema – è stato
affrontato in varia guisa.
Gli economisti classici, movendo dall’impostazione macroeconomica e dinamica che ne caratterizza l’analisi, avevano oscillato tra prospettive ottimistiche e pessimistiche. Adam Smith sottolinea il circolo virtuoso tra divisione del
lavoro e ampliamento del mercato, e il ruolo delle motivazioni imprenditoriali.
La visione smithiana – sebbene niente affatto ispirata a fede acritica nella mano
invisibile (Rothschild, 2001) – è quella di uno sviluppo economico in armonia
con l’espansione e la diffusione del benessere sociale. All’opposto, per Marx il
sistema di mercato e il modo di produzione capitalistico sono, sempre nel loro
complesso, capaci di sviluppare in modo formidabile le forze produttive e tuttavia per le loro “contraddizioni” economico-sociali interne destinati a una inevitabile caduta e ad essere sostituiti da un altro sistema. Le posizioni intermedie
dei classici – Ricardo, Malthus, John Stuart Mill – pur sostenendo il sistema, ne
vedono l’evoluzione verso uno stato stazionario, con diversa sottolineatura dei
fattori che la determinano.
Nei classici la categoria dei fallimenti del mercato non si rinviene. Essa è
tipica della tradizione analitica marginalista e neoclassica. Nelle sue articolazioni questa non ha sistematicamente concluso a favore del sistema di mercato. Sono note le simpatie riformatrici, socialiste o radicali di economisti neoclassici, come Leon Walras e Knut Wicksell. È stata la codificazione successiva
della teoria dell’equilibrio economico generale, secondo un approccio all’origine decisamente statico, a definire e fissare il ruolo positivo del mercato di pura
concorrenza in termini di idoneità a garantire l’efficienza nel senso teorizzato
da Vilfredo Pareto (la condizione dell’uno può migliorare solo a scapito della
condizione dell’altro).
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introduzione
All’interno del filone neoclassico le situazioni nelle quali non si poteva raggiungere, attraverso il mercato, l’efficienza paretiana sono state riguardate come
eccezioni, che non implicano fallimento del sistema nel suo insieme ma ne minano singoli profili, da correggere con l’intervento pubblico.
I fattori alla base dell’inefficienza vengono soprattutto identificati come
quelli che impediscono, unitamente alla concorrenza perfetta, relazioni le quali trovino manifestazione adeguata in scambi e prezzi di mercato. Vi sono state,
nella recente teoria economica, posizioni che hanno tratto dalla constatazione
dei fallimenti del mercato la conclusione che il sistema stesso del mercato dovesse essere sostituito da una pianificazione razionale. Un esempio è quello di Oskar
Lange (1936), che attribuiva a un pianificatore centrale la capacità di imitare attraverso un processo di “prova ed errore” il processo di adeguamento di prezzi
e quantità tipico del modello walrasiano. La via proposta da Lange, come tutte
quelle che l’hanno seguita con raffinati strumenti matematici di pianificazione,
si è rivelata storicamente impraticabile. La valutazione positiva del ruolo del mercato nell’allocazione delle risorse viene giustificata sulla base del convincimento
che i fallimenti sono minoritari e possono essere corretti dall’azione dello Stato.
La perdita della concezione dinamica del mercato e della concorrenza nella
visione neoclassica di stampo walrasiano è stata messa in luce dall’approccio austriaco. Recuperando quella concezione Hayek è pervenuto a una visione decisamente ottimistica del capitalismo, mentre molto meno positiva per la futura capacità innovativa – “distruzione creatrice” – del sistema è la visione di Schumpeter.
Un’implicazione dell’indirizzo statico neoclassico è il riconoscimento quasi
automatico del ruolo almeno potenzialmente correttivo dello Stato. Ma le frequenti inadeguatezze dell’intervento pubblico – effettivamente privo di alcunché idoneo a garantirne l’automatico successo – hanno consentito alla scuola
della “Public Choice”, in particolare con James Buchanan, una rinnovata valorizzazione dell’economia di mercato. Contemporaneamente, i deludenti risultati emersi nell’Urss, nell’Europa dell’Est, nella Cina comunista e altrove – forse più delle stesse considerazioni di teoria economica sul socialismo fondate sul
contributo di Lange – inducevano molti a dubitare che siano politicamente riproponibili alternative al sistema dei mercati autoreferenziali.
Nonostante ciò si continua a discutere del capitalismo come sistema storico,
ovvero della sua sorte in prospettiva: se il sistema sia superabile da forme olistiche
di soluzione del problema economico, quali le diverse modalità di un “comunismo di mercato” (Boffito, 1979) o di una conduzione cooperativa, in autogestione, dell’attività produttiva da parte dei lavoratori (Jossa, 2015); se sia possibile il
passaggio a una società “poco capitalistica”, con ampi spazi sottratti ai meccanismi
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di mercato; se il governo dell’economia da parte dello Stato non possa tornare ad
affermarsi, dopo l’onda liberistica che ha prevalso dagli anni ’80 del Novecento.
Al di là dei giudizi di valore e della dimensione ideologica di cui è intrisa,
la questione è sotto il profilo economico semplicemente riconducibile alla somma algebrica dei benefici e dei costi del capitalismo, ai suoi esiti positivi confrontati con i suoi esiti negativi, come vissuti e percepiti dai cittadini del mondo (Hahn, 1993).
In estrema sintesi la congerie dei fallimenti si è tradotta – si traduce – in tre
principali negatività, di enorme momento. Come nessun altro modo di produzione l’economia di mercato capitalistica è instabile (nei prezzi dei beni e dei
servizi, nell’attività produttiva e nell’occupazione, nei valori dei cespiti patrimoniali reali e finanziari); frantuma la società in vincitori e vinti, ricchi e poveri;
ferisce l’ambiente sino a stravolgere l’equilibrio ecologico, a porre a repentaglio
le forme di vita sulla Terra.
Ma come nessun altro modo di produzione l’economia di mercato capitalistica è riuscita a moltiplicare la produzione, migliorando il tenore di vita degli
esseri umani. Con l’affermarsi su scala globale del capitalismo industriale, dal
1820 al 2003 (Maddison, 2008) il prodotto mondiale è aumentato molto più rapidamente della popolazione mondiale: il reddito medio pro capite dell’umanità è decuplicato, mentre sino al XVIII d.C. era rimasto tendenzialmente invariato. Anche il reddito della fascia più povera del genere umano è, nel volgere
dei due secoli, notevolmente aumentato.
Nella valutazione generale, delle opinioni pubbliche e delle classi dirigenti, questa straordinaria attitudine del capitalismo a incrementare la produzione – innalzando la produttività attraverso l’efficienza e il progresso tecnico – ha
prevalso sulle tre negatività del sistema, riconducibili ai fallimenti del mercato.
Che una siffatta capacità permanga, che sia estrapolabile al futuro, è ridivenuto oggetto di analisi e di discussione nei tempi recenti, segnatamente a seguito della crisi finanziaria che nel 2008 ha interessato i paesi anglosassoni e della recessione che nell’anno 2009 ha azzerato la crescita del prodotto mondiale.
Saggi reali d’interesse a lungo termine storicamente bassi, scarti del prodotto effettivo dal potenziale, eccessi ex ante del risparmio mondiale sull’investimento,
declino dei tassi di accumulazione e d’innovazione, dei prezzi relativi dei beni
capitali, della dinamica demografica: questi indizi, e altri ancora, hanno riproposto l’antico tema del rischio di un “secolare ristagno” dell’economia mondiale
(Teulings, Baldwin, 2014).
Di fatto, la crescita della produzione resta sostenuta. Dal 2003 al 2015 il Pil
mondiale è aumentato in volume al ritmo medio annuo del 3,5 per cento. Questo saggio di crescita, se è inferiore al 4,9 dell’età aurea 1950-1973, supera, sia pur
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introduzione
lievemente, il 3,2 del 1973-2003. La previsione del Fondo monetario internazionale di ottobre 2015 ancora scontava un’espansione del Pil mondiale del 3,6-4
per cento l’anno fra il 2016 e il 2020. La proiezione di Angus Maddison per il
periodo 2003-2030 (Maddison, 2008, Tab. 7.10, p. 392) vedeva il Pil pro capite
mondiale in crescita annua del 2,2 per cento, rispetto all’1,4 e all’1,8 realizzati,
rispettivamente, nel 1973-1990 e nel 1990-2003. La proiezione ipotizzava un rallentamento della dinamica demografica mondiale, dall’1,6 per cento l’anno del
1973-2003 all’1 per cento nel 2003-2030 (ivi, Tab. 7.1, p. 382 e Tab. A.2, p. 430).
Di fronte alle difficoltà provocate dagli shock esogeni, oltre che dalle proprie contraddizioni interne, il sistema trova vie di fuga, soluzioni nuove, compromessi, compensazioni: «Il capitalismo è sopravvissuto alle sue crisi e ha ottenuto grandi successi. Ma il capitalismo che è sopravvissuto e ha avuto successo
non è quello del 1929. Il capitalismo che avrà successo nei prossimi sessant’anni
potrebbe non essere quello del 1989. Gran parte del successo il capitalismo l’ha
avuto perché è stato capace di adattarsi […]. Possiede un nucleo centrale che
va difeso, se vuole rimanere tale. I contorni di questo nucleo centrale sono però
molto sfumati, possono mutare senza distruggere il capitalismo; devono mutare, a volte, perché esso sopravviva» (Stein, 1990, p. 127).
Un’ulteriore ragione della resilienza del sistema è che i suoi numerosi, potenziali “fallimenti”, descritti in questo libro, di rado si cumulano nella stessa
economia con effetti devastanti perché moltiplicativi. Le diverse economie sono
inoltre colpite dai “fallimenti” con modi, tempi, intensità non coincidenti, per
lo più variegati.
Un ultimo motivo della tenuta del capitalismo è che accanto al nucleo comune, per dirla con Stein, esistono “i capitalismi”, caratterizzati da specificità
nelle strutture, negli assetti istituzionali, nelle politiche economiche. Ai capitalismi “renano” (Germania), “anglo-sassone” (Usa, Regno Unito), “famigliare”
(Italia), “manageriale” (Giappone), “tecnocratico” (Francia), “neo-corporatista”
(Svezia) (Valli, 2004, Tab. 2, p. 101) si è aggiunto il capitalismo “partitico” della
Cina. I difetti del mercato e le risposte dello Stato si configurano molto diversamente in ciascuno di tali contesti. Ne risulta diversificato il rischio che l’intero
modo di produzione imploda.
Tutto ciò… concesso, resta la gravità dei difetti del mercato identificati e
valutati nei capitoli che seguono. Essi determinano e accentuano le già evocate,
fondamentali risultanze negative che affliggono il sistema – instabilità, iniquità, inquinamento – e ne limitano sia l’efficienza (livello della produttività) sia il
progresso tecnico (incremento della produttività).
I saggi contenuti in questo volume mostrano come sia necessario un ripensamento profondo a livello di teoria economica. Ciò non per rifiutare quanto è
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stato prodotto da decenni di pensiero economico neoclassico, o per riprodurre
meccanicamente e acriticamente l’analisi classica. Va recuperato un approccio
dinamico (tipico dei classici) alla stessa visione di efficienza. Si potranno meglio
trattare i conflitti che sorgono tra crescita economica e diffusione equilibrata del
benessere. Si eviterà di limitare a un semplice problema d’inflessibilità dei prezzi
esiti socialmente inefficienti, oltre che iniqui, come la disoccupazione, secondo
l’insegnamento di Keynes.
Lo Stato interviene quando l’efficacia della sua azione è avvalorata dalla teoria e dall’esperienza. Ma anche quando così non è, ovvie ragioni di ricerca del
consenso politico possono indurre i governanti a non astenersi dall’intervenire.
E lo Stato, di fatto, è presente nell’economia ad ampio spettro e in molteplici
forme: come legislatore, regolatore, allocatore di risorse, produttore, stabilizzatore, promotore di sviluppo.
La convivenza tra mercato e intervento pubblico è quindi necessaria, o inevitabile. Va ricercata la chiave corretta di tale rapporto, non di contrapposizione
o di sudditanza dell’un termine rispetto all’altro, ma di interazione attiva e di
simbiosi. Ciò accade nei molti casi di ruolo positivo dello Stato nella promozione della ricerca, dell’innovazione, del capitale umano, della stessa equità intesa
anche come uguaglianza delle opportunità.
Le ragioni che possono determinare l’insuccesso dell’intervento dello Stato
sono più d’una, di diversa natura: carenza d’informazione; imperfetta conoscenza
del complesso e mutevole operare dell’economia di mercato capitalistica; difetto
di strumenti; lentezza burocratica nel decidere; conflitto politico; asservimento
del pubblico al privato; subordinazione dell’economia alla politica fino all’estremo dello Stato predatore, del “tiranno” che sacrifica al proprio l’interesse generale.
Risposte dello Stato ai difetti del mercato vengono richiamate in ciascuno
dei saggi contenuti nel volume. Possono e devono essere rese più sicure, tempestive, efficaci. Non pochi dei loro limiti sono superabili. Nella sostanza, vanno
prevenute, rimosse le ragioni di insuccesso della politica economica appena evocate. Ma può essere altresì reso esplicito un duplice presupposto metodologico.
Occorre che dei “fallimenti del mercato” si abbia piena contezza secondo
una visione d’assieme, che se ne analizzino il radicamento e le interazioni, che si
eviti di riguardarli come singole deviazioni in un sistema nell’insieme ben funzionante e destinato a permanere.
Occorre inoltre chiarezza di distinzione fra le due forme generali che l’azione dello Stato può assumere: quella attraverso “meccanismi”, quella attraverso “strumenti”. I primi, una volta configurati, devono essere lasciati operare
in autonomia, secondo le regole e gli assetti con cui li si è istituiti. Spetta ai secondi perseguire le finalità contingenti, che di volta in volta s’impongono. Lo
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introduzione
strumento principe resta naturalmente il bilancio pubblico: il suo livello, soprattutto la sua composizione. Il meccanismo principe resta naturalmente l’ordinamento giuridico, soprattutto il diritto dell’impresa, fallimentare, amministrativo, del processo civile, del risparmio, della concorrenza. La ricerca recente
è unanime nel riscontrare sia la rilevanza di entrambi i momenti dell’intervento
statale sia le inefficienze che derivano dalla confusione fra l’uno e l’altro. Emblematico in Italia è stato il caso dell’IRI – l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, a controllo pubblico – sorto nel 1933 come “meccanismo”, a lungo ben
funzionante, liquidato nel 2002 dopo che di esso si era abusato come “strumento” pluriuso (Ciocca, 2014).
A monte – questo vuol essere il senso ultimo del libro – nulla è più azzardato, in economia politica, del cullarsi nell’assunto dei “mercati perfetti”.
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