«Filtro in appello», «doppia conforme» e «ridotta»

Opinioni
Fallimento
Impugnazioni
«Filtro in appello»,
«doppia conforme» e «ridotta»
censura in Cassazione
per vizio della motivazione
nei procedimenti fallimentari
di Francesco De Santis *
L’Autore analizza l’impatto che le modifiche al sistema codicistico delle impugnazioni civili (introdotte dal
D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134) potrebbero avere sulla disciplina delle impugnazioni della sentenza dichiarativa di fallimento, nonché dei rimedi oppugnatori endofallimentari, pervenendo alla conclusione che ai processi ed ai procedimenti fallimentari non possono in linea
generale applicarsi (fatte salve alcune particolarità riguardanti il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall.) le norme
di nuovo conio riguardanti l’appello civile ordinario, ma che trovano applicazione le disposizioni relative al ricorso in Cassazione, con particolare riferimento alla «ridotta» censura per vizio della motivazione.
1. Le impugnazioni civili secondo
il legislatore del 2012
Si intende verificare l’impatto sulle regole che governano le impugnazioni della sentenza dichiarativa
di fallimento, nonché le impugnazioni endofallimentari, delle modifiche apportare al sistema codicistico delle impugnazioni civili dal D.L. 22 giugno
2012, n. 83 (recante Misure urgenti per la crescita del
paese), conv., con modificazioni, in L. 7 agosto
2012, n. 134 (entrata in vigore il 12 agosto 2012),
relativamente ai seguenti articoli (modificati o introdotti ex novo) del c.p.c.:
– art. 342 c.p.c. (modificato), nella parte in cui esige che l’appello debba essere motivato, e che la motivazione debba contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento
che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta
dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata;
– art. 345 c.p.c. (modificato), che la legge del
2012 ha «mutilato» della previsione (già contenuta
nel terzo comma) secondo la quale, nel giudizio
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d’appello civile, il collegio poteva ammettere nuovi
mezzi di prova quando li ritenesse indispensabili ai
fini della decisione della causa: pertanto, oggi residua alle parti la sola possibilità di depositare in appello documenti in precedenza non prodotti per
causa non imputabile;
– art. 348 bis c.p.c. (introdotto ex novo), recante
una previsione d’indole generale di inammissibilità
dell’appello civile, che ricorre tutte le volte in cui
l’impugnazione non ha una «ragionevole probabilità di essere accolta» (1). La disposizione non si apNote:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) Tra i primi orientamenti applicativi, si segnala che la Corte
d’appello di Roma, con ordinanza del 23 gennaio 2013, ha ritenuto che «l’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, cosı̀ palesemente infondato
da non meritare che siano destinate ad esso le energie del servizio-giustizia, che non sono illimitate; questo a parere del collegio è il senso della riforma, volta ad interdire l’accesso alle (ed
alle sole) impugnazioni dilatorie e pretestuose. L’ordinanza ex
art. 348 bis c.p.c., per questa via, si inserisce in un ampio intervento legislativo volto a sanzionare l’abuso del processo, abuso
in cui si risolve l’esercizio del diritto di interporre appello in un
quadro di plateale infondatezza».
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plica nelle controversie in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero e nei giudizi d’appello
avverso le ordinanze pronunziate all’esito del processo cd. sommario di cognizione ex art. 702 bis e
seguenti c.p.c.;
– art. 348 ter c.p.c. (introdotto ex novo), a mente
del quale la pronunzia d’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis è resa dal giudice, sentite le
parti, con ordinanza succintamente motivata (che
provvede anche sulle spese) in limine della prima
udienza, prima di procedere alla trattazione dell’appello, anche mediante il rinvio agli elementi
di fatto riportati in uno o più atti di causa ed il riferimento a precedenti conformi. L’ordinanza d’inammissibilità è pronunciata solo quando sia per
l’impugnazione principale che per quella incidentale tempestiva ricorrono i presupposti di cui all’art. 348 bis, altrimenti si procede alla trattazione
di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza. Inoltre, quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo
grado può essere proposto il ricorso in cassazione
ex art. 360 c.p.c., e il relativo termine decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore,
della suddetta ordinanza. Quando, però, l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti
alle questioni di fatto, poste a base della decisione
impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per i motivi di cui ai nn. 1-4 dell’art. 360 c.p.c., ma non per omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti, di cui al n. 5) dell’art.
360 c.p.c.;
– art. 360 c.p.c. (modificato), il cui n. 5 del primo
comma prevede oggi che il ricorso in Cassazione
per vizio della motivazione può essere proposto
(non più anche per motivazione insufficiente e
contraddittoria, ma soltanto) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ai sensi dell’ultimo
comma dell’art. 348 ter, fatta eccezione che per le
controversie in cui è obbligatorio l’intervento del
pubblico ministero, tale motivo di ricorso non può
essere sperimentato avverso la sentenza d’appello,
che conferma la decisione di primo grado (c.d.
«doppia conforme»).
L’art. 54 del D.L. n. 83/2012 (conv. in L. n. 134/
2012) dispone che le suesposte innovazioni e modifiche legislative riguardanti il giudizio d’appello si
applicano ai giudizi introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione del de-
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creto legge; mentre la modifica dell’art. 360 c.p.c. si
applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge. L’art. 54 cit.
reca altresı̀ una previsione espressa di non applicabilità del sistema normativo sopra descritto alle
controversie tributarie, governate dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (2).
Al non agevole tentativo di offrire una prima interpretazione delle novità legislative hanno già atteso
importanti contributi autoriali (3), e si è giustamente posto in evidenza come l’idea di fondo che
percorre i descritti interventi normativi sia che la
sentenza di primo grado (e, ancor più, quella d’appello) è già idonea ad individuare la giusta soluzione della lite, sicché è consentito restringere lo spazio dei gravami, «visti come una sorta di genere voluttuario da disincentivare» (4).
Note:
(2) Il cui art. 1, comma 2, reca un rinvio, per tutto quanto non disposto dallo stesso D.Lgs. n. 546 alle norme del c.p.c., in quanto compatibili. Alla luce delle riforme del 2012, tale rinvio appare, invero, di problematica interpretazione: secondo quanto a
me pare, esso dovrebbe oggi ritenersi effettuato al sistema delle norme del c.p.c. sull’appello civile e sul ricorso in Cassazione
previgente alla L. n. 134/2012, anche se resta da stabilire circa
l’applicabilità al processo tributario delle future eventuali previsioni, che dovessero introdurre, in parte qua, ulteriori modifiche
al c.p.c.
(3) AA.VV., L’appello e il ricorso per cassazione nella riforma
del 2012 (d.l. 83/12, convertito, con modificazioni, in l. 134/12),
in Foro it., 2102, V, 281 ss. (con contributi di D. Dalfino, Premessa; di M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile;
di G. Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello; di R. Caponi, La riforma dell’appello civile; di G. Impagnatiello, Il filtro di
ammissibilità dell’appello; e di I. Pagni, Gli spazi per impugnazione dopo la riforma estiva); AA.VV., Relazioni al convegno Il
nuovo giudizio di cassazione dopo la legge n. 134 del 2012, tenuto in Roma, Aula magna della Corte di cassazione, l’8 novembre 2012 ed organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Ufficio dei Magistrati Referenti per la Formazione Decentrata presso la Corte Suprema di Cassazione (con contributi
in dattiloscritto di R. Caponi, La riforma dei mezzi di impugnazione; di G. Costantino, Gli effetti sul giudizio di Cassazione della riforma dell’appello; e di C. Di Iasi, Il vizio di motivazione dopo la legge n. 134 del 2012); A. Carratta, Il giudizio di Cassazione nell’esperienza del ‘‘filtro’’ e nelle recenti esperienze legislative, in Giur. it., 2013, 241; C. Consolo, Nuovi ed indesiderabili
esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio
di ‘‘svaporamento’’, in Il Corriere giuridico, 2012, 1133 ss.; G.
Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del filtro, in www.Treccani.it; A. Didone, Note sull’appello inammissibile perché probabilmente infondato e il vizio di motivazione in
Cassazione dopo il decreto legge cd. ‘‘sviluppo’’ (con il commento anticipato di Calamandrei), in Giur. it., 2012; G. Trisorio
Liuzzi, Il ricorso in Cassazione. Le novità introdotte dal D.L. 83/
2012, in www.judicium.it (5 marzo 2013); G. Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it
(14 novembre 2012).
(4) Cosı̀ C. Consolo, op. cit., 1139.
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2. Modelli cognitivi e garanzie
impugnatorie nei processi e procedimenti
(endo)fallimentari
La dichiarata intenzione delle riforme della legge
concorsuale del 2006-2007 è stata di calare il tema
delle garanzie processuali, che devono assistere la
dichiarazione di fallimento (allo stesso modo che i
procedimenti endofallimentari), nel «contenitore
neutro» del modello dei procedimenti in camera di
consiglio, sia pure «aggiustato» all’abbisogna e calibrato sulla finalità di assicurare il rispetto del principio del contraddittorio (5).
Se queste sono le premesse, vi è stato, a mio avviso,
un equivoco tecnico di fondo: che, cioè, il modello
camerale sia una sorta di «prezzemolo» buono per
ogni minestra, e che il suo utilizzo (asserı̀tamente
più semplice e spedito) sia fungibile, quanto al tema delle garanzie, col modello del rito ordinario a
cognizione piena. Si dimentica cosı̀ che il mero,
neutrale richiamo alle forme del procedimento in
camera di consiglio rende libero l’interprete di ricostruire il procedimento nel modo più adeguato alla
sua «sostanza», cioè al suo oggetto ed alla sua funzione (6).
Ed invero, laddove il legislatore realizza, anche a
prescindere dal nomen juris prescelto, un processo a
cognizione piena, all’accertamento contenuto nella
sentenza passata in giudicato è attribuita autorità di
cosa giudicata sostanziale in tutti i futuri giudizi tra
le stesse parti (7).
Se un provvedimento del giudice, che statuisce su
diritti soggettivi, ambisce a raggiungere lo stato di
immodificabilità e di vincolatività che discende
dalla cosa giudicata sostanziale, occorre che esso sia
pronunziato al termine di un procedimento modellato secondo i canoni del dovuto processo legale,
caratterizzato da una struttura «tale da poter rimediare essa stessa ai suoi difetti» (8), atteso che il
giudicato «si congiunge ad un articolato sistema di
impugnazioni ed anzi ne è la matrice ispirativa»,
epperciò «dove quell’insieme di gravami non è applicabile e tutto si riduce ad un solo, atrofizzato
mezzo di controllo, difettano le premesse essenziali
del giudicato formale e la ratio legis di questo esclude ogni riferimento ad esso» (9).
Non è stato questo il percorso seguito negli anni
dalla giurisprudenza, propensa ad individuare nel
modello camerale una sorta di «contenitore neutro», nel quale possono trovare spazio sia i provvedimenti di c.d. «volontaria giurisdizione», sia i
provvedimenti di natura «contenziosa». Questo
«contenitore» sarebbe in grado, da un lato, di assi-
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curare la speditezza e la concentrazione del procedimento, e, dall’altro, di rispettare i limiti imposti all’incidenza della forma procedimentale dalla natura
della controversia, che, quando ha ad oggetto diritti, impone l’applicazione di precise garanzie costituzionali, espressamente imposte dall’art. 111
Cost. (10). Ciò ha fatto sı̀ che la giurisdizione camerale - assumendo forme e diramazioni sovente
non riconducibili ad un modello sistematico unitario - si sia progressivamente allontanata dal rito camerale propriamente detto, per ammantarsi di forme tipiche del giudizio ordinario (11).
Note:
(5) La Relazione governativa allo Schema del D.Lgs. n. 5 del
2006, presentato dal governo alle assemblee parlamentari, professa che «in esecuzione del principio di delega [art. 6, n. 1, lett.
c), D.L. n. 35 del 2005, conv. in L. n. 80 del 2005, n.d.r.] che
prescrive l’accelerazione e l’abbreviazione delle procedure, è
stata effettuata un’ampia ed approfondita riflessione circa la
scelta di un possibile modello per i procedimenti endofallimentari»; e che «la ricerca di un modello unitario per le controversie
endofallimentari ha indotto a conservare il modello camerale
configurato in modo da assicurare speditezza del rito, pienezza
di contraddittorio e diritto alla prova, appellabilità della sentenza». Si chiede A. Carratta, Profili processuali della riforma della
legge fallimentare, in Dir. fall., 2007, 2, se la norma di delega nel facultare il governo a perseguire «l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia» - avesse inteso
sospingere il delegato ad introdurre nuovi riti speciali di cognizione, oppure a perseguire l’adattamento del rito di ordinaria cognizione alla particolare realtà fallimentare, se del caso comprimendo i termini processuali e sopprimendo formalità non essenziali
al contraddittorio. Propendo per la prima delle due tesi, per l’illustrazione della la quale rinvio a F. De Santis, Sulla «degiurisdizionalizzazione» del concorso collettivo e sui limiti dei giudicati endofallimentari dopo le riforme, in Riv. dir. proc., 2008, 367 ss.
(6) Secondo la consolidata lezione di A. Cerino Canova, Per la
chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, I, 479 ss.; di L. Montesano, ‘‘Dovuto processo’’ su diritti incisi da giudizi camerali e
sommari, in Riv. dir. proc. 1987, I, 479 ss.; e di L. Lanfranchi, I
procedimenti camerali decisori nelle procedure concorsuali e
nel sistema della tutela giurisdizionale dei diritti, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 1989, 948 (al quale è riferibile l’espressione adoperata nel testo).
(7) A. Proto Pisani, Verso la residualità del processo a cognizione piena?, in Foro it., 2006, V, 53.
(8) Cosı̀ A. Cerino Canova, op. cit., 451
(9) A. Cerino Canova, ivi, 449. Anche G. Tarzia, Intervento, in I
procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, Milano,
1991, 268 s., ha ritenuto che una mera «illusione» il tentativo di
correggere il procedimento in camera di consiglio disegnato dal
c.p.c. avvalendosi di «operazioni creative, praeter, anzi contra legem», con lo scopo di non applicare il processo di cognizione
ordinario.
(10) Il leading case di questo orientamento è rappresentato da
Cass. Sez. Un., 19 giugno 1996, n. 5629, in Foro it., 1996, 3070,
con nota di M.G. Civinini, in Giur. it., 1996, I, 1, 1300, con nota
di A. Carratta, in Fam e dir., 1996, 305, con nota di F. Tommaseo. Di «contenitore neutro» discorrono anche Cass. 28 luglio
2004, n. 14200, e di Cass. 16 luglio 2004, n. 13171.
(11) Cosı̀ Cass. 20 febbraio 1998, n. 1850. Come è noto, la dottrina ha sovente contrastato l’«abuso» del ricorso legislativo al
(segue)
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Dunque, il processo a cognizione piena rimane «baluardo inespugnabile di garanzia», anche se non più
«la via necessaria da percorrere per la tutela di
qualsiasi diritto», perciò, in questo senso, ormai
«residuale» (12).
Anche il legislatore della riforma fallimentare - pur
non chiamando, come si suol dire, le cose col loro
nome (e cioè definendo camerali quelli che in realtà sono processi di cognizione) - ha rafforzato talune, nevralgiche garanzie procedimentali delle parti,
sia nel corso del processo per la dichiarazione di fallimento, sia nell’ambito dei procedimenti endofallimentari, rendendo per questa via idonee al giudicato molte delle pronunce ivi emesse.
Al «crocevia» della formazione del giudicato, vi è,
naturalmente, la tematica delle impugnazioni.
Perciò, l’interrogativo che si siamo posti all’inizio cioè se ed in quale misura le disposizioni introdotte
nella disciplina dell’appello e del ricorso in Cassazione dalla L. n. 134/2012 siano applicabili ai processi ed ai procedimenti fallimentari - si risolve, innanzi tutto, nello stabilire se e quali disposizioni
dell’appello ordinario e del giudizio davanti alla
Corte di cassazione trovino applicazione nella materia fallimentare.
Per rispondere a questo interrogativo, soccorrono a
mio avviso due possibili parametri di valutazione:
a) la compatibilità delle nuove disposizioni del
c.p.c. con la specialità dei modelli processuali fallimentari (13), specialità che rende tendenzialmente
residuale l’applicazione delle norme codicistiche; b)
l’oggetto, la natura e la funzione dei rimedi impugnatori (ovvero oppugnatori) di volta in volta previsti dalla legge fallimentare.
Anticipando i risultati di queste brevi riflessioni, è
mia opinione che ai processi ed ai procedimenti fallimentari non possano applicarsi le norme, di nuovo conio, riguardanti l’appello ordinario (fatte salve, come si vedrà, talune ricadute sistematiche del
nuovo testo dell’art. 342 c.p.c.), ma che ad esse si
applichino le disposizioni relative al ricorso in Cassazione, con particolare riferimento alla «ridotta»
censura per vizio della motivazione.
3. I riflessi delle riforme del 2012
sulle impugnazioni della dichiarazione
di fallimento: a) ambito di estensione
È da più parti riconosciuto che il vigente art. 15
l.fall. - a dispetto del richiamo testuale, in esso contenuto, alle modalità dei procedimenti in camera di
consiglio - abbia disegnato un processo «contenzioso» di primo grado a cognizione piena, ancorché
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«differenziato», disciplinando in maniera particolareggiata le fasi di instaurazione e di svolgimento del
contraddittorio e tipizzando le garanzie difensive
delle parti (14).
Né poteva essere diversamente, atteso che il procedimento in questione, in caso di accoglimento della
Note:
(segue nota 11)
procedimento camerale, opponendosi ad una sorta di «cameralizzazione» del giudizio su diritti soggettivi, cioè all’utilizzo delle
forme camerali per offrire tutela a diritti soggettivi, riaffermando,
al contempo, la centralità della cognizione ordinaria e la necessaria correlazione tra quest’ultima e il giudicato sostanziale sui
diritti. In tema v., per tutti, A. Proto Pisani, Usi ed abusi della
procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Riv. dir. civ., 1990,
393.
(12) È la conclusione cui approda A. Proto Pisani, Verso la residualità del processo a cognizione piena?, cit., 59, ed ivi interessanti proposte de jure condendo.
(13) Siffatta specialità è normativamente attestata, a tacer d’altro, dall’art. 54 della L. 19 giugno 2009, n. 69 - norma recante la
delega al governo per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale che ha testualmente escluso la possibilità di intervenire (al fine
di ricondurle ad uno dei tre modelli processuali di riferimento individuati dalla legge, ossia la cognizione ordinaria, il rito del lavoro ed il procedimento cd. sommario di cognizione) sulle disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, dunque
anche sull’istruttoria prefallimentare e sul processo di fallimento
in generale, che restano, in parte qua, «sganciati» dalla necessità di sottoporsi ad un rito di riferimento.
(14) Rinvio, per più lungo discorso e per i riferimenti giurisprudenziali ed autoriali, a F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, 142 ss. Nel senso che si tratti di
un procedimento di cognizione piena base contenziosa, v. anche M. Fabiani, sub art. 18, in Il nuovo diritto fallimentare a cura
A. Jorio e M. Fabiani, I, Bologna, 2006, 352. V., però, anche M.
Montanari, La nuova disciplina del giudizio di apertura del fallimento: questioni aperte in tema di istruzione e giudizio di fatto,
in Il fallimento, 2007, 561 ss. il quale tende, se ho ben compreso, a collocare la nuova istruttoria prefallimentare ancora sul terreno della cognizione «cameral-sommaria», pur sostenendo la
persistente applicabilità della regola decisoria dell’onus probandi
di cui all’art. 2697 c.c.; C. Punzi, La dichiarazione di fallimento,
in Trattato delle procedure concorsuali diretto L. Ghia, C. Piccininni e F. Severini, Torino, 2011, 7, il quale discorre di un «procedimento di natura contenziosa, che si svolge con forme camerali miste», con contraddittorio pieno ed idoneo ad incidere
su diritti soggettivi. La Corte di cassazione, dal canto suo, ha
statuito che «l’istruttoria prefallimentare è disciplinata ex novo
dall’art. 15 l.fall., nel testo introdotto dalla riforma del 2006, come un procedimento speciale a cognizione piena, nel quale vengono ammessi, d’ufficio o su richiesta delle parti, ‘‘mezzi istruttori’’ ed è disposta ‘‘una consulenza tecnica’’, talché è stata
coerentemente eliminata la fase dell’opposizione quale ‘‘prosecuzione’’ con cognizione piena del procedimento (sommario)
per la dichiarazione di fallimento, cosı̀ come disciplinato dal testo previgente» (Cass. 22 gennaio 2010, n. 1098, in obiter dictum della motivazione); e che comunque «è ormai pacifico che
il procedimento per la dichiarazione di fallimento sia un procedimento a cognizione piena, sia pure da svolgersi con il rito camerale, a cui vanno applicati i principi in materia di giudizi contenziosi, primo fra tutti quello del contraddittorio» (Cass., 29 ottobre
2009, n. 22926, in questa Rivista, 2010, 557 ss., anche in questo caso in obiter dictum della motivazione).
Il Fallimento 4/2013
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domanda di fallimento, è destinato a concludersi
con una sentenza che incide su diritti, sicuramente
idonea al giudicato sostanziale.
Identico discorso è a farsi per quanto riguarda la natura giuridica del processo di reclamo ex art. 18
l.fall., che dall’istruttoria prefallimentare mutua inevitabilmente la natura di processo a cognizione piena, destinato a concludersi con provvedimenti idonei al giudicato, e che è governato, in rapporto al
modello processuale dell’appello ordinario, da regole di specialità, coessenziali alla materia fallimentare (15). In questo contesto, il nomen reclamo «può
rivelarsi neutrale rispetto alle classificazioni impugnatorie e nulla più che una, perniciosa, espressione
decettiva» (16).
Le considerazioni che qui di seguito si svolgeranno
a proposito dell’incidenza delle riforme del 2012 riguardano, innanzi tutto, le impugnazioni della dichiarazione di fallimento ex art. 18 l.fall.
Ritengo che, mutatis mutandis, identiche considerazioni possano valere con riferimento a quelle impugnazioni, che, testualmente o indirettamente, si
adagiano sul modello dell’art. 18, e dunque:
a) alle impugnazioni della sentenza di riapertura del
fallimento ex art. 121, terzo comma, l.fall., norma
che assoggetta espressamente tale sentenza al reclamo ai sensi dell’art. 18, applicandosi le regole di tale giudizio;
b) alle impugnazioni dei provvedimenti di risoluzione e di annullamento del concordato fallimentare
(artt. 137 e 138 l.fall.), nonché del concordato preventivo (art. 186), stante la regola dettata dall’art.
137 (richiamato anche dall’art. 186), secondo la
quale ai procedimenti di risoluzione e di annullamento dei concordati «si applicano le disposizioni
dell’articolo 15 in quanto compatibili» (17);
c) alle impugnazioni del decreto di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, allorché venga
contestualmente dichiarato il fallimento, atteso l’esplicito richiamo all’art. 18 l.fall. contenuto nel secondo comma dell’art. 173;
d) alle impugnazioni della sentenza che dichiara il
fallimento nelle ipotesi di rigetto del concordato
preventivo, quando ricorrono le condizioni di cui
al settimo comma dell’art. 180, e dell’art. 183 l.fall.
Nel novero di cui sopra si inserisce, a mio avviso,
anche il reclamo avverso il decreto di rigetto della
domanda di fallimento, proposta ai sensi dell’art.
22 l.fall. (18). Il provvedimento che definisce il reclamo è, tuttavia, ritenuto dal diritto vivente non
impugnabile in Cassazione (19), salvo che per la
parte in cui fa governo delle spese del giudizio (20).
Il Fallimento 4/2013
4. (Segue): b) la specificità dei motivi
di reclamo ed il «filtro»
Viene, ai nostri, fini per prima in rilievo la previsione, contenuta nel secondo comma dell’art. 18
(introdotta dal D.Lgs. n. 169 del 2007), in base alla quale il reclamante deve esporre, fin dall’atto introduttivo, i fatti e gli elementi di diritto su cui si
basa l’impugnazione, il che equivale a dire che deNote:
(15) Cfr. App. Torino, 22 novembre 2006, in Foro it., 2007, I,
1532 ss., 1544, con nota di M. Fabiani, La transizione dall’opposizione di fallimento all’appello contro la sentenza dichiarativa di
fallimento e le acquisizioni probatorie.
(16) L’espressione è di M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare.
Aggiornamento al d.lgs. n. 169/2007, Bologna, 2007, 13. Nel
senso che l’adozione del nomen di reclamo è circostanza neutra, inidonea a modificare la natura e la disciplina dell’istituto, ricavate dal sistema e fissate dal dato positivo, v. anche E. Forgillo, L’impugnazione della sentenza di fallimento, in Fallimento e
concordati, a cura di P. Celentano e E. Forgillo, Milano, 2008,
161 ss.; G. Minutoli, Le iniziative di fronte alla sentenza dichiarativa di fallimento tra appello e reclamo: impugnazione devolutiva
o modifica «di facciata»?, in questa Rivista, 2008, 259 ss.; N.
Rascio, Reclamo devolutivo avverso la sentenza di fallimento o
fallimento del reclamo?, in Dir. giur., 2007, 341; Id., Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv.
dir. proc., 2008, 955 ss.
(17) Rileva A.M. Azzaro, sub art. 137, in Commentario alla legge
fallimentare diretto da C. Cavallini, II, Milano, 2010, 163, che la
fattispecie prevista dall’art. 137 viene disciplinata dall’art. 15,
«in quanto il giudicante è chiamato a pronunziarsi in un giudizio
di merito di natura contenziosa attinente la prospettata risoluzione per inadempimento».
(18) Le indicazioni normative relative al procedimento di reclamo, contenute nell’art. 22 l.fall. sono assai scarne, limitandosi la
norma a prevedere che la corte d’appello, sentite le parti, provveda in camera di consiglio con decreto motivato. La norma non
chiarisce se debba essere adottato il medesimo procedimento,
anch’esso definito «camerale», dell’istruttoria prefallimentare ex
art. 15 l.fall. (come ritiene F. Marelli, sub art. 22, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di A, Jorio e M. Fabiani, I, Bologna, 2006,
415), sul presupposto che il giudizio in questione abbia la medesima finalità di accertamento della sussistenza dei presupposti
per la dichiarazione di fallimento, e se perciò alla corte d’appello
debbano riconoscersi i medesimi poteri attribuiti al tribunale in
primo grado (in questo senso v. G. Cavalli, La dichiarazione di
fallimento. Presupposti e procedimento, in AA.VV., La riforma
della legge fallimentare a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006,
54); oppure se debba adottarsi il procedimento camerale «comune» di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. (F. D’Aquino, sub art. 22, in
La legge fallimentare. Decreto legislativo 12 settembre 2007, n.
169 a cura di M. Ferro, Padova, 2007, 169). Nel silenzio del legislatore, si devono, a mio avviso, ritenere applicabili le medesime regole che governano il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall.,
e, per questa ragione, il procedimento in questione rientra nello
spettro della presente analisi.
(19) Cass. 23 febbraio 2011, n. 4417; Cass., 11 settembre
2007, n. 11096; Cass., sez. un., 7 dicembre 2006, n.26181,
ord.; Cass., 7 ottobre 2005, n. 19643. Per una lettura di segno
parzialmente diverso, che valorizza, ai fini del rimedio impugnatorio, l’idoneità al giudicato del provvedimento di rigetto, rinvio a
F. De Santis, op. cit., 551 ss.
(20) Cass. 21 dicembre 2010, n. 21818.
397
Opinioni
Fallimento
ve formulare veri e propri «motivi» di impugnazione (21).
I motivi del reclamo sono «conformativi» dell’oggetto dell’impugnazione (ed, indirettamente, della
sua natura, più o meno devolutiva) (22), nonché
delle facoltà istruttorie riconosciute dalla legge alle
parti in questa fase di gravame. Essi attengono alla
ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di
fallimento, presupposti che non si limitano a quelli
sostanziali dell’insolvenza e della qualità di imprenditore commerciale non piccolo (e non pubblico),
ma si estendono ai presupposti di validità formale o
processuale della sentenza di fallimento, quali la
giurisdizione, la competenza territoriale, la dichiarazione di fallimento entro l’anno dalla cessazione
dell’attività, la soglia di rilevanza dell’insolvenza,
per non dire dei motivi di nullità della sentenza impugnata.
Può, dunque, ritenersi che la modifica dell’art. 342
c.p.c. - se, da un lato, ha rafforzato il dato sistematico generale, che impone la specificità dei motivi di
impugnazione - dall’altro lato non pare collı̀dere
con le (già specifiche) previsioni dell’art. 18 l.fall.,
dovendo il reclamante, sulla base di quest’ultima
disposizione, certamente (ed a maggior forza) indicare le parti della sentenza dichiarativa di fallimento che intende appellare e le modifiche richieste alla ricostruzione dell’insolvenza compiuta nel corso
dell’istruttoria prefallimentare, nonché indicare le
circostanze da cui deriva l’invocata violazione di
legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (23).
Si tratta di risultati già acquisiti dal diritto vivente,
che la riforma del 2012 ha confermato ed esplicitato, senza con ciò trasformare l’appello da impugnazione a motivi illimitati ad impugnazione a motivi
limitati (24).
Insomma, il principio della specificità dei motivi di
impugnazione, richiesta tanto dall’art. 342 c.p.c.,
quanto (nella materia che ci riguarda) dall’art. 18
l.fall., impone, sotto pena d’inammissibilità, all’impugnante (reclamante) di individuare in ogni caso
con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e
le censure in concreto mosse alla motivazione della
sentenza impugnata, in modo che sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da
colui che ha proposto l’impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata (25).
La specificità delle censure articolate in sede di gravame serve altresı̀ a circoscrivere, mercé l’operare
del principio devolutivo, l’ambito cognitivo del giudizio d’impugnazione, nel senso di (man)tenerlo
398
dentro i limiti delle questioni dedotte dall’impugnante attraverso i motivi specifici: la specificità
esige, pertanto, che alle argomentazioni svolte nella
sentenza impugnata vengano contrapposte quelle
dell’impugnante, volte ad incrinare il fondamento
logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono.
Se tali principi sono applicabili, come io credo, al
giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall., ne deriva che il
Note:
(21) Di diverso avviso è G. Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo del fallimento, in AA.VV., Le riforme della
legge fallimentare a cura di A. Didone, I, Torino, 2009, 349, secondo il quale - stante la scelta del legislatore per la forma del
reclamo, tipico mezzo di impugnazione dei provvedimenti camerali - non si vedono ragioni sufficienti per escludere che nel giudizio di impugnazione possano proporsi tutte le questioni non
sollevate davanti al tribunale in primo grado, o già proposte, ed
essere utilizzato ogni mezzo di prova, senza limite alcuno. Il medesimo Autore esclude che l’istruttoria prefallimentare possa
considerarsi un giudizio di primo grado a cognizione piena, ma
concorda sul fatto che lo sia il procedimento di reclamo, al pari
di «tutti gli altri processi sommari quali non si applicano i principi
fondamentali dell’ordinario giudizio contenzioso» (350).
(22) In quanto, se si fosse voluto attribuire al giudice del reclamo una cognizione integrale, tale da sovrapporsi completamente a quella del giudice di primo grado, non sarebbe stato necessario stabilire che il reclamante deve esporre i motivi di impugnazione (cosı̀ M. Fabiani, Diritto fallimentare, Bologna, 2011,
192). Per l’esposizione delle ragioni che militano nel senso dell’efficacia non automaticamente ed integralmente devolutiva del
reclamo ex art. 18 (tematica attorno alla quale la giurisprudenza
della Cassazione appare, allo stato, divisa), rinvio a F. De Santis,
Per un tentativo di chiarezza di idee attorno al preteso effetto
devolutivo ‘‘pieno’’ del reclamo contro la sentenza dichiarativa
di fallimento, in questa Rivista, 2012, 1186 ss., ed ivi riferimenti
giurisprudenziali e dottrinali.
(23) Ben chiaro essendo che «il singolo motivo d’appello (e non
l’appello nella sua interezza) deve sempre coerenziarsi con il ribaltamento della decisione, sı̀ che ne viene confermato il principio per il quale l’appello non è - nel suo complesso - ammissibile se non vengono censurate tutte le parti della decisione aventi
un’efficacia decisionale autonoma (la pluralità delle rationes decidendi)» (cosı̀ M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, cit., 285).
(24) Cosı̀ G. Costantino, Gli effetti sul giudizio di Cassazione della riforma dell’appello, cit., 6 s. del dattiloscritto.
(25) Cass., 17 luglio 2007, n. 15952; Cass., 11 ottobre 2006, n.
21816. Alla luce della riforma dell’art. 342 c.p.c. - che, valorizzando la sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione non
specificamente formulata, riverbera, a livello di interpretazione
sistematica, i suoi effetti anche sull’art. 18 l.fall. - ritengo che
non si possa aderire alla tesi di G. Minutoli, Le iniziative di fronte
alla sentenza dichiarativa di fallimento tra appello e reclamo: impugnazione devolutiva o modifica «di facciata»?, in questa Rivista, 2008, 254, secondo il quale, nell’ipotesi di incompletezza
degli elementi oggettivi del reclamo, l’assenza di una previsione
espressa d’inammissibilità del gravame dovrebbe spingere l’interprete a ritenere applicabile la disciplina delle nullità dell’atto
introduttivo ex art. 164 c.p.c., sanabili attraverso il raggiungimento dello scopo, ossia con l’integrazione dell’atto carente, anche su sollecitazione del giudice, effettuata nel corso dell’udienza.
Il Fallimento 4/2013
Opinioni
Fallimento
reclamante non può oggi confidare (soprattutto dopo le riforme del 2012) nell’esercizio di poteri officiosi (ovvero lato sensu «inquisitori») della corte
d’appello, che non è investita del potere di rilevare
motivi di censura non specificamente articolati, ovvero fatti impeditivi, modificativi o estintivi della
pretesa impugnatoria (26).
Se, però, il rafforzamento sistematico del principio
di specificità dei motivi di impugnazione ha un’inevitabile ricaduta sistematica anche sul reclamo fallimentare, non cosı̀ può dirsi con riferimento alla
previsione del c.d. «filtro» all’appello, di cui alla disposizione dell’art. 438 bis c.p.c.
Difatti, per espresso dettato normativo, il filtro non
trova applicazione nelle controversie di cui all’art.
70 c.p.c., ossia nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero. Poiché tra queste controversie sono inserite (dall’art. 70. n. 1, c.p.c.) anche
le cause che lo stesso pubblico ministero potrebbe
proporre, e poiché, ai sensi degli artt. 6 e 7 l.fall., il
pubblico ministero può esercitare l’iniziativa per la
dichiarazione di fallimento, non v’è dubbio che
l’art. 348 bis c.p.c. non trova applicazione nel giudizio ex art. 18 l.fall.
Peraltro, attesa l’esigenza di «concentrazione» del
rito, a cui è ispirato il giudizio di reclamo davanti
alla corte d’appello, che di solito si esaurisce in
un’unica udienza (con eventuale appendice per note difensive scritte), l’applicazione del filtro non
avrebbe neppure senso, in considerazione della finalità «deflattiva» da esso perseguita.
5. (Segue): c) la produzione di documenti
nuovi nel giudizio di reclamo
Il secondo comma, n. 4), dell’art. 18 l.fall. prescrive
che nel reclamo si dia indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.
La norma non dice espressamente se i resistenti
possono formulare eccezioni nuove, e se le parti
possono depositare documenti ed articolare mezzi di
prova, parimenti nuovi.
Essa, inoltre, non contiene espresse previsioni volte
ad introdurre, a carico delle parti, preclusioni di carattere assertivo o probatorio.
Ponendosi sul terreno del recepimento, in quanto
non diversamente disposto dalla legge, delle norme
della cognizione ordinaria, dovremmo predicare
l’applicabilità in parte qua dell’art. 345 c.p.c., nel testo riformato dalla legge dell’agosto 2012, e concludere che nel giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall.
non sia possibile depositare documenti non versati
Il Fallimento 4/2013
agli atti del primo grado, ovvero chiedere nuovi
mezzi di prova costituendi, a meno che la parte
non dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (27).
Prima dell’ultima modifica dell’art. 345 c.p.c., l’articolazione di nuove prove ed il deposito di nuovi
documenti potevano essere autorizzati dal giudice
dell’appello, il quale ritenesse tali prove indispensabili ai fini della decisione.
La previsione acquista uno spiccato rilievo in relazione a quanto dispone l’art. 1 l.fall. (che pone a
carico del debitore l’onere di dimostrare di non
possedere i requisiti soggettivi e quantitativi, che
la legge richiede ai fini della dichiarazione di fallimento) e del fatto che «aumentano statisticamente in modo imponente le ipotesi nelle quali il debitore non comparso in primo grado venga dichiarato fallito e ritenga di potersi difendere per la prima volta in sede di reclamo», sicché l’impossibilità, per questi soggetti, di introdurre nella fase del
reclamo nuovi fatti impeditivi e nuove eccezioni
in senso stretto, nonché nuovi documenti e nuove
prove, li lascerebbe «irrimediabilmente falliti, pur
se non dotati in concreto delle soglie quantitative
minime che il legislatore ha ritenuto necessarie
per poter utilizzare lo strumento del fallimento» (28).
Mossa, probabilmente, da questa preoccupazione, la
Corte regolatrice ha statuito che, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, l’imprenditore dichiarato fallito, anche se non è
comparso nel giudizio di istruttoria prefallimentare,
ovvero non si è difeso in modo specifico, può sempre dedurre domande ed eccezioni nuove e proporre
nuovi mezzi di prova, documentali e non, al fine di
Note:
(26) In senso contrario v. G. Bongiorno, op. cit., 355, secondo il
quale alla corte d’appello devono essere riconosciuti, in sede di
reclamo ex art. 18 l.fall., ampi poteri inquisitori, ad esempio di
introdurre nel processo fatti non allegati dalle parti, di disporre
mezzi istruttori indipendentemente dall’impulso di parte, di acquisı̀re materiale atipico e perfino fonti di informazione che non
rientrano nella disponibilità delle parti.
(27) La regola vale sia per le prove costituende che per i documenti: cfr. Cass., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8203, e la giurisprudenza successiva che vi si è pacificamente adeguata.
(28) Cosı̀ A. Paluchowsky, in P. Pajardi-A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, VII ed., Milano, 2008, 169. Anche secondo F. Severini, La sentenza di fallimento e la sua impugnazione, in Trattato delle procedure concorsuali a cura di L. Ghia,
C. Piccininni, F. Severini, I, Torino, 2011, 565, «l’impossibilità di
poter proporre, in un giudizio a cognizione veramente piena, tutti i motivi di gravame, soprattutto se riferibili ad un precedente
giudizio a cognizione semiplena, costituirebbe senz’altro una
violazione del diritto di difesa».
399
Opinioni
Fallimento
dimostrare di non aver superato i limiti di fallibilità
posti dall’art. 1 l.fall. (29).
È, tuttavia, mia opinione che la natura di cognizione piena del procedimento per dichiarazione di fallimento, non possa condurre l’interprete fuori dal solco dell’art. 345 c.p.c., tanto da scardinare - per effetto dell’illimitata apertura ai nova - le preclusioni
maturate nel giudizio di istruttoria prefallimentare,
sicché è sempre l’art. 345 c.p.c. che delimita l’area
delle novità probatorie, che le parti dell’istruttoria
prefallimentare (costituite o volontariamente contumaci) possono introdurre in sede di reclamo (30).
Ne deriva che, se prima della modifica dell’art. 345
c.p.c. (ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83,
convertito in L. n. 134/2012), poteva legittimamente ritenersi che il debitore avesse facoltà di articolare o depositare col reclamo quelle prove e quei
documenti nuovi, ancorché preesistenti e noti, ritenuti «indispensabili» (31), oggi, stante l’abrogazione, in parte qua, dell’art. 345 c.p.c., si è venuta certamente a contrarre l’area dell’«indispensabilità»
probatoria, ma non per questo può dirsi che - nell’ambito del giudizio di gravame avverso la sentenza
dichiarativa di fallimento - il sistema della discovery
ne sia uscito oltremodo sacrificato.
Occorre, difatti, considerare che, per le parti del
giudizio di reclamo, il gioco delle deduzioni (allegative e probatorie) potrebbe, in misura più o meno
ampia, riaprirsi anche in sede di impugnazione, per
effetto di due eventi testualmente previsti dall’art.
18 l.fall.
Il primo evento è rappresentato dal fatto che il reclamo sia introdotto da un terzo interessato, il quale
non è stato parte dell’istruttoria prefallimentare,
ovvero che intervengano in sede di giudizio di reclamo terzi legittimati a proporlo in via autonoma.
A questi terzi (cosı̀ come al curatore, che è parte
necessaria del giudizio di reclamo) non può non essere riconosciuta libertà di allegazione e di prova,
stante l’autonoma legittimazione a reclamare prevista dalla legge. Al riconoscimento di poteri processuali al terzo reclamante, deve necessariamente corrispondere un «recupero» di poteri processuali in
capo alle parti originarie del processo, nel rispetto
dei principi costituzionali del contraddittorio e della parità delle armi.
Perciò, per le parti dell’istruttoria prefallimentare
(ed, in specie, per il debitore), l’introduzione, ad
opera del terzo, di fatti principali e di prove nuovi,
apre la strada all’articolazione ed al deposito di prove contrarie, anche «nuove».
Il secondo (e forse più importante) evento, che potrebbe riaprire il ventaglio delle allegazioni in sede
400
di giudizio di reclamo, è rappresentato dall’esercizio
di poteri istruttori officiosi da parte della corte d’appello.
A mente del comma 10 dell’art. 18, all’udienza, il
collegio, sentite le parti, assume, anche d’ufficio (32), nel rispetto del contraddittorio, tutti i
mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente
delegando un suo componente.
La prova è da ritenersi necessaria allorché è capace
di determinare un positivo accertamento dei fatti di
causa, decisivo talvolta sia per confermare, sia per
giungere ad un completo rovesciamento della decisione a cui è pervenuto il tribunale.
È mia opinione che - alla luce del sistema del processo per la dichiarazione di fallimento come riformato nel 2006-2007 - la corte d’appello, che disponga mezzi di prova d’ufficio, non possa andare
autonomamente alla ricerca della prova di fatti
principali, supplendo alle carenze probatorie delle
parti, dovendo essa limitarsi a ricercare fonti di prova idonee a corroborare il convincimento su fatti
già allegati, ma insufficientemente provati (33).
Note:
(29) Cass., 5 novembre 2010, n. 22546 (affermando detto principio, la Corte ha cassato la sentenza con la quale il giudice
d’appello, confermando la sentenza di fallimento, aveva negato
di poter valutare la prova documentale avente ad oggetto i requisiti di fallibilità, introdotta per la prima volta dal debitore con il
reclamo).
(30) In senso contrario v. App. Torino 21 ottobre 2008, in questa
Rivista, 2009, 239, secondo il quale nel procedimento di reclamo non opera affatto il divieto dei nova di cui all’art. 345 c.p.c.
Per una posizione mediana v. G. Minutoli, op. ult. cit., 258, il
quale ritiene che, in sede di giudizio di reclamo, non è ammessa
l’introduzione di nuove prove, anche per il debitore che non abbia partecipato al giudizio di primo grado, ma che «la prospettazione del reclamante sia svincolata da un rigido limite costituito
dalle difese proposte in primo grado, e che sia altresı̀ idonea ad
individuare una specifica ‘‘area tematica’’ di discussione e di riesame dell’oggetto del giudizio (vizi in procedendo, qualità di imprenditore commerciale, qualità di imprenditore commerciale
fallibile), nel cui ambito - e per il principio dell’allegazione - il secondo giudice ha libertà di manovra, sia cognitiva ed istruttoria,
che decisionale».
(31) In quanto «suscettibili di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come ‘‘rilevanti’’, hanno
sulla decisione finale della controversia; prove che, proprio perché indispensabili, sono capaci di determinare un positivo accertamento dei fatti di causa, decisivo talvolta anche per giungere
ad un completo rovesciamento della decisione cui è pervenuto
il giudice di primo grado» (v. Cass., sez. un., n. 8203 del 2005,
cit; Cass., 19 aprile 2006, n. 9120; Cass., 15 maggio 2008, n.
12179).
(32) Secondo alcuni interpreti, il comma 10 dell’art. 18, evocando l’esercizio di poteri istruttori officiosi, confermerebbe la natura inquisitoria del giudizio, facultando il giudice del gravame a disporre anche mezzi di prova che le parti hanno omesso di richiedere o fornire (A. Paluchowsky, in Pajardi- Paluchowsky, op. cit.,
169 s.; G. Bongiorno, op. loc. ult. cit.).
(33) Ciò risponde ai principi dell’appello civile ordinario, ad
(segue)
Il Fallimento 4/2013
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Fallimento
L’intervento officioso del giudice (nella specie, della corte d’appello) non può, in conclusione, ribaltare le regole relative alla distribuzione degli oneri
probatori, di cui all’art. 2697 c.c.
Nondimeno, l’esercizio dei poteri istruttori officiosi
della corte d’appello può essere sollecitato anche
dalle parti del processo, spettando alla corte il potere-dovere di valutare la necessità di disporre d’ufficio un mezzo di prova, allo stesso modo in cui,
prima della riforma del 2012, spettava egualmente
alla corte d’appello il compito di valutare l’indispensabilità della prova nuova, richiesta dalla parte nell’appello ordinario, e, se del caso, di ammetterla.
L’ammissione per via officiosa di mezzi di prova impone, a salvaguardia del principio del contraddittorio, che alle parti del processo di gravame sia data
la facoltà di depositare documenti ed articolare prove (ovviamente «nuovi»), che si rendano necessari
in relazione ai mezzi officiosi, sul modello di quanto
oggi dispone, per il primo grado di giudizio, l’art.
183, ottavo comma, c.p.c.
possibili ipotesi, ma soltanto quando la motivazione
abbia tralasciato di esaminare un fatto decisivo per
il giudizio.
È, però, mia opinione che pur tra i mille «stenti» a
cui la legge (e la giurisprudenza) costringono oggi
l’avvocato cassazionista, il quale si accinga a censurare la motivazione della sentenza, il «tradizionale»
motivo di impugnazione per vizio della motivazione
non possa dirsi del tutto relegato nella soffitta della
procedura civile, ovvero reso tanto dissimile dal
precedente.
Sotto un primo (ed, a mio avviso, non irrilevante)
profilo, ci si è chiesti se, nonostante le limitazioni
introdotte dalla riforma del 2012 nel n. 5) dell’artt.
360 c.p.c., sia stato realmente eliminato ogni controllo sulla coerenza, logicità e sufficienza della motivazione, oppure se una motivazione insufficiente,
illogica o contraddittoria rappresenti un error in judicando de jure procedendo (nella misura in cui la
decisione impugnata non abbia correttamente applicato l’art. 132 c.p.c., che fa assurgere la motivazione ad elemento indispensabile della sentenza),
6. (Segue): d) il giudizio di Cassazione
Note:
(segue nota 33)
Passiamo ora a valutare l’applicabilità al ricorso in
Cassazione avverso la sentenza resa all’esito del giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. delle modifiche recate dall’art. 348 ter, ultimo comma, e dal nuovo n.
5) dell’art. 360 c.p.c.
Innanzi tutto, è da ritenersi che non possa trovare
applicazione al giudizio per la dichiarazione di fallimento la previsione (c.d. della «doppia conforme») (34), contenuta nell’ultimo comma dell’art.
348 ter, in base alla quale il motivo di ricorso di cui
al n. 5) dell’art. 360 non può essere sperimentato
avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. Difatti, il quarto comma, cit.,
rende applicabile tale previsione «fuori dei casi di
cui all’articolo 348 bis, secondo comma, lettera a)»,
escludendo perciò dal suo raggio d’azione le controversie in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero (tra le quali quelle per la dichiarazione
di fallimento).
Nulla osta, invece, all’applicazione del nuovo n. 5)
dell’art. 360 c.p.c., che, come si è sopra detto, limita oggi il ricorso in Cassazione per vizio della motivazione alla sola ipotesi dell’omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di
discussione tra le parti (35).
La mera lettera della norma appare un po’ «soffocante», consentendo la sola censura per carenza assoluta di motivazione, e per di più non in tutte le
Il Fallimento 4/2013
esempio nel rito del lavoro, ove, allorché le risultanze di causa
offrano significativi dati d’indagine, il giudice, anche in grado di
appello, se reputi insufficienti le prove già acquisite, deve esercitare il potere-dovere, previsto dall’art. 437 c.p.c., di provvedere
d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio
e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in
contestazione, purché i fatti stessi siano allegati nell’atto costitutivo, non verificandosi in questo caso alcun superamento, a
mezzo dell’attività istruttoria svolta d’ufficio dal giudice, di eventuali preclusioni o decadenze processuali verificatesi a carico
delle parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile al fine di decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo: Cass., 10 gennaio 2005, n. 278. V. anche Cass. 16 agosto 1990, n. 8308, secondo la quale la rinnovazione della prova
testimoniale, ai sensi dell’art. 257, secondo comma, c.p.c., può
essere disposta anche d’ufficio e in grado di appello, non interferendo con il principio desumibile dagli art. 344 e 345 c.p.c.,
dell’unitarietà e dell’indivisibilità della prova, atteso che detta rinnovazione si esaurisce nella nuova audizione dei testi già escussi, sulle stesse circostanze sulle quali erano stati già chiamati a
deporre, senza che in tale occasione possa essere introdotta
dalla controparte una prova contraria.
(34) Dovendosi intendere per tale l’ipotesi in cui la decisione di
secondo grado non soltanto confermi gli esiti decisori del giudizio di primo grado, ma involga anche la motivazione in fatto resa
dal primo giudice, in quanto la mera conferma del dispositivo,
ma in virtù di un iter logico-giuridico differente da quello seguito
dal primo giudice si concreterebbe in una motivazione nuova, attorno alla quale giammai potrà formarsi la doppia conforme (C.
Consolo, op. cit., 1141).
(35) Come da più autori è stato messo in evidenza, il legislatore
del 2012 è tornato alla formulazione originaria dell’art. 360, n. 5),
c.p.c., contenuta nel codice del 1942, e di lı̀ a poco modificata
dalla riforma del 1950. Valorizza tale profilo A. Didone, op. cit.,
opinando - secondo quanto ho compreso - per una lettura non
eccessivamente «penalizzante» della nuova disposizione.
401
Opinioni
Fallimento
censurabile col motivo di cui al n. 4 dell’art. 360
c.p.c. (36).
Più ancora, resta a mio avviso ferma la censura per
motivazione cd. «apparente», attesa la stretta contiguità di quest’ultima con il paradiga dell’art. 111,
settimo comma, cost. (37).
È difatti pacifico che col ricorso straordinario per
cassazione ai sensi dell’articolo 111 Cost. si possono
denunciare soltanto violazioni di legge, con riferimento sia alla legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso, sia alla legge regolatrice del processo. Ne deriva che l’inosservanza, da parte del
giudice, dell’obbligo della motivazione su questioni
di fatto integra violazione di legge e come tale è denunciabile con il detto ricorso, in quanto si traduca
in una mancanza della motivazione stessa, con conseguente nullità della pronuncia per difetto di un
requisito di forma indispensabile, ovvero nel suo
estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi, o fra di loro logicamente inconciliabili o comunque perplesse o obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano
dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla
sufficienza e razionalità della motivazione medesima
in raffronto con le risultanze probatorie (38).
È altrettanto pacifico che - alla stregua del dettato
di cui al previgente n. 5) dell’art. 360 c.p.c. (che
consentiva la censura per omessa, contraddittoria
ed insufficiente motivazione) - la deduzione di un
vizio di motivazione della sentenza impugnata con
ricorso per cassazione conferiva al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio,
bensı̀ la sola facoltà di controllo, sotto il profilo
della correttezza giuridica e della coerenza logicoformale, delle argomentazioni svolte dal giudice del
merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito
di individuare le fonti del proprio convincimento,
di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le
complessive risultanze del processo, quelle ritenute
maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei
fatti ad esse sottesi, dando, cosı̀, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti:
con la conseguenza che il vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, poteva legittimamente
dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del
giudice di merito, fosse rinvenibile traccia evidente
del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile
402
contrasto tra le argomentazioni complessivamente
adottate, tale da non consentire l’identificazione
del procedimento logico-giuridico posto a base della
decisione (39).
Stando cosı̀ le cose, a me pare che l’«omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», a cui fa riferimento il nuovo art. 360, n. 5), c.p.c., altro non sia che
il mancato o insufficiente esame di punti decisivi
della controversia, assorbendo cosı̀ in sé anche la
(pregressa) censura per omessa ed insufficiente motivazione.
Quanto alla motivazione contraddittoria, essa rilevava (e, a mio avviso, tuttora rileva) nella misura
in cui abbia inciso sulla ricostruzione del fatto decisivo controverso, con argomenti che non consentono l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione: il che, se non erro, è concetto non tanto discosto da quella inidoneità della motivazione a rivelare la ratio decidendi,
che, alla stregua del diritto vivente, era (ed è) pacificamente censurabile col ricorso straordinario in
Cassazione.
In sostanza, l’«omesso esame» si configura sia nell’ipotesi di radicale mancata menzione del fatto, sia
Note:
(36) Come suggerisce C. Consolo, op. cit., p. 1140. È stato dimostrato da M. Bove, Giudizio di fatto e sindacato della Corte di
cassazione: riflessioni sul nuovo artt. 360 n. 5 c.p.c., in Judicum.it, 2 luglio 2012, 5, come, anche nelle applicazioni dell’art.
360, n. 5), c.p.c., anteriore alla riforma del 1950, «il vizio logico,
cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra, come se fosse una
presenza ineluttabile, di cui, nonostante gli sforzi del legislatore,
la prassi e direi il sistema non poteva fare a meno»: l’Autore
(cfr. par. 4) preconizza, pertanto, un identico esito applicativo anche in relazione al «nuovo» - ma, come si è detto, anche un po’
«vecchio» - n. 5) dell’art. 360 c.p.c. («Si potrebbe forse impedire
al soccombente di lamentare la violazione delle norme legali sull’interpretazione dei contratti? O ancora si potrebbe impedire di
lamentare che il giudice non ha posto a base della decisione un
fatto che era notorio o un fatto che non era contestato? Si potrebbe impedire di censurare in cassazione la violazione di una
massima di esperienza nella valutazione probatoria o nell’applicazione di un concetto giuridico indeterminato?»). Per contro,
secondo G. Verde, op. cit., 13, «È da temere, essendo la modificazione nata da una richiesta dei giudici della cassazione, che,
quanto meno nei primi tempi, la Corte di cassazione si attesti
su di una posizione assai rigorosa, cosı̀ che oggi è sconsigliabile, più di quanto non lo sia già, un ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5».
(37) Su cui v., per tutti, R. Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005 (con riferimento al vizio di motivazione, v.,
in particolare, 292 ss; e, con riferimento alla materia fallimentare, v. in particolare 471 ss.).
(38) Ex multis: Cass. 14 dicembre 2004, n. 23238; Cass. 3 novembre 2008, n. 26246; Cass. 22 maggio 2007, n. 1880; Cass.,
sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888.
(39) Cfr. Cass., sez. un., 27 dicembre 1997, n. 13045: tale principio, nella sua declinazione generale, è pacifico.
Il Fallimento 4/2013
Opinioni
Fallimento
in quella di grave leggerezza e superficialità logica
nella sua valutazione (40).
In sostanza, l’interpretazione da darsi alla nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non può essere tale da porsi fuori del solco della previsione di cui
al settimo comma dell’art. 111 cost., per come quest’ultima «vive» nei consolidati orientamenti della
giurisprudenza. Diversamente opinando, si aprirebbe
la strada al dubbio di illegittimità costituzionale.
7. I riflessi delle riforme del 2012
sui giudizi endofallimentari governati
dal modello procedimentale
dell’art. 26 l.fall.
Pur continuando il testo dell’art. 26 l.fall. (novellato dalle riforme del 2006-2007 e dedicato al reclamo avverso gli atti del giudice delegato e del tribunale) a richiamare (nel primo comma) le forme del
procedimento in camera di consiglio, a me pare
che la norma - disciplinando nel dettaglio i termini, le modalità di proposizione ed i contenuti del
reclamo, i termini a difesa, il diritto alla prova delle
parti, e sancendo al contempo il divieto per il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato
di far parte del collegio che decide sul reclamo - abbia inteso non soltanto mutuare dal diritto vivente
talune buone pratiche già codificate dalla giurisprudenza, ma altresı̀ rassicurare l’interprete circa la valenza di cognizione piena e di idoneità al giudicato
del provvedimento che decide sul reclamo, le quante volte esso incida sui diritti soggettivi (41).
La scelta del legislatore di istituire un unico modello procedimentale, anche a prescindere dal contenuto del provvedimento impugnato, è da salutare
con favore, atteso che essa lascia inalterata la possibilità di individuare in modo certo gli effetti del
provvedimento (e la sua collocazione nel novero di
quelli decisori piuttosto che ordinatori) (42) soltanto a conclusione del procedimento (43).
Opportunamente, perciò, il modello procedimentale dell’art. 26 è oggi richiamato dal legislatore (art.
119 l.fall.) anche nel caso di reclamo del decreto
che dichiara la chiusura del fallimento o ne respinge la richiesta, su cui la corte d’appello decide a sua
volta con decreto ricorribile per cassazione (44).
Del pari, l’art. 26 è richiamato per sancire la reclamabilità del decreto che provvede sul ricorso di
esdebitazione, ed il decreto della corte d’appello
non potrà non essere, anche in questo caso, ricorribile per cassazione, attesa l’incidenza che esso è idonea a produrre sui diritti del debitore o, all’opposto,
dei creditori esautorati del credito (45).
Il Fallimento 4/2013
A me pare, inoltre, che il modello dell’art. 26 debba fungere, anche quando non sia espressamente richiamato dalle norme, da paradigma sussidiario e/o
integrativo per l’individuazione del rimedio giurisdizionale e delle regole procedimentali più idonee
alla tutela dei diritti soggettivi eventualmente incisi
(aprendo le porte, se del caso, al ricorso straordinario in cassazione), tutte le volte in cui venga in rilievo il controllo sugli atti degli organi della procedura.
Mi riferisco soprattutto al giudizio di reclamo contro la revoca o la sostituzione del curatore e del coNote:
(40) C. Consolo, op. cit., 1140.
(41) Non mette conto di ripercorrere nella presente sede la lunga vicenda giurisprudenziale che ha condotto la cassazione a
sancire la ricorribilità ex art. 111 Cost. (e, dopo la riforma introdotta con D.Lgs. n. 40 del 2006, anche con ricorso ordinario ex
art. 360 c.p.c.) il provvedimento camerale ex art. 26 l.fall. tutte
le volte in cui esso ha carattere di definitività ed incide su diritti
soggettivi. Si veda, per tutti, sul punto l’ampia e motivata analisi
di Tiscini, op. cit., 472 ss. V. anche Manna, Il reclamo fallimentare e il suo giudicato, in questa Rivista, 2007, 526 e s., il quale
osserva come la giurisprudenza della Cassazione - mutuando taluni principi elaborati in sede di esecuzione individuale, intesa
come articolazione di subprocedimenti autonomi con preclusioni
di fase che impediscono la propalazione delle nullità - tenda a
costruire il reclamo ex art. 26 l.fall. come luogo di composizione
delle nullità (endo)esecutive e di soluzione di controversie su diritti.
(42) Exempli causa è stata ritenuta la natura decisoria del decreto ex art. 26 l.fall.: a) relativo alla liquidazione del compenso al
difensore, per l’assistenza in giudizio prestata alla curatela fallimentare sono stati ritenuti (Cass. 29 marzo 2007, n. 7782); b)
che respinge l’istanza di sospensione della vendita all’incanto di
beni compresi nell’attivo del fallimento, sul presupposto dell’analogia col provvedimento che decide sull’opposizione agli atti
esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c. (Cass. 13 settembre 2006, n.
19667); c) che dichiara la decadenza dell’aggiudicatario di un bene, per mancato versamento del prezzo nel termine stabilito,
pronunciando altresı̀ la perdita della cauzione (Cass. 11 maggio
2005, n. 9930). Per contro, la natura decisoria è stata negata in
caso di decreto che: d) ordina al curatore di astenersi, in relazione ai beni immobili di esclusiva proprietà del coniuge del fallito,
da qualsiasi attività di ricognizione finalizzata al loro trasferimento all’assuntore del concordato fallimentare, sul presupposto
della inoperatività della ‘‘presunzione muciana’’ di cui all’art. 70
l.fall. sia alle fattispecie governate dal regime di comunione legale fra i coniugi sia con riguardo a quelle caratterizzate dal regime di separazione dei beni (Cass. 15 dicembre 2006, n. 26934);
e) rigetta dell’istanza del fallito di esaminare il fascicolo fallimentare e di estrarne copia (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19509).
(43) Cosı̀ C. Ferri, sub art. 26, in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e M. Fabiani, I, Bologna, 2006, 511.
(44) Prima delle riforme, la giurisprudenza aveva ritenuto il ricorso per cassazione inammissibile (v. da ultima Cass. 14 dicembre 2006, n. 26831, in Il fallimento, 2007, 533 ss., con nota di
R. Tiscini, Il provvedimento della corte d’appello reso in sede di
reclamo contro la chiusura del fallimento ed il ricorso straordinario in cassazione).
(45) Sulle tematiche processuali dell’esdebitazione v. le interessanti considerazioni di Scarselli, La esdebitazione della nuova
legge fallimentare, in Dir. fall., 2006, 29 ss.
403
Opinioni
Fallimento
mitato dei creditori, ai sensi degli artt. 37 e 37 bis
l.fall., in un ambito (tradizionalmente contrassegnato, nella prassi giurisprudenziale, dalla natura ordinatoria) (46), ma in cui ben potrebbero emergere
aspetti di decisorietà ed insieme di definitività del
provvedimento, non soltanto nei casi in cui il revocato o il sostituito ritengano ingiustamente compresso il loro diritto ad essere remunerati per l’opera
prestata nel tempo in cui hanno ricoperto la carica (47), ma altresı̀ nelle ipotesi di revoca o di sostituzione, oltre che «inopportune», anche «ingiuste» (48), tali da offrire la stura al sindacato di Cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, cost.
Ma penso altresı̀ ai provvedimenti resi in sede di reclamo avverso gli atti di gestione del curatore, esperibile, ai sensi dell’art. 36 l.fall., per violazione di
legge.
È ben vero che, nella maggior parte dei casi, tali
provvedimenti, non essendo diretti a dirimere una
controversia su un diritto soggettivo, ma sostanziandosi nell’esercizio di un potere di direzione e vigilanza all’interno di una procedura propriamente amministrativa, non sono ricorribili per cassazione (49).
Tuttavia, non mi sembra peregrina l’ipotesi in cui il
controllo sugli atti del curatore si traduca in provvedimenti che pronunzino sulla sua personale responsabilità, prefigurando la formazione di un giudicato
su questioni che ben potrebbero rivolgersi a danno
del patrimonio e dei diritti del curatore medesimo,
precludendone la riproponibilità in sede di approvazione del rendiconto ex art. 116 l. fall. (50).
Il modello procedimentale dell’art. 26 l.fall. è richiamato anche dall’art. 143 in materia di esdebitazione, atteso che contro il decreto che provvede sul
ricorso, il debitore, i creditori non integralmente
soddisfatti, il pubblico ministero e qualunque interessato possono proporre reclamo, per l’appunto, a
norma dell’art. 26
Orbene, la ricorribilità per cassazione, coi limiti sopra descritti, dei provvedimenti resi ex art. 26 l.fall.
impone la cernita delle previsioni introdotte dal
D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134, nella specie applicabili.
La mia opinione è nel senso che la struttura oppugnatoria, ma non impugnatoria del precedimento
ex art. 26 l.fall. rende incompatibile l’applicazione
delle regole dell’appello ordinario, e dunque anche
degli artt. 342, 345, 348 bis e ter c.p.c., come modificati e/o introdotti dalle riforme del 2012.
Trova, invece, applicazione la modifica al n. 5) dell’art. 360 c.p.c., rispetto alla quale valgono le considerazioni già svolte nel paragrafo che precede.
404
8. I riflessi delle riforme del 2012
sul giudizio di accertamento dello stato
passivo e sulle impugnazioni dello stato
passivo
A conclusioni per molti aspetti identiche a quelle
testé illustrate è possibile pervenire con riferimento
al giudizio di accertamento dello stato passivo ed
alle relative impugnazioni.
È stato osservato che le riforme del 2006-2007 hanno superato l’idea che il procedimento di accertamento del passivo dinanzi al giudice delegato sia
equiparabile alla fase sommaria di un procedimento
destinato, in caso di impugnazione (cui poteva seguire l’appello o il ricorso per cassazione), a recuperare la dimensione della cognizione piena, ma che
esso costituisce il primo grado di un giudizio di accertamento che si conclude con decreto, impugnabile davanti al tribunale, la cui decisione è ricorribile per cassazione (51).
Note:
(46) È noto l’orientamento della Cassazione (riferito alla situazione normativa ante riforme del 2006-2007) a mente del quale avverso il provvedimento del tribunale fallimentare che pronunci in
tema di revoca del curatore non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., atteso che il conferimento dell’ufficio non consolida un diritto soggettivo del curatore al mantenimento della sua funzione, né è idoneo ad interferire
nella sfera soggettiva del fallito ovvero di alcuno dei singoli creditori, trattandosi di ufficio d’interesse pubblico da cui può essere
disposta la rimozione in ogni tempo, laddove il tribunale ritenga
che la permanenza del professionista chiamato a ricoprirlo possa
pregiudicare gli interessi della procedura (v. Cass. 5 aprile 2006,
n. 7876, ord.; Cass. 3 settembre 2004, n. 17879, ord.).
(47) Essendo il relativo provvedimento pacificamente impugnabile per Cassazione: cfr., per tutte, Cass. sez. un., 19 dicembre
2007, n. 26730.
(48) Condivido sul punto le riflessioni di Pagni, Il controllo sugli
atti degli organi della procedura fallimentare (e le regole della tutela giurisdizionale), in questa Rivista, 2007, 146.
(49) Cass. 4 giugno 1994, n. 5425.
(50) In senso contrario è la giurisprudenza anteriore alle riforme.
V. Cass. 20 dicembre 2002, n. 18144, secondo la quale il provvedimento del tribunale fallimentare confermativo, in sede di ricorso
ai sensi dell’art. 36 l.fall., del decreto con il quale il giudice delegato abbia rigettato l’istanza di accertamento della personale responsabilità del curatore per un comportamento di carattere processuale dedotto come pregiudizievole per la massa dei creditori,
non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione di
cui all’art. 111 Cost., essendo privo del carattere della definitività,
stante la riproponibilità della questione in sede di approvazione
del rendiconto del curatore ex art. 116. Anche secondo Cass. 10
settembre 2007, n. 18940, il giudizio che s’instaura, ai sensi dell’art. 116 l.fall., in caso di mancata approvazione del rendiconto
della gestione del curatore, può avere ad oggetto non solo gli errori materiali, le omissioni ed i criteri di conteggio, ma anche il
controllo della gestione del curatore stesso e l’accertamento delle
sue personali responsabilità per il compimento di atti che abbiano
arrecato pregiudizio alla massa o ai diritti dei singoli creditori.
(51) In questo senso G. Bozza, sub art. 93, in Il nuovo diritto fallimentare a cura di A. Jorio e M. Fabiani, tomo primo, cit., 1418.
(segue)
Il Fallimento 4/2013
Opinioni
Fallimento
L’insinuazione nello stato passivo procede da una
domanda giudiziale, introdotta con ricorso, cui l’art.
93 l.fall. estende tutti (o quasi) i contenuti dell’atto
di citazione di cui all’art. 163 c.p.c., e dalla quale
l’art. 94 fa derivare tutti gli effetti (processuali e sostanziali) della domanda giudiziale - e, primo fra
tutti, l’effetto interruttivo della prescrizione del credito insinuato (52) - per l’intero corso del fallimento.
Il procedimento si articola nel contraddittorio col
curatore (53), e, all’udienza fissata per l’esame dello
stato passivo, il giudice delegato decide su ciascuna
domanda, nei limiti delle conclusioni formulate
dalle parti e dal curatore, ed avuto riguardo alle eccezioni di quest’ultimo, nonché a quelle rilevabili
d’ufficio e/o formulate dagli altri interessati. Anche
il fallito può chiedere di essere sentito. Pur essendo
il giudizio impostato su base per lo più documentale, non è altresı̀ precluso al giudice delegato di procedere ad atti d’istruzione su richiesta delle parti,
compatibilmente con le esigenze di speditezza del
procedimento.
Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo chiude questo procedimento a base contenziosa e - per
le parti di esso non impugnate ai sensi dell’art. 99
l.fall. - consente il consolidarsi del giudicato endofallimentare attorno al credito (ovvero al diritto
mobiliare o immobiliare) ammesso o escluso (54).
La giurisprudenza continua a discorrere di natura
sommaria del procedimento di accertamento del
passivo (55).
Dalle suesposte regole si è, tuttavia, desunto che il
procedimento di formazione dello stato passivo,
avente sicura natura contenziosa, «appartiene al paradigma della tutela dichiarativa, ma in forma semplificata, non molto lontano dal procedimento sommario di cognizione (art. 702 bis ss. c.p.c.)» (56).
Il ragionamento (pur nell’assenza di indizi normativi espliciti) è convincente, in quanto rende ragione, da un lato, dell’efficacia riconosciuta dalla legge
al decreto che rende esecutivo lo stato passivo (57), e, dall’altro lato, delle aperture ai nova,
Note:
(segue nota 51)
Per vero, già precedentemente alla riforma, la giurisprudenza
aveva ritenuto che la domanda di ammissione al passivo fallimentare abbia natura e funzione di vera e propria domanda giudiziale introduttiva di una attività cognitiva idonea a produrre il
giudicato formale e sostanziale sui crediti insinuati (v. Cass. 9 luglio 2005, n. 14471). In senso, a me sembra, opposto, v. G. Costantino, L’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, Relazione al XXVI Convegno nazionale dell’Associazione
Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile, Napoli, 26 ottobre
2007, in La riforma della legge fallimentare, Bologna, 2008, 54,
Il Fallimento 4/2013
il quale discorre di procedimento informale, sul presupposto
che il giudice delegato non risolve controversie e non decide
sulle contrapposte pretese delle parti.
(52) La revoca del fallimento, ancorché disposta per vizi processuali o per incompetenza del giudice, lascia salvi gli effetti prodotti dalle domande di ammissione al passivo sul decorso del
termine di prescrizione dei relativi crediti, con la conseguenza
che trova applicazione la regola di cui al secondo comma dell’art. 2945 c.c., con la sospensione cd. «permanente» del corso
della prescrizione, e non quella di cui al terzo comma della medesima norma, che fa salvo, nel caso di estinzione del processo, il solo effetto interruttivo «istantaneo» prodotto dalla domanda giudiziale: v. in questo senso Cass. 6 settembre 2006, n.
19125; Cass. 20 novembre 2002, n. 16380.
(53) Il quale può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi
del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono
fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa
azione. Il curatore è altresı̀ tenuto a depositare il progetto di stato passivo almeno quindici giorni prima dell’udienza fissata per
l’esame dello stesso; i creditori, i titolari di diritti sui beni ed il
fallito possono esaminare il progetto e presentare osservazioni
scritte e documenti integrativi fino all’udienza.
(54) G. Bozza, sub artt. 96-97, in Il nuovo diritto fallimentare,
cit., 1459, sostiene l’inutilità di qualificare in termini dogmatici la
natura del provvedimento in questione (di accertamento, costitutivo o di condanna), atteso che si tratta di un accertamento
del credito o del diritto costituivo per la partecipazione al concorso (o per ottenere la restituzione delle cose mobili o immobili rivendicate), ma in conformità della natura cognitiva del giudizio
di verifica, che si inserisce in un giudizio esecutivo collettivo.
(55) Cfr., ad esempio, Cass. 25 febbraio 2011, n. 4708, in questa Rivista, 2011, 1244, secondo la quale «il legislatore della riforma pur avendo ampiamente mutato la natura del giudizio di
verifica, soprattutto attribuendo al curatore il ruolo di parte ed affermando all’art. 95, comma 3, che il giudice delegato pronuncia
su ciascuna domanda nei limiti delle conclusioni formulate ed
avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d’ufficio e a quelle formulate dagli altri interessati, ne ha però mantenuto la caratteristica di giudizio a cognizione sommaria, in cui
non è obbligatoria l’assistenza tecnica a favore del creditore ed
ove è previsto che il giudice possa procedere ad atti di istruzione a richiesta delle parti, compatibilmente con le esigenze di
speditezza del procedimento (art. 95, comma 3, ult. parte)». Nel
senso che il credito insinuato è «oggetto di cognizione sommaria in sede di accertamento del passivo da parte del giudice delegato e di cognizione piena in sede di giudizio di opposizione»,
v. anche Cass., sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16725 (punto 1 della
motuivazione), in Guida dir., n. 49-50/2012, 25. Io ho, tuttavia,
l’impressione che l’affermazione della sommarietà della tutela
sia la premessa per la giustificazione dell’apertura ai nova in sede di impugnazione (su cui cfr. infra nel testo), piuttosto che
una rigorosa declinazione sistematica della natura del procedimento
(56) M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, 393.
(57) Perfino oltre la chiusura del fallimento, sia pure ai limitati fini previsti dall’ult. comma dell’art. 120 l.fall., che consente al
creditore ammesso al passivo di avvalersi del decreto di cui all’art. 96 l.fall. come prova scritta per ottenere il decreto ingiuntivo contro il debitore tornato in bonis. La giurisprudenza consolidata vuole, comunque, che i provvedimenti adottati dal giudice
delegato in sede di verificazione dei crediti, quand’anche non
abbiano formato oggetto di opposizione, non acquistino efficacia di cosa giudicata in senso stretto, ma spieghino solo effetti
preclusivi nell’ambito della procedura fallimentare (cfr. Cass. 10
novembre 2006, n. 24049). Si esclude perciò che il decreto con
il quale viene reso esecutivo lo stato passivo possa avere sia
un’efficacia extrafallimentare, sia un’efficacia positiva di giudicato sostanziale all’interno del fallimento. Esso assume un’effica(segue)
405
Opinioni
Fallimento
che il diritto vivente consente nella fase delle impugnazioni (al pari di quanto è previsto, per l’appello avverso l’ordinanza sommaria di cognizione ex
art. 702 quater c.p.c.).
In effetti, a seguito delle riforme del 2006-2007 che hanno opportunamente incanalato in un unico
schema procedimentale (governato dai principi della giurisdizione contenziosa dinanzi a giudice terzo
ed imparziale) l’impugnazione dei crediti accolti,
l’opposizione al provvedimento di mancato accoglimento o di accoglimento parziale, e la revocazione
- ben difficilmente può oggi essere negato al giudizio di impugnazione governato dagli artt. 98-99
l.fall. la natura di processo di cognizione piena (ancorché caratterizzata da evidenti specialità del rito).
La decisione è adottata dal collegio con decreto
motivato, vuoi nell’ipotesi in cui la domanda sia
decisa statim con la reiezione o l’ammissione del
credito, vuoi nell’ipotesi in cui si dia ingresso alla
fase istruttoria; il decreto è impugnabile per cassazione entro trenta giorni dalla sua comunicazione
(art. 99 l.fall.).
Sulla base di queste disposizioni, il diritto vivente si
va consolidando nel senso che nel giudizio d’impugnazione dello stato passivo, «espressione di giurisdizione cognitiva piena a carattere contenzioso
seppur semplificata nelle forme rispetto al processo
ordinario», nonostante la sua natura impugnatoria,
non opera la preclusione posta dall’art. 345 c.p.c.,
in materia di jus novorum (58). L’opponente, dunque, non incontra il limite delle prove che opera
nella fase della verifica dei crediti (ove è previsto
che il giudice delegato possa procedere ad atti di
istruzione a richiesta delle parti, ma solo compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento), ed il curatore non è tenuto a circoscrivere
le sue difese nell’ambito delle sole eccezioni dedotte
nella fase precedente.
Più analiticamente, «il riesame a cognizione piena
del risultato della cognizione sommaria del rito
della verifica demandato al giudice dell’opposizione, escludendo l’immutazione del thema disputandum, vale a dire della domanda originaria, che deve essere riproposta nei fatti costitutivi già rappresentati al giudice delegato, ma non del thema probandum, aperto a nuove allegazioni istruttorie,
preclude in senso speculare l’introduzione di domanda riconvenzionale della curatela fallimentare, ma non comprime il diritto di difesa di tale organo, che si dispiega in giudizio nel senso più ampio, esplicandosi anche nella formulazione di eccezioni non sottoposte all’esame del giudice delegato» (59).
406
Sulla base di queste premesse, è possibile pervenire
all’affermazione che «si è qui al di fuori del giudizio
ordinario di cognizione né l’opposizione può essere
qualificata come appello» (60).
Con riguardo al tema che ci occupa, ne deriva che,
non essendo il paradigma delle impugnazioni dello
stato passivo assimilabile a quello dell’appello civile
ordinario, non trovano applicazione gli artt. 342,
345, 348 bis e ter c.p.c. (61).
Trova, invece, applicazione la modifica al n. 5) dell’art. 360 c.p.c., rispetto alla quale valgono, anche
in questo caso, le considerazioni già svolte in precedenza.
Note:
(segue nota 57)
cia meramente processuale e negativa (ne bis in idem), in quanto preclusiva del riesame in quella medesima sede fallimentare
delle questioni inerenti all’esistenza e alla natura e all’entità del
credito, senza che possa imporre alcun vincolo positivo in ordine alle questioni comuni ad altra eventuale controversia tra le
stesse parti, pur vertente sul medesimo negozio o rapporto giuridico, tanto da non fare stato neppure nel giudizio di opposizione al fallimento (Cass. 20 settembre 1993, n. 9622; Cass. 3 settembre 2003, n. 12823).
(58) Sull’alterità dell’opposizione al passivo rispetto all’appello
ordinario e sulla conseguente inapplicabilità, nel primo di quei
giudizi, dei limiti allo ius novorum operanti nell’àmbito del secondo, cfr. M. Montanari, Le impugnazioni dello stato passivo,
in Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative
a cinque anni dalla riforma, diretto da A. Jorio e M. Fabiani, Bologna, 2010, 399 ss. e 415 ss.; Id., Le impugnazioni dello stato
passivo, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da V. Buonocore e A. Bassi, III, Padova, 2011, 88 ss. e 221 ss.
(59) Cosı̀ Cass. 4 giugno 2012, n. 8929, in questa Rivista, 2012,
1323, con ampio e documentato commento di M. Montanari,
Ulteriori svolgimenti della riflessione del giudice di legittimità in
tema di opposizione allo stato passivo (la pronunzia citata soggiunge che la memoria delle parti resistenti nel giudizio ex art.
99 l.fall., dunque anche del curatore che intende costituirsi, deve contenere a pena di decadenza la precisa indicazione delle
difese che in quella sede devono essere svolte, comprensiva
delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, e
delle prove). Nel medesimo senso, cfr. Cass. 18 maggio 2012,
n. 7918, ivi, 1328; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4708, cit.; Cass.
22 marzo 2010, n. 6900, ivi, 2010, 1212. Nel senso dell’apertura
ai nova del giudizio di opposizione è anche la dottrina prevalente
(cfr., ex multis, G. Costantino, sub artt. 98-99, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli e V.
Santoro, II, Torino, 2010, 1264 s.; C. Cavallini, Formazione ed
impugnazione dello stato passivo: poteri processuali del creditore, in questa Rivista, 2009, 709; G.U. Tedeschi, L’accertamento
del passivo, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A.
Didone, I, Torino, 2009, 1049 s.; D. Plenteda, Profili processuali
del fallimento dopo la riforma, Milano, 2008, 225 s.).
(60) Cosı̀ Cass. 11 settembre 2009, n. 19697, in questa Rivista,
2010, 42. Il principio è testualmente richiamato anche da Cass.
4 giugno 2012, n. 8929, cit., in motivazione.
(61) Quanto all’esigenza (avente, come si è visto, ampio spettro
sistematico) della specificità dei motivi di impugnazione, sottesa
alle previsioni di cui all’art. 342 c.p.c., mi sembra che esse siano
soddisfatte dai requisiti contenutistici del ricorso in impugnazione, imposti dall’art. 99, secondo comma, l.fall.
Il Fallimento 4/2013
Opinioni
Fallimento
9. I riflessi delle riforme del 2012 sui
reclami endoconcordatari
Quale che sia l’intensità delle verifiche che il tribunale fallimentare è chiamato a compiere in sede di
ammissione al concordato preventivo (art. 163
l.fall.), ovvero in sede di giudizio di omologazione
(art. 180) (62), è certo che le riforme della legge
concorsuale hanno privato il provvedimento di
omologazione del concordato non impugnato (o
non più impugnabile) di qualsiasi attitudine al giudicato sostanziale. Ad identiche conclusioni si dovrebbe giungere con riferimento al decreto che
omologa l’accordo di ristrutturazione dei debiti, ai
sensi dell’art. 182 bis l.fall.
Ciò deriva non tanto dall’adozione di forme del
procedimento camerale (si è già detto che tale scelta non sarebbe dirimente quanto all’idoneità al giudicato del provvedimento), sibbene dalla natura ormai privatistica (rectius: privatizzata o volontaristica) dello strumento concordatario, che chiama in
causa l’autorità giudiziaria in funzione di controllo
della regolarità del procedimento di formazione dell’accordo tra imprenditore in crisi e ceto creditorio
(e forse anche della fattibilità, lato sensu intesa, del
piano concordatario), ma non anche di soluzione
delle controversie sui diritti sottostanti alle posizioni sostanziali dei creditori, che in tale procedimento non vengono neppure sollevate (63).
Del resto, entrambe le tipologie di accordo preventivo, che l’imprenditore può stipulare con i suoi
creditori sotto l’usbergo del tribunale, sono, alla
stregua di un contratto di diritto privato, risolubili
per inadempimento (64).
Di ciò ha dato riprova il legislatore del 2007, modificando l’art. 183 l.fall. Tale norma, pur dopo il
D.Lgs. n. 5 del 2006, continuava a prevedere l’appellabilità e poi la ricorribilità in cassazione del provvedimento di omologazione del concordato, come se si
trattasse di un procedimento di tipo contenzioso. Ma
il D.Lgs. n. 169 del 2007 ha (coerentemente con le
premesse della riforma) previsto che il decreto in
questione sia reclamabile dinanzi alla corte d’appello,
col risultato di rendere percorribile il ricorso in cassazione solo nell’eventualità in cui il provvedimento
incida in maniera definitiva su diritti soggettivi.
Per altro verso, già la giurisprudenza precedente la
riforma aveva chiarito che la sentenza di omologazione del concordato preventivo, per le particolari
caratteristiche della procedura che ad essa conduce,
pur determinando un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, non comporta la formazione di un giudicato sull’esistenza, entità e ran-
Il Fallimento 4/2013
go dei medesimi, nonché sugli altri diritti implicati
nella procedura (65).
Anche dopo le riforme, la Corte regolatrice ha ribadito che «nel concordato preventivo tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli
creditori, come anche dal debitore, ed anche se attinenti l’esecuzione del concordato danno luogo a
controversie che sono del tutto sottratte al potere
decisionale del giudice delegato e, dunque, devono
costituire materia di un ordinario giudizio di cognizione, giacché l’omologazione non determina un giudicato sostanziale, mancando la verificazione di uno
stato passivo, pur facendo nascere un vincolo definitivo circa la riduzione quantitativa dei crediti» (66).
È, dunque, possibile non soltanto far accertare con
ordinario giudizio di cognizione nei confronti dell’imprenditore in concordato il proprio credito ed il
privilegio che lo assiste (67), ma altresı̀ che il provNote:
(62) Se, cioè, occorra sindacare la fattibilità del piano, o se ci si
possa limitare ad una verifica formale della completezza e della
regolarità della documentazione prodotta dall’istante, o ancora se
il tribunale debba procedere ad una verifica nel merito della proposta del debitore solo nel caso in cui vi sia il dissenso di una
classe di creditori. Sul tema (che, come è noto, ha dato àdito ad
un intenso dibattito, in giurisprudenza prima ancora che in dottrina) sono di recente intervenute le sezioni unite della Corte di cassazione, le quali, con la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521, in
questa Rivista, 2013, 149, con nota di M. Fabiani, La questione
‘‘fattibilità’’ del concordato preventivo e la lettura delle sezioni
unite, hanno dettato il seguente principio di diritto: «Il giudice ha
il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso
dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha
ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse
fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la
procedura di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della
procedura di concordato; quest’ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso
e predeterminabile essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da
un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro».
(63) Sul punto v. le considerazioni di I. Pagni, sub art. 180, in Il
nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio e M. Fabiani, tomo
secondo, Bologna, 2007, 2518 ss.
(64) Tale è l’espressa previsione dell’art. 186 l.fall. per il concordato preventivo, ma, pur nel silenzio della legge, è d’uopo ritenere che la medesima sanzione possa scattare anche in caso di
inadempimento dell’accordo di ristrutturazione, stante la sua natura di contratto (cosı̀ G. Scarselli, in AAVV., Manuale di diritto
fallimentare, Milano, 2007, 475).
(65) Cass. 22 settembre 2000, n. 12545.
(66) Cosı̀ Cass. 9 giugno 2010, n. 13897, in questa Rivista,
2010, 924.
(67) Cosı̀ a partire da Cass. 19 dicembre 1978, n. 6083.
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Opinioni
Fallimento
vedimento di omologazione, facendo nascere un
vincolo definitivo circa la riduzione quantitativa
dei crediti, sulla base dell’elemento pattizio e dell’elemento processuale, è impugnabile per contrastare
la stabilità della falcidia concordataria e delle sue
modalità attuative, non già per impingere sulle questioni attinenti alla sussistenza, all’entità ed al rango dei crediti, essendo il tribunale che ha omologato il concordato (e, di concerto, i successivi organi
di giustizia adı̀ti in sede di impugnazione) carenti di
potestà decisionale sul punto, in quanto «organi
della fase di esecuzione» del concordato (68).
Analoghe considerazioni debbono valere a fortiori
per il concordato fallimentare, in relazione al quale
il sindacato giurisdizionale è circoscritto dalla legge
alla valutazione, in sede di ammissione alla procedura, della «ritualità della proposta» (art. 125, comma 2, l.fall.), ed, in sede di omologazione, alla verifica della regolarità della procedura e dell’esito della
votazione (art. 129) (69).
La natura, la funzione e la struttura processuale dei
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reclami in questione (governati da un procedimento non dissimile da quello di cui all’art. 18
l.fall.) (70) inducono ad escludere l’applicabilità
delle norme sull’appello civile ordinario (anche di
quelle riformate o introdotte nel 2012), e ad ammettere, per contro, il ricorso in Cassazione, con i
limiti al motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 introdotti dal legislatore del 2012.
Note:
(68) In questo senso è la motivazione di Cass. 17 giugno 1995,
n. 6859, in questa Rivista, 1996, 50, e in Giust. civ., 1995, I,
2351, con nota di G. Lo Cascio.
(69) In tema v. G. Lo Cascio, Il curatore nel concordato fallimentare, in Il fallimento, 2007, 1098 ss. In tema v. anche l’articolata
analisi di M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, spec. 229 ss.
(70) Tale considerazione si ricava, a mio avviso, dalla previsione
di cui al secondo comma dell’art. 183 l.fall., secondo la quale
«con lo stesso reclamo [id est: col reclamo avverso il diniego di
omologazione, n.d.r.] è impugnabile la sentenza dichiarativa di
fallimento, contestualmente emessa a norma dell’articolo 180,
settimo comma»: difatti, il mezzo d’impugnazione della dichiarazione di fallimento non può che essere il reclamo ex art. 18.
Il Fallimento 4/2013