Metalogicon (2003) XVI, 2 Pasquale Pellecchia: il sacerdote, l’amico, lo studioso Commemorazione tenuta da Michele Malatesta nella Sala Consiliare del Municipio di Aquino il 7 dicembre 2003 alla presenza di S. E. Mons. RINO FISICHELLA Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense S. E. Mons. LUCA BRANDOLINI Vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo e delle Autorità Civili e Militari E’ per me un grande onore, un motivo di orgoglio e un momento di profonda ed intensa emozione parlare questa sera in questa sala. È un grande onore perché, anche se l’odierna città di Aquino non è più, sotto il profilo topologico, la volsca Aquinum diventata poi colonia romana – le cui rovine si trovano a qualche miglio da qui – è però pur sempre la patria di quel grande poeta satirico che va sotto il nome di Decimo Giunio Giovenale, poeta di prim’ordine e di un’attualità sconcertante. Basta che noi riflettiamo sulla seconda satira del libro primo, allorché Giovenale inveisce contro il matrimonio tra omosessuali: “Un amico si marita: / l’invito è solo per gli intimi. Vivi ancora un po’/ e queste cose si faranno, si faranno in pubblico / e si pretenderà di registrarle. / Ma un bel tormento perseguita queste spose: / partorire non possono e / vincolare così i mariti con la prole”.1 È 1 Nubit amicus / nec multos adhibet. Liceat modo vivere, fient, / fient ista palam, cupient et in acta referri. /Interea tormentum ingens nubentibus haeret / quod nequeant parere et partu retinere maritos. Iuven. Saturae, Lib. I, Sat. II, 134-138. 111 Metalogicon (2003) XVI, 2 Giovenale che sta parlando, un pagano, non un padre della Chiesa. Ebbene se certi teologi dei giorni nostri leggessero più gli autori pagani, probabilmente le cose andrebbero meglio perché, strano a dirsi, la satira di questo poeta nato dopo Cristo ma che non aveva conosciuto la luce del Vangelo, è un vero corollario alla diagnosi fatta da Paolo nella Lettera ai Romani, dove l’Apostolo vede nell’idolatria e quindi, in ultima analisi, nell’ateismo la genesi della perversione.2 È un motivo di orgoglio, perché è vero sí che San Tommaso non è nato ad Aquino, lo sappiamo tutti, ma ne porta pur sempre il nome. Chi ha letto le prime biografie di Tommaso come quelle di Bernardo Guy o di Guglielmo da Tocco sa che è nato nel castello di Rocca Sicca, Roccasecca; ma, secondo voi, perché Virgilio, che pure è nato “in Andibus” come recitano le antiche vitae vergilianae, ha scritto: ”Mantua me genuit”? Perché la tribù celtica degli Andes era stanziata in territorio mantovano. E, sempre per tornare al vostro grande Giovenale, quando il poeta nella satira VIII del libro terzo parla dei grandi uomini venuti dal nulla, cita due Arpinati: “novus Arpinas” (Cicerone),3 “Arpinas alius”(Mario).4 Sappiamo che Caio Mario non è nato ad Arpino; Caio Mario è nato a Cereatae. Ma perché Giovenale dice che è nato ad Arpino? Perché Cereatae era nel territorio di Arpino; e quindi Caio Mario è una gloria di Arpino. Tommaso nacque a Rocca Sicca, ma Rocca Sicca era nel territorio di Aquino e Tommaso era del casato d’Aquino, dunque giustamente Tommaso è “il Sole di Aquino”. Tommaso è noto in tutto il mondo come “l’Aquinate”. Gli inglesi non lo citano mai come “Tommaso”, ma con l’appellativo Aquinas. È infine un momento di profonda e intensa emozione perché ho il privilegio di commemorare Monsignor Pasquale Pellecchia: il sacerdote, l’amico, lo studioso. Io sarò molto breve sui primi due punti, mi fermerò più dettagliatamente sul terzo. 2 Rm. 1, 18-28. Iuven. Saturae, Lib. III, Sat. VIII, 237. 4 Iuven. Saturae, Lib. III, Sat. VIII, 245. 3 112 Metalogicon (2003) XVI, 2 1. Il sacerdote Avevo letto qualcosa di Pasquale Pellecchia negli anni ‘60, ma non sapevo che fosse un sacerdote. Facendo lo spoglio delle riviste e dei repertori bibliografici avevo memorizzato il cognome perché, prima che venissi con la famiglia ad abitare a Roma, era stato mio Vescovo Mons. Raffaele Pellecchia: perciò avevo pensato a qualche parentela. Poi fu proprio Don Pasquale, dopo che ci eravamo conosciuti di persona agli inizi degli anni ‘80, a dirmi: “Non c’è niente in comune tra me ed il vescovo nativo di Avellino, è semplicemente una questione di omonimia”; “Come tra me e l’anarchico Malatesta – risposi – pur provenendo entrambi dalla stessa provincia”. Seppi che il Professore Pasquale Pellecchia era un sacerdote da una collega del liceo – io ho insegnato per 10 anni nei licei prima di passare all’università – precisamente da Lucia Gallo, professoressa di scienze che in passato aveva insegnato con Don Pasquale nel Liceo scientifico di Cassino, il cui attuale Preside ci ha voluto onorare con la sua presenza in mezzo a noi questa sera. Lucia mi vide nella sala dei professori del Liceo scientifico Cavour di Roma durante l’anno scolastico 1972-73 con un libro – non ricordo se si trattasse di Popper o di Russell o di Carnap – e mi disse “Ah! tu ti occupi di queste cose. Conosci Don Pasquale Pellecchia?”. “No, non lo conosco”. “Guarda, è uno specialista in materia, un uomo di grande valore. Michele, se sapessi, che sacerdote esemplare! Un sacerdote che gode della stima anche dei non credenti; tutti lo rispettano, tutti lo venerano per la sua cultura, la sua serietà, la sua onestà”. E che Don Pasquale fosse un sacerdote esemplare, ebbi modo di constatarlo personalmente quando, andando a fargli visita alla bella casa di Cassino, bella perché strapiena di libri – i libri trasbordavano, uscivano dalle finestre – mi disse: “Ti faccio un caffè”; e mentre andava in cucina: “Ah! Mi trovo, ora faccio pure il bucato”. Don Pasquale Pellecchia non aveva perpetua. Anche un altro mio amico sacerdote, Don Geppino Manzo della Diocesi di Alife-Caiazzo, morto da poco, non aveva perpetua. Don Manzo 113 Metalogicon (2003) XVI, 2 era un sacerdote degnissimo come Don Pasquale anche se non aveva la sua levatura mentale: entrambi hanno fatto tanto del bene. Ora questo perché lo dico? Non perché ci sia del male ad avere una perpetua, ma Don Pasquale Pellecchia sapeva che tra le virtù cardinali la fondamentale è la prudenza, e questa non solo va esercitata ma vanno prese anche tutte le precauzioni per la sua perfetta osservanza. Per Mons. Pellecchia doveva essere scongiurato anche un minimo sospetto sul comportamento di un sacerdote nella vita privata. Cioè ognuno doveva mostrarsi al prossimo così come era e Don Pasquale si è mostrato come era. Ma la cosa più bella di Don Pasquale sacerdote era la celebrazione eucaristica. Fin quando c’era la liturgia della parola, Don Pasquale Pellecchia celebrava come ogni sacerdote. Ma quando arrivava il canone si trasformava: ricordo bene la sua voce – le pause erano lunghissime –: “prese il pane”..., “lo spezzò”..., “lo benedisse”..., “lo diede ai sui discepoli”... . La Messa di Don Pasquale non era solo liturgia, non era solo un atto di culto pubblico che è il culto integrale del Corpo mistico, di Cristo e della Chiesa, in quanto Gesù Cristo essendo vero uomo e vero Dio esercita una mediazione ascendente e una mediazione discendente. Non era solo questo. La Messa di Don Pasquale era meditazione, era adorazione, era contemplazione. Io penso che quando San Tommaso nella Cappella del Crocifisso di S. Domenico Maggiore a Napoli ebbe quella visione per cui non poté più continuare la Summa Theologiae dicendo “palea est, palea est”: è paglia, dovesse celebrare la Messa così come la celebrava Don Pasquale. Capii questo fatto: la partecipazione ad una sola Messa celebrata da Don Pasquale poteva servire come viatico per non commettere peccati per un intero anno, tanto era intenso il coinvolgimento del sacerdote, e di coseguenza dei fedeli, nel sacrificio eucaristico! Non ho visto mai un sacerdote – e di sacerdoti santi ne ho conosciuti – che celebrasse con tanta compenetrazione e tanta devozione come Mons. Pellecchia. 2. L’amico 114 Metalogicon (2003) XVI, 2 Chi ha conosciuto Don Pasquale non intimamente come voi, ma lo ha conosciuto nell’ambiente accademico, e conosce me, sa benissimo che mai due temperamenti così diversi si sono dati in natura. Don Pasquale era riservato, era portato alla meditazione, pensava 24 ore su 24. Mons. Pellecchia, quando prendeva il tram, continuava a pensare; se passeggiava, pensava; interrompeva di pensare soltanto quando pregava. Conosceva due sole cose: pensare e pregare, non conosceva altro. Io al contrario “caciarone”, estroverso, ridanciano, amante della compagnia, scanzonato al limite della disinibizione. Ricordo il primo Consiglio di Facoltà a cui presi parte nel periodo in cui ero professore invitato alla Pontifica Università Lateranense, nel periodo in cui era Rettore Mons. Rossano. Don Pasquale mi guardava con sospetto, come dire “ma questi chi è?”. Mi controllava, mi studiava: “devo proprio vedere chi è costui”. Capii subito che era un acuto osservatore. Quando poi pubblicai un libro di logica simbolica dal titolo La logica primaria, Strumenti per un dialogo tra le due culture ne regalai una copia soltanto a poche persone della Laterense, cioè a quei pochi che erano in grado di capire, e Don Pasquale apparteneva a questa ristrettissima cerchia. Mentre gli altri colleghi o conoscenti, quando ricevono in dono un libro di cui sei autore, ti fanno gli elogi, per lo più insinceri, senza averlo mai letto, Don Pasquale mi scrisse una lettera: “Egregio Professor Malatesta grazie del libro”, punto. “Devo farle una serie di osservazioni. La prima a pag. tot: lei ha parlato di dimensione semantica della verità, perché non ha parlato di dimensione apofantica? Fa lei una distinzione tra semantica e apofantica? E se fa una distinzione quale è?” E così di seguito: tutta una serie di obiezioni, di osservazioni critiche e di domande incalzanti che sollecitavano una risposta. Invece di scrivergli – non ci incontravamo negli stessi giorni, perché i primi tre giorni della settimana io insegnavo a Napoli – aspettai che uscisse dall’aula una volta che mi trovavo a Roma. Dissi: “Monsignore”. “Ah! Ha ricevuto la mia lettera?”. “ Sì. Sono venuto a ringraziarla; andiamo a prenderci un caffè e ne discuteremo”. “Ah! – disse lui – ma lei non è permaloso, no?”. 115 Metalogicon (2003) XVI, 2 “No! non sono affatto permaloso”. “Noi due andremo molto d’accordo” concluse. Si passò così spontaneamente dal “lei” al “tu”. Eravamo due temperamenti diametralmente opposti, ma avevamo un unico trend culturale ed esistenziale. Quanto a carattere eravamo però identici: due caratteri identici innestati su due temperamenti diametralmente opposti. Ed è su un’identica base culturale ed esistenziale che è nata un’amicizia meravigliosa proprio perché è un’amicizia che non è sbocciata dalla simpatia. Addirittura vi era stato un certo distacco, anzi una certa repulsione iniziale; non c’era nessuna attrazione tra noi due. La nostra amicizia, un’amicizia profondissima, è nata da una comunanza di interessi, da un trend alla verità prima di tutto, alla verità sopra tutto, anche quando questa fa male, anche quando ti può creare delle ostilità, anche quando sai che può costarti un’amicizia alla quale tieni moltissimo e alla quale, rischiando di essere frainteso, devi rinunciare, soprattutto quando si tratta di difendere l’ortodossia. In questo la pensavamo alla stessa maniera, il sacerdote cattolico Pasquale Pellecchia e il laico cattolico Michele Malatesta.Un’ultima cosa: quando c’era da prendere una decisione, o agire in un determinata direzione, ci comportavamo alla stessa maniera senza esserci preventivamente consultati o messi d’accordo. Eravamo – mi si perdoni l’eresia filosofica antitomistica, ma efficace ai fini della comprensione – come due diversi intelletti pazienti ma mossi da un unico intelletto agente. 3. Lo studioso Quanto allo studioso, non si può riassumere nel giro neppure di un’ora, la vastità, la complessità del pensiero di Don Pasquale Pellecchia, perché Don Pasquale era un tuttologo. Io avevo, ed ho tuttora, un pessimo concetto dei tuttologi, cioè di coloro che si occupano di tutto, perché, generalmente, chi si occupa di tutto è superficiale; ma dopo gli appunti che Mons. Pellecchia aveva fatto al mio libro dovetti cambiare opinione nel caso specifico, perché Don Pasquale non leggeva, non sapeva leggere, Don Pasquale studiava, cioè ogni libro lo penetrava così a fondo per cui 116 Metalogicon (2003) XVI, 2 assimilava quello che era assimilabile e criticava col bisturi del chirurgo, con la mano ferma, ogni elemento cancerogeno che doveva essere espunto; era implacabile su questo, non conosceva le mezze misure, non conosceva la diplomazia. Don Pasquale era un uomo del Vangelo “Sit autem sermo vester, est, est; non, non; quod autem his abundatius est, a malo est”.5 Era così. La produzione scientifica di Mons. Pellecchia è enorme: ha scritto libri, ha scritto saggi, ha scritto articoli, ha scritto recensioni. Ebbene posso garantirvi che le recensioni di Don Pasquale non hanno nulla a che vedere con le normali recensioni: le recensioni ordinarie si scrivono per far comprare un libro, per procurarsi gli amici, per ingraziarsi i potenti, per guadagnare una cattedra universitaria. Le recensioni di Don Pasquale Pellecchia erano estremamente critiche. Ogni recensione in effetti era un articolo scientifico, nel senso pieno della parola. Ebbene la prima cosa che devo dire a voi di Aquino questa sera è che, se non vi date da fare, l’enorme produzione scientifica di Don Pasquale Pellecchia andrà distrutta. Ho setacciato tre biblioteche prima di venire questa sera a parlare: sono stato alla biblioteca dell’Almo Collegio Capranica, sono stato alla Biblioteca Nazionale, sono stato alla biblioteca della Lateranense. All’Almo Collegio Capranica, che pure ha ereditato per testamento la ricchissima biblioteca di Don Pasquale, vi è appena un libro scritto da lui. Anche alla Nazionale vi è soltanto un libro; il resto non esiste. Mi dispiace dirlo, all’Università Lateranense, dove è stato per lungo tempo professore ordinario di Filosofia della natura, non c’è neppure un volume.6 Detto questo, posso dare semplicemente dei flash, data la vastità del pensiero di Don Pasquale. Mi limito soltanto a delineare, a volo d’uccello, quali sono stati gli interessi di Mons. Pellecchia; poi, dopo aver evidenziato la sua metodologia, passo a focalizzare il discorso su tre punti: prenderò in considerazione 5 Mat. 5, 37. A questo punto S.E. Mons. Fisichella ha fatto presente che si tratta soltanto di un’irreperibilità temporanea dovuta ai lavori di catalogazione tuttora in corso. Voglio sperare che sia cosí. Conosco troppo bene l’emarginazione dei pensatori ortodossi in certi ambienti! 6 117 Metalogicon (2003) XVI, 2 brevemente un volume, un saggio, un articolo, giusto per dare un assaggio del suo pensiero. Don Pasquale Pellecchia è autore di vari volumi: Vie e sentieri assoluti, approccio critico agli ateismi contemporanei (1979), La filosofia tra empiriologia e fede (1980), Filosofia del mondo fisico, momenti e problemi (1981); I popperiani e le rivoluzioni scientifiche (1986). Già vedete che Don Pasquale, che era professore ordinario di Filosofia della natura, trasborda da quello che è l’oggetto specifico della sua disciplina, perché il bel volume, Vie e sentieri assoluti, è in effetti un’opera di metafisica. Don Pasquale avrebbe potuto insegnare tranquillamente, come ordinario, metafisica, etica, logica, epistemologia, oltre che filosofia della natura. Don Pasquale è autore di numerosissimi saggi. Riporto appena uno specimen tra quelli dell’ultimo settennio: Discorso meta-fisico e discorso meta-forico: Derrida (1989), La parola e lo spazio: l’indeterminatezza della parola (1989), Per una filosofia del corpo (1990), La pro-fanazione heideggeriana di Dio (1992) Sulle tracce del post-moderno, I e II (1992), Archeologia del postmoderno: Bataille, Lacan, Derrida (1993), Archeologia del postmoderno. M. Foucault (1993), Metempiriologia della materia prima (1993), I principi matematici kantiani del mondo fisico, 2 (1994), Kant, la razza e la storia (1994), L’esilio ou-topico dell’etica: L. Wittgenstein, 1 (1994), Genealogia dell’immoralismo (1954), Cassirer e il simbolo (1995). Vedete bene che non c’è settore della filosofia che Mons. Pellecchia non abbia toccato, e poteva permettersi questo lusso proprio perché Don Pasquale non leggeva simpliciter, ma leggeva con quel criterio che ho indicato sopra; Don Pasquale non era lettore, un amante della lettura fine a se stessa; Don Pasquale era uno che pigliava sempre le distanze o manifestava la condivisione, a seconda che un autore, o un aspetto del suo pensiero, potesse essere assimilato o respinto; non era il lettore asettico. Don Pasquale era incapace di essere neutrale, bisognava essere o con lui o contro di lui; ma se con lui ne motivava il perché, se contro di lui giustificava sempre il rifiuto. La sua presa di posizione, pro o contro, era sempre una presa di posizione criticamente motivata. 118 Metalogicon (2003) XVI, 2 Ebbene come lavorava Don Pasquale? Quale era la sua metodologia? Prendiamo La filosofia del mondo fisico:7 Quest’opera inizia con una parte teoretica. Attualmente – esordisce il Nostro – sembra quasi da filosofi antiquati parlare di una filosofia della natura, oggi che s’è visto che le scienze sono andate avanti; in effetti noi non conosciamo la natura ma conosciamo i nostri modelli della natura. Pasquale Pellecchia fa vedere come, anche laddove si costruiscono nuove visioni scientifiche, in effetti, prima o dopo, si deve fare riferimento a quel dato oggettivo che rappresenta – come Don Pasquale dirà in scritti successivi – lo zoccolo duro della scienza. Mons. Pellecchia procede a questa maniera: prima dà un quadro storico mettendo a fuoco alcuni momenti di filosofia della natura: presocratici, Pitagora, Platone, Cartesio, Galilei, Kant, Circolo di Vienna, Scuola di Copenhagen, Einstein, Popper; poi affronta i problemi da un punto di vista squisitamente teoretico: la quantità, lo spazio la qualità, il moto, il tempo; dopo questa indagine teoretica rifà i conti con la storia della filosofia e con la storia della scienza; riesamina e ridiscute le posizioni di Platone, Aristotele, Agostino, Kant, Bergson, Reichenbach, Bachelard, Cartesio. Vedete che l’ordine cronologico è rispettato solo in parte: è piuttosto l’ordine sistematico, di complessità di idee che vengono fuori, ciò che sta a cuore al filosofo della natura ed epistemologo Pasquale Pellecchia. Quanto al bel volume Vie e sentieri assoluti,8 leggerò qualche pagina molto interessante. È chiaro che già nel titolo c’è una presa di distanza da Heidegger. E’ molto interessante l’inizio di questo lavoro che parte da un noto passo della Gaia scienza di Nietzsche: «Non avete mai udito parlare di quel folle che in un luminoso mattino accese la lanterna, corse al mercato e gridava incessantemente: “Io cerco Dio, io cerco Dio”? Perché lì si trovavano molti uomini che non credevano in Dio, egli suscitò una grande risata ... L’uomo folle 7 P. Pellecchia, Filosofia del mondo fisico, momenti e problemi, Salerno, 1981. 8 P. Pellecchia, Vie e sentieri assoluti. Approccio critico agli ateismi contemporanei, Cassino, 1979. 119 Metalogicon (2003) XVI, 2 irruppe fra di loro e li trapassò coi suoi sguardi: “Dov’è andato Iddio”? Egli gridò, ve lo dirò io : — Noi l’abbiamo ucciso, voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini! Ma come mai abbiamo fatto questo? Come abbiamo potuto tracannare il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte? … Non erriamo noi con un infinito nulla? Il vuoto spazio non ci alita sopra per aspirarci? Non fa ora freddo? Non scende sempre la notte e sempre più notte? Non devono le lanterne essere accese al mattino? Non sentiamo noi ancora lo strepito dei becchini che seppelliscono Dio? Non sentiamo noi nulla del fetore della putrefazione divina? — anche gli dei si putrefano! Dio è morto! Dio rimane morto! E noi l’abbiamo ucciso!”».9 Guardate le acute considerazioni che fa Don Pasquale a proposito di questo testo: “Il testo è il delirio veggente di un folle e, oggi, può suonare come una profezia post eventum. Oggi molti, moltissimi, sul mercato non credono in Dio. Quando diciamo moltissimi, ci riferiamo, in verità, più a centri di espressione della vita culturale che agli individui; non escludiamo gli individui”.10 La grande malattia dei tempi nostri non è l’ipocrisia, è il nicodemismo. Io conoscevo un professore universitario, ora morto, che andava a fare la comunione in una cappella di suore dove nessuno lo vedeva perché si vergognava davanti a tutti. Ebbene, nostro Signore che cosa ha detto? «Omnis ergo qui confitebitur me coram hominibus, confitebor et ego eum coram Patre meo qui in caelis est».11 Don Pasquale si rende conto che l’ateismo spesso non è un fatto individuale: non rare volte il singolo di nascosto crede, ma ha paura di manifestare in pubblico il suo credo perché altrimenti non fa carriera, perché la massoneria non lo manda avanti, altrimenti i centri di potere gli stroncano le gambe. “Porre in questi ambienti, politici, filosofici, scientifici, culturali, — continua il Nostro — il problema di manifestare l’anelito della ricerca di Dio, può suscitare una grande risata. Le 9 Nietzsche, La gaia scienza, passo n. 125, in P. Pellecchia, Op. cit., p. 11. Op. cit., pp. 12-13. 11 Mt. 10, 32. 10 120 Metalogicon (2003) XVI, 2 domande sarcastiche e irridenti degli uomini del mercato dicono ad alta voce i sentimenti che si muovono nell’anima dell’uomo moderno, e che solo un «civile» fair-play libera il credente di sentirsi profferire in faccia. In fondo, anzi, il folle sembra ancora soffrire di nostalgia; il mondo contemporaneo sembra invece vivere serenamente il suo ateismo. Non sente né notte né freddo né strepito di becchini né fetore di putrefazione. E’ ateo tranquillamente…. L’Europa è serena. L’Europa è libera. Non c’è neppure il senso di sollievo di chi si è liberato…: non c’è spazio per il problema di Dio. Il problema è semplicemente assente. Non ci sono inquietudini. Dio non si deve difenderlo né negarlo. E’ un nome, come lo è Giove o Saturno. Ci sono degli studiosi che si occupano di Lui, come altri si occupano dalla mitologia. Ognuno ha il suo hobby. Tutto qui.”12 Un pensatore che parte da una diagnosi così acuta della società contemporanea e che non è uomo di compromessi non si ferma. Proprio a partire da questa diagnosi ha il coraggio di riproporre le prove dell’esistenza di Dio, e le ripropone nello spirito dell’Aquinate. Dice: se uno legge quelle prove così come stanno scritte, sembrano ferraglia di altri tempi: non c’è più il primo motore, non ci sono più i cieli che ruotano; ma il messaggio enorme che ci viene da Tommaso d’Aquino è che Tommaso della Summa teologiae ha liberato il motore primo da tutti i vincoli che aveva con la fisica aristotelica, vincoli che che erano ancora presenti nella Contra Gentiles. Con Tommaso inizia una nuova maniera di fare filosofia: ne sono coscienti i contemporanei.13 Tommaso e Agostino sono più vicini di quanto non si sospetti: Tommaso è più vicino ad Agostino che ad Aristotele, e Agostino è più vicino a Tommaso cha a Platone. Tommaso ha preso il linguaggio di Aristotele, come noi oggi mutuiamo il linguaggio 12 P. Pellecchia, Vie e sentieri assoluti, cit. p. 13 “Erat enim frater Thomas novos in sua lectione movens articulos, novum modum et clarum determinandi inveniens, et novas adducens in determinationibus rationes...”, Guill. de Toc. Vita s. Thom. Aquin. n. 14. Analoghe osservazioni in Tolomeo da Lucca, Hist. Eccl., L. XXII, c. 24. Si veda pure A.-D. Sertillanges, La philosophie de S. Thomas d’Aquin, tr. it. 1957, p. 19. 13 121 Metalogicon (2003) XVI, 2 dalle scienze moderne. Se oggi devo parlare di una questione filosofica non userò certo il linguaggio dell’alchimia o della fisica pregalileana, io parlo a partire dagli ultimi ritrovati della chimica e della fisica quantistica contemporanea. Quello che però conta non è il linguaggio scientifico di un’epoca, ma che cosa si intende dire al di sotto della patina del linguaggio scientifico di ieri o di oggi o di domani. Un saggio meraviglioso, molto profondo a mio modo di vedere, è quello intitolato Metempiriologia della materia prima.14 Scrive Don Pasquale: “Vogliamo parlare della «materia prima», di quella materia che si trova sotto le infinite forme delle realtà materiali della fisica, le forme della realtà astronomica, delle realtà biologiche, delle realtà zoologiche, delle realtà botaniche e così via. Sia quel che sia un elemento chimico o un «elemento» 2 botanico, sia quel che sia la materia di e = mc o la sua energia, etc. che cosa è ciò per cui esse sono realtà materiali? Che cosa è ciò per cui è materia ciò che si presenta sotto forma di energia e ciò che si presenta sotto forma di massa?”.15 Si tratta di considerazioni acutissime: quando si considera l’equazione di Einstein, non si va dal nulla alla massa, o dalla massa al nulla, non si va dall’energia al nulla o dal nulla all’energia, no!, se la massa si trasforma in energia ci vuole qualche cosa che resta, non è un passaggio dal nulla, ma è un passaggio da materia a materia, anche se è depotenziata, “dematerializzata” possiamo dire, ma vi è questa materia prima che è la stoffa comune dell’energia e della massa. Qui ci sono delle considerazioni acutissime che soltanto Don Pasquale e pochi come lui erano in grado di fare, perché Mons. Pellecchia - cosa che sorprendeva e incuteva timore riverenziale – era uno che discuteva di matematica, discuteva di fisica, discuteva di linguistica. Don Pasquale era dentro alle questioni di linguistica come pochi; conosceva De Saussure, conosceva Chomsky, conosceva la scuola di Praga, conosceva la scuola di Copenhagen. 14 P. Pellecchia, Metempiriologia della materia prima, in Dialogo della filosofia, n. 10, Università Lateranense, 1993, pp. 343-372. 15 Op. cit., p. 344. 122 Metalogicon (2003) XVI, 2 Don Pasquale era uno che in questo somigliava molto a Immanuel Kant; più che leggere i filosofi faceva i conti con la cultura contemporanea; si sa che Kant leggeva pochissimo, era quasi analfabeta di storia della filosofia, basti pensare che nella prefazione alla seconda edizione alla Critica della ragion pura (1787) ha scritto che la logica da Aristotele in poi “non ha dovuto fare nessun passo indietro...Importante è inoltre il fatto che sino ad oggi la logica non ha potuto fare un sol passo innanzi, e quindi, secondo ogni apparenza, è da considerarsi conclusa e completa”.16 Povero Kant! Però Kant leggeva di geografia, leggeva di astronomia, leggeva di arte, leggeva di tutto ma, avendo una forma mentis di filosofo, meditava su queste scienze, che non sono di natura filosofica, da un punto di vista filosofico. Secondo voi come è venuta fuori la Critica del Giudizio? Dalla riflessione su che cosa è bello, che cosa è il piacevole, che cosa è l’arte, che cosa è il bello di natura, che cosa è il finalismo della natura, che cosa è il finalismo interno, che cosa è il finalismo esterno. C’erano problemi che ponevano le arti, figurative e non, e le scienze dell’epoca alla riflessione filosofica di Emanuele Kant, ecco perché ha potuto anche aprire un capitolo nuovo della storia della filosofia con la Critica del Giudizio. Don Pasquale era uno che era dentro alla matematica, era dentro alla fisica, era dentro alle scienze naturali, così come era dentro alla linguistica, così come dentro all’ermeneutica (che a me non interessava e non interessa); a Don Pasquale interessava pure questo, perché doveva vedere anche quell’anima di verità che stava lì dentro, e se non c’era doveva rifiutare e giustificare il suo rifiuto. Ebbene, osserva Don Pasquale, il filosofo si chiede perché è materiale l’idrogeno e l’ossigeno, il protone e l’elettrone, il leone e l’erba, che tipo di essere è quell’essere per cui l’idrogeno e l’ossigeno, il protone e l’elettrone, il leone e l’erba sono cose materiali. In fondo la domanda e la risposta non sono oggi diverse da quelle che si facevano gli antichi quando conoscevano solo acqua, aria, terra e 16 I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Torino, 1967, p. 39. 123 Metalogicon (2003) XVI, 2 fuoco. Pasquale Pellecchia ha perfettamente ragione, ha messo il dito sulla piaga. In un celebre libro scritto da un epistemologo francese nella seconda metà degli anni ’60, Jean Fourastié, dal titolo Les conditions de l’esprit scientifique,17 questo acuto filosofo della scienza francese aveva visto che esistono due ignoranze: vi è l’ignoranza volgare, prescientifica, e l’ignoranza scientifica. In poche parole, l’uomo, prima di Lavoisier, non sapeva che cosa era l’acqua; sì la conosceva come bevanda, la conosceva come liquido che serviva a dissetare, ma ignorava quale fosse l’essenza dell’acqua; arriva Lavoisier e scopre che l’acqua è fatta di idrogeno e di ossigeno. Precedentemente, dice Fourastié, noi avevamo semplicemente un’ignoranza, non sapevamo che cos’era l’acqua; ora l’ignoranza diventa doppia: non sappiamo che cosa è l’ossigeno, non sappiamo che cosa è l’idrogeno. L’idrogeno ha un nucleo centrale, un elettrone periferico, l’ossigeno ha un nucleo centrale e otto elettroni periferici. E che cosa è il nucleo centrale? E che cosa è l’elettrone periferico? L’ignoranza aumenta, diceva questo grande epistemologo: la scienza procede con progressione aritmetica, l’ignoranza scientifica cresce in progressione geometrica. Ebbene, che cosa sta a dire qui Don Pasquale? Sta dicendo questo: che per quanto noi costruiamo questi nuovi modelli, per quanto noi ci avviciniamo sempre più all’oggetto dell’empiriologia, resta quest’ultimo zoccolo duro, questa materia prima che la mente umana non potrà mai raggiungere, mai toccare; però non è un fatto mentale, si distingue dal noumeno di Kant, perché mentre il noumeno di Kant è puramente pensabile, la materia prima è il limite dell’indagine scientifica; tu non lo postuli, te lo trovi davanti; aumenta la chiarificazione ma tu ti trovi sempre questa stoffa primordiale con cui sono fatti tutti i panni: la stessa energia, gli stessi fotoni, le particelle che oggi si contano a bizzeffe non sono certamente l’apparenza di nulla a nessuno; quindi per quanto le nozioni scientifiche vadano avanti e siano approfondite sempre più, resta il limite della materia prima 17 J. Fourastié, Les conditions de l’esprit scientifique, Paris, 1966. 124 Metalogicon (2003) XVI, 2 che poi è l’oggetto fondamentale, qualche cosa che non è posto dalla mente umana ma qualche cosa che costringe la mente umana ad riconoscerlo. Del resto le stesse indagini di approfondimento non potrebbero essere eseguite se non ci fosse questo dato oggettivo, condizione della stessa ricerca scientifica. Un ultimo flash sulla filosofia di Mons. Pellecchia lo darò a partire da un articolo del 1994 – l’anno prima della sua scomparsa – che è di una modernità e di una attualità sconcertante. E’ intitolato: Kant, la razza e la storia.18 Scrive Don Pasquale: “ … dobbiamo confessare che quello che ci ha mosso alla scrittura di queste pagine è la rilettura, che le moderne migrazioni dal Sud verso il Nord ci hanno imposto, del saggio del 1775, Delle diverse razze di uomini e della Determinazione del concetto di razza che è del 1785. È a tutti noto che, dal 1775 fino al 1798, Kant si è occupato frequentemente del problema della storia. Come resistere alle sollecitazioni di meditare su la Razza e la Storia, oggi che il “razzismo” sta suscitando problemi, proteste vergognose, reazioni, con le quali la Storia di questa nostra Europa, da sempre, in verità, (così) verbosamente umanista, (così) ipocritamente tollerante e civile, (così) superficialmente cristiana, dovrà fare i conti? L’etnocentrismo europeo, tronfio di gloria per una cultura e per una civiltà, quella classica, che non è né la più antica né la più profonda, ignaro o dimentico che persino la sua religione, quella cristiana, viene dall’Oriente, e dall’Oriente ha ricevuto i suoi grandi Padri, e dall’Africa Tertulliano e Arnobio e Minucio e il suo grande Genio, Agostino, si è arrogato una centralità che solo la scienza empiriologica e la scienza tecnologica gli hanno facilitato o permesso. Ma l’etnocentrismo europeo ha dimenticato che, in tempi non lontani della sua storia, è stato il pensiero arabo di Althazen, nato a Basra, di Alfraganus, persiano, di Al-Baltani (Albatenius), originario di Harran, di Al-Bitruje (Alpetragius), di Al-Kindi dell’Arabia del sud, di Al-Farabi, nato a Wasis di Trausoxian, di Avicenna di Afishana (presso Bukhara), di AlGhazali del Koresan, di Avempace arabo di Saragoza, di Averroé 18 P. Pellecchia, Kant, la razza e la storia, in “Aquinas” (1994), pp. 263-297. 125 Metalogicon (2003) XVI, 2 arabo di Cordova, che ha dato luce all’Europa medioevale dei barbari. / In tempi più recenti, a noi vicini, l’Europa ha creduto di essere ‘cattolicamente’ umanista perché ha rifiutato, inorridita, il mito della bionda razza germanica, ma non ha compreso che il suo plurisecolare etnocentrismo, colonialista e tecnocratico, era l’humus che aveva alimentato quel mito barbarico, non ancora morto. Ma ora, che il Sud nero del mondo e l’Est del pianeta urgono impetuosi, sui suoi confini, sta prendendo coscienza del suo intollerante razzismo nascosto, ma vivo e pericoloso. L’Europa ha paura delle razze! E la paura, irrazionale, è tanto più alta, quanto più vistosa è la differenza razziale, quanto più alta e marcata è la diversità del «bianco». Forse la meditazione su Kant ci permetterà di comprendere che proprio la razza, con tutto ciò che di concreto, di storico, di geofisico essa comprende nel suo concetto, è non una variabile da cancellare nell’astrazione di un «umanesimo» trascendentalistico, irreale e asettico, ma una dimensione visibile, carnale, inassimilabile, inesauribile da rispettare e da valorizzare, in cui l’Uomo si «incarna» e «incarna» la sua immutabile, inesauribile, singolare, umanità, ilemorfica, non riducibile.”19 Io qui ci vedo tutta la presenza di Tommaso. A proposito del problema dell’individuazione, spesso si è detto che l’individuazione è assegnata da Tommaso alla “materia signata quantitate”, ma questo vale semplicemente per i corpi. Ma la persona umana non si esaurisce nel corpo: «Persona igitur ... in humana natura significat has carnes et haec ossa et hanc animam, quae sunt principia individuantia hominem».20 Questo senso di concretezza che ha Don Pasquale gli veniva, consentitemi ancora una volta, da quelle radici culturali romane e volsche che hanno forgiato il pensiero di Tommaso prima e di Mons. Pellecchia dopo. Non dimentichiamo il contributo di un altro grande volscoromano: Marco Tullio Cicerone. Cicerone, non lo dimenticate mai, ha creato il vocabolario filosofico dell’Occidente; non sarebbe mai iniziata una filosofia dell’Occidente senza la 19 20 Op. cit., pp. 264-265. S. Th. Pars I, Quaest. 29, Art. 4, c. 126 Metalogicon (2003) XVI, 2 mediazione di Cicerone e il senso di concretezza della latinità che era sangue del suo sangue. Vi leggo la chiusura di questo articolo: “Hegel fissa razzisticamente, ciò che il formalismo kantiano proibisce, alcune figure della filosofia della Storia, per cui tra Africa e razza etiopica, tra Asia e «razza mongolica», tra Europa e razza caucasica, pone gradi si sviluppo spirituale: «I Negri devono essere considerati una nazione infantile» sia nella vita politica che in quella religiosa; la «razza mongolica» non «coglie ancora lo spirito nella sua assoluta libertà», «solo nella razza caucasica lo spirito perviene all’assoluta unità con se stesso»”.21 Al contrario, “Kant ha conservato nell’anima della cultura moderna e contemporanea il rispetto per l’uomo universale, per l’Universale dell’uomo, ma non ci ha fornito neppure i principi per l’amore dell’uomo di razza, per il Tu nella sua concretezza. L’altro, l’uomo di un’altra razza, «l’uomo dell’acido solforico (che rende tutti i negri puzzolenti)» (Delle diverse razze, p. 115) non è limite dell’Uomo, non è neppure un «caso» dell’Uomo, è l’unico vero «altro», che deve essere, non solo rispettato, ma amato, come una ricchezza dell’Uomo. E ci spiace che in un recentissimo denso volume «De l’un et de l’autre. Essai sur l’alterité» di L. De Finance – non ci sia alcuna attenzione su questa precisa alterità, ma solo sulle «alterità» generali in quanto tali; e ci spiace che certi cristiani credono di dover amare «Cristo» nell’altro, invece di amare l’altro, il nero, giallo, rosso, quale «alter Christus». Oggi è l’ora dell’amore delle razze!”.22 Abbiamo visto attraverso questi flash una poliedrica personalità: abbiamo visto il Mons. Pellecchia metafisico, il Mons. Pellecchia filosofo della natura, il Mons. Pellecchia che medita su un problema attualissimo quale è quello del conflitto delle civiltà, conflitto tra le culture, conflitto tra le razze. Voi ricorderete una bellissima conferenza che Don Pasquale tenne a Sora, in 21 P. Pellecchia, Kant, la razza e la storia, cit. pp. 294-295. Op. cit., pp. 296-297. Dopo aver salvato l’umanità in tutti, Kant prende le distanze dalla razza; Hegel accetta le razze, però stabilisce una gerarchia tra esse. Come si vede, chi ci rimette è sempre l’uomo nella sua concretezza. 22 127 Metalogicon (2003) XVI, 2 occasione del centenario sia della proclamazione di San Tommmaso a dottore universale, sia dell’enciclica di Leone XIII, che fissava il tomismo come filosofia ufficiale degli studi cattolici. Ebbene Don Pasquale terminava quella stupenda conferenza col sottolineare come Tommaso non aveva ripetuto Agostino, non aveva ripetuto Aristotele, ma aveva fatto l’impatto con quello che era la cultura contemporanea; Tommaso più che dialogare con Platone, con Plotino, con Aristotele, dialogava con Averroè, dialogava con quelli che erano gli avversari della fede in quel momento, sempre per assimilare quell’anima di verità che è presente dovunque perché il Verbo illumina ogni uomo che viene nel mondo, ma anche nello stesso tempo per combattere l’errore, perché questo è il compito del filosofo cristiano: ricercare la verità prima di tutto, ricercare la verità sopra tutto, ricercare solo la verità. San Tommaso ha fissato una volta per sempre il canone della filosofia: “studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quod homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum”.23 : lo studio della filosofia non consiste nel sapere che Platone ha detto questo e Aristotele ha detto questo, Kant ha detto questo, ma: quello che ha detto Platone, quello che ha detto Aristotele, quello che ha detto Kant, è vero o è falso? In questo consiste veramente lo studio della filosofia: nel cercare la verità, nel conoscere la verità, nell’insegnare la verità; e non dimenticate che San Tommaso l’ha cercata per tutta la vita come filosofo, così come l’ha meditata tutta la vita come teologo. San Tommaso quando faceva il teologo partiva dalla Verità; quando faceva un discorso non fondato sul dato rivelato ma semplicemente con argomenti di ragione aveva come unico trend la Verità, e, di conseguenza, le verità che di quella partecipano. Penso che sappiate tutti qual è il testamento spirituale di Tommaso. Il 6 marzo 1274, vigilia della sua morte, ricevette il viatico dopo aver pronunciato queste parole – le riferisco a senso – : “ricevo te, o prezzo della redenzione dell’anima mia. Ho studiato te solo, ho cercato te solo, ho amato te solo, non ho avuto altro affetto nella mia vita che te; ho cercato nei miei scritti di non 23 In I de coelo. cap. X, lect. XXII, 8. 128 Metalogicon (2003) XVI, 2 sbagliare mai, ma se ho commesso qualche errore lascio i miei scritti nelle mani della Chiesa perché li corregga”. Che umiltà! Ci sono oggi teologi che si arrogano il diritto di essere teologi cattolici e distano mille miglia da Roma e dai dogmi della Chiesa universale. Tommaso ha ricercato la verità e ha speculato in spirito di verità in Christo et in Ecclesia, e, consentitemi di dire, Mons. Pellecchia, suo acuto interprete e degnissimo conterraneo, ha fatto la stessa cosa. 129