scaricamanuale . doc - Il volto della storia

NOVECENTO
a cura di
ALFREDO CARRELLA
Adriana de Giovanni Alessandro Bonadies Alessia Morra Alessia Pinto
Andrea Memoli Anna Borrasi Annaluce Mandiello Antonio Caiazzo
Camilla Padula Carmela Parisi Carmen Galantuomo Carolina Pascucci
Concetta Ottati Cristina Capone David Giudice Elio Annunziata Federico
Pascucci Felicia Pirolo Fernanda Ceni Filippo Iovieno Filomena Pagano
Francesca de Matteo Francesca Laudisio Francesco Alfinito Francesco
Guerritore Giulia Vitiello Marcello Napoli Roberto Vairo Teresa Coraggio
www.manualedistoria.altervista.org
INDICE
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Introduzione
L’IMPERIALISMO
~ TEORIE SULL’IMPERIALISMO. Lenin: L’imperialismo,
capitalismo. Schumpeter: il capitalismo è antimperialista.
fase
suprema
del
~ GLI IMPERIALISMI. L’epoca dell’imperialismo. Il nazionalismo. Il razzismo. Le fonti
energetiche. L’Europa in Africa. Gli Stati Uniti.
16
L’ETA’ GIOLITTIANA
~ CARATTERISTICHE GENERALI. Giolitti sale in cattedra. Il decollo industriale. Il
dramma dell’emigrazione. Come Giano bifronte.
~ CON I SOCIALISTI. Giolitti e il Partito socialista. Minimalisti e massimalisti. Lo
sciopero del 1904.
~ CON I CATTOLICI. La Democrazia cristiana. Il Patto Gentiloni. La “settimana rossa”.
~ LA POLITICA ESTERA. La Libia: “lo scatolone di sabbia”.
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LA GRANDE GUERRA
~ LE CAUSE E L’INIZIO. Le cause. La scintilla. Dalla guerra lampo alla guerra di
posizione.
~ L’ITALIA E LA GUERRA. Neutralisti e interventisti. Il segreto Patto di Londra. Il
fronte italiano.
~ LA GRANDE GUERRA. 1915-16: nel cuore della guerra. La vita al fronte. La
tecnologia militare. La massificazione della guerra. Il ruolo dello Stato nell’economia.
La propaganda e il consenso. Il genocidio degli Armeni. 1917: l’anno della svolta. La
disfatta di Caporetto. Fasi finali del conflitto.
~ I TRATTATI DI PACE
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LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
~ LE CONDIZIONI STORICHE E I MARXISTI
3
~ LE TRE RIVOLUZIONI. La Rivoluzione del 1905. La Rivoluzione di febbraio. La
Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale.
~ IL POTERE SOVIETICO. L’Assemblea Costituente. La guerra civile. Elementi di
dittatura proletaria: La Costituzione del 1918. Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep.
~ LA RIVOLUZIONE SCISSA
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Il BIENNIO ROSSO
~ LE RIVOLUZIONI FALLITE
~ IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA. La situazione economica. don Sturzo e il Partito
popolare italiano. Le elezioni del 1920. Lotte contadine. Le occupazioni delle fabbriche.
Partito e sindacato.
~ LA III INTERNAZIONALE.
~ 1921: NASCE IL PCd’I.
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Il FASCISMO IN ITALIA
~ DAL MOVIMENTISMO SQUADRISTA AL REGIME. I fasci di combattimento. Il
fascismo agrario. Fascisti e liberali. La marcia su Roma. Il governo di coalizione. Le
riforme. Il delitto Matteotti e l’Aventino.
~ LA COSTRUZIONE DELLO STATO AUTORITARIO. Le leggi fascistissime. La
riorganizzazione del partito. Propaganda e consenso. L’uso dei media. I Patti
lateranensi. Dal liberalismo allo statalismo. Le corporazioni. Lo Stato imprenditore. Il
colonialismo fascista: “un posto al sole”. L’asse Roma–Berlino e le leggi razziali.
L’attività antifascista. Totalitarismo perfetto o imperfetto?
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LA CRISI DEL ‘29
~ IL MEGLIO NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI. Ford e il modello “T”. Il
consumatore di massa. L’Isolazionismo. I repubblicani al governo. La borsa di New
York.
~ Il ‘NEW DEAL’. F. D. Roosevelt. Il programma politico-economico. Keynes e le
politiche anticicliche.
~ TEORIE DELLA CRISI DEL ’29. Teorie borghesi. Teoria marxista.
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L’ASCESA DEL NAZISMO
~ LA GERMANIA DI WEIMAR. Il movimento operaio tedesco. La Costituzione di
Weimar. La vergogna di Versailles.
~ LA TRASFORMAZIONE DEL PAESE. L’occupazione della Ruhr. Nasce il Partito
nazionalsocialista. IL Mein kampf. La stabilizzazione con Stresemann.
~ L’ASCESA DI HITLER. L’eco di Wall Street. La caduta della Repubblica di Weimar.
~ IL PROGRAMMA NAZISTA. Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo. La
teoria della razza. L’ascesa elettorale del Partito nazista.
~ IL TERZO REICH. Repressione e persecuzione. L’accordo religioso. La propaganda.
4
~ ECONOMIA E STATO TOTALITARIO
~ Hitler al governo. L’“economia di guerra”. H. Arendt: “Le origini del Totalitarismo”.
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LO STALINISMO
~ L’ASCESA DI STALIN. Trotsky e Stalin. “Il socialismo in un solo paese”.
~ LA COSTRUZIONE DEL CAPITALISMO DI STATO. L’industrializzazione forzata.
La collettivizzazione forzata. Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia.
~ LO STATO TOTALITARIO. Il culto della personalità. Le epurazioni. I Gulag.
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LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
~ LA PROVA GENERALE. Ancora il latifondo. La Repubblica. Falange nazionalista e
Brigate internazionali.
88
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
~ I PRODROMI DELLA GUERRA. L’appeseament, l'Asse Roma-Berlino e il Patto antiComintern. La svolta del Cominter e i fronti popolari. L’arrendevolezza della Gran
Bretagna. L’annessione dell’Austria e l’aggressione della Cecoslovacchia. La
Conferenza di Monaco. Mussolini vuole l’Albania. Il Patto Molotov-Ribbentrop. La
Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale.
~ 1939-1942. I tedeschi a Parigi. L’Italia in guerra. La battaglia d’Inghilterra. L’Italia in
Africa e in Grecia. Gli americani tra isolazionisti e interventisti. Hitler invade l’Unione
Sovietica, il Giappone attacca gli Stati Uniti. La guerra civile in Cina e l’attacco
giapponese a Pearl Harbor. La Carta atlantica. L’Europa sotto il nazismo.
~ 1943-1945. La svolta di Stalingrado. La caduta del fascismo. L’armistizio con gli
alleati. La Repubblica di Salò. Lo sbarco in Normandia. La Conferenza di Yalta e la
resa della Germania. La guerra nel Pacifico. La Conferenza di Postdam.
~ DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO. La shoah. L’uso dell’atomica.
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DALLA RESISTENZA ALLA COSTITUZIONE
~ LA RESISTENZA. La Resistenza in Europa. La Resistenza in Italia. Dopo l’8
settembre. Le tre guerre. La costituzione del CLN. Togliatti e la svolta di Salerno. Il
governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò. Gli eccidi delle SS. Le
foibe. 25 aprile 1945: la liberazione.
 LA REPUBBLICA. L’urgenza della Repubblica. La nascita della Repubblica. La
Costituzione. Gli organi dello Stato.
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LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
~ Il primo Novecento. La Repubblica e il Guomindang. La guerra di liberazione e la
Repubblica popolare. I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo. I rapporti cino-sovietici. La
rivoluzione culturale. Il riformismo di Deng Xiaoping.
5
118
ONU, ISRAELE, EUROPA
~ ONU
124
~
ISRAELE
~
EUROPA. La ricostruzione. La costruzione: da Ventotene alla moneta unica.
DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMI
~ Il nuovo assetto europeo. La divisione della Germania. Gli USA: Dottrina Truman,
Piano Marshall e Patto Atlantico. La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto
di Varsavia. La crisi greca. La guerra di Corea. Il XX Congresso del PCUS. I ‘fatti di
Ungheria’. La rivoluzione cubana. La guerra del Vietnam. Il caso cecoslovacco.
L’esperienza democratica cilena. Afghanistan: il Vietnam sovietico.
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L’ITALIA DAL 1945 AL 1992
~ LA RICOSTRUZIONE (1945-50). Piano Marshall in Italia. Il centrismo.
~ La Cassa del Mezzogiorno.
~ LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73). L’industrializzazione del Paese. Dagli anni
’50 al centro-sinistra. Il ’68. L’’autunno caldo’ e lo Statuto dei lavoratori.
~ IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (197392). 1973: primo shock petrolifero. Il femminismo. Gli ‘anni di piombo’. La strategia
del PSI. PCI e ‘compromesso storico’. 1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat. Il
pentapartito. La democrazia inquinata. La democrazia bloccata. La partitocrazia e
‘Tangentopoli’.
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LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’
~ LE CREPE. La Polonia di Solidarność. Il crollo del Muro di Berlino.
~ LA FINE DELL’URSS. L’URSS di Gorbačëv. La fine della ‘sovranità limitata’.
Scioglimento del PCUS.
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LA TERRA VISTA DALLA LUNA
~ IL QUADRO. I nuovi equilibri politici. Globalizzazione e capitale finanziario.
Consumatore globale e evanescenza del potere decisionale.
~ IL GIARDINO DELLE DELIZIE. La fine del lavoro. Concentrazione della ricchezza.
Nord e Sud del mondo. La fame nel mondo. Il problema dell’acqua. La condizione
femminile. Cambiamento climatico.
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“Colui che non sa darsi conto di tremila anni rimane nel buio e vive alla giornata”.
(J. W. Goethe)
Introduzione
La storia è la narrazione dei fatti passati!
Fatti rilevanti, pesanti che hanno bisogno di una logica per disporsi, intrecciarsi, articolarsi. Dunque, la storia
è l’inanellamento, l’impilarsi dei fatti uno dietro l’altro. I fatti, però, non esistono, esistono interpretazioni.
I fatti sono “fatti storici”, perché gravidi di ideologia e sono tali solo se collocabili all’interno di una visione.
I modelli storici
All’ingrosso, è possibile tratteggiare quattro paradigmi all’interno dei quali sono ‘nati’ e ‘nascono’ i fatti che
sono concezioni storiche, Weltanschauung.
I.
Modello del cerchio (Greci)
Secondo i Greci i fatti si ripetono ciclicamente. L’accadere naturale e umano sono inscritti
all’interno di una perenne ripetizione, di un circolo. L’uomo, incuneato fermamente nella phýsis,
produce un movimento, e, seppur siano presenti alcune differenze di fatto in fatto, esse vengono
riassorbite in un necessario, inevitabile, infinito ciclo, che si ripete sostanzialmente uguale. Il
tempo greco è un tempo circolare a somiglianza del susseguirsi delle eterne stagioni.
II. Modello della linea (Agostino)
Nell’opera La città di Dio, capolavoro di Agostino, si stabilisce un parallelo fra i sei giorni della
creazione universale e sei epoche storiche. Si rompe il circolo greco! La storia diventa una linea
o, se si vuole, una freccia che viene scoccata per raggiungere un bersaglio. I fatti si riempiono di
senso; si dipanano in un racconto dotato di senso e di scopo. Il télos cristiano porta a leggere la
storia come storia della salvezza. I fatti, ora, vengono a connotarsi come fatti necessari, che
dischiudono una dimensione soteriologica, salvifica.
III. Modello della spirale (Hegel)
Hegel spiega la storia come un’autoproduzione dell’Assoluto. La Sostanza di questo processo è
Soggetto, Pensiero. Il fine della storia del mondo è che il pensiero, lo Spirito, giunga al sapere, e
che oggettivi questo sapere. Gli individui, in tale processo, non hanno vita autonoma, ma sono
strumenti di tale Spirito. Per l’idealismo hegeliano il fine della storia è la piena autocoscienza
dello Spirito che si manifesta oggettivamente nel mondo. La storia del mondo è una spirale che
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parte dall’Idea (pensiero) e che, dialetticamente, esce fuori di sé e si fa mondo, per poi tornare in
sé, diventando Spirito (sapere assoluto). Nulla è casuale. Tutto è necessario e razionale.
IV. Modello delle parallele (Marx)
A Marx si deve la concezione materialistica e dialettica della storia: “Non è la coscienza degli
uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la
loro coscienza”. Dunque, la produzione materiale, ovvero il modo in cui gli uomini producono e
le cose che producono, condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale. La
struttura economica determina, complessivamente, la sovrastruttura culturale, giuridica,
filosofica e la coscienza. Bisogna, allora, ricondurre i rapporti sociali ai rapporti di produzione,
perché i fatti possano essere letti. Non c’è un Fine, un télos nella storia. E’ possibile, tuttavia,
rintracciare delle leggi relative ai modi di produzione e coglierne il necessario sviluppo e morte.
E’ possibile, studiando il modo di produzione capitalistico, capirne il crollo e scorgere le
caratteristiche della società futura.
V. Modello casuale (Nietzsche)
L’irrazionalismo nietzschiano vede la storia come inutile e dannosa, perché, laddove vuole
essere istruttiva, tarpa le ali al libero disegno della Volontà di Potenza individuale. La storia non
segue un cammino, ma, come un quadro di J. Pollock, disegna dedali di strade inestricabili senza
verso né direzione, e i grumi più densi presto si allargano in fili sottili di ghirigori senza meta.
I fatti non esistono e le narrazioni storiche sono mero arbitrio. Essa non è scienza. Nella storia
non c’è progresso. Non c’è lo scopo, la direzione, il Fine.
La storia come scienza sociale
La storia è sempre storia contemporanea, come dice giustamente B. Croce, ma tale considerazione non deve
affatto indurci ad un facile relativismo.
La storia, se non vuole essere pruriginosa e vacua erudizione, deve essere scienza! Scienza, ancorché sociale.
Se il “naso di Cleopatra” determinasse la storia perché studiarla? Bisogna tentare la sfida ardita di togliere i
fatti dalla loro casualità e provare a sistemarli secondo una logica a loro interna. La logica specifica
dell’oggetto specifico! Porre la domanda: “Perché?”
Per il padre della storia Erodoto è importante preservare la memoria e il “perché” ovvero “rintracciare la
causa”. Gli fa eco, lontana, Montesquieu e, poi, il grande Voltaire dell’Encyclopédie, ecc.
Historia magistra vitae. Bene! Allora la storia, se vuole ammaestrare, aiutandoci a comprendere il presente
attraverso l’intendimento del passato, deve portarsi a livello di scienza sociale. Individuare le leggi di
movimento, le leggi di sviluppo del sistema dei rapporti sociali, cogliere la grammatica di un linguaggio
manifesto e latente, cogliere regole, ripetizioni e generalizzare.
La reiterabilità dei meccanismi storici profondi - seppur con le notevoli differenze con le scienze naturali –
deve essere il cardine della verifica della scienza storica. La reiterabilità deve essere il ‘banco di prova’ di
leggi e teorie ovvero di quella strumentazione che può, in qualche modo, rendere utile lo studio della storia.
Appunto nella capacità di rintracciare generalizzazioni c’è tutta la differenza tra uno storico e un raccoglitore
di fatti, come tra uno scienziato della natura e un mero collezionista di farfalle.
Ora proprio attraverso le generalizzazioni, le leggi noi possiamo imparare dalla storia. Possiamo e dobbiamo
emettere finanche giudizi morali, certo non su singoli individui, ma su istituzioni, ordinamenti sociali. Le
interpretazioni storiche implicano più o meno surrettiziamente un giudizio morale. Giudizi di valore che, a
loro volta, sono storici e soggetti alle temperie del tempo.
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Lo studio del Novecento è doppiamente interessante. Da una parte, ci conduce allo studio e enucleazione
generale degli elementi reiterabili, dall’altra, ci guida alla radice, concreta, della nostra storia, della
contemporaneità.
La periodizzazione
La ripartizione in capitoli e paragrafi rispecchia, ovviamente, il modo con cui abbiamo interpretato il
Novecento, movimentando il materiale storico a disposizione secondo quello che ci è sembrato la sua logica
interna. Tuttavia, abbiamo tenuto conto delle esigenze didattiche, del farsi concreto dell’azione formativa e
dei contenuti curricolari necessari, tali che potessero render chiara la dimensione della contemporaneità,
dell’esser cosciente dell’oggi.
La lettura complessiva del materiale storico trattato convalida la scansione generale che del Novecento ha
dato E. Hobsbawm nel celebre Secolo breve, dove si schizza l’immagine di “un trittico o di un sandwich
storico”: 1914-1945: Età della catastrofe; 1946-1973: Età dell’oro; 1973-91: Età della catastrofe.
Un’altra possibile sintetica - non esaustiva – lettura del Novecento è quella che potremmo definire del Secolo
proletario, o meglio, Secolo scisso, a voler significare che l’evento più notevole è stata la Rivoluzione
d’ottobre e tutto ciò che ha comportato. Insomma il secolo si legge, in controluce, pure partendo dalla storia
Russia/URSS/Russia: 1905 Domenica di sangue, 1991 Scioglimento del Pcus.
Se la Rivoluzione francese è la rivoluzione che segna la vittoria della borghesia sull’aristocrazia, la
Rivoluzione russa doveva essere solo l’inizio della Rivoluzione internazionale proletaria che avrebbe dovuto
menare la borghesia nel museo delle anticaglie. Il ciclo delle rivoluzioni europee fu schiacciato e la
Rivoluzione d’ottobre non poté che implodere nel ‘socialismo in un solo paese” di staliniana memoria,
ovvero in un capitalismo di Stato che manteneva tutte le categorie economiche borghesi.
Secolo scisso, il Novecento, a significare un capitalismo di stato e una indubbia politica imperialista che si
concretizza nella spartizione del mondo in due blocchi, da una parte, e pure un religioso richiamo a Marx e
alla teoria della liberazione, dall’altra, come scorza ideologica di uno sviluppo economico che non gli
corrisponde.
Infine, didatticamente, alla esposizione cronologica, seguita fino alla fine della Seconda guerra mondiale,
segue una esposizione tematica fino al 1992. Il cambio di passo è dettato dallo stesso materiale storico che,
aprendosi internazionalmente a molti eventi e contemporaneamente, diventa frammentario, se lo si segue
cronologicamente, interrompendo più volte il filo narrativo. L’andamento tematico soddisfa una maggiore
esigenza di omogeneità e coerenza narrativa.
prof. Alfredo Carrella
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~
L’IMPERIALISMO
~ TEORIE SULL’IMPERIALISMO
~
~
Lenin: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo
Schumpeter: il capitalismo è antimperialista
~ GLI IMPERIALISMI
~
~
~
~
~
~
L’epoca dell’imperialismo
Il nazionalismo
Il razzismo
Le fonti energetiche
L’Europa in Africa
Gli Stati Uniti
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Teorie sull’imperialismo
Lenin: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo
Nel 1916, mentre imperversava la carneficina mondiale, V. I. Lenin scrisse quello che è considerato un vero
e proprio classico sull’imperialismo: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.
In questo testo, Lenin, mappa attentamente le nuove forme che il capitalismo ottocentesco andava via via
prendendo e le varie articolazioni che, tali cambiamenti strutturali, andavano assumendo nella forma politica
ovvero nella sovrastruttura ideologica.
Il capitalismo, come un organismo vivente, si stava sviluppando e pian piano si stavano delineando delle
differenze strutturali con il capitalismo ottocentesco.
In maniera molto schematica possiamo rintracciare alcune peculiarità prodotte dallo sviluppo capitalistico:
1) La concentrazione della produzione e del capitale genera forme organizzative sempre più alte e
potenti tali da essere decisive nella vita economica: i monopoli! La concentrazione, ad un certo
punto della sua evoluzione, porta alle soglie del monopolio. La concorrenza genera il monopolio! La
concorrenza genera il suo contrario e convive con il suo contrario. Nella produzione economica reale
di un Paese, la concorrenza, convive con settori dove magari il monopolio ha raggiunto forme
altissime. Una peculiarità della fase imperialistica è proprio la convivenza, conflittuale e parallela,
tra l’’industria libera’ e il monopolio;
2) La fusione del capitale bancario con capitale industriale e il formarsi, su tale base, del capitale
finanziario e di una corrispondente oligarchia finanziaria. Parallelamente alla concentrazione
industriale si sviluppa il capitale bancario. Le banche da modeste mediatrici, si trasformano in
potenti monopoliste che dispongono di giganteschi capitali liquidi. Il singolo capitalista-industriale
diventa dipendente dalla banca. E, ancora, si crea sempre più un’unione personale della banca con le
maggiori imprese, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche
nei Consigli di amministrazione delle imprese, e viceversa. Su questa base il capitale liquido si
autonomizza, sempre più, in capitale finanziario che vive attraverso una serie di speculazioni
finanziarie: una oligarchia finanziaria che vive di rentiers;
3) L’esplosione dell’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci. Fino ad un certo punto
era caratteristico del sistema capitalistico l’esportazione di merci, mentre, sotto il dominio del
monopolio, caratterizzante è l’esportazione di capitale. Il capitale si dirige verso paesi sottosviluppati
dove materie prime, forza-lavoro, ecc. hanno minor costo. Il capitale finanziario si dirige verso
questi spazi da sfruttare;
4) Lo sviluppo di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo.
Cartelli, trust non solo si spartiscono il mercato interno e lottano fino alla morte per avere fette
sempre più pingui del mercato nazionale, ma si espandono verso mercati esteri. D’altra parte il
capitalismo crea il mercato mondiale come suo spazio naturale. La spartizione del mondo si effettua
in base al loro peso, in proporzione alla loro forza. La forza muta, si evolve, e così il conflitto non
può che essere il mezzo per un nuovo equilibrio di forze che verrà nuovamente superato;
5) La spartizione del mondo ad opera delle grandi potenze. Il mondo per la prima volta appare
completamente ripartito, cosicché, in futuro, non si potrà che passare da un padrone ad un altro. Il
capitale finanziario è lo strumento principe con cui si assoggettano i popoli, si piegano le volontà, si
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riplasmano i destini e, tuttavia, non si disdegna, qualora si renda necessario, il vecchio ‘caro’
intervento armato.
“L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei
monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquisito grande importanza, è cominciata
la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie
terrestre tra i grandi paesi capitalistici”. Più sinteticamente: l'imperialismo è lo stadio monopolistico del
capitalismo!
La guerra è connaturata a questo sistema economico a partire dalle ineguali condizioni di sviluppo.
L’ineguale sviluppo economico pone continuamente la soluzione dei contrasti in termini di conflitto armato.
Schumpeter: il capitalismo è antimperialista
Il filosofo dell’economia Schumpeter, in La sociologia dell’imperialismo (1919), argomenta in favore del
capitalismo, che è, per sua stessa natura, antimperialistico.
Diversamente dall’impostazione marxista, che riconduce il fenomeno dell’imperialismo a fattori economicostrutturali, Schumpeter legge il fenomeno in termini psicologici. Innanzitutto, nella specie umana, si può
rilevare una tendenza naturale e costante, in tutto il corso della storia, al dominio di gruppi versus altri.
Dunque, l’imperialismo non è una fase particolare legata ad una determinata struttura economica del sistema
capitalistico.
Per Schumpeter il capitalismo è, sostanzialmente, un sistema razionale e la somma degli egoismi individuali
si ricompongono nel bene sociale: l’interesse privato si riorganizza attraverso la concorrenza dove domanda
e offerta si muovono verso un equilibrio armonico. L’imperialismo, e la sua rapace aggressività, “l’assurda
tendenza di uno Stato a perseguire un’espansione illimitata e violenta”, è dovuta a forze irrazionali che hanno
preso il sopravvento a livello politico.
L’imperialismo
L’epoca dell’imperialismo
Didatticamente consideriamo l’età dell’imperialismo quella che si sviluppa tra il 1870 e il 1914: si presenta
come una sorta di nuovo colonialismo, una tendenza all’espansione dei paesi industrialmente sviluppati, che
consiste nell'azione dei Paesi capitalistici avanzati d’imporsi su altri al fine di sfruttare totalmente le loro
risorse e utilizzarli come spazi di smercio, assumendone il pieno controllo politico o militare. L’imperialismo
è, dunque, il tratto fondamentale della società occidentale dell’inizio del XX secolo, che registra questa forza
espansiva del capitalismo occidentale europeo e di lì a poco statunitense e nipponico.
Al 1914 le nazioni europee industrializzate riuscirono ad avere il controllo dell’84% del totale delle terre
emerse dell’intero globo. E’ chiaro, dunque, che l’imperialismo s’associa economicamente a questo sviluppo
enorme del capitalismo occidentale che ha la necessità di espandersi geograficamente e di correre alla
conquista delle fonti energetiche nel mondo. La politica imperialistica è la forma sovrastrutturale che segue
questa necessità economica.
Quest’epoca è segnata da grandi masse in movimento che, non trovando lavoro in patria, emigrano non solo
verso le Americhe, ma in Asia e in Africa. Finanzieri e banchieri alla ricerca di investimenti remunerativi
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collocano grandi quantità di denaro nelle miniere e nelle piantagioni di Paesi lontani. Gli imprenditori
devono e vogliono allargare i mercati di smercio delle loro merci e vogliono accaparrarsi materie prime a
buon mercato di cui l’Europa è priva: petrolio, caucciù, ecc.
Le classi dirigenti dell’Ottocento tradussero queste necessità in quello che chiamiamo imperialismo, che si
concretizzò attraverso:
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
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La conquista militare di vaste zone per prenderne il controllo;
Il controllo politico delle nuove colonie attraverso funzionari europei;
Lo sfruttamento economico ovvero il controllo delle materie prime e la rivendita di prodotti finiti in
Europa.
Il nazionalismo
Risaltano in questo fenomeno la radice economica e poi la sovrastruttura politica che la sovrasta
caratterizzata da un atteggiamento ideologico fortemente aggressivo-nazionalistico. Tale apparato ideologico
si caratterizza per una propensione a scivolare verso posizioni squisitamente razziste: le razze superiori
hanno il diritto, la necessità e il dovere di sottomettere razze e culture inferiori che si trovano ad un gradino
più basso dello sviluppo economico-sociale-culturale. Le razze superiori hanno il compito di civilizzare il
mondo imponendosi sui popoli deboli!
L’idea di nazione, che un tempo era stata una leva d’aggregazione della borghesia, diventa, in questo scorcio
epocale, una strumentazione che si connota in modo fortemente reazionaria e militare.
Il nazionalismo si diffuse in tutta Europa, anche se con articolazioni e rivendicazioni particolari:
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Il nazionalismo francese sostenne la politica di potenza della Francia, esaltando il revanscismo,
ovvero la volontà di rivincita (revanche) nei confronti della Germania;
Il nazionalismo italiano rivendicò le terre ancora non liberate, come il Trentino, e un ruolo
internazionale di prestigio;
Il nazionalismo tedesco ebbe come programma il pangermanesimo, ovvero il dominio della
Germania su tutte le terre di lingua tedesca; esaltò la superiorità della razza ariana e accusò gli Ebrei
di tutti i mali della società;
il nazionalismo panslavista sostenne in Russia la politica di espansione degli zar al fine di
rivendicare tutte le terre slave.
Il nazionalismo, con la sua insistenza sulla conquista dei territori e la competizione con altri Stati, fomentò la
logica di potenza e il militarismo. La conseguenza fu la formazione di grandi eserciti di massa. L’esercito si
ristrutturò nelle fondamenta attraverso il servizio militare obbligatorio conferendogli una base sociale
amplissima.
Infine, l’idea di nazione in Europa venne ad assumere nuovi significati: a causa di politiche protezionistiche
intraprese dal 1879, contro i prodotti americani, si elaborò un atteggiamento difensivo, un nazionalismo
economico che amplificò il nazionalismo politico.
Il razzismo
Il nazionalismo si saldava con il razzismo che ne rappresentava pure la sua conclusione estrema. E’ a partire
dall’Ottocento che iniziano a circolare opere pseudoscientifiche che, travisando perlopiù la teoria
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darwiniana, definivano il concetto di razza. Il principio darwiniano della selezione naturale veniva
erroneamente semplificato e proposto come la legge del più forte. Schematicamente i presupposti ideologici
del razzismo si possono rintracciare nei seguenti argomenti:
a) esistono, a livello biologico, diverse razze umane;
b) esistono, biologicamente, razze superiori e inferiori e la storia non fa che certificare tale differenza.
Fu il francese Gabineau, con il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1855), a diffondere l’idea della
razza “pura” o “ariana” del centro-nord Europa.
A proposito del perimetro di tale razza vi furono molte idee a dir poco bislacche: secondo alcuni tedeschi gli
italiani erano esclusi dalla purezza essendo “razza meridionale”; l’antropologo A. Niceforo faceva, invece, la
sorprendente distinzione tra italiani del Nord, ariani, e quelli del Sud “inferiori”.
Fonti energetiche
Edwin Drake riuscì, il 28 agosto 1859, a Titusville, in Pennsylvania, a portare in superficie il petrolio:
cominciava la storia dell’industria petrolifera! Una storia che cambia completamente e profondamente la vita
economica del mondo intero. Lì, i prodromi dell’energia che metterà in moto l’intera macchina capitalistica
fino ad oggi. All’inizio il petrolio fu usato solo per l’illuminazione. La Standard Oil Company di Rockefeller
promosse una capillare diffusione delle lampade a cherosene (sottoprodotto del petrolio). In breve il
cherosene illuminò le notti del mondo occidentale.
Come funghi sorsero compagnie petrolifere che, unendosi, diedero vita a trust petroliferi: veri e propri
giganti del petrolio.
La lavorazione del petrolio doveva portare alla benzina e all’uso per la motorizzazione. Le sagome delle
raffinerie si alzavano contro l’orizzonte! Ben presto l’accaparramento delle fonti di approvvigionamento
scatenarono una lotta senza quartiere. I trust americani si scontrarono con la anglo-olandese Shell che
sfruttava le risorse di Sumatra; poi con colossi anglo-persiani. I tedeschi s’avviarono allo sfruttamento in
Turchia, i Francesi in Iraq e in Africa.
La torre Eiffel (1889) apre l’epoca delle grandi possibilità dell’acciaio. L’acciaio e la sua produzione ben
rappresenta l’inizio del XX sec. Tra il 1900 e il 1913 gli incrementi della produzione di acciaio indicano
bene la propulsione e la vitalità del capitalismo.
La produzione di energia elettrica è l’altro grande indicatore di un mondo che si trasforma e che ha bisogno
di movimento.
L’Europa in Africa
Dal 1880 l’Europa estende i suoi domini innanzitutto alla ricerca di fonti energetiche, di materie prime, ma,
anche per motivi strategico-militari e, infine, a soddisfare la sete di prestigio internazionale.
A partire dal 1894 a questa espansione parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.
14
L’Europa, nel continente africano si era sostanzialmente limitata alla conquista delle coste senza avviare una
vera penetrazione interna del continente. Dal 1880 si registrò un mutamento nella politica coloniale: si iniziò
a pensare ad una penetrazione interna.
La Conferenza di Berlino del 1884-85, su iniziativa del cancelliere tedesco von Bismarck, riunì ben dodici
paesi europei, più Stati Uniti e Turchia, per accordarsi sui criteri da adottare nella spartizione delle colonie.
Bisognava trovare i criteri per definire le rispettive zone d’influenza in Africa.
Tuttavia, come al solito, i pii propositi vengono sempre sconvolti dagli interessi che man mano si formano: si
accese una fortissima rivalità tra Gran Bretagna e Francia per l’influenza in Africa che troverà una prima
riappacificazione con un accordo franco-inglese nel 1899. Ma la Gran Bretagna dovette anche confrontarsi
con l’espansione tedesca.
In effetti tre potenze europee, Gran Bretagna, Francia e Belgio, si spartivano, di fatto, tutta l’Africa. La
Germania, inseritasi per ultima nella lotta per la spartizione, dovette accontentarsi delle briciole del
banchetto. Al fine di creare una coscienza patriottica nasceva, nel 1894, la Lega pangermanistica. Tale
organizzazione aveva il fine il fine di esigere una più equa spartizione delle colonie: la Germania doveva
avere quanto gli spettava per la potenza economica e per il ruolo culturale.
Gran Bretagna e Germania si sentivano nazioni profondamente superiori e un grande destino le avrebbe
attese nel dominio del mondo. Non poteva che radicarsi un forte antagonismo tra Gran Bretagna e Germania
che s’irraggia in tutti i settori.
Gli Stati Uniti
All’inizio del secolo gli Stati Uniti invasero i mercati europei con merci a basso prezzo. La politica estera del
presidente americano Theodore Roosevelt (1901) seguì sostanzialmente la dottrina di J. Monroe secondo la
quale l’Europa non doveva intromettersi nelle vicende del continente americano. Contestualmente, si
procedeva al controllo economico-politico nel Sud America nel Pacifico e in Estremo Oriente.
Al Congresso del 1904, Roosevelt rafforzava la dottrina Monroe con l’impegnò a proteggere, con un
intervento militare diretto del governo statunitense, le imprese e gli investimenti privati nel Sud America in
qualche modo minacciati. L’America latina fu la preda da divorare. L’intervento colonialistico non fu
militare, ma economico, cosicché, si ci garantì il controllo attraverso la corruzione e la collusione con il
potere locale. Tuttavia, non si disprezzò l’intervento armato diretto come nella rivoluzione di Pancho Villa
del 1916. Non si disprezzò neanche l’ingerenza subdola, per usare un eufemismo, come nel caso del canale
di Panama in cui gli Stati Uniti, contro l’idea del governo colombiano di non ratificare nessun accordo
capestro, tramite agenti, suscitarono una sommossa nella regione che portò alla costituzione della Repubblica
di Panama sotto tutela americana che offriva l’affitto perpetuo della zona del canale.
BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
15
L’ETA’ GIOLITTIANA
~ CARATTERISTICHE GENERALI
~
~
~
~
~
Giolitti sale in cattedra
Il decollo industriale
Il dramma dell’emigrazione
Come Giano bifronte
CON I SOCIALISTI
~
~
~
Giolitti e il Partito socialista
Minimalisti e massimalisti
Lo sciopero del 1904
~ CON I CATTOLICI
~
~
~
La Democrazia cristiana
Il Patto Gentiloni
La “settimana rossa”
~ LA POLITICA ESTERA
~
La Libia: “lo scatolone di sabbia”
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Caratteristiche generali
Giolitti sale in cattedra
Nel 1901 il re Vittorio Emanuele III nominò Capo del governo Giuseppe Zanardelli, il quale per motivi di
salute rassegnò le dimissioni, lasciando così la reggenza del governo a Giovanni Giolitti. Dal 1903 al 1914
Giolitti ebbe un’influenza così ampia ed autorevole sulla vita politica dell’Italia che questo periodo viene
comunemente denominato età giolittiana. Esso accompagna la nascita del Novecento fino al baratro della
Grande Guerra.
La sua ombra si estende per tutto il decennio, nonostante non fu sempre al comando. Una sua caratteristica
era l'abbandonare il potere nei momenti di crisi, per poi risalire in vetta dopo aver dimostrato l’inefficienza
altrui. Certamente Giolitti fu un politico grande conoscitore della macchina statale e delle sue articolazioni. Il
giudizio sulla sua attività politica è quello di un uomo che ha governato con buon senso e furbizia, d’altra
parte queste erano le caratteristiche che egli stesso attribuiva al politico.
La sua politica fu caratterizzata dalla ricerca di un equilibrio o compromesso tra le diverse classi sociali. La
sua politica viene ricordata anche come una politica di vero e proprio trasformismo: di volta in volta Giolitti
componeva e scomponeva la sua maggioranza parlamentare non tanto sulla base di programmi, quanto su
problemi contingenti. Secondo le necessità, si alleava con i socialisti riformisti, i radicali, i cattolici e i
nazionalisti e ciò non poteva non apparire come un bieco gioco di potere altamente deleterio e immorale.
Il decollo industriale
La sua attività politica s’incunea in quel particolare frangente storico d’inizio secolo che vede il decollo
industriale dell’Italia.
I ritmi d’incremento medio testimoniano uno sviluppo robusto che, ad esempio, si registò nella siderurgia,
settore strategico e fondamentale per un generale processo d’industrializzazione. Nascono gli stabilimenti di
Terni e l’Ilva di Piombino. L’industria elettrica passa da 100 milioni di kilowattora nel 1898, a ben 2.325
milioni nel 1914. L’industria meccanica vede nascere fabbriche storiche come la Fiat, l’Alfa Romeo e la
Lancia. Piano piano prende forma il futuro ‘triangolo industriale’: Torino, Milano, Genova. Si tratta di una
zona che concentra ben il 57% di tutti i lavoratori dell’industria italiana.
L’agricoltura, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, nella Pianura Padana fa registrare miglioramenti
inconsueti. Complessivamente il Paese registra il processo d’industrializzazione anche nella diminuzione
percentuale alla partecipazione al PIL: dal 1896-1900 al 1911-15 l’agricoltura scende dal 50 al 44%, mentre
l’industria passa dal 19,4 al 25,6%.
Nel 1911 i contadini erano circa 10 milioni: 4,4 braccianti, cioè salariati; 3,2 affittuari e mezzadri, 1,8
proprietari.
Complessivamente, nel processo di industrializzazione dell’Italia, lo Stato inizia ad assumere sempre più
importanza, intervenendo con laute commesse nei trasporti, nel settore siderurgico e meccanico.
Lo Stato andava sempre più ritagliando un ruolo attivo nella vita economica del Paese.
Le politiche protezionistiche promosse dal governo comportarono una sicura difesa del processo
d’industrializzazione, ma allo stesso tempo crearono difficoltà e danni reali al commercio dei prodotti
agricoli tipici del Sud.
In questo frangente storico la forbice tra Nord e Sud piuttosto che diminuire, andava aumentando.
17
Il dramma dell’emigrazione
Il fenomeno dell’emigrazione parte dagli anni Settanta dell’Ottocento, ma nell’età giolittiana il fenomeno si
intensificò notevolmente. In una prima fase, dal 1876 al 1900, partirono 5.300.000 italiani verso la Francia,
Germania, Argentina, Brasile e Stati Uniti. Nell’età giolittiana, dal 1900 al 1913, si ebbe la cosiddetta
“grande emigrazione”: furono ben 9 milioni di persone a lasciare l’Italia soprattutto verso gli Stati Uniti.
Emigravano principalmente i contadini del Meridione e dell’Italia del Nord Est.
Un flusso ininterrotto di uomini cercava nelle Americhe la ‘terra promessa’. Persone rozze, analfabete si
ammassano sulle banchine per il grande viaggio transoceanico su piroscafi a vapore. Nel 1900 gli emigranti
annuali erano 300 mila, nel 1913 la cifra raggiunse gli 873 mila.
Come Giano bifronte
La figura di Giano bifronte ben interpreta una delle caratteristiche peculiari dell’attività politica di Giolitti:
l’ambiguità. Da una parte, egli sembra disegnarsi come aperto e democratico, soprattutto considerando la sua
azione nell’affrontare i problemi del Nord; dall’altra, diventa piuttosto torvo, conservatore e addirittura
corrotto nello sfruttare i problemi del Sud.
Giolitti mostrò di essere democratico e attento alle novità e ai bisogni del processo di industrializzazione nel
voler mantenere una certa neutralità dello Stato, come garante super partes dei conflitti sociali. Lo Stato
doveva mantenere una sua certa neutralità nei conflitti sindacali e furono permessi gli scioperi.
Parallelamente, e con grande lungimiranza, produsse una serie di riforme per il miglioramento della classe
operaia:
a) la giornata lavorativa venne portata a 10 ore;
b) si riorganizzò la Cassa nazionale per l’invalidità e la vecchiaia dei operai;
c) vennero elaborati una serie di provvedimenti a difesa dell’infanzia e della maternità delle operaie.
Al Sud, invece, Giolitti optò per la repressione delle proteste e degli scioperi delle masse meridionali. Il Sud
si presentò subito come un serbatoio di voti da raccattare attraverso il controllo capillare del territorio. I
prefetti, a suo ordine, impedivano l’espressione di una libera opposizione. La polizia arrestava i sindacalisti e
attraverso corruzione, minacce e brogli elettorali si assicurò l'elezione di parlamentari del suo gruppo.
Gaetano Salvemini lo definì “ministro della malavita” e da allora il termine giolittismo è diventato sinonimo
di clientelismo e trasformismo.
Le ultime notevoli riforme di Giolitti riguardarono il monopolio delle assicurazioni del 1911 e il suffragio
universale maschile del 1912, con cui si sanciva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi. In questo modo le
masse irrompevano sulla scena elettorale!
Con i socialisti
Giolitti e il Partito socialista
Dal punto di vista politico Giolitti attuò riforme e cercò di aprire il governo alle forze di sinistra, ovvero al
Partito socialista.
Giolitti intuì che bisognava spingere il governo verso le nuove istanze che si presentavano con
l’industrializzazione del Paese. Il Paese si trasformava e bisognava ampliare la rappresentanza politica e fare
in modo che le forze emergenti entrassero nel parlamentare borghese. Bisognava, quindi, ampliare lo spazio
politico; renderlo più democratico aprendosi alle idee riformiste; mantenere lo Stato il più possibile neutrale
rispetto ai conflitti di classe.
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In questo senso Giolitti riteneva di dover includere politicamente il socialismo riformista, in quanto
rappresentava la nuova Italia che stava emergendo, soprattutto al Nord. Bisognava ampliare la base
rappresentativa, affinché i cambiamenti e le nuove necessità fossero rappresentate. Alla lungimiranza si
aggiunse il calcolo politico, che implicava l'aumento della forza politica del suo governo. Fu così che nel
1903 Giolitti offrì al leader socialista Filippo Turati la possibilità di entrare a far parte del governo. Turati
rifiuto, giacchè la maggioranza degli iscritti al partito non avrebbero compreso, tuttavia più volte il governo
di Giolitti ebbe i voti dei turatiani.
Minimalisti e massimalisti
All’interno del Partito socialista si erano distinte due correnti: minimalista e massimalista.
I riformisti, guidati da Filippo Turati, volevano cambiare la società gradualmente attraverso un processo di
lente riforme che migliorassero la situazione della classe operaia. Tale posizione era avversata dalla corrente
massimalista, capeggiata da Lazzari, Labriola e Mussolini, che, al contrario, volevano la realizzazione hic
et nunc (ora e subito) dell’intero programma comunista. Da una parte, quindi, si tendeva alla realizzazione
del programma minimo attraverso riforme parziali, dall’altra alla realizzazione del massimo del programma
attraverso la rivoluzione sociale, che avrebbe dovuto sconfiggere la borghesia e instaurare il socialismo.
Nel partito la proposta di Giolitti innescò polemiche tra i due schieramenti. La corrente turatiana fu messa in
minoranza per ben due volte al Congresso di Bologna del 1904 a proposito della proclamazione dello
sciopero generale nazionale e di nuovo nel 1912 al Congresso di Reggio Emilia.
Lo sciopero del 1904
Nel settembre del 1904 venne proclamato il primo sciopero generale nazionale. Fu deciso per solidarietà
nei confronti di quattro operai uccisi dalle forze dell’ordine durante una protesta. Dal 15 al 20 settembre
l’Italia conobbe per la prima volta uno sciopero generale proclamato dal Partito socialista. Il Corriere della
sera parlò di “cinque giorni di follia”. La borghesia fu alquanto impaurita da questa capacità del movimento
operaio di mobilitarsi. Giolitti comprese di non potersi fidare dell’ala riformista e sciolse la Camera e indisse
nuove elezioni con la parola d’ordine “né rivoluzione, né reazione”. Le elezioni registrarono una sconfitta
della estrema Sinistra, dovuta all'intervento dei cattolici che, per la prima volta dopo il non expedit di Pio IX,
furono autorizzati dal papa Pio X e dai vescovi a votare per evitare i pericoli di sinistra. La Chiesa, dunque,
scendeva in campo contro il pericolo rosso. Ciò si risolse a vantaggio di Giolitti, che aveva trovato un nuovo
inatteso alleato. Per la prima volta dall’Unità entrarono in parlamento “cattolici deputati”.
Con i cattolici
La Democrazia Cristiana
Sulla scia della Rerum novarum di Leone XII e la spinta degli scioperi socialisti, la Chiesa non potè rimanere
ferma. I giovani cattolici chiedevano di partecipare alla costruzione del Paese secondo una visione cristiana.
Il movimento cattolico dava vita alla Democrazia cristiana. Il programma del 1899 si caratterizzava per il
richiamo alla democrazia e ai principi del cristianesimo. La Chiesa si apriva verso i fondamentali diritti della
società, tra i quali una piena libertà sindacale, un’ampia legislazione sociale, un’efficace riforma tributaria,
un decentramento amministrativo e un allargamento del suffragio elettorale. La crescita del Partito socialista
con la sua ideologia atea e anticlericale aveva portato il pontefice Pio X ad ammorbidire l’intransigenza
vaticana. Il papa limitò la "Non expedit", ammettendo la possibilità della partecipazione dei cattolici alle
elezioni politiche e permise ad alcuni fedeli di farsi eleggere nelle liste liberali. Leone XIII aveva invitato ad
uscire “fuori dalla sacrestia”. Nelle elezioni del 1904, 1909 e 1913 i cattolici presero parte attiva
appoggiando i liberali moderati.
19
In questo fermento, nel 1905, il sacerdote don Luigi Sturzo con estrema chiarezza delineò la funzione e il
perimetro di un partito cattolico laico e aconfessionale che, ispirandosi ai principi cristiani, accettava l’unità
nazionale e poneva fine alla visione temporalistica che ancora ristagnava in alcuni settori della Chiesa.
Sturzo sarà tra i fondatori del Partito popolare nel dopoguerra.
Il Patto Gentiloni
Con l’intenzione di rafforzare lo schieramento liberale a lui favorevole, alla vigilia delle elezioni del 1913,
Giolitti stipulò un accordo con il conte marchigiano Vincenzo Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione
elettorale cattolica. L'accordo stabiliva che i candidati dovevano rispettare sette punti programmatici; si
impegnavano a non adoperarsi in politiche anticlericali, come la legge sul divorzio; si impegnavano a
difendere le scuole cattoliche e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche;
riconoscevano le associazioni cattoliche.
Il Patto ebbe successo e Giolitti aveva di nuovo cambiato casacca con ottimi risultati: un gran numero di
candidati moderati e giolittiani furono eletti con i voti cattolici (ben 228), tuttavia i socialisti resistettero. Con
grande sobrietà A. Gramsci scrisse che Giolitti “cambiò di spalla il suo fucile”: i cattolici al posto dei
socialisti. Tale avvenimento segnò il rientro dei cattolici nella vita politica italiana dopo la frattura del 1870.
La “settimana rossa”
A marzo del 1914 Salandra succedesse a Giolitti.
A giugno, ad Ancona la polizia sparò su un corteo operaio, causando tre morti. Venne proclamato lo sciopero
generale e dal 7 al 13 si susseguirono agitazioni, scioperi, tumulti e profanazioni di chiese, soprattutto nelle
Marche e in Romagna. E’ quella che si definì “settimana rossa”: socialisti, anarchici e repubblicani
guidarono le agitazioni. Il movimento non riuscì a coinvolgere il centro dello sviluppo industriale e confuse
gli obiettivi. Alla fine si contarono 16 morti.
Di lì a poco più di un mese ci sarà lo scoppio della Grande Guerra.
La politica estera
La Libia: “Lo scatolone di sabbia”
In politica estera Giolitti decise di allontanarsi dalla Triplice alleanza con Germania e Austria ed optò per un
avvicinamento con Francia e Inghilterra, il cui appoggio avrebbe potuto favorire un ampliamento coloniale
dell’Italia e un suo rafforzamento nel contesto internazionale. Allora si decise a preparare la conquista della
Libia, soggetta all’Impero turco-ottomano, sotto la spinta degli interessi delle grandi banche italiane.
Dal 1907 si intraprese un programma di penetrazione economica e commerciale, dando l’incarico al Banco
di Roma legato agli ambienti cattolici. Il Banco di Roma fallì nell’operazione tanto che le autorità turche
iniziarono a diffidare dell’istituto.
Dopo la fallita colonizzazione economica si provò con la colonizzazione militare, dall’azione finanziaria
all’azione bellica. L’avventura coloniale, fortemente richiesta dal movimento nazionalista, iniziò il 29
settembre 1911. L’Italia avrebbe avuto grandi vantaggi nella conquista della Libia, poiché avrebbe potuto
dirottare l’emigrazione verso questo Paese. Gli emigranti italiani avrebbero avuto la loro terra! Tranne pochi
liberali e la maggioranza del Partito socialista, tutti erano a favore dell’avventura coloniale. Giolitti si tuffò
nell’impresa con la parola d’ordine:“fatalità storica”. L’Italia, infatti, non poteva restare a guardare mentre la
20
Francia e la Germania si dividevano il mondo. L’esercito italiano incontrò forti resistenze sia da parte
dell’esercito turco sia dalle popolazioni locali.
A Losanna, nel 1912, l’Italia firmò la pace con i Turchi: la Libia passava formalmente sotto il controllo
italiano insieme ad alcuni possedimenti nel mar Egeo.
BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
I compagni, M. Monicelli, 1963
Nuovomondo, E. Crialese, 2006
21
LA GRANDE GUERRA
~ LE CAUSE E L’INIZIO
~
~
~
Le cause
La scintilla
Dalla guerra lampo alla guerra di posizione
~ L’ITALIA E LA GUERRA
~
~
~
Neutralisti e interventisti
Il segreto Patto di Londra
Il fronte italiano
~ LA GRANDE GUERRA
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
1915-16: nel cuore della guerra
La vita al fronte
La tecnologia militare
La massificazione della guerra
Il ruolo dello Stato nell’economia
La propaganda e il consenso
Il genocidio degli Armeni
1917: l’anno della svolta
La disfatta di Caporetto
Fasi finali del conflitto
~ I TRATTATI DI PACE
22
Le cause e l’inizio
Le cause
La Prima guerra mondiale non fu una guerra come se n’erano già viste. Non si era mai visto un evento di una
tale estensione, durata, intensità. Una tale mobilitazione di massa, impiego di mezzi, un tale numero di morti
e feriti, una carneficina mondiale con otto milioni di morti e ventuno di feriti. Nulla fu come prima!
Due, sostanzialmente, le teorie che tentano di spiegare il perché di una tale carneficina: una teoria
casualistica e una causalistica. Una teoria, è propensa a vedere lo scoppio della Grande Guerra come un
grande evento che scaturisce da piccole, effimere, cause. Per tale teoria si trattò di nulla più che il frutto di
errori di calcolo dei diversi Paesi che precipitarono nel conflitto a causa di un automatismo delle Alleanze
politiche che scattarono inevitabilmente. Ad esempio, lo storico inglese A. J. P. Taylor sostiene che i grandi
eventi possano avere piccole cause: “Fu soprattutto una questione di calcolo: in quella occasione gli uomini
di Stato usarono i bluff e le minacce che, altre volte, avevano dato ottimi risultati. Ma nel 1914 le cose
andarono male”. Insomma, un errore di calcolo! L’altra teoria, più attendibile, inquadra la Grande Guerra
come il momento culminante e la risposta a cause economiche, sociali e politiche ben precise che, come un
fiume carsico sbocca, irrompe alla superficie all’improvviso. Non ci resta che dettagliare tali motivi!
Le cause economiche più importanti che possiamo annoverare sono:
Il diverso peso economico che gli Stati europei man mano assumono fa sì che essi cerchino
di farlo valere a livello politico attraverso un riposizionamento strategico che registri la nuova
leadership sia in Europa che attraverso una spartizione mondiale delle colonie. Insomma, lo
sviluppo ineguale del capitalismo fa sì che gli Stati sgomitolino per riposizionarsi politicamente in
modo da far valere i propri interessi.
L’economia tedesca, ad esempio, nei primi decenni del nuovo secolo, ha una crescita notevole del proprio
potenziale economico, diventando così una potenza europea di primordine, scavalcando, di fatto, Francia e
Gran Bretagna. Il ruolo economico della Germania diventa centrale: è ‘’locomotiva d’Europa’’. A
testimonianza di questo poderoso sviluppo economico basta rilevare che dal 1887 al 1912 il commercio
tedesco raddoppia, crescendo più degli altri paesi. La Germania, da questo momento, diventa una potenza
economica di grande rilievo nello scacchiere europeo. A fronte di questa crescita economica tumultuosa, la
Germania cerca, dunque, nuovi assetti politici che non la vedano, innanzitutto, succube della politica della
Gran Bretagna e nemmeno di quella francese. C’è, dunque, una rivalità economica Germania-Gran Bretagna
che coinvolge anche il possesso delle colonie. Inoltre, la presenza economica tedesca nell’area del Medio
Oriente, crea frizioni non solo con la Gran Bretagna, ma anche con i Russi.
Sbocchi per le merci. Tutti i paesi industriali trovavano, ormai, un argine nel solo mercato interno.
La frontiera nazionale non era più adeguata alle necessità della produzione: gli imperi coloniali, quando non
erano meri ‘scatoloni di sabbia’, ovvero senza una domanda solvibile, cioè una capacità di acquisto,
servivano appunto a vendere altrove merci sovrabbondanti.
Approvvigionamento delle materie prime. Per gli Stati diventa ‘necessario’ garantirsi, in un modo o
in un altro le materie prime di cui abbisogna, al fine di far funzionare il sistema economico.
Le cause politiche sono da ricercarsi all’interno di ciascuno Stato europeo e nelle relazioni tra Stati:
- I francesi rivendicavano l’Alsazia e la Lorena;
- Austria e Russia si scontravano da secoli per l’egemonia dell’area Balcanica, punto strategico per gli
sbocchi commerciali;
- Malcontento all’interno dell’Impero austro-ungarico, in particolare degli slavi e degli italiani del Trentino e
della Venezia Giulia;
- La decadenza imminente in cui versava l’Impero Ottomano;
- C’era poi, in Europa, la presenza di due alleanze politiche: la Triplice Alleanza (composta da Germania,
Austria e Italia) e la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia).
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Le cause militari interessano soprattutto l’industria:
- le industrie pesanti del settore bellico e quelle leggere del settore siderurgico, l’industria alimentare e tutto
il complesso della produzione, vedono nella ‘’corsa agli armamenti’’ e nelle commesse di guerra
occasione di grandi profitti e sviluppo economico.
Le cause culturali che facilitarono l’entrata in guerra sono:
- un diffuso nazionalismo che serpeggia tra le classi borghesi e che diventa, come in Germania, esaltazione
della razza quale fattore di preservazione dell’identità nazionale;
- un certo superficiale darwinismo applicato ai rapporti internazionali secondo cui c’è bisogno, come in
natura, di una lotta tra Stati per garantirsi la sopravvivenza;
- un’aristocratica esaltazione della guerra come elemento estetizzante. Le correnti del futurismo e del
Dannunzianesimo esaltano la guerra come ‘strumento di pulizia’ utile a eliminare le’ bocche in eccesso’,
facendo eco a Malthus. Marinetti, nel Manifesto futurista, sostiene che la guerra sia la sola ‘igiene del
mondo’, quasi riprendendo testualmente Hegel.
La scintilla
In tale situazione internazionale, la goccia che fece traboccare il vaso fu l’attentato del 28 giugno 1914 a
Sarajevo, all’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, da parte del
nazionalista serbo Gavrilo Princip. L’Austria vide in quest’assassinio l’occasione per attaccare la Serbia e
risolvere la questione balcanica. Venne inviato alla Serbia un ultimatum estremamente umiliante e formulato
in modo tale da non poter essere accettato: a) la risposta veniva richiesta entro 48 ore; b) le clausole
avrebbero portato alla perdita, per la Serbia, dell’autorità sui propri territori.
Il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia! Scattarono immediatamente tutte le alleanze e, nel giro di
due giorni, la guerra era europea.
L’Italia si dichiarò neutrale facendo leva sul fatto che l’intervento sarebbe stato obbligatorio nel caso di
attacco all’Austria. Siccome era stata l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia, l’Italia si poteva tener fuori
dalla tenzone.
La prima grande battaglia fu quella che si svolse in Francia lungo il fiume Marna, dove i francesi riuscirono
a bloccare i tedeschi. La battaglia causò circa 500.000 vittime, senza che l’ago della bilancia segnasse la
vittoria di alcuno. Francia e Germania continuarono a darsi battaglia lungo una linea di 800 chilometri.
Dalla guerra lampo alla guerra di posizione
La guerra mondiale era stata pensata come una guerra lampo, di movimento, ma ben presto si configurò
come una guerra di trincea, di posizione, e durò per quattro lunghi anni. L’uso delle armi richiedeva
efficaci sistemi di difesa, per questo motivo vennero scavati fossati lungo il fronte che furono la cifra
strategica della Prima guerra mondiale. In breve, da guerra di movimento si passò a guerra di posizione: una
vera e propria carneficina mondiale, attesa nel fango delle trincee.
Intanto, sul fronte orientale, i tedeschi battevano i russi per poi finire in stallo. Nell’ottobre del 1914 entrava
in guerra, allargando ancor più il conflitto, anche il mastodontico Impero Ottomano che, alla fine della
guerra, ne uscirà praticamente sgretolato.
24
L’Italia e la guerra
Neutralisti e interventisti
Nell’agosto del 1914 il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra, proclamò la neutralità dell’Italia
facendo appello alle clausole della Triplice Alleanza, secondo cui l’intervento sarebbe scattato se l’Austria o
la Germania fossero state oggetto di un’aggressione. Inizialmente, quindi, non venne ritenuto necessario né
uno schieramento con l’Austria né, tantomeno, un intervento contro di essa. In un clima animato si
formarono due schieramenti contrapposti: neutralisti e interventisti.
I due schieramenti non erano affatto equipollenti; sia nella maggioranza del Paese che in parlamento la
posizione neutralista godeva di un ampio consenso. Gli interventisti erano una piccola minoranza, molto
attiva e rumorosa, che però non rappresentava affatto il sentire comune della nazione.
In parlamento c’era un’ampia maggioranza neutralista. L’Italia non doveva entrare in guerra! Per la pace
c’erano Giolitti e i liberali, che a lui si ispiravano e che puntavano ad ottenere dall’Austria Trento e Trieste
proprio negoziando la neutralità.
I socialisti, in coerenza con i principi di classe della Seconda Internazionale, non intendevano partecipare al
conflitto in quanto guerra mondiale tra imperialisti, il cui solo fine era la spartizione del mondo per
accaparrarsi nuovi mercati: dunque, guerra capitalista per i capitalisti. Il proletariato non ha patria, non ha
nazione, nasce internazionale - come recitava il Manifesto comunista del 1848. La classe operaia sarebbe
stata solo ‘carne da macello’!
I cattolici, in gran parte, seguivano le indicazioni di papa Benedetto XV che era, ovviamente, contro la
guerra definendola ‘orrenda carneficina’ e ’inutile strage’.
Gli interventisti erano inizialmente un gruppo alquanto scarno e di diversa estrazione politica.
C’erano interventisti di destra, come D’Annunzio e Papini, che non esitarono ad affermare l’utilità della
guerra come pulizia dei popoli. Il loro obiettivo era, prioritariamente, quello di ottenere Trieste e Trento. In
effetti godevano delle simpatie del re, dell’ambiente di corte, dell’élite militari e dei grandi industriali, che
già immaginavano cospicue commesse e grandi profitti.
C’erano anche interventisti di sinistra, che caldeggiavano la tesi secondo la quale l’Italia doveva schierarsi
con l’asse delle nazioni democratiche, l’Intesa, affinché l’Europa post-guerra non fosse diretta da governi
conservatori. Come direttore dell’Avanti - giornale del Partito socialista - Mussolini sostenne la causa del
neutralismo per poi passare, nel giro di pochi mesi, a quella dell’interventismo. Scacciato dal Partito
socialista fondò Il popolo d’Italia, dalle cui colonne sostenne gli argomenti per l’intervento nella guerra.
Il segreto Patto di Londra
Il 26 aprile del 1915, il ministro degli esteri Sonnino stipulò un trattato segreto, il cosiddetto ‘Patto di
Londra’, secondo il quale l’Italia s’impegnava a partecipare alla guerra entro un mese a patto di ottenere
Trento, Trieste e altre colonie, in caso di vittoria dell’Intesa. Tale accordo stipulava l’entrata in guerra
dell’Italia al di là e al di fuori di qualsiasi volontà popolare del Paese e del parlamento. Il Patto di Londra
mostra come i poteri forti del nostro paese, contrariamente alla volontà della maggioranza, s’accordavano,
non solo sulle terre irredente, ma anche sulla spartizione delle colonie. Mostra, in maniera chiara, come, pur
all’interno di una monarchia costituzionale quale era quella italiana, i poteri forti fossero in grado di prendere
decisioni senza tener conto di alcunché. Il liberalismo mostra di saper sempre sorvolare su questioncelle
parlamentari e democratiche quando lo ritiene opportuno. Questo frangente, mette in luce una vera e propria
‘microfisica del potere’. Il governo, con la collaborazione dei servizi segreti, intervenne nelle piazze dando
man forte agli interventisti in maniera da creare tumulti e scontri, allo scopo di curvare l’opinione pubblica e
parlamentare verso una posizione interventista. Ai tromboni che suonavano gl’inni marziali furono dati loro
gli ottoni in cui soffiare baldanzosi. In questo clima creato artificiosamente dai poteri forti, il governo e la
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corte, per spostare l’opinione pubblica sulle posizioni interventiste, si distinsero personaggi come Mussolini
e D’Annunzio, che dette fiato alla sua penna in quelle che definì “radiose giornate”.
Il 3 maggio, l’Italia, tradendo l’Austria e la Germania, usciva dalla Triplice Alleanza. Salandra ebbe i pieni
poteri dal re e il parlamento, spinto dalla piazza e piegato alla volontà interventista, li accettò. Il 24 maggio
1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria e successivamente, nel 1916, alla Germania.
Il fronte italiano
L’esercito italiano, fin da subito, rivelò mancanza di organizzazione, scarsità di armamento e pessima
preparazione tecnica. Esso era composto da masse ingenti di contadini analfabeti e arretrati, provenienti
dall’entroterra meridionale e senza alcuna preparazione, velleità bellica e giuste motivazioni per partecipare
alla guerra. Luigi Cadorna fu nominato comandante supremo dell’esercito italiano, ma sarebbe stato, in
seguito, sostituito a causa dell’adozione di strategie militari obsolete e una durissima disciplina imposta ai
soldati, che lo rendevano particolarmente inviso. Nel 1915 si svolsero le prime quattro battaglie dell’Isonzo,
che provocarono migliaia di vittime senza che si arrivasse alla vittoria ma, anzi, avvitandosi in una situazione
di immobilismo degli schieramenti bellici. Nel 1916 gli austriaci misero in atto la cosiddetta Strafexpedition,
la spedizione punitiva contro un’Italia che agli occhi austriaci risultava rea di vero e proprio tradimento della
Triplice. Le truppe austriache sfondarono le linee italiane e arrivarono fino ad Asiago. Poi l’offensiva si
placò sia per la resistenza italiana, sia perché l’esercito austriaco dovette dirottare sul fronte orientale per
l’attacco russo. Seguì, successivamente, una vittoriosa controffensiva italiana, sempre sull’Isonzo, sotto il
comando di Cadorna. Le cosiddette “spallate autunnali del Carso” consolidarono le linee e si tornò alla
logorante guerra di trincea.
La Grande guerra
1915-1916: nel cuore della guerra
Tra il 1915 e il 1916, i tedeschi occuparono importanti zone industriali della Francia, preparando contro
l’esercito francese una dura offensiva, che sfociò nella battaglia di Verdun, rimasta memorabile per le sue
500.000 vittime. Nello stesso periodo, entrò sul fronte austro-russo l’esercito dello zar, che rese prigionieri
ben 400.000 soldati. Sin dalle prime fasi del conflitto, la Gran Bretagna aveva realizzato un blocco navale
con lo scopo d’impedire l’entrata di materie prime e derrate alimentari nei porti tedeschi. La flotta tedesca
reagì a questo blocco affrontando la marina inglese nel Mare del Nord, durante la battaglia navale dello
Jutland. I tedeschi, attraverso l’utilizzo di sottomarini - impiegati per la prima volta - tentarono di mettere in
fuga la flotta inglese, senza successo.
La vita al fronte
La cifra della Grande Guerra è la trincea! Da guerra di movimento si declinò subito in guerra di posizione.
Gli eserciti si acquattavano nelle trincee, fossati che riparavano i soldati dall’offensiva nemica e che funsero,
in seguito, da rifugio vero e proprio. I militari erano continuamente esposti alle intemperie; essi dovettero
sopportare per tutta la durata della guerra condizioni di vita estreme, anche a causa di una totale assenza di
igiene che, a sua volta, rese questi luoghi ricettacoli di topi. A causa di tali condizioni, le epidemie erano
frequenti e contribuirono ad aumentare il numero di vittime. Gli uomini nelle trincee furono costantemente
accompagnati dalla quotidianità della morte e dalla costante presenza di cadaveri lungo i fossati. Le vittime
non potevano essere immediatamente seppellite, e si approfittava dei momenti di tregua per poter interrare i
corpi senza vita. Le fosse erano così superficiali che ai primi colpi di mortaio v’era un ribollir di interiora:
cadaveri scaraventati ovunque. La morte divenne una presenza costante, causando un’angoscia diffusa. Il
momento più sofferto delle battaglie era certo l’assalto alle trincee nemiche. L’esercito era composto da
soldati che, nella stragrande maggioranza, erano contadini strappati ai luoghi natii, che abbandonavano per la
prima volta. Strappati al lavoro dei campi per andare a combattere un nemico che neanche conoscevano, non
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erano affatto motivati alla guerra. A tronfi discorsi sull’eroismo e sulla bellezza estetica della guerra, la realtà
andò sostituendo ben presto la vita da trincea tra accettazione, rassegnazione, timidi ribellioni e
autolesionismo. A causa della stanchezza e della mancanza di motivazione delle masse, tutti gli eserciti
dovettero affrontare la diserzione individuale o di massa dai fronti. Per trattenere le masse dei soldati
disertori, fu imposta una disciplina durissima che si imponeva con la pena della fucilazione.
La tecnologia militare
Grazie ai grandi progressi scientifici di quegli anni, la Prima guerra mondiale fu contraddistinta dall’uso di
nuove armi, in addizione all’artiglieria tradizionale. In questa situazione, si registrò il primo impiego nella
storia di armi chimiche (ad opera dei tedeschi), che fu però poco rilevante giacché si trattava ancora di
tecniche artigianali. Vere e proprie bombole di gas velenosi venivano aperte quando il vento soffiava nella
direzione delle trincee nemiche, affinché causasse morte per soffocamento e avvelenamento. Proprio a causa
di questa impostazione ancora ‘artigianale’ e ‘casuale’, i gas non furono usati su larga scala e non fecero
grandi danni.
Il carro armato, ancora rozzo e poco agile, non fu sfruttato appieno (cosa che avverrà nella seconda guerra
mondiale). Insomma, questa tecnologia militare fu solo il prodromo all’impiego massiccio e ‘scientifico’
nella seconda carneficina mondiale: una preparazione tecnica!
Con la guerra navale, la Germania tentò di creare danni all’interno delle rotte commerciali inglesi per minare
il dominio anglosassone sui mari. Importante fu l’utilizzo dei sottomarini, nel cui settore produttivo la
Germania era all’avanguardia. Il sottomarino era una macchina complessa e molto avanzata, tale che la sua
produzione richiedeva un’enorme potenza militare ed economica, possibile solo grazie allo sviluppo
industriale che caratterizzava la Germania. Esso fu l’emblema di una Germania sviluppata tecnologicamente
ed economicamente, che non voleva più sottostare alle grinfie delle politiche inglesi e francesi.
I tedeschi, comunque, non riuscirono a sconfiggere la flotta inglese. Nel conflitto molti furono gli attacchi
contro navi passeggere. Celebre fu l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania, in cui persero la vita
140 passeggeri americani. Questo evento darà, tra l’altro, la forza agli americani interventisti ad entrare in
guerra. L’intervento americano – come vedremo – al di là della retorica sulle vittime innocenti, era stato già
deciso in base a ragioni più ‘congrue’: ragioni saldamente e prosaicamente economiche.
La massificazione della guerra o militarizzazione della massa
La Grande Guerra segna l’ingresso delle masse nella storia in due accezioni: 1) furono interessati dal
conflitto ampi strati della popolazione civile e non solo la classe militare in senso stretto; 2) la mobilitazione
di milioni di uomini segna lo sviluppo di una coscienza collettiva.
Diversamente dalle guerre precedenti, la Prima guerra mondiale interessò non solo gli eserciti, ma l’intero
corpo sociale. L’intera società, come un sol corpo, fu sottoposta alla tensione della guerra: ci fu un processo
di ‘militarizzazione delle masse’ o ‘massificazione della guerra’: l’esercito non era più composto di soli
soldati di professione, ma le sue fila si ingrossarono di intere popolazioni e la popolazione tutta fu, in un
modo o nell’altro, interessata al conflitto.
Insomma, la Prima guerra mondiale proprio a causa della quantità di nazioni, popoli coinvolti e quantità di
fronti aperti, produsse cambiamenti qualitativi nel corpo sociale: la quantità si trasformò in qualità secondo
la ben nota legge dialettica hegeliana.
La guerra aveva determinato una cospicua mobilitazione delle masse sui territori. Masse ingenti di uomini si
erano mosse dalla loro abituale dimora per andare a combattere in un altrove che molti non immaginavano
nemmeno. In questo senso, la Grande Guerra fu un momento di sprovincializzazione, di rottura con un ottuso
e limitato radicamento e l’occasione, per le masse, di una presa di coscienza che, attraverso l’unione, era
possibile perseguire e realizzare diritti. Concretamente, ciò significherà una partecipazione di nuovi soggetti
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alla storia attiva che per l’innanzi erano ancora rimasti in sordina: partiti, sindacati, organizzazioni sociali,
ecc. Tali soggetti, da qui innanzi, saranno sempre più strumenti necessari, insostituibili per la vita dello Stato.
Nella fattispecie, in Italia, la Grande Guerra fu l’occasione, seppur tragica, di riannodare quel faticoso lavoro
di sentirsi nazione; giovani del nord e del sud combatterono fianco a fianco nelle trincee.
Ancora, di eccezionale significato sarà il ruolo che la donna assumerà nel conflitto, soprattutto se si
considerano gli sviluppi che si registreranno fino al movimento femminista degli anni ’70. Fu l’occasione per
‘testare’ l’ipotesi femminista di una società in cui uomini e donne potessero avere gli stessi diritti e farla
finita con una società ossessivamente patriarcale. Con i maschi al fronte, le donne subentrarono spesso in
quei lavori che erano tradizionalmente considerati appannaggio maschile. I maschi in trincea e le donne in
fabbrica! Scricchiolava, nel concreto, un plurisecolare servaggio della donna all’uomo. Scricchiolava il
maglio patriarcale! Se il primitivo e originario matriarcato dei clan e delle tribù di nomadi, cacciatori e
raccoglitori, era stato soppiantato dalle aggregazioni sociali stanziali che, praticando l’agricoltura,
richiedevano una vigorosa forza fisica maschile, ora la grande industria, con la sempre più elevata divisione
sociale del lavoro, con l’atomizzazione, la parcellizzazione del processo produttivo, richiedeva sempre più
dispendio di energia nervosa o intellettiva e con ciò rendeva di nuovo possibile il lavoro femminile al pari di
quello maschile. Insomma, la grande industria gettava le basi reali affinché il giogo patriarcale crollasse. Le
donne, l’altra metà del cielo, percettori di reddito, avrebbero di lì a poco richiesto, a viva voce, una
ridefinizione dei ruoli nell’ambito della famiglia. Tra il 1918 il 1920, l’Inghilterra, la Germania, gli Stati
Uniti e l’Urss riconoscono il diritto di voto anche alle donne. Per l’Italia è ancora presto.
Il ruolo dello Stato nell’economia
La Prima guerra mondiale causò, nei fatti, un cambiamento in ambito ideologico di grande rilievo per quanto
riguardava il ruolo dello Stato nell’economia e nella società in generale. Lo Stato diventa sempre più
protagonista nella vita economica e sociale.
In ambito economico-politico, il paradigma egemone della borghesia era la concezione liberista che è
possibile compendiare nella formulazione dell’economista A. Smith, autore de La ricchezza delle nazioni. Il
mercato, e solo il mercato, con le sue leggi è unico regolatore dello sviluppo economico dei Paesi: arbitro
dello sviluppo economico. C’era una regola aurea dello sviluppo capitalistico che garantiva progresso e
ricchezza: ‘laissez-faire’. Il mercato, lasciato a sé stesso, avrebbe assicurato la ricchezza e il progresso
economico illimitato: umani sorti progressive! La somma delle singole azioni individuali, che ricercano il
proprio tornaconto egoistico, avrebbe assicurato il benessere e la ricchezza collettiva. Lo Stato, dunque, non
avrebbe dovuto ingerirsi nelle faccende economiche, ma limitare al massimo il suo peso.
Beninteso, la teoria liberista non ebbe mai una verifica nella realtà storica. Al contrario, le continue crisi
cicliche testimoniano esattamente il contrario, tuttavia rappresentò bene gli interessi della borghesia almeno
fino alla Grande guerra. Il libero mercato era effettivamente libero solo nella teoria; esso non produceva
affatto un’armonia attraverso la sua ‘mano invisibile’. Solo metafisicamente era possibile postulare
un’identità tra interesse privato e pubblico mentre più spesso la realtà ne mostrava un conflitto. Il libero
mercato mostrava non tanto un’armonia, un equilibrio, quanto una propensione a creare una sperequazione
tra ricchi e poveri, un accentramento di capitali e una sproporzione sempre più ampie tra le sfere produttive,
ecc.
Il ruolo dello Stato doveva essere completamente rivisto di lì a poco, soprattutto dopo la crisi americana del
1929, il Big crash. Tuttavia, i prodromi di tale cambiamento sono già all’interno delle modificazioni
strutturali che si verificano nella Grande Guerra. La Prima guerra mondiale vide l’intervento massiccio dello
Stato, sia sotto forma di investimenti, nuove strade e opere pubbliche, sia nelle laute commesse di guerra
fatte ai privati per la produzione di materiale bellico.
Lo Stato, inoltre, intervenne spesso nell’ambito economico per calmierare coattivamente i prezzi di beni di
prima necessità o, addirittura, per imporre determinati comportamenti ai singoli produttori per garantire
l’interesse generale si intervenne, in tempo di guerra, in maniera illiberale e dispotica soprattutto nell’ambito
del diritto, scalfendo e, a tratti, abrogando, di fatto, con le requisizioni, il diritto alla proprietà privata dei
singoli. Fu il cosiddetto ‘comunismo di guerra’!
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La propaganda e il consenso
Un elemento che pure marca la differenza con le epoche passate fu il ruolo che lo Stato affidò alla
propaganda nella ricerca del consenso sociale. La propaganda divenne un vero e proprio mezzo governativo.
Il consenso sociale diventava sempre più necessario a fronte di una marea di ignari contadini che veniva
catapultata in un tritacarne mondiale. Bisognava tener testa anche alla più scaltra classe operaia che, nei
partiti socialisti, trovava sempre più eco e si assestava su posizioni disfattiste: “guerra alla guerra” era la
consegna dei partiti socialisti. Seppur con qualche distinguo, i socialisti erano, quasi nella loro totalità,
contrari alla guerra, ritenuta una guerra capitalista di rapina per la spartizione del mondo tra predoni. Pochi
pensarono fosse giusto entrare in guerra e mettersi al fianco di quei Paesi democratici la cui vittoria avrebbe
assicurato un avvenire almeno liberale all’Europa.
Il genocidio degli Armeni
Assolutamente raccapricciante è il genocidio degli Armeni.
Si tratta di un crimine contro l’umanità. Il territorio armeno si divideva tra l’Impero Russo e l’Impero
Ottomano, dove avevano fondato numerose città. In territorio turco gli Armeni rivendicavano la propria
autonomia in quanto cristiani ma per l’Impero ottomano era impensabile la perdita di parte del territorio. Il
sultano di Turchia, contro tale richiesta, utilizzò alcuni rancori esistenti tra la popolazione armena e altre
popolazioni musulmane dell’Impero, per creare dei moti d’insurrezione contro questa minoranza cristiana. Il
suo piano ebbe una buona riuscita e ci furono vere e proprie sommosse popolari contro gli Armeni. L’ascesa
al governo dei “giovani turchi”, movimento fortemente nazionalista, peggiorò notevolmente la situazione già
critica: gli Armeni, in quanto non cittadini turchi, potevano e dovevano essere perseguitati.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, gli Armeni, sudditi dell’Impero russo, si trovarono a combattere
contro i loro compatrioti sudditi dell’impero ottomano.
Nel 1915 la Turchia maturò l’eliminazione sistematica della popolazione armena. Si sviluppò un piano
preciso. La prima fase prevedeva sic et simpliciter l’eliminazione fisica di questo popolo. In secondo luogo,
eventuali superstiti sarebbero stati deportati nelle zone periferiche dell’Impero, in veri e propri campi di
concentramento. Molti diplomatici tedeschi raccontarono nelle loro relazioni di uno sterminio
inimmaginabile. Le vittime di tale sterminio si calcolano intorno al milione di morti, ovvero la metà della
popolazione armena presente nel 1914. Nonostante tale genocidio sia stato condannato da un tribunale
militare e i colpevoli principali puniti, il governo turco ha sempre negato le stime fatte, attribuendo, tra
l’altro, la causa dei decessi alle privazioni comuni in periodo di guerra.
1917: l’anno della svolta
Il 1917 rappresenta una svolta per gli esiti della Grande guerra. Da quest’anno si delinearono definitivamente
le due nazioni protagoniste assolute di questo conflitto: la Germania e gli USA che, proprio a partire dal
1917, iniziano ad imporsi politicamente come protagonisti incondizionati della politica internazionale.
Sin dal 1917, i tedeschi intensificarono la guerra sottomarina per bloccare tutta la circolazione di rifornimenti
nei paesi nemici e isolare economicamente l’Inghilterra. L’offensiva tedesca penalizzava, però, anche gli
affari commerciali degli USA, che si decisero a entrare in guerra. Tuttavia, questo motivo non è altro che la
punta di un iceberg: la partecipazione americana al conflitto fu, infatti, frutto di un acceso dibattito interno
che possiamo ricondurre a due ragioni di fondo, su cui s’incardinava il dilemma americano se entrare o meno
nell’agone europeo. Una parte della borghesia americana si schierò su posizioni isolazioniste, rivendicando
la crescita e i progressi del capitalismo americano, che sarebbero stati inevitabilmente turbati dall’intervento
in Europa. Gli interventisti avevano altri argomenti al loro arco. Innanzitutto, non era possibile tirarsi fuori
dal conflitto perché, nonostante l’Oceano, venivano toccati gli interessi economico-politici americani. Metà
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della produzione degli USA era diretta all’Europa. Ora, un continente a leadership tedesca, con una pax
tedesca, non avrebbe giovato per nulla al libero scambio e agli interessi economici americani. In secondo
luogo l’intervento americano si faceva pressante anche a riguardo del recupero degli ingenti crediti ai paesi
europei. In terzo luogo, una parte della borghesia americana addentò l’occasione di una guerra come
occasione per arricchirsi con le commesse di guerra. La posizione interventista alla fine prevalse!
Il 1917 rappresenta una faglia anche a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre in Russia, che rovescia lo zarismo
e decide di uscire dalla guerra e procedere subito con le trattative con gli imperi centrali. Si giunse, così,
all’accordo di Brest-Litovsk, secondo il quale la Russia dovette concedere la Polonia e i Paesi baltici alla
Germania e dare l’indipendenza all’Ucraina.
La disfatta di Caporetto
In seguito all’uscita di scena della Russia, gli Austriaci e i Tedeschi poterono concentrarsi sul fronte
occidentale e sull’Italia. Gli Austriaci, appoggiati dai Tedeschi, dopo una faticosa offensiva, sfondarono le
linee italiane a Caporetto, penetrando per circa 150 km nel territorio italiano. Non fu una semplice sconfitta,
fu una disfatta! La ritirata italiana fu rovinosa, un disastro che coinvolse la popolazione civile. La ritirata fu
praticamente incontrollabile. Le stime ufficiali parlano di 400.000 uomini persi tra morti, feriti e prigionieri.
Caporetto ebbe un’eco vastissima per tutto il Paese. Fu formato un nuovo governo con a capo Vittorio
Emanuele Orlando. Il generale Cadorna fu sostituito dal più lungimirante e accorto Armando Diaz, che
organizzò una linea difensiva lungo il Piave in grado di poter fermare l’avanzata austriaca. Il governo e le
élite militari paventarono alle truppe una riforma agraria, che prevedeva la confisca di grandi proprietà
terriere ai latifondisti che sarebbero state poi divise tra i soldati come ricompensa. Era un modo di
imbrigliare il malcontento in una motivazione che potesse spronare i soldati alla guerra.
Caporetto fu una sconfitta dovuta certo all’accorta preparazione militare austro-tedesca, ma rivelò anche la
profonda stanchezza fisica e mentale delle truppe che sfociava nel rifiuto per la guerra, nelle
insubordinazioni, nelle fughe, nella diserzione in massa, simulazioni di malori e, addirittura,
nell’autolesionismo, pur di astenersi dalla partecipazione militare. Caporetto è stata letta anche come “una
sorta si sciopero” delle truppe - come dice Lehner, Economia, politica e società nella prima guerra mondiale
e come confermano le lettere dei soldati raccolte da Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande
guerra – tanto che avrebbe potuto “trasformarsi in un’impresa rivoluzionaria grande e sconvolgente”.
Fu una disfatta che gli italiani non hanno mai ricordato volentieri perché implica, nella logica militarista, una
dose di viltà dei soldati italiani. La proporzione tra morti e prigionieri è assolutamente irragionevole: i soldati
si arrendevano al nemico senza colpo ferire e decidevano di non combattere. Un esercito in rotta che scende
dalle montagne come un fiume in piena che tutto travolge al passaggio. La battaglia del Piave cancellò
Caporetto.
Fasi finali del conflitto
Nella primavera del 1918, l’attacco tedesco sul fronte occidentale venne vanificato dalle truppe anglofrancesi che ottennero poi una vittoria definitiva nelle battaglie della Marna e di Amiens. L’Austria subì una
feroce controffensiva italiana che culminò con la sconfitta e la ritirata definitiva degli Austriaci durante la
battaglia di Vittorio Veneto. A Villa Giusti, il 3 novembre si stilò il patto che sanciva la vittoria dell’Italia;
intanto l’imperatore Carlo I abdicò e l’Austria divenne una repubblica.
Anche la Germania si arrese definitivamente in seguito alla resa turca. A Berlino un socialdemocratico,
Elbert, fondò la repubblica e avvio le trattative per l’armistizio di Rethondes.
Con lo sgretolamento di queste potenze si chiudeva finalmente la Prima guerra mondiale che da “indolore”
guerra lampo si era trasformata in una travagliata guerra di trincea durata, più di quattro anni e con il
sacrificio di più di otto milioni e mezzo di morti, tra cui seicentoquindicimila italiani, e circa ventuno
milioni di feriti più o meno gravi.
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I trattati di pace
I rappresentanti dei Paesi usciti vincitori dal conflitto si radunarono a Parigi il 18 gennaio 1819, in una
Conferenza per la pace, mentre i Paesi vinti vennero coinvolti solo dopo che le trattative furono terminate.
L’obiettivo della Conferenza era quello di trovare un equilibrio che consentisse all’Europa una pace
duratura: un nuovo assetto geo-politico. I protagonisti del congresso furono: Clemenceau per la Francia,
Lloyd George per la Gran Bretagna, Wilson per gli Stati Uniti e Orlando per l’Italia.
Alla Conferenza si fronteggiavano sostanzialmente due strategie politiche: quella americana e quella
francese.
In vista della stesura delle trattative per la pace, il presidente americano Wilson aveva già presentato i
Quattordici punti, nei quali chiarì le intenzioni americane per quanto riguarda le relazioni internazionali.
Wilson faceva appello all’autodeterminazione delle nazioni e ai principi che avevano ispirato l’Intesa.
Dietro le altisonanti parole di democrazia, autodeterminazione, ecc., Wilson rappresentava gli interessi
economici americani, che si sarebbero fatti valere meglio in una Europa dove c’era libero mercato e senza
aspri conflitti fra Stati.
La Conferenza si sviluppò su ben altri presupposti! La Francia puntava ad indebolire la Germania per avere
l’egemonia economica e politica in Europa. La Gran Bretagna, al contrario, era poco propensa a penalizzare
severamente la Germania, poiché non intendeva lasciare libero spazio alla Francia. Tuttavia dovette scendere
a compromessi con i francesi per perseguire gli obiettivi di annullamento della flotta tedesca e della
spartizione dei territori coloniali tedeschi.
L’Italia premeva per il rispetto degli accordi stipulati nel Patto di Londra.
In realtà anche gli Stati Uniti facevano valere, al di là dei pii intenti di democrazia e autodeterminazione, i
loro interessi meramente economici. Avrebbero voluto una soluzione condivisa da tutti gli Stati, in modo da
pacificare il continente e renderlo un libero e democratico mercato per le proprie esportazioni. Insomma, una
soluzione equilibrata che non fosse troppo punitiva per i perdenti avrebbe meglio assecondato i loro interessi.
I Trattati di Parigi furono firmati in Francia tra il 1919 e il 1920 e disegnarono la nuova Europa.
1) L’Austria dovette rinunciare ai sette ottavi dei territori. L’Impero austro-ungarico mantenne Fiume
ma iniziò un processo di inesorabile sgretolamento: perse Trieste, Trento, la Dalmazia ed altri
territori;
2) L’Italia ricevette dall’Austria i territori di Trieste, Venezia Giulia, Trentino e Alto Adige, ma non
acquisì i territori promessi con il Patto di Londra (26 aprile 1915); non le furono riconosciute Fiume
e la Dalmazia e non ricevette le colonie promesse in quanto l’acquisizione di tali territori andava
contro i principi di autodeterminazione di Wilson. L’Italia, non ricevendo i vantaggi per cui si era
battuta si ritenne penalizzata e ciò scatenò lo sdegno da parte di nazionalisti, che parleranno di
‘vittoria mutilata’;
3) La Germania fu riconosciuta come unica responsabile della guerra e fu privata di tutte le sue colonie:
l’Alsazia e la Lorena passarono alla Francia; altri territori passarono alla Danimarca e alla Polonia
che così si trovava, di fatto, divisa in due dal corridoio di Danzica. La Germania perdeva il 13% del
territorio e fu obbligata a risarcire le spese di guerra, per un totale di 132 miliardi di marchi-oro, cifra
oggettivamente insostenibile per l’economia tedesca. Inoltre, fu costretta a ridurre il suo esercito e la
sua flotta. La Germania fu, di fatto, penalizzata e sottoposta a condizioni troppo dure. Tali
provvedimenti non faranno che alimentare l’insofferenza germanica e dare alimento alle teorie
politiche di Hitler che riportarono la Germania alla guerra.
Le condizioni stabilite dai Trattati di Parigi (1919-1920) furono causa di grande, diffusa insoddisfazione per
la gran parte degli Stati. Con l’intento di disegnare un’Europa capace di garantire un equilibrio politico e
mantenere la pace, si crearono, all’opposto, i prodromi della Seconda Guerra Mondiale.
In effetti, le uniche due nazioni che trassero vantaggio dai Trattati furono la Francia e la Gran Bretagna, che
si spartirono, tra l’altro, le ex-colonie tedesche (incluse l’Alsazia e la Lorena).
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L’Europa che emergeva dalla Grande guerra aveva, dunque, un volto completamente diverso. Registrava il
crollo dei quattro imperi centrali (Austro-ungarico, tedesco, russo e turco) ed erano nate numerose nuove
nazioni che comprendevano etnie diverse e, talvolta, in contrasto tra loro: Cecoslovacchia, Iugoslavia,
Polonia.
La Grande guerra segnava anche l’ascesa definitiva del capitalismo USA come potenza mondiale. I vincitori
assoluti del conflitto furono, infatti, gli Stati Uniti che prima dello scoppio della guerra, erano debitori
all’Europa di 5 miliardi di dollari, mentre alla fine erano creditori di 7 miliardi di dollari. Prima della guerra,
gli scambi internazionali venivano effettuati con la sterlina inglese che, dopo la guerra, cedette il posto al
dollaro.
Infine, dalla Grande guerra, come dalla testa sanguinante di Giove, emerse un evento cruciale, destinato a
segnare in maniera indelebile tutto il Novecento. Una rivoluzione che agglutinerà le speranze di tutto il
movimento operaio internazionale nella lotta contro la borghesia, che interpreterà le speranze di un mondo
migliore di milioni di uomini e donne, di umiliati e offesi, degli ultimi della terra: la Rivoluzione d’Ottobre
in Russia.
BIBLIOGRAFIA
Libri
Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori
Hemingway, Addio alle armi, Rizzoli
Film
Orizzonti di gloria, S. Kubrik, 1957
La Grande Guerra, Monicelli, 1959
Uomini contro, Rosi, 1971
32
La masseria delle allodole, Taviani, 2007
LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
~ LE CONDIZIONI STORICHE E I MARXISTI
~ LE TRE RIVOLUZIONI
~
~
~
La Rivoluzione del 1905
La Rivoluzione di febbraio
La Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale
~ IL POTERE SOVIETICO
~
~
~
~
L’Assemblea Costituente
La guerra civile
Elementi di dittatura proletaria: La Costituzione del 1918
Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep
~ LA RIVOLUZIONE SCISSA
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Le condizioni storiche e i marxisti
La Russia del XIX secolo si presenta come un paese arretrato e autocratico, simbolo del conservatorismo
politico e sociale europeo.
L’impero russo continuò ad espandersi durante tutto l’Ottocento raggiungendo un’estensione assai notevole.
Al suo interno, infatti, convivevano decine di popoli caratterizzati da lingue ed etnie diverse. Tuttavia, la
cifra che determina l’impero è l’arretratezza delle campagne e una scarsissima produzione industriale
concentrata in poche città. La Russia d’inizio secolo, dunque, era come impantanata in un letargo economico
atavico. Circa il 90% della popolazione era costituito da contadini che solo nel 1861 erano stati formalmente
liberati dai ceppi medievali della schiavitù della gleba il che descrive plasticamente l’arretratezza russa.
D’altra parte, la risoluzione formale della schiavitù non risolse affatto i problemi dell’agricoltura russa,
giacchè, perdurò lo stato di miseria dei contadini poveri contrapposto ai ricchi kulaki. Tra i contadini, questa
situazione non poteva che generare malcontenti e vere rivolte puntualmente represse nel sangue.
Soltanto alla fine dell’Ottocento cominciò un processo di industrializzazione. Tale processo fu ‘introdotto’
attraverso l’ingresso di capitali stranieri provenienti da Francia, Germania e Gran Bretagna. Lo stesso zar
promosse questi finanziamenti esteri che fecero di Mosca e San Pietroburgo le città più industrializzate. In
pratica, la Russia, sotto il profilo dello sviluppo industriale dipendeva del tutto dal capitale straniero. Si
trattava, quindi, di un’industrializzazione le cui cause non erano tanto da ricercare nello sviluppo interno e
nel fermento autoctono, quanto nelle cause esogene.
L’industrializzazione - ancorché timida - e la situazione politica effervescente avevano spinto alcuni
intellettuali ad avvicinarsi alle tesi marxiste: alla teoria più avanzata del movimento operaio.
I militanti russi, sulla scorta della dottrina di K. Marx:

valutavano positivamente lo sviluppo capitalistico in Russia che avrebbe portato il paese fuori dal
torpore economico: dalla immobilità che relegava milioni di contadini alla miseria;
 consideravano positivamente il ruolo rivoluzionario della borghesia nelle condizioni russe;
 avrebbero appoggiato lo sviluppo capitalistico e un’eventuale rivoluzione democratico-borghese che
rompesse gli argini della monarchia zarista e “i lacci e laccioli” feudali;
 erano consapevoli dell’impossibilità dei “salti” della Storia ovvero: la Russia avrebbe dovuto
attraversare una fase capitalistica al termine della quale sorgeva il ‘sole dell’avvenire’: la rivoluzione
socialista.
Nel 1898 venne fondato il POSDR, Partito Operaio Socialdemocratico Russo che successivamente si
dividerà in due correnti contrapposte:


i bolscevichi (maggioranza) capeggiati da Vladimir-Uljanov, detto Lenin, volevano un partito
rivoluzionario che fosse in parte segreto e in parte pubblico. Lenin agognava che il partito fosse
formato unicamente da uomini disposti a dedicare la loro vita al partito: rivoluzionari di professione;
i menscevichi (menscevichi) capeggiati da Jilij Caderbaum, detto Martov, volevano un partito che
s’ispirasse alla socialdemocrazia europea. Il loro obiettivo era quello di realizzare riforme sociali e
politiche in maniera democratica.
Le tre rivoluzioni
La Rivoluzione del 1905
Un periodo di crisi seguì la sconfitta militare contro il Giappone. Le condizioni di vita nelle città diventarono
assai problematiche. Le condizioni del proletariato peggiorarono e si diffuse un malcontento generale.
Il 9 gennaio 1905 più di 140.000 persone sfilarono per San Pietroburgo fino a raggiungere il Palazzo
d’Inverno. La manifestazione pacifica degli operai che avanzavano una semplice petizione allo zar Nicola II
34
– succeduto ad Alessandro II, - fu fermata con brutale violenza. L’intervento dell’esercito fece circa un
migliaio di morti. Quel giorno passò alla storia come “la domenica di sangue”. Scioperi e rivolte a catena si
estesero a tutti i lavoratori e al mondo rurale per l’intero anno. Gli eventi del 1905 fecero in modo che anche
la borghesia liberale si organizzasse nel partito Costituzionale Democratico, più conosciuto come Cadetto. Il
partito chiedeva un sistema costituzionale che potesse convivere con la già esistente monarchia.
Lo zar Nicola II si trovò costretto a concedere l’elezione di un Parlamento, la Duma, con l’intento di sedare il
malcontento. La protesta, però, continuò ad espandersi, coinvolgendo anche l’esercito e la famosa corazzata
Potëmkin - ammutinata - immortalata nel film di Eisenstein. La rivolta raggiunse l’apice in ottobre. In
seguito ad uno sciopero generale a San Pietroburgo venne creato il primo Soviet (consiglio), ovvero, un
Consiglio dei lavoratori che agiva come un organo di governo parallelo a quello ufficiale basato su un
principio di democrazia diretta. A capo del Soviet di san Pietroburgo troviamo il menscevico Lev Davidovič
Bronstein, detto Trotski.
La Rivoluzione di febbraio
Il 23 febbraio 1917, il malcontento generale degli operai di Pietrogrado sfociò in una seconda rivoluzione.
Lo zar lanciò, contro gli operai le truppe dell’esercito ma esse, disobbedienti, si schierarono dalla parte degli
operai. Lo zar, con tutta evidenza, non era più capace di controllare la situazione. Il 2 marzo 1917 gli insorti,
insoddisfatti del regime zarista, costrinsero Nicola II ad abdicare: crollava così la monarchia zarista e
nasceva l’esperienza della repubblica borghese. La monarchia zarista non potendo più contare su un
minimo consenso neanche tra gli aristocratici collassò subitamente; s’accartocciò su sé stessa in un baleno e
si obliò nel nulla. Fu una rivoluzione indolore e con poche vittime.
La rivoluzione di febbraio porta alla luce due centri di potere: 1) un governo provvisorio formato, perlopiù,
da borghesi e aperto alle riforme; 2) il soviet di Pietrogrado formato da socialrivoluzionari (populisti) e
menscevichi. Entrambi gli schieramenti intendevano continuare la guerra; il governo provvisorio per
rafforzare lo stato e creare un regime parlamentare moderato: il soviet per sconfiggere Germania e Austria,
potenze reazionarie e conservatrici la cui vittoria avrebbe ostacolato la nuova Russia.
La Rivoluzione d’ottobre: inizio della rivoluzione internazionale
La doppia tattica
All’interno del movimento socialista internazionale era un dato ormai assodato, l’adozione di tattiche diverse
dei partiti operai a partire dallo sviluppo economico del paese. Qualora il paese fosse a forte sviluppo
economico, ampiamente industrializzato e il movimento operaio largamente radicato e forte, la tattica del
partito comunista non avrebbe previsto nessuna collaborazione con la borghesia ma, al contrario, una politica
che ponesse all’ordine del giorno la rivoluzione e l’instaurazione della dittatura del proletariato allo scopo di
eliminare la resistenza della borghesia e concentrare le forze produttive al fine di socializzarle. Nei paesi a
capitalismo avanzato, all’ordine del giorno, c’era la rivoluzione socialista e il passaggio alla socializzazione
dei mezzi di produzione. Nei paesi in cui lo sviluppo delle forze produttive era ancora ad uno stadio basso e
la borghesia come classe non aveva ancora vinto l’aristocrazia o forme ancora semifeudali, il proletariato,
seppur esiguo, avrebbe collaborato con la borghesia al fine di accelerare lo sviluppo del paese.
In questo modo si delineavano per i comunisti due tattiche a secondo delle condizioni storiche in cui il
partito operava: rivoluzione socialista o collaborazione alla rivoluzione democratico-borghese.
In Russia, con tutta evidenza, il movimento operaio non poteva che adottare la tattica collaborativa con la
borghesia per una rivoluzione.
35
Le Tesi di aprile
Quando, il 4 aprile 1917, Lenin arrivò a Pietrogrado, i due centri di potere risultavano incapaci di risolvere
gli immensi problemi della Russia. Lenin propose le sue Tesi di aprile che sviluppavano in 10 punti le sue
idee sui compiti che il partito doveva svolgere nella nuova situazione e all’interno della guerra imperialistica
mondiale.
1. Tutto il potere ai soviet! Tutto il potere doveva essere trasferito nelle mani dei soviet perché
prodotto originale delle masse operaie e dei contadini. I soviet rappresentavano la forza creativa
democratica e rivoluzionaria delle masse;
2. Terra ai contadini! L’uscita immediata della Russia dalla guerra;
3. Fabbriche agli operai! La produzione doveva passare sotto il controllo del proletariato organizzato;
4. Pace immediata! Uscita immediata della Russia dalla carneficina della Grande Guerra, il cui unico
scopo era la spartizione imperialistica del mondo.
Le Tesi di aprile presero alla sprovvista gli stessi dirigenti e militanti bolscevichi attardati sulla tesi che
bisognava appoggiare la rivoluzione democratico-borghese. Si trattava di lanciarsi verso la presa del potere,
verso la rivoluzione socialista. Imprimere alla Storia un’accelerazione tremenda. Le Tesi promettevano il
fuoco e la speranza agli ultimi della terra. Ora, subito!
La vecchia tattica rivoluzionaria che prevedeva l’appoggio alla borghesia in una società arretrata affinché
potesse attecchire il capitalismo e le sue corrispondenti istituzioni liberali al fine di ammodernare la società e
liberarla dai residui medievali, veniva totalmente superata nell’ottica leniniana.
Il ragionamento di Lenin che stava alla base delle Tesi si fondava, sostanzialmente, su due perni: a)
l’imperialismo e la guerra mondiale che si stava consumando avrebbero portato, probabilmente, il
movimento operaio alla rivoluzione vittoriosa in Europa; b) la borghesia russa non era abbastanza ferma,
pronta, salda per portare a termine la sua stessa rivoluzione; c) la Russia era l’anello debole della catena
imperialista. Bisognava ora prendere il potere e aspettare la rivoluzione europea.
Le Tesi di aprile ebbero un notevole riscontro tra le masse operaie e contadine che chiedevano pace e la
terra, mentre allontanarono definitivamente i bolscevichi dai menscevichi e dai social-rivoluzionari che,
invece, appoggiarono il governo. I bolscevichi, dunque, soli si posizionavano all’opposizione e fuori da
qualsiasi collaborazione con il governo provvisorio borghese.
L’Insurrezione
La situazione al fronte era sempre più difficile; il 18 giugno, il governo provvisorio inviava truppe contro le
forze austro-tedesche, ma i soldati rifiutarono di combattere. Intanto, spinte conservatrici si facevano sentire:
in settembre il generale, Kornilov, comandante in capo dell’esercito, marciava su Pietrogrado con l’intento di
abbattere il governo repubblicano e riportare l’ordine. Il colpo di Stato si rivelò un fallimento, in quanto il
social rivoluzionario Kerenski, al comando del governo, riuscì a far fronte all’attacco ma solo con
l’appoggio di contadini, operai e bolscevichi. La borghesia si rivelava troppo debole per la sua stessa
rivoluzione borghese e nei momenti cruciali, aveva sempre bisogno della classe operaia e dei bolscevichi.
Questi ultimi, in seguito a questa vicenda, ottennero la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.
I bolscevichi iniziarono a costituire una forza militare: la Guardia rossa. Infine, rafforzati dall’appoggio del
popolo, ruppero ogni indugio e organizzarono l’insurrezione armata contro il governo provvisorio. Il 24
ottobre i bolscevichi occuparono i punti strategici di Pietrogrado senza spargimento di sangue. La stessa
guarnigione di Pietrogrado favorì l’azione delle truppe bolsceviche che riuscirono a conquistare, il 25
ottobre, il Palazzo d’Inverno sede del governo Kerenski, senza grandi spargimenti di sangue (quindici
morti). Il Palazzo d’Inverno - come la Bastiglia per la Rivoluzione Francese - era il simbolo, insieme, della
monarchia zarista e della rivoluzione democratico-borghese appena nata.
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La stessa notte del 25 ottobre fu dichiarato aperto il II Congresso panrusso dei soviet e la sera del 26 Lenin,
dalla tribuna del Congresso, di fatto, apriva il capitolo della Rivoluzione comunista internazionale con
l’inizio del potere sovietico.
Il potere sovietico
Il Congresso approvò due decreti:
1) Il Decreto sulla pace.
Si invitavano tutti i paesi belligeranti alla pace immediata
2) Il Decreto sulla terra.
Si aboliva la proprietà privata della terra e si confiscavano le grandi proprietà.
In questo stesso periodo venne creato il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin e
interamente formato da bolscevichi.
In primo luogo, il Consiglio nazionalizzò le banche e consegnò nelle mani degli operai il controllo delle
fabbriche, per poi essere nazionalizzate. Socialrivoluzionari e menscevichi accusarono i bolscevichi di aver
affossato la democrazia e, in virtù di ciò, abbandonarono il Congresso dei soviet; soltanto i
socialrivoluzionari di sinistra appoggiarono questo nuovo governo.
L’Assemblea Costituente
Il 12 novembre 1917 si votò per la formazione dell’Assemblea Costituente, i risultati furono sfavorevoli per
i bolscevichi che ottennero il 25% dei voti, ma non per i socialrivoluzionari che ottennero il 58%. Le
campagne avevano votato in maggioranza per i socialrivoluzionari, mentre, le città più grandi, dove era
presente un movimento operaio organizzato, avevano massicciamente votato per i bolscevichi. In seguito alla
riunione del 18 gennaio 1918, i bolscevichi decisero di chiudere l’Assemblea alla fine del primo giorno di
lavoro.
Il nuovo governo rivoluzionario bolscevico dovette affrontare il problema della pace con la Germania. Gran
parte dell’ex-impero russo era occupato dai tedeschi, che ormai minacciavano la stessa Pietrogrado ed è per
questo che la capitale divenne Mosca. Il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk, i bolscevichi dovettero trattare con
il nemico, firmando la pace che da tempo avevano promesso al popolo.
La pace stabiliva che la Russia dovesse:
 Cedere la Bielorussia, il Caucaso e le terre tra queste comprese alla Germania;
 Riconoscere l’indipendenza della Finlandia e dell’Ucraina;
 Rinunciare ai Paesi Baltici e alla Polonia.
Seppur ritenuta necessaria, Lenin definì questa pace “vergognosa”. Tra le ripercussioni di Brest-Litovsk,
notevole fu che i socialrivoluzionari uscirono dal governo e i bolscevichi rimasero soli alla guida del paese.
La guerra civile
Dalla primavera del 1918, la Repubblica dei soviet dovette fronteggiare due minacce: l’invasione dei paesi
occidentali ai confini, la guerra civile interna.
L’obiettivo dei governi dell’Intesa era quello di togliere il potere dalle mani dei bolscevichi affinché si
potesse ricostituire una repubblica democratico-borghese che riportasse la proprietà privata come
quintessenza del capitalismo.
La Rivoluzione d’ottobre infiammò il movimento operaio europeo, fomentò l’opposizione operaia e
socialista. Il Paese fu invaso da truppe anglo-francesi e statunitensi che occuparono il nord della Russia e da
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truppe giapponesi che occuparono la zona del Pacifico. Le potenze occidentali appoggiarono le forze
controrivoluzionarie che si erano formate nel Paese già alla fine del 1917. L’imperialismo occidentale si
schierò, senza riserve, dalla parte delle armate bianche guidate da ex generali zaristi e composte da truppe
fedeli al vecchio regime che avrebbe voluto riportare indietro l’orologio della storia.
Contro l’Armata Bianca si schierò l’Armata Rossa, ovvero l’esercito bolscevico costituito e guidato da
Trotski che finì per diventare una figura leggendaria. La guerra civile portò alla morte di circa 3.000.000 di
persone. Si trattò di una guerra civile complessa, atroce, con nefandezze da ambo le parti che si concluse
solo nell’estate 1920 con la vittoria dell’Armata rossa che ebbe l’appoggio determinante dei contadini. Se la
presa del Palazzo d’Inverno assomigliò ad un colpo di Stato, tre anni di guerra civile provarono le ragioni e
la forza del potere bolscevico.
Nell’aprile del 1920 il paese dovette difendersi anche dall’attacco della Polonia che, approfittando della
guerra civile, pensò di riprendersi i territori persi con la pace di Versailles del 1919. La guerra si concluse
nel 1921, con l’annessione della Bielorussia e dell’Ucraina al territorio polacco.
Elementi di dittatura proletaria: La Costituzione sovietica del 1918
Nel luglio 1918 venne approvata la prima Costituzione Sovietica che affermava i diritti del popolo
lavoratore sfruttato.
Essa fu importantissima per due motivi principali:
a) divenne un documento storico all’interno dello sviluppo proprio del paese
b) non era altro che una traduzione particolare dei principi enunciati nel Manifesto del partito comunista del
1848.
Secondo il Manifesto, infatti, la classe operaia al potere doveva, innanzitutto, spezzare le reni alla
controrivoluzione e procedere all’accentramento dei mezzi di produzione per dirigere il passaggio ad una
economia socialista. La Costituzione apre con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato
che faceva da contraltare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della grande Rivoluzione
francese.
La Costituzione, quale raccolta di principi fondamentali dello stato sovietico, presenta la dittatura socialista
nelle forme che essa assunse in Russia. Vi si legge lo scopo fondamentale: “sopprimere qualsiasi forma di
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, di abolire completamente la divisione della società in classi
[…], di instaurare l’organizzazione socialista della società e di assicurare la vittoria del socialismo in tutti i
Paesi”.
La forma giuridica della dittatura di classe si fa sentire, violenta e cristallina, quando si afferma che “godono
del diritto di eleggere e di essere eletti coloro che vivono del proprio lavoro, mentre non eleggono e non
possono eleggere ovvero sono fuori da qualsiasi rappresentanza politica”. “Le persone che ricorrono al
lavoro salariato al fine di ottenere un profitto; Le persone che vivono di redditi non lavorativi come,
interessi di capitale, redditi di impresa, entrate patrimoniali, ecc.”. Con un semplice articolo della
Costituzione, si vietava all’aristocrazia e alla borghesia qualsiasi intervento nella vita pubblica dello stato
sovietico.
Particolare attenzione va poi riservato all’applicazione del voto plurimo. Si stabilisce che il voto degli
operai conta più di quello dei contadini nella misura di 1 a 5. Il voto plurimo, che pure ha avuto diverse
applicazioni in altri paesi, rivela, in maniera chiarissima, la difficoltà del potere bolscevico di mantenersi in
un paese a stragrande maggioranza contadina. Il potere bolscevico, espressione della classe operaia
rivoluzionaria, deve comprimere il voto contadino per non essere travolto e snaturato.
Tra il 1920 e il 1922 si unirono alla Repubblica russa, altre provincie capeggiate dai bolscevichi, i quali
erano riusciti a sconfiggere le Armate bianche. Così, nel dicembre 1922 nacque l’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
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Il ‘Comunismo di guerra’ e la Nep
Quando i bolscevichi presero il potere, la Russia era già in una situazione economica pesantissima,
disastrosa. I contadini producevano per l’autoconsumo nelle piccole aziende agricole, non rifornendo le città
dei beni necessari. Il governo non si rivelò in grado di riscuotere le tasse e si vide costretto a stampare carta
moneta che, però, perse qualsiasi valore, provocando un’inflazione elevatissima. Spesso si ritornò al baratto
e al pagamento in natura. In questa situazione il governo bolscevico, nel 1918, attuò una politica economica
autoritaria che fu definita ‘comunismo di guerra’. Lo stato iniziò a controllare tutta l’economia attraverso la
nazionalizzazione delle terre e la statalizzazione delle grandi e medie imprese. Per approvvigionare le città, i
bolscevichi intervenivano dispoticamente nelle campagne, strappando ai contadini tutto ciò che non fosse
assolutamente necessario. La situazione economica raggiunse il culmine critico nel 1921 per l’effetto
congiunto della crisi economica della guerra civile e di un anno di siccità che provocò una terribile carestia.
La rivolta più grave scoppiò a Kronstadt, da sempre roccaforte bolscevica: la repressione militare fu
durissima.
Nel 1921 il “comunismo di guerra” lasciava il posto alla Nuova Politica Economica (NEP) approvata al X
Congresso del partito comunista.
La NEP si configura come una politica economica che si muove nella direzione di un maggior spazio
all’iniziativa privata, al fine dell’ammodernamento capitalistico della Russia. Insomma, la Russia stava
soffocando in una grave crisi economica ed era il momento di dare spazio ad una seppur limitata
liberalizzazione dell’economia e degli scambi. Bisognava stimolare l’agricoltura, favorendo, nel contempo,
l’approvvigionamento delle città. I contadini potevano vendere le eccedenze sul libero mercato. Tale
liberalizzazione riguardava anche la piccola industria e il commercio. Lo Stato manteneva il controllo delle
banche, delle grandi fabbriche che avessero più di venti dipendenti, creando così un sistema di produzione
statale e privato.
In generale, le misure che furono prese possono inscriversi nell’alveo borghese, nella direzione di un pesante
intervento statale nel tentativo di controllare e gestire un’economia in un periodo di guerra. Dall’altro lato si
inserivano in una direzione tesa ad accelerare il passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello
monopolistico. Siamo in presenza non del “passaggio al socialismo” quanto della modernizzazione
dell’economia russa ovvero della “costruzione del capitalismo”, dunque, del capitalismo di Stato. La NEP, in
realtà, era un invito esplicito a far rinascere, nelle campagne, il capitalismo privato per uno sviluppo del
mercato agrario.
Dunque: sviluppo del mercato agrario, forme di capitalismo monopolistico come il monopolio del
commercio estero, forme di capitalismo di Stato come il censimento, il controllo, ecc. ma anche la
statalizzazione del settore industriale; ecco la serie di attuazioni in campo economico tra il 1917 e il ’21.
Si faceva un passo verso il socialismo, ma solo nel senso che si saliva la scala storica dei modi di produzione
che Marx aveva tratteggiato. La Russia si avviava al capitalismo di Stato che era certamente il gradino
indispensabile per poter andare verso il socialismo.
La rivoluzione scissa
La Rivoluzione d’ottobre, inizio della rivoluzione internazionale, si presenta come una rivoluzione scissa.
Da una parte, la Rivoluzione d’ottobre è, indubitabilmente, una rivoluzione socialista per ciò che concerne
la sua forma politica in quanto instaurazione della dittatura del proletariato cioè della forma all’interno della
quale si realizza la rivoluzione del movimento operaio che è superamento del capitalismo. Dall’altra,
l’Ottobre è una rivoluzione borghese per ciò che concerne il suo contenuto economico: la terra ai
contadini, il ‘comunismo di guerra’, la Nep, ecc. si inscrivono nell’alveo di una rivoluzione borghese e
rimangono ancorate saldamente al capitalismo. Dunque, rivoluzione scissa: socialista la forma politica,
borghese il suo contenuto economico.
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L’Ottobre presenta questa particolarità che è la sua spietata condanna al fallimento qualora non avesse
incrociato l’appuntamento con la rivoluzione europea. Una rivoluzione comunista vittoriosa in Europa
tardava a congiungersi con quella russa. L’appuntamento non vi fu e la Rivoluzione d’ottobre non poteva che
adeguare sempre più l’involucro politico al suo contenuto economico. La rivoluzione stava ormai soffocando
già al 1921 come, d’altra parte, registrava la Nep. Il ciclo rivoluzionario previsto da Lenin s’infrangeva
contro il blocco borghese e perdeva, rovinosamente, dappertutto, aprendo la strada alla dittatura borghese: il
liberalismo indossava la maschera del fascismo.
Toccò a Stalin lanciare la Russia verso quell’ossimoro che egli definì la “costruzione del socialismo in un
solo paese”!
BIBLIOGRAFIA
Libri
J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1919
B. L. Pasternak, Il dottor Živago, 1957
40
Film
La corazzata Potëomkin, S. Eisenstein, 1925
Ottobre, S. Eisenstein, 1927
Il BIENNIO ROSSO
~ LE RIVOLUZIONI FALLITE
~ IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA
~
~
~
~
~
~
La situazione economica
don Sturzo e il Partito popolare italiano
Le elezioni del 1920
Lotte contadine
Le occupazioni delle fabbriche
Partito e sindacato
~ LA III INTERNAZIONALE
~ 1921: NASCE IL PCd’I
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Il biennio delle rivoluzioni fallite
Un’ondata rivoluzionaria scuote l’Europa! Tutta l’Europa, tra il 1918 e il 1920, fu percorsa da un fremito, un
ardore, una passione, uno slancio rivoluzionario che chiedeva un cambiamento radicale. Tutta l’Europa, tra il
1818 e il 1920, fu interessata da un crescendo di scioperi e di partecipazione operaia spontanea. La lotta per
gli aumenti salariali, la lotta per le otto ore portarono in piazza milioni di lavoratori. Dappertutto spuntarono
spontaneamente Consigli operai che si richiamavano più o meno direttamente alla vittoriosa esperienza
russa. L’onda rivoluzionaria post-guerra della fase imperialista, preconizzata da Lenin, sembrava prendere
sempre più forma concreta, sempre più forza.
In Germania, addirittura, prima della fine della guerra, i Consigli operai avevano occupato le fabbriche. A
Berlino vi furono violenti scontri di piazza. L’estrema sinistra della Lega di Spartaco, guidata da
rivoluzionari del calibro di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, non accettava più il ruolo moderato del
Partito socialdemocratico e si assestava su posizioni esplicitamente rivoluzionarie. Si arrivò, dopo la
proclamazione della repubblica, ad autentici tentativi rivoluzionari repressi sanguinosamente. Nel 1919 gli
Spartachisti tentarono una sollevazione contro il governo di Berlino, ma furono repressi con estrema violenza
dall’esercito e da corpi speciali su ordine del cancelliere socialdemocratico Ebert. Ad opera dei corpi speciali
Freikorps (Corpi franchi), nelle settimane successive, furono assassinati centinaia di Spartachisti e gli stessi
leaders Liebknecht e Rosa Luxemburg. Con la decapitazione della Lega di Spartaco si allontanava
irrimediabilmente il tentativo di una rivoluzione in Germania.
In Austria, dopo la disgregazione dell’impero, venne proclamata una repubblica retta dai socialdemocratici.
Il tentativo rivoluzionario anche in questo caso fu sanguinosamente represso.
In Ungheria fu fondata, da socialisti e comunisti, la Repubblica dei Consigli, capeggiata dal comunista Bela
Kun. Anche qui il tentativo fallì. L’opposizione fu fisicamente eliminata e si instaurò il primo regime
autoritario dell’Europa.
In Italia il tentativo rivoluzionario fallì e la borghesia, nelle sue varie articolazioni, si presenterà nella
maschera del fascismo.
Il tentativo rivoluzionario del ‘biennio rosso’ europeo vide il movimento operaio sconfitto dappertutto. La
svolta epocale implodeva! Molte furono le cause: troppo debole il movimento operaio; troppo tardi si provò
a scindere la politica riformista da quella comunista; troppe divisione all’interno del campo comunista
mentre la borghesia minacciata trovava, per converso, grande unità: dai liberali all’estrema destra. Fatto sta
che in quello scorcio storico, gravido di grandi promesse, che aveva guidato la strategia della Rivoluzione
d’ottobre, la rivoluzione internazionale fu battuta e la risposta borghese fu una controrivoluzione che si
cristallizzerà nella forma del regime autoritario.
Il dopoguerra in Europa si caratterizza, dunque, per la battuta della rivoluzione proletaria e, per converso, del
sorgere - tranne che per l’Inghilterra e la Francia - di regimi autoritari e totalitari.
In termini generali assistiamo al fatto che la Prima guerra mondiale e, nella fattispecie il dopoguerra,
imprime al corpo sociale una sollecitazione che non si riesce a gestire nell’ambito dei vecchi istituti politici.
Il dopoguerra apre la strada alla dittatura borghese con varie sfumature locali. Complessivamente, la risposta
della borghesia europea davanti al caos e alla prospettiva di una rivoluzione proletaria è di riportare l’ordine
borghese in maniera cristallina: è la dittatura borghese!
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Il Biennio rosso in Italia
La situazione economica
Nel 1919 il costo della vita è ormai insostenibile per ampi stradi proletari e contadini poveri. L’Inflazione
crescente ha moltiplicato l’effetto di erosione del già scarno potere d’acquisto delle masse più povere. In
tutto il paese scoppiano agitazioni. Folle esasperate saccheggiano negozi che vendono beni di prima
necessità. In molte regioni, i contadini poveri occupano le terre incolte. Si moltiplicano gli scioperi spontanei
poi quelli organizzati dal sindacato.
Il debito pubblico passò da 14 miliardi nel 1910 a 95 miliardi nel 1920.
La moneta si svalutava fortemente: tra il 1914 e il 1919 perse il 40% del suo valore e il costo della vita
aumentò di ben tre volte. Lo studioso G. Candeloro in Storia dell’Italia moderna, illustra, in maniera
dettagliata ed esaustiva, la situazione economica rilevando che, dal biennio 1917-18 fino al 1923, il reddito
nazionale era al di sotto del livello ante-guerra. La situazione della classe operaia e, in genere, delle classi
popolari, era assai peggiorata: fatto 100 il salario del 1913, nel 1918 era 64,6. Causa immediata delle lotte
spontanee, che si verificano a partire dal 1919, è il rincaro del costo della vita.
Il governo cerca di imporre prezzi politici sul pane e concede alcune terre, ma non riesce a contenere la
spinta spontanea delle masse.
La CGdL nel periodo tra il 1918 e il 1920 aumenta clamorosamente gli iscritti dai 250.000 ai 2.200.000.
Il Partito socialista era cresciuto enormemente passando dai 50.000 iscritti del 1915 ai 250.000 del 1919; una
crescita che il partito non riesce a gestire. Le masse, nel Biennio rosso, sembrano più avanti del partito!
Don Sturzo e il Partito popolare italiano
Nel 1919 il sacerdote don Luigi Sturzo fonda il Partito popolare italiano (PPI), dando inizio alla
partecipazione attiva dei cattolici nell’ambito politico nazionale. Il non expedit, ovvero il divieto di
partecipare alla vita politica del Paese, venne abrogato.
Come lui stesso dichiarò diverse volte, l’”illuminazione”, che avrebbe determinato la sua ascesa in politica,
fu la bolla papale Rerum Novarum del 1891, promulgata da Leone XIII: essa s’imperniava su una generica
difesa dei diritti degli operai e la difesa dallo sfruttamento, pur rimanendo fortemente ancorata nella difesa
della proprietà privata capitalistica e contro ogni insubordinazione socialista. Collaborazione tra padroni e
operai per il bene comune: questa la ricetta!
Don Sturzo elaborò le linee guida del partito attorno al concetto di ‘popolarismo’, ovvero volontà di dare
dignità politica al popolo; rifiuto del centralismo statale a favore del decentramento; chiara ispirazione
evangelica. Secondo Don Sturzo, era ormai tempo che i cattolici fondassero un partito che fosse una sorta di
“finestra sul mondo”: che tornassero all’impegno politico; formassero un partito di massa cattolico!
Laico, aconfessionale, costituzionale e non classista: ecco le linee generali del PPI, che poté contare
sull’appoggio delle alte gerarchie ecclesiastiche (preoccupate, per lo più, di una possibile vittoria del
Socialismo).
Ai liberali si rimproverava di far poco per le masse povere, ai socialisti di far molto, ovvero di voler
l’abolizione della proprietà privata. Il partito occupò subito una posizione centrale dello schieramento
politico. L’obiettivo di Don Sturzo era quello di dare vita ad un partito in grado di essere l’ago della bilancia
di un sistema politico italiano. Il partito esprimeva bene i valori e gli interessi della piccola e media
borghesia: da una parte rintracciava gli interessi e le paure della piccola e media borghesia agraria verso la
confisca delle proprietà, dall’altra dava consistenza e cemento a quella piccola borghesia legata ai
tradizionali valori religiosi.
43
Le elezioni del 1920
Nel novembre 1919 si assistette a delle elezioni che rivoluzionarono il quadro politico. Il Partito socialista e
il Partito popolare chiesero ed ottennero che il sistema elettorale si ispirasse ad un principio più democratico
che restituisse in seggi parlamentari una mappa reale del diverso sentire politico del paese. Tale sistema
garantì pure che la contesa, nei diversi seggi elettorali, si spostasse dalle persone e dalle clientele ai partiti
politici. Fu il momento di due grandi partiti di massa:
-
Il Partito socialista vinse le elezioni con una maggioranza relativa del 32% ottenendo ben 156 seggi
in parlamento;
- Il Partito popolare, alla prima prova elettorale, si affermò secondo con il 20% ottenendo 100 seggi;
- I gruppi liberal-democratici di ispirazione giolittiana subirono un drastico calo.
La vittoria socialista, invece che portare le masse a contare di più, creò una situazione politica più complessa.
Il partito socialista era arroccato sulla intransigente posizione di nessuna alleanza con i partiti borghesi sicché
era assai complesso dare vita ad un governo che avesse una maggioranza parlamentare.
Nel 1920 il capo del governo Nitti cercò di fronteggiare il marasma politico venutosi a creare con la vittoria
socialista, ma non riuscendo a trovare una maggioranza si dimise cedendo il posto al vegliardo ottantenne
Giolitti.
Lotte contadine
Per Biennio rosso in Italia s’intende quel periodo che va dal 1919 e si conclude con l’occupazione delle
fabbriche nel settembre del 1920. E’ sicuramente uno dei momenti più alti dello scontro di classe in Italia: il
momento apicale del movimento operaio italiano oltre il quale si spiana la strada al fascismo.
Tra il 1919 e il 1920 l’Italia fu interessata da un duplice movimento che avrebbe potuto congiungersi
saldamente per l’assalto al potere borghese. L’Italia registrò, in quello scorcio, due potenziali forze telluriche
che avrebbero potuto portare al crollo del capitalismo italiano. Le lotte interessarono la terra e l’industria,
contadini e operai.
Durante la Grande Guerra più volte - soprattutto dopo Caporetto - a mo’ di sprono, fu usata la promessa della
“Terra ai contadini” da parte delle gerarchie militari. Fu un incitamento, un pungolo a masse contadine,
sostanzialmente refrattarie a farsi usare in quel tritacarne mondiale. “Terra ai contadini”… fu la carota che si
fece balenare davanti agli occhi di questi soldati prima di farli uscire dalle trincee per gli assalti mortali. Le
stesse masse, al ritorno a casa, capirono di essere state turlupinate: non guadagnarono un palmo di terra!
La struttura agricola italiana vedeva, al vertice, dei latifondi con pochi proprietari che avevano terreni estesi
e, alla base della piramide, i 9/10 dei proprietari che ne avevano soltanto un ettaro cioè un appezzamento che
costringeva gli stessi piccoli proprietari a trasformarsi in braccianti, cioè salariati agricoli per poter
sopravvivere. C’era, dunque, una fame di terra da coltivare, che si sviluppò nella lotta per una più equa
redistribuzione delle terre e per più equi salari.
Nelle campagne si svolsero una serie di lotte furiose e durissime per la distribuzione delle terre incolte e del
latifondo e per un salario più umano. Tali lotte apportarono, indubbiamente, grandi miglioramenti per ciò che
concerne la condizione dei contadini poveri. Nel 1920, lo sciopero agrario vide la partecipazione di un
milione di uomini tra cui le leghe rosse, ma anche le leghe bianche d’ispirazione cattolica, seppur in netta
minoranza, guidano l’azione delle masse contadine.
Nell’estate del 1920 le leghe contadine e i proprietari agrari si scontrano violentemente a proposito dei
rinnovi dei patti colonici. Uno dei metodi di lotta fu quello di non raccogliere la parte che spettava ai
padroni, lasciando che marcisse. Il governo intervenne. Si arrivò ad un accordo che il padronato ritenne
inaccettabile. Rimase comunque la paura che derivava non solo dalle lotte sindacali ma dal clima generale
che c’era nel paese: la rivoluzione!
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Principalmente in val Padana e in Puglia, dove i braccianti agricoli vivevano una vita assai grama di
sfruttamento inaudito, le lotte delle leghe e delle cooperative socialiste, a prezzo di grandi sacrifici,
ottennero: a) aumenti dei salari; b) un controllo sul mercato dell’offerta di lavoro.
Il controllo sul mercato del lavoro da parte delle associazioni contadine faceva si che l’offerta di lavoro non
si presentasse individualmente, dunque, più ricattabile, ma collettivamente, in modo da esigere salari equi.
Non più i singoli contrattavano con i padroni terrieri ma le associazioni: si contrattava il numero di giorni
lavorativi sui campi e si distribuiva il lavoro tra gli iscritti.
Le occupazioni delle fabbriche
L’apparato industriale italiano, durante la Grande Guerra, aveva subito un processo di razionalizzazione e
aveva incrementato notevolmente la produzione grazie alle commesse di guerra. Il vecchio Stato liberale si
era fatto sempre più protagonista nel ‘libero mercato’ e, sotto forma di commesse, aveva promosso lo
sviluppo industriale. Le acciaierie Ansaldo di Genova, che nel 1915 impiegavano 6.000 operai, nel 1918 ne
aveva 110.000. La Fiat di Torino passò da 4.000 a 40.000. Tale processo comportò una sempre maggiore
presa di coscienza operaia. La stessa grande industria nei suoi immensi reparti organizzati educava,
disciplinava, organizzava il proletariato dandogli, involontariamente, gli elementi per una coscienza di
classe.
Nel 1920 la protesta e le occupazioni delle terre si svilupparono sino a diventare occupazioni delle fabbriche.
Si moltiplicano gli scioperi in tutto il paese: da 303 del 1918 a 1.633 nel 1919, fino a 1.861 nel 1920 con una
partecipazione sempre crescente: dai 158.036 del 1918, a 1.049.438 del 1919, fino a 1.267.953 del 1920.
L’occupazione delle fabbriche rappresentò lo zenit di questo movimento.
In questa crescita generale del movimento operaio e contadino, la FIOM (sindacato dei metalmeccanici)
chiese il rinnovo del contratto agli imprenditori che respinsero ogni tipo di richiesta e trattativa. Fu questo
netto rifiuto che provocò, di fatto, un aumento di tensione. I sindacati proclamarono uno sciopero bianco,
secondo il quale era prevista l’entrata in fabbrica ma senza lavorare. Gli industriali risposero con la serrata
ovvero la chiusura degli stabilimenti. L’occupazione fu la risposta alla serrata dei padroni. Insomma,
l’occupazione delle fabbriche inizia come semplice rinnovo del contratto di lavoro collettivo dei
metalmeccanici e finisce per essere risposta di classe rivoluzionaria.
Così, nell’agosto di quell’anno, scattarono le occupazioni nelle fabbriche guidate dai sindacati rossi, mentre,
i sindacati bianchi, guidati dai cattolici, decisero di tenersi fuori dalla questione.
In poco tempo si occuparono circa 300 fabbriche nella zona del triangolo industriale (Milano, Genova,
Torino), i 400.000 lavoratori coinvolti, si organizzarono persino con servizi armati di vigilanza (Guardie
rosse) e, in alcune fabbriche, tentarono di proseguire da soli la produzione. A Milano le fabbriche occupate
sono 160: sui tetti sventola la bandiera rossa! A Torino si occupa e si cerca di riavviare la produzione con
una gestione operaia. Il governo non usa la forza per reprimere l’ondata operaia.
Sembrava l’inizio di un processo rivoluzionario, ma il movimento non ebbe la forza di estendersi
maggiormente anche a causa delle numerose divisioni interne ai partiti di sinistra e alla mancanza di una
linea chiara e precisa che indicasse la strada per abbattere il potere borghese.
Tra i gruppi rivoluzionari più attivi si distinse quello intorno al giornale Ordine Nuovo (1919), tra i cui
fondatori vi era Antonio Gramsci, che rimarrà alla storia per essere uno dei grandi teorici del comunismo
italiano. La forma che prese la lotta operaia in quel frangente non sarebbe stata la stessa senza il contributo
teorico dei Consigli di fabbrica come “organismi di auto-governo operaio” portata avanti sul giornale.
Un altro gruppo rivoluzionario, minoritario e che non riuscirà ad incidere, ma che farà la storia della sinistra
comunista in Italia, sarà quello di A. Bordiga che si raccoglie attorno al giornale il Soviet (1918) che, fin
dall’inizio, guarda alla luminosa esperienza sovietica; ritiene necessario una netta distinzione tra riformisti e
rivoluzionari; ripone - diversamente dall’impostazione gramsciana - la riuscita di uno sbocco rivoluzionario,
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non tanto nella questione dei Consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, quanto nella capacità del
partito di guidare la classe operaia. Il gruppo bordighiano pensa che la questione dirimente sia non
l’occupazione delle fabbriche, ma l’occupazione dello Stato e delle sue propaggini!
Partito e sindacato
Proprio nei giorni cruciali dell’occupazione operaia di settembre si vide uno scollamento tra sindacato e
partito e, infine, l’impreparazione del partito che ripiego su una posizione opportunista. Certo, sia il
sindacato che il partito si trovarono davanti ad una situazione nata spontaneamente e inaspettatamente ma
che era cresciuta al punto che ora la soluzione non poteva che essere che politica e non più semplicemente
economica.
Il sindacato, si attestava su posizioni riformiste, poneva - com’è nella sua natura - solo rivendicazioni
economiche e non voleva spingere il movimento all’insurrezione. Il compito del sindacato, la sua funzione è
quello di organizzare le masse operaie nella difesa dei propri interessi economici. E’ ovvio che, ad un certo
punto, ovvero, quando la protesta diventa generale, ampia, possente, tale difesa non può essere più gestita dal
sindacato ma richiede una soluzione squisitamente politica; richiede che il partito intervenga nella guida
dell’azione rivoluzionaria.
Incredibilmente, in una riunione del 10 settembre tra esponenti del PSI e CGdL il partito socialista
demandava, di fatto, al sindacato la leadership del movimento e la decisione della direzione in senso
rivoluzionario o riformista.
L’11 settembre, il Consiglio nazionale della CGdL deliberò su due mozioni: una demandava al PSI la
direzione del movimento indirizzandolo così verso la soluzione rivoluzionaria, l’altra prevedeva la direzione
sindacale del movimento e la realizzazione di obiettivi puramente sindacali. Il Congresso della CGdL
rinunciò a fare delle occupazioni il primo atto di una rivoluzione socialista.
Il Partito socialista con ciò rinunciò a portare il livello dello scontro da economico a politico: dalle fabbriche
all’assalto allo Stato borghese. Il Partito avrebbe potuto comunque prendere la leadership del movimento ma
non fece nulla in tal senso: rinunciò a guidare la sua classe.
Il Partito socialista non aveva affatto seriamente pensato, né preparato, nessuna strategia rivoluzionaria per
l’assalto allo Stato borghese. Il Partito rinunciò al suo compito! Rimettendo la leadership al sindacato si
disperdeva così la tensione rivoluzionaria e il movimento, pur conquistando miglioramenti sindacali, si
accartocciò su sè stesso. La rivoluzione non era più all’ordine del giorno!
Era il tempo delle trattative! Era il tempo di Giolitti che, a Roma, il 19 settembre, mediò un accordo di
massima tra confindustria e CGdL.
Il 1 ottobre i sindacati firmarono un accordo che prevedeva aumenti salariali e una forma di controllo
sull’azienda - che non sarà mai riconosciuta nei fatti - contro la smobilitazione operaia delle fabbriche. La
firma dei contratti significò, pubblicamente, la rinuncia alla rivoluzione.
A fine settembre del 1920 gli operai sgombrarono le fabbriche. Le guardie rosse che avevano occupato le
fabbriche riponevano i fucili! Si erano tagliate le ali alla rivoluzione, tuttavia, rimase, nel paese, soprattutto
nella borghesia, la percezione di un possibile decollo rivoluzionario e ciò favorì una soluzione anti-socialista,
reazionaria e autoritaria: il fascismo.
La III Internazionale
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“Gli operai non hanno patria” recita il Manifesto del partito comunista del 1848 di Marx ed Engels a
sottolineare che, strutturalmente, il passaggio al comunismo è un problema internazionale e, in pari tempo,
che il proletariato di tutti i paesi deve muoversi come un sol uomo contro il capitalismo. La rivoluzione
comunista o è internazionale o non è! La Russia si trova ad essere la prima rivoluzione vittoriosa in quel
cataclisma della Grande guerra: anello debole della catena imperialistica. Lenin e i bolscevichi sentono,
dunque, l’urgenza di organizzare il movimento operaio internazionale con una struttura unitaria, precisa,
accentrata e coesa tale da indicare la strategia politica unitaria ai movimenti nazionali e che, in pari tempo, si
differenziasse sideralmente da posizioni opportuniste, riformiste, minimaliste che corrompevano gli obiettivi
rivoluzionari del proletariato. Se la rivoluzione comunista doveva essere internazionale allora c’era bisogno
di un partito comunista internazionale e i diversi partiti nazionali dovevano figurare come semplici sezioni
locali. Il movimento operaio internazionale doveva avere il suo partito comunista internazionale. Il
movimento operaio doveva concentrare la sua forza, evitare localismi e dannose differenze strategiche:
muoversi come un solo esercito per l’assalto al cielo. Fu così che nel marzo 1919 nacque a Mosca la Terza
Internazionale, conosciuta anche con il nome di Comintern, (Internazionale Comunista) che soppiantava la II
Internazionale che aveva visto partiti addirittura votare a favore dei debiti di guerra.
Al II Congresso dell’Internazionale Comunista del 1920, in un’aria di grande fiducia nelle sorti della
rivoluzione internazionale, intervennero 169 delegati in rappresentanza di 64 partiti e 50 nazioni di nazioni
con l’intento di tracciare la strategia internazionale per la “rivoluzione mondiale”: il movimento operaio
cresceva di numero e di forza in Germania, Francia, Italia, Inghilterra e Stati Uniti. Il Comintern fu fin
dall’inizio, come prevedibile, egemonizzato dai bolscevichi e il Comitato esecutivo permanente ebbe sede
stabile a Mosca. Il Congresso approvò, tra l’altro, i 21 punti elaborati da Lenin per aderire all’Internazionale
comunista che è possibile così sintetizzare:
 I partiti comunisti dovevano farla finita con la politica riformista, minimalista;
 Appoggiare nei fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie;
 Appoggio alla liberazione delle colonie dagli imperialisti;
 Sostegno della lotta contro le forze controrivoluzionarie;
 Ogni partito doveva assumere la denominazione di “Partito comunista”, relativa ad ogni paese.
Era ormai tempo che per il movimento operaio e i comunisti ponessero, senza indugio, all’ordine del giorno,
il compito storico della rivoluzione comunista. La Germania e l’Italia venivano esplicitamente citati come i
paesi dove, presumibilmente, la rivoluzione internazionale avrebbe iniziato per prima. Bisognava, a livello
internazionale, rompere gli indugi con il riformismo e il minimalismo socialista, che di fatto frenavano
qualsiasi azione rivoluzionaria, imbrigliando il movimento in piccoli miglioramenti all’interno del sistema
borghese. Era il tempo di scindersi dai partiti socialisti e fondare partiti comunisti compatti, granitici.
Tra i temi discussi, vi fu anche la posizione che i comunisti avrebbero dovuto tenere rispetto alla
partecipazione o meno al parlamentarismo borghese. La posizione astensionista, tra l’altro sostenuta
vigorosamente dall’italiano A. Bordiga, venne battuta a favore di quella leniniana che accettava il
parlamento borghese come mezzo di agitazione in “campo nemico”.
1921: nasce il PCd’I
Nonostante il PSI con il Congresso di Bologna del 1919 aveva registrato la vittoria dei massimalisti con
Serrati e l’adesione del partito alla III Internazionale, nel corso del Biennio rosso il partito non era stato in
grado di guidare le masse chiudendo il movimento spontaneo in una mera lotta sindacale. Questa esperienza,
congiuntamente al rifiuto del partito di espellere i riformisti - così come chiedevano i 21 punti del Comintern
- fece si che al Congresso di Livorno si acuisse la distanza tra rivoluzionari e riformisti. In effetti, lo stesso
Lenin aveva chiesto, in un articolo, che il partito si liberasse dei riformisti come Turati, Treves, ecc. perché
era giunto il momento di fare pulizia, di distinguersi e porre, concretamente, il problema della rivoluzione.
Al Congresso di Livorno del PSI del 1919, il 21 gennaio, i comunisti, al canto dell’Internazionale,
abbandonarono la sala del teatro Goldoni e si recarono al teatro san Marco: con la fuoriuscita della frazione
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comunista dal PSI, nasceva il Partito comunista d’Italia (P.C. d’I), sezione italiana dell’Internazionale
comunista.
I principali protagonisti della nascita del PCd’I furono A. Bordiga (fondatore del Soviet nel 1918) e A.
Gramsci (fondatore del periodico Ordine nuovo nel 1919).
Il partito era sezione della Internazionale comunista: a) riconosceva la Rivoluzione d’ottobre come la prima
vittoriosa rivoluzione comunista; b) rompeva definitivamente con in riformismo opportunista; c) l’obiettivo
era la rivoluzione comunista e la presa del potere.
Fu A. Bordiga ad essere eletto primo segretario del partito che lo guidò, con ortodossa intransigenza teorica,
fino al 1924, quando, a causa di divergenze tattiche con il Comintern - sulla questione del fronte unico e sulla
fusione con il PSI – fu prima allontanato dalla direzione e poi definitivamente sconfitto al Congresso di
Lione (1926), dove venne sostituito da A. Gramsci.
Troppo tardi nacque il partito comunista. Troppo tardi le forze rivoluzionarie si erano separate da quelle
opportuniste e riformiste. Il ciclo delle lotte contadine e operaie si era ormai esaurito e subentrava la reazione
della borghesia che stabiliva l’ordine borghese.
Il ciclo delle lotte si esauriva anche in Europa! La Rivoluzione d’ottobre rimaneva orfana della rivoluzione
europea che avrebbe dato ossigeno all’avanguardia politico-rivoluzionaria sovietica. Lenin aveva visto giusto
sul ciclo di lotte che la guerra e la fase imperialistica avrebbero scatenato, ma non previde il vincitore: né, del
resto, avrebbe potuto!
La borghesia vinceva dappertutto e dava prova di essere ancora forte e longeva.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
Rosa Luxembourg, von Trotta, 1986
Il FASCISMO IN ITALIA
~ DAL MOVIMENTISMO SQUADRISTA AL REGIME
~
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~
~
~
~
~
I fasci di combattimento
Il fascismo agrario
Fascisti e liberali
La marcia su Roma
Il governo di coalizione
Le riforme
Il delitto Matteotti e l’Aventino
~ LA COSTRUZIONE DELLO STATO AUTORITARIO
~
~
~
~
~
Le leggi fascistissime
La riorganizzazione del partito
Propaganda e consenso
L’uso dei media
I Patti lateranensi
49
~
~
~
~
~
~
~
Dal liberalismo allo statalismo
Le corporazioni
Lo Stato imprenditore
Il colonialismo fascista: “un posto al sole”
L’asse Roma–Berlino e le leggi razziali
L’attività antifascista
Totalitarismo perfetto o imperfetto?
Dal movimentismo squadrista al regime
I Fasci di combattimento
Nel 1919 nacque il movimento dei Fasci di combattimento, fondato da Benito Mussolini. Nelle prime fasi
questo gruppo politico fu caratterizzato da un misto ideologico, un ‘minestrone’ di idee e pensieri che, in
linea di massima, si collocavano politicamente a sinistra, battendosi essenzialmente per riforme sociali
radicali. Tale coacervo di idee fu ben stilizzato nel manifesto teorico dei Fasci: il programma di san
Sepolcro.
La proposta politica dei Fasci per ciò che concerneva il sociale, prospettava: il minimo salariale; la giornata
lavorativa ridotta ad otto ore; una gestione aziendale che comprendesse anche il coinvolgimento di
rappresentanti dei lavoratori; un’imposta progressiva sul capitale e l’estensione del voto alle donne. In altri
termini il programma dei Fasci faceva suo rivendicazioni che erano del movimento sindacale e socialista.
Mussolini si sbarazzò repentinamente di tale programma politico e diresse il movimento verso una
propaganda più aggressiva e violenta, sia verso le organizzazioni socialiste che verso i dirigenti liberali.
Questo nuovo indirizzo fu segnato in maniera palmare il 15 aprile del 1919, giorno in cui i Fasci
incendiarono la redazione del giornale socialista l’Avanti di cui, paradossalmente, era stato direttore lo stesso
Mussolini.
Il fascismo agrario
Alla fine del 1920 la città di Bologna diventò il fulcro del movimento sindacale, tanto che, alle elezioni
amministrative comunali fu eletto un sindaco appartenente al partito socialista. Il 21 novembre 1920, in
occasione dell’insediamento del Consiglio Comunale a Palazzo d’Accursio, il sindaco si affacciò sulla piazza
per parlare al popolo e dalla folla partirono dei colpi di pistola. La gente, terrorizzata, cominciò a scappare e i
socialisti, incaricati della sicurezza, spararono tra la folla provocando diversi morti. Fu questo il punto di
svolta che segnò in maniera chiara e precisa la politica e il programma del fascismo, il passaggio cristallino e
irreversibile dal programma di San Sepolcro alle squadre militari d'azione. Fino a quel momento il ruolo del
fascismo non era stato rilevante nelle vicende politiche italiane ma questa fu l'opportunità, soprattutto per la
borghesia terriera rurale, di organizzarsi contro i socialisti ingaggiando squadre fasciste, per porre fine alla
rivendicazione contadine e contenere la loro azione.
Lo squadrismo fascista arruolò militanti principalmente tra: gli ex-combattenti, che non trovavano più un
posto nella società; i giovani, trascinati contro i ‘nemici della patria’, e le file della piccola borghesia
antisocialista. In seguito all'eccidio di Bologna, le spedizioni punitive delle squadre d'azione aumentarono in
maniera esponenziale: partivano dalle città e andavano in campagna creando caos con l'obiettivo di colpire le
sedi delle leghe, le camere del lavoro, le case del popolo e i municipi. Molti comunisti furono costretti con la
violenza a lasciare l'Italia. Oltre alla violenza fisica si mirava alla violenza psicologica col fine di
ridicolizzare l'avversario. Lo squadrismo deve il suo successo principalmente alla neutralità e, a volte, al
pieno appoggio delle classi dirigenti, ovvero la borghesia, sia all'indifferenza e alla vera e propria connivenza
delle forze dell'ordine. Il fascismo delle squadre d’azione si presentava, politicamente, come il manganello
della borghesia rurale contro la lotta di classe che divampava nelle campagne.
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Fascisti e liberali
La classe politica liberale diede platealmente appoggio al fascismo: i candidati si unirono in un blocco
formato da liberali, gruppi di centro e fascisti che, storicamente e socialmente, può considerarsi borghesia in
tutti i suoi aspetti. La borghesia agraria utilizzò le squadre fasciste per stroncare la forza
dell’associazionismo rurale e le lotte per la terra dei salariati agricoli, mentre la borghesia industriale utilizzò
il fascismo per frenare le ribellioni operaie.
Il liberalismo italiano andò a braccetto con le squadre fasciste in funzione antisocialiste. Bisognava mettere
in ginocchio il movimento socialista e i suoi propositi rivoluzionari. Per la borghesia, nel suo complesso,
urgeva, prepotente, la reazione.
Nel 1921 Giolitti indisse nuove elezioni e accettò liste comuni, cioè blocchi nazionali, che comprendevano
liberali, gruppi di centro e fascisti. Le liste comuni sancivano una sorta di luna di miele tra liberalismo e
fascismo, un’affinità elettiva contro il socialismo!
I risultati elettorali, però, delusero le speranze di Giolitti, poiché il Partito socialista subì solo un lieve calo
(da 156 a 122), compensato, in parte, dal Partito comunista (17 seggi), ed i popolari da 100 passarono a 107.
I blocchi nazionali ottennero 275 seggi, tra i quali solo 35 andarono ai fascisti. Giolitti prese atto della
sostanziale sconfitta e rinunciò al governo in favore del socialista Ivanoe Bonomi.
I fascisti erano una esigua minoranza, da qui la decisione di Mussolini, nel novembre 1921, di irreggimentare
la forza delle squadre militari in un vero e proprio Partito nazionale fascista (PNF), in modo da renderlo
presentabile con la speranza di ottenere un incarico dal re.
La nuova politica di Mussolini si addolcì vistosamente, abbandonando le posizioni repubblicane del
programma di san Sepolcro per dichiararsi, opportunisticamente, favorevole alla monarchia, accettando la
politica liberista e aprendosi alle tendenze della borghesia capitalista. Mussolini chiuse con il socialismo e
abbandonò l'anticlericalismo, ponendosi in collaborazione con la Chiesa.
La marcia su Roma
Il 24 ottobre, Mussolini riunì a Napoli migliaia di camicie nere, preparandole a un’imminente marcia su
Roma che avrebbe consentito ai fascisti di dare una spallata al torpore politico che si era creato e di assumere
il potere con la forza. All'annuncio dell'evento, Luigi Facta, l'allora presidente del governo socialista, chiese
al re Vittorio Emanuele III di firmare la proclamazione dello stato d'assedio, che avrebbe mosso l'esercito
contro le camicie nere in marcia su Roma. Il re però rifiutò e, il 28 ottobre, le colonne fasciste entrarono a
Roma. Il 30 ottobre Mussolini ebbe l'incarico dal re Vittorio Emanuele di formare il governo. Il re Vittorio
Emanuele consegnava così, senza colpo ferire, le chiavi del Parlamento al fascismo!
Il governo di coalizione
Tra il 1922 e il 1924 Mussolini presiedette un governo che univa forze diverse: fascisti, liberali, popolari
(don Sturzo contrario) e varie altre componenti. Benché contasse solo trentacinque deputati in parlamento, il
PNF godeva del consenso della corte, dei più importanti esponenti dello Stato, della borghesia industriale e
agraria. Una ‘cura fascista’ avrebbe salvato l’Italia dal caos e dall’avanzata socialista! Il prepotente e
sfrontato ‘discorso del bivacco’ con cui Mussolini si presentò al Parlamento sanciva, anche nei toni,
l’intento della borghesia al completo di porre ordine nel Paese. Mussolini ottenne 306 voti, contro 116 dei
socialisti e comunisti. Forte dell'appoggio ottenuto dai vari gruppi, Mussolini sciolse le amministrazioni
comunali presiedute da socialisti e popolari, penalizzò le cooperative rosse, limitò la libertà sindacale e
adottò delle strategie economiche al fine di rivalutare la moneta italiana. I gruppi di alleati e l'opposizione
insistettero per porre fine alla violenza usata dalle squadre fasciste; Mussolini, di tutta risposta, istituì la
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Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, legalizzando così lo squadrismo e proclamandolo forza
armata del regime. In seguito a tali riforme radicali, nel 1923, il governo Mussolini perse il sostegno dei
popolari, i quali, nel Congresso di Torino, si dichiararono, con don Sturzo, apertamente anti-fascisti.
Negli anni 1922 e 1924 dal punto di vista internazionale, Mussolini si mostrò come un semplice leader
conservatore, riuscendo a nascondere abilmente le tendenze dittatoriali del suo movimento. D’altra parte,
Stati democratici come la Francia e l'Inghilterra concessero fiducia a Mussolini, reputando il fascismo male
minore rispetto ad una temutissima rivoluzione comunista operaia. Nel frattempo le violenze squadriste si
protrassero, culminando con l'omicidio di don Giovanni Vinzoni e le violenze sul liberale anti-fascista
Giovanni Amendola.
Le riforme
Nel 1923 fu varata la riforma della scuola sotto l’egida del Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo
Giovanni Gentile. Con tale riforma si creò un sistema educativo protrattosi, sostanzialmente, fino ai nostri
giorni. Nei suoi tratti essenziali la riforma prevedeva due tipi di percorsi: da una parte, la formazione della
classe dirigente con un’istruzione liceale e, dall’altro, un avviamento al lavoro.
La riforma del sistema elettorale fu invece messa a punto con la legge Acerbo, la quale introdusse un
meccanismo elettorale fortemente maggioritario dove bastava il 25% dei voti per avere il 75% dei seggi.
Il delitto Matteotti e l’Aventino
Nelle elezioni del 1924 il partito fascista ebbe il controllo di un listone che riuniva ancora in un afflato gran
parte dei liberali, tra cui Orlando e Salandra e alcuni cattolici conservatori. Si ripeté, in un certo senso,
l'esperienza del 1921, ad eccezione del fatto che ora erano i fascisti ad essere più forti e non i moderati. Il
risultato delle elezioni fu una clamorosa vittoria dei fascisti con il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi.
L'opposizione si presentò divisa, per cui la sconfitta per opera dei fascisti fu inevitabile. Ancora una volta ci
furono episodi di violenza durante le elezioni. Il deputato Giacomo Matteotti con un coraggioso discorso
denunciò gli aspetti oscuri delle elezioni fasciste; il 10 giugno fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi e
ucciso in auto a pugnalate. Il delitto Matteotti fu eclatante e destò scalpore e indignazione. Quest'episodio
rese consapevole l'opinione pubblica delle responsabilità del fascismo e provocò un crollo della popolarità di
Mussolini; le opposizioni però non riuscirono ad approfittare della situazione per una rivalsa.
Il Partito comunista vide respinta la sua proposta di sciopero generale. I partiti di opposizione scelsero,
quindi, di non partecipare più alle attività parlamentari, ma di riunirsi al di fuori della Camera dichiarandosi
disponibili a rientrare in Parlamento solo dopo l'abolizione della Milizia e il ritorno alla legalità. Era la
secessione dell’Aventino! L’opposizione sperava in un intervento da parte del re affinché ritirasse la fiducia
data a Mussolini, ma il sovrano non assunse alcuna iniziativa e non si espresse in alcun modo.
Mussolini, il 3 gennaio 1925, con un discorso alla Camera estremamente sfrontato e irriverente, si assunse la
responsabilità ‘politica, morale e storica’ del delitto Matteotti. Il fascismo era ormai tanto forte da poter dire
senza infingimenti: “Se il fascismo è un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione”.
Con tale discorso si avanzava verso la costruzione di un nuovo involucro politico più adatto alla situazione:
la democrazia liberale si trasformava in dittatura fascista! Di lì a poco si procedette con sanzioni che resero
praticamente impossibile ogni attività anti-fascista. In questo senso, l'assassinio di Giacomo Matteotti
rappresentò la fine della democrazia e l'ascesa definitiva della dittatura fascista.
La costruzione dello Stato autoritario
Le leggi fascistissime
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Mussolini riorganizzò il potere statale in maniera dittatoriale e autoritaria tale da annientare i veli liberali
dello Stato borghese.
Nell'anno 1925, il partito fascista approvò delle leggi dette 'fascistissime' ispirate dal giurista, nonché
ministro guardasigilli Alfredo Rocco. I cardini di tale quadro legislativo erano: il PNF era l’unico partito
politico riconosciuto; la figura del Presidente del Consiglio fu sostituita da quella del Capo del Governo, che
doveva rendere conto solo al re e non al parlamento; il potere legislativo fu riconosciuto al capo del governo.
Altre modifiche riguardarono l'assetto amministrativo in ambito locale e comunale. La figura del podestà,
nominato direttamente dal governo, sostituì quella del sindaco segnando, di fatto, la fine della democrazia
locale. La libertà di stampa e di associazione ricevette drastiche limitazioni fino a giungere, nel 1926, alla
completa chiusura di tutti i giornali anti-fascisti e allo scioglimento di tutti i partiti d’opposizione.
Al fine di avere il controllo totale sul Paese, il Partito Nazionale Fascista istituì un corpo di polizia segreta,
l'Opera di Vigilanza per la Repressione Antifascista. Fu istituito, inoltre, un Tribunale speciale per la difesa
dello Stato. Esso ordinò decine di condanne a morte e comminò un totale di 28.000 anni di carcere.
È interessante sapere che ad Alfredo Rocco si devono anche i due Codici Penali, definiti anche Codici
Rocco, risalenti al 1950, che sono ancora alla base del nostro Codice Penale e Civile.
La riorganizzazione del partito
Contemporaneamente alla ristrutturazione dello Stato, Mussolini si occupò del riassetto del Partito
governativo. Fu sottratta la direzione del partito a Roberto Farinacci, squadrista di primo ordine, per
dimostrare che la violenza nel nuovo sistema istituzionale non fosse più necessaria. Le cariche gerarchiche
erano assegnate da Mussolini, egli era a capo del partito e a lui era affidato il Gran Consiglio del Fascismo.
Quest'ultimo era l'organo costituzionalmente più importante del partito. Nel 1928 si assistette alla
liquefazione dello Stato liberale a favore della costituzione di uno Stato totalitario, grazie ad una nuova legge
elettorale che diede al Gran Consiglio il compito di preparare la lista unica, bloccata di candidati, la quale,
per essere approvata, aveva solo bisogno della metà più uno dei voti. Insomma, le elezioni si trasformarono
in ‘plebisciti-farsa’!
Propaganda e consenso
Il nuovo assetto del Partito fascista fu caratterizzato dall'utilizzo ingegnoso quanto indispensabile dei mezzi
di propaganda al fine di ottenere il consenso. Bisognava avere il controllo educativo e formativo
dell’individuo dalla culla alla tomba. Il tempo libero doveva essere organizzato dal Partito saturando tutti gli
spazi privati.
Pure non mancarono forme coattive di consenso: per avere lavoro o promozioni, all'interno della pubblica
amministrazione, si rese obbligatorio il possesso della tessera del Partito.
Furono, tuttavia, più finemente ideate delle organizzazioni capaci di coinvolgere l’individuo in un processo
di massificazione attraverso ad es. l'Opera Nazionale Dopolavoro che si occupava dell'intrattenimento dei
lavoratori nel loro tempo libero e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano che promuoveva le attività
sportive. Altre organizzazioni come i Fasci Giovanili, i Gruppi Universitari Fascisti e l'Opera Nazionale
Balilla curavano l'educazione e la formazione dei giovani all'insegnamento fascista e alla venerazione del
duce Mussolini.
Uno degli obiettivi principali del partito fascista era quello di creare un ’uomo nuovo'. L'uomo nuovo,
secondo i fascisti, doveva avere determinate caratteristiche: il maschio doveva essere virile e doveva
differenziarsi dalla donna, più remissiva, per la sua tenacia. La struttura naturale della famiglia aveva
nell’uomo il suo capo e nella donna la fattrice indispensabile per la Patria. L'uomo fascista doveva essere
atletico, valoroso, pronto al sacrificio, energico e coraggioso. Altra importante caratteristica della concezione
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dell'uomo fascista era l'ispirazione all'antico Impero Romano, visto come il momento in cui spirito e razza
italica furono netti con il loro dominio su tutto il resto del mondo. Dall'antico splendore della Roma
imperiale si ereditarono il saluto romano e il fascio littorio, che divenne simbolo del partito fascista.
Mussolini non poteva che essere il dux, il duce, termine col quale nell'antica Roma s'indicava il capo
militare, valoroso e vincente in battaglia.
Tuttavia, accanto a questa retorica che cercava le radici nel mondo antico, i fascisti cercarono anche di
presentarsi come moderni.
L’uso dei media
Il controllo dell'informazione di massa si dimostrò estremamente importante durante il governo del duce. La
stampa fu sottoposta ad una totale censura!
La radio in quel momento costituiva uno dei più diffusi mezzi di comunicazione di massa, perciò, nel 1927,
fu fondato un nuovo ente radiofonico, l'EIAR (antenato della RAI) che gestiva tutte le trasmissioni
radiofoniche. La radio si rivelò uno strumento estremamente utile e potente per la diffusione delle
informazioni che il regime intendeva trasmettere e, dunque, nella formazione della percezione della realtà
storica.
La propaganda utilizzò anche il cinema, nuovo coinvolgente mezzo di comunicazione di massa. Ogni sala fu
obbligata a proiettare le produzioni dell'Istituto Luce, alle dirette dipendenze di Mussolini.
Nel 1937 fu istituito il ministero della Cultura Popolare con lo scopo di controllare e manipolare gli
orientamenti culturali della società italiana.
Il progetto titanico di plasmare la società in maniera fascista dovette però scontrarsi con la capillare presenza
della Chiesa cattolica. Le parrocchie costituivano ancora il principale luogo d’incontro. In alcune zone
dell'Italia, dunque, sarebbe stato difficile governare senza l'appoggio della Chiesta e Mussolini trovò il modo
di risolvere questo problema cercando un compromesso con la chiesa.
I Patti lateranensi
Mussolini comprese che un accordo con la Chiesa era vitale in un Paese ampiamente cattolico al fine di
ottenerne il consenso. Il fascismo, d’altra parte, era la sola compiuta ed efficiente risposta all’ateismo del
comunismo che minacciava le stesse radici dell’Occidente. Si era decisi a chiudere definitivamente la lunga e
complessa ‘questione romana’ iniziata con l’unità d’Italia al 1871 quando Pio IX si dichiarava prigioniero
dello Stato italiano e con la non expedit invitava i cattolici a boicottare lo Stato italiano non partecipando
alle elezioni politiche.
Le trattative tra lo Stato e la Chiesa cominciarono nel 1926 e si conclusero l'11 febbraio 1929 con la firma
dei Patti lateranensi.
Il documento era costituito da tre parti: la Chiesa riconosceva lo Stato italiano ed esercitava la sua sovranità
nello Stato della Città del Vaticano; l'Italia versava un’indennità al Vaticano per la perdita dello Stato
Pontificio ed, infine, si stabiliva un'intesa tra Stato e Chiesa su tre punti: a) si stabiliva che la religione era
religione di Stato e la si insegnava nelle scuole pubbliche; b) il matrimonio religioso aveva effetti civili; c)
vennero riconosciute le organizzazioni dell’Azione cattolica. Il pio Pio XI non poteva che essere satollo di un
simile accordo e presto parlò del Duce come dell’”uomo della Provvidenza” lontano dai conati della scuola
liberale.
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Veniva meno, con i Patti, la separazione liberale e democratica tra Stato e Chiesa che l’illuminismo aveva
postulato teoreticamente e la borghesia della grande Rivoluzione francese aveva realizzato con la
scristianizzazione, la laicizzazione, la secolarizzazione.
In ambito cattolico fu don Sturzo a mostrarsi non favorevole all’accordo in quanto riteneva che i fascisti
traessero troppi vantaggi dal più stretto rapporto con i cattolici mentre egli metteva l’accento sulla differenza
tra morale fascista e quella cattolica.
Nel 1931 vi furono momenti di tensione che rientrarono quando l’Azione cattolica fu riconosciuta, anche se
in ambito strettamente diocesano. Il conflitto sorse a proposito dei compiti che l’Azione cattolica doveva
espletare nell’ambito dell’educazione. Il fascismo non aveva certo intenzione di affidare ai cattolici la
formazione della gioventù. Il fascismo aveva appeso il crocefisso nelle aule ma non aveva intenzione di dare
all’Azione cattolica anche quel figlio pronto ad entrare nei gruppi organizzati dai fascisti.
Dal liberalismo allo statalismo
La politica economica adottata da Mussolini durante gli anni tra il 1922 e il 1925 fu decisamente e
fortemente liberista. Nella prima fase l'economia fu di stampo liberista, con agevolazioni da parte del
governo alle imprese e ai privati. La spesa pubblica fu ridotta. Erano, però, ancora considerevoli l'alto tasso
d’inflazione e l’instabilità della moneta; per questo motivo, nel 1926, Mussolini cambiò strategia nominando
un nuovo ministro dell'economia, Giuseppe Volpi, e adottò delle misure protezionistiche per stabilizzare la
lira, accompagnate da interventi dello stato nell'economia.
Tra i più importanti provvedimenti presi da Mussolini per risanare l'economia nazionale ci fu l'incremento
del dazio sui cereali, a cui affiancò una forte propaganda: la 'battaglia del grano'. Lo Stato interveniva sempre
più nell’economia di mercato attraverso grandi investimenti nella costruzione di infrastrutture o nelle opere
di bonifica di interi territori. Nel 1928 fu attuato il progetto di bonifica integrale nei territori maggiormente
paludosi al fine di migliorare e aumentare le superfici coltivabili e le tecniche di coltivazione. Questo
avrebbe significato una maggiore autonomia per l'Italia nella produzione del grano. Il progetto di bonifica
non fu portato a termine, ma un grande risultato si ebbe nelle zone dell'Agro Pontino, dove fu fondata
l'attuale Latina.
Iniziava quella politica che avrebbe preso il nome di ‘autarchia’, cioè di autosufficienza, che è la cifra del
fascismo negli anni Trenta. L’Italia doveva essere autonoma e autosufficiente evitando di dipendere e
indebitarsi con altri Paesi. Produrre e acquistare prodotti italiani divenne il motto di quel periodo. La politica
autarchica ebbe alcuni meriti, come nella produzione del grano, ma a discapito di altri settori, come quelli
dell’allevamento. L’autarchia trovava limiti concreti anche perché un Paese come l’Italia era privo di materie
prime che doveva necessariamente comprare dall’estero.
A ben guardare lo stesso concetto di autarchia nasceva già vecchio, obsoleto rispetto alla realtà capitalistica
degli anni Trenta che presupponeva già un alto grado di interrelazione e specializzazione del mercato
internazionale.
Le corporazioni
Il fascismo trovò nel corporativismo l’involucro formale della sua dittatura economico-borghese. Il
corporativismo è l’architrave teorico e pratico della visione organicistica del fascismo in ambito economico e
corrisponde perfettamente agli interessi borghesi, che schiacciano completamente la resistenza operaia
prefigurando un bene comune.
Il Fascismo, innanzitutto, abolì ogni libertà di contrattazione operaia che non fosse con sindacati fascisti.
Fascismo e Confindustria, nel 1926, sancirono con una legge che non c’era spazio per sindacati socialisti,
comunisti o cattolici. Il bene della nazione richiedeva un nuovo modo di ordinare i conflitti economici. Il
corporativismo forma la griglia teorica a questa operazione. Innanzitutto si condannava lo sciopero come
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mezzo di lotta e la stessa teoria della lotta di classe dovette cedere il posto ad una concezione organicistica
secondo cui la nazione è una e le classi non sono che membra di uno stesso corpo, dunque, non possono che
avere interessi comuni. Dunque, nella fattispecie, i padroni e gli operai dovevano collaborare nell’interesse
della patria e tutto sarebbe andato per il meglio nel migliore dei mondi possibili. L’armonia veniva calata
dall’’alto’.
La Carta del lavoro approvata nel 1927 fu la rappresentazione plastica di questa armonia imposta per legge!
Per legge si stabilì che padroni e operai si sarebbero dovuti unire in corporazioni per settori produttivi. La
lotta di classe e gli interessi confliggenti venivano, così, d’incanto evaporati. L’operazione era una manovra
forzata che si risolse, di fatto, sempre a vantaggio dei padroni.
Lo Stato imprenditore
In termini generici, dalla Prima Guerra Mondiale e durante tutto il corso del XX secolo, muta radicalmente la
concezione ed il ruolo dello Stato, soprattutto in ambito economico: il modello liberista puro (se mai sia
esistito storicamente) salta del tutto. Così lo Stato poté godere della concentrazione, in un sol luogo, di forze
economiche amplissime, cioè ingenti capitali e di avere una capacità decisionale capace di imporsi anche
senza un profitto immediato.
È possibile individuare durante il fascismo due diverse fasi per ciò che concerne il ruolo dello Stato in
economia. La prima fase si protrae fino al 1926 ed è caratterizzata da uno Stato liberista. Dal ’26 in poi
s’inaugura una fase sempre più protezionistica, anche per far fronte agli effetti internazionali della
spaventosa crisi economica americana del 1929.
In quegli anni lo Stato intervenne in modo massiccio nelle sorti economiche italiane diventando uno
strumento propulsore dello sviluppo economico.
Nel 1931 fu fondato l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano), istituto di credito pubblico a sostegno delle
industrie in difficoltà.
Nel 1933 fu fondato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) con cui lo Stato diventava azionista di
alcune grandi fabbriche (Ilva, Terni, Ansaldo).
Il colonialismo fascista: “un posto al sole”
Nel 1911 il socialista Mussolini, nel 1939 il Mussolini fascista si sente colonialista e decide di dare un
Impero all’Italia e conquistare l’Etiopia ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti (la Libia).
Il colonialismo fascista in Libia e in Etiopia è stato assai lontano da quanto veniva descritto dalla stampa di
regime e da quello stereotipo degli “Italiani brava gente. La stampa europea dell'epoca considerò la
colonizzazione italiana in Libia addirittura più sanguinosa di quella delle altre potenze europee.
Fin dalla conquista la Libia era formalmente una colonia, ma l'autorità italiana era limitata ai principali centri
urbani della costa; il resto del Paese era in mano a gruppi ribelli. Il fascismo volle portare a termine la
colonizzazione libica e stroncare definitivamente la ribellione capeggiata dal maestro settantenne Omar alMukhtar. Mussolini si avvalse di Graziani noto per la sua inflessibilità. Tra il 1930 e il 1931 l'intera
popolazione della Cirenaica fu deportata in 13 campi di concentramento allestiti nel deserto. Ancora,
l'esercito italiano utilizzò stragi e torture per debellare i patrioti libici. E non mancò pure l’uso di armi
chimiche come il fosgene e l'iprite, vietate dalla Società delle Nazioni nel 1925, che continuarono a essere
utilizzate dall'Italia in Libia fino al 1931.
Nel 1934 Mussolini decise di conquistare l’Etiopia. Il Duce intendeva dare all’Italia un Impero ampliando i
possedimenti coloniali già acquisiti. Inoltre, vi era anche l’illusione che la nuova conquista potesse diventare
una meta per l’emigrazione italiana.
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Pensando di poter fare a meno di un’opportuna dichiarazione di guerra, l’esercito italiano invase l’Etiopia il
3 ottobre 1935. Addis Abeba, la capitale, fu conquistata il 5 maggio 1936 costringendo il sovrano etiope
Hailé Selassié alla fuga. Si trattò di una vicenda a metà tra la tragedia e la commedia che ben si legge anche
nella terminologia: dal giolittiano “scatolone di sabbia” come disse Salvemini ad “un posto al sole” per
l’Italia.
Ciò che sembrava un’impresa facile si rivelò una vera e propria spina nel fianco. Ne scaturì, infatti, una
guerriglia della quale i fascisti non riuscirono mai a liberarsi, si trattò di un’evidente sottovalutazione del
nemico. Si andò baldanzosi e, tronfi della propria superiorità razziale, ci si meravigliò che gli Etiopi
potessero avere sussulti patriottici.
Mussolini intraprese la conquista senza preoccuparsi minimamente della Francia e dell’Inghilterra, certo che
non sarebbero mai intervenute. Viceversa, la Società delle Nazioni condannò l’Italia in quanto aggressore e,
nel novembre 1935, vennero decretate delle sanzioni economiche che furono in ogni caso transitorie e non
fruttarono nessun riscontro positivo.
La propaganda fascista ebbe modo di rispondere alle sanzioni con una ricompattazione del consenso interno.
L’Italia vittima delle sanzioni rispondeva unita: molte famiglie donarono la fede d’oro alla Patria per
rimpinguare le casseforti della macchina militare. Fu probabilmente questo il periodo in cui Mussolini e la
sua politica godettero del maggior consenso tra gli Italiani.
Il 28 febbraio il generale Graziani arrivò addirittura a proporre di radere al suolo la parte vecchia della città
di Addis Abeba e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento, ma Mussolini si oppose
temendo più decisive reazioni internazionali. Le esecuzioni sommarie proseguirono anche a marzo e
Graziani ordinò la fucilazione perfino di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e
dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano.
L'iniziativa fu approvata da Mussolini
Il 9 maggio 1936 Mussolini comunicò al popolo la fondazione ufficiale dell’Impero dell’Africa Orientale
Italiana ponendovi a capo il re Vittorio Emanuele III che acquisì la corona d’imperatore d’Etiopia.
Come accaduto per la Libia, lo sterminio fu conseguito, tra l’altro, con tramite l’uso dell’iprite, un gas
altamente nocivo. Dalle carte di Graziani risultano, dal 27 marzo al 25 luglio 1937, un totale di 1.877
esecuzioni.
L’asse Roma-Berlino e le leggi razziali
La Germania appoggiò sin dal principio il progetto coloniale italiano fornendo armi e materie prime.
Nel 1936 venne firmato un patto di amicizia sancito dall’Asse Roma-Berlino.
Due anni dopo, nel 1938, un gruppo di intellettuali fascisti sottoscrisse il Manifesto della Razza. Si stabilì
che gli Ebrei non appartenevano alla razza italiana e si invitava gli italiani a dichiararsi apertamente e
chiaramente razzisti.
Nello stesso anno si approvavano le vergognose leggi razziali antisemite, ad imitazione della legislazione
tedesca del 1935. Si vietarono i matrimoni misti, si impedì loro di frequentare la scuola, di prestare servizio
militare e di praticare certe professioni. Era il primo atto di ciò che Sarfatti chiama la “persecuzione dei
diritti”, a cui avrebbe seguito la persecuzione delle vite dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945, alla
deportazione nei campi di concentramento.
Le leggi razziali furono per molti una sorpresa: non c’era in Italia una vera tradizione antisemita, né il
fascismo, a differenza del nazismo, si presentò all’inizio come razzista o antisemita. Colse di sorpresa anche
molti fascisti ebrei. Fu il momento, assai tardo, in cui molti liberali dovettero fare i conti con la faccia reale
del fascismo. Proprio a partire da questa generale estraneità del popolo italiano ad una tradizione razzista, il
fascismo, importando la mala pianta, si rese maggiormente colpevole.
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Tuttavia sarebbe sbagliato pensare alle leggi razziali come a funghi venuti fuori all’improvviso. Le prime
forti avvisaglie di un atteggiamento razzista si erano fatte sentire a proposito della guerra d’Etiopia. Lo stesso
Mussolini aveva affermato platealmente che era giunta l’ora che razze più evolute dovevano dominare razze
inferiori, sia per fruire di questa superiorità sia per operare un generale incivilimento dei barbari.
L’attività antifascista
Dal 1926 opporsi al fascismo divenne perseguibile penalmente, per cui molti antifascisti per sottrarsi alle
persecuzioni preferirono l’emigrazione.
Tra le fila dell’antifascismo vi furono diverse personalità di spicco, tra le quali Antonio Gramsci (fondatore
del comunismo italiano e segretario del Partito comunista) e Benedetto Croce (uno dei maggiori filosofi
italiani del Novecento). Benedetto Croce fu dapprima fascista, poi si staccò rigettandone le concezioni e
scrivendo il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti.
Altro argomento degno di attenzione in questo periodo fu la nascita dell’organizzazione Giustizia e Libertà
di cui fecero parte Carlo Rosselli e Piero Gobbetti. Fu uno degli elementi che tenne uniti i migliori
intellettuali antifascisti e sarà l’origine del Partito d’Azione, che ritroveremo durante la reazione del popolo
italiano al nazi-fascismo.
Il Partito comunista costituì l’unica organizzazione politica in grado di organizzare e gestire una densa rete di
opposizione clandestina al movimento fascista. Il Partito comunista pagò un alto costo durante il regime
fascista: circa i tre quarti dei condannati dal Tribunale Speciale Fascista proveniva dalle fila comuniste. A.
Bordiga e A. Gramsci, entrambi dirigenti massimi del partito, furono messi in carcere.
Complessivamente l’attività antifascista durante il regime fu minima e, di fatto, ininfluente. Tuttavia, furono
proprio tali organizzazioni (Giustizia e Libertà, il Partito comunista, etc.) a mantenere le fila di un’attività
antifascista che si svilupperà, in maniera geometrica, nel corso della Seconda guerra mondiale e che, come
un fiume carsico, riapparirà nella Resistenza.
Totalitarismo perfetto o imperfetto?
La maggioranza degli studiosi è propensa a distinguere il mondo liberale dal fenomeno del fascismo. Il
fascismo sarebbe dunque un elemento esogeno, esterno, che segna una rottura vera e propria con la
tradizione liberale italiana. Dall’altro canto molte sono le affinità di interessi e gli accadimenti che mostrano
una contiguità tra il liberalismo e il fascismo: il fascismo può essere considerato la camicia che la borghesia
liberale indossa quando il suo sistema politico inizia a franare sotto il maglio della rivoluzione operaia. Il
fascismo non sarebbe altro che la dittatura della borghesia in particolari momenti storici caotici.
Il fascismo fu un fenomeno complesso e la sua perimetrazione deve tener conto della sua stessa evoluzione
teorica, da san Sepolcro alle leggi fascistissime, ecc. Gli studiosi si sono attardati alquanto sulla
determinazione del carattere del fascismo e della comparazione con il nazismo e lo stalinismo. Il tratto
comune è la costruzione del regime totalitario. Gli studiosi però divergono sul fatto di classificare il fascismo
come totalitarismo perfetto o imperfetto. Per molti il fascismo non è stato diverso da quello nazista e
stalinista.
Secondo altri, tra cui H. Arendt – a cui si deve un notevolissimo lavoro Le origini del totalitarismo - il
fascismo è un totalitarismo imperfetto perché:
1. In Germania e in Russia il partito si sostituì, sic et simpliciter, alla struttura dello Stato, la struttura
dello Stato si mantenne per molti versi autonoma rispetto a quella del partito;
2. La presenza del fascismo nella società fu arginata in parte dalla Chiesa. Nonostante i Patti
lateranensi vi fu, sostanzialmente, tra le due istituzioni, una certa diffidenza. L’Italia dei mille
comuni, aveva mille campanili e mille parrocchie che non entrarono mai organicamente in una
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concezione fascista e che, anzi, forniranno elementi che vedremo in azione alla fine della Seconda
guerra mondiale;
3. Il ruolo del re, nonostante le indubbie compromissioni e responsabilità nella deriva autoritaria,
mantenne una qualche indipendenza formale e rimase, comunque, il punto di riferimento
dell’esercito e della borghesia conservatrice in generale.
BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
La vecchia guardia, A. Blasetti, 1935
La marcia su Roma, D. Risi, 1962
Novecento, (I parte), B. Bertolucci, 1976
Il leone del deserto, M. Akkad, 1981
LA CRISI DEL ‘29
~ IL MEGLIO NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI
~
~
~
~
~
Ford e il modello “T”
Il consumatore di massa
L’Isolazionismo
I repubblicani al governo
La borsa di New York
~ Il ‘NEW DEAL’
~ F. D. Roosevelt
~ Il programma politico-economico
~ Keynes e le politiche anticicliche
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~ TEORIE DELLA CRISI DEL ‘29
~ Teorie borghesi
~ Teoria marxista
Il meglio nel migliore dei mondi possibili
Ford e il modello “T”
Per fordismo s’intende quel particolare sistema di organizzazione tecnica e politica industriale, realizzato, a
partire dal 1913, da H. Ford nella sua fabbrica di automobili. Quest’ultimo era basato sul sistema messo a
punto dall’ingegnere Taylor che, attraverso la scomposizione e la parcellizzazione dei processi lavorativi fin
nei singoli movimenti, assegnava tempi standard di esecuzione. Ford aveva come obiettivo l’ottimizzazione
dei diversi fattori della produzione con una accorta pianificazione delle singole operazioni lavorative, con
l’uso generalizzato della catena di montaggio e con un articolato programma di incentivi per i salariati
(aumenti salariali, diminuzione della giornata lavorativa).
Il nucleo fondamentale del fordismo è il suo nocciolo tecnologico, dato dalle “tecnologie di concatenamento”
e da una “strettissima interdipendenza seriale”. Nel 1936, Charlot metteva in scena, sul grande schermo, il
film Tempi moderni, in cui rappresentava i ritmi estremamente ripetitivi, alienanti, disumani della fabbrica.
Tutto ciò rendeva possibile una produzione crescente a costi decrescenti, ovvero un aumento dei volumi
produttivi a prezzi più bassi. Ciò significava che il produttore poteva “produrre il proprio mercato”
intercettando fasce sempre più ampie di consumatori, cioè una domanda solvibile, una domanda pagante.
L’intento di Ford era, dunque, quello di trasformare l’auto da oggetto di élite in prodotto di consumo di
massa.
La mitica Ford modello “T”, la Tin Lizzie - come venne soprannominata – rappresentava plasticamente
quest’idea e diventò l’auto di ogni americano. Nel 1909, furono prodotte 13.840 auto a 950 $; nel 1910,
20.727 auto a 780 $; nel 1911, 53.488 auto a 690$; nel 1916, 586.388 auto a 360$. Nella prima metà degli
anni Venti la “T” raggiunse i 2.000.000 circa ad un prezzo unitario di 290 $ circa.
Il consumatore di massa
Gli anni ‘20 del ‘900, soprannominati gli “anni ruggenti”, furono caratterizzati da una inusitata crescita
economica e da un eccezionale fermento sociale e culturale.
Alcuni dati illustrano questo eccezionale periodo di prosperità succeduto alla Grande Guerra. La produzione
industriale statunitense, infatti, crebbe del 64% contro il 12% del decennio precedente. Si trattava di una
trasformazione strutturale dell’economia statunitense che partiva da un mutamento tecnico-organizzativo e
coinvolgeva uno sviluppo delle forze produttive e dei metodi di produzione. Si trattava, quindi, di una
ristrutturazione capitalistica che accentrava, razionalizzava e ottimizzava, a partire dalle nuove e più
sviluppate tecniche innovative. In pari tempo, si creavano sovrastrutture ideologiche adeguate alle nuove
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capacità produttive, formando un consumatore vorace, capace di avere bisogni che fino a quel momento non
erano affatto necessari. E’ l’epoca della produzione di massa, dei beni di consumo di massa e della
‘produzione’ del consumatore di massa.
Se la produzione di merci dispiegava il suo potenziale in una favolosa quantità di valori d’uso, bisognava
formare un nuovo individuo capace di tener dietro a questi valori d’uso. Si dispiegò, allora, una vera e
propria opera ‘educativa’ che fece perno essenzialmente su tre strumenti scintillanti:
• Le tecniche pubblicitarie;
• I grandi magazzini;
• Il pagamento rateale.
Con queste tre sgorbie, al ritmo del charleston, si mise mano all’’uomo nuovo’.
Le nuove e raffinate tecniche pubblicitarie aprirono nuovi spazi immaginativi, nuovi stili, nuovi bisogni. I
grandi magazzini erano la prova concreta della nuova giostra dei desideri. I pagamenti rateali testimoniavano
che tutto era possibile per tutti!
La diffusione della radio fu di straordinaria importanza nel processo di massificazione generale del Paese:
rappresentava la possibilità concreta di raggiungere milioni di famiglie nella loro intimità! Nel 1992, si
contavano 400.000 radio; nel 1928, ben 8 milioni.
L’elettrificazione del Paese rimodellò il sistema nervoso del corpo sociale; nel 1926, il 63% della
popolazione usava l’energia elettrica.
Tutto andava per il meglio, nel migliore dei mondi possibili!
L’isolazionismo
La Prima guerra mondiale aveva sancito il declino dell’ordine mondiale inglese, come del resto aveva
mostrato, prosaicamente, il dollaro che aveva sostituito, ormai, la sterlina negli scambi internazionali.
Tuttavia, gli USA si rinchiusero in una politica isolazionista che, secondo i repubblicani, avrebbe favorito i
loro affari interni e il loro illimitato progresso; non ingerirsi nella politica europea sembrò, in un primo
momento, un buon affare. Con questa idea di politica estera il repubblicano Warren Harding vinse le elezioni
presidenziali del 1920.
L’atteggiamento isolazionista, d’altra parte, aveva visto gli USA rifiutare di ratificare il Trattato di
Versailles, che ‘sistemava’ i nuovi equilibri europei. L’idea che fosse saggio difendere il proprio orticello la
si legge anche nell’atteggiamento americano verso la Società delle nazioni.
Durante la Conferenza di Pace, Wilson aveva tracciato, nei Quattordici punti, il progetto per regolamentare i
rapporti internazionali, facendo a meno della forza. L’idea era quella di creare un organismo sovranazionale
che, super partes, dipanasse le controversie internazionali, risolvesse i potenziali conflitti, in maniera
diplomatica. Si trattava della Società delle Nazioni, fondata, poi, a Ginevra nel 1920 e che, nel giro di un
decennio, vide la partecipazione di quasi tutti gli stati del mondo. Sfortunatamente, tale organizzazione non
riuscì a mantenere la pace nel mondo principalmente per due motivi: 1) gli USA non vi parteciparono: il
senato americano bocciò la proposta del presidente, non intendendo immischiarsi negli affari europei; 2) la
Società non ebbe mai un esercito regolare tale da poter imporre le sue risoluzioni, potendo, al contrario, far
leva solo su blande sanzioni economiche.
Insomma, l’isolazionismo fu il momentaneo rifiuto del capitalismo statunitense di prendere la leadership
internazionale. Si pensò che meglio corrispondesse allo sviluppo capitalistico e ai suoi splendidi indici
d’incremento una politica ‘autarchica’. Solo nel 1946, gli USA cambieranno strategia e, con la forza della
loro potenza economica e militare, faranno valere i loro interessi, imponendo un nuovo ordine mondiale.
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L’atteggiamento isolazionista si manifestò anche, mutati mutandis, nei confronti del fenomeno
dell’emigrazione; il ‘diverso’ venne visto spesso come ‘sovversivo’.
I primi quindici anni del Novecento furono anni caratterizzati da una forte immigrazione: circa metà della
popolazione Statunitense era Europea. Molti individui si recavano negli Stati Uniti con la speranza di trovare
un lavoro oltreoceano. Il fenomeno dell’immigrazione raggiunse la punta massima nel decennio 1900-1910
quando, su una popolazione di circa 75 milioni, gli immigrati furono quasi 10 milioni.
Il caso di Sacco e Vanzetti, giustiziati nel 1927, la cui colpa fu di essere anarchici e italiani, fu emblematico
di questo clima xenofobo che si diffuse nel Paese.
I repubblicani al governo
Per tutti gli anni Venti, furono i repubblicani a cavalcare questo clima di infinite sorti progressive. Il partito
repubblicano s’incardinava su un programma politico classicamente liberista che prevedeva, in ultima
analisi, che la ricerca individuale della felicità e, diremmo anche del profitto, coincidesse con il bene
comune. In termini più prosaicamente economici il programma dei diversi governi che si successero
prevedevano:




la rinuncia, da parte dello Stato, a qualsiasi intervento e controllo nell’economia di libero mercato
che, in un modo o nell’altro, con la ‘mano invisibile’ di smithiana memoria, si sarebbe regolato da
solo;
la diminuzione della spesa pubblica, ovvero la rinuncia a costruire una articolata rete di servizi
sociali e un solido stato sociale. Insomma, ognuno per sé;
la riduzione delle imposte dirette che, gravando sui redditi, avvantaggiavano i ricchi e l’aumento
delle imposte indirette che, pesando su tutti gli acquirenti, significavano un peggioramento reale
delle imposte sui ceti meno abbienti;
la compressione dei tassi d’interesse in maniera da agevolare l’accesso al credito dei capitalisti.
La fase capitalistica, che attraversò il Paese in quegli anni, fu di grande accelerazione alla concentrazione in
cartelli, monopoli e oligopoli che, nati dalla concorrenza, ora si spartivano grandi profitti, fissavano prezzi al
di là di qualsiasi concorrenza. Plasticamente, tale fenomeno lo illustra il fatto che il 30% del capitale
industriale e commerciale, nel 1909, era detenuto da 200 società, mentre, nel 1929, la quota era salita del
50%. Alla fine dei favolosi anni Venti l’1% della popolazione deteneva il 30% del capitale nazionale.
Nel 1929, gli Stati Uniti rappresentano il primo Paese per produzione industriale mondiale. Quasi la metà
della intera produzione mondiale era statunitense (45 %), seguiva la Germania (12 %), Gran Bretagna (9 %),
Francia (7%), URSS (5%).
Il Paese investiva circa 15 miliardi di dollari all’estero: Europa (5 miliardi), America latina (5 miliardi),
Canada (3 miliardi). Gli investimenti in Europa centrale erano dettati, ovviamente, da una convenienza
economica, ma anche da una lungimiranza politica che tentava di allontanare il pericolo comunista, cioè un
avvicinamento europeo all’URSS. L’America latina era il naturale partner economico, sia per la sua
posizione geografica, sia perché ricca di risorse minerarie. Gli USA avranno sempre, nei confronti di questa
terra, un atteggiamento predatorio: una riserva di caccia!
La Borsa di New York
Nel 1925, la Borsa di New York lavorava circa 500.000 azioni; nel 1928, le azioni erano circa 760.000; nei
primi mesi del 1929, circa 1.100.000. Parallelamente, cresceva a dismisura il valore di questi titoli: fatto 159
punti il valore nel 1925, nel 1928 era di 300; nell’agosto del 1929 a 381.
Questa gigantesca massa di azioni, in rapida ascesa, con numeri da capogiro e con un valore sempre
crescente, ingenerarono negli operatori l’idea di facili guadagni, tanto che, investire in Borsa, divenne un
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fenomeno di massa; piccoli possessori di titoli agivano in base a principi meramente speculativi acquistando
le azioni per rivenderle, poco dopo, in un puro gioco di domanda e offerta, senza tener minimamente conto
della produzione reale.
I trend azionari erano tutti in crescita: la nazione cresceva ininterrottamente e sembrava sfuggire alle crisi
economiche che, dal nascere del capitalismo, avevano tormentato l’Europa.
Eppure si potevano già scorgere delle crepe nella cornucopia del capitalismo americano. Gli agricoltori
dell’est erano in difficoltà, poiché i prezzi agricoli iniziavano a calare e rovinavano malamente le loro
farmer. La produzione industriale, sempre in crescita, in settori importanti dell’economia, subiva un pesante
rallentamento nell’estate del 1929.
I titoli, al contrario, sembravano non avvertire questo cambiamento e continuavano a crescere avvitandosi
sempre più in una mera azione speculativa.
Il giovedì del 24 ottobre del 1929 verso le 11.30, alla Borsa di Wall Street, tutti iniziarono a vendere le
proprie azioni, tutti volevano assolutamente liberarsi, al più presto, dei titoli. Il valore dei titoli crollò
repentinamente! Intere fortune accumulate nell’arco della vita si liquefanno nel giro di poche ore. La
giornata del solo ‘giovedì nero’ conta 11 suicidi tra gli operatori di Borsa. E’ il panico!
Alla fine della giornata sono state vendute 13 milioni di azioni e il giorno 29 se ne venderanno ben 16
milioni in una caduta inarrestabile.
L’economia in ginocchio
La crisi borsistica produsse una serie di reazioni a catena. Il crollo borsistico, come nel gioco del domino,
trascinò, nella rotta, le banche. Molte banche giocavano in Borsa e molti tra i giocatori di borsa non erano
più in grado di restituire quanto avevano preso a prestito. Infine, molti correntisti, presi dal panico, chiesero
di estinguere i conti per riprendere i propri capitali. La crisi della finanza aveva coinvolto nel naufragio il
sistema bancario. I fallimenti bancari nel 1928 furono 49, nel 1931 salirono a 2.298.
La somma di questi fattori fu una stretta del credito, ovvero una diminuzione della liquidità. Tale
diminuzione si abbatté, come in un circolo vizioso, sui finanziamenti che chiedevano le imprese.
Nel 1932, la produzione industriale era diminuita di 10 punti e il numero dei disoccupati raggiunse cifre
impressionanti. La disoccupazione è il dato più impressionante: nel 1929 – 1.5 milioni; nel 1930 – 4.3; nel
1931 - 8; nel 1932 – 12,1; nel 1933 – 12,8 ovvero, il 25% della popolazione attiva totale e il 54% rispetto ai
salariati attivi. Abbiamo, cioè, un esercito salariato di riserva amplissimo (accanto a 20 salariati nel 1929
c’era un disoccupato, nel 1933 ogni due salariati c’era un disoccupato). L’occupazione agricola scende sotto
i 10 milioni e prosegue in maniera inarrestabile. L’urbanizzazione rallenta: riprenderà solo nel dopoguerra.
Intere famiglie alla ricerca di lavoro, percorrono gli States in treno e si accampano nelle periferie delle grandi
città, definite Hooverville. I vagabondi girano il paese in un clima di collasso generale, a cui nessuno sa dare
una spiegazione. I sindacati vengono immediatamente colpiti: calano gli iscritti.
Il ‘New Deal’
F. D. Roosevelt
Le risposte della destra americana alla crisi furono alquanto deludenti giacché si affidarono, sostanzialmente,
alla ‘mano invisibile’ del mercato. Il presidente repubblicano H. Hoover, si rifiutò di separare il dollaro dalla
parità con l’oro, nel timore di un processo inflattivo che avrebbe aggravato il debito pubblico. Quando
intervenne, al di sopra della mano invisibile, lo fece con una politica fortemente protezionistica, con lo
Smoot-Hawley tariff act del 1930. Egli faceva riferimento soprattutto alle classi sociali degli imprenditori,
dei capitalisti, all’alta borghesia e alla borghesia finanziaria.
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Nel 1932, Franklin Delano Roosevelt, del partito democratico, promise una politica completamente diversa
dal repubblicano Hoover, il quale, venne battuto con oltre 22,8 milioni di voti contro 15,7. Roosevelt partì da
una politica socialdemocratica progressista più attenta alle esigenze e alle speranze delle classi medie,
operaie e contadine. Se Hoover rappresentò gli interessi del capitale, Roosevelt tentò di elaborare una
risposta economica anticiclica che tenesse insieme gli interessi del capitale e quelli dei lavoratori. Si
delineavano, così, in questo scorcio storico, risposte anticicliche che facevano fronte alle crisi economiche
capitalistiche, pur rimanendo nell’alveo borghese.
Il programma politico-economico
Il nuovo presidente costituì un “consorzio di cervelli” (brain trust), con il compito di mettere in piedi un
programma politico-economico capace di far uscire il Paese dalla crisi. Il gruppo di cervelloni fu fortemente
influenzato dal pensiero dell’economista John Maynard Keynes e dalla sua teoria economica, che rompeva
con la tradizione liberista.
All’impostazione classica liberista si scelse una strategia di forte intervento dello Stato per controllare e
intervenire nel mercato; alla mano invisibile si sostituì la mano dello Stato! Il dogma del libero mercato
veniva così abbandonato; il mercato, in realtà, fin dalla formulazione smithiana era rimasto più un modello
teorico astratto che una realtà del sistema capitalistico; in effetti, il mercato, abbandonato a sé stesso, non
aveva mai, storicamente, mostrato la capacità di autoregolarsi se non attraverso forti squilibri sociali e
rovinose crisi economiche.
Nasceva il nuovo corso, ‘New Deal’, ovvero il programma politico-economico degli USA, che s’imperniava
su una strategia economica anticiclica, nuova, scintillante e d’impostazione keynesiana.
Tra gli interventi indiretti tesi alla ripresa economica il governo Roosevelt approvò:
 La riforma del sistema creditizio e l’abolizione della parità dollaro-oro, che imponeva un cambio
fisso del dollaro con le riserve auree. Con tale abolizione fu possibile svalutare la moneta e avere
due effetti positivi: aumento della circolazione monetaria, rilancio del credito e degli investimenti,
da una parte e dall’altra, svalutazione del dollaro rispetto alle altre monete, che avrebbe reso più
efficace le esportazioni;
 La legge Agricultural Adjustement Act (AAA) che concedeva denaro a coloro i quali limitavano i
propri raccolti, con ciò limitando la produzione agricola e il ribasso dei prezzi;
 Il National Industrial Recovery Act (NIRA), attraverso una serie di accordi aziendali, imponeva da
una parte la limitazione della produzione industriale, dall’altra concedeva una serie di miglioramenti
per la classe operaia, come la rinuncia all’impiego di lavoro infantile e, soprattutto, stabiliva minimi
salariali e un orario di lavoro comune;
 L’emanazione del Wagner Act che sanciva il diritto all’organizzazione sindacale, diritto di sciopero
e contrattazione aziendale;
 Il Social Security Act creò un moderno sistema pensionistico e di tutele per i lavoratori che in parte
era pagato dal Tesoro e in parte da imprenditori e salariati;
 L’approvazione di una riforma fiscale che prevedeva tassazioni progressive e, dunque, colpiva i
redditi più alti.
Gli interventi diretti furono una vera e propria rivoluzione nella strategia economica degli Usa. Lo Stato non
era solo regista della ripresa economica, ma interveniva come imprenditore: forniva lavoro attraverso
investimenti statali. Lo Stato dava lavoro a milioni di disoccupati attraverso un programma di opere
pubbliche che ad es. perseguiva il miglioramento del territorio e delle infrastrutture. Lo “Stato imprenditore”
era il cardine del New Deal.
L’uscita degli Stati Uniti dalla crisi fu lenta se si pensa che i disoccupati nel 1934, erano ancora 11 milioni.
Alle elezioni presidenziali del 1936, Roosevelt venne rieletto con notevole scarto rispetto all’avversario;
60,2% dei voti contro il 36,5% del repubblicano Alfred Landon.
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Il New Deal non fu apprezzato da tutti e grandi furono le asperità che dovette affrontare anche sul versante
giuridico. La parte più reazionaria del capitalismo americano lottò come poté di fronte a questi cambiamenti.
Il NIRA fu oggetto di particolare avversione da parte degli industriali, che si videro ledere nei ‘diritti’ di
sfruttamento illimitato dei propri operai. Stabilire il minimo salariale sembrava una intromissione, nelle
ferree leggi economiche.
La Corte suprema fu l’organo giuridico che diede voce a questa opposizione, muovendo sospetti di
incostituzionalità per questi provvedimenti troppo intromissivi nella vita dei cittadini. Il contrasto finì con la
vittoria di Roosevelt che riuscì a sostituire alcuni giudici della Corte.
Complessivamente il New Deal segnò profondamente il Paese e, in generale, il rapporto tra lo Stato e la
società:




Fu possibile, negli anni Trenta, sviluppare il welfare state (Stato del benessere), che aveva come
obiettivo di garantire a tutti uno standard di vita adeguato;
L’amministrazione pubblica e la burocrazia si espansero;
Il sistema economico iniziò ad essere gestito dall’amministrazione statale;
I sindacati divennero dei legittimi interlocutori politici.
La crisi del ’29, da questa particolare prospettiva, come cambio del paradigma liberista, segna, in termini
generali, un cambiamento strutturale nell’economia mondiale; aumenta il peso del capitalismo statale.
La crisi determina un’accentuazione del capitalismo di stato che aveva avuto già un suo rilievo a partire dalla
Grande guerra. La tendenza generale si espresse nella forma staliniana in Russia, nella forma fascista in
Germania e Italia e nella forma democratica negli USA, Gran Bretagna e Francia.
Keynes e le politiche anticicliche
La teoria economica di Keynes informa il New Deal e la politica borghese di sinistra, dando, in pari tempo,
una ricetta anticiclica esattamente opposta a quella della destra liberista.
Keynes parte dalla constatazione storica che il mercato, lasciato a sè stesso, non avrebbe prodotto nessuna
ripresa, ma si sarebbe avvitato su sé stesso. Dunque, Keynes registra il ruolo che lo Stato storicamente va
sempre più acquisendo e, con forza, lo rappresenta teoricamente, non solo come arbitro del mercato, ma
come attore.
Dal punto di vista anticiclico, l’intervento dello Stato diventa decisivo per la ripresa degli investimenti e per
l’inizio di un ciclo virtuoso che riporti all’occupazione.
Schematicamente per Keynes bisogna che si attui:
a) una tassazione progressiva, in modo che le entrate dello Stato siano pagate da chi ha di più, cioè dai
ceti più benestanti, lasciando così un certo potere d’acquisto ai ceti popolari;
b) una diminuzione dei tassi d’interesse, in modo da dare maggiore liquidità all’impresa;
c) un vasto programma di opere pubbliche. Lo Stato doveva sostenere lo sviluppo dell’occupazione
attraverso massicci investimenti statali. Tali investimenti sono finanziati attraverso un momentaneo
indebitamento pubblico (un deficit di spending). Gli investimenti si traducono immediatamente in
occupazione, dunque, in una rinnovata domanda di beni. La domanda di beni fa si che l’offerta, cioè
l’industria, si riprenda dallo stato di torpore e ampli la produzione. L’innesto di questo circolo
virtuoso fa si che le entrate dello Stato, attraverso il prelievo fiscale, s’ingrossino e il deficit iniziale
possa essere, così, ammortizzato in un certo numero di anni.
La ricetta di destra o liberista - che fa leva sull’idea che il mercato provvede a ciò che è necessario per il
sistema economico - riduce le imposte dirette, aumentando quelle indirette. Taglia la spesa sociale,
assistenziale, pensionistica, scolastica, ecc. affinché la spesa statale sia meno gravosa possibile. Insomma, la
politica liberista lascia che la crisi si svolga in tutta la sua estensione; faccia il suo corso e venga pagata,
sostanzialmente, dalle classi meno abbienti. Alla fine essa, sostanzialmente, distrugge, come una guerra, tutto
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ciò che incontra: non rimangono che macerie. Al di là della metafora i valori sono azzerati, gli impianti
produttivi sono svalutati, inutilizzati e il salario compresso fino al punto della mera sussistenza. Da qui in poi
è possibile, timidamente, ritornare a nuovi cicli d’investimento.
Teorie della crisi del ‘29
Teorie borghesi
Molte sono le spiegazioni teoriche della crisi del ’29.
L’economia borghese spiega, in fondo, la crisi del ’29 in due diversi modi:
a) autonomizzazione del capitale finanziario;
b) crisi di sovrapproduzione.
La crisi di Wall Street è una crisi che si produce in ambito finanziario e si ripercuote, a cascata, sulla
produzione reale. La spiegazione ultima deve essere cercata nel processo di indipendenza, autonomia,
raggiunto dal capitale finanziario che vive di vita propria, completamente slegato dalla produzione reale.
Certo, la Borsa nasce come mercato di titoli azionari che corrispondono alle concrete economie aziendali,
ma, man mano tale forma assume sempre più una sua indipendenza e, come Pinocchio sfugge a Polendina,
inizia una sua vita capricciosa. Ebbene, la mera intenzione speculativa degli operatori di borsa che non hanno
più di vista il mercato reale sarebbe alla base del crollo di Wall Street. E, manco a dirlo, in questa visione,
l’elemento psicologico giocherebbe un ruolo eccezionale se si tramuta in panico.
E’ stato fatto notare che tale teoria è manchevole poiché non spiega il motivo per cui il crollo arriva proprio
nel 1929, e che, una sproporzione, un disequilibrio tra produzione reale e gioco di borsa, potrebbe spiegare
una ‘increspatura’ negli andamenti del capitale ma non una depressione così profonda e duratura.
Gli economisti borghesi hanno spiegato la crisi come crisi di sovrapproduzione. Tale spiegazione riporta il
problema della crisi non tanto a problemi relativi alla circolazione del capitale, quanto a fenomeni strutturali
della produzione capitalistica. In buona sostanza, la crescita a ritmi vigorosi del capitalismo americano dopo
la Grande guerra, in particolare di beni di consumo di medio termine (frigoriferi, radio, ecc.), non è
accompagnato da una crescita relativa dei salari, sicché si crea una forbice tra la massa di prodotti creati e la
capacità solvibile delle masse; i salari non riescono a comprare i prodotti sul mercato. La crisi si verificò
perché la produzione fu portata ad un livello troppo alto rispetto alla domanda solvibile. Crisi di
sovrapproduzione!
Dunque, una quantità immensa di merci rimane invenduta nei depositi perché le masse non hanno abbastanza
soldi per comprarle. In altri termini, si crea una sproporzione tra le merci prodotte e la capacità dei salari di
acquistarle.
Anche questa teoria, tuttavia, dà il fianco a varie critiche. In effetti, pur non crescendo in proporzione ai
profitti, i salari aumentano quando la produzione è al massimo e decrescono in periodo di crisi. Se i salari
crescessero in proporzione alla maggiore produttività, non sarebbe possibile una massa del profitto, tale da
procedere ad una ulteriore e più avanzata fase di investimenti. Si dimentica semplicemente che la parte
relativa ai salari non può crescere proporzionalmente alla produttività, dato che la produzione capitalistica è
produzione di profitto. Infine, fu V. Lenin, in polemica con R. Luxemburg sul processo di accumulazione, a
dimostrare che la teoria delle crisi di sovrapproduzione, o se si vuole, di sottoconsumo delle masse, non
spiegano un bel niente, perché non tengono conto che la quota maggiore di merci sul mercato si presenta
sotto forma di capitale costante, ovvero sotto forma di mezzi di produzione e non nella forma di beni di
consumo.
Teoria marxista
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L’economia marxista spiega la crisi del 1929 come una crisi di valorizzazione simile a tutte quante le altre; la
tredicesima crisi ciclica capitalistica dalle guerre napoleoniche. Certo, la forma che essa assume deve essere
indagata con un’analisi dettagliata della situazione specifica, ma essa viene riportata alla strutturale,
endogena difficoltà del processo di valorizzazione del capitale che Marx espone articolatamente nel
Capitale e che, in ultima analisi, riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto.
Le crisi sono generate dal modo di produzione delle merci e non da quello della circolazione. Lo stesso
sviluppo delle forze produttive crea una sperequazione tra capitale costante (macchinari, materie prime, ecc)
e capitale variabile (salari). Proprio questa tendenza del capitale costante a crescere più velocemente del
capitale variabile, crea una caduta del saggio del profitto. Più specificamente, la caduta del saggio si presenta
come una diminuzione della massa del plusvalore prodotta, che non è più in grado di riprodurre una nuova
accumulazione. Subentra allora una sovraccumulazione di capitali, ovvero una quantità di capitali che non
vengono utilizzati non trovando un impiego redditizio. La sovraccumulazione di capitali si manifesta come
sovrapproduzione di merci che, appunto, rimangono inutilizzate.
Subentra un periodo di crisi che la borghesia non riesce né a prevedere né a gestire con politiche anticicliche.
Tali crisi – dirà Marx nel Manifesto - possono essere superate o con la guerra o con rimedi che ampliano, su
più vasta scala, gli elementi che l’hanno generate.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
J. Steinbech, Furore, Bompiani
Film
Tempi moderni, C. Chaplin, 1936
Furore, J. Ford, 1940
Sacco e Vanzetti, G. Montaldo, 1976
L’ASCESA DEL NAZISMO
~ LA GERMANIA DI WEIMAR
~
~
Il movimento operaio tedesco
La Costituzione di Weimar
La vergogna di Versailles
~
~ LA TRASFORMAZIONE DEL PAESE
~
L’occupazione della Ruhr
68
~
~
~
Nasce il Partito nazionalsocialista
IL Mein kampf
La stabilizzazione con Stresemann
~ L’ASCESA DI HITLER
~
~
L’eco di Wall Street
La caduta della Repubblica di Weimar
~ IL PROGRAMMA NAZISTA
~
~
~
Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo
La teoria della razza
L’ascesa elettorale del Partito nazista
~ IL TERZO REICH
~
~
~
Repressione e persecuzione
L’accordo religioso
La propaganda
~ ECONOMIA E STATO TOTALITARIO
~
~
~
Hitler al governo
L’”economia di guerra”
H. Arendt: “Le origini del Totalitarismo”
La Germania di Weimar
Alla fine della Grande Guerra, uno spesso malcontento serpeggiava nella popolazione, che si aspettava delle
risposte dal punto di vista politico ed economico dalla monarchia, ormai indebolita e priva di controllo.
Già a partire dal 1918 si diffusero i primi conati rivoluzionari. Esercito ed operai, sul modello della
rivoluzione bolscevica vittoriosa, formarono i primi Consigli ad imitazione dei soviet russi e diedero il via ad
una prima stagione di lotte.
Questa perdita progressiva di potere da parte della monarchia culminò, il 9 novembre 1918, nel passaggio
alla repubblica, causando la fuga da parte del kaiser Guglielmo II. Tali eventi si avvicendarono in un clima
decisamente particolare, poiché il cambio di regime vide il crescere di numerosi partiti con interessi ed
orientamenti contrapposti. L’incapacità di prendere decisioni, inoltre, sarà un fattore logorante per il
governo.
Ciononostante fu apprezzabile l’impegno del presidente socialdemocratico Friedrich Ebert nel riportare il
paese alla stabilità.
Il movimento operaio tedesco
Le prime fratture all’interno del movimento socialista tedesco emersero durante l’elezione dell’Assemblea
Costituente, voluta da Ebert. La maggioranza del movimento operaio era raccolta nel SPD (Partito
Socialdemocratico) che risultava essere moderato e democratico. Questo partito sosteneva la provvisorietà
dei Consigli dei soldati e degli operai, che sarebbero stati smantellati con la creazione di organismi
democratici statali. Di parere divergente era l’ala estrema del movimento operaio, che era contrario a
qualsiasi Assemblea Costituente e che vedeva i Consigli come organismi che avevano un loro potere
autonomo e indipendente, come organismi indispensabili per una rivoluzione sul modello sovietico. Tale
posizione era assunta dall’USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente), formato nel 1917 e da cui
successivamente si scisse la Lega di Spartaco, che nel dicembre del 1918 costituirà il KPD (Partito
comunista tedesco).
Da quanto detto emerge la profonda divisione dei rappresentanti del movimento operaio sugli obiettivi che il
movimento doveva realizzare: questo sarà uno dei motivi che porterà alla sconfitta dell’intero movimento. Il
tentativo di boicottare le elezioni della Costituente e di rovesciare il governo fu completamente soggiogato.
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La Costituzione di Weimar
Dalle elezioni dell’Assemblea Costituente, ad essere premiati furono i membri dell’SPD che, tuttavia, non
ebbero la maggioranza, cosicché dovettero organizzare un governo di coalizione con i moderati, il partito
cattolico e i liberali democratici.
Il socialdemocratico Ebert fu nominato presidente della Repubblica.
Per elaborare una nuova Costituzione, l’assemblea preferì la città di Weimar a Berlino per evitare il clima
caotico della capitale.
Nasceva una repubblica federale con a capo il presidente Ebert e che prevedeva una rivalutazione del
Reichstag (Parlamento), che assunse il potere legislativo. Il potere esecutivo veniva affidato ad un
cancelliere, responsabile di fronte al Parlamento, ampi poteri venivano concessi alla figura del presidente
della repubblica, il quale veniva eletto direttamente dal popolo ogni sette anni.
L’architettura istituzionale che la Costituzione di Weimar disegnava era fortemente presidenzialista.
Va menzionato, infine, che l’articolo 48 esaltava ancor più il ruolo del presidente dandogli il diritto di poter
esautorare il parlamento in caso di pericolo. Più tardi, proprio questo articolo, permetterà ad Hitler di
cancellare la democrazia!
La vergogna di Versailles
Con il Trattato di Versailles del 1919, la Germania si ritrovò ad essere letteralmente umiliata dato che
erano state scaricate su di essa tutte le responsabilità, politiche ed economiche, del primo conflitto mondiale.
Il Trattato era stato il frutto della volontà delle nazioni europee - soprattutto la Francia - di annientare la
locomotiva tedesca, privandola degli elementi su cui aveva costruito il proprio potere politico ed economico.
Le riparazioni di guerra furono assai gravose, durissime quanto impossibili da onorare! La Germania doveva
risarcire una cifra pari a 132 miliardi di marchi d’oro e versare un quarto della produzione nazionale (25 %
ogni anno) alla Francia. Un debito che avrebbe avuto “fine” solo negli anni sessanta del novecento.
Tutto ciò non poteva che esaltare un risentimento, una rabbia del popolo tedesco che diede vento alle vele del
nazismo. La propaganda nazista non mancò di sottolineare l’umiliazione della Germania e di accusare
socialisti e democratici di aver accettato il Trattato e firmato la pace e le condizioni intollerabili al momento
della firma. Tutto ciò culminò nell’attentato a Matthias Erzberger nel 1921, ovvero colui che aveva firmato
l’armistizio del 1918.
La trasformazione del paese
L’occupazione della Ruhr
La Francia approfittò del mancato pagamento di una rata delle riparazioni da parte dei tedeschi per occupare
il produttivo e industrializzato territorio della Ruhr.
Infruttuosa risultò la protesta di lavoratori e imprenditori, che iniziarono una serie di scioperi e boicottaggi,
rifiutandosi di collaborare con i francesi.
Dal punto di vista finanziario, esorbitante era la distanza tra dollaro e marco nel 1923 (1 dollaro/4200
miliardi di marchi) e terribili furono le conseguenze del movimento inflattivo; si andava a fare la spesa con
una carretta piena di monete ridotte, praticamente, a carta straccia.
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Il processo inflattivo gravò anche sul piano sociale: i percettori di reddito fisso subirono l’inflazione come
una sferza che lacerava le carni giacché il loro stipendio o salario diminuiva sempre più. Imprenditori e
proprietari di immobili, indebitati con le banche, cavarono lauti guadagni!
Nasce il Partito nazionalsocialista
Tra il 1918 e il 1923, il corpo sociale tedesco era stato sottoposto a fortissime sollecitazioni. Il tentativo
rivoluzionario spartachista aveva creato una forte preoccupazione nella borghesia tedesca e nell’elettorato
moderato e conservatore. Nonostante la repressione delle forze socialiste rivoluzionarie, l’inquietudine di
ampi strati sociali spostò ampi consensi verso le formazioni di destra che si presentavano come garanti
dell’ordine costituito.
Nel 1920, a Monaco, nasce il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP) ad opera di Adolf
Hitler. Nello stesso anno, Hitler fu a capo di un putsch (colpo di stato) per scardinare le istituzioni
democratiche. Il complotto fallì miseramente: per Hitler e il generale Ludendorff l’arresto fu inevitabile! La
tribuna di imputato fu per Hitler l’occasione per farsi conoscere e per diffondere le sue idee: nelle sue parole
il putsch si trasformò in un atto patriottico. La condanna a cinque anni fu, poi, ridotta a nove mesi di carcere,
niente affatto duro.
Il Mein Kampf
Nel periodo della prigionia Hitler fu trattato con tutti i massimi riguardi: prigionia dorata! Ebbe modo anche
di dettare al suo fedele R. Hess il Mein Kampf (La mia battaglia) considerato una vera e propria sintesi del
programma nazista contenente, anche il primo assaggio di esplicazione della teoria della razza. Nel corso
dell'opera, Hitler evidenzia le sofferenze politiche del cancellariato tedesco durante la Repubblica di Weimar
e accusa gli ebrei, i socialdemocratici e i marxisti. Inoltre, si propone di formare un socialismo nazionale,
combattendo il bolscevismo e annientando “i mali peggiori”, ovvero il comunismo e l’ebraismo.
Alla base del programma vi è ricerca di uno “spazio vitale”, cioè nuovi territori, ad est, su cui estendere il
dominio nazista. Sostiene, poi, la necessità di un nuovo Reich (impero) al cui vertice ci deve essere un Führer
(guida, luce) che sappia essere sintesi dello spirito del Volk (popolo). Infine, tra le priorità dello Stato vi deve
essere la preservazione della razza giacchè con ciò si garantisce il dominio sulle razze inferiori.
Nel 1930, poi, Alfred Rosenberg pubblicava Il mito del XX secolo, dove l’ideologia nazista si dispiega e
articola completamente.
La stabilizzazione con Stresemann
Nel 1923 Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco popolare, di matrice democratico-liberale, decise di
aggregarsi con il Zentrum e con il partito socialista. Tra gli obiettivi comuni vi era il risanamento
dell’economia e la riforma monetaria, che avrebbe sostituito il marco che ormai era fortemente svalutata.
Un contributo determinante per la politica di stabilizzazione di Stresemann giunse dagli Stati Uniti con
Charles Dawes, che mise a punto un piano per risanare l’economia tedesca.
Affinché la soluzione avesse i risultati sperati, bisognava che in Germania giungessero capitali freschi sotto
forma di prestiti agevolati e investimenti. Le banche statunitensi avrebbero sfruttato i capitali eccedenti
investendo in Germania e ottenendo importanti profitti. Insomma, iniziava un periodo di stabilizzazione e
finanche di ripresa.
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La crisi americana del ’29 interruppe il flusso di capitali verso la Germania e la crisi economica si ripresentò
molto più forte facendo tremare, fin nelle fondamenta, la società tedesca.
Intanto si stabilizzavano anche le relazioni internazionali.
Nell’ottobre 1925 furono firmati dalla Germania e dalla Francia gli Accordi di Locarno, che sancivano un
periodo di distensione, di rapporti relativamente pacifici tra le potenze europee.
Secondo le condizioni del Trattato i tedeschi perdevano l’Alsazia e la Lorena e accettavano la
smilitarizzazione della Renania.
Infine, all’interno di questo processo di stabilizzazione s’inserisce la decisione di ammettere la Germania
nella Società delle Nazioni.
Un ulteriore tassello riguardante i rapporti internazionali fu disposto da un nuovo accordo: il Patto BriandKellog, entrato in vigore il 24 luglio 1929 e sottoscritto da ben 62 paesi, in cui si ripudiava la guerra come
risoluzioni delle controversie internazionali a favore della via diplomatica.
L’ascesa di Hitler
L’eco di Wall Street
Tra il 1925 e il ’28 s’intravidero i primi segnali di ripresa e stabilità economica. Fu eletto presidente il
maresciallo Paul Von Hindenburg: candidato di destra. Ciò accadde perché i comunisti non fecero
convergere i loro voti sul candidato del ‘blocco popolare’.
Dalle elezioni la sinistra uscì, comunque, rafforzata ma, ancora una volta, non abbastanza da poter formare
un governo, sicché si rese di nuovo necessario un governo di coalizione con i cattolici, i popolari e i
democratici. A capo di questo traballante e conflittuale governo c’era il socialdemocratico H. Müller.
Dal punto di vista economico, si distinsero due periodi: tra il 1918-23, il paese fu completamente in
ginocchio; tra il 1923-29, il paese accenna ad una stabilizzazione e ad una ripresa.
Il 1929 segna l’inizio della fine. La crisi di Wall Street segna il crollo della Borsa americana che si ripercuote
immediatamente sull’economia europea ma in particolare su quella tedesca. L’onda attraversa l’oceano più
velocemente di Colombo con le caravelle.
Tutti i settori dell’economia tedesca risentono della contrazione dei capitali americani: le fabbriche chiudono
e gli operai vengono licenziati. La produzione industriale diminuisce dal 1929 al ’32 del 50%. Il numero dei
disoccupati aumentò vertiginosamente in soli 3 anni: dai 650.000 nel 1928 ai 4 milioni e mezzo nel 1931.
In questa tremenda sollecitazione al corpo sociale dovuta alla crisi economica, i comunisti accusano i
socialdemocratici di tradire il proletariato con la politica delle grandi coalizioni. La destra attaccò i
socialdemocratici e il loro governo debole e incapace di risolvere la crisi. Fu necessaria una svolta politica
verso governi forti.
In un clima di tensione, Müller fu costretto a presentare le dimissioni e fu sostituito dal cattolico Heinrich
Brüning, ‘amico’ del presidente Hindenburg.
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La caduta della Repubblica di Weimar
Brüning indebolì sistematicamente la giovane e fragile democrazia repubblicana di Weimar anche ricorrendo
sistematicamente all’art. 48 che esautorava il Parlamento. Restò al potere anche all’appoggio dei
socialdemocratici, che intesero difendere così le istituzioni dai comunisti e dai nazisti.
Nel 1930, Brüning indice le elezioni che si svolsero in un clima di violenza tra comunisti e nazionalsocialisti.
I partiti estremi ebbero un enorme successo: i comunisti conquistarono il 13% dei voti, i nazionalsocialisti il
18%, mentre i partiti di centro persero voti.
Il successo elettorale di Hitler segnò su tutto un cambio di rotta estremamente importante nello scenario
politico tedesco. Hitler diventava un interlocutore ‘rispettabile’. Era il salto qualitativo della destra tedesca.
Nel 1932, Hitler fu il candidato della destra contro Hindenburg per le elezioni presidenziali; quest’ultimo
venne eletto solo grazie ai voti cattolici e socialdemocratici che bloccarono Hitler!
In un clima di guerra civile ci furono due prove elettorali che sfiancarono il paese: luglio e novembre del
1932. I governi che si realizzarono non ebbero tuttavia alcuna forza. I nazisti si rafforzavano sempre più ad
ogni tornata elettorale. A luglio divennero il primo partito tedesco con il 37,4% dei voti.
Il Partito poteva ormai contare sull’appoggio di tutta la borghesia al gran completo: dalla grande industria,
finanza, all’esercito, passando per il movimento agrario. Grande era la fiducia nelle capacità dei nazisti di
riportare ordine; dare ordine al caos tedesco.
La sconfitta definitiva della Repubblica di Weimar si consumò il 30 gennaio 1933, quando Hindenbug
incaricò Hitler di formare il nuovo governo.
Il programma nazista
Il rigetto del Trattato di Versailles e l’organicismo
Gli ambienti di destra in Germania erano cresciuti attorno all’idea che la sconfitta della grande Germania non
fosse da imputare ad errori militari ma al tradimento dei marxisti che, con il loro pacifismo e disfattismo,
avevano indebolito la forza militare tedesca. La destra non accettavano il fatto che l’esercito più potente
avesse perso il conflitto mondiale.
I socialisti e i marxisti erano responsabili delle condizioni umilianti del Trattato di Versailles. La destra
faceva propaganda contro le clausole vessatorie che infangavano la Germania. Insomma, per la destra
bisognava uscire dall’umiliazione e portare ordine in Germania!
Tale ordine s’incrociava con il rigetto della teoria del conflitto sociale. Lo Stato, la società era un solo
organismo rigidamente strutturato in senso verticistico. Il corporativismo era lo strumento capace di
dissolvere il conflitto sociale. Teoria cara alla destra era quella di un unico organismo in cui le singole
membra hanno pari dignità. Ma, come per il fascismo italiano, significò soltanto che la mente della borghesia
della nazione potesse dar ordine alla pancia operaia! Con questa visione organicista il nazismo interpretò
perfettamente le esigenze della borghesia nel suo complesso.
La teoria della razza
Uno degli elementi di cementificazione della propaganda nazista fu la teoria della razza. Pur non avendo
alcun fondamento di tipo scientifico, questa teoria fu proposta come una concezione fondata su un
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radicamento biologico-scientifico. Diversamente dal fascismo italiano, il nazismo adotta fin dalla sua nascita
la teoria della razza e ne fa un elemento caratterizzante.
La teoria della razza prevede, ovviamente, una gerarchia delle razze.
Al vertice delle razze c’è la razza ariana come testimonia anche la storia che dà, a questo popolo, le migliori
realizzazioni della civiltà. La razza migliore di Übermensch (superuomini) o “razza padrona germanica”
‘pretende’ una razza inferiore di Untermenschen (sottouomini). La razza migliore deve preservarsi e,
possibilmente, migliorare. Come per Platone nella Repubblica, l’identificazione della società in un gregge
porta inevitabilmente il pastore a selezionare le pecore migliori, per i tedeschi bisogna assolutamente
distinguere il grano dalla pula. Lo sapevano bene le SS che portavano Platone nello zaino e lo piegavano alla
loro funzione. Se c’è una razza migliore c’è né una peggiore!
Assumendo la tradizione antisemita cristiana, il nazismo si spinse a fare degli Ebrei il capro espiatorio di tutti
i mali tedeschi cosa che gli riuscì perfettamente anche a fronte di una loro identificazione con il capitale
finanziario proposto dalla propaganda come causa dei mali economici del paese. La selezione è selezione e,
dunque, anche la difformità fisica, la materia biologicamente inferiore o, addirittura, etica doveva essere
marchiata per preservare la purezza. Così la purezza doveva anche guardarsi dai portatori di handicap, malati
di mente, dagli zingari, dagli omosessuali.
Nel 1933 venne emanata una legge che prevedeva la sterilizzazione “eugenetica”, ovvero un programma
scientifico incentrato sul miglioramento della razza e, contestualmente, avente lo scopo di impedire la
riproduzione di materiale biologico inferiore. Oltre 400.000 persone subirono una sterilizzazione.
L’Operazione Eutanasia, tra il 1940 e il 1941, fu uno sterminio di massa che portò alla morte di 80.000
cittadini tedeschi ritenuti imperfetti e, quindi, irrecuperabili: handicappati fisici, neonati malformati.
Nel minestrone ideologico nazista finì la caricatura di Hegel, di Nietzsche, di Darwin assieme a personaggi
di dubbia ‘scienza’ come Gobineau o Chamberleain.
L’ascesa elettorale del Partito nazista
Il programma di Hitler era basato su alcuni principi fondamentali, quali: la lotta contro il liberalismo e la
democrazia; la lotta al marxismo materialista; la lotta contro gli ebrei, colpevoli, tra l’altro, di danneggiare
economicamente il paese.
Compito della nuova Germania era la conquista dello “spazio vitale”, che consisteva nell’ampliare il
territorio espandendosi verso est, verso l’URSS, sottomettendo la razza slava inferiore. Bisognava ridare alla
Germania il posto che le competeva nella storia e nella geografia!
Con il tempo Hitler provò a conquistare il consenso anche del ceto medio e della destra tradizionale,
intraprendendo attività legalitarie all’interno del suo partito. Nello stesso periodo formò il corpo militare
delle SA finalizzato all’assalto delle organizzazioni comuniste
La scalata del Partito nazionalsocialista fu progressiva e impressionante e merita di essere presentata nel suo
evolversi elezione dopo elezione. In sette elezioni politiche il partito nazista divora l’opposizione politica e
cresce a dismisura, raggiungendo il culmine, alle elezioni del 1933.
Alle elezioni del 5/5/1924 prende il 6,6%; 7/12/1924 il 3%; nel 1928 il 2,6%; nel 1930 il 18,3%; al
31/7/1932 il 37,4%; al 6/11/1932 il 33%; infine, nelle elezioni del 5/3/1933 il 44%.
Il Terzo Reich
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Hitler al governo
Il 28 gennaio del 1933 Hitler salì al governo attaccò tutti gli oppositori, in special modo i comunisti, contro
cui sguinzagliò le SA (formazioni di assalto).
Il 27 febbraio del 1933 il Parlamento (Reichstag) fu distrutto da un incendio, probabilmente causato dagli
stessi nazisti. La colpa dell’incendio fu data ai comunisti. L’incendio fu l’occasione per presentarsi come
garanti dell’instaurazione dell’ordine e varare una serie di misure eccezionali. E’ in questo contesto che il
Partito nazista ha, nelle elezioni del 1933, il 44% dei consensi, dando inizio al processo di nazificazione
della Germania.
Durante la prima seduta del parlamento, il 23 marzo 1933, Hitler si batté affinché fosse creata una legge che
gli assegnasse pieni poteri.
Nel luglio del 1933 si sancì l’instaurazione dello stato totalitario a partito unico. In questo modo s’instaurò
un dominio totale da parte dei nazisti. Tutti gli altri partiti furono aboliti, fu istituita un'unica organizzazione
corporativa, il Fronte del Lavoro, controllata dallo Stato che diventava dunque sede di accentramento del
potere economico. La concezione economica liberista era cestinata!
Fu anche creata una polizia segreta, la Gestapo, gestita dal capo delle SS, Himmler.
Il 30 giugno 1934, le SS e la Gestapo uccisero il vecchio amico Röhm e molti altri membri delle fedeli SA.
Fu la “notte dei lunghi coltelli”: oltre mille i morti. Fu anche l’anno della morte di Hindenburg e
dell’elezione di Hitler a presidente, oltre che cancelliere.
Repressione e persecuzione
Gli oppositori furono rinchiusi nei Lager, controllati dalle SS. I primi ad essere repressi furono i comunisti,
poi fu il turno degli altri partiti. In questi anni l’emigrazione aumentò provocando una vera e propria fuga di
cervelli con lo spostamento dell’élite intellettuale tedesca verso gli Stati Uniti (Thomas Mann, Freud,
Einstein, Fromm, ecc.): i loro libri furono messi al rogo nella piazza di Berlino, come in quel fare medievale
che fu proprio della Chiesa che purificava con il fuoco!
Hitler impostò il nuovo corso politico su un forte antisemitismo elemento attorno al quale cementare il
consenso popolare. Tre furono le fasi: a) dal 1933 al 1935 fu attuato il licenziamento degli individui
“diversi” impegnati in incarichi pubblici dello Stato; b) il 15 settembre 1935, in seguito alla formulazione
delle Leggi di Norimberga, gli Ebrei furono estromessi dalla comunità tedesca. Tra il 9 e il 10 novembre
1938 si consumò la notte dei cristalli: le vetrine dei negozi, le abitazioni e le attività possedute dagli ebrei
furono messe a ferro e fuoco; c) Nel 1941 Hitler mise a punto la “soluzione definitiva”: in seguito
all’invasione dell’URSS, nel 1942 ebbe inizio la deportazione degli Ebrei nei Lager, in cui morirono sei
milioni di persone.
L’accordo religioso
Il 20 luglio 1933 fu firmato un Concordato con la Chiesa Cattolica, che concedeva piena libertà di culto e di
organizzazione. Generalmente i cattolici si attennero a ciò che era indicato nel Concordato, l’unica eccezione
fu il caso di Pio XI che condannò il governo tedesco. La reazione fu violenta e migliaia di cattolici furono
perseguitati.
Negli stessi anni, la Chiesa Protestante prestò giuramento, mostrando piena fedeltà nei confronti del Führer.
La propaganda
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La struttura propagandistica e del consenso del Reich fu affidata al Ministro per l’Educazione e la
Propaganda: Joseph Goebbels. L’idea della razza e della superiorità tedesca fu il fulcro attorno al quale si
organizzò la ricerca del consenso. La difesa della famiglia patriarcale era centrale nella propaganda razzia. Il
superuomo tedesco era maschio, bello (biondo e occhi azzurri), forte, sano, radicato alla terra, che viveva in
una società di contadini guerrieri.
Il totalitarismo hitleriano usò al massimo grado i nuovi mezzi di comunicazione di massa: radio, cinema e le
oceaniche adunate. La monopolizzazione dei mezzi massa attraverso il controllo diretto e la capillare e la
censura assicurarono una voce unica senza opposizione.
L’educazione dei giovani spettava alle organizzazioni hitleriane più che alla scuola e alla famiglia. Si decise
di organizzare la vita dei tedeschi in modo da accompagnarli dalla culla alla bara, occupando il loro tempo
libero: dai 6 ai 10 anni c’era la Gioventù hitleriana; poi la Giovane popolo; infine si passava alla Gioventù
hitleriana vera e propria. Per le ragazze la Giovani ragazze. Un’altra organizzazione, la Forza attraverso la
gioia, si occupava di organizzare manifestazioni sportive, teatrali, gite e, ovviamente diffondere il credo
nazista.
Fu introdotto un nuovo tipo di insegnamento nelle scuole, quello delle “scienze razziali”, con l’intento di
esaltare la razza tedesca, in quanto superiore alle altre e soprattutto a quella ebrea. Gli insegnanti erano
sottoposti ad una severa verifica volta a dimostrare la loro fedeltà ad Adolf Hitler. Si trattava procedere verso
la “nazificazione dell’istruzione”. Le materie alle quali erano dedicate più ore erano educazione fisica, per
fare dei ragazzi dei soldati e storia, che aveva uno scopo prettamente propagandistico.
Tuttavia va ricordato che il consenso popolare fu raggiunto dai successi hitleriani in sede di politica estera e
di miglioramento economico, realizzato attraverso il riarmo e le opere pubbliche.
Economia e stato totalitario
L’economia di guerra
Hitler aveva spazzato via lo Stato democratico e aveva costruito uno stato totalitario presente in tutti i settori
della vita pubblica e privata dall’economia all’educazione.
In ambito economico lo Stato assunse il controllo dell’economia.
Per quanto riguarda il settore agricolo fu creata la Corporazione alimentare del Reich, con lo scopo di
controllare la produzione, il mercato e il consumo. Furono favoriti i piccoli proprietari terrieri con leggi
riguardanti l’ereditarietà, si intervenne sul prezzo dei prodotti agricoli e i latifondisti ottennero sovvenzioni
statali. L’obiettivo della Germania era, dunque, l’autosufficienza alimentare.
Nel settore industriale, invece, gli sforzi furono indirizzati alla ripresa economica. La ripresa fu possibile
grazie alla politica di riarmo: le commesse militari garantirono, infatti, un incremento notevole nella
produzione industriale. Hitler avviò un programma di lavori pubblici, iniettando investimenti che fecero
calare il tasso di disoccupazione fino al raggiungimento della piena occupazione nel 1938.
Gli interventi economici erano comunque convergenti con il fine supremo: preparare il paese alla guerra e
dare ai tedeschi il primato. Si trattò di organizzare una vera e propria “economia di guerra” per favorire la
produzione interna. Lo Stato accentratore e imprenditore garantiva, tra l’altro, anche il totale controllo sui
lavoratori e le loro organizzazioni che, senza più sindacati autonomi, furono inquadrati nel corporativo
Fronte tedesco del lavoro. Esso comprendeva imprenditori e operai.
Intorno al 1934 furono emanate alcune leggi che impedivano la libertà di scelta del posto di lavoro e
istituivano il servizio di lavoro obbligatorio assegnato coattivamente e senza possibilità di rifiutarlo. Per i
giovani si istituì il servizio di lavoro obbligatorio: manodopera a basso costo per i lavori pubblici.
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Si applicava un controllo dei prezzi dall’alto. Furono introdotti alcuni servizi sociali tra cui l’assistenza
medica e pensioni.
Nasce in questo periodo la “macchina per il popolo”, la Volkswagen.
H. Arendt: “Le origini del totalitarismo”
Le origini del totalitarismo (1951) di Hannah Arendt spiega quali fattori hanno maggiormente contribuito e
spinto i tedeschi ad appoggiare il nazismo: la paura del diverso e l’insicurezza economica ma, in particolar
modo, l’aver trasformato l’uomo in singolo individuo isolato privandolo della propria libertà di scelta e
dell’interesse verso il bene pubblico. Il nazismo fece dell’uomo-massa, di per sè indifferente alla sfera
pubblica e alla pòlis, un uomo di regime privandolo, con una martellante propaganda che fagocita tutti gli
spazi vitali, della libertà di scelta, della coscienza critica.
“Il livellamento delle condizioni dei sudditi è sempre stato una delle principali preoccupazioni
dei despoti e dei tiranni fin dai tempi più antichi; ma un simile livellamento non è sufficiente per
il regime totalitario, perché lascia più o meno intatti certi legami non politici, come i vincoli
familiari e gli interessi culturali comuni. Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo
deve far sì che "finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi", vale a dire
l'esistenza autonoma di qualsiasi attività.”
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BIBLIOGRAFIA
Libri
M. Paolini, Ausmerzen, 2012
Film
Il trionfo della volontà, Leni Riefenstahl, 1935
Storia di una ladra di libri, B. Percival, 2013
LO STALINISMO
~ L’ASCESA DI STALIN
~ Trotsky e Stalin
~ “Il socialismo in un solo paese”
~ LA COSTRUZIONE DEL CAPITALISMO DI STATO
78
~
~
~
L’industrializzazione forzata
La collettivizzazione forzata
Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia
~ LO STATO TOTALITARIO
~
~
~
Il culto della personalità
Le epurazioni
I Gulag
L’ascesa di Stalin
Trotsky e Stalin
Quando Lenin morì, il 21 gennaio del 1924, nel partito si aprì una durissima lotta per la leadership. Trotsky e
Stalin sembravano in quel momento i due personaggi che, a diverso motivo, potessero prendere la guida del
partito e dell’URSS. Lo stesso Lenin, in una lettera-testamento, aveva caldeggiato la persona di Trotsky e
messo in guardia il partito da Stalin per i suoi modi “grossolani”. In effetti, i due avevano un retroterra
culturale assai diverso e una esperienza politica rivoluzionaria che li aveva visti impegnati in ruoli assai
diversi nella Rivoluzione. Stalin era considerato sostanzialmente un pratico: ottimo organizzatore! Trotsky
era un teorico sopraffino, pur avendo una esperienza enorme nella direzione dei movimenti concreti: aveva
guidato il Soviet di Pietrogrado nella Rivoluzione ed era stato il mitico capo dell’Armata rossa contro
l’esercito ‘bianco’ di Kornilov. Trotsky era un grande conoscitore dell’opera di Marx, mentre la conoscenza
di Stalin era alquanto lacunosa. Stalin poco avvezzo all’oratoria, Trotsky infiammava le folle con la sua
retorica. Trotsky era assai leale verso i compagni, l’altro, invece, era piuttosto rozzo.
Al di là delle differenze caratteriali, i due, in quello scorcio storico, si scontrarono su grandi questioni
teoriche e pratiche: finirono per rappresentare, nel dibattito politico, due modi di vedere il destino, la
direzione della Rivoluzione.
Lo scontro e le divergenze erano su aspetti fondamentali: l’organizzazione del partito; la valutazione della
Nep; il socialismo in un solo paese e la rivoluzione permanente di Trotsky.
In questo scontro, Stalin riuscì ad avvantaggiarsi del fatto di essere stato nominato segretario del partito nel
1922 e ciò gli conferiva, di fatto, pieno controllo sulla nomenklatura, cioè sulla burocrazia sovietica.
Detenere il controllo del partito equivaleva ad avere un forte potere sullo Stato, e quindi sull'intera società.
Trotsky poté solo capeggiare l'opposizione di sinistra.
Lo scontro tra le due correnti si risolse con la vittoria di Stalin. Trotsky, messo in minoranza, nel 1927 fu
addirittura espulso dal partito. Iniziò per lui un lungo esilio, che si concluse nel 1940 a Città del Messico,
dove venne ferito a morte da un sicario di Stalin.
“Il socialismo in un solo Paese”
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Marx, Engel e Lenin non hanno mai affermato che il socialismo fosse possibile con la vittoria in un solo
paese. Ancora, questa possibilità viene decisamente negata dai tre per i paesi con economie arretrate. Marx,
interrogato specificatamente sulla Russia, disse chiaramente che, nonostante particolarità di forme
proprietarie agrarie relative all’obsticina (comunità agraria, caratterizzata dalla proprietà in comune di varie
famiglie che si autogestivano), il paese non avrebbe potuto saltare il suo ‘destino’ capitalistico prima di
arrivare all’organizzazione socialista.
La rivoluzione o è internazionale o non è! Il marxismo nasce direttamente internazionalista nella forma e nel
contenuto, per il semplice fatto che il capitale come gli operai, non ha patria. La forma propria del
capitalismo non è più, da un pezzo, la patria, ma gli scambi internazionali. Certo il proletariato di un
determinato paese abbatte la propria borghesia, ma questo processo rivoluzionario viene pensato all’interno
di una ‘simultaneità’, almeno dei paesi più avanzati.
Pensare che la Russia, arretrata economicamente, con tratti spudoratamente medievali (1861 abolizione della
servitù della gleba), potesse passare al socialismo è, dal punto di vista teorico marxista, una vera corbelleria
che solo Stalin potè affermare nello stupore generale dei marxisti più agguerriti.
Al 1926, il ciclo della rivoluzione in Europa era chiaramente passato e la Russia era rimasta isolata, senza
una rivoluzione sorella. Ora ci si attendeva un ciclo di stabilizzazione del sistema capitalistico e i fascismi
europei confermavano questa tendenza. Quale doveva essere il compito del potere bolscevico in questa
situazione di stallo? Un partito comunista al potere in un paese di contadini, in un Paese che aveva appena
assaggiato, in zone limitate, il capitalismo.
Nel 1926, la questione fu dibattuta nell’Internazionale. Stalin da una parte e Trotsky, Zinoviev, Kamenev
dall’altra. Stalin pose il problema della edificazione del socialismo con le sole forze sovietiche, altrimenti i
bolscevichi avrebbero dovuto lasciare il potere. Stalin pensò che la sovrastruttura politica, cioè il potere,
desse la possibilità di costruire una struttura economica come il socialismo. Non s’avvide che la base
economica del socialismo era, in Russia, l’edificazione del capitalismo. Trotsky, Zinoviev e Kamenev, in
diverso modo, ribadirono le tesi fondamentali del marxismo: l’impossibilità della costruzione del socialismo
in un solo paese, men che meno in Russia e le tesi di Lenin sull’impossibilità di costruzione socialista senza
una rivoluzione europea.
La tesi di Stalin vinse! Si ci appropinquò alla costruzione del socialismo contro Marx, Engels, Lenin! Lo
stalinismo rappresentava la controrivoluzione, incarnava oggettivamente la difficoltà di una rivoluzione,
soffocata dalla mancanza di ossigeno europeo. Stalin esprime la difficoltà oggettiva in cui la Rivoluzione
d’ottobre viene a trovarsi: da un lato è lanciata verso la costruzione del capitalismo, dall’altra è politicamente
proletaria e socialista. Ora, tale sopravanzamento politico non poteva che avere il tempo che è concesso
all’autonomia della sovrastruttura politica di sganciarsi, momentaneamente, dalla struttura economica. In
Russia, finito il ciclo delle rivoluzioni europee e rimasta sola, il peso determinante della necessità economica
si fece sentire: il corso storico riprendeva il suo cammino, ponendo all’ordine del giorno, la costruzione del
capitalismo di Stato.
La costruzione del capitalismo di Stato
L’industrializzazione forzata
Per Stalin, bisognava imprimere al Paese un’accelerazione tale nel processo d’industrializzazione da
raggiungere in pochi anni il livello dei paesi più progrediti; bisognava eliminare l’arretratezza e procedere
nella realizzazione del socialismo. Il gap con il capitalismo avanzato dei Paesi industrializzati sarebbe stato
colmato con una politica fortemente programmata dallo Stato, cioè una economia pianificata: i piani
quinquennali.
Nel 1928, fu varato il primo piano quinquennale per l’industria (1928-32), che programmava gli obiettivi
della crescita industriale nei diversi settori. Bisognava incrementare soprattutto quei settori che
strutturalmente potevano favorire una rapida industrializzazione del Paese: materie prime (ferro, carbone,
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acciaio). Insomma, bisognava sviluppare innanzitutto un’industria pesante che assicurasse un processo
d’industrializzazione largo, possente, duraturo.
Il flusso di denaro, cioè di investimenti, per tale operazione fu sottratto ai consumi interni, cioè comprimendo
i beni di consumo fino al razionamento. Ancora, la grande produttività fu ottenuta portando al massimo il
grado di sfruttamento della forza-lavoro: gli operai furono sottoposti a ritmi massacranti e ad una disciplina
rigorosissima.
A causa dell’aumento della richiesta di manodopera, si ricorse all'assunzione di personale straniero,
specialmente tedesco e americano. Il governo istituì l'istruzione tecnica per controllare la formazione del
personale. Per far fronte all'esigenza di 'braccia in più' nel settore industriale, furono coattivamente presi
contadini dalle campagne, causando un notevole aumento della popolazione cittadina.
Accanto a queste trasformazioni strutturali in economia, si mosse tutto l’impianto propagandistico. La
mobilitazione ideologica prevedeva lo sviluppo della motivazione operaia allo sforzo industriale: i lavoratori
migliori avrebbero avuto premi e onorificenze. A. Stachanov, nel 1935, estrasse dalla miniera una quantità
mai raggiunta. Il suo nome divenne un aggettivo (stacanovismo), una volontà e un metodo che bisognava
emulare per aumentare la produttività del lavoro.
Tale programma di industrializzazione accelerata trasformò l’Unione Sovietica: dal 1928 al ’32 l’industria
crebbe del 40%.
Nel 1932, fu promosso il secondo piano quinquennale (1933-37), grazie al quale la produzione superò di
gran lunga le aspettative previste, con uno sviluppo produttivo del 121%. Il terzo piano quinquennale non fu
portato a termine a causa dell'inizio della Seconda guerra mondiale, la quale favorì soprattutto la produzione
di armamenti, indispensabili in periodo di guerra.
I piani quinquennali promossero, tra gli anni Venti e Trenta, indubbiamente, un notevole sviluppo
industriale. Si calcola che dal 1913 al 1940, la produzione dell’acciaio passò da 4,6 a 18,3 milioni di
tonnellate. Tuttavia, queste cifre scintillanti vanno anche riviste con la nota legge, secondo cui lo sviluppo
del capitalismo, al suo inizio, produce incrementi a due cifre per poi naturalmente assestarsi su cifre molto
più modeste nella sua fase matura o senile.
La collettivizzazione forzata
Durante il periodo di industrializzazione forzata, il potere sovietico privilegiò i bisogni dell’industria.
L'agricoltura fu praticamente piegata alle necessità del settore industriale: bisognava però collettivizzarla,
meccanizzarla e legarla ai piani quinquennali.
Lo Stato procedette alla concentrazione, nelle proprie mani, di tutta la proprietà agraria in due modi: a)
espropriando i kulaki, cioè i contadini ricchi che avevano grandi appezzamenti di terra; b) organizzando la
proprietà agraria nella forma dei Kolchozy e dei Sovchozy.
Innanzitutto, Stalin ruppe con la Nep di Lenin, procedette a mettere i contadini poveri contro i kulaki
(contadini ricchi) e proseguì con requisizioni coattive del bestiame e dei prodotti agricoli. Infine, alla forte e,
a tratti, violenta resistenza dei kulaki, che erano contro l’espropriazione delle loro terre, Stalin scatenò una
repressione durissima. Arresti, deportazioni, fucilazioni eliminarono i kulaki come classe sociale. A nulla
valsero l’opposizione, ad es. di Bucharin, che difese la Nep e l’alleanza proletari-contadini. Nel 1930,
Bucharin fu condannato e fucilato come deviazionista. La repressione dei kulaki fu spietata: processi
sommari, deportazione in Siberia o fucilazione, attesero chi non si piegò all’esproprio.
Lo stalinismo vinse sui kulaki sia per la pressione dei contadini poveri, sia per la forza che gli dava lo
sviluppo dell'industrializzazione (piani quinquennali).
Le masse contadine furono obbligate ad entrare in grandi strutture produttive collettive sotto il controllo
statale. Il Kolchoz era un’azienda agraria dove i contadini usavano collettivamente la terra di proprietà
statale; ad ognuno veniva dato, poi, un piccolo pezzo da sfruttare individualmente. Il Sovchoz era un’azienda
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interamente di proprietà dello Stato, dove i contadini erano semplici operai. Lo Stato prelevava una quota
fissa del raccolto e una parte per la riproduzione del ciclo agrario e
a, lasciava ai contadini il resto.
A rendere ancora più tragica la situazione della campagna fu la grande carestia del 1933, negata
ufficialmente, che fece milioni di vittime.
Alla fine degli anni Trenta, lo Stato deteneva la quasi totalità della proprietà agraria. Tuttavia, ad un’analisi
più approfondita, si può articolare meglio circa la coesistenza di diverse forme: un capitalismo di Stato con i
sovchoz; un cooperativismo privato, nelle terre comuni del kolchoz; un’economia mercantile nel campicello
singolo del kolcosiano e qui, insieme, uno ancora inferiore di economia naturale familiare.
Bordiga: Struttura economica e sociale della Russia
Bordiga, negli anni ’50, con un lavoro intitolato Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, traccia
una mappa dettagliata e precisa della natura economica e politica dell’URSS. La riflessione di Bordiga è
assolutamente preziosa perché, senza mai uscire dalla metodologia e dalla via indicata da Marx, Engels e
Lenin, individua nello stalinismo la curvatura che la rivoluzione comunista non poteva non avere, a fronte di
due questioni: la mancata rivoluzione europea e l’arretrato stadio di sviluppo economico. La Russia di Stalin
non è l’edificazione del socialismo, ma una particolare forma di capitalismo: capitalismo di Stato. Senza
aspettare le rovinose e terrificanti imprese dell’imperialismo russo, Bordiga, sulla base di una teoria ancorata
ai principi marxisti, sgretola l’illusione della realizzazione del socialismo in URSS.
Lenin stesso, ad es., aveva parlato di statizzazione delle industrie e di conduzione attraverso i criteri della
“redditività economica” e con metodi di calcolo economici, ma mai osò parlare di socialismo. Nell’URSS di
Stalin, la conduzione ragioneristica delle fabbriche e la contabilità capitalistica rivela la sostanza stessa del
rapporto economico capitalistico. Bordiga rivela semplicemente che in Russia sono presenti tutte le categorie
dell’economia capitalistica, dell’economia borghese: valore, merce, salario, denaro, profitto, impresa.
L’impresa - a prescindere dalla forma giuridica di proprietà (individuale, società per azione, proprietà statale)
- viene gestita con criteri capitalistici: redditività o profitto. Finchè la produzione avviene per aziende, i
prodotti assumono la forma di merce ed il lavoro è lavoro salariato, si è in pieno capitalismo.
La collettivizzazione forzata nelle campagne restituisce, a fronte di una lotta durissima, un’articolazione di
forme di proprietà e di scambio che sembra non molto superiore a quelle occidentali.
Infine, l’economia pianificata, che sembra fare la differenza con quella occidentale, è, viceversa,
perfettamente compatibile con il capitalismo: la pianificazione non è affatto un principio socialista e può
essere applicata, e in parte si applica, all’economia occidentale. L’economia pianificata sovietica si svolge in
una forma mercantile monetaria laddove quella socialista sarebbe una pianificazione in base ai puri valori
d’uso.
Stalin pretese di costruire il socialismo in un solo paese, fondando tale tesi sostanzialmente su due punti: a)
bolscevichi al potere; b) identificazione dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione con il
socialismo.
Rispetto al primo punto, Stalin non tenne in considerazione la puntuale distinzione tra struttura e
sovrastruttura: la politica è un elemento della sovrastruttura che si erge sulla struttura economica. Certo essa
ha una sua autonomia, ma tale indipendenza viene riassorbita in tempi medi. Per ciò che riguarda il secondo
punto, Stalin, semplicemente, non tenne in considerazione che la mera abolizione della proprietà privata dei
mezzi di produzione non coincideva affatto con il socialismo, ma con forme capitalistiche. Il tratto distintivo
del capitalismo non è neanche la proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto l’appropriazione del
prodotto. In un sistema capitalistico, la cosa più importante è che l’appropriazione del prodotto, sotto forma
di profitto, debba essere, nella gran parte, destinata all’accumulazione di capitale. Insomma, lo stesso
capitalismo, come forza sociale, può fare a meno dei capitalisti singoli. Il capitale può fare a meno dei
capitalisti! Si assiste a quello che Bordiga chiama “divorzio tra proprietà e capitale” o “spersonalizzazione
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dei capitali”. Il capitalismo di Stato vede la scomparsa dei singoli capitalisti, della classe dei capitalisti
sostituita dal capitalista generale, cioè il capitale come potenza impersonale “anonima”; il capitale vive senza
capitalista individuale. La funzione che prima aveva il capitalista, ora viene realizzata dalla rete. Dunque, il
capitale fa a meno della proprietà e della funzione del capitalista singolo. La classe capitalistica, man mano
che il capitale diventa sempre più sociale, decade come classe sociologica.
La proprietà statale è la forma più alta capitalistica perché è proprietà sociale. Corrispondentemente, tutto il
lavoro è lavoro salariato e scompare la proprietà privata. La società si trasforma in “astratto capitalista”,
come aveva detto Marx nei Manoscritti del 1844. Il socialismo è abolizione della produzione del valore,
della produzione mercantile, del salario, dell’azienda.
La demistificazione della struttura sociale e politica dell’URSS è indispensabile, per Bordiga, per la
restaurazione del programma comunista. Bisogna che sia chiara la struttura e la natura del cosiddetto
socialismo reale, per prenderne risolutamente le distanze. Trattasi di capitalismo di Stato e non di socialismo,
perciò l’identificazione dell’URSS con il socialismo è una falsificazione staliniana e arreca grave nocumento
al proletariato internazionale e al programma comunista internazionale.
Stalin è stato rivoluzionario e controrivoluzionario! Rivoluzionario borghese che traghetta la Russia dal
letargo asiatico al capitalismo, al netto del grandissimo pegno che il corpo sociale dovette pagare in termini
di sfruttamento e repressione. Stalin è controrivoluzionario perché ha spacciato il capitalismo di Stato con il
socialismo ancorché reale.
La controrivoluzione stalinista, frutto del fallimento rivoluzionario europeo e della stabilizzazione
capitalistica, precipitò su tutto il comunismo internazionale, attraverso l’Internazionale. La politica
controrivoluzionaria russa si fece sentire a partire dalla tattica che si impose ai partiti aderenti, la
Internazionale: socialismo in un solo paese, poi Fronti popolari contro il fascismo, collaborazione socialnazionale nel corso della Seconda guerra mondiale imperialistica, fino alla guerra fredda imperialistica. Ciò
fece dell’URSS il nemico giurato della classe operaia e del comunismo. Lo stalinismo come fenomeno
controrivoluzionario sta nella distruzione della potenzialità proletaria mondiale verso l'autentica conquista
socialista.
La costruzione del totalitarismo
Il culto della personalità
L’URSS assunse le caratteristiche di un vero e proprio Stato totalitario! Il partito s’identificava sempre più
con l’apparato dello Stato. C'era un partito unico in grado di gestire e controllare ogni assetto della vita
sociale, politico e militare; lo Stato assunse il controllo dell’intera economia, politica, attività sindacale,
cultura e media.
All'apice dello stato totalitario vi fu la promozione del culto del capo: Stalin si proclamò legittimo successore
di Lenin e unico continuatore della sua opera; tutta la storia bolscevica fu riscritta. La personalità di Stalin fu
grandemente enfatizzata come padre del Paese.
Tuttavia, Stalin godeva di grande popolarità e consenso, che aveva il suo fondamento nella trasformazione
del paese in potenza industriale e negli sviluppi che si registrarono nella lotta all’analfabetismo e nello
sviluppo dei servizi sociali e assistenziali, che interessarono milioni di uomini che prima ne erano totalmente
privi.
Il costo fu però la soppressione di ogni libertà; la pervasività di uno Stato autoritario pronto a scovare
ovunque il dissenso.
Le epurazioni
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Censura, conformismo e angoscia furono la cifra della società degli anni Trenta! Il dissenso o anche la
semplice protesta nei confronti di Stalin furono duramente repressi. Particolarmente eclatanti, tra il 1935 e il
1938, furono le grandi epurazioni o purghe: tutti i vecchi bolscevichi della prima ora che in qualche modo
facevano resistenza a Stalin furono accusati di ‘trotskismo’, tradimento e antibolscevismo; furono condannati
e giustiziati. Spesso le confessioni venivano ottenute con la tortura. Il bolscevismo veniva decapitato,
assicurato alla epurazione e alla condanna. Grandi rivoluzionari come Trotsky, Bucharin, Kamenev,
Zinoviev, ecc. vennero fatti fuori.
Non solo il partito. All’esercito toccò la stessa sorte. Ancora, la repressione riguardò ogni articolazione
sociale: chi non era giustiziato veniva deportato nei gulag, i campi di rieducazione e lavoro.
I Gulag
Veri e propri campi in cui i prigionieri, per lo più politici, venivano costretti al lavoro forzato. I campi di
lavoro erano presenti in Siberia fin dal periodo zarista come pure si può leggere in Memorie di una casa
morta di F. Dostoevskij. A partire dagli anni Trenta, sotto la repressione stalinista, crebbero fino a 150,
disseminati come isole sul territorio, finanche vicino a Mosca: un Arcipelago gulag come s’intitola il libro
dello scrittore dissidente A. Solzenicyn.
L’”attività controrivoluzionaria” e i “delitti contro lo Stato” erano le accuse che portavano al Gulag, dove i
detenuti lavoravano in condizioni disumane. Secondo alcuni dati, tra il 1930 e il 1958 vennero internate
15.000.000 di persone: 1.500.000 persero la vita nei Gulag a causa delle precarie condizioni di detenzione.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
V. Serge, Se è mezzanotte nel secolo, 1935
Al. Solženicyn, Arcipelago Gulag, 1973
Film
Il proiezionista, A. Končalovskij, 1991
LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
LA PROVA GENERALE
~
~
~
Ancora il latifondo
La Repubblica
Falange nazionalista e Brigate internazionali
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La prova generale
Ancora il latifondo
Ai principi del 1900, la Spagna era caratterizzata da una condizione di estrema arretratezza sia in campo
sociale che in campo economico; quest’ultimo era basato ancora in gran parte sul latifondo, mentre
l’industrializzazione rimase circoscritta a determinate aree quali la Catalogna, le province basche e le
Asturie.
Contadini e operai erano raggruppati in sindacati di orientamento socialista e anarchico con l’obiettivo di
vedere attuata una riforma agraria. La media borghesia di cui faceva parte il ceto degli intellettuali
richiamavano ad una modernizzazione del Paese.
In quegli anni si erano ormai ben definiti i due schieramenti politici spagnoli: la destra, composta da i ceti
abbienti come i proprietari terrieri, gli imprenditori, i comandanti d’esercito e il clero che deteneva il
controllo di ogni decisione in ambito culturale come ad esempio l’istruzione; la sinistra, composta dalla
borghesia progressista, con un proletariato animato da forti correnti anarchiche, i contadini poveri.
Nel 1923 il re Alfonso di Borbone decise di spodestare il Parlamento per promuovere il governo dittatoriale
di Miguel Primo de Rivera, che seguiva le orme del fascismo italiano.
La Repubblica
Alle elezioni del 1931 si assistette ad una vittoria dei repubblicani che causò l’esilio del re e la
proclamazione della repubblica. Nelle elezioni successive si formò una coalizione tra repubblicani e
socialisti, i quali attuarono un ampio programma di riforme volte a modernizzare la Spagna. Nel 1933 le
elezioni videro il sopravvento della destra favorito dalla divisione politica della sinistra: gli anarchici si
astennero dal voto. Si aprì così un biennio caratterizzato da un governo reazionario e autoritario che sfasciò
tutte le riforme del governo precedente. Numerose furono le proteste di anarchici e socialisti represse nel
sangue: nessuna delle due fazioni era disposta al compromesso.
Le forze progressiste si riunirono, allora, nel Fronte popolare per sbarrare la strada al fascismo spagnolo:
comunisti, socialisti, anarchici, liberali, autonomisti. Il Fronte vinse contro le destre e si formò un governo
liberale con appoggio esterno dei liberali. La vittoria diede il segnale di una rivincita e scoppiarono
insurrezioni contro i ricchi proprietari terrieri, il clero, la destra: sembrò che fosse l’inizio di una rivoluzione.
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Falange nazionalista e Brigate internazionali
La destra reazionaria rispose a tali attacchi con un colpo di Stato ai danni del governo repubblicano che diede
avvio ad una sanguinosissima guerra civile protrattasi dal 1936 al 1939.
Truppe stanziate in Marocco, sotto la guida di Francisco Franco, mossero verso la Spagna repubblicana
aiutate prontamente dall’aviazione italiana e tedesca. Si costituiva la Falange nazionalista che comprendeva
varie organizzazioni filofasciste contro le Brigate internazionali che riunivano i combattenti antifascisti
provenienti da tutti i paesi.
Fin dall’inizio lo scontro apparve come una questione internazionale.
I repubblicani chiesero invano aiuto alla Francia. L’Inghilterra neanche si mosse. Decisero di non
intervenire!
La Germania e l’Italia parteciparono con mezzi militari ingenti.
I repubblicani furono soccorsi dall’Unione Sovietica che organizzò le brigate internazionali che videro
personalità come G. Orwell, S. Weil, E. Hemingway che descrisse la guerra nel celeberrimo Per chi suona la
campana. Parteciparono italiani Luigi Longo, Giuseppe di Vittorio e Pietro Nenni, andarono a combattere
con l’esercito repubblicano. Dalla parte repubblicana si schierarono, pur non combattendo direttamente,
personalità come Neruda, Beckett, Brecht, V. Woolf che sentirono il pericolo di una Spagna fascista.
La migliore organizzazione militare arrise la destra.
I partiti di sinistra non riuscirono ad avere il sopravvento sulla forza dell’esercito di Franco, la loro debolezza
militare era acuita, altresì, dalle divisioni interne tra comunisti filosovietici, troskisti, socialisti, anarchici.
Nella primavera del 1937 Franco, con l’aiuto dell’aviazione tedesca, ottenne il bombardamento di Guernica,
città dei Paesi Baschi, controllata dai repubblicani. Il bombardamento fu immortalato nel famoso dipinto di
Picasso divenuto un’icona contro la guerra in generale.
L’esercito di Franco, alla fine di marzo del 1939, occupò Madrid e Barcellona. Fu l’inizio della dittatura
durata fino al 1975.
Si concludeva quella che, per molti versi, sembrava una ‘prova generale’ della destra italo-tedesca, nel
silenzio delle grandi potenze ‘democratiche’.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
E. Hemingway, Per chi suona la campana, 1940
Film
Terra e libertà, K. Loach, 1995
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
~ I PRODROMI DELLA GUERRA
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L’appeseament, l'Asse Roma-Berlino e il Patto anti-Comintern
La svolta del Cominter e i fronti popolari
L’arrendevolezza della Gran Bretagna
L’annessione dell’Austria e l’aggressione della Cecoslovacchia
La Conferenza di Monaco
Mussolini vuole l’Albania
Il Patto Molotov-Ribbentrop
La Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale
~ 1939-1942
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I tedeschi a Parigi
L’Italia in guerra
La battaglia d’Inghilterra
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L’Italia in Africa e in Grecia
Gli americani tra isolazionisti e interventisti
Hitler invade l’Unione Sovietica, il Giappone attacca gli Stati Uniti
La guerra civile in Cina e l’attacco giapponese a Pearl Harbor
La Carta atlantica
L’Europa sotto il nazismo
~ 1943-1945
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La svolta di Stalingrado
La caduta del fascismo
L’armistizio con gli alleati
La Repubblica di Salò
Lo sbarco in Normandia
La Conferenza di Yalta e la resa della Germania
La guerra nel Pacifico
La Conferenza di Postdam
~ DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO
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La shoah
L’uso dell’atomica
I PRODROMI DELLA GUERRA
L'appeseament, l’Asse Roma-Berlino e il Patto anti-Comintern
La politica della Gran Bretagna, appoggiata pure dalla Francia, fu quella dell’appeasement (pacificazione),
ovvero del mantenimento della pace anche a costo di concessioni alla politica apertamente aggressiva della
Germania. Tale politica si rivelò assolutamente fallimentare giacché invece di mantenere la pace fu intesa
come un segnale di debolezza delle democrazie europee. Si lasciò che Hitler smantellasse l’ordine stabilito a
Versailles; che si armasse affinché potesse dar seguito ai sogni di costruzione della Grande Germania capace
di imporre un nuovo ordine mondiale.
Già dal 1933 Hitler avvia il riarmo ed esce perciò dalla Società delle Nazioni. Nel 1936 riportava le truppe
nella Renania.
Nel 1936, su proposta della preoccupata Francia, fu indetta la Conferenza di Stresa, a cui parteciparono
Francia, Gran Bretagna e Italia, proprio per discutere le violazioni tedesche. La Conferenza fu un fallimento
dal momento che si limitò ad una condanna meramente formale delle attività tedesche. Nella Conferenza
l’Italia si mantenne equidistante tra gli interessi inglesi e quelli tedeschi.
Intanto, l’inizio della guerra in Etiopia e le condanne della Società delle nazioni verso l’Italia fece si che essa
si spostasse più verso la Germania.
Nel 1936 venne firmato l’Asse Roma-Berlino che, inizialmente, non fu un patto militare – come sarebbe
stato tre anni dopo con il Patto d’acciaio - ma una comunione di intenti antibolscevichi.
Nel 1937 Roma aderiva al Patto anti-Comintern, ovvero all’alleanza politica tra Germania e Giappone
contro l’Unione Sovietica e l’Internazionale comunista. Il Patto, è, con tutta evidenza, in nuce l’alleanza
tripartita che si stipulerà più tardi. Già si disegna la volontà di una supremazia tedesca in Europa e
giapponese in Asia: all’Italia sarebbe andata una influenza sui paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La
firma del Patto coincise con l'aggressione nipponica alla Cina.
La svolta del Comintern e i fronti popolari
La politica estera della Germania e del Giappone allarmò ben presto l’Unione Sovietica. Nel 1934 l’URSS
ruppe il suo isolamento e decise di entrare nella Società delle Nazioni e di stringere un patto di alleanza con
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la Francia. Questa svolta indicò la volontà da parte di Stalin e del Partito comunista di affrontare il pericolo
nazifascista. Nel 1935 si decise di combattere i fascismi in un unico fronte, alleandosi con i partiti
democratici nei diversi paesi. Vennero creati i fronti popolari che saldassero, in un’unica coalizione, contro
tutte le organizzazioni fasciste, dai cattolici ai socialisti.
L’annessione dell’Austria e l’aggressione alla Cecoslovacchia
Il 13 marzo 1938, le truppe naziste entrano in territorio austriaco. Lo Stato austriaco cessava di essere
autonomo e veniva annesso alla Germania. L'Anschluss (annessione) dell’Austria passò nel silenzio generale
delle democrazie europee: Gran Bretagna e Francia non mossero un dito e non alzarono la voce. L’Anschluss
fece certo scalpore, ma la si ritenne inevitabile.
L’Austria era stata appena annessa alla Germania, quando, nel volgere di un battito, si profilava
l’aggressione tedesca alla Cecoslovacchia. Hitler voleva l’annessione degli industrializzati territori dei
Sudeti, dove erano presenti circa 3 milioni di tedeschi e una forte propaganda nazista. Nonostante la Francia
fosse impegnata con la Cecoslovacchia nel Tratto di Locarno, che la impegnava ad un intervento in caso di
aggressione, non mosse un dito e non alzò la voce.
Le democrazie europee, Gran Bretagna e Francia, anche questa volta, lasciarono che le cose accadessero
senza muovere un dito, senza alzare la voce contro Hitler.
La Conferenza di Monaco
Su proposta di Mussolini nel 1938, si tenne una Conferenza a Monaco per decidere il destino della
Cecoslovacchia. Quattro le potenze che si sedettero al tavolo delle trattative: Mussolini, Hitler, Chamberlain
e Daladier. Paradossalmente, mancava la Cecoslovacchia! Le richieste di Hitler furono tutte esaudite. La
Cecoslovacchia fu sacrificata sull’altare della pace. Pace apparente, giacché le mire di Hitler non furono
affatto sazie e l’accondiscendenza della Gran Bretagna e della Francia furono interpretate come codardia.
Infatti, poco dopo la conferenza, Hitler si spinse oltre: pose sotto il suo protettorato anche la Boemia e la
Moravia. La Slovenia si dichiarò indipendente e si pose sotto protezione tedesca. Si trattava di un’aperta
aggressione imperialistica ai danni di popolazioni estranee al mondo tedesco. Il 21 marzo 1939, infatti, la
Germania chiese alla Polonia la città di Danzica e la disponibilità della striscia di terra che univa quella città
con la Polonia (il corridoio polacco).
Solo l’occupazione tedesca di Praga fu il campanello d’allarme per la Gran Bretagna e la Francia, le quali
compresero che bisognava reagire alla Germania, in modo tale da arrestare la sua espansione.
Nel 1939, la Gran Bretagna dichiarò che sarebbe intervenuta in soccorso della Polonia qualora fosse stata
minacciata dalla Germania. Nel frattempo, Mussolini aveva lasciato alle sue spalle gli alleati della Prima
Guerra Mondiale, divenendo, così, uno strumento nelle mani di Hitler.
Mussolini vuole l’Albania
In questa mancanza di risposte concrete all’espansione tedesca, Mussolini pensò di poter approfittare
dell’indecisione di Gran Bretagna e Francia e decise di occupare l’Albania e di rivendicare versus la Francia:
Tunisia, Nizza, Savoia, Corsica e Gibuti.
Il 22 maggio 1939, l’Italia firma con la Germania il Patto d’Acciaio, ovvero un vero e proprio trattato
militare con cui l’Italia si impegnava a scendere in guerra senza riserve al fianco dell’alleato. Il patto fu
firmato con una certa superficialità italiana che aveva fretta di usare l’alleanza in funzione anti-francese e che
non si preoccupò di capire fino in fondo gli intenti di Hitler che, di lì a poco, avrebbe portato l’Italia in
guerra.
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L’Italia risultava, oggettivamente, impreparata ad una guerra! Le differenze tra l’imperialismo tedesco e
quello italiano erano evidenti: quello tedesco era evoluto sia dal punto di vista ideologico che militare ed
adeguato, nei mezzi ad affrontare la prospettiva di una guerra aggressiva.
Il Patto Molotov-Ribbentrop
Il 23 agosto 1939 a Mosca, Molotov, collaboratore di Stalin, e Ribbentrop, ministro degli esteri tedesco,
sottoscrissero un patto di non aggressione tra URSS e Germania. I Sovietici hanno sempre sostenuto che
furono le incertezze delle democrazie occidentali nel contrastare Hitler e le continue annessioni al territorio
tedesco a spingere l’Unione Sovietica a proteggersi contro la Germania e le sue mire espansionistiche. Il
Patto Stalin-Hitler stabiliva:
- le aree di influenza sugli Stati cuscinetto tra Germania e URSS;
-la spartizione della Polonia;
- l’occupazione delle Repubbliche baltiche da parte sovietica.
La Germania invade la Polonia: scoppia la Seconda guerra mondiale.
L’1 settembre del 1939 Hitler attacca la Polonia.
Quando la Germania decise di attaccare la Polonia, Mussolini, proprio per l’impreparazione militare, con il
consenso di Hitler, si tirò indietro dalla pugna dichiarando la non belligeranza dell’Italia.
Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania: la Seconda guerra mondiale era
formalmente iniziata!
Il giorno precedente all’invasione della Polonia, Hitler disse ai suoi generali che l’unica cosa importante era
la vittoria, non si doveva avere pietà dei nemici perché 80 milioni di tedeschi dovevano ottenere ciò che gli
spettava di diritto. La Polonia si batté valorosamente e la sua cavalleria compì una difesa commovente, ma
nulla potettero contro i carri armati tedeschi. La Polonia capitolò in tre settimane e fu costretta alla resa.
1939-1940
I Tedeschi a Parigi
Il 17 settembre entra in guerra anche l’Unione Sovietica che, sulla scorta del Patto Molotov-Ribbentrop,
rivendica e occupa i territori orientali polacchi. La Polonia è così dilaniata tra tedeschi e sovietici. Ancora, i
sovietici occupano la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, da Stalin considerati stati cuscinetti indispensabili per
la sicurezza del suo Paese. Fu la Finlandia a fermare i sovietici.
Il 9 aprile 1940, Hitler occupò improvvisamente la Danimarca e la Norvegia, che furono in breve annesse
all’impero tedesco.
In Gran Bretagna, il governo di Chamberlain fu sostituito, a causa della sua evidente incapacità politica, dal
conservatore Winston Churchill che in precedenza aveva segnalato il pericolo nazista e le mire del 'signore
della guerra'.
Il 10 maggio, le truppe tedesche danno il via all’operazione Fall Gelb (caso giallo) invadendo l’Olanda e il
Belgio, cosicché la difesa francese, costituita dalla ‘Linea Maginot’ (fortificazioni militari lungo la frontiera
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orientale con la Germania) fu, semplicemente, aggirata e l’esercito tedesco poté puntare dritto su Parigi. Il 14
giugno i nazisti erano a Parigi!
I nazisti controllavano la Francia settentrionale, compresa Parigi, mentre il governo collaborazionista di
Pétain si trasferiva a Vichy, comunque sotto il controllo tedesco. In opposizione a tale governo, si pose fin da
subito Charles De Gaulle che da Radio Londra chiamò i Francesi alla resistenza contro l’esercito
d’occupazione.
Anche l’Italia proclamò guerra alla Francia, ma la sua impreparazione militare gli permise d’avanzare
soltanto per qualche chilometro in territorio francese.
La guerra lampo di Hitler prevedeva un uso massiccio di carri armati e stukas (aerei da picchiata): una
rapidità d’azione tale da spiazzare il nemico e non dargli possibilità di riprendersi.
La Francia fu schiacciata, umiliata in venti giorni! Pierre Laval, uno dei capi del governo collaborazionista
francese, riteneva che la vittoria tedesca fosse preferibile e necessaria per evitare una Parigi bolscevica.
L’Italia in guerra
Le diplomazie internazionali si adoperarono affinché l’Italia restasse fuori dal conflitto mondiale, nella
fattispecie le democrazie inglese, francese, statunitense. Badoglio avvertì dell’impreparazione dell’esercito.
Nonostante ciò, Mussolini fu irrevocabile! Abbagliato dalle strepitose vittorie dell’alleato e dalla rapidità dei
successi, temette addirittura che la guerra potesse durare troppo poco. Il crollo repentino della Francia gli
sembrò una iattura che avrebbe lasciato l’Italia senza gloria e, soprattutto, senza nulla da spartire.
Mussolini ritenne che la guerra sarebbe durata poco. Decise ‘eroicamente’ di catapultarsi nell’avventura per
partecipare al banchetto finale: “Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti – disse Mussolini – per
potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative”.
Il 10 giugno 1940, Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, annunciava l’entrata in guerra
dell’Italia per sconfiggere “le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente”: Gran Bretagna e
Francia!
L’Italia entrò in guerra come anestetizzata.
La battaglia d’Inghilterra
Dopo aver occupato la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio e la Francia, la Germania
decise di procedere con un’operazione che venne denominata “Leone marino” che prevedeva l’invasione
dell’Inghilterra. Un ruolo di primo piano avrebbe dovuto assolvere l’armata aerea (Luftwaffe) guidata da
Herman Göring. Notevoli furono i bombardamenti tedeschi sulle città industriali e su Londra ma le truppe
inglesi disponevano di aerei più veloci e, soprattutto, radar capaci di intercettare gli aerei tedeschi
impedendogli di raggiungere gli obiettivi. Il 17 settembre 1940 l'operazione 'Leone Marino' fu accantonata.
La guerra contro l’Inghilterra allora si spostò cercando di attaccare i suoi dominions: da una parte si tentò
con la guerra sottomarina di rendere difficili i commerci inglesi, dall’altra si intervenne massicciamente in
Africa. La guerra sottomarina risultò di una qualche efficacia, ma il prezzo che pagò la Germana in
sommergibili fu elevato.
Per intraprendere la conquista dell’Africa, Hitler avrebbe voluto l’appoggio della Spagna, ma Franco si
rifiutò di correre in suo aiuto.
L’Italia in Africa e in Grecia
92
L’Italia, intanto, combatteva in Libia. Dopo qualche iniziale successo in Africa, gli italiani dovettero cedere
alla controffensiva inglese. E il 5 maggio gli inglesi occupavano Addis Abeba.
I problemi per gli italiani erano appena cominciati. La situazione italiana peggiorò quando Mussolini decise
improvvisamente di invadere la Grecia. Anche qui gli italiani registrarono una impreparazione logisticamilitare. I greci resistettero e poi passarono all’offensiva occupando parte dell’Albania italiana. Le sorti
italiane cambiarono di segno quando intervenne l’esercito tedesco: attaccati al Nord dagli italiani e al Sud dai
tedeschi, i Greci furono costretti alla resa.
Il 27 settembre 1940, prima dell’attacco alla Grecia, Germania, Italia e Giappone si erano riuniti per firmare
a Berlino il Patto Tripartito attraverso il quale i tre paesi si dividevano le sfere d’influenza: alla Germania
sarebbe spettata l’Europa continentale, all’Italia il Mediterraneo e al Giappone l’Asia. Il sogno di Hitler della
“grande Germania” sembrava avverarsi.
Hitler decise di mandare in Libia uno dei più furbi e geniali generali della Seconda guerra mondiale, Erwin
Rommel: la “volpe del deserto”. Col suo arrivo la situazione si capovolse: i tedeschi occuparono Bengasi e
gli Inglesi furono costretti a ritirarsi.
Gli americani fra isolazionisti e interventisti
Era stato eletto alla presidenza degli USA, per la terza volta consecutiva, Franklin Delano Roosevelt che
aveva dichiarato la neutralità del suo paese e contrarietà a concedere prestiti. Roosevelt preferiva una politica
di tipo isolazionistico. L’Europa si presentava, agli occhi degli Stati Uniti, come un ginepraio di problemi da
cui era saggio e conveniente tenersi lontani. L’Europa era lontana e non c’era nulla da temere, anche se i
carri armati tedeschi avessero preso l’intero continente, compresa la vecchia madrepatria.
Inoltre, opportunisticamente, era sempre possibile aspettare che si scannassero nazisti e comunisti per poi
intervenire e dettare la pace.
Gli interventisti erano di parere contrario. Bisognava intervenire. Gli USA erano potenza mondiale e
dovevano far sentire la loro potenza nel mondo. Bisognava intervenire finché non fosse troppo tardi, finché
Hitler non avesse l’Europa ai suoi piedi e ai suoi ordini. Trattare con un partner europeo nazificato non
avrebbe giovato alle esportazioni statunitensi.
Roosevelt si mosse con cautela fra queste due correnti ma, tendenzialmente, egli operò in maniera tale da
favorire la resistenza inglese. Nel marzo del 1941, il Congresso Americano emanò la Land-lease act (Affitti e
prestiti), con la quale il presidente poteva prestare, vendere o affittare materiali a tutti i paesi che si
ritenevano necessari per la difesa degli interessi americani. Si aiutarono così, di fatto, quei paesi impegnati
contro Hitler. La Gran Bretagna, la Cina, l’URSS poterono usufruire di tale legge senza l'assillo dei
pagamenti e il peso delle riparazioni, che avevano avvelenato i rapporti internazionali nel primo dopoguerra.
Hitler invade l’Unione Sovietica
L’esercito tedesco, il 22 giugno 1941, mise in atto il ‘’piano Barbarossa”. Hitler dava seguito al suo vecchio
sogno di invadere l’Unione Sovietica già caldeggiato nel Mein Kampf.
La Germania aveva bisogno di ulteriore spazio vitale. L’impero germanico esteso su tutta l’Europa avrebbe
dovuto garantire, innanzitutto ai tedeschi, un alto livello economico e poi, agli stessi popoli d’Europa, un
buon tenore di vita affinché le stesse fondamenta del comando tedesco non fossero mai messe in discussione.
Mantenere l’impero avrebbe richiesto risorse! Hitler mirava alle pianure di grano che avrebbero fatto
dell’URSS il ‘granaio d’Europa’; ai minerali di ferro del Donetz; al petrolio di Baku.
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Hitler pensò che l’Unione Sovietica sarebbe caduta nel giro di poco tempo come la Francia. Non lo
preoccupò nemmeno la partita che stava giocando con l’Inghilterra, che pensava di chiudere presto a suo
favore.
Per la grande impresa Hitler scaraventò sull’Unione Sovietica la cifra gigantesca di tre milioni di soldati: le
divisioni corazzate, l’aviazione, ecc. L’urto fu tremendo! Alla ‘tattica a tenaglia’ tedesca, che consisteva nel
formare enormi sacche entro le quali cadevano le truppe dell’Armata rossa, i sovietici risposero con la tattica
della ‘terra bruciata’: la stessa - mutatis mutandis - adottata contro Napoleone.
L’esercito tedesco riuscì a penetrare fin presso Leningrado, Stalingrado e Mosca, ma non fu abbastanza
rapido da chiudere la partita prima che l’inverno russo facesse capolino e fermasse l’avanzata inarrestabile.
La guerra lampo dovette sbattere contro le porte dell’inverno.
La guerra civile in Cina e l’attacco giapponese a Pearl Harbor
Il Giappone aveva intenzioni espansionistiche in Asia. Già nel 1937 il Giappone voleva sottomettere
interamente la Cina: Shangai e Nanchino erano già sotto il suo controllo. La Cina, inoltre, era in una guerra
civile: si combattevano forze borghesi che facevano riferimento a Chiang Kai-Shek e forze comuniste che
volevano instaurare una dittatura comunista sulla falsariga sovietica. In un primo tempo, Chiang Kai-Shek
sconfisse l’esercito comunista che però si ritirò iniziando quella che passerà alla storia come la Lunga
marcia. La guerra che il Giappone condusse contro la Cina, fece sì che vi fosse un momentaneo
riavvicinamento tra Chiang Kai-Shek e i comunisti di Mao Zedong, che organizzarono un’efficace
resistenza.
La conquista della Cina poteva essere risolta nel più vasto quadro della conquista sudorientale, ma ciò
comportava inevitabilmente uno scontro con Gran Bretagna e USA.
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre del 1941, senza preavviso, gli aerei giapponesi attaccarono la flotta
americana in rada a Pearl Harbor, nelle isole Hawaii: furono distrutte tre corazzate, tre cacciatorpediniere,
250 aerei e morirono 5.000 uomini.
L’8 dicembre Roosevelt dichiarava guerra al Giappone, mentre Germania e Italia dichiaravano guerra agli
Stati Uniti.
La Carta atlantica
Il 14 agosto del 1941, prima dell’attacco da parte del Giappone, Roosevelt, Churchill e Stalin avevano
sottoscritto la Carta atlantica che sanciva: Gran Bretagna e Stati Uniti non avevano scopi espansionistici;
tutti i popoli erano liberi di scegliere la forma di governo che volevano; tutti i popoli godevano di libero
accesso alle materie prime e ai commerci necessari per la prosperità economica del paese; i mari erano liberi;
si doveva costruire un organismo di sicurezza internazionale che avrebbe evitato il ricorso alla forza nei
rapporti tra le nazioni.
1943-1945
La svolta di Stalingrado
Il 19 novembre 1942 rappresentò un punto di svolta nella Seconda guerra mondiale: i Sovietici liberarono
Stalingrado dall’assedio, liquidando l'arma tedesca del feldmaresciallo Friedrich von Paulus. Il colpo fu
cocente e da qui in poi le sorte della guerra prenderanno un’altra piega. I tedeschi subirono numerose perdite:
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duecentomila furono i morti e centomila i prigionieri. L’ARMIR, l’Armata italiana in Russia, impegnata sul
fronte del Don con 230.000 uomini, seguì la stessa tragica sorte: 85.000 uomini tra morti e dispersi.
Nel 1943 anche Leningrado venne liberata. Nell’agosto del ’44, i Sovietici avevano ormai occupato la
Romania, la Bulgaria, la Slovacchia orientale e la Jugoslavia. L’Armata rossa dilagava!
In Africa, Rommel, la “volpe del deserto”, con le sue truppe era giunto fino ad el Alamein, a ottanta
chilometri da Alessandria d’Egitto, ma, nell’ottobre del 1942, il generale inglese Bernard Law Montgomery
aprì il fuoco sulla linea del fronte tedesco-italiano che iniziò dopo durissime battaglia a ripiegare. Ad el
Alamein gli Inglesi ebbero la meglio in quanto dotati di maggiore numero di aerei, maggior numero di mezzi
e maggiore disponibilità di carburante rispetto ai tedeschi ed agli italiani.
L’8 novembre del 1942, comincia la controffensiva degli Anglo-americani che giunsero in Algeria e in
Marocco.
L’anno seguente anche la Tunisia veniva liberata.
Gli Anglo-americani controllavano tutto il mediterraneo.
Il 9 luglio 1943 sbarcarono in Sicilia dove vennero accolti come liberatori. La caduta del fascismo era vicina!
La caduta del fascismo
Lo sbarco alleato in Sicilia suonò come una campana a morto per il fascismo. La guerra lampo si era
trasformata in una lunga e disastrosa esperienza sui diversi campi. Il fascismo aveva catapultato l’Italia in
un’avventura che lasciava esangui.
Già dall’inverno del ‘42-43 il fascismo appariva come una struttura organizzativa e una forma politica che
non aveva più consenso nel Paese.
A suggellare questa mancanza, l’inverno del 1943 vide il riorganizzarsi del movimento operaio il quale, pian
piano, riprendeva dalle lotte economiche sindacali. Gli operai che rialzavano la testa: fu più che un
campanello d’allarme per il fascismo che guardò sgomento come anni di corporativismo non avessero ancora
estinto la conflittualità di classe.
Il fascismo, che pure aveva avuto notevoli punte di consenso nel Ventennio - fino all’impresa etiopica del
’36 -, aveva iniziato a perderlo pian piano: la curvatura verso la Germania, le leggi razziali, il Patto d’Acciaio
e le stesse sorti della guerra che, ovunque, rilevava impreparazione militare.
Il 15 maggio - prima dello sbarco in Sicilia - il re Vittorio Emanuele III aveva comunicato a Mussolini che
era necessario pensare al modo di sganciare il destino dell’Italia da quello della Germania. Bisognava salvare
il salvabile e la monarchia!
Il 19 luglio del 1943, Roma subiva il primo bombardamento.
Il 24 luglio venne riunito il Gran consiglio del fascismo che terminò il giorno dopo. Mussolini venne messo
in minoranza e si presentò dal re che gli comunicò di considerarsi dimissionario e che il suo successore era
Badoglio. All’uscita da villa Savoia, Mussolini fu arrestato. Stranezze della storia… la monarchia aveva dato
le chiavi del Parlamento a Mussolini, ora gliele toglieva sistemandolo in gattabuia. Con tutta evidenza la crisi
politica del fascismo fu pilotata dall’alto, nel tentativo di conservare la monarchia.
Quando la notizia della destituzione di Mussolini venne resa pubblica si diffusero scene di entusiasmo, i
fascisti gettarono i loro distintivi, la milizia evaporò.
L’armistizio con gli alleati
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Il maresciallo Badoglio, al capo del nuovo governo, entrò in contatto con gli alleati e il 3 settembre 1943
firmò l’armistizio a Cassibile (Siracusa), che improvvidamente fu reso noto l’8 settembre senza aver
preparato un piano per far fronte all’esercito tedesco sia sul territorio italiano che negli scenari esteri. Lo
sbando fu totale! Come si poteva prevedere, l’esercito tedesco, venuto a conoscenza dell’armistizio, attaccò
tutti i reparti militari italiani.
In Corsica gli italiani si unirono agli alleati. A Cefalonia, in Grecia, la resistenza italiana contro i tedeschi fu
eroica, ma, alla fine, tutta la guarnigione fu passata per le armi.
A Napoli la popolazione insorse contro l’occupante e, dopo quattro giornate di lotta, i tedeschi dovettero
abbandonare le falde del Vesuvio.
Il re, la famiglia ed il governo abbandonarono Roma e fuggirono verso Pescara per poi proseguire verso
Brindisi, dove Badoglio costituì il primo governo nazionale della liberazione.
La Repubblica di Salò
Il 12 settembre 1943, su ordine di Hitler, Mussolini venne liberato grazie a dei paracadutisti che scesero sul
Gran Sasso d’Italia in suo soccorso. Hitler consentì che Mussolini istituisse una Repubblica sociale italiana
o Repubblica di Salò, dal nome del paese sul lago di Garda dove si instaurò il governo: uno stato fascista nel
Nord Italia. Molti storici hanno messo in evidenza come il Mussolini di Salò fu un Mussolini “patetico,
tragico” (G. De Rosa) e ciò perché, ormai, l’esperienza fascista era stata archiviata dalla storia, volerla
riproporre, non poté che essere una farsa!
Mussolini cercò anche di radicare la restaurazione del fascismo con tre analisi della situazione storica:
1) La monarchia aveva tradito! Bisognava allora ritornare alle origini, al Programma di san Sepolcro e
instaurare la Repubblica;
2) Bisognava altresì ritornare al fascismo ‘sociale’ impegnato tra le masse;
3) Bisognava riorganizzare l’esercito e riprendere la guerra al fianco della grande Germania di Hitler.
L’analisi politica era del tutto sbagliata e le condizioni storiche erano tali che i repubblichini non fecero che
rendere più dolorose le doglie del parto: la liberazione dal nazi-fascismo.
Risulta evidente come la Germania caldeggiò la Repubblica; la si instaurò con la protezione dei carri armati
tedeschi; e la si usò come una copertura collaborazionista per l’occupazione tedesca.
Lo sbarco in Normandia
Alla fine del 1943, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Teheran e decisero di aprire un secondo fronte
in Europa, spostando quindi la guerra nel centro dell’Europa: in Germania.
Il 6 giugno del 1944, tale scelta strategica si realizzava con lo sbarco in Normandia. Al comando del generale
Dwight Eisenhower si mosse un esercito poderoso: fu impiegata una flotta di 1200 navi e più di un milione di
uomini.
I Tedeschi si aspettavano un attacco da parte degli alleati, ma non erano a conoscenza né del luogo dello
sbarco, né della data. Insomma, lo sbarco risultò un potente attacco a sorpresa che fu accanitamente
contrastato dai tedeschi. Essi però dovettero infine soccombere.
Intanto, in Francia il 19 agosto Parigi insorse. Il 26 De Gaulle entrava nella capitale e a metà settembre, la
Francia era liberata dall’occupazione tedesca.
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I tedeschi registravano, ormai, una serie di sconfitte su più fronti e i Sovietici minacciavano direttamente
Berlino.
La Conferenza di Yalta e la resa della Germania
Nel febbraio del 1945 i tre grandi si riunirono a Yalta per decidere dell’attacco finale alla Germania: un
assedio finale che avrebbe circondato la Germania senza dargli via di scampo.
Si trattò di un attacco terribile: le città tedesche si sgretolavano sotto atroci bombardamenti. A Dresda, sotto
un bombardamento, morirono ben 200.000 persone.
Hitler, nel bunker della cancelleria, lanciò un ultimo appello: “Mai i Russi a Berlino”. Ignorava che i
Sovietici, al comando del generale Zukov, fossero già lì.
I Sovietici a Berlino ingaggiarono una lotta strenua: un corpo a corpo che contese la città palmo a palmo. I
soldati dell’Armata rossa mandavano avanti mandrie di buoi nelle strade minate per aprirsi dei larghi: si
combatté per le strade, nelle case, nelle fogne.
Quando i Sovietici si avvicinarono al bunker, il 30 aprile, Hitler si suicidò. La resa della Germania fu firmata
il 7 maggio a Reims e ratificata l’indomani a Berlino.
La seconda guerra mondiale, in Europa, era finita. Proseguiva nel Pacifico nonostante la chiara inferiorità
nipponica.
La Germania aveva confidato in una guerra lampo: nella incapacità politica delle democrazie occidentali di
decidere in tempi brevi, aveva sottovalutato la resistenza sovietica, la tecnologia e la produttività
statunitense. Il sogno di imperare su tutta l’Europa era tragicamente svanito.
La guerra nel Pacifico
La potenza nipponica, approfittando dello sforzo alleato contro la Germania, riuscì ad espandere la propria
influenza e ad aggredire i possedimenti inglesi e francesi nel Pacifico. Le vittorie nipponiche furono dovute
sia alla strategia militare che attuò una sorta di guerra lampo, sia al consenso delle popolazioni che li vedeva
come liberatori dalla dominazione occidentale. Non ci volle molto tempo per rendersi conto che i Giapponesi
erano il nuovo governo oppressivo!
L’inarrestabile ascesa militare giapponese iniziò a rallentare dal 1942, quando gli americani intensificarono
gli sforzi militari. Nel 1944, finì sotto il controllo americano l’isola di Saipan che distava dal Giappone solo
2.500 chilometri e che portava il Giappone nel raggio di azione degli aerei americani. L’ammiraglio Naguno
e il generale Saito si tolsero la vita dopo che la resistenza a Saipan fu schiacciata. Gli Americani assistettero
a scene mai viste: i 20.000 abitanti dell’isola s’abbandonarono al suicidio di massa pur di non cedere
all’invasore americano.
Altro aspetto della cultura nipponica, che sembrava sconcertante, erano i kamikaze: i piloti nipponici che per
colpire obiettivi vi si gettavano con carichi di bombe.
Nel 1944 ebbe luogo anche la battaglia di Leyte, che riportò le Filippine sotto il controllo americano.
Nel 1945 gli americani sbarcarono a Okinawa. Il Giappone era ormai sotto i bombardamenti americani.
La Conferenza di Postdam
Nel luglio 1945, i “tre grandi” si riunirono di nuovo a Potsdam, nei pressi di Berlino. Il presidente Truman
prese il posto di Roosevelt morto nel frattempo.
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Si decise il disarmo, la denazificazione della Germania, la punizione dei criminali di guerra e la liquidazione
dei grandi trust che avevano alimentato la guerra.
A Truman arrivò la notizia che nel deserto del nuovo Messico era stata ‘provata’ con successo l’atomica. Il
presidente americano comunicò la notizia a Stalin che pare non capì la portata dell’evento. La
“denazificazione” della Germania e la liquidazione dei beni, i quali avevano portato in alto l’industria
tedesca degli armamenti, appartenevano ormai ai capi di stato vincitori della guerra in Europa.
DUE FONDI DIS-UMANI DEL NOVECENTO
La shoah
10.000.000 milioni di persone morirono nei campi di concentramento hitleriani. Nei lager nazisti finirono
oppositori politici comunisti e socialisti, ma anche zingari, omosessuali, disabili, malati mentali, ecc.
La teoria della razza fu il nocciolo di una visione di un mondo perfetto dove la materia, biologicamente
inferiore, doveva essere scartata per dare spazio alla “razza padrona germanica”.
La legge sulla sterilizzazione “eugenetica” del 1933 e l’Operazione Eutanasia, del 1940-41 sembrano voler
realizzare il miglioramento della razza a cui allude la Repubblica di Platone che le SS, da bravi scolari,
portavano nello zaino.
Dei 10.000.000 di morti nei lager, ben 6.000.000 furono vittime della teoria razzista che annoverava gli ebrei
come sottouomini (Untermensch).
La persecuzione si snodò in tre fasi distinte.
La prima fase, dal 1933 al ’35, fu contraddistinta da una violenta propaganda antisemita e dal decreto di
espulsione dei dipendenti pubblici non ariani (7 aprile, 1933).
La seconda fase, dal 1935 al ’38, è, invece, caratterizzata, dalle leggi di Norimberga (settembre, 1935) con
cui si escludono gli ebrei dalla nazione, alla ‘notte dei cristalli’ dove vanno in frantumi, assieme alle vetrine
dei negozi ebrei, le ultime speranze di contenere la follia.
Infine, la terza fase si caratterizza come la realizzazione dello sterminio, del genocidio, la “soluzione finale
della questione ebraica”: a) si iniziò nel 1941, con la penetrazione in URSS quando le SS avevano il compito
di rastrellare e uccidere sul posto gli ebrei; b) e, a partire dal 1942, ebbe inizio la deportazione nei lager.
Non solo i nazisti, ma anche i fascisti italiani hanno dato il loro macabro apporto a questa follia iniziando
con l’emanazione delle Leggi razziali del 1938, poi inasprendo le violenze con la Repubblica di Salò quando,
nel novembre del 1943, fu dato ordine che tutti gli Ebrei fossero internati in campi di concentramento per poi
essere avviati verso i Lager tedeschi.
Due i campi tristemente famosi: Fossoli (Mo) e la Risiera di san Sabba (Ts). Non mancò nemmeno un campo
di concentramento in Libia a Giado per rinchiudervi gli Ebrei libici.
La storia, nella sua lunga scia di sangue, ha spesso incontrato follie che ha contrapposto gruppi che hanno
usato violenza verso oppositori, nemici e anche sottomesso altri con l’idea della superiorità fisica, culturale,
ecc.
Ciò che fa la cifra della shoah è il numero! Ciò che annichilisce e disegna un tratto fondamentale dell’orrore
dei campi di concentramento, è la quantità che diventa qualità - come la dialettica hegeliana insegna. Il
tratto che segna un oltre-passamento, una dis-proporzione è esattamente il numero. Ad un certo grado il
numero si trasforma in un cambio qualitativo e la ‘normale’ follia umana della guerra e della violenza si
trasforma in orrore in un fondo dis-umano.
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Qui, il numero indica un cambio qualitativo!
La follia che striscia nel corso della storia spunta nel Novecento come un cataclisma: puro orrore! La
differenza con la barbarie, la violenza precedente, è nel processo tecnico, nella industrializzazione della
morte, nel procedimento ‘fordistico’ applicato allo sterminio di un popolo. Il processo tecnico scompone
l’azione, la parcellizza in maniera tale che la responsabilità evapora. E’ la divisione sociale del lavoro della
morte. Ognuno assolve ad un piccolo segmento di un processo che dal rastrellamento porta ai treni, ai campi
e, infine, ai forni crematori e camere a gas. Questo processo fece sì che semplici burocrati, uomini mediocri
si macchiassero di crimini contro l’umanità. Uomini semplici la cui coscienza critica era ormai annichilita.
La banalità del male di H. Arendt registra bene questo aspetto.
I carri armati russi per prima aprono i campi di concentramento (Auschwitz, 27 gennaio 1945), poi gli
Americani documentano. Il processo di Norimberga porta a galla il lavoro, la perizia, la tecnica attraverso cui
bisogna necessariamente passare affinché l’idea – volatile per sua natura - diventi realizzazione: l’idea della
‘soluzione finale’ diventi ‘corpo’. I corpi sono pesanti, ingombranti, refrattari, più difficili da trattare delle
idee: materia biologica che deve essere smaltita! Milioni di corpi, montagne, per essere eliminati hanno
bisogno di registri, calcoli, ecc… e di una vasta rete di lavoro: operazione tecnica complessa che richiese una
fitta rete di snodi, di gangli diversamente articolati, di diversa importanza e funzione che facessero affluire
un popolo nel buco dell’oblio.
Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen e Dachau, i gangli più grandi, risuonano come snodi funesti della
storia del Novecento: come fondo della storia! Furono 900 i lager destinati esclusivamente alla “soluzione
finale della questione ebraica” in Austria, Cecoslovacchia e nella stessa Germania sotto il ferreo controllo
delle SS. I lager erano costruiti meticolosamente lungo le linee ferroviarie per facilitare in termini di mobilità
il flusso della morte. I lager erano il terminale di una lunga filiera che partiva dal semplice rastrellamento,
allo stoccaggio del prigioniero, alla stazione di partenza, al riempimento dei vagoni blindati, ecc. Una rete
meticolosa e agghiacciante copriva l’Europa.
L’uso dell’atomica
Il 6 agosto 1945, alle 8:16 (ora locale) una bomba atomica venne sganciata su Hiroshima provocando 80
mila morti e altrettanti feriti che morirono poco dopo a causa delle gravi ustioni: 65mila edifici su 90mila
distrutti.
Il 9 agosto, alle 12:02 una seconda bomba atomica venne sganciata su Nagasaki causando 40 mila morti e 70
mila ustionati. Lo stesso giorno l’URSS dichiarava guerra al Giappone e 5 giorni dopo, il 14 agosto,
l’esercito nipponico si arrendeva: la resa fu firmata a bordo della corazzata americana Missouri ancorata
nella baia di Tokyo.
Il nuovo ordigno militare messo appunto nei laboratori di Los Alamos (Nuovo Messico), a cui avevano
partecipato centinaia di scienziati, era fin dall’inizio un tabù. Il grande tabù atomico!
L’atomica fu vissuta fin dall’inizio come un tabù per almeno tre ragioni:
a) Per la prima volta l’uomo penetrava i segreti dell’atomo, un infinitamente piccolo che sprigionava
una potenza inaudita. C’era la consapevolezza che si toccavano strutture elementari quanto possenti
e imprevedibili della natura, che impauriva lo stesso stregone che ne suscitava le forze;
b) Nella violenza irrefrenabile di un conflitto si poteva ancora scorgere l’idea e la norma di due eserciti
l’un contro l’altro armato. C’era ancora qualcosa che la mente umana riconosceva come perverso ma
umano; c’era ancora l’idea di ‘misura’;
c) Lo strumento bellico aveva ancora le sembianze di uno strumento di guerra ancorché
tecnologicamente avanzato e il cui uso aveva un effetto ‘limitato’.
L’atomica è subito la dis-misura! Il superamento di un limite! Un oltre-passamento! Una dis-proporzione!
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a) Da subito fu chiaro che s’era alle prese con qualcosa di imponderabile, non solo per ciò che
riguardava l’immediatezza dell’esplosione e l’impatto sulla popolazione civile, quanto a lungo
termine ossia sull’acquisizione tecnologica della bomba da parte di altri paesi e sull’inevitabile e
imprevedibile escalation storica nella sua costruzione;
b) L’uso dell’atomica non poteva essere contenuto entro limiti militari. Non si trattava più di colpire un
nemico ma di colpire indistintamente una popolazione: donne, vecchi, bambini, infermi, civili inermi
come mai prima. Una città è un organismo molto diverso che uno squadrone di cavalleria o di carri
armati;
c) Infine, il potenziale distruttivo dell’atomica segna un salto quantitativo che diventa qualitativo. Con
l’atomica la quantità diventa qualità – per riprendere di nuovo il buon vecchio Hegel! Lo strumento,
per la prima volta nella storia umana, è potenzialmente capace non di annientare un gruppo, una
popolazione ma lo stesso genere umano. Lo strumento cioè non è strumento di una azione ma ha la
potenza ‘illimitata’ di annichilire qualsiasi azione.
Per queste ragioni, l’uso dell’atomica è fin dall’inizio un tabù e il suo uso è l’inizio di un nuovo limite. In
questo senso l’uso di un’arma di distruzione di massa come la bomba atomica è qualificabile come un
crimine contro l’umanità.
Perciò, insieme alla shoah l’uso dell’atomica rappresenta l’altro fondo raggiunto nel Novecento!
Era necessario l’uso dell’atomica?
Il grande fisico A. Einstein si mostrò nell’occasione di essere anche un uomo capace di pensare in grande,
con consapevolezza, accortezza, con saggezza per quanto gli elementi del problema erano già inficiati nella
stessa premessa. Einstein pronunciò un netto parere contrario a sganciare la bomba su una città giapponese.
Secondo lui bisognava innanzitutto sganciare su un’isola deserta a scopo dimostrativo affinché il Giappone
potesse capirne il potenziale d’orrore. Nel caso in cui il Giappone non si fosse arreso, bisognava allora
prospettare concretamente l’utilizzo della bomba sul territorio all’ONU (Organizzazione della Nazioni
Unite). In questo modo, Einstein intendeva strappare l’uso concreto dell’ordigno ad una sola nazione e
consegnare la decisione al consesso di tutte le nazioni affinché tale atto estremo fosse condiviso e davvero
necessario. Era il meglio che si potesse pensare nell’ambito di un problema che la propaganda americana
impostava nei termini di necessità militare, fine della guerra e risparmio di vite umane.
Era necessario l’uso della bomba?
Fu fatto credere che il Giappone non si sarebbe mai arreso!
Fu fatto credere che bisognava risparmiare vite americane che si sarebbero perse in una invasione del
Giappone: le cifre che Truman usò lievitarono geometricamente negli anni fino al milione di uomini!
Fu fatto credere che si sarebbero colpiti, intelligentemente, città militari importantissime.
In verità a rendere più amara la questione è che, da documenti a lungo rimasti segreti, si è appreso che gli
americani sapevano benissimo che il Giappone era in ginocchio, stremato e che si sarebbe arreso
immediatamente se avesse ricevuto una proposta che non li avesse umiliati e mortificati nei simboli della sua
cultura come ad es. l’imperatore considerato un dio in terra. Non sfugge nemmeno come la sola
dichiarazione di guerra dei sovietici al Giappone li avrebbe terrorizzati e fatti arrendere all’istante.
Dunque? Gli americani vollero chiudere la partita della Seconda guerra mondiale in fretta in modo da sedersi
al tavolo della pace con un forte potere contrattuale.
Bisognava assolutamente chiudere la guerra e arrestare l’avanzata dell’Armata rossa che dilagava in Europa:
mezza Europa era sotto i carri armati sovietici che macinavano chilometri. Bisognava, altresì, far finire
immediatamente la guerra per evitare che l’URSS spostasse la sua forza militare in Giappone e potesse, così,
accampare pretese nel Sud-est asiatico.
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La questione non è il Giappone. Hiroshima e Nagasaki sono l’agnello sacrificale al tavolo della nuova
spartizione del mondo. Un monito all’URSS a fermare i carri armati. Un annuncio che gli USA sono la più
forte potenza militare del pianeta padroni della scienza dell’atomo!
In questo senso, Hiroshima e Nagasaki sono il primo atto di ciò che chiameremo ‘guerra fredda’!
BIBLIOGRAFIA
Libri
H. Arendt, La banalità del Male, 1963
P. Levi, Se questo è un uomo, 1947
K. Hayashi, Nagasaki, 2015
Film
Roma città aperta, R. Rossellini, 1945
Salvate il soldato Ryan, S. Spielberg, 1998
Il pianista, R. Polanski, 2002
101
DALLA RESISTENZA ALLA COSTITUZIONE
~ LA RESISTENZA
~









La Resistenza in Europa
La Resistenza in Italia
Dopo l’8 settembre
Le tre guerre
La costituzione del CLN
Togliatti e la svolta di Salerno
Il governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò
Gli eccidi delle SS
Le foibe
25 aprile 1945: la liberazione
~ LA REPUBBLICA




L’urgenza della Repubblica
La nascita della Repubblica
La Costituzione
Gli organi dello Stato
LA RESISTENZA
102
La Resistenza in Europa
Nel 1942 tutta l’Europa era nelle mani di Hitler e nessun paese godeva di libertà. Le SS avevano il compito
di rastrellare politici sospetti, Ebrei, comunisti e renitenti al lavoro o al servizio militare. I paesi occupati
conducevano una vita insostenibile; nelle città si diffuse il “mercato nero” degli alimenti mentre nella
campagna il disagio era minore data la produzione, comunque, di beni di prima necessita. Nonostante le
difficili condizioni di vita, nei primi anni di guerra non si assistette ad alcun movimento resistenziale
rivoluzionario perché, di fatto, mancava qualsiasi speranza di successo contro la terribile macchina da guerra
nazista. La gente aveva preferito adattarsi al nuovo tipo di governo e concentrarsi sulla sopravvivenza nelle
città.
La Resistenza è l'insieme dei movimenti sociali, politici e militari che si batterono contro il nazi-fascismo al
di là di eserciti regolari. In Francia venivano chiamati Maquisardes. La guerriglia partigiana in Unione
Sovietica agì per conto del maresciallo Zukov, in una serie di azioni ravvicinate dietro le linee raggiunte
dall’avanzata nazista.
La Resistenza in Italia
La Resistenza in Italia, in maniera manifesta, dopo l’armistizio di Cassibile, si oppose al nazi-fascismo
nell’ambito della guerra di liberazione italiana. Segni resistenziali si iniziarono a manifestare a partire dalla
metà del 1941 in varie forme che impegnavano in diverso grado le persone contro il nazi-fascismo: dalla
non-collaborazione alla risolutezza radicale della guerra armata al nemico. Gruppi sparuti di partigiani,
sparuti, disorganizzati militarmente, politicamente iniziarono ad organizzarsi contro il nemico. La forma
tattico-militare non poté che essere quella di azioni fulminee, improvvise per poi ritrarsi e, ancora, colpire.
Però, già nel 1936, Celeste Negarville, famoso comunista, aveva intuito come sotto il fascismo si venisse
formando una nuova gioventù, che ci descrisse in tal modo: “Non sono dei timidi questi giovani, non sono
dei conservatori, non sono dei reazionari! Sono giovani del nostro popolo, della nostra gente, sono giovani
italiani pensosi dell’avvenire del nostro paese, che dimostrano coi loro sforzi che il fascismo non ha distrutto
nella gioventù italiana l’anelito verso una visione di giustizia e di progresso”.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, lo sfascio sociale e politico dell’Italia si palesò improvvisamente
tale che si diffuse l’idea che l’unico modo per liberarsi definitivamente dal nazi-fascismo fosse la guerra
stessa. La volontà patriottica di liberare l’Italia dal fascismo spinse, una volta per tutte, molti giovani a
riunirsi nelle file della Resistenza. Gli italiani dovevano liberare l’Italia con o senza l’aiuto degli alleati. La
guerra intrapresa dai membri dei gruppi partigiani fu una guerra civile, patriottica e di classe, che spinse
esponenti di diversi partiti a combattere fianco a fianco per lo stesso scopo. A tal proposito scrisse Rosselli,
politico anti-fascista: “La demagogia fascista ha abituato questa generazione a guardare alla realtà delle cose
e dei rapporti di classe, e se una crisi risolutiva dovesse aprirsi saprà puntare sugli obiettivi decisivi: le armi,
le masse, il potere”.
La cospirazione antifascista aveva i suoi centri a Parigi e a Londra, dove dall’attività politica dei fratelli
Carlo e Nello Rosselli nacquero i primi movimenti antifascisti (1935-1942), che vedevano in Nenni, Sturzo e
Donati i principali rappresentanti di quei “gruppi” che avevano dovuto abbandonare l’Italia. Il Partito
comunista, specialmente dopo la svolta dell’Internazionale comunista, che aveva stabilito la tattica dei fronti
popolari, condusse azione di proselitismo. Il movimento di Giustizia e Libertà, di orientamento socialista e
radicale, reclutava i suoi aderenti soprattutto fra gli intellettuali e scrittori. Il Partito Socialista condusse le
sue attività anti-fasciste al fianco del Partito comunista. Indipendente da questi si sviluppò un movimento
cattolico antifascista che coinvolse non solo intellettuali, ma ampi strati di popolazione, soprattutto delle
campagne. L’arretratezza economica e politica delle masse contadine spesso aveva costituito nel passato la
premessa materiale di ogni tentativo controrivoluzionario. Attraverso la Resistenza le masse contadine sia
agendo che non prendendo parte, si trovarono allineate, per la prima volta, ad un evento che segnava una
partecipazione popolare alla tradizione risorgimentale. Da questo punto di vista la Resistenza s’inquadra in
quel processo risorgimentale che si fece contro le masse contadine del sud e dei cattolici.
Ad aprile 1945 le statistiche stimano 200mila combattenti con circa 75mila caduti. Nonostante i 200mila
combattenti possano risultare pochi rispetto alle forze del nemico, bisogna considerare il fatto che questo
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esiguo numero di combattenti attivi facesse parte di un intero movimento di resistenza ben più grande. Essi
infatti erano esclusivamente la punta di questo movimento, ovvero coloro che imbracciavano direttamente il
fucile.
Dopo l’8 settembre
L’8 settembre 1943 segnò lo sbando dell’esercito che, senza direttive, franò. I tedeschi, invece, seppero
prontamente cosa fare occupando le città italiane in poco tempo. I vecchi alleati nazisti si trasformavano in
nemici che occupavano le città e imponevano regole ferree. Proprio a Roma si ebbe il primo segnale di
resistenza, a porta San Paolo, dove i neo-resistenti combatterono fino allo stremo.
Dovunque ci fu resistenza, i Tedeschi intervennero con grandi forze, ignorando ogni codice militare. A
Cefalonia, possedimento italiano delle isole greche nello Ionio, si trovavano 12.000 soldati italiani, ai quali,
dopo l’8 settembre, fu ordinato di arrendersi dai Tedeschi. Il generale italiano Gandin fece svolgere tra i suoi
soldati una sorta di referendum. Le alternative erano tre: arrendersi, resistere oppure ripristinare la vecchia
alleanza con i Tedeschi. Si decise di resistere nonostante la superiorità militare tedesca. Oltre 10.000
morirono e i sopravvissuti furono fatti prigionieri ed inviati nei campi di concentramento in Germania.
Dell’intero episodio non si seppe nulla per lungo tempo; oggi si stima che siano attorno ai 600mila i soldati
italiani imprigionati e inviati nei campi di concentramento. Casi di strenua opposizione da parte delle truppe
italiane si erano registrati anche a Corfù, dove i soldati italiani furono travolti dalle soverchie forze nemiche.
Dal punto di vista politico, la Penisola appariva divisa in due blocchi:


il nord era governato dalla Repubblica di Salò, repubblica collaborazionista fondata da Mussolini e
sostenuta dai Tedeschi;
il sud e parte del centro continuava ad essere sotto il Regno d’Italia ed erano, dunque, in vigore gli
accordi con gli Alleati americani
Le tre guerre
Claudio Pavone, storico del ‘900, ha dato la miglior perimetrazione di quel vasto e complesso fenomeno
della Resistenza. La Resistenza italiana può essere compresa nella sua poliedrica articolazione come
“serbatoio” in cui si produssero tre conflitti differenti:
 una guerra patriottica per sbarazzarsi dello straniero tedesco;
 una guerra civile tra partigiani e fascisti;
 una guerra di classe tra proletariato e borghesia che spingeva per una rivoluzione comunista.
Quando si parla di Resistenza bisogna, quindi, tener conto di un processo complesso e, tuttavia, unitario.
Negli ultimi decenni si è tentato, a proposito della guerra civile che si ebbe nel Paese, di proporre una
‘pacificazione’, di stemperare i contrasti e, in fondo, di riabilitare le ragioni fasciste che combatterono per la
Repubblica di Salò. Secondo Pavone, “un paese come l’Italia, privo nella sua storia di nette e
incontrovertibili fratture, ha tutto da guadagnare, nel rivendicare, come tavola di fondazione di una propria
rinnovata identità, il momento di verità rappresentato dalla guerra civile tra i fascisti e gli antifascisti”.
La costituzione del CLN
In seguito alla caduta del regime mussoliniano, venne a crearsi un’associazione che coordinava le azioni
delle bande partigiane nei confronti dei tedeschi occupanti. Nacque quindi il Comitato di Liberazione
Nazionale (CLN), cui aderirono le varie brigate partigiane accomunate da un senso profondo di antifascismo.
Tre figure in particolare guidarono la Resistenza: Ferruccio Parri, che guidò il Partito d’Azione, Luigi Longo
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(“forza” comunista) e Raffaele Cadorna, generale dell’esercito. I gruppi più attivi, numerosi e il cui
contributo di sangue fu particolarmente alto erano le Brigate Garibaldi, di ispirazione comunista; le Brigate
Matteotti, costituite da socialisti; le Brigate del Popolo da democristiani e i Gruppi di Giustizia e Libertà,
legati al Partito d’Azione. Inoltre erano presenti brigate autonome che raccoglievano monarchici,
repubblicani, cattolici. Queste forze politiche, pur condividendo l’ideale antifascista, presentavano
discordanze sotto altri aspetti. Ad esempio, in merito ad alcune eventuali soluzioni politiche del conflitto, i
comunisti proponevano di un progetto che avrebbe dovuto portare alla rivoluzione sociale (tipologia
sovietica); al contrario, i socialisti pensavano a una serie di riforme sociali che avevano alla base la lotta di
classe. Il movimento resistenziale si radicò soprattutto nell’Italia settentrionale, dato che Roma era stata già
liberata il 4 giugno del 1944.
Togliatti e la svolta di Salerno
Le differenze ideologiche dei diversi gruppi si manifestavano soprattutto nell’atteggiamento da avere una
volta liberata la penisola sulla questione: Repubblica o monarchia. Queste divisioni vennero accentuate dagli
Alleati, Gran Bretagna ed USA in primis, i quali avevano timore che un passo verso la repubblica potesse
rafforzare quelle forze progressiste e così far balenare la possibilità di spingersi fino ad una rivoluzione
comunista che avrebbe curvato il Paese verso l’influenza sovietica. Gli Alleati erano dunque attestati per una
soluzione che non creasse troppe illusioni e tenesse il Paese sotto la propria influenza politica oltre che
militare. In questo quadro Churchill, primo ministro inglese, pronunciò il famoso “Discorso della
Caffettiera”, dove auspicava che in Italia potesse rimanere la monarchia per evitare eventuali pericoli. I
cattolici e i liberali erano favorevoli alla monarchia. Secondo comunisti e socialisti in Italia, come del resto
in tutti i Paesi, si doveva costituire una repubblica, in quanto consideravano lo stesso istituto monarchico non
più all’altezza dei tempi, come del resto aveva egregiamente insegnato la grande Rivoluzione francese del
1789.
La situazione si sbloccò nel 1944 quando, Palmiro Tagliati, segretario del Partito comunista, tenne un celebre
discorso a Salerno. Egli propose di accantonare ogni divergenze, polemiche, ecc. e concentrarsi
unitariamente contro il nemico nazi-fascismo. Solo dopo, in una Italia libera, sarebbe stato possibile, con un
referendum, rimettere la questione monarchia o repubblica al popolo italiano. Questa proposta, nota come la
svolta di Salerno, permise di raggiungere un compromesso fra le varie tendenze. Del resto Togliatti non
faceva che registrare e sviluppare le linee guida della Internazionale di Stalin che aveva proposto l strategia
del Fronte unico come opposizione al nazi-fascismo.
Si formò così il primo governo coi partiti del CLN, tra cui il Partito democratico cristiano, Partito d’Azione,
Partito Socialista, Partito Comunista e Partito Repubblicano, con Croce e Sforza ministri senza portafogli. La
capitale fu provvidamente spostata a Salerno. Contemporaneamente il re Vittorio Emanuele III, decise di
nominare suo figlio Umberto luogotenente del regno, conferendogli i poteri.
Il governo Bonomi e la disgregazione della Repubblica di Salò
In seguito alle dimissioni di Badoglio, toccò a Ivanoe Bonomi formare il nuovo governo con l’appoggio del
CLN. Come obiettivi principali furono posti la defascistizzazione dello Stato, l’acquisizione della massima
autonomia possibile dall’amministrazione degli Alleati e un aiuto alle popolazioni del settentrione. In realtà
questo programma non venne pienamente attuato, poiché al governo mancò unità d’azione sia per le
pressioni esterne degli Alleati, sia per le divisioni al proprio interno fra le diverse forze politiche.
Nel frattempo andava disgregandosi la Repubblica di Salò, in quanto non poteva contare né sul consenso
popolare né sull’appoggio degli industriali, che registrato il nuovo vento stavano prendendo contatti con gli
Alleati. La Repubblica di Salò sopravvisse solo grazie all’appoggio nazista. Intanto, proprio il sentore della
fine politica acuì la violenza fascista sia nei confronti delle opposizioni antifasciste, sia nei confronti degli
Ebrei per puro ossequio alla ferocia nazista.
Il 30 novembre 1943 venne ordinato che tutti gli Ebrei fossero internati nei campi di concentramento per poi
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essere spediti nei lager in Germania.
Gli eccidi delle SS
Nel 1944 il numero di partigiani pronti a resistere al nemico crebbe notevolmente e, proprio a maggio di
quello stesso anno, venne fondata la prima ''repubblica partigiana''.
L’azione dei partigiani divenne tanto importante che alcune tra le più grandi città d'Italia vennero liberate
senza l'intervento degli Alleati, come accadde a Firenze. Esasperati dalla guerra, i partigiani divennero
protagonisti di attacchi sempre più violenti ai quali i tedeschi rispondevano con feroci rappresaglie. Dopo la
liberazione di Roma venne alla luce uno dei massacri più impressionanti ai danni della popolazione. Il 23
marzo 1944 furono fucilati dalle SS, alle Fosse Ardeatine, 335 ostaggi, in maggior parte Ebrei, antifascisti e
ufficiali badogliani, per rappresaglia in seguito a un’azione di guerriglia partigiana in via Rasella, che aveva
provocato la morte di 32 militari tedeschi. Con un ordine diretto di Hitler i tedeschi rastrellarono italiani
nella misura di dieci italiani per un tedesco. Soltanto nel 1995 il governo italiano ha ottenuto l’estradizione
dall’Argentina del comandante tedesco Erich Priebke, che prese parte alla fucilazione.
L’esercito tedesco insidiato dalla guerriglia in montagna, continuava a essere protagonista di crudeli
rappresaglie. Va ricordata, infatti, la strage di Marzabotto, dove, nel Bolognese, vennero uccisi più di 1800
civili. Fu uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile perpetrati dalle SS in
Europa occidentale. Al termine della seconda guerra mondiale, Walter Reder, capo dell’operazione, fu
processato e nel 1951 condannato all'ergastolo.
Ancora vi furono l’eccidio dei sette fratelli Cervi, la fucilazione di Aldo Mei, parroco di Monsagnati (Lucca)
e i massacri a Sant’Anna di Stazzema, ecc. Spaventosa fu l’irragionevolezza con la quale i tedeschi
cercarono di reprimere tutti i possibili “fastidi”.
Le foibe
Intanto anche in Friuli Venezia Giulia si verificavano diversi eccidi a opera dei partigiani di Tito. Molti
civili, sacerdoti e carabinieri vennero gettati nelle foibe, profonde spaccature dalle quali è quasi impossibile
uscirne vivi. Un caso particolare è quello delle foibe istriane, ovvero dell’operazione di polizia partigiana
staliniana, che aveva come obiettivo quello di eliminare Italiani reazionari e fascisti, senza il rispetto di alcun
trattato internazionale. Secondo alcuni dati, furono circa 3000 gli italiani a soccombere alle stragi dei
partigiani di Tito aiutati da quelli italiani. L’intera faccenda, inoltre, è venuta alla luce solamente in tempi
recenti: essendo Tito tra i vincitori del conflitto, si è sempre praticato un relativo ostruzionismo riguardo il
tragico episodio. Il fenomeno delle foibe andò ben oltre una reazione politico-militare, ma venne
riconosciuto in seguito come vero e proprio genocidio. L'eliminazione degli italiani fu determinata non solo
dall’odio etnico, ma anche dalla volontà da parte degli slavi di annettere il Friuli Venezia Giulia alla
Iugoslavia. Va ricordato, infatti, che l’Istria era passata nelle mani degli italiani dopo la prima guerra
mondiale.
25 aprile 1945: la liberazione
Nella primavera del 1945, sotto l'azione decisa dei partigiani, i tedeschi iniziarono la ritirata. Mentre Genova
e Milano si liberarono il 25 aprile, Bologna fu aiutata dagli Alleati.
Intanto Mussolini cercava di scappare, travestito da SS, in Svizzera col progetto di riparare, poi, in Spagna,
governata dal generale Franco. Il 27 aprile fu però riconosciuto e arrestato a Dongo (sul lago di Como) da un
gruppo di partigiani della Brigata Garibaldi. Fu successivamente condannato a morte mediante fucilazione
per ordine del CLN. Il suo cadavere, insieme a quello della campagna, Claretta Petacci, venne esposto nei
giorni seguenti a piazzale Loreto di Milano, dove il 4 agosto 1944 i fascisti avevano fucilato 15 patrioti
italiani. Il 30 aprile moriva suicida anche Hitler: scomparivano così dalla scena i due dittatori che avevano
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trascinato l’Europa in questo sanguinoso conflitto.
I combattimenti dureranno ancora qualche mese in alcune regioni del Nord Italia, ma non andranno oltre il 7
maggio.
LA REPUBBLICA
L’urgenza della Repubblica
Appena finita la guerra, l’Italia del nord, liberata dai tedeschi e dalla Repubblica sociale, si
ricongiunge all’Italia del sud nell’aprile del 1945.
La Resistenza fu una svolta cruciale che significò non solo la liberazione dal nazifascismo, ma più
in generale, la partecipazione attiva alla costruzione della democrazia repubblicana. In questo senso
le votazioni, del 2 giugno 1946, per l’Assemblea Costituente e il referendum costituzionale
rappresentano simbolicamente il traguardo raggiunto dal movimento resistenziale.
Era possibile, a questo punto, fare la conta e tracciare il perimetro dei danni, non solo sociali ma
anche materiali del paese. Bisognava, insomma, fare i conti con quell’eredità disastrosa che il
fascismo ci aveva lasciato trascinando l’Italia in un vero e proprio macello mondiale.
Il 20% del patrimonio nazionale era perduto. Le zone più colpite, sia dal punto di vista sociale che
materiale, furono quelle dove insistettero le battaglie e, quindi, la linea del fronte: Montecassino,
linea Gotica, Bologna, Firenze, la zona di Anzio; e le grandi città che furono bombardate: Milano,
Torino, Genova e Napoli, così come anche molti altri piccoli paesi che erano stati dilaniati dal
passaggio dell’esercito. L’Italia patì la fame, la situazione alimentare era gravissima, la produzione
granaria disastrosa. La produzione di grano dagli 80 milioni di quintali del periodo prebellico, era
ormai scesa, nel 1945, a 43 milioni. In pratica un dimezzamento che rifletteva a pieno la situazione
alimentare degli italiani. Bisognava ora affrontare enormi sacrifici per la ricostruzione morale e
materiale del paese. Per comprendere a pieno quale fosse la vera entità del problema bisogna
analizzare diversi aspetti:
1) per quanto riguarda la situazione dell’industria, si può dire che nonostante l’apparato industriale
avesse subito delle perdite (in media pari all’8% del valore degli impianti) non fu annichilito,
smantellato, ma rimasero in piedi ampie aree produttive. Il fatto è che la stessa tensione bellica, lo
sforzo a cui l’apparato produttivo fu sottoposto per ciò che concerne la produttività fece registrare
paradossalmente dei miglioramenti per ciò che riguarda la concentrazione e l’intensificazione
produttiva. Inoltre va ricordato che la Resistenza ebbe la lungimiranza di mettere al sicuro i
macchinari e gli impianti, come le installazioni portuali di Genova, le fabbriche di Milano e Torino
proprio in vista di un eventuale ripresa del paese;
2) La situazione dei trasporti, invece, era sostanzialmente deficitaria, ovvero molto più pesante e ciò
fu dovuto ai bombardamenti, che fecero in modo che i trasporti e la viabilità venissero messi a dura
prova. Infatti, il 60% circa tra macchine e locomotive fu perduta e l’80% dei vagoni viaggiatori era
oramai inutilizzabile, tant’è che nei primi mesi della liberazione si viaggiava da nord a sud con
mezzi di fortuna, più che con i trasporti ufficiali. Tuttavia, va evidenziato come nel 1946, con
l’opera tempestiva del governo, la situazione fu pressoché normalizzata. Insomma,
complessivamente l’economia italiana non collassò. Nonostante gli eserciti che avevano
imperversato sul suolo patrio e i bombardamenti, il sistema economico, nel suo complesso,
resistette e appena finita la guerra vi fu un clima di grande speranza, iniettato anche dalla guerra di
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liberazione, che diffuse un sentimento di fiducia nel paese. Questo clima di euforia, dovuto
all’accettazione del sacrificio al fine di rinnovare il sistema economico, politico e sociale italiano,
nel 1945 fu sicuramente un fatto estremamente positivo, a fronte di una situazione che, per quanto
l’economia non fosse completamente al collasso, aveva inferto dei durissimi colpi al sistema
economico e sociale;
3) La produzione agricola, per esempio, si era contratta del 60% e le vie di comunicazione andarono
in frantumi, anche se vennero ripristinate nel ‘46. I prezzi al consumo aumentarono di 18 volte
rispetto al ’39 e la disoccupazione era molto diffusa. Tuttavia questo clima di euforia, dovuto anche
al fatto che si usciva finalmente dal torpore del regime fascista e dalla guerra, produsse degli effetti
estremamente benefici. Infatti questo periodo registra un cambiamento importante, rappresentato
dalle grandi masse che prendono la parola. Quindi, la società italiana che si presenta all’indomani
dalla liberazione è una società completamente nuova dove le masse diventano protagoniste
attraverso i grandi partiti, come il Partito comunista, il Partito socialista e la Democrazia cristiana.
Per la ripresa economica del paese fu, insieme all’intervento statale, decisivo l’aiuto portato dagli
alleati che, appena sbarcati, offrirono una serie di aiuti alle popolazioni, sia dal punto di vista
alimentare che economico. Infatti, da un lato diedero medicinali e alimenti, dall’altro immisero sul
mercato le famose am-lire, proprie dell’amministrazione alleata.
Non solo a questo contributo iniziale per la ricostruzione seguì poi il Piano Marshall, che fece
confluire in Italia e milioni di dollari, decisivi per il rilancio definitivo dell’economia italiana. Oltre
agli aiuti americani un altro elemento che contribuì alla ripresa furono le rimesse degli emigrati,
ovvero il denaro che veniva inviato dagli italiani all'estero alle loro famiglie. Questi afflussi
spinsero la domanda di beni e, dunque, l’offerta.
Da un punto di vista politico, invece, si abbandonava, per così dire, lo stato paternalista di stampo
liberale-moderato, che aveva caratterizzato il risorgimento italiano; i governi italiani si ispirarono
all'unità antifascista e compresero, oltre alla democrazia cristiana anche i socialisti e i comunisti.
Queste forze di governo erano d'accordo sul fatto che era necessario l'abbandono del modello
autarchico fascista e la conseguente liberalizzazione degli scambi commerciali con l’estero.
A sottolineare l’estrema vitalità, i sindacati avevano raggiunto una forza e una coscienza che non
era mai stata appannaggio delle classi subalterne della società italiana. Insomma, il sindacato aveva,
ora, un peso specifico estremamente importante nella costruzione del nuovo Stato. All’indomani
della liberazione, il popolo italiano ebbe la sensazione palpabile di essere uscito dal tunnel in cui era
stato portato dal fascismo.
All’indomani della liberazione Roma fu tenuta sotto controllo dalle truppe alleate dopo, perché si
sperava che il vento socialista, “il vento del nord” (come fu chiamato) potesse, con deformazioni di
sinistra, prendere Roma e spostare l’asse del movimento resistenziale verso quella che Pavone
chiamava “guerra di classe all’interno stesso del processo resistenziale”. Così non fu, anche perché
l’Italia entrò immediatamente a far parte degli interessi alleati, in quanto gli alleati volevano che
l’Italia rimanesse monarchica e tranquilla, in ogni caso lontana dalle tentazioni rivoluzionarie che
potessero curvarla verso l’Unione Sovietica.
A Roma vi fu inizialmente il governo Parri, leader del Partito d’azione della Resistenza, fino al
1945 e poi subentrò il governo formato direttamente da tutti i partiti del CLN e presieduto dal
democristiano Alcide De Gasperi, che governerà poi fino al 1953. De Gasperi, presidente del
consiglio del partito adotterà, man mano, una politica sempre più anticomunista, fino al 1953,
quando l’Italia oramai sarà nell’orbita alleata e la rivoluzione sarà esplicitamente accantonata.
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La nascita della Repubblica
Il 2 giugno 1946 vi furono le elezioni politiche per l’Assemblea costituente e, in pari tempo, si votò
per il referendum istituzionale, che doveva decidere tra repubblica e monarchia. Quindi il popolo
italiano, così come era stato preannunciato con la svolta di Salerno di Togliatti, aveva la possibilità
di decidere la forma istituzionale dello stato. La Repubblica vinse con 12.717.923 di voti ovvero
con il 54%. Umberto II abbandonò dopo poco l’Italia e fu eletto primo presidente della repubblica
Enrico De Nicola, noto sia per il suo equilibrio che per la sua vasta formazione giuridica. Va
rimarcato che le elezioni del 1946, con un Italia ormai libera, si svolsero a suffragio universale, nel
senso che per la prima volta votarono anche le donne. Ovviamente l’entrata in politica delle donne
attraverso il suffragio universale, in Italia avveniva in ritardo rispetto ad altri paesi come, ad
esempio, l’Unione Sovietica. Nonostante il paese accolse con qualche titubanza questa novità, data
la pervicace, forte mentalità maschilista, si segnò un passaggio di notevole importanza nella vita
della democratica.
Alle elezioni vinse la Democrazia cristiana con il 35,18% dei voti, il Partito comunista ebbe il
18,96% e il Partito socialista il 20,72%.
Il Partito socialista, pur contiguo ideologicamente con il Partito comunista aveva una impostazione
ideologica più riformista, gradualista che mirava ad una politica di lenti miglioramenti della classe
operaia. Il Partito comunista era, di fatto, ideologicamente guidato dal filosovietico Palmiro
Togliatti, che pur si richiamava alla tradizione di tipo gramsciana.
Nel luglio del 1946, De Gasperi formò un governo con demo-cristiani, socialisti, comunisti e
repubblicani. Era un governo di coalizione, di unità nazionale, a cui si deve, tra l’altro, il merito
dell’elaborazione della Costituzione che entrò poi in vigore nel 1948. Costituzione che molti critici,
ancora oggi, pensano come ad una delle più belle del mondo e, sicuramente, come il frutto alto di
un compromesso fra la tradizione cattolica e la tradizione comunista.
Il governo di unità nazionale, cessò la collaborazione nel maggio del 1947, quando De Gasperi
formò un governo estromettendo socialisti e comunisti e chiamando tecnici come “Luigi Einaudi” e
il repubblicano Carlo Sforza. Le elezioni del 18 aprile 1948 si svolsero in un clima estremamente
teso e grande influenza su di esse fu rappresentata dal colpo di stato comunista che si svolse a
Praga. La novità di queste elezioni fu che il Partito socialista e il Partito comunista fecero fronte
unico ma, nonostante ciò, la paura di quanto era successo a Praga fu decisiva nella sconfitta del
fronte.
La Democrazia cristiana, invece, vide rinsaldato il suo successo conseguendo alla camera una
maggioranza assoluta, il che significava che avrebbe potuto formare un governo a sola direzione
democristiana. De Gasperi, da profondo conoscitore della politica e da grande statista, formò un
governo di coalizione con liberali, repubblicani e social-democratici; quello che gli storici hanno
poi chiamato un governo “centrista”, cioè che situava il suo asse ideologico al centro dello
schieramento politico.
L’operazione di De Gasperi fu anche estremamente intelligente dal punto di vista politico, perché
capì che le elezioni del 1948, di fatto, si inserivano in una più vasta dimensione, come è possibile
definire quella della Guerra fredda. I risultati delle elezioni del ‘48 avevano subito l’influenza
internazionale, così De Gasperi non volle che la Democrazia cristiana avesse la direzione univoca di
un paese fortemente travagliato e con partiti socialisti di massa, la cui opposizione era molto ampia,
e preferì dare una base larga alla sua maggioranza facendo entrare istanze di altri partiti del centro.
109
Poco dopo le elezioni, il 14 luglio, un giovane esaltato, sparò a Palmiro Togliatti, segretario del
Partito comunista. La diffusione della notizia fu come un fremito lungo la penisola e in maniera
subitanea si ebbero manifestazioni di protesta, soprattutto al nord, alcune delle quali ebbero
addirittura un carattere insurrezionale. Le armi furono ripescate, fu bloccata la prefettura di Milano
e le comunicazioni tra il nord e Roma rischiarono di essere interrotte. Prevalse, però, il buon senso
del Partito e della CGIl che cercò, con un’opera di persuasione, di calmare gli animi affinché non si
arrivasse ad un’insurrezione vera e propria.
La Costituzione
La Costituzione è Grundnorm ovvero "norma fondamentale" ovvero Magna Charta come i padri
latini ci insegnano. Essa stabilisce i princìpi fondamentali e l'architettura dello Stato. Rappresenta
un alto compromesso tra due concezioni, teorie, culture, due dottrine estremamente diverse, quella
cattolica e quella comunista. Il compromesso alto fra due concezioni del mondo fu possibile pure
perché il pensiero cattolico pur rimanendo nell’alveo di un pensiero liberista seppe esprimere un
cattolicesimo che faceva perno sul principio di solidarietà che riuscì, perciò, ad incontrare il
pensiero comunista. Due ideologie e tre partiti! I partiti che la approvarono, nel 1947, furono la
Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partiti socialista ed altri partiti minori.
Gustavo Zagrebelsky, uno dei maggiori costituzionalisti italiani, afferma che "La Costituzione non
è un ibrido, ma un prodotto alto delle concezioni cattolica e marxista" e Calamandrei ne vede i padri
nel movimento resistenziale.
I primi articoli della Costituzione costituisco i principi fondamentali del nostro Stato.
Senza la pretesa di essere esaustivi, possiamo brevemente commentare i primi articoli della
Costituzione che riguardano i principi fondamentali.
Art.1: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al
popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione."
La presenza del termine "lavoro", nel primo articolo della Costituzione italiana, evidenzia la matrice
ideologica di chi l'ha scritta. Viene da lontano questo principio, ma una prima articolata
sistemazione si ha con la tradizione democratica e socialista dell’Ottocento.
Il lavoro assurge a elemento fondamentale dello sviluppo sociale, economico e culturale; è
l'elemento su cui si fonda la possibilità di un miglioramento generale e personale; è garante della
libertà e della dignità. Il lavoro non è finalizzato unicamente ad appagare alcuni bisogni dell'uomo,
ma è strumento di libertà. La proprietà privata individuale frutto del lavoro è strumento che
permette non solo di soddisfare bisogni primari ma dà la strumentazione necessaria per l’esercizio
della libertà. Jacques Roux durante la Rivoluzione francese affermava che la liberta è una parola
vana se non riesco neanche a comprare il pane che, giorno dopo giorno, costa sempre più. Il lavoro
mi permette di acquisire quella proprietà privata individuale che mi permette di esprimere la mia
personalità nella sua potenzialità e libertà.
Art.2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale."
I diritti inviolabili dell'uomo rifacendosi al diritto naturale affermato anche dagli stoici secondo i
quali alcuni diritti sono fondati sulla ragione. A questo proposito Cicerone afferma che "Essendo il
diritto universale basato sulla ragione, è uguale sia a Roma che ad Atene". La seconda parte
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riguarda i doveri inderogabili di solidarietà, secondo i quali, i fondi sociali devono essere messi a
disposizione di chi è bisognoso. Il dovere della solidarietà lo ritroviamo, poi, nel princìpio di
tassazione progressiva (art. 53), il quale stabilisce che chi possiede un reddito maggiore subisce una
tassazione maggiore. Il diritto unico ed egualitario è un diritto ingiusto se il corpo sociale è
diseguale.
Art.3: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese."
Si sottolinea che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che intralciano il libero sviluppo della persona. Lo Stato s’impegna nei confronti dei cittadini ad
assicurare interventi proporzionali ai bisogni rimuovendo le cause della disuguaglianza.
Art.4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società."
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto-dovere di lavorare secondo le proprie possibilità
per promuovere lo sviluppo sociale e garantire la libertà dell'individuo. Ancora una volta, come
nell'articolo 3, viene ribadito che la Repubblica interviene per rendere accessibile a tutti il diritto al
lavoro, alla realizzazione e al miglioramento sociale.
Art.5: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento."
Nel 1947 i costituenti venivano dall'esperienza del regime fascista che aveva creato una separazione
tra il governo e le masse (il governatore, ad es. non era eletto dal popolo, ma dall'entourage
fascista). Per ricomporre il tessuto sociale i costituenti vollero consacrare nello scritto la necessità di
mediazione tra i poteri tra centro e periferia, ma pure articolare una maggiore democratica
pervasività decisionale.
Art.6: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche."
Per evitare le situazioni di conflitto ai confini, i costituenti decisero di includere garanzie,
protezione per le minoranze affinché fossero vissute come ricchezza.
Art.7: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I
loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti,
non richiedono procedimento di revisione costituzionale."
Per revisionare i Patti lateranensi è necessario un accordo tra lo Stato e la Chiesa senza redigere un
nuovo articolo costituzionale. In una Costituzione semplicemente liberale questo articolo non
sarebbe entrato. Entra a dispetto della storia e dell’intero processo di laicizzazione,
secolarizzazione, scristianizzazione iniziato dalla grande Rivoluzione francese per la particolare
situazione specifica italiana. Paradossale che nella Costituzione repubblicana entrino i Patti fascisti.
Dalla Rivoluzione francese in poi, dal punto di vista teorico, si era stabilito che lo Stato ha tutte le
religioni al suo interno e ne garantisce la libertà, ma non ne riconosce nessuna in particolare come
propria. Si rinuncia così, per la contingenza politica, e il compromesso politico ad una delle grandi
111
conquiste laiche e, paradossale, tale rinuncia viene proprio dal Partito comunista. Il Partito
comunista voterà questo articolo proprio per la risolutezza democristiana mentre il Partito socialista,
invece, si rifiuta ad oltranza.
Art.8: "Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni
religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge
sulla base di intese con le relative rappresentanze."
È una sorta di appendice dell'articolo 7.
Art.9: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."
L'articolo 9 si distanzia dal modello puramente liberale poiché la Repubblica si intromette, per la
prima volta, nell'ambito della ricerca, dello sviluppo e della tecnica. In effetti, dalla prima guerra
mondiale in poi lo Stato diventa sempre più protagonista nell'ambito nazionale, con la Costituzione,
in seguito, si registra questo cambiamento e si abbandona definitivamente la visione liberale.
Art.10: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in
conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo
nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa
l'estradizione dello straniero per reati politici."
Come direbbe Hemingway "La Repubblica italiana non è un'isola, ma una parte di un continente",
cioè noi non siamo in un diritto nazionale, ma ci inseriamo volentieri in un diritto di tipo
internazionale, che implica regolamenti commerciali e regolamenti limitanti la libertà.
Con quest'articolo si garantisce il diritto di asilo a quelli che hanno libertà compresse o limitate nei
loro paesi. Di nuovo il principio di solidarietà!
Art.11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."
Art.12: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande
verticali di eguali dimensioni."
Gli organi dello Stato
Il Presidente della Repubblica è eletto con maggioranze qualificate in seduta congiunta dai
Deputati, dai Senatori e dai rappresentanti delle regioni.
Le più importanti cariche che la Costituzione italiana assegna al Presidente della Repubblica sono: è
garante delle Istituzioni, rappresenta l'Unità nazionale e lo Stato italiano all'estero. Egli è il
Presidente del Consiglio superiore della Magistratura, delle Forze Armate, del Consiglio supremo di
difesa e dichiara, previa delibera delle Camere lo stato di guerra difensiva, non offensiva perchè la
Costituzione la vieta (art. 11), diversamente da quel che accade in altri paesi come gli USA. Tale
limitazione fu dettata dal fatto che in passato, durante il periodo fascista, l'accentramento personale
112
del potere era stato uno dei principali fattori determinanti l'entrata in guerra dell'Italia guidata da
Mussolini.
I costituenti stabilirono, nel 1947, che il Capo dello Stato non potesse essere eletto direttamente per
due ragioni:
1) un'elezione diretta avrebbe implicato un'attribuzione di maggiori poteri;
2) una carica così alta dovrebbe essere sottratta alla mischia elettorale che spesso è sinonimo di
popolarismi e occasione di promesse non facilmente realizzabili.
L’elezione del Capo dello Stato è, pertanto, affidata al Parlamento integrato dai rappresentanti delle
regioni e richiede maggioranze qualificate.
Il Parlamento italiano detiene il potere legislativo. Si compone di due Camere: la Camera dei
Deputati e la Camera dei Senatori. Il Parlamento è caratterizzato da un “bicameralismo perfetto”,
ogni legge deve essere approvata da entrambe le Camere, per questo il Parlamento è detto
bicameralismo perfetto. Il Governo Renzi aveva proposto il superamento del bicameralismo
perfetto, ma il referendum del 4 dicembre 2016, ha bocciato questa proposta.
La Camera dei deputati è composta da 630 rappresentanti, eletti a suffragio universale dalla
popolazione che ha raggiunto i 18 anni di età; la camera del Senato, composta da 315 membri più i
senatori a vita e gli ex Presidenti della Repubblica è eletta dai cittadini che hanno compiuto 25 anni
di età.
Il Presidente del Senato ricopre il ruolo di vice del Presidente della Repubblica assumendone i
poteri, in caso di assenza o impedimento. Il Presidente della Camera dei Deputati è anche la terza
carica dello Stato.
Le leggi ordinarie sono approvate da entrambe le Camere del Parlamento se ottengono la
maggioranza dei voti in ciascuna Camera. La legge diventa esecutiva, quindi entra in vigore dopo la
promulgazione da parte del Presidente della Repubblica e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Per modificare le legge fondamentale dello Stato, ovvero la Costituzione, i Costituenti hanno
previsto un maggioranze parlamentari molto più ampie, ovvero pari o superiori al 75% dei
componenti in ciascuna Camera.
La Corte Costituzionale è un organo formato da alti magistrati e giuristi; questi vigilano sul
rispetto delle norme costituzionali verificano la costituzionalità delle leggi approvate dal
Parlamento. Nel caso in cui le leggi risultano “incostituzionali", il Parlamento ha il dovere di
correggerle.
Il Presidente del Consiglio è il capo del Governo, è nominato dal Presidente della repubblica e
riceve la fiducia dalla maggioranza dei Parlamentari. Il governo che è composto dal Presidente del
Consiglio e dai Ministri, svolge potere esecutivo.
BIBLIOGRAFIA
Libri
E. Vittorini, Uomini e no, 1945
B. Fenoglio, Il partigiano Jonny, 1968
113
Film
La ciociara, de Sica, 1960
Le quattro giornate di Napoli, N. Loy, 1962
La donna nella resistenza, L. Cavani, 1965
La ragazza di Bube, Comencini, 1963
LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
~
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Il primo Novecento
La Repubblica e il Guomindang
La guerra di liberazione e la Repubblica popolare
I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo
I rapporti cino-sovietici
La rivoluzione culturale
Il riformismo di Deng Xiaoping
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LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Il primo Novecento
Attraverso la rivoluzione socialista cinese, la Cina è passata dall’essere una media potenza del continente
asiatico a diventare una superpotenza che influenza pesantemente l’ambiente geopolitico mondiale e
determina il destino del globo.
La Cina, tecnicamente, si potrebbe considerare come un continente a sè stante considerando la sua estensione
geografica, la moltitudine di ambienti geografici e le diverse etnie che la compongono. Fino all’inizio del
1900 l’arretratezza economica e tecnologica era talmente forte che l’economia cinese era costellata da veri
problemi di sussistenza. Lo Stato sembrava una istituzione un’istituzione effimera sostanzialmente
medievale. La struttura economica della Cina era essenzialmente agricola e imperniata sulla struttura del
latifondo che proietta si proietta socialmente nelle figure del ricco latifondista e di una massa di contadini
poveri che componevano la stragrande parte della popolazione.
Proprio questi ultimi, riuscirono a portare a termine una rivoluzione di stampo socialista richiamandosi a
quella teoria che, viceversa, poneva al centro la classe operaia come elemento strutturale del passaggio al
socialismo. Anche la Cina rappresenta una ‘deviazione’ dal modello classico marxista che, tuttavia, Mao
seppe interpretare in un paese di contadini poveri.
All’inizio del Novecento la Cina era diventata neanche una colonia, una sotto-colonia, a indicare il grado di
assoggettamento e di vessazione delle potenze straniere che strangolavano il paese.
Solo alcune zone dello sterminato territorio conobbero, attraverso gli investimenti stranieri, la nascita di una
fragile borghesia intraprendente, di una fragile classe operaia, di intellettuali ‘occidentalisti’ che studiava in
Europa e che si pone contro le tradizioni. Tuttavia, la struttura economica della Cina, nel suo complesso,
rimaneva agraria, medievale, che si reggeva sulla dialettica grande proprietà/contadini poveri.
La Repubblica e il Guomindang
Nel 1911 Sun Yat-Sen guidò la prima rivoluzione cinese che rovesciò la dinastia dei Manciù e instaurò la
Repubblica. La Repubblica fu opera, soprattutto, del Guomindang (Partito Nazionale del Popolo) ovvero il
partito della borghesia nazionale.
La borghesia non ebbe, però, la forza di contrastare, né gli interessi della grande proprietà terriera, né le
pretese delle potenze coloniali. La Cina cadde, allora, sotto la dittatura di Yuan Shibkai rappresentante dei
grandi proprietari terrieri.
115
La Cina non migliorò nell’opinione internazionale, nei rapporti con le grandi potenze. Infatti, alla fine del
Primo conflitto mondiale, nel 1919, la Conferenza di pace assegnava al Giappone i possedimenti della
Germania nello Shantung.
La guerra di liberazione e la Repubblica popolare
Nel 1921 nacque il Partito comunista cinese. Per un periodo il partito collaborò con il Guomintang fino a
quando ne diventò leader Jang Jeshi (Chang Kari-Shek) che fu ostile ai comunisti. Chang Kari-Shek
condusse una campagna militare contro i comunisti che avevano proclamato una repubblica sovietica al
Nord. I comunisti che riuscirono a sfuggire all’accerchiamento si misero in salvo, attraverso una leggendaria
ritirata di diecimila chilometri la cosiddetta ‘Lunga marcia’. Attorno alla figura di Mao i comunisti cercarono
il consenso partendo dai contadini poveri.
Nel 1937 il Giappone invase la Cina con l’intento di sottometterla e ciò ricompattò le file cinesi: fece
riavvicinare, in funzione anti-nipponica, Mao e Chang Kari-Shek.
Il Partito comunista prendendo parte al processo di liberazione nazionale diventò sempre più forte. Il
conflitto finì per essere uno dei tanti all’interno della Seconda guerra mondiale. Intanto il Partito comunista
apparve come il vero liberatore della Cina. Dopo la fuga dell’esercito Cinese nazionalista di Chiang KaiShek a Taiwan, il 1 ottobre 1949 Mao proclamò la Repubblica Popolare Cinese.
I ‘Cento fiori’ e il ‘Grande balzo’
Si avviò subito, nella Cina contadina, la costruzione del ‘socialismo cinese’. La prima riforma fu quella
agraria che prevedeva l’eliminazione del latifondo a favore dei contadini poveri. In effetti, ma proprio
l’eccessivo frazionamento dei lotti, che ne seguì non portò risultati positivi in termini economici. Anche il
primo piano quinquennale, elaborato sul modello sovietico, che prevedeva la collettivizzazione delle terre e
un’industrializzazione forzata, non ebbe successo. Iniziò, allora, ciò che Mao, il ‘ Timoniere’, chiamò il
periodo dei ‘Cento fiori’ cioè un periodo di liberalizzazione e autonomia in campo economico, culturale,
ecc. Ma i ‘Cento fiori’ produssero anche le “erbe velenose”.
Nel 1958 iniziò la fase del ‘Grande balzo in avanti’ cioè di un programma economico che intendeva basarsi
sul principio del “camminare su due gambe”: agricoltura e industria. Secondo gli obiettivi in 15 anni si
sarebbe raggiunti gli standard della Gran Bretagna. Insomma, l’idea era quella di portare, nel più breve
tempo possibile, la Cina da agricola a industriale tale da poter competere con le maggiori potenza mondiali.
In questo quadro di mobilitazione generale furono sperimentate le Comuni popolari ovvero un’istituzione
organizzativa di base dell’economia agricola cinese che dovevano traghettare il socialismo cinese al
comunismo. Esse dovevano essere autosufficienti cioè sviluppare anche il settore industriale e terziario. In
questo senso furono una novità rispetto al Kolcoz sovietico. La Comune popolare rappresentò il modello
economico e politico-culturale del comunismo cinese: ne furono costituite circa 750.00 comprendente
ognuna circa mille famiglie. Fu, tra l’altro la risposta alla frammentazione antieconomica della terra. La
cellula base era rappresentata da 40-50 contadini e contadine, collettivamente proprietari di circa 20 ettari di
terra che gli veniva assegnata. I contadini stessi organizzavano il lavoro e ripartivano quanto prodotto in base
alle necessità (ad es. numero di figli) e ad un metodo basato su punti-lavoro che maturavano. L’esperienzaesperimento delle Comuni fu chiuso definitivamente nel 1984 e registrata nella Costituzione nel 1993
quando ad esse si sostituì una forma di contratto di responsabilità con lo Stato ed un prelievo statale
attraverso le imposte.
116
I rapporti cino-sovietici
I rapporti tra i due paesi s’incrinarono già all’epoca del XX Congresso del PCUS quando Krusciov denunciò
i crimini di Stalin. Mao fu assai critico verso Krusciov bollandolo come revisionista.
La Cina, da tempo, appariva sofferente riguardo i numerosi tentativi Sovietici d’influenzare la politica di
Mao. D’altra parte la classe dirigente cinese non vedeva di buon occhio l’atteggiamento autoritario di Mosca
nell’assumere la funzione di guida del socialismo internazionale. Pian piano riprese l’orgoglio nazionalista e
montò la marea antisovietica. La vera e propria rottura si palesò ufficialmente nel 1963 quando i dirigenti
sovietici furono indicati come traditori del marxismo-leninismo a capo di un nuovo ‘social-imperialismo’. La
Cina, di fatto, si proponeva come paradigma socialista mondiale.
Motivo del contrasto fu anche la decisione, da parte dell’URSS, di non assistere la Cina in ambito nucleare
con lo scopo di non perdere la supremazia militare. Tuttavia, già nel 1964 la Cina fece esplodere la prima
bomba atomica consolidando il suo stato di superpotenza internazionale. Legati a queste controversie vi
furono alcuni scontri di frontiera tra truppe dei due schieramenti, come il celebre “Incidente del fiume
Ussuri”, evento che, per poco, non fece degenerare il tutto in guerra aperta.
La rivoluzione culturale
Per ciò che riguarda la politica interna i più giovani vennero mobilitati in una rivoluzione contro i fautori
della via capitalistica. Fu la cosiddetta rivoluzione culturale lanciata dallo stesso Mao che avvertiva di un
cambio di rotta e invitava alla sorveglianza dei giusti principi socialisti.
Nel 1964 fu diffuso il famoso Libretto rosso che condensava il pensiero del Presidente Mao; forniva una
guida sintetica per la formazione del rivoluzionario. Fu stampato in milioni di copie e raggiunse il ’68
europeo.
Il Libretto s’inquadrava in una considerevole lotta politica interna al paese tra la linea politica di Mao e
quella di Deng Xiaoping e Liu Shao-chi dipinti come revisionisti dei principi socialisti. La rivoluzione
culturale aveva come obiettivo quello di scardinare chi aveva tradito i principi socialisti e aveva assunto ruoli
di potere nella società e nel partito. Mao lanciò la parola d’ordine di controllare i dirigenti del partito e di
spazzare via i parassiti. I giovani cinesi – organizzati come ‘guardie rosse’ - seguirono Mao e, a tutti i livelli,
costrinsero i burocrati a fare pubblica ammenda.
Il riformismo di Deng Xiaoping
Nel 1976 Mao morì e salì al potere Deng Xiaoping, il quale procedette ad un vero e proprio processo di
‘modernizzazione’.
Stravolse pesantemente la strategia politica di Mao verso una radicale liberalizzazione economica e una
normalizzazione dei rapporti con le nazioni occidentali. Furono rimossi tutti gli ostacoli economici verso
importazioni ed investimenti stranieri. La Cina apriva le porte agli investimenti stranieri, all’importazione
tecnologica. In ambito politico, invece, questo riformismo non si senti quasi per nulla: la struttura autarchica
dello stato rimase prettamente invariata; invariate le restrizioni alla libertà di stampa, di associazione, ecc.
117
La politica riformista di Deng sollecitò, alla lunga, domande di democrazia e libertà come quella del
movimento studentesco del 1989 quando i giovani pechinesi occuparono piazza Tienammen. La protesta fu
sedata con i carri armati e non vi fu nessun allentamento sulle libertà da parte del regime.
Nel 1993 si emendava la Costituzione in vari punti rimarcando di essere nella costruzione della “prima fase
del socialismo”, di accettare l’iniziativa priva e di praticare l’economia socialista di mercato:
a) “Il nostro paese è nella prima fase del socialismo” (punto 7 Preambolo); “Nella prima fase del
socialismo, lo stato si fonda sul sistema della proprietà pubblica e sullo sviluppo di ogni altro
sistema economico di base” (art. 5).
b) Non si richiamano più le Comuni, ma “Il sistema di responsabilità contrattuale rurale basato
principalmente sulla remunerazione familiare collegata alla produzione […] I Lavoratori che sono
membri di collettivi economici rurali hanno diritto, nei limiti prescritti dalla legge, a coltivare
appezzamenti di terreno e terre collinose assegnati per il loro uso, a impegnarsi in produzioni
collaterali su base familiare e ad allevare bestiame posseduto privatamente.” (art. 8); “Lo stato
permette al settore privato dell'economia di esistere e svilupparsi nei limiti prescritti dalla legge”
(art. 11).
c) “Lo stato pratica l'economia socialista di mercato” (art. 15). “Le imprese statali, presupposta
l'obbedienza alla guida unitaria dello stato e presupposto il completamento del piano economico
sociale, hanno il diritto di autonomia nell'amministrazione gestionale, entro l'ambito prescritto dalla
legge. Le imprese statali attuano un'amministrazione democratica, attraverso assemblee di
impiegati-operai ed altre forme, in conformità alle norme di legge.” (art. 16)
BIBLIOGRAFIA
Libri
118
Mao Zedong, Libretto rosso, 1963
T. Terzani, La parta proibita, 1984
Film
L’ultimo imperatore, B. Bertolucci, 1987
Lanterne rosse, Zhang Yimou, 1991
ONU, ISRAELE, EUROPA
~ ONU
~ ISRAELE
EUROPA
~
~
La ricostruzione
La costruzione: da Ventotene alla moneta unica
119
L’ONU
L’ONU, che si pose sul sentiero tracciato dalla Società delle Nazioni, era stata già anticipata in diverse
occasioni. Tra queste si possono ricordare: la Carta Atlantica del 1941 che a sua volta riprendeva i 14 punti
di Wilson; la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942; la Conferenza di Mosca del 1943, di Dumbarton
Oax nel 1944 e di Yalta del 1945. Si decise di stabilire la sede centrale dell'ONU a New York nel Palazzo di
Vetro.
Durante la Conferenza Internazionale di San Francisco (25 aprile – 26 giugno 1945) nasce l’Organizzazione
delle Nazioni Unite (ONU) con la partecipazione di 50 stati – oggi 193 su 196 - con lo scopo di garantire
l'equilibrio internazionale tramite metodi pacifici. Nella fattispecie l’art. 1 e 2 dello Statuto sanciscono i fini
e i principi:
“Art. 1, comma 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci
misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o
le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e
del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni
internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace.
2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei
diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale.
3. Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere
economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di
religione. […]
Art. 2, com. 3. I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in
maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo.”
All’interno di questa organizzazione internazionale vi sono cinque grandi nazioni, che hanno un ruolo
predominante rispetto alle altre: Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Cina. Tra gli organi
principali dell’ONU vi sono:
 l’Assemblea Generale: formata da tutti gli stati membri, dove le delibere vengono prese per maggioranza;
 il Consiglio di Sicurezza: una sorta di organo esecutivo formato da dieci stati eletti a turno e dalle cinque
potenze principali, le quali deliberano all’unanimità e hanno ognuna il diritto di veto, ovvero la
possibilità di bloccare qualsiasi delibera ritenuta contraria ai propri interessi, diretti o indiretti,
ponendo un enorme freno alla delibera dell’Assemblea Generale. Si ritiene, quindi, che la semplice
maggioranza non sia sufficiente per decidere riguardo questioni di interesse nevralgico, che
possono portare a ricadute, come lo era stata la Seconda Guerra Mondiale. Serve, pertanto,
120
l’unanimità delle cinque nazioni. Ciò si spiega considerando che una grande potenza può essere
messa in minoranza facilmente da un'alleanza tra tante piccole nazioni.
Il Consiglio può decidere anche l’intervento armato attraverso le truppe dei Caschi blu.
I due organi di controllo dell'ONU corrispondono ad altrettante concezioni: la concezione
utopistica, presente nella Assemblea generale, che sostiene i principi di libertà dei popoli e di
uguaglianza fra le nazioni; la concezione realistica, espressa nel Consiglio di Sicurezza, che, in
linea con le idee del presidente americano Roosevelt, affida alle potenze vincitrici che hanno un
notevole peso politico-militare le decisioni più importanti.
ISRAELE
Nel 1945 la Palestina era abitata da 500.000 Ebrei e da 1.500.000 Arabi. La presenza degli ebrei in Palestina
era cresciuta soprattutto negli anni Trenta sotto la spinta del movimento sionista che ‘prometteva’ di riportare
gli Ebrei in Palestina dopo la diaspora del 70 d.C. e fondare uno Stato ebraico. Il sionismo, la cui iniziativa si
deve a Theodor Herzl, si sviluppa rapidamente anche favorita dalla Gran Bretagna che con la Dichiarazione
Balfour del 1917 si dichiarava disponibile all’insediamento di uno Stato ebraico in quella zona.
La Società delle nazioni aveva dato, sotto mandato, quelle zone alla Gran Bretagna a seguito della
dissoluzione dell’Impero ottomano all’indomani della Prima guerra mondiale.
La shoah aveva fatto sì che a livello internazionale si creasse un movimento favorevole alla nascita di uno
Stato ebraico, che divenisse la terra dei superstiti delle atrocità nazi-fasciste. La causa sionista aveva forti
alleati negli Stati Uniti, dove la comunità ebraica godeva di grande prestigio.
Intanto, la sempre più massiccia presenza di coloni ebrei aveva creato frizioni con le popolazioni locali. Nel
1945 era nata anche la Lega araba (Libano, Siria, Iraq, Egitto, Arabia Saudita, Transgiordania e Yemen) con
l’intento di costituire uno Stato arabo in Palestina.
Le organizzazioni militari ebraiche passarono alla lotta armata, sotto la guida del leader ebreo David Ben
Gurion, facendo saltare in aria nel 1946 la sede del quartier generale britannico a Gerusalemme (il King
David Hotel) e provocando decine di vittime. Di fronte alla situazione divenuta ormai incontrollabile, la
Gran Bretagna decise di ritirare le truppe dalla Palestina.
Nel 1947 l’ONU propose di dividere la Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme
zona internazionale. Gli Ebrei accettarono la spartizione mentre gli Arabi rifiutarono dichiarandosi pronti a
ricorrere alle armi.
Nel 1948, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele il giorno prima che l’ONU ne sancisse
ufficialmente la nascita. Il giorno dopo la Lega Araba attaccò il nascente Stato d’Israele, ma dovette
registrare una cocente sconfitta e l’affermazione definitiva dello Stato d’Israele come una realtà nuova
quanto stabile nell’area medio-orientale.
Al termine del conflitto, Israele aveva allargato i suoi confini del 40% oltre ciò che l’ONU aveva stabilito, e
la creazione di uno Stato Arabo non fu più possibile. Un milione di profughi arabi fuggirono nei paesi vicini:
nacque, così, la questione palestinese che si protrae fino ai nostri giorni e rende l’area instabile dal punto di
vista geo-politico.
Nel 1964 fu creata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), allo scopo di combattere gli
Israeliani e creare uno Stato palestinese, ma i conflitti sono aperti ancora oggi.
Nel 1967 l’Egitto del presidente Nasser impediva agli israeliani il commercio nel golfo di Aqaba. La risposta
di Israele fu pronta: attaccava l’Egitto e si difendeva da Siria e Giordania che prendevano parte alla guerra.
121
Subito di schierarono in maniera aperta le superpotenze: gli Usa appoggiarono Israele, l’Urss l’Egitto.
La “guerra dei sei giorni”, dal 5 al 10 giugno, registrò un nuovo successo israeliano che ampliò ancora i
propri territori. L’Israele dimostrò la forza dirompente del suo esercito e della sua aviazione e conquistò la
penisola del Sinai e la Striscia di Gaza che appartenevano al territorio Egiziano, la Cisgiordania e
Gerusalemme che appartenevano alla Giordania e le alture del Golan che erano governate dalla Siria.
Ancora, nel 1973, l’Egitto di Sadat (succeduto a Nasser) scatena la “guerra del Kippur” (festività
israeliana), insieme alla Siria. Israele con grandi difficoltà riuscì comunque a respingere l’attacco e ad
acquistare nuovi territori.
Nel 1977 Sadat propose un accordo di pace che poi venne sancito nel 1978 a Camp David sotto lo sguardo
del presidente americano Carter tra Sadat e l’israeliano Begin. Tale accordo fu considerato pregiudizievole
dall’Olp e dagli interessi palestinesi.
Il 1987 registra la cosiddetta Prima intifada (“risveglio”) o “guerra delle pietre” ovvero la rivolta dei
ragazzi palestinesi (12-15 anni) che lanciano pietre contro i soldati israeliani che occupano la Cisgiordania e
la Striscia di Gaza che finirà solo nel 1993 anno della storica stretta di mano tra Arafat, leader dell’Olp, e
l’israeliano Rabin a Washington al cospetto del presidente americano Clinton.
Ma la pace è, ancora oggi, da venire!
EUROPA
La ricostruzione
Non solo la dottrina Truman caratterizzò il periodo post-guerra, ma anche quello che verrà chiamato il Piano
Marshall, che assicurerà una massiccia partecipazione economica ai paesi alleati degli Stati Uniti, di fatto
sarà, un propellente per il miracolo economico e per la ricostruzione europea che diede linfa vitale per uno
sviluppo che surclassò ben presto la situazione ante guerra.
Il Piano Marshall fu un vero e proprio volano per l’economia europea. Gli Stati Uniti parteciparono alla
ricostruzione dal punto di vista economico in maniera eccezionale. Il Piano, ufficialmente chiamato
European Recovery Programm, fu annunciato il 5 giugno del 1947 dal Segretario di Stato George Marshall,
e divenne operativo l’anno successivo, nel 1948. L’intento dichiarato dagli americani fu quello di iniettare
una massiccia dose di denaro nei paesi europei per favorire la ricostruzione, al fine di prevenire il rischio
comunista e quindi di evitare eventuali rivolte, sommovimenti, rivoluzioni europee. Per evitare che i
Sovietici e l’idea del comunismo potessero influenzare le economie europee e gli Stati europei stessi, si
iniettò nel corpo vivo dell’Europa una quantità di denaro tale da poter tenere sedati gli animi della rivolta. Si
addormentò, insomma, la rivoluzione comunista col farmaco del denaro, con l’anestetico del denaro. Il Piano
si doveva inserire in quella vasta teoria di Keynes, che prospettava una piena occupazione attraverso un
sostegno alla domanda. Gli Stati, tra l’altro, avevano capito in maniera cristallina che l’ascesa di Hitler era
stata favorita esattamente dalla depressione economica e da una disoccupazione di massa, dunque, bisognava
scongiurare entrambe proprio attraverso una ricostruzione economica che potesse prevedere delle mete
ambiziose e un miglioramento della vita in generale. Già dal 1936 le teorie di Keynes e la politica
rooseveltiana avevano dimostrato, che, in funzione anticiclica e quindi anticrisi, era possibile un’iniezione di
denaro liquido tale da mettere in moto l’economia e da fornire benzina al capitalismo e a favorire, dunque,
una ripresa. In questo senso i governi occidentali capirono che bisognava mantenere alta la domanda
effettiva, in modo da assicurare una piena occupazione, ma accanto al Piano Marshall si inserì un altro tipo
di strumentazione, ovvero una strumentazione che favoriva l’abilità monetaria. Gli accordi Bretton Woods,
del 1944, stipulati tra 45 nazioni, crearono due strumenti estremamente importanti: il fondo monetario
internazionale e la banca mondiale. In questa contrattazione si raggiunse un accordo tra gli stati, nel
mantenere un regime di cambi fissi tra le varie monete, e, a lungo termine, di creare una libertà negli scambi
122
internazionali. Con grande acume, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio italiano, chiese
immediatamente, già dal 1947, che l’Italia fosse ammessa ad entrambi gli organismi previsti dagli accordi di
Bretton Woods. È importante capire che la ripresa dell’economia europea non solo derivò da questa
iniezione di liquidi, ma le radici della ripresa erano, paradossalmente, incardinate nella stessa crisi che aveva
causato dei disordini economici in Europa e che aveva portato l’Europa alla guerra, vale a dire la ripresa
aveva delle basi economiche che erano all’interno stesso del conflitto perché esso era l’acme di una crisi
economica e politica, ma la guerra, nel suo incedere, aveva portato alla massima espressione il sistema
economico. Il sistema economico si era concentrato sulla produzione bellica, che aveva prodotto una
concentrazione di tecnologie e un’intensificazione dei metodi produttivi, che, convertiti in economia civile,
saranno oltremodo importanti. Dunque lo sforzo bellico, nella produzione bellica convertita in usi civili,
consentì una maggiore capacità da parte del capitalismo, sia nei processi di concentrazione economica, sia
nei processi di intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, in modo che questo tipo di
ammaestramento servì da volano anch’esso nella produzione e nello sviluppo economico post guerra. Questo
tipo di carattere è visibile soprattutto in Gran Bretagna e in Germania. Il potenziale economico delle nazioni
in guerra beneficiò dei progressi della tecnica e delle scoperte scientifiche che si ebbero soprattutto nelle
industrie con delle munizioni. Il risultato fu, appunto, che il Regno Unito, l’Urss, l’USA e la Germania
acquistarono nuove capacità tecniche, così come capacità soggettive e quindi capacità professionali; molte
industrie, una volta operato la trasformazione in termini civili, si dimostrarono veramente assai proficue. Il
Piano Marshall fu estremamente importante fu considerato dai Sovietici un oggetto di penetrazione della
politica imperialistica americana, un tipo di impostazione perfettamente coerente. In effetti il Piano Marshall
era appunto lo strumento di penetrazione della politica espansionista, imperialista americana, un
imperialismo che oramai allargava la propria influenza non tanto con gli eserciti, ma con tutta una serie di
strumentazione finanziaria. I legami sempre più stretti tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti furono
ribaditi con il patto atlantico del 1949 e a livello militare con la NATO, cioè con il North Atlantic Treaty
Organization, l’organizzazione del trattato Nordatlantico estremamente importante, che aveva come scopo la
difesa militare dell’Occidente. Va ricordato che, soprattutto con la Francia e l’Italia, la NATO ha questo
legame così forte e per molti versi definitivo. Essa poneva i paesi sotto la protezione statunitense, creò grandi
dimostrazioni e grandi malcontenti soprattutto nei partiti di sinistra, quindi in Francia ed in Italia, dove questi
ultimi erano massicciamente rappresentati.
La costruzione
Tre sono le ipotesi per giungere all’unità europea dopo che i nazionalismi europei si erano ferocemente
dilaniati:

L’Ipotesi confederale prevedeva una certa unità politica senza che i governi cedessero una qualche
sovranità nazionale.

L’ipotesi funzionalista si articolava sull’idea che l’integrazione economica, sempre più stretta,
avrebbe portato pian piano alla constatazione della necessità della unità politica.

L’ipotesi federalista si reggeva sull’idea di una vera federazione di stati che si costruiva sulla
cessione della sovranità nazionale. La federazione, cioè, era possibile a patto che i singoli stati
cedessero parte della loro sovranità nazionale fino alla costituzione di organismi europei, cioè di una
Assemblea costituente europea capace di accentrare i poteri e di dar luogo ad una Costituzione
federale.
Quest’ultima ipotesi si era fatta strada già all’interno del movimento resistenziale europeo. Alfiere di questa
via fu Altiero Spinelli, che al confino, insieme a Ernesto Rossi, scrisse il Manifesto di Ventotene che ebbe
larga eco fra l’élite intellettuali.
123
La via ipotizzata da Spinelli era soprattutto di ordine politico in una visione che faceva scendere dall’alto il
processo unitario: la carta costituzionale europea avrebbe avuto la capacità di unire i diversi popoli che fino
al giorno prima si erano ferocemente squassati.
Nel 1948 fu costituita l’OECE, l’organizzazione per la collaborazione economica europea. Nel 1951 venne
costituita, poi, la CECA, la comunità europea del carbone e dell’acciaio. All’interno di questo processo che
riguarda i primi organismi economici europei, di notevole importanza è la data del 25 marzo 1957, quando,
con il Trattato di Roma, si istituiva la CEE, comunità economica europea, detta anche MEC, mercato
comune europeo che aboliva le tariffe doganali e gli ostacoli alla libera circolazione delle persone, e, nello
stesso tempo si costituiva l’EURATOM, cioè comunità europea dell’energia atomica. Sia Alcide De Gasperi
che Robert Schuman tentarono di proporre una maggiore unione tra diversi paesi reduci dall’esperienza della
seconda guerra mondiale. Essi proponevano la costituzione di una comunità europea di difesa, la CED, ma
evidentemente i tempi erano troppo immaturi per una cosa del genere. Si tenga conto che neanche oggi c’è
una comune difesa europea, certamente questo avrebbe significato anche una maggiore cementificazione dal
punto di vista politico perché l’uso della forza avrebbe necessariamente richiesto anche organismi
estremamente importanti per quanto riguarda la fase legislativa, decisionale. L’Europa, dopo la seconda
guerra mondiale, dilaniata dai conflitti tra gli stati, cercava faticosamente di ricomporre un’unità,
quantomeno un’armonia con cui poter sopravvivere alle catastrofi che aveva prodotto. Il principio su cui
l’Europa si mosse fu innanzitutto quello di diventare economicamente un’unità, ovvero di integrare le
economie dei singoli stati e renderle sempre più cosa una. L’integrazione economica e l’interdipendenza
doveva suscitare e, inevitabilmente, portare ad un’unione tra stati politica e ideologica, se si vuole
considerare che poco prima si erano contese guerre, territori e lingue. Sarebbe stato difficile pensare che
queste nazioni potessero rinunciare alla propria sovranità, quindi, per molti versi, il problema dell’Europa e
di una pace europea fu intesa materialisticamente e marxisticamente come integrazione economica, dalla cui
integrazione si sarebbe dovuti passare ad un’integrazione necessariamente politica e anche per quanto
riguarda organismi di difesa. De Gasperi, in quel momento, ebbe il merito non solo di proporre, insieme a
Schuman e Adenauer, questo obiettivo, ma di guardare lontano e appunto di vedere come la progressiva
integrazione avrebbe poi richiesto una limitazione della sovranità nazionale a favore di organismi europei;
l’obiettivo è ancora pienamente da raggiungere. Un’impostazione di tipo politica si ebbe nel 1979, quando si
istituì il Parlamento europeo di Strasburgo eletto a suffragio universale e poi rinnovato nel 1984, ogni 5 anni.
All’inizio il Parlamento di Strasburgo ebbe poteri molto limitati e si raccomandavano ai governi una serie di
iniziative. Un passo avanti, estremamente importante, ci fu nel 1989 con la creazione del sistema monetario
europeo (SME), con il quale si cercò sempre più di unire le monete europee in un rapporto di cambio
estremamente stretto. Un altro passo importante verso l’unificazione dell’Europa fu il trattato di Maastricht
del 1992, firmato a Maastricht, in Olanda. I 12 rappresentanti della Comunità economica europea vi si
riunirono per concordare regole e scadenze dell’Unione europea con una moneta unica: l’euro. Solo la Gran
Bretagna ottenne l’esenzione da questa moneta unica e le si concesse la possibilità di mantenere la propria,
ovvero la sterlina.
Questa accelerazione politica fu anche il prodotto della caduta del muro di Berlino del 1989 e delle
preoccupazioni francesi per il ricostituirsi di una nuova grande Germania: l’Unione avrebbe legato la
Germania all’Europa e limitato le sue aspirazioni di dominio europeo.
Con questo Trattato si prevedeva l’introduzione, nel 1999, della moneta unica e della Banca centrale europea
(BCE). Inoltre si elaborarono i parametri di convergenza economica per la permanenza e l’entrata nella
Comunità. Tra i cinque parametri economici spiccano per la loro importanza la fissazione non superiore al
3% del rapporto tra deficit pubblico e PIL e non superiore al 60% il rapporto tra debito pubblico e PIL. Il
Belgio e l'Italia con un rapporto superiore furono esentate da quest’obbligo, ma con l’impegno di ridurre tale
rapporto.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
A. Spinelli, R. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, 1944
Film
Il figlio dell’altra, di L. Lévy. 2012
DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMI
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Il nuovo assetto europeo
La divisione della Germania
Gli USA: Dottrina Truman, Piano Marshall e Patto Atlantico
La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto di Varsavia
La crisi greca
La guerra di Corea
Il XX Congresso del PCUS
I ‘fatti di Ungheria’
La rivoluzione cubana
La guerra del Vietnam
Il caso cecoslovacco
L’esperienza democratica cilena
Afghanistan: il Vietnam sovietico
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DUE BLOCCHI, DUE IMPERIALISMI
La fine della Seconda guerra mondiale consacrò due superpotenze: l’URSS e gli Stati Uniti. Le due
superpotenze vincitrici dal conflitto mondiale si spartirono letteralmente il mondo in due aree che si
contrastarono per modello economico, ideologico e politico. Le armate di entrambi i vincitori segnarono il
perimetro delle loro rispettive ‘aree di influenza’ e furono la base su cui si andò ad articolare l’intera storia
della seconda metà del Novecento.
Negli stati finiti sotto il controllo sovietico nacquero regimi con modelli di economia pianificata, istituzioni
dispotiche e totalitarie. Tra il 1945 e il 48, Stalin impose il suo paradigma economico e politico all’Europa
orientale, cosicché i diversi stati divennero ‘stati satelliti’ dell’Urss. I paesi che si trovarono sotto
occupazione anglo-americana si svilupparono in stati ad economia di mercato con istituzioni libere e
democratiche.
Due gendarmi, due imperialismi che furono sempre pronti ad intervenire, posizionarsi e confrontarsi
ovunque si muovesse qualcosa, al fine di configurare al meglio il loro assetto mondiale. Il mondo fu ridotto
al pari di una scacchiera e l’autodeterminazione delle varie nazioni fu annichilita di fronte alla strategia di
gioco dei due avversari.
Abbiamo già specificato come lo sgancio della prima bomba atomica – con gli eserciti ancora impegnati a
dilaniarsi – possa essere considerato il primo atto della cosiddetta ‘guerra fredda’ ovvero di quella guerra
che l’URSS e gli USA combattono senza mai fronteggiarsi né direttamente, né sui rispettivi territori, ma
sempre per ‘procura’, su territori diversi coinvolgendo milioni di uomini. Una guerra considerata ‘fredda’
poiché non coinvolse direttamente le superpotenze, né l’Europa, incapace di tirare in ballo le grandi nazioni
in un nuovo conflitto mondiale. Una guerra ‘fredda’ perché oltre alle armi, spesso si usano le strategie
politiche per determinare lo schieramento di una nazione da una parte piuttosto che dall’altra.
Il nuovo assetto europeo
Le condizioni di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale vennero decise nella Conferenza dei Ventuno (o
Conferenza di Parigi), che si tenne a Parigi dal luglio all’ottobre del 1946. In questa circostanza vennero stesi
i Trattati di pace che furono firmati alla fine del 1947 a Parigi. Tra le modifiche territoriali più importanti vi
furono quelle riguardanti la Romania, la quale cedette la Bucovina e la Bessarabia all’Unione Sovietica, e
che ottenne il territorio della Transilvania, precedentemente ungherese.
L’Europa che usciva dalla Seconda guerra mondiale veniva – dicevamo – disegnata dalle armate: quelle
russe e quelle americane.
126
L’URSS che con l’Armata rossa aveva travolto i tedeschi fino a Berlino estendeva la sua influenza su tutti i
territori ‘liberati’. Gli USA che avevano a loro volta liberato i paesi assieme alla Gran Bretagna, alle forze
resistenziali ponevano sotto la loro influenza l’altra metà dell’Europa.
In Italia la situazione risultava piuttosto complicata, a causa del mancato riconoscimento del contributo
militare della Resistenza Italiana alla liberazione. Il Trattato di pace fu firmato da Alcide De Gasperi, il
presidente del consiglio, mentre intellettuali come Croce, Luigi Sturzo ed anche Vittorio Emanuele Orlando
furono protagonisti di un acceso dibattito. Costoro, infatti, ritenevano profondamente ingiusto che non fosse
riconosciuta all’Italia la partecipazione alla lotta anti-nazista e che si ignorasse completamente il principio
dell’autodeterminazione dei popoli nella questione dei confini orientali, ovvero quelli con la Iugoslavia
comunista di Tito. Le clausole del Trattato comprendevano:
1. La restituzione alla Grecia delle isole del Dodecaneso nel Mar Egeo;
2. La cessione alla Francia di due comuni al confine quali Briga e Tenda;
3. L’Alto Adige rimaneva all’Italia, che si era già impegnata con l’Austria a concedere un’ampia autonomia
amministrativa e linguistica nella provincia di Bolzano;
4. L’Eritrea fu federata all’Etiopia, la Somalia fu affidata all’Italia in amministrazione fiduciaria per dieci
anni e resa indipendente nel 1960, la Libia divenne Stato indipendente e l’Albania, che era stata annessa
all’Italia nel 1939, tornò indipendente;
5. La cessione dell’Istria, di Fiume, di Zara e di gran parte delle province di Gorizia e di Trieste alla
Iugoslavia. Dopo una serie di momenti drammatici, Trieste fu dichiarata territorio libero. Nel 1945, infatti, fu
occupata dalle truppe comuniste iugoslave di Tito e rischiò di essere inglobata nel nuovo stato iugoslavo, ma
fu salvata dall’arrivo delle truppe neozelandesi, le quali impedirono che Trieste e il Friuli Venezia Giulia
diventassero iugoslave. Dopo scontri piuttosto violenti, alla fine del 1946, si arrivò alla soluzione provvisoria
che prevedeva una cessione della penisola istriana, escluso il territorio di Trieste e Capo di Istria, alla
Iugoslavia. Con il trattato di pace del 1946, Gorizia e Monfalcone furono assegnate all’Italia e la città di
Trieste, insieme con le zone limitrofe, fu divisa in due zone, una sotto controllo alleato, l'altra con
amministrazione iugoslava e con sovranità italiana. Solo nel 1954 Trieste venne finalmente restituita
all’Italia, mentre alla Iugoslavia fu affidato un altro territorio. Il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975
sancì in maniera definitiva la sovranità della Iugoslavia su questa zona ed essa riconobbe il dominio italiano
su Trieste. Il conflitto riguardo la questione di Trieste costò consistenti disagi alla popolazione italiana, che
dovette abbandonare i territori occupati dalle truppe di Tito. Si calcola che circa 350.000 italiani dovettero
lasciare le terre cedute alla Iugoslavia comunista.
La divisione della Germania (1946)
La Conferenza di pace di Parigi del 1946 non ratificò altro che lo schieramento in campo.
La divisione della Germania e di Berlino rappresentò l'incrinarsi palmare dei rapporti tra USA e URSS e
l'acme del contrasto tra queste due superpotenze, che si contendono lo spazio europeo.
A causa dei conflitti tra gli alleati, la Germania fu divisa, in principio, in quattro zone di occupazione:
americana, inglese, francese e sovietica. Questa occupazione si prolungò finché si formò nel 1949 ad Ovest,
la Repubblica Federale Tedesca (BDR), guidata da Bonn e controllata dagli Anglo-Americani, e ad Est la
Repubblica Democratica Tedesca (DDR) guidata da Pankow e controllata dai Sovietici. In effetti furono
gli eserciti a disegnare i confini della Germania divisa.
Anche Berlino nel 1948, nonostante si trovasse, dal punto di vista territoriale, nella zona occupata dai
sovietici, fu divisa in due: Berlino Est, sotto controllo sovietico, e Berlino Ovest, sotto influenza anglofranco-americana.
Nel 1961 il presidente americano Kennedy incontrò il presidente sovietico Kruscev per discutere della
questione di Berlino Ovest. Per i sovietici bisognava rendere Berlino Ovest una “città libera” mentre per gli
americani essa era parte integrante della Germania Federale. L’incontro non portò a nulla di fatto. Due mesi
127
dopo, nottetempo, il 12 novembre 1961, fu costruito il famoso muro per evitare soprattutto le numerose
fughe verso Berlino Ovest. Il Muro divenne il simbolo della Guerra fredda.
Gli USA: Dottrina Truman, Piano Marshall e Patto Atlantico
Alla fine della guerra, dopo che USA e URSS avevano combattuto fianco a fianco al fine di sconfiggere il
comune nemico nazi-fascista, le differenze tra i due Paesi erano più evidenti che mai. La rivalità divenne
manifesta con l'elezione di Henry Truman alla carica di presidente degli Stati Uniti. Questi, in un discorso
pronunciato il 12 marzo 1947 al Congresso, espresse ciò che è passato alla storia come "dottrina Truman".
Bisognava appoggiare "i popoli liberi che lottano contro la sopraffazione da parte di minoranze armate o di
pressioni esterne". Il presidente, infatti, riteneva che: "La nascita dei regimi totalitari è favorita dalla miseria
e dalla privazione". Era necessario, dunque, aiutare l'Europa nella ricostruzione istituzionale, economica,
sociale ed ideologica per limitare l'avanzata del comunismo.
La realizzazione pratica della dottrina Truman fu il Piano Marshall. Questo, ufficialmente chiamato
European Recovery Programm, fu annunciato il 5 giugno del 1947 dallo stesso ideatore e segretario di Stato
americano George Marshall (riceverà il premio Nobel per la pace nel ‘53), divenne operativo l’anno
successivo, nel 1948, e terminò alla fine del 1951. Il piano, che costò 14 miliardi di dollari, assicurò agli stati
europei la massiccia partecipazione economica degli Stati Uniti e fu lo strumento cruciale per innescare la
ricostruzione e il successivo miracolo economico. I maggiori beneficiari in termini assoluti furono: Gran
Bretagna, Francia, Italia, Germania Federale, Paesi Basi. Il Piano Marshall fu un volano per l’economia
europea. Il suo intento era chiaro: destinare all'Europa una massiccia quantità di denaro per prevenire il
rischio di rivoluzioni comuniste. In questo modo si addormentò il pericolo comunista con l’anestetico del
denaro. Il piano seguiva la teoria dell'economista Keynes, che prospettava una piena occupazione
mantenendo alta la domanda: bisognava quindi creare la richiesta di prodotti per rilanciare la produzione
industriale ed agricola e, quindi, tutta l'economia. Gli Stati europei, naturalmente, videro di buon occhio un
tale flusso di denaro, anche perché avevano capito che l’ascesa di Hitler e dei nazionalismi in generale, era
stata favorita dalla depressione economica e dalla disoccupazione di massa. Bisognava, dunque, scongiurare
entrambe le cose attraverso una ricostruzione economica che si prefiggesse mete ambiziose e che
prospettasse un reale miglioramento della vita. Il Piano Marshall fu firmato a Parigi nel 1947 con un trattato
bilaterale tra USA e i paesi europei beneficiari, tra i quali i principali erano Gran Bretagna, Francia, Italia e
Germania Ovest. Gli Stati Uniti crearono l'Economic Cooperation Administration (ECA) e inviarono in
Europa dei loro rappresentati affinché controllassero che gli aiuti venissero impiegati nel modo giusto.
Il Piano Marshall fu affiancato da strumenti che avrebbero reso più flessibili e governabili i mercati. Negli
accordi di Bretton Woods del 1944, stipulati tra 45 nazioni, si diede vita al Fondo monetario internazionale
e alla Banca mondiale. Si raggiunse un concordato tra gli stati al fine di garantire la libertà negli scambi
internazionali attraverso il mantenimento di un regime di cambi fissi tra le diverse monete. Con grande
acume Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio italiano, chiese immediatamente, già dal 1947, che
l’Italia fosse annessa ad entrambi gli organismi previsti dagli accordi di Bretton Woods.
La ripresa economica dell'Europa, comunque, non solo derivò dall'arrivo di capitali liquidi americani, ma
affondava le sue radici nella stessa guerra. Il secondo conflitto mondiale portò il sistema economico alla sua
massima espressione. Quest'ultimo si era focalizzato sulla produzione bellica, che aveva generato la
concentrazione delle tecnologie e l'intensificazione dei metodi produttivi. Lo sforzo industriale bellico,
quando fu riconvertito per l'uso civile, consentì una maggiore capacità da parte del capitalismo sia nei
processi di concentrazione economica sia nei processi di intensificazione dello sfruttamento della forza
lavoro. Esso, quindi, servì da base per la produzione e per lo sviluppo economico post-guerra. Questa
tendenza fu visibile soprattutto in Gran Bretagna e in Germania, le quali durante la guerra, insieme con USA
e URSS, avevano acquisito nuove capacità tecniche e professionali.
128
Dopo i soldi, arrivarono le basi militari! Il Piano Marshall, oltre a rendere possibile la ricostruzione europea,
rese anche sempre più stretti i legami tra l'Europa occidentale e gli Stati Uniti. Questo rapporto fu
ufficializzato dalla firma del Patto Atlantico, il 4 aprile 1949. Gli Stati che vi aderirono (Francia, Belgio,
Olanda, Lussemburgo, Canada, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia) si organizzarono anche in
un'alleanza militare con la creazione della NATO (North Atlantic Treaty Organization), che aveva come
scopo la difesa militare dell’Occidente. Essa poneva i paesi firmatari sotto la protezione statunitense
attraverso ‘l'ombrello nucleare’. La forte (se non invadente) presenza della NATO provocò dimostrazioni e
malcontenti nei partiti di sinistra, soprattutto in Francia e in Italia, dove questi ultimi erano molto forti.
La risposta dell’URSS: Cominform, Comecon e Patto di Varsavia
La dottrina Truman e il successivo Piano Marshall furono subito percepiti dai sovietici nella loro funzione
politica di strumenti dell’imperialismo americano.
Pochi mesi dopo la dichiarazione di Truman veniva fondato il Cominform ovvero un ufficio d’informazione
che legava i partiti comunisti del mondo dato che la Terza Internazionale, che era stata fondata da Lenin nel
1919, fu sciolta nel 1943.
Alla dottrina Truman si rispondeva altresì con il COMECON (Consiglio di mutua assistenza economica),
istituito nel 1949 e sciolto con la fine dell’URSS, che includeva Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia,
Cecoslovacchia. Si trattava di un'alleanza economica dei paesi comunisti che seguiva le orme del Piano
Marshall.
Al Patto Atlantico e alla Nato si rispondeva, nel 1955, con il Patto di Varsavia, ovvero un'alleanza militare
tra i paesi comunisti.
Intanto l’Unione Sovietica iniziò una furibonda corsa agli armamenti e alla produzione della bomba atomica
succedette la bomba H, una bomba ancora più micidiale di quella sganciata sul Giappone, mentre gli arsenali
dei due blocchi crescevano a dismisura.
Una pagina nera dell’imperialismo sovietico e della propaganda comunista fu scritta da alcuni incidenti e
processi che avvennero in Bulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia contro esponenti comunisti accusati
ingiustamente di collusione con gli americani. A questa morsa si sottrasse in parte la Iugoslavia di Tito, che
era un paese satellite filosovietico. Ad un tratto i rapporti tra Tito e Stalin si ruppero, perché Stalin voleva
che la Iugoslavia entrasse in una federazione balcanica. Al rifiuto di Tito i Sovietici reagirono accusandolo di
atteggiamenti filo-imperialisti e di tradimento della causa comunista. Tito rispose con le epurazioni degli
oppositori interni. Alla fine, nel 1948, la Iugoslavia venne espulsa dal Cominform.
La paura del comunismo negli Stati Uniti si concretizzò nel maccartismo: un clima di "caccia delle streghe"
dove il sospetto e la delazione ebbero la meglio. Joseph McCarthy fu, infatti, il promotore di numerose leggi
conservatrici, reazionarie e repressive riguardo la dimensione politica e sindacale. Vittime della persecuzione
non furono solo i comunisti, ma anche i liberali e i democratici, sospettati di antiamericanismo.
La crisi greca (1947)
La crisi greca fu un altro momento per chiarire i conflitti a livello internazionale. Nell’inverno tra il 1946 e il
1947, in Grecia, si profilava una situazione estremamente complessa: il governo, a maggioranza di destra,
aveva intrapreso una vera e propria caccia ai comunisti ed al partito comunista e socialista. Questo fece sì
che nel nord del Paese si formassero organizzazioni partigiane guidate dal comunista Marcos, che fu
appoggiato dal governo iugoslavo titino. Vi erano, dunque, partigiani comunisti greci che programmavano
l’insurrezione. Negli accordi internazionali, la Grecia rientrava nell’orbita britannica, che in quel momento
non aveva i mezzi per intervenire. Furono quindi gli Stati Uniti a sostituire la Gran Bretagna e ad aiutare la
Grecia. La guerra civile greca fu estremamente violenta e finì nel 1949 con la sconfitta dei partigiani
129
comunisti, i quali furono vinti anche a causa della frattura tra Tito e Stalin, che aveva interrotto le fonti di
approvvigionamento per Marcos. Trionfarono gli Americani anche grazie alla dottrina Truman. Per tale
motivo alcuni storici ritengono che la guerra civile in Grecia segnò l'inizio della Guerra Fredda, in quanto gli
USA si presentavano come garanti e difensori, grazie ad aiuti economici e militari, degli stati minacciati
dall'URSS. La Grecia, insieme con la Turchia, furono i primi esempi visibili dell'applicazione della dottrina.
La guerra di Corea (1950)
La guerra di Corea mostra, in maniera plastica, la contrapposizione dei due imperialismi, dei due blocchi
USA-URSS nella Guerra fredda. La Corea, dopo la seconda guerra mondiale, era stata divisa in due zone:
Corea del Nord, occupata dai Sovietici, e Corea del Sud, occupata dagli Americani, divise lungo il
trentottesimo parallelo. Le due Coree avevano a loro volta due governi: la Repubblica democratica al Sud e
la Repubblica Popolare al Nord. La divisione della Corea, del tutto artificiale, produsse ben presto delle
frizioni che si conclusero in un vero e proprio conflitto, che scoppiò nel 1950 e terminò nel 1953. La guerra
ebbe inizio con l’attacco improvviso da parte della Corea del Nord che invase la Corea del Sud. L’ONU
dichiarò la Corea del Nord come paese aggressore e gli americani risposero immediatamente, affidando al
generale Mac Arthur la sovraintendenza delle operazioni. Dal Giappone arrivavano rinforzi e mezzi militari
statunitensi, mentre dalla Cina di Mao arrivavano volontari in aiuto della Corea del Nord. Il generale Mac
Arthur chiese l’impiego della bomba atomica contro la Cina, ma cercò di risolvere diplomaticamente la
situazione. Dopo tre anni di sanguinose battaglie, si ripristinò la situazione precedente, ovvero la divisione
delle due Coree lungo il trentottesimo parallelo. Le due superpotenze si erano scontrate in Corea, in uno
spazio a loro estraneo, avevano seminato morte e devastazione, ma la partita si era conclusa con un pareggio
ai danni dei coreani, che continuarono ad essere un popolo scisso in due nazioni.
Il XX Congresso del PCUS (1956)
Il 5 marzo 1953 muore Stalin. Alla guida dell’URSS arriva Nikita Krusciov che subito promosse un vasto
piano di riforme economiche e politiche, da una parte, e tentò di migliorare le relazioni con l’occidente nella
fattispecie con l’USA, dall’altra. Secondo Krusciov l’URSS doveva dimostrare la sua superiorità non con
una vittoria militare, ma dimostrando concretamente la superiorità del sistema economico ovvero
dell’economia pianificata. Iniziava, così, quella fase detta della ‘distensione’ suggellata dalla Conferenza di
Ginevra del 1955, che, pur vedendo i due imperialismi confliggere per accaparrarsi zone d’influenza nel
mondo, non esacerbava i conflitti con quella veemenza, quegli eccessi degli inizi del dopoguerra.
Uno degli eventi più importanti nel mondo del ‘socialismo in un solo paese’ è stato, sicuramente il XX
Congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), del febbraio 1956. Durante questo
Congresso, Krusciov pose sotto accusa i metodi di governo di Stalin e ne denunciò i crimini: lo accusò della
repressione politica degli avversari politici, delle condanne veloci e senza contraddittori, del terrore che
aveva pervaso l’élite del partito dirigente dell’epoca, di metodi non democratici e, addirittura, di errori
condotti nella guerra contro Hitler.
Venne reso noto il Testamento di Lenin nel quale il vecchio capo metteva in guardia dall’affidare il potere
ad un personaggio come Stalin.
Krusciov, in maniera inaspettata, parlò al Congresso del culto della personalità di Stalin e della
degenerazione del regime sovietico. La critica fu durissima anche se parziale giacché non prese in
considerazione lo sterminio dei kulaki, la persecuzione contro la chiesa ortodossa, i gulag. Dal rapporto
emergeva che il culto di Stalin aveva portato a delle degenerazioni nella politica del partito, gestita da un
dittatore spregiudicato: questo creò non solo disorientamento, ma innescò anche un processo di critica verso
le classi dirigenti.
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Il rapporto di Krusciov ebbe una vasta eco non solo in URSS, ma in tutti i ‘paesi satelliti’ e nei partiti
comunisti creò speranze e disorientamento giacché in Stalin avevano visto il leader indiscusso e
indiscutibile.
I ‘fatti di Ungheria’ (1956)
In Ungheria, ad esempio, si mise sotto accusa la politica dello stalinista Matyas Rakosi e si aprì una fase in
cui si chiedeva un’apertura verso un orizzonte democratico. Il nuovo capo del governo, Imre Nagy avrebbe
voluto avviare un processo di democratizzazione del sistema: libertà di stampa, ecc. ma anche uscire dal
Patto di Varsavia.
L’Armata rossa, con il consenso dei governi comunisti (Cina compresa), represse nel sangue la ribellione e il
3 novembre 1956, il presidente ungherese Nagy fu arrestato, processato ed in fine impiccato nel 1958.
I ‘fatti di Ungheria’ disorientarono ulteriormente i partiti comunisti nei paesi occidentali, poiché l’URSS
mostrava chiaramente tratti autoritari, repressivi verso qualunque ipotesi di autodeterminazione dei popoli.
Mostrava chiaramente di essere una nazione imperialista. Il Partito comunista italiano fu uno dei primi a
denunciare la situazione e a chiedere maggiore autonomia da Mosca piuttosto che tollerare la politica
repressiva che l’URSS attuava nei confronti di governi che chiedevano maggior tolleranza.
La rivoluzione cubana (1959)
L’America latina è sempre stata considerata dagli USA una riserva di caccia, un deposito di materie prime
per il proprio sviluppo economico. Gli USA avevano sostituito l’Inghilterra nel controllo economico e
politico degli stati latino-americani a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Lo stato di controllo e
dipendenza fu costruito attraverso sottili meccanismi imperialistici.
All’imperialismo che conquista con eserciti e che impiega pesanti amministrazioni locali gli USA avevano
proceduto con un controllo economico, attraverso ad esempio l’imposizione delle monocolture, tutto a
vantaggio delle compagnie come la United Fruit Company, oppure attraverso istituzioni come
l’Organizzazione degli Stati Americani, che metteva gli stati latinoamericani sotto tutela degli USA.
In questo quadro di controllo e di dipendenza latino-americana s’inserisce la rivoluzione cubana destinata a
sconvolgere non solo gli assetti dell’America latina ma internazionali, inserendosi prepotentemente nel
quadro di una Guerra fredda sull’orlo di diventare una Terza guerra mondiale.
La rivoluzione cubana sfuggì al controllo della superpotenza americana, unicamente a patto della risoluta
piega verso la protezione dell’URSS.
Cuba era guidata da Fulgenzio Batista, capo di un governo conservatore corrotto: tale situazione fu
rovesciata, nel 1959, da un movimento di guerriglieri rivoluzionari con a capo Fidel Castro e Ernesto Che
Guevara, il quale di lì a poco diventerà un vero e proprio mito.
In un primo tempo, gli Stati Uniti riconobbero addirittura il nuovo governo, pensando di poterlo in qualche
modo mantenere in un alveo democratico filoamericano, ma ben presto Castro cominciò a colpire gli
interessi americani nell’isola con l’idea di una riforma agraria che minacciasse in particolare la United Fruit
Company. Gli americani cambiarono subitamente atteggiamento e il presidente Eisenhower impose il
boicottaggio economico impedendo qualsiasi tipo di commercio.
Allora i cubani si rivolsero ai Sovietici che s’impegnarono ad acquistare la canna da zucchero cubana a
prezzi ‘politici’, ovvero a prezzi più alti rispetto a quelli di mercato. La rivoluzione socialista cubana si
radicò ancora di più e si spostò inevitabilmente verso l’Unione Sovietica, statalizzando e nazionalizzando
l’economia.
131
Essa rappresentava una spina nel fianco per l’imperialismo americano e un pericoloso esempio per gli altri
stati dell’America latina.
Nel 1961 Kennedy diede il suo placet affinché Castro fosse eliminato e la rivoluzione rovesciata. In questa
direzione doveva mirare la spedizione - a firma dei servizi segreti americani (CIA) – di esuli cubani che
sarebbero dovuti sbarcare alla Baia dei Porci e riportare ordine nell’isola. Tuttavia la spedizione ebbe la
peggio perché i cubani si strinsero attorno a Fidel e sostennero la rivoluzione.
Data la situazione i cubani furono costretti a cercare nell’Urss una sponda economica e politica. L’aiuto che
i cubani chiesero all’Unione Sovietica fu pagato, ovviamente, con l’installazione di basi missilistiche
sovietiche nell’isola. Quando l’America venne a conoscenza dei missili, John Fitzgerald Kennedy reagì
immediatamente, intimando ai sovietici il loro ritiro. Proprio in quei giorni, un sommergibile sovietico
puntava verso Cuba e solo alla fine si decise di sospendere le installazioni missilistiche a Cuba. Il mondo, per
tredici giorni, fu sull’orlo di una Terza guerra mondiale con uno scontro diretto tra USA e URSS.
La guerra del Vietnam (1965)
Alla fine della seconda guerra mondiale, proprio sotto la spinta del conflitto del Giappone, i francesi
occuparono quella che chiamavano ‘Cocincina’. Sotto la loro influenza il Vietnam si distinse pian piano in
due strutture completamente diverse: quella del nord e quella del sud. La prima era legata alla cultura cinovietnamita ed era basata su un’economia artigianale e contadina, la seconda, invece, era sotto il dominio
coloniale francese e assunse i tratti di un’economia capitalistica. Il 2 settembre 1945 Ho Chi Minh, guida
della Repubblica comunista del Nord, lesse ad Hanoi la dichiarazione d’indipendenza della Repubblica
Democratica del Vietnam liberando con ciò il Vietnam del Nord dalla dominazione francese. I francesi però
non si rassegnarono affatto a perdere una colonia come l’Indocina. Dunque si giunse ad una sorta di
compromesso tra la Repubblica Democratica e i francesi, il quale prevedeva che la Francia riconoscesse la
Repubblica del Vietnam del nord come Stato libero ed autonomo da un lato, mentre dall’altro si impegnava,
nella parte sottoposta al suo dominio, a ratificare una serie di decisioni popolari attraverso referendum. In
effetti l’intesa non venne rispettata dai francesi che proclamarono una Repubblica Indipendente al Sud con
capitale Saigon. Il Vietnam si trovò così diviso in due. Ciò segnò l’inizio di una lunga e spietata guerra.
Nel 1954 l’URSS, la Cina, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti raggiunsero un accordo a Ginevra sul destino
del Vietnam, decidendo per una divisione della regione lungo il diciassettesimo parallelo; entro il 1956 si
sarebbero dovute tenere libere elezioni. Intanto il Vietnam del Nord portava a segno una vasta riforma
agraria, mentre il Vietnam del Sud con a capo Ngo Dinh Diem, instaurava un governo anticomunista
sostenuto dagli statunitensi. La protesta sociale nel Vietnam del Sud si organizzò in un movimento
comunista di guerriglia chiamato Vietcong, appoggiato dal Vietnam del Nord.
A questo punto fu il presidente Kennedy a decidere di intensificare la presenza statunitense a Saigon che nel
1961 contavano 15.000 consiglieri politici. Qualche anno dopo l’invio di questi consiglieri, vi fu la
spedizione di veri e propri contingenti militari.
Nel 1965 il presidente Lyndon Johnson decise di intervenire bombardando tutto il territorio del Vietnam del
Nord. I bombardamenti statunitensi furono atroci per le popolazioni civili che furono massacrate ed i villaggi
furono rasi al suolo. Nel 1967, durante la sua presidenza, i soldati americani divennero 400.000; furono
sperimentati vari tipi di armi e gli Stati Uniti ricorsero addirittura al Napalm, ovvero una miscela incendiaria
che faceva letteralmente terra bruciata di interi villaggi. Nessuna delle due parti riusciva ad avere la meglio: i
due Stati si fronteggiavano quindi senza che nessuno dei due riuscisse ad imporre la propria supremazia
militare. La guerra si concluse nel 1973 con un armistizio firmato a Parigi da Nixon che prevedeva un
graduale ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam del Sud.
132
La riunificazione del paese avvenne nel 1975 quando i Vietcong entrarono a Saigon, capitale del Vietnam del
Sud, segnando la fine del regime di Van Thieu. Gli Stati Uniti vissero con la guerra del Vietnam uno dei
periodi più difficili della loro storia recente: oltre l’insuccesso militare, gli Americani dovettero affrontare
una contestazione interna. L’opinione pubblica americana si chiedeva sempre più frequentemente il motivo
per cui i giovani americani dovessero abbandonare la loro famiglia, lo studio e il lavoro per andare a
combattere dall’altra parte del mondo. A questi interrogativi il governo rispondeva che la guerra era
necessaria in quanto occorreva impedire al comunismo di espandersi in Vietnam e che le difficoltà
nascevano dal fatto che il Vietnam del Nord non combatteva in modo tradizionale, ma usava il metodo della
guerriglia. Il “gendarme del mondo” crollava ad opera della resistenza, della tenace volontà di un popolo di
un popolo di contadini guidati dal mitico ‘zio Ho’ (Ho Chi Minh) che campeggerà nei cortei studenteschi del
’68.
La sconfitta americana portò come contraccolpo alla costituzione di regimi comunisti anche in Laos e in
Cambogia: in quest’ultimo paese andarono al potere i cosiddetti Khmer rossi, un gruppo di guerriglieri
comunisti, i quali diedero il via a durissime misure di repressione. Nel 1978 un intervento vietnamita li
allontanò dal potere collocando al loro posto un governo fedele al regime di Hanoi. La Cina nel 1979 attaccò
il Vietnam; tuttavia l’intervento cinese non portò grandi risultati, tanto che la Cambogia restò, ed è tutt’ora,
nell’orbita del Vietnam.
Il caso cecoslovacco (1968)
Successe a Krusciov nella guida del Partito e del governo dell’URSS Leonid Brežnev, che guiderà il paese
dal 64 all’82.
Nel 1968 il Partito comunista ceco, con a capo Alexander Dubcek cercò di dar luogo ad un processo di
riforme politiche interne al partito e un programma che rendesse la Cecoslovacchia più democratica per
tentare un’altra strada nell’edificazione del socialismo: “un socialismo dal volto umano”.
Agli occhi dei sovietici, le idee di Dubcek erano vera e propria follia e tradimento, capaci di minare la tenuta
politica dei paesi del Patto di Varsavia. La Cecoslovacchia, in particolare, avrebbe potuto influenzare la
Polonia, la quale appariva come una bomba pronta ad esplodere, a causa del nascente movimento di
contestazione anti-regime.
Nell’estate del 1968, arrivarono i carri armati dell’Armata rossa e contingenti militari del Patto di Varsavia e
schiacciarono le speranze nella costruzione di ‘un socialismo dal volto umano’. Il 21 agosto i carri armati
dell’Armata rossa gelarono la ‘Primavera di Praga’! Venne imposto d’imperio un governo filo-sovietico
capace di ristabilire l’autorità e i dettami di Mosca.
L’URSS di Brežnev giustificò l’intervento in Cecoslovacchia con la cosiddetta Teoria della sovranità
limitata, firmata da tutti i paesi del blocco sovietico. Tale teoria prevedeva che nessun paese del Patto di
Varsavia potesse cambiare sistema politico ed economico giacché ciò avrebbe compromesso la sicurezza
militare di tutti gli altri paesi del blocco a vantaggio delle forze dell’imperialismo USA.
L’esperienza democratica cilena (1970)
In Cile nel 1970 libere elezioni democratiche portarono alla vittoria il socialista Salvador Allende:
nell’America latina degli Stati Uniti vinceva un socialista che inaugurava la “via cilena al socialismo” –
come lo stesso Allende amava chiamare il suo progetto politico! La vittoria non fu gradita agli Stati Uniti, i
quali avevano preventivamente affermato: "se Allende prenderà il potere condanneremo il Cile a dure
privazioni e miserie"
Fino al 1952 le miniere di rame erano nelle mani di gruppi privati sia interni che stranieri; Eduardo Frei,
candidato della democrazia cristiana, vinse le elezioni nel 1964 offrendo un programma di mediazione tra
133
una rivoluzione socialista e una reazionaria conservatrice. Frei dovette mediare tra due istanze: da una parte
la richiesta di una riforma agraria da parte dei contadini poveri e, dall'altra, la volontà di estendere il
controllo dello stato sulle miniere. La classe media cilena ebbe paura dell’oscillazione del governo verso
politiche di sinistra e le società straniere temettero la nazionalizzazione delle miniere. Tale timore indebolì la
Democrazia cristiana cilena e permise ad Allende di vincere le elezioni del 1970. Il suo governo era formato
dalla coalizione tra comunisti, socialisti, radicali e democristiani dissidenti dall'ala sinistra. Durante il primo
anno di governo il programma di Allende consisteva nell'aiuto dei poveri: ogni giorno veniva distribuita una
determinata porzione di latte ad ogni bambino, l’istruzione primaria divenne gratuita, le tasse per quella
secondaria furono ridotte, vi fu la nazionalizzazione delle miniere di rame.
La pressione anti-socialista delle multinazionali americane fece crollare il prezzo del rame. Gli Stati Uniti
intervennero finanche presso la Banca mondiale affinché attuasse misure per restringere il credito al Cile così
che la giovane democrazia cilena potesse essere strozzata economicamente: si passò da 300 a 30 milioni di
dollari all’anno.
Nel 1972 la CIA finanziò uno sciopero generale, poi quello dei camionisti con l’obiettivo di far cadere il
paese nel caos. Lo sciopero dei trasporti si dimostrò disastroso anche per un paese che si estendeva per una
lingua di terra.
L'11 settembre 1973 il palazzo presidenziale della Moneda venne bombardato. Allende rifiutò di arrendersi
ai golpisti di Pinochet e, dopo aver resistito a lungo, si sparò per evitare l'esilio. Nel paese ci fu un'ondata di
arresti e uccisioni tanto che le prigioni non riuscirono ad accogliere l’enorme massa di detenuti e lo stato di
Santiago si riempì in poche ore di oppositori politici nelle mani dei militari di destra.
August Pinochet assunse il potere con il colpo di stato ed instaurò una dittatura. Questa si protrasse fino al
1989, quando le elezioni politiche vennero vinte da partiti democratici ed egli venne accusato di crimini
contro l'umanità. Diverse furono le cause del fallimento del socialismo cileno: l'esercito, con cui Allende
aveva cercato di mantenere buoni rapporti, ed i ceti abbienti si schierarono contro il presidente e molti
all'interno del partito socialista e il MIR appoggiavano una via violenta per realizzare le riforme, in più anche
i ceti abbienti si ribellarono ad Allende. Lo stadio di Santiago del Cile divenne un lager dove furono
rinchiusi i prigionieri di guerra sottoposti a torture e uccisioni. Circa un milione di cileni scelse l'esilio.
La lezione cilena mostrava come l’imperialismo statunitense non andava tanto per il sottile nel ripristino
dell’ordine quando i suoi interessi economici e politici erano minacciati. Libere elezioni avevano portato al
governo uomini che volevano una più equa distribuzione delle terre ai contadini poveri e la
nazionalizzazione delle miniere. Questo governo socialista-comunista, questa esperienza democratica in
America latina era, dal punto di vista strategico-politico, intollerabile per gli Stati Uniti e fu eliminato con
metodi subdoli e violenti avallando, infine, una violentissima deriva di destra nel paese.
Afghanistan: il Vietnam sovietico (1979)
Per quanto riguarda la politica estera, i sovietici s’impegnarono nella guerra per il controllo del vicino
Afghanistan. Nel 1978 il Partito comunista afghano aveva preso il potere con un colpo di stato scagliandosi
contro vari movimenti religiosi islamici e diversi gruppi etnici.
Nel 1979 il presidente sovietico, Brežnev inviò l’Armata rossa a sostegno del Partito comunista afghano.
Nonostante la superiorità militare, i sovietici non riuscirono mai ad avere il controllo del territorio. I
guerriglieri antisovietici erano infatti appoggiati dal Pakistan e dagli Stati Uniti. Le lotte snervanti e violente
produssero due milioni di profughi. Nel 1987 Gorbačëv annunciò il ritiro dell’esercito.
Nel 1992 il governo comunista, senza l’appoggio sovietico, cadde e il potere venne conquistato dai taleban,
gruppi di fondamentalisti islamici.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
Apocalypse now, F. Coppola, 1979
Missing – Scomparso, C. Gravas, 1982
Che – L’argentino, S. Soderbergh, 2008
L’ITALIA DAL 1945 AL 1992
~ LA RICOSTRUZIONE (1945-50)
~ Piano Marshall in Italia
135
~ Il centrismo
~ La Cassa del Mezzogiorno
~ LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73)
~
~
~
~
L’industrializzazione del Paese
Dagli anni ’50 al centro-sinistra
Il ‘68
L’’autunno caldo’ e lo Statuto dei lavoratori
~ IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (1973-92)
~
~
~
~
~
~
~
~
~
~
1973: primo shock petrolifero
Il femminismo
Gli ‘anni di piombo’
La strategia del PSI
PCI e ‘compromesso storico’
1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat
Il pentapartito
La democrazia inquinata
La democrazia bloccata
La partitocrazia e ‘Tangentopoli’
LA RICOSTRUZIONE (1945-50)
La ricostruzione, materiale e morale, è la parola d’ordine che campeggia nel Paese dopo la fine della guerra e
la liberazione dal nazi-fascismo.
Bisognava, innanzitutto, metter mano alla ricostruzione materiale di ciò che era stato distrutto nel periodo
bellico.
Per perimetrare le condizioni materiali in cui versava la situazione basta dire che:
 gli impianti industriali registravano danni pari all’8%;
 la produzione era 1/3 di quella del 1938;
 il costo della vita era di 23 volte superiore al 1938, mentre i salari non erano cresciuti più della metà;
 la disoccupazione nel 1945 aveva superato i due milioni;
 i generi di sussistenza sopperivano solo ad 1/3 del fabbisogno.
I primi governi cercarono di provvedere alle necessità del paese, ma fu subito evidente che c’era bisogno di
un aiuto internazionale per mettere in moto l’economia.
Il Piano Marshall in Italia
Il Piano Marshall iniettò in Europa una somma di denaro enorme per l’epoca: 11 miliardi e 780 milioni di
dollari a fondo perduto e 1 miliardo e 139 milioni come prestito agevolato.
L’Italia usufruì dei finanziamenti in quanto gli americani ritenevano che il nostro Paese fosse a rischio di una
rivoluzione comunista. L’immissione di denaro doveva essere un deterrente anti-rivoluzione e doveva
mettere in moto l’economia. Fu apertamente affermato, infatti, che, se in Italia avessero vinto le sinistre, il
flusso di dollari sarebbe stato immediatamente interrotto. Allo stesso tempo fu attuata una vasta propaganda
anticomunista e una propaganda filoamericana, che si fondava sulla costante apologia degli aiuti nelle
inaugurazioni di fabbriche, su mostre, articoli di giornali, trasmissioni radio e televisive. Fu usato, quindi,
ogni strumento mediatico che potesse radicare nel Paese l’idea di un aiuto americano reale e disinteressato.
Oltre agli aiuti americani anche le rimesse degli emigrati contribuirono alla ripresa economica.
136
Riguardo la politica economica, i governi che si avvicendarono dopo la guerra si liberarono della concezione
autarchica e protezionistica per sviluppare la liberalizzazione degli scambi con l’estero.
Il centrismo
Il centrismo è la configurazione politica inaugurata da De Gasperi dopo la rottura con le sinistre. Essa
prevedeva la partecipazione al governo dei piccoli partiti moderati di centro con il grande partito della
Democrazia cristiana. Con il centrismo la politica di De Gasperi poté aprirsi più velocemente verso soluzioni
economiche liberali. Luigi Einaudi, economista liberale divenuto ministro del Bilancio e vicepresidente del
Consiglio nel ‘47, impose un rigore economico che, in parte, sacrificò l’occupazione.
Il governo cercò di modificare la riforma agraria a seguito delle occupazioni dei contadini del Sud. Nel 1949,
infatti, i contadini meridionali, in particolare in Calabria, lottarono contro il latifondo. La riforma agraria non
ebbe buoni risultati: in Sicilia solo il 26% delle 67.000 famiglie idonee ottenne l’assegnazione della terra.
La Cassa del mezzogiorno
Il governo non dimenticò il ruolo propulsivo dello Stato nell’economia.
Il centrismo italiano si impegnò affinché l’intervento dello Stato nell’economia fosse più ampio, dal punto di
vista quantitativo e qualitativo. La politica economica seguì la stessa direzione. Fu fondato l’Istituto per la
ricostruzione industriale (IRI) e l’Ente nazionale idrocarburi (ENI). Tra le novità vi fu anche la Cassa del
mezzogiorno del 1950, che ebbe un ruolo di grande importanza per la programmazione delle opere pubbliche
al sud (bonifiche, acquedotti, ecc.) e per recuperare il gap con l’Italia settentrionale.
Nonostante queste buone intenzioni, il centrismo mostrò delle falle enormi: la gestione delle aziende di stato
mostrò chiaramente come l’interesse personale si sovrapponeva e obliava l’interesse pubblico. La formula
del centrismo, quindi, dovette essere superata nel 1953.
Agli inizi degli anni ‘50 la disoccupazione aumentò come testimoniava una serie di scioperi indetti dalla
CGIL e dai partiti di sinistra. Il governo fu inflessibile contro questi scioperi e il ministro dell’Interno Mario
Scelba li contrastò duramente: a Modena, per esempio, il 9 gennaio 1950 sei operai vennero uccisi dalla
polizia durante una manifestazione sindacale.
LO SVILUPPO ECONOMICO (1950-73)
L’industrializzazione del Paese
Tra il 1952 e il 1962 si verifica ciò che viene definito dagli storici il ‘boom economico’. In questo decennio
l’Italia si trasformò da paese agricolo a paese industriale. Fu una trasformazione incredibile che portò lo
sviluppo economico italiano vicino a quello degli altri paesi europei. Esso richiese anche una trasformazione
interna ed uno spostamento delle popolazioni e che comportò un cambiamento delle rappresentanze politiche
e dell’assetto ideologico verso il sistema capitalistico. La crescita economica continuò fino agli inizi degli
anni ’70. Il 1973 fu l’anno che generalmente si indica per identificare una crescita che l’Italia e l’Europa non
riprenderà mai più con gli stessi ritmi.
Il cambiamento del Paese fu profondo e velocissimo. Osservando i dati economici e l’occupazione nei tre
settori produttivi, è inevitabile registrare, in questo decennio, una diminuzione assoluta dell’agricoltura da
7.663.000 a 5.430.000 e un aumento parallelo nell’industria da 5.728.000 nel 1952 a 7.991.000 al 1962.
Riguardo l’attività terziaria, la trasformazione industriale fu consistente: dai 4.681.000 ai 6.368.000
lavoratori. A questa trasformazione economica corrispose anche una crescita del reddito pro-capite nazionale
137
(indicatore fondamentale nella valutazione della ricchezza di un paese). Esso, che rapporta la ricchezza al
numero di abitanti, raddoppiò rispetto al valore precedente alla Seconda guerra mondiale.
Il ‘miracolo economico’ ebbe diverse origini: la fine dell’autarchia, che era stata celebrata dal regime
fascista; l’abolizione delle restrizioni fasciste che avevano impedito ai lavoratori di spostarsi da una regione
all’altra; gli aiuti del Piano Marshall; il basso costo della manodopera dovuto alla presenza di un esercito
proletario; l’ingresso nella CEE (1958); la ripresa mondiale dell’economia. Ulteriori elementi di ripresa
possono essere individuati nell’atteggiamento psicologico di una popolazione che voleva ricostruire un paese
distrutto e lasciarsi alle spalle gli anni della guerra e della privazione.
Da un punto di vista marxista, il miracolo economico rappresentò un nuovo ciclo di accumulazione
capitalistica successivo alla crisi economica, che aveva svalorizzato masse enormi di merci. A partire da
questa svalorizzazione, poté iniziare una nuova fase di accumulazione. I costi sociali da pagare per questo
cambiamento furono enormi, poiché implicarono il trasferimento di grandi masse contadine dall’agricoltura
all’industria, dal Sud Italia al Nord. Il contadino meridionale abbandona la terra per dirigersi verso il
triangolo industriale di Torino, Milano e Genova. Il lavoro di fabbrica viene vissuto come una elevazione
sociale rispetto alla miseria e all’ ignoranza contadina. L’organizzazione della fabbrica è assolutamente ad un
livello più alto rispetto a quello dell’agricoltura ed implica rapporti sociali e una sovrastruttura culturale
diversa rispetto a quella contadina. Torino è la capitale del triangolo industriale, dove si concentrano le
migrazioni interne e causano scontri dovuti alle differenze socio-culturali. Una cultura contadina e
maschilista finisce con lo scontrarsi con una società industrializzata, nella quale insorgono, addirittura, le
prime rivolte femministe ed i moti studenteschi. Tra il 1951 e il ’67, 400.000 meridionali migrarono nella
capitale del triangolo, diventò la ‘Terza città meridionale’ dopo Napoli e Palermo.
L’operaio diviene un obiettivo per il contadino; il divario tra il reddito di un lavoratore del nord è maggiore
rispetto a quello di un contadino del sud.
Parallelamente alla trasformazione industriale del paese, nasce una società dei consumi di massa che si vede
in segni semplici e tangibili: gli scooter, la Seicento (FIAT), il frigorifero, la lavatrice.
La RAI-TV iniziò le trasmissioni nel 1954 e contribuì in modo notevolissimo all’uso della lingua italiana.
L’emigrazione in questo periodo è duplice: se durante il fascismo il flusso migratorio si era rivolto in
America, in questo periodo si rivolge verso la Svizzera e la Germania, ma è soprattutto interno, con
spostamenti dalle zone meridionali al triangolo industriale. Questa rapidissima ed estesa trasformazione
italiana corrisponde ad uno spostamento dell’asse politico che cerca di intercettare i nuovi bisogni ed i nuovi
obiettivi che la società italiana deve porsi.
Dagli anni 50 al centro-sinistra
La DC perdeva voti nelle tornate elettorali amministrative del 1951 e 52.
Nel 1953 la DC, pur avendo contro tutte le opposizioni, approva quella che passerà alla storia come legge
truffa. Questa prevedeva lo schieramento dei partiti, che avesse ottenuto il 50% dei voti avrebbe avuto il
65% dei seggi in parlamento. Con tutta evidenza la DC pensa di poter garantire con questo meccanismo
una stabilità politica centrista contro i socialisti e comunisti. Si sacrificano il metodo proporzionale e la
rappresentatività per la stabilità del governo. In ogni caso l’operazione fallisce in quanto i partiti, seppur per
poco, non riuscirono a prendere il 50%.
Era finita l’era dei governi De Gasperi!
Dal 1953, i governi a sola guida democristiani sono ormai evidentemente impossibili. Parte della DC è
propensa ad allacciare rapporti addirittura con la destra, con i fascisti del Movimento sociale. Nel 1960, il
governo Tambroni, governo monocolore DC, è appoggiato fermamente dal Movimento sociale. Le piazze
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antifasciste si fecero sentire con grande fermezza nonostante venissero represse con durezza. Il governo
cadde dopo pochi mesi.
La DC inizia a guardare a sinistra: al Partito socialista. Il Partito socialista si sposta progressivamente su
politiche riformiste abbandonando ogni tentazione rivoluzionaria e chiudendo ogni rapporto con l’URSS.
L’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS del 1959 fa sì che il PSI si stacchi ancor più dal PCI.
Sul piano internazionale la figura del cattolico e progressista presidente USA, Kennedy, pure favorisce il
rapporto DC PSI che favorirà le riforme e metterà all’angolo il più ostico PCI. Infine, anche la posizione di
Giovanni XXIII – ‘il papa buono’ - che con il Concilio Vaticano II ‘aggiorna’ la Chiesa, sembra andare verso
un mutamento ormai necessario.
Il centro-sinistra si sviluppa negli anni che vanno dal 1962 al 1968. E’ nel Congresso della DC del 1962 che
Aldo Moro, uno dei massimi esponenti della DC nonché persona integerrima e statista di levatura politica
assoluta, si mostrò favorevole ad una apertura con il PSI. Fanfani poté, così, avere l’appoggio esterno del
PSI. In un governo che riuscì a fare la riforma scolastica che elevava l’obbligo a 14 anni e la
nazionalizzazione dell’energia elettrica (ENEL).
Il primo governo del centro-sinistra, con un apporto diretto del PSI, venne costituito nel 1963 da Aldo Moro
che con alterne vicende governerà fino al ’68.
Il centro-sinistra ben coglie l’esigenza del Paese di ammodernamento non solo delle istituzioni, ma anche dei
rapporti sociali e che non corrispondono più alla struttura economica profondamente cambiata. Lo sviluppo
economico ha fatto sì che l’Italia potesse essere tra le società e le nazioni più progredite d’Europa. C’è
bisogno di una manovra complessiva che colga l’aspetto politico e culturale e ammoderni società, cultura e
sentire del popolo italiano che è ancora cristallizzato, avviluppato, per molti versi, in una concezione agricola
della società.
Il ‘68
Il ’68 è un vasto arcipelago che propone più temi (generazionale, di genere, di classe), ma è anche
quell’entusiasmo che colse contemporaneamente gli studenti delle università di New York, di Parigi, di
Praga, di Roma, di Città del Messico, di Milano, Berkeley, ecc.
Il movimento studentesco fece capolino da principio negli Stati Uniti: l’università di Berkeley fu una delle
prime nelle quali il movimento degli studenti prese forma e crebbe in contenuti. Lì Herbert Marcuse, grande
filosofo della scuola di Francoforte, diventa teorico indiscusso del movimento scrivendo testi come L’uomo a
una dimensione e Saggio sulla liberazione. Che ebbero un largo seguito e delinearono il conflitto
generazionale e, ancor, più di stili di vita. Questi furono testi formidabili che infiammano gli studenti.
Il movimento studentesco in questo periodo è pervaso dalle idee di Mao Zedong e della sua rivoluzione
culturale, della rivoluzione cubana di Castro e si amplifica con la critica antimperialista ovvero con la critica
alla partecipazione americana in Vietnam letta come imperialismo tout court che non tiene assolutamente
conto dell’autonomia e della volontà dei popoli. Ho Chi Minh, perciò, diventerà, affianco a Mao e Che
Guevara, figura simbolo delle manifestazioni studentesche.
Il movimento americano di contestazione, si articola, schematizzando attorno a due temi di fondo: 1) La
questione della guerra in Vietnam. Quando negli USA iniziano ad arrivare le immagini della guerra e le bare
dei soldati il paese ha un profondo sussulto. Le immagini televisive restituiscono un’America di cui non si
aveva percezione: le armi come il napalm e i defoglianti fanno vittime in maniera indistinta, rendendo il
Vietnam campo di esperimento militare e i giovani non vogliono partecipare al massacro; 2) La questione dei
diritti civili dei neri si inserisce in questa critica ampia dei modelli di vita americani. L’apartheid e il
razzismo costituiscono ancora un problema nell’America di quegli anni e lunga sarà la strada con la Black
Power, Martin Luther King, ecc.
139
A Parigi, il movimento studentesco si mostra sostanzialmente diverso ed incrocia il problema coloniale. Alla
Sorbonne, che diventa simbolo della protesta studentesca, si trova il filosofo esistenzialista di sinistra JeanPaul Sartre, tendenzialmente materialista e marxista, che scrive testi fondamentali come La nausea ed Il
muro. Le parole d’ordine all’interno del movimento studentesco francese sono ‘Immaginazione al potere’ e
‘Vogliamo tutto e subito’ (Hic et nunc). La protesta si rivela, sin da subito, di altissimo livello intellettuale.
La contestazione, rivolta è contro la società vecchia e rigida dei padri e vuole subito la democrazia e
l’abbattimento della distanza abissale che c’era tra studenti e docenti.
Il movimento studentesco italiano sarà, invece, ancora più critico e radicale verso il sistema capitalistico:
arriverà non solo ad essere una critica feroce alla società borghese, con l’obiettivo intrinseco di rinnovare le
forme culturali che oramai soggiacciono ai rapporti economici vetusti di una società agricola e patriarcale,
ma metterà in discussione direttamente anche il rapporto della cultura con il capitale, per arrivare ad una
definizione degli attuali rapporti letti, sostanzialmente come un asservimento della cultura e del sapere al
capitale e alla sua accumulazione.
Secondo il movimento studentesco la scuola non si presta ad elaborare e sviluppare cultura né ha come
obiettivo lo sviluppo della persona e delle sue capacità critiche, ma è, semplicemente, uno strumento di
formazione: a) del cittadino ossequioso delle leggi che tengono in vita una società organizzata
gerarchicamente e non poca mobilità sociale; b) del consumatore con desideri tali da inserirsi perfettamente
in una società consumistica, quindi con una cultura media che estenda i bisogni fittizi dell’uomo; c)
dell’operaio fornito di sapere strumentale giusto per essere impiegato nella organizzazione alienante della
fabbrica.
La scuola, quindi, ha venduto gli studenti al sistema economico ed è funzionale al sistema capitalistico e
produce e riproduce ideologia borghese senza dare gli strumenti per un pensare altro, critico. In Italia, il
movimento studentesco incrocia organizzazioni extra-parlamentari di sinistra con la loro analisi marxista e
diventa critica complessiva della società borghese.
Il sessantotto italiano svecchiò la società da una mentalità, da un costume e da una morale tradizionale
ancora incapace di porsi all’altezza dei tempi. Fu la lotta di giovani che si ribellarono ai padri e chiedevano
più partecipazione, più autorevolezza e meno autoritarismo. Fu una ventata d’aria fresca che ebbe il coraggio
di dire che il re era nudo.
Soprattutto in Italia, il movimento studentesco seppe incontrarsi con il movimento operaio dell’’autunno
caldo’ e con il movimento femminista – una delle grandi rivoluzione del ‘900.
L’’autunno caldo’ e lo Statuto dei lavoratori
Per ‘autunno caldo’ s’intende quello scorcio del settembre 1969 quando, per la prima volta, dopo il 1952, si
assistette ad un vero e proprio braccio di ferro tra lavoratori e patronato, sindacato e capitale industriale, in
un clima in cui prese piede e si registrò in maniera massiccia l’uso dello ‘sciopero selvaggio’. In più, le lotte
sindacali furono affiancate, ad un certo punto, da quelle studentesche e assunsero una forza ed un respiro più
forte.
A dare il via all’autunno caldo fu lo sciopero nazionale dei metalmeccanici, che è storicamente la punta di
diamante della classe operaia, la più organizzata e la più combattiva. Lo sciopero a settembre era stato
organizzato per il rinnovo del contratto di lavoro motivo. A novembre si chiusero le trattative, il sindacato
aveva vinto su tutti i punti proposti: 40 ore settimanali, aumenti salariali e diritto di organizzare assemblee
durante il lavoro.
I lavoratori diedero prova di autorganizzazione e di spirito creativo: si organizzarono spontaneamente in
comitati e consigli di fabbrica. CGIL, CISL e UIL furono comunque capaci, rimanendo unite, di dirigere le
140
lotte spontanee e uscirono rafforzate da queste lotte intanto da diventare da qui in poi protagonisti di
trattative con il governo anche su materie come sanità, scuola, ecc.
Proprio la ripresa delle lotte operaie, che sfocia nell’autunno caldo, getterà i prodromi della conquista, nel
1970, dello Statuto dei lavoratori. Di questo movimento che vede le sigle sindacali unite, il risultato più
cospicuo è lo Statuto dei lavoratori.
Lo Statuto dei lavoratori è un insieme di norme estremamente semplici che stabiliscono una serie di diritti
del lavoratore. Di questo Statuto faceva parte anche il famoso articolo 18 che è stato abrogato recentemente.
L’articolo 18 stabilisce che il datore di lavoro non può licenziare il dipendente se non per giusta causa.
Questo tipo di articolo è stato più volte messo in discussione, sia con il governo Berlusconi che con il
governo Renzi per cui, alla fine, è stato abrogato. L’abrogazione di questo articolo rende più fluida la
manovra dell’imprenditore, il quale può disporre della manodopera in maniera più elastica. Dare ad un
imprenditore la possibilità di licenziare senza una giusta causa sottende la concezione filosofico-culturale di
tipo liberista. Se c’è un problema di tipo economico, l’imprenditore ha tutte le ragioni di licenziare. Così
come se un operaio, assunto a tempo indeterminato, è inetto ad un determinato tipo di lavoro, per cui provoca
problemi alla produzione o addirittura al sabotaggio dei macchinari, l’imprenditore non esita a licenziarlo,
rientrando perciò nella giusta causa. L’idea centrale è quella che l’imprenditore possiede il capitale
necessario per comprare il lavoro e di questo lavoro può farne tutto ciò che desidera. Questo processo lineare
è da ricondurre all’impostazione liberista di Smith. Una precisazione necessaria è che lo Statuto dei
lavoratori si applica a quelle aziende che hanno un numero almeno pari a 15 lavoratori, ma se la cifra dei
lavoratori è inferiore a 15, lo statuto non si applica. Per legge, si è deciso che le aziende, che hanno fino a
14 lavoratori, sono delle imprese quasi a carattere familiare, per cui l’imprenditore ha un rapporto di tipo
familiare, addirittura di tipo amicale. Lo Statuto dei lavoratori, quindi, si applica quando l’azienda ha un
numero di operai abbastanza congruo da essere un nucleo economico autonomo e le funzioni, all’interno
delle industrie, sono distinte (all’interno di una sola azienda c’è una dirigenza, una ragioneria, una segreteria,
una massa operaia, ecc.
Se si consulta il codice civile, l’imprenditore è colui il quale organizza in maniera ottimale gli elementi della
produzione. Abolendo l’articolo 18 però si dà all’imprenditore la facoltà di trattare il lavoro come un
semplice elemento della produzione ovvero il lavoro e il lavoratore come una merce. E tuttavia il lavoro non
è una cosa, un oggetto, una merce come le altre. La differenza è tra schiavo e operaio!
IL RALLENTAMENTO ECONOMICO E LA CRISI DELLA REPUBBLICA (1973-92)
1973: primo shock petrolifero
Dal punto di vista economico l’inizio degli anni ’70 è contrassegnato dallo shock petrolifero che ha avuto
una ricaduta non solo sull’Italia, ma sull’economia mondiale.
In concomitanza con la ‘guerra del Kippur’ ovvero tra Egitto, Siria e Israele, i paesi dell’OPEC
(Organizzazione dei paesi Esportatori di Petrolio) annunciano una diminuzione della produzione petrolifera
ed un aumento del prezzo del barile “fino a che gli Israeliani non si fossero completamente ritirati dai
territori occupati”.
Inizia così una crisi economica mondiale che ha avuto un secondo shock petrolifero nel 1979 a seguito di
rivolgimenti politici in Iran.
Il femminismo
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Il femminismo non è semplicemente un movimento locale, ma coinvolge tutti i Paesi a capitalismo avanzato
e intacca direttamente uno dei rapporti primari e fondanti della società civile: i diritti delle donne. La lotta
per la parità dei diritti tra i sessi è un evento fondante delle società ed assume un valore paradigmatico per le
società in cui la donna, ancora oggi, è considerata un ‘essere inferiore’, che deve sottostare all’ uomo.
Il femminismo la mentalità paternalistica e patriarcale solo a metà del Novecento anche all’interno dei
processi lavorativi, in cui il lavoro fisico diventa sempre meno necessario e quindi alla portata delle donne.
Quest’ ultime, essendo divenute economicamente indipendenti, non possono essere più considerate succubi
dell’uomo. La parità dei diritti in ambito lavorativo comporta uno stravolgimento dei rapporti uomo-donna.
Il corpo, dunque, finora strumento con cui l’uomo assoggetta la donna, perde la sua ‘forza’.
L’emancipazione della donna fa del corpo un punto dirimente delle controversie con la società maschilista.
In Italia, la società patriarcale viene superata solo grazie alle proposte di uguaglianza tra i sessi presentate dal
movimento femminista. Per raggiungere l’obiettivo perseguito, le donne attaccano il dominio culturale del
maschio sulla concezione della sessualità.
Dal momento in cui l’uguaglianza appare possibile, nasce l’esigenza di lottare per questi diritti e di scendere
in piazza nonostante l’ostracismo maschile che colpisce le giovani donne. L’attacco è rivolto contro la sfera
sessuale, che vede la donna quale corpo morto atto solo alla procreazione. La rivoluzione sessuale consiste
nella rivendicazione, da parte delle donne, del proprio corpo nel provare piacere. Si svelano i tabù di una
società patriarcale e bigotta. La scoperta del corpo e della sessualità piacevole da gestire in prima persona,
pian piano, porta il movimento femminista alle tematiche relative alla contraccezione, all’aborto e al
divorzio.
Le tematiche del movimento diventeranno poi oggetto di accese discussioni del paese e di leggi che
segneranno le conquiste culturali del movimento.
Nel 1974, ha luogo un referendum riguardante il divorzio, attraverso il quale il movimento femminista mette
in crisi una delle istituzioni millenarie ed assolutamente maschilista. Il contratto matrimoniale lega la donna
all’uomo al fine di assicurare una prole certa al maschio affinché egli possa procedere pure con sicurezza
all’istituto dell’eredità. Il divorzio mette in discussione non solo il matrimonio come certezza della paternità,
ma viene anche il rapporto amoroso come eterno.
L’Italia si divide in due: da una parte la DC e le forze cattoliche, dall’altra PSI, PCI e le forze progressiste.
In prima linea, nella difesa del diritto delle donne, si schiera il Partito radicale sia per il divorzio, sia per
l’aborto. Il referendum vinto con il 59% mostra un’Italia più laica e secolarizzata di quanto si credesse.
L’aborto è per le donne uno strumento di liberazione assoluta dalla schiavitù dettata dai maschi. La
possibilità di abortire ripropone un corpo femminile, che prende autonomamente la decisione della maternità,
svincolandola da un servaggio maschile. ‘Il corpo è mio e lo gestisco io’ è lo slogan dell’emancipazione
sessuale femminile che arriva all’atto estremo e tragico della possibilità di proseguire o meno una maternità
non desiderata. I Cattolici si oppongono, ovviamente, all’ aborto. La Chiesa condanna l’aborto e le pratiche
anticoncezionali. Nel 1981, il Partito radicale promuove il referendum sull’aborto, volendo depenalizzare
l’interruzione volontaria di gravidanza fino al terzo mese di vita del feto. L’88,4% dei votanti è per
depenalizzare l’aborto.
Gli ‘anni di piombo’
In Italia il terrorismo interesserà un ampio e funesto periodo, che va sommariamente dal 1969 al 1980.
L’Italia subirà sia il terrorismo di destra che di sinistra.
Il terrorismo nero o politicamente di destra è contraddistinto dagli attacchi in luoghi pubblici e ha
l’obiettivo di generare nel corpo sociale un’angoscia, una instabilità, un caos tali da richiedere l'intervento di
un ‘uomo della provvidenza’ per favorire una deriva autoritaria. Si parla, dunque, di “strategia della
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tensione”. Un'altra caratteristica del terrorismo di destra è la connivenza con i servizi segreti deviati, con i
quali vengono pianificati molti attacchi terroristici. Sembra che questi vogliano frenare la spinta propulsiva
del movimento operaio e studentesco, avvenuta nel cosiddetto ‘autunno caldo’ (1969).
Il 12 dicembre 1969 a piazza Fontana nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura esplode una bomba:
17 morti e 90 feriti.
Il 28 maggio 1974 a piazza della Loggia di Brescia durante un comizio antifascista esplode una bomba: 8
morti e centinaia di feriti.
Il 4 agosto 1974 sul treno Italicus esplode una bomba: 12 morti e 48 feriti.
Il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna esplode una bomba: 85 morti e centinaia di feriti.
Il terrorismo rosso dà le prime avvisaglie all'inizio degli anni '70 nelle università, in particolare nelle nuove
facoltà di sociologia. Curcio, ad esempio, leader indiscusso delle Brigate Rosse, si forma all'università di
Trento proprio nella facoltà di sociologia. Questi primi vagiti si manifestavano attraverso volantini dal
contenuto fortemente politicizzato come quello del 1970 alla Siemens a Milano.
A partire dal 1972 si assiste a sequestri di persona, ‘processi proletari, ‘rapine politiche ’ed uccisioni.
Sindacalisti, magistrati e giornalisti vengono ‘puniti’, ‘gambizzati’ per la loro attività ‘antiproletaria’.
Dal 1978 il terrorismo di sinistra con le Brigate rosse alzano il tiro in maniera esponenziale. Il terrorismo di
sinistra riesce ad essere assai pericoloso giacché s’inserisce su un tessuto sociale sul quale aveva insistito il
movimento studentesco e quelle femminista riuscendo ad avere strati ampi di consenso e di fiancheggiatori.
Una faglia vera e propria o un innalzamento del livello militare e politico terrorista, si compie il 16 marzo
1978, in via Fani a Roma, quando le BR sequestrato Aldo Moro, personaggio integerrimo, presidente della
Democrazia cristiana e uccidono gli uomini della scorta. Aldo Moro, propenso ad un'alleanza col Partito
comunista, spera di poter raggiungere un accordo, chiamato ‘convergenze parallele’. La possibilità che il
Partito comunista giunge al potere con una serie di avvicinamenti alla Democrazia cristiana è avversata dal
terrorismo delle Br, in virtù del ‘compromesso storico’, che con la DC porta definitivamente le masse
operaie nell’alveo socialdemocratico. Ecco perché l’attentato a Moro sembra un punto d’attacco esiziale per
il terrorismo sia perché è l’uomo più influente della DC, sia perché è quello che può traghettare il Partito
comunista su posizioni definitivamente centriste. Moro con le sue aperture avrebbe potuto maggiormente
offendere la causa della rivoluzione comunista. Insomma, videro in Moro la possibilità che il PCI e masse
operaie estete potessero partecipare alla politica italiana e questo ovviamente andava a detrimento della
radicalizzazione della lotta rivoluzionaria. Nel linguaggio delle Brigate rosse Moro viene processato perché
“padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialistiche”.
Moro viene processato dalle BR e condannato a morte. A nulla valgono le pure accorate parole di Paolo VI.
Dopo 55 giorni di prigionia il corpo di Moro viene ritrovato il 2 agosto nel bagagliaio di una Renault.
Dopo l’esecuzione di Moro le morti per opera della BR non si fermarono.
Dal punto di vista teoretico le BR si rifanno nel linguaggio e in tratti di analisi politica al marxismo
dimenticando però che nè Marx, né Lenin hanno mai pensato al terrorismo come forma di lotta politica:
Marx ha sempre parlato di rivoluzione proletaria di massa e Lenin lo qualifica il terrorismo, già nel titolo di
una sua famosa opera,’ Estremismo, malattia infantile del comunismo.’
Non c’è stato solo un terrorismo di sinistra italiano, ma anche francese e tedesco. Il terrorismo di sinistra
italiano è stato certamente un fenomeno complesso. Due sono, in genere, le spiegazioni delle cause che si
fanno varco, anche attraverso gli atti processuali:
- cause endogene (interne) ovvero il terrorismo di destra nasce come reazione ai grandi movimenti
studenteschi di sinistra, operai e al movimento femminista che riscuotono ampio successo e spostano l’asse
politico del paese. Il terrorismo di sinistra, a partire da questi movimenti, spinge per una rivoluzione contro
tutti gli imperialismi (USA-URSS);
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- cause esogene (esterne), il terrorismo di destra era certamente legato ad una strategia della tensione con la
collusione dei servizi segreti deviati il cui obiettivo era un golpe autoritario. Il terrorismo di sinistra sarebbe,
invece, il risultato di interventi di potenze estere, segnatamente dell’Est, che, attraverso i loro servizi segreti,
hanno cercato di destabilizzare il paese del Patto atlantico più fragile. Tuttavia quest’ultima ipotesi non è
ancora suffragata da una seria documentazione.
La strategia del PSI
Con le elezioni amministrative del giugno del 1975, il Partito comunista ebbe un incremento sostanzioso, dal
27,9% al 33,4%, mentre la Democrazia cristiana, il partito che aveva governato ininterrottamente dal
dopoguerra, scendeva dal 37,9% al 35,3%. Era il segnale di un malessere concreto che serpeggiava nel paese,
insieme ad una voglia di cambiamento. Il ruolo del Partito socialista in questa situazione diventava quindi
l’ago della bilancia nella formazione dei governi. Uno spostamento politico del Partito socialista a sinistra
avrebbe permesso al PCI di governare, d’altra parte questo significò pure un’arma di ricatto nei confronti
della DC. L’abbandono, da parte del Partito socialista, della teoria marxista era oramai una cosa assodata e,
in realtà, anche i Partito comunista aveva abbandonato il programma della rivoluzione comunista e dei suoi
contenuti economici e politici. Tuttavia, il Partito socialista si era spinto molto più in là, fino a diventare un
partito social-democratico, un vero e proprio partito del centro riformista. Il segretario Bettino Craxi non
ebbe tentennamenti e la sua prossimità ideologica e politica con la Democrazia cristiana favorì la nuova
strategia del partito che consisteva in una collaborazione con la DC.
PCI e ‘compromesso storico’
Le elezioni amministrative, intanto, avevano fatto registrare un notevole balzo in avanti del PCI che sempre
più si proponeva come prossima guida del paese. Le elezioni dell’anno successivo, del 1976, confermeranno
questa tendenza e la relativa incertezza nel costituire governi stabili. Questo governo fu denominato “delle
astensioni” perché il Partiti liberali, Repubblicani, Socialista e Comunista non appoggiarono il governo
monocolore, tutto democristiano, ma non vi si opposero. La novità fu proprio questa: il Partito comunista
rinunciò ad un’opposizione decisa per una blanda astensione. Il segretario del Partito comunista era, in quel
momento, Enrico Berlinguer. Con Berlinguer, il partito fece dei passi ulteriori verso una normalizzazione
democratica che l’avrebbe accreditato come partito di governo sia per quanto riguarda il suo inserimento
nell’ambito delle democrazie occidentali in generale, sia per ciò che concerne l’accettazione della NATO,
dell’organizzazione militare, capeggiata dagli Stati Uniti. In questo senso lo strappo da Mosca era ben
consistente. In verità, con la segreteria Berlinguer si parlò anche di eurocomunismo, in quanto il PCI si mise
alla guida di una formazione di partiti comunisti europei che cercavano una loro distanza dall’Unione
Sovietica, “un socialismo dal volto umano”.
A Berlinguer si doveva anche la formulazione di quello che sarà chiamato “compromesso storico”, una
proposta estremamente importante avvenuta a ridosso dell’esperienza cilena e dell’infausta dine
dell’esperienza della democrazia cilena nella barbarie del generale Pinochet. L’esperienza cilena aveva
dimostrato che la sinistra, pur andando al potere attraverso libere elezioni democratiche, qualora avesse
toccato gli interessi americani, era in pericolo e con essa tutto il paese. Nel caso specifico, l’atteggiamento
americano, schiacciava di fatto questa esperienza, instaurando nel paese una dittatura di destra. Il
‘compromesso storico’ era un modo con cui il PCI proponeva alla DC una collaborazione, affinché le due
culture, cattolica e comunista, potessero trovare degli spazi di mediazione e integrazione nella gestione del
paese. Un altro elemento interessante fu la difesa, da parte di Berlinguer, di una via democratica al
comunismo in Italia, che potesse distinguere quella strada lastricata dai crimini del “socialismo in un solo
paese” di staliniana memoria. La “via italiana al comunismo” rigettava altresì gli interventi autoritari
dell’URSS in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). E quindi cercava di adeguare il comunismo ad
una versione che potesse essere accettata in una democrazia come quella italiana, che tra l’altro si trovava
sotto l’ombrello della NATO. Questo tipo di posizione ebbe – come abbiamo già ricordato – la sua sponda
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politica proprio in Aldo Moro che ritenne possibile, con grande disappunto degli Stati Uniti, una mediazione,
un compromesso per superare l’emergenza che il paese stava attraversando.
Vi furono, in questi anni, governi definiti di ‘solidarietà nazionale’, perché il terrorismo era un’emergenza
che il paese dovette affrontare, che affrontò e da cui uscì complessivamente senza grossi danni, per quanto
riguarda lo stato di diritto. Vi furono, però, delle incursioni che non obliarono lo stato di diritto, ad esempio,
la legge reale del ‘75 e quella di Cossiga negli anni ‘80 furono certamente delle incursioni molto forti per
contrastare il terrorismo e in ogni caso rappresentarono una limitazione delle libertà personali. In questa fase
i governi di solidarietà nazionale rappresentarono un apporto del Partito comunista al governo, senza
tuttavia, che questo apporto avesse un riconoscimento ufficiale. Governi di coalizione che non ebbero mai la
loro formalizzazione istituzionale, nel senso che il partito di Berlinguer e i suoi esponenti non ebbero mai
delle cariche istituzionali, delle cariche di governo. Tuttavia questo periodo e i governi di ‘solidarietà
nazionale’ ebbero il merito di aver sconfitto il terrorismo.
1980: la sconfitta del sindacato alla Fiat
Gli anni ’80 iniziarono con la sconfitta del sindacato e della classe operaia che, a partire da questo momento,
perse la centralità di classe ovvero il protagonismo politico che l’aveva contraddistinta nelle battaglie degli
anni Settanta Si chiuse così quell’autunno caldo che portò all’acquisizione dei diritti essenziali quanto
elementari in una società evoluta.
Nel 1980 la Fiat annunciò la cassa integrazione per 15 mesi per 24.000 operai di cui metà sarebbero stati
licenziati alla fine di questo periodo. La richiesta venne poi precisata con l’annuncio di un licenziamento
immediato di 14.000 operai. Il sindacato dichiarò immediatamente uno sciopero a oltranza. Il PCI di
Berlinguer diede il massimo appoggio agli operai mostrandosi disponibile finanche all’occupazione della
fabbrica.
La Fiat propose, allora, di sospendere i licenziamenti e di procedere con tre mesi di cassa integrazione per
24.000 operai. La proposta ebbe l’effetto di spaccare il sindacato tra chi voleva proseguire lo sciopero e chi
voleva accettare le nuove condizioni.
Il 14 ottobre 30-40.000 manifestanti attraversavano Torino per chiedere di ritornare a lavoro: era una
manifestazione organizzata dai quadri intermedi della fabbrica, impiegati, ecc. che avevano coinvolti ampi
strati operai stanchi e prostrati da uno sciopero lunghissimo. Il giorno dopo i sindacati firmarono un accordo
che era una vera e propria capitolazione.
La manifestazione dei 40.000 rappresentò la chiusura di un ciclo di lotte da cui uscirono sconfitti il
sindacato, gli operai, il PCI. Le conseguenze sociali e politiche non tardarono a farsi sentire.
Il pentapartito
Le conseguenze politiche della sconfitta del PCI alla Fiat si tradussero politicamente nella formula del
‘pentapartito’ ovvero la riproposizione del centro-sinistra (DC, PSI, PRI, PSDI) allargato anche al piccolo
Partito liberale (PLI).
Nel 1981 il repubblicano Giovanni Spadolini formò il primo governo, dal 1945, a guida non democristiana.
Nel 1983 spetterà al segretario del PSI, Bettino Craxi, essere a capo del governo. Nel 1984 il governo Craxi
prese importanti provvedimenti: a) abrogò la scala mobile ovvero quel meccanismo che automaticamente
riportava il potere dei salari e degli stipendi al costo della vita. Ne segui un referendum abrogativo,
appoggiato dal PCI, che fu perso; b) revisionò il Concordato lateranense del 1929. Tuttavia, da una parte si
aboliva l’anticostituzionale riferimento alla “sola religione dello Stato”, dall’altra si introduceva l’ora di
religione alle scuole materne e si sostituiva congrua col meccanismo dell’8 per mille, di fatto più vantaggioso
per la Chiesa.
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Last but not least, negli anni ‘80 va messa in rilievo, pure, della nascita del “il movimento dei verdi” che
rivendicava, in maniera originale, l’interesse e la preservazione per le risorse naturali e per tutte le
problematiche relative all’ambiente. Insomma il movimento dei ‘verdi’ mise sotto accusa e sotto
osservazione il sistema capitalistico e la sua rapacità nel distruggere le materie prime e l’ambiente in
generale.
Nel 1986 abbiamo uno dei peggiori disastri nucleari che, suo malgrado, generò una più forte coscienza
ambientalista. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile a Cernobyl, nell’Unione Sovietica, dai reattori della centrale
nucleare si sprigionarono sostanze altamente pericolose e radioattive: 700 tonnellate di grafite e 50 di uranio.
Il disastro interessò 82.000 km² e in 48h una nube tossica, trasportata dai venti, raggiunse i paesi Scandinavi
e lambì l’Europa occidentale. Il disastro di Cernobyl ancora oggi viene studiato proprio per i danni
incredibili che provocò, soprattutto per le conseguenze riguardanti malattie cardiache, tumori e
malformazioni neonatali e natali.
La democrazia inquinata
Nel 1981 si ci rese conto che la democrazia italiana era una democrazia inquinata da associazione
segrete ovvero che la classe dirigente del paese, tre ministri in carica, senatori, deputati, il segretario
del PSDI, i più alti dirigenti dei servizi segreti, ufficiali dei corpi militari, magistrati, prefetti, giornalisti,
ecc. erano iscritti alla loggia massonica segreta la Propaganda2 (P2) con a capo Licio Gelli.
Una loggia massonica segreta era nel cuore delle istituzioni e governava i gangli vitali del paese. Massoni,
tra di loro fratelli solidali, erano poi ‘ligi’ e indefessi funzionari delle istituzioni e dei ruoli che coprivano?
Non basta. La democrazia era inquinata da camorra, Cosa nostra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita, ecc.
ovvero da associazioni mafiose. Niente di nuovo, ma il grado di pervasività e in certi casi di consustanzialità
con la politica era oramai intollerabile. Gli enti locali, i comuni sciolti per inquinamento mafioso si
moltiplicavano soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno.
L’offensiva intimidatoria mafiosa nei confronti delle parti sane dello Stato la si legge bene nell’assassinio del
generale Dalla Chiesa, prefetto di Palermo. Poi nei confronti del pool antimafia di cui facevano parte G.
Falcone, P. Borsellino.
Il 23 maggio 1992, a Capaci (Pa), la mafia faceva saltare un pezzo di autostrada al passaggio della macchina
che portava G. Falcone, la moglie e tre agenti di scorta.
Il 19 luglio 199, a Palermo, un’autobomba uccideva P. Borsellino e cinque agenti di scorta.
La democrazia bloccata
La storia della democrazia italiana porta a dire che si è trattata di una democrazia bloccata. In effetti la
storia italiana dal 1945 è stata una storia senza alternanza in quanto la DC ha governato ininterrottamente dal
’45 anche se ha poi aperto alla collaborazione con piccoli partiti di centro e poi al PSI. La democrazia
italiana finita sotto l’influenza americana, sotto l’ombrello della NATO ha subito, di fatto, il veto
dell’alternanza al governo giacchè l’unico partito di opposizione, di massa, capace di raccogliere un popolo,
era il PCI.
L’assenza di alternanza ha adulterato non poco la vita democratica e i suoi meccanismi, sia per ciò che
riguarda la funzione dei partiti, sia per ciò che concerne le istituzioni a tutti i livelli. In questo senso si parla
della democrazia italiana come di una ‘democrazia malata’.
Tale stallo in cui il PCI si è trovato ha prodotto il consociativismo ovvero accordi tra maggioranza e
opposizione a governare insieme che, certo, è soluzione congrua in caso di crisi particolari come ad es.
furono i governi di ‘solidarietà nazionale’ per combattere il terrorismo, ma rivela effetti negativi se diventa
una modalità di comportamento generale dei partiti.
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Possiamo definire le elezioni del 1987 come quelle che portano l’Italia verso la fine di quella che
sarà considerata la ‘Prima Repubblica’.
La partitocrazia e ‘Tangentopoli’
I partiti sono strumenti indispensabili nell’ambito del funzionamento democratico dello Stato.
Eppure, i partiti in Italia, visibilmente dagli anni Ottanta hanno subito un processo di vera e propria
degenerazione, corruzione. I partiti hanno finito per spartirsi le istituzioni a tutti i livelli (RAI, ASL,
Banche, INPS, ecc.) esercitando un controllo capillare sul corpo sociale. Il clientelismo ha portato al
voto di scambio.
Negli anni Ottanta divenne plateale che i partiti finanziavano i loro mastodontici apparati
burocratici imponendo vere e proprie tangenti al corpo sociale attraverso commesse truccate alle
aziende private, concorsi pubblici, ecc. Un vero sistema proporzionato al peso specifico dei partiti è
stato messo in rilievo dai processi di ‘Mani pulite’ tenute al Tribunale di Milano (1992) che fecero
emergere connivenze a i livelli più alti del pentapartito. Una vera ‘Tangentopoli’!
La Magistratura, anch’essa per anni - in certa misura - connivente con la politica, metteva fine allo
scandalo di una politica corrotta non più sopportabile.
Lo squarcio storico per un’azione di pulizia della magistratura fu reso possibile sostanzialmente per
due fattori: a) Le elezioni del 1992 mettevano bene in evidenza il clima di sfiducia e, in pari tempo,
di cambiamento. Tutti i partiti del pentapartito perse voti e pure l’ex-PCI dal 1991 PDS (Partito
Democratico della Sinistra), mentre un nuovo partito come la Lega Nord – che si presentava
anticorruzione, e secessionista - faceva incetta del malcontento popolare. Questo significò un reale
depotenziamento del potere dei partiti; b) il sistema delle tangenti che faceva lievitare i prezzi di
opere pubbliche, ecc., era un costo economico non più sopportabile nell’economia asfittica di fine
anni ottanta.
Interi partiti, tra cui DC e PSI, si dissolsero come neve al sole sotto il peso del pubblico ludibrio.
Craxi che viene fatto oggetto di lancio di monetine dalla gente inferocita è l’immagine eloquente
del disastro di quella che in seguito verrà chiamata ‘Prima Repubblica’.
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BIBLIOGRAFIA
Libri
E. de Martino, Sud e magia, 1959
Film
Ladri di biciclette, De Sica, 1948
Mani sulla città, F. Rosi, 1963
I cento passi, M. T. Giordana, 2000
Il divo, P. Sorrentino, 2008
LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’
~ LE CREPE
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~ La Polonia di Solidarność
~ Il crollo del Muro di Berlino
~ LA FINE DELL’URSS
~ L’URSS di Gorbačëv
~ La fine della ‘sovranità limitata’
~ Scioglimento del PCUS
LA FINE DEL ‘SOCIALISMO REALE’
LE CREPE
La Polonia di Solidarność
Nel processo che porta alla caduta del blocco sovietico il 1989 è una data epocale. La Polonia, innanzitutto,
aveva visto la nascita del sindacato Solidarność (solidarietà). La Polonia era sempre stata una spina nel
fianco dell’imperialismo sovietico: la popolazione cattolica aveva sempre dato segni di insofferenza verso il
regime. In Polonia, parallelamente al movimento operaio di ispirazione marxista, si venne a creare un
movimento operaio di estrazione cattolica. Nel 1980, il paese venne sottoposto ad una grande agitazione ed
un’ondata di scioperi, ma la protesta si radicalizzò in seguito all’innalzamento dei prezzi alimentari e, quindi,
alla bassa capacità dei salari. Pian piano la lotta si sviluppò verso obiettivi sempre più generali ed importanti.
Si giunse alla volontà di far riconoscere il nuovo sindacato che, ironia della storia, nel cantiere navale Lenin,
era assai forte Solidarność e dove campeggiavano l’immagine della Madonna di Czestochowa e l’effige di
papa Giovanni II.
Il sindacato cattolico guidato da Lech Walesa non poteva non essere in conflitto con il governo presieduto
dal generale Jaruzelski che, presto, proclamò lo stato d’assedio nel Paese. Il conflitto fu smorzato
dall’intervento della Chiesa allora sotto pontificato del polacco Wojtyla: governo e sindacato si incontrarono
in cerca di un compromesso che, per certi versi, fu paradossale, ma tecnicamente geniale. Il risultato fu la
richiesta di elezioni per il giugno 1989. L’accordo prevedeva che si sarebbero indette elezioni a cui avrebbe
pubblicamente partecipato il nuovo sindacato-partito e che, comunque il popolo si fosse espresso, al Partito
comunista veniva attribuita una maggioranza assoluta del 65%.
Il risultato delle elezioni andò oltre ogni aspettativa: il Partito comunista si aspettava una sconfitta, ma non
una vera e propria debacle (disfatta) conseguendo solo il 12% dei voti. Solidarność conseguì quasi tutti i
seggi del senato. Insomma, alla prima prova elettorale democratica, il Partito comunista polacco evaporò
completamente, ma Solidarność stette ai patti pure per evitare bagni di sangue e il Partito comunista così
149
riuscì a resistere per ancora un po' di tempo. D’altro canto, la mossa di Solidarność fu quella di scongiurare
una repressione violenta da parte sovietica.
Con la vittoria di Solidarność, il generale Jaruzelski affidò a Masoweick l’incarico di formare un governo. Il
12 settembre del 1989 il governo ottenne l’appoggio del parlamento. Questa data segnò una svolta epocale,
poiché, fu la prima volta che in un paese del blocco sovietico si formava un governo di coalizione.
Il 29 dicembre del 1989, invece, la Polonia si proclamò Repubblica e, nel 1990, Walesa fu nominato
presidente della repubblica.
Il crollo del Muro di Berlino
L’evento che simbolicamente rappresenta la caduta del blocco sovietico, dei regimi dell’Est è, sicuramente,
la caduta del muro di Berlino. Il muro era stato costruito in brevissimo tempo nell’agosto del 1961, per
impedire le fughe dalla Germania dell’est a quella dell’ovest e le guardie appartenenti alla fazione sovietica
erano autorizzate a sparare anche sui loro concittadini se questi tentavano di valicare il muro, come spesso
accadeva.
Nell’ottobre del 1989 il presidente della Repubblica e capo del partito, Erich Honecker, diede le dimissioni in
favore di E. Krenz. Il 24 e 25 ottobre del 1989 cominciano manifestazioni di piazza sempre più grandi a
Dresda, Berlino, Lipsia: si chiede maggiore libertà e democrazia.
Il 7 novembre il governo annuncia le dimissioni e diventa Primo ministro il riformista H. Madrow. Intanto,
sorprendendo tutti, il 9 novembre il presidente della DDR annuncia l’apertura delle frontiere con la Germania
federale. Il 10 novembre i cittadini danno salgono sul Muro. Le famigerate e temute guardie (Vapos) non
spararono, le armi tacciono!
Da entrambe le parti, nel momento in cui si diffuse la notizia, i berlinesi si accalcarono presso il Muro, sul
quale salirono e festeggiarono la conquistata libertà di valicarlo.
Nel marzo del 1990, nella DDR si tennero le elezioni che registrarono la volontà di riunificazione delle due
Germanie. Il 2 ottobre 1990 la Germania era di nuovo unita.
Nessuno aveva previsto quello che stava accadendo. Il mondo restò incredulo, attonito difronte a queste
immagini. Tuttavia, la caduta del Muro di Berlino non trova spiegazione a Berlino, con le folle che lo
demoliscono: il Muro cade, sostanzialmente, a Mosca.
LA FINE DELL’URSS
L’URSS di Gorbačëv
Quello del 9 novembre fu un evento epocale: il muro della discordia, che aveva diviso la città in due parti, si
sgretolò e, nelle settimane successive, il ‘socialismo reale’ si dissolse ‘pacificamente’ come uno in spettacolo
surreale. Nella piena indifferenza di Mosca, i carrarmati non arrivarono a schiacciare questo esito
imprevedibile. Per capire come questo Muro, messo e mantenuto in piedi soprattutto per volontà sovietica,
fosse caduto così improvvisamente, occorre tornare indietro ai primi segnali di crisi economica, avuti con la
presidenza di Brežnev. A questi, si erano aggiunti i costi della gara spaziale che fu un elemento
fondamentale nella lotta tra le due super-potenze. In un primo tempo fu assolutamente a favore dell’Unione
Sovietica: basti ricordare che, il 4 ottobre del 1957, lanciava nello spazio lo Sputnik, il primo satellite; poco
dopo, il 12 aprile 1961, lanciava invece Jurij Gagarin, primo uomo nello spazio che compì, con la navicella
Vostok, un giro completo in un’ora e quaranta minuti. Gli USA ci riuscirono il 20 febbraio 1962 con John
Glenn e infine, il 20 luglio 1969, lo scettro passò nelle loro mani con la missione Apollo, che prevedeva
l’atterraggio sulla luna di Neil Armstrong, Michael Collins ed Edwin Aldrin. In seguito alla buona riuscita
150
della missione, gli americani eseguirono cinque sbarchi sulla luna tra il 1969 e il 1972. Il grande sviluppo
tecnologico dovuto alla conquista dello spazio fece sì che le importanti scoperte si riversassero in campo
militare, con l’invenzione di armi sempre più raffinate. La gara spaziale fu prodromica alla produzione di
missili a testata nucleare dalla distruttività crescente, che rendevano obsolete le bombe sganciate su
Hiroshima e Nagasaki. Gli USA iniziarono a porre un freno alla gara spaziale solo nel 1986, a seguito di un
incidente nel quale la navetta spaziale esplose poco dopo il lancio, causando la morte di tutto l’equipaggio;
l’Unione Sovietica continuò invece fino al 1991, col lancio di astronavi con evidenti spese enormi.
Il mantenimento dell’impero imponeva un apparato militare e una spesa militare enorme che divorava
ingentissime quantità di ricchezza prodotta. Insomma, i sovietici, nella gara spaziale e militare condotta
contro l’altro gendarme del mondo, gli USA, per il controllo delle aree strategiche, hanno dissipato una
quantità enorme di ricchezza che non ha avuto una ricaduta sullo sviluppo reale dell’economia: Il surplus
prodotto dal sistema dell’economia pianificata si è dileguato nelle spese spaziali e militari senza che vi fosse
una ricaduta virtuosa per il miglioramento di vita della gente. Il sistema militare messo in piedi dall’Unione
Sovietica fu un vero e proprio pozzo senza fondo che assorbì enormi ricchezze che potevano essere meglio
distribuite ed investite per il miglioramento economico-sociale dell’intero Paese. Appariva sempre più chiaro
che il sistema militare sovietico fagocitava la sua stessa economia.
Ancora, va ricordato come l’URSS spendeva cifre cospicue per mantenere il suo impero attraverso scambi
ineguali o scambi a prezzi politici: valga per tutti il prezzo politico con cui pagava la canna da zucchero
cubana.
Infine, la classe dirigente del paese era diventata corrotta e parassitaria e questo era un sicuro ‘costo’ per il
paese in cui, tuttavia non si registrarono ribellioni, sommesse sociali o semplici proteste giacché il sistema
sovietico riusciva a mantenere una certa adesione sociale proprio attraverso il lavoro garantito a tutti. Il
lavoro in generale diventava meno produttivo, ma ciò significò che l’abbassamento del tenore di vita reale
non causò insurrezioni, ma solo una stagnazione generalizzata senza che la coesione sociale fosse incrinata.
A ritroso, possiamo dire che l’economia pianificata del capitalismo di Stato non fu assolutamente all’altezza
degli obiettivi storici e che la comparazione tra URSS e USA era puramente ingannevole: l’idea di Krusciov
che l’Unione Sovietica avrebbe, in vent’anni, superato l’economia degli Stati Uniti era solo un pio desiderio.
Questa economia pianificata, sempre più asfittica, non si mostrò all’occidente per le sue arretratezze e crepe
giacché lo stesso occidente era impegnato, a sua volta, nella crisi energetica del 1973 che squassò l’occidente
e diede un duro colpo all’economia mondiale. Così l’URSS sembrava godere di enorme vitalità economica
tanto da potersi permettere scambi economici a prezzi politici (si veda Cuba). Un cambiamento essenziale fu
la designazione, l’11 marzo 1985, di Gorbačëv a segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica:
questo cambiò il corso non solo dell’URSS, ma di tutti i paesi dell’Est. Gorbačëv nasce all’interno dell’élite
del Partito comunista. Ad appena 54 anni, diventa presidente del Soviet supremo, e si pone alla guida
dell’URSS.
La politica di Gorbačëv si sostanzia e racchiude in due parole dirompenti: Perestrojka (ristrutturazioni) e
Glasnost (trasparenza).
La macchina del potere sovietico ovvero la burocrazia sovietica era un animale mastodontico inefficiente, ma
che fagocitava una ingente massa di plus prodotto. Bisognava, dunque, mettervi mano alleggerendola,
semplificandola. Contrassegnata dalle stimmate della lentezza della burocrazia russa quella sovietica era
ugualmente inefficiente, inefficace, parassitaria pur rappresentando, ora, la classe dirigente del paese nella
economia di capitalismo di Stato. Bisognava mettere in atto una serie di riforme economiche di
‘ristrutturazioni’, che rompessero quei lacci e lacciuoli che tenevano l’economia legata ad una burocrazia e ai
dirigenti del Partito. Le riforme economiche dovevano andare nella direzione delle liberalizzazioni per creare
una economia ‘mista’. D’altro canto ciò non era possibile senza metter mano ad un profondo cambiamento
nella nomenclatura del partito, nei suoi organi, nella corruzione.
In questo processo di ammodernamento va pure annoverato l’apertura verso la libertà religiosa e di coscienza
e lo sforzo di eliminare le misure repressive nei confronti degli avversari politici.
151
La fine della ‘sovranità limitata’
Gorbačëv cercò a più riprese di portare avanti una politica di disarmo. Nel 1985 vi fu il primo summit con
Reagan che non portò a nessun risultato visto che gli americani non vollero rinunciare allo ‘scudo stellare’.
Dopo l’incontro di Reykiavik (1986) vi fu quello più sostanzioso e proficuo a Washington, nel 1987, dove si
ci accordo per l’eliminazione degli euromissili.
Il fatto più importante, però, al fine della comprensione della caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione
dei sistemi a ‘socialismo reale’ avvenne il 18 marzo 1988 quando Gorbačëv annunciò la fine della ‘sovranità
limitata’ scherzosamente soprannominata ‘Dottrina Sinatra’ in riferimento alla canzone My way.
La politica estera sovietica non s’ingeriva più nei fatti dei paesi del Patto di Varsavia, ma tutti potevano
scegliere la propria strada al socialismo. Si abbandonava la politica che fu di Breznev che comprimeva le
libertà dei diversi Stati all’interno del blocco sovietico – revival del ‘principio d’intervento’ che fu della
Santa Alleanza. Ogni Stato satellite sovietico era sciolto dal patto di ‘sovranità limitata’ ovvero da quella
stretta politico-militare che obbligava a rimanere all’interno del blocco sovietico e seguirne le direttive. Ai
diversi stati satelliti veniva restituita una sovranità illimitata ovvero la capacità di autodeterminarsi,
l’indipendenza senza essere in vincolati all’URSS. A testimoniare che l’annuncio non fosse propagandisticoideologico, il 25 aprile 1989, l’Armata rossa cominciò a ritirarsi dall’Ungheria e l’11 maggio dalla
Cecoslovacchia; il 14 aprile 1988, l’Unione Sovietica si era già impegnata a ritirarsi dall’Afghanistan.
Addirittura il 6 luglio del 1989 Gorbačëv, in un discorso al Consiglio d’Europa, lanciava l’ipotesi di “una
casa comune europea”.
A partire dal 1991 si proclamarono indipendenti l’Uzbekistan, la Moldavia, l’Ucraina, la Bielorussia e gli
Stati Baltici dell’Estonia, la Lituania e la Lettonia; in sommovimento sono le repubbliche dell’Armenia e
dell’Azerbaijan. La caduta dei diversi regimi comunisti segnò l’inizio del “terzo dopoguerra”. Gorbačëv,
inoltre, nel luglio del 1989, al Consiglio Europeo, lanciò l’idea di un avvicinamento all’Unione Europea,
parlando di ‘casa comune europea’: con ciò, segnò un passo estremamente radicale, allontanando l’idea di
diversificazione ideologica e avvicinandosi a quella di cooperazione economica e politica con l’Europa.
Gorbačëv però fu ancora più radicale nella rottura col passato: venne soppresso l’articolo 6 della
Costituzione, che assegnava la guida del paese al Partito comunista e furono modificati gli articoli che
assegnavano al partito le sole candidature nelle elezioni.
Scioglimento del PCUS
Nell’agosto 1991, abbiamo il tentativo di golpe. Gorbačëv si trovava in Crimea quando fu fatto prigioniero
con la moglie e la sua guardia del corpo: i golpisti annunciarono che era malato e istituirono un Comitato di
emergenza al quale partecipò anche il presidente del KGB. Questo fantomatico Comitato che doveva
presiedere al potere per pochi mesi. Al golpe seppero rispondere gli uomini di Boris Eltsin, leader
democratico radicale e Presidente della Repubblica Russa eletto nel maggio del 1990 attraverso libere
elezioni, che spesso entrò in conflitto con le politiche del più moderato Gorbačëv. Durante il tentativo di
golpe Eltsin e i suoi scesero in piazza, parlarono al mondo intero raccontando ciò che stava succedendo,
occuparono il Parlamento, dalla torretta di un carrarmato davanti al museo di Lenin lesse i decreti con cui si
nominava comandante delle forze armate russe prendendo su di sé i massimi comandi. Intanto, anche a
Leningrado la popolazione si sollevava e Bush, presidente americano, dichiarò di appoggiare Eltsin per
difendere la democrazia nascente in Unione Sovietica e confermava la sua fiducia in Gorbačëv. Il golpe durò
48 ore, poi i golpisti si arresero. Nel frattempo, Gorbačëv tornò a Mosca e, in Parlamento, affrontò le accuse
di Eltsin che in parte lo riteneva responsabile dell’accaduto perché aveva dato posizione di potere ai golpisti.
Gorbačëv si dimise da segretario del Partito comunista e, accertata la responsabilità dell’élite del partito nel
tentativo di golpe, ne decretò lo scioglimento. Con quest’atto, finiva ufficialmente il PCUS.
152
Il 21 dicembre 1991, l’URSS cessò ufficialmente di esistere: al suo posto, nacque una comunità di stati
indipendenti formata dalla Russia e da dieci repubbliche ex-sovietiche. La caduta dell’URSS portò all’effetto
domino ovvero alla caduta dei regimi dell’Est e a processi di disintegrazione della federazione sovietica. La
caduta dell’URSS portò alla fine dei blocchi – almeno così come lo avevamo conosciuto fino ad allora.
BIBLIOGRAFIA
Libri
Film
LA TERRA VISTA DALLA LUNA
~ IL QUADRO
~
~
~
I nuovi equilibri politici
Globalizzazione e capitale finanziario
Consumatore globale e evanescenza del potere decisionale
153
~ IL GIARDINO DELLE DELIZIE
~
~
~
~
~
~
~
~
La fine del lavoro
Concentrazione della ricchezza
Nord e Sud del mondo
La fame nel mondo
Il problema dell’acqua
La condizione femminile
Cambiamento climatico
….
IL QUADRO
F. Bacone aveva ben presente che scientia potentia est! Oggi Bacone impallidirebbe alla vista della potenza
inaudita che abbiamo acquisito nella capacità di trasformare il pianeta con le nostre conoscenze e con la
tecnologia che abbiamo dispiegato. Resta, però, la domanda se abbiamo ancora il controllo di questo
apparato o se siamo – per dirla con U. Galimberti – diventati semplici funzionari di tale sistema e come,
eventualmente, possiamo porvi rimedio.
Oggi possiamo dispiegare meraviglie impensabili: Internet, biogenetica, robotica, ecc. eppure a guardar da
lontano la Terra ha una serie di ‘sofferenze’… A fronte di tali meraviglie portentose il sistema economico
genera continue crisi cicliche sempre più ampie e profonde – si veda la crisi del 2007 non ancora finita -; un
rallentamento nei ritmi di crescita dei ‘vecchi’ capitalismi (Europa, Usa, Russia), mentre reggono i ‘giovani’
capitalismi come la Cina; una precarietà crescente dovuta ad una disoccupazione che è diventata strutturale,
una sperequazione ricchi/poveri e Nord/Sud del mondo; ecc.
Se si guarda la Terra dalla luna sembra che il turbo-capitalismo non garantisce, per la stragrande
maggioranza dell’umanità, diritti essenziali come il diritto al cibo, all’acqua, all’istruzione, ad una aspettativa
di vita ormai possibile solo nelle nazioni più avanzate.
Si scorge, ormai con una certa chiarezza, il paradosso di una forza produttiva magnifica incatenata in una
appropriazione privata della ricchezza prodotta.
Se la fine del ‘socialismo reale’ pone fine a quella esperienza storica che a K. Marx si richiamava in maniera
quasi religiosa, l’analisi del capitalismo di Marx sembra riemergere pressoché intonsa dal Capitale.
I nuovi equilibri politici
La fine dell’URSS ha segnato, ovviamente, la fine della Guerra fredda e sembrò possibile, per l’espace du
matin, l’illusione di una governance mondiale che potesse avere la sua realizzazione in istituti internazionali
riconosciuti, come l’ONU. L’Onu però ha mostrato, a più riprese, di non essere in grado di gestire politiche
di mediazione nei conflitti, ma troppo spesso ha assistito impotente ad azioni unilaterali.
La superpotenza USA ha però fatto capire che non era il caso di abbandonarsi a simili romanticismi già con
la formulazione della teoria della Guerra preventiva e con l’Esportazione della democrazia con i marines o i
droni. Gli USA hanno preso il ruolo di gendarme unico del mondo per poi, con il presidente Obama alle
prese con la crisi economica del 2007, ripiegare verso una maggiore attenzione alla politica interna.
154
Sembrò all’Occidente, per un momento, che con la fine del ‘socialismo reale’ dei blocchi contrapposti, si
potesse pensare ad uno sviluppo ormai lineare e pacifico dove piccoli contrasti locali potessero essere sedati
facilmente. Il Terzo millennio: un tempo di grande sviluppo sulle ali della rivoluzione informatica e della
globalizzazione dei mercati.
Pian piano l’ex-URSS, ora Russia, ha ripreso il suo ruolo internazionale e il mondo sembra ridisegnarsi con
la vecchia polarizzazione. I vecchi attori del dramma novecentesco sembrano ancora lì a polarizzare e
movimentare la scena internazionale. La fine della Guerra fredda segna un cambio della scorza politica degli
imperialismi, ma non della sostanza nella politica degli equilibri di potere.
Pian piano, a livello internazionale, emerge sempre più la Cina ‘comunista’, ormai prima potenza industriale
mondiale, che per il momento vuole essere lasciata in pace e fare i propri commerci, ma che entrerà nel
prossimo futuro nella pugna internazionale per la spartizione delle zone d’influenza.
L’Europa, la vecchia e stanca Europa, sembra non accorgersi che non è più il Centro del mondo e, senza una
unione politica reale e senza nessuna influenza internazionale, s’attarda ancora nei nazionalismi che
s’acuiscono, ovviamente, nei periodi di crisi economica.
Se non ci sono elementi di stabilizzazione politica che possono assicurare un cammino di pace duraturo alla
Terra, dal punto di vista della governance economica, oggi più di ieri, si mostrano i limiti del sistema
economico con una serie di dati impressionanti per ciò che concerne le variabili fondamentali sulla sanità del
sistema, della sua vivibilità e della sua sostenibilità.
Globalizzazione e capitale finanziario
Natura imprescindibile del sistema capitalistico è la sua propensione ad espandersi, ad assoggettare mercati,
a dilagare sul globo. Fin dalla sua nascita il capitalismo ha vocazione internazionalista, globalista. Il
capitalismo ottocentesco trova il suo obiettivo nella costruzione dello Stato-nazione come ‘spazio’ che gli
corrisponde, poi cerca aree ecogeografiche più rilevanti. A partire dalla rivoluzione informatica e con la
crescita del capitale finanziario, la globalizzazione planetaria è ormai un dato di fatto. Il mondo è villaggio
globale – per parafrasare Mc Luhan.
Tale processo, ancorché inevitabile, rappresenta una via assai complessa, lastricata di ostacoli, conflitti,
soccombenti.
Il capitale finanziario è protagonista indiscusso della globalizzazione economica del Terzo millennio! Esso
fomenta questo processo storico muovendosi senza requie per tutto il globo: attraversa il mondo nei cavi di
fibra ottica sorvolando i confini delle nazioni, le culture, i diritti dei lavoratori, ecc. e dove non scompagina e
volatilizza, porta a ‘ragionevolezza’ le culture locali. E’ un capitale senza Paese, internazionale per sua
natura e, soprattutto, onnipresente, ‘volatile’: capace però, con un clic, di trasformarsi in investimenti
concreti, di determinare fallimenti a Bangkok, il taglio della foresta amazzonica, dare lavoro a Vladivostok e
buttare sul lastrico gli artigiani di Brema.
Alla volatilizzazione del capitale finanziario fa da pendant la delocalizzazione materiale delle fabbriche che
migrano in Paesi dove le imposte, il salario e i diritti del lavoro sono meno onerosi. I diritti del lavoro
deflagrano in una arena mondiale di forza-lavoro a basso costo. Per il capitale essi sono superfetazioni,
escrescenze fastidiose, lacci che intralciano l’inarrestabile processo di valorizzazione delle merci.
L’unico imperativo categorico in un’economia basata sul valore di scambio è massimizzare il profitto
attraverso la riduzione dei costi.
Ridurre i costi significa di fatto comprimere i costi dei due elementi della produzione: a) materie prime; b)
salari.
L’Occidente è, sostanzialmente, in una stagnazione tendenziale, ovvero una crescita irrisoria che inizia a
partire dagli anni Settanta. Lo scenario più probabile sembra essere, per lo studioso tedesco W. Streeck,
quello di un capitalismo in cui il declino economico si accompagna a quello morale, secondo un’involuzione
progressiva che avviene in un mondo caratterizzato da una sorta di anarchia globalizzata, privo com’è, di un
centro di riferimento geopolitico. La bassa crescita non permetterà di usare risorse finanziarie per appianare i
tanti squilibri distributivi e garantire un regime di pace sociale, e ciò mentre le politiche monetarie liberali
contribuiranno, attraverso il potenziamento del settore della finanza, ad aumentare l’iniquità distributiva. In
conclusione, secondo How will capitalism end? di W. Streeck, non è da escludere un scenario
socioeconomico basato sulla ‘guerra di tutti contro tutti’, sullo sfondo di un’economia stagnante e per di più
minata dal rischio dell’esplosione ricorrente di bolle speculative.
155
Consumatore globale ed evanescenza del potere decisionale
Il capitalismo vuole una Terra che sia uno spazio ‘piano’, ‘continuo’, sgombro da ostacoli, da confini, da
balzelli locali, per potersi dispiegare liberamente in tutta la sua potenza. Il capitalismo anela, di fatto, al
consumatore mondiale, dunque al pensiero unico.
La progressiva omogeneizzazione dei consumi, si fa valere attraverso la perdita delle identità culturali locali
che possono sopravvivere finché non sono ostacolo alla universale produzione delle merci. La costruzione
del consumatore mondiale ha bisogno di una ideologia unica e, tuttavia, non monolitica, ma che al suo
interno preveda una eterogeneità e, perfino, una certa dose di antagonismo.
Interessante è l’analisi di Z. Bauman che prende in considerazione le conseguenze della globalizzazione sulla
vita quotidiana delle persone. Studia in particolare lo "spazio", dimensione che tende a rarefarsi nel tempo
della globalizzazione. Da un lato abbiamo l’élite, il vertice, dall’altro le masse, la base. "Piuttosto che
rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio temporali tende a
polarizzarla. Chi opera nei pressi del potere finanziario (vero motore della globalizzazione), vive
l’incorporeità del potere: non ha bisogno di luoghi deputati, è extraterritoriale e proprio per questo può
isolarsi (in un nuovo apartheid) dal resto della popolazione che rimane tagliata fuori”. La conseguenza è la
fine degli spazi pubblici, la creazione di "non-luoghi" direbbe Augé. Ma la conseguenza più tragica – per
Bauman - è che l’abolizione degli spazi pubblici implica anche la crisi dei luoghi ove si creano norme, ove i
valori sono discussi, negoziati, elaborati. In assenza di luoghi pubblici, i giudizi su ciò che è
buono/bello/giusto/utile... possono discendere solo dall’alto, da regioni imperscrutabili, da una élite lontana
che non ha lasciato indirizzo di sorta e che rifiuta ogni interrogazione.
IL GIARDINO DELLE DELIZIE
La fine del lavoro
La macchina sostituisce l’operaio! Era questa la sana e confermata tesi dei luddisti degli inizi del XIX sec.
che sabotavano la produzione rompendo le macchine, sostitute degli operai. Gli apologeti del capitalismo
hanno sempre sostenuto che, nonostante si riducessero i posti in un settore produttivo, l’aumentata
produttività avrebbe portato un beneficio generale alla popolazione e, che la stessa produzione di macchine
avrebbe ridato lavoro a quegli operai espulsi. Oggi pare che, gli stessi economisti, constatino l’erroneità di
questa tesi. Si era mostrata chiara, infatti, la tendenza che i posti di lavoro persi in questo modo non si
sarebbero recuperati.
Nel 1997 J. Rifkin con “La fine del lavoro. Il declino della forza-lavoro globale e l’avvento dell’era postmercato” chiariva il problema divenuto esiziale per il capitalismo.
Secondo un rapporto presentato a Davos, all’ultimo meeting del World Economic Forum (2016), entro il
2020 i robot si ‘prenderanno’ 5 milioni di posti di lavoro che erano prima occupati da altrettanti uomini in 15
Paesi del mondo.
La macchina, i robot, i processi di automazione non sono solo da condannare, poiché rappresentano lo
sviluppo e la potenza che l’uomo ha raggiunto nel trasformare la natura per renderla fruibile ai propri
bisogni. Il problema è che lo sviluppo tecnico-scientifico applicato all’interno del sistema capitalistico
genera una costante espulsione di manodopera. Cosicché l’intelligenza umana, che dovrebbe dare maggior
agio all’uomo, paradossalmente, crea differenze e precarietà.
La fine del lavoro è la faccia speculare della disoccupazione a meno che non si tamponi con una riduzione
della giornata lavorativa ovvero la formula “lavorare meno, lavorate tutti”.
Concentrazione della ricchezza
La concentrazione della ricchezza si manifesta, non solo nella disparità tra paesi al livello mondiale, ma
anche all’interno degli stessi paesi ricchi vi è una differenza, sempre più evidente, tra persone abbienti ed
indigenti.
La ricchezza si concentra nelle mani di pochi in maniera scandalosa e non più sostenibile economicamente.
156
Lo squilibrio economico e, contestualmente, l’insostenibilità del sistema si leggono assai chiaramente nel
grafico sotto riportato, tratto dagli studi di Thomas Piketty, che illustra la concentrazione di bilionari rispetto
alla popolazione mondiale.
La ong britannica Oxfam ha rivelato dati assai significativi - diffusi alla vigilia del World Economic
Forum di Davos (2013) - secondo cui nel mondo 8 uomini (Bill Gates, Amancio Ortega, Warren Buffett,
Carlos Slim Helu, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Michael Bloomberg) posseggono 426
miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone.
Sono passati quattro anni da quando il Forum Economico Mondiale ha identificato nella crescente
disuguaglianza economica la maggiore minaccia alla stabilità sociale. Eppure, da allora, nonostante i leader
mondiali abbiano sottoscritto tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, anche quello di riduzione della
disuguaglianza, il divario tra i ricchi e il resto dell’umanità pare essersi allargato. Secondo le nuove stime, la
metà più povera del pianeta, lo è ancora di più rispetto al passato. Così nel biennio 2015/2016 dieci tra le più
grandi multinazionali hanno realizzato complessivamente profitti superiori a quanto raccolto dalle casse di
180 Paesi del pianeta. Il divario, però, ha radici più profonde. Sette persone su dieci vivono in luoghi dove la
disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni: tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è
aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a
dire 182 volte tanto. Oggi un amministratore delegato delle 100 società più capitalizzate dell’indice
azionario Ftse: “guadagna in un anno tanto quanto 10mila lavoratori delle fabbriche di abbigliamento
in Bangladesh”, spiega il rapporto Oxfam.
Per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto mostra che, stando ai dati del 2016 i primi 7 miliardari italiani
posseggono una ricchezza superiore a quella del 30% più povero dei nostri connazionali. L’1% più ricco
del Belpaese può contare su oltre 30 volte le risorse del 30% più povero e 415 volte quella del 20% più
povero della popolazione. Per quanto riguarda il reddito tra il 1988 e il 2011, il 10% più facoltoso ha
accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani.
Nord e Sud del mondo
La tragica distinzione tra ricchi e poveri investe macro aree continentali. Vengono così a crearsi Paesi
prosperi ed emergenti contrapposti a regioni sottosviluppate. Fu l’economista francese A. Sauvy a suggerire
per primo la distinzione tra Paesi di 1° mondo (i Paesi capitalisti), di 2° (quelli socialisti), e di 3° (i restanti).
Sebbene sia un concetto ormai superato, dato il diverso assetto economico-politico globale, rimangono
significative le differenze tra gli Stati. I Paesi cosiddetti del Nord sono quelli più sviluppati (USA, Canada,
UE, Russia, Australia, Nuova Zelanda, Scandinavia, Giappone…), mentre i restanti sono detti “del Sud”.
Le statistiche delle principali fonti internazionali stimano una sproporzione della spartizione delle ricchezze
anomala: solo il 20% della popolazione mondiale si appropria dell’86% delle ricchezze prodotte sulla Terra
ogni anno. Il restante 80% si deve accontentare del 14% dei beni che ne rimangono. Di questo 80%, il 60%
usufruisce di un vago 4,5% delle risorse del pianeta; un altro 20% della porzione di umanità meno fortunata,
invece, può a mala pena gestirsi solo l’1% delle risorse mondiali.
157
La fame nel mondo
795 milioni di persone nel mondo, oggi, soffrono la fame! Circa una persona su nove non ha abbastanza cibo
per condurre una vita sana ed attiva. A livello mondiale, il rischio maggiore per la salute degli individui è
rappresentato dalla fame e dalla malnutrizione, più che dall’azione combinata di AIDS, malaria e tubercolosi.
I seguenti punti riassumono le stime del WFP:
1) La stragrande maggioranza delle persone che soffrono la fame vive nei Paesi in via di sviluppo,
dove il 12,9% della popolazione soffre di denutrizione;
2) L’Asia è il continente che ha la più alta percentuale di persone che soffrono la fame nel mondo: due
terzi della popolazione totale. Negli ultimi anni, in Asia meridionale la percentuale si è ridotta, ma
nell'Asia occidentale essa è lievemente aumentata;
3) L'Africa Sub-sahariana è la regione con la più alta incidenza (percentuale della popolazione) della
fame. Una persona su quattro soffre di denutrizione;
4) Se le donne avessero lo stesso accesso degli uomini alle risorse, ci sarebbero 150 milioni di affamati
in meno sulla terra!
5) La scarsa alimentazione provoca quasi la metà (45%) dei decessi dei bambini sotto i cinque anni:
3,1 milioni di bambini ogni anno;
6) Nei Paesi in via di sviluppo, un bambino su sei (sono circa 100 milioni) è sottopeso;
7) Un bambino su quattro nel mondo soffre di deficit di sviluppo. Nei Paesi in via di sviluppo, questa
percentuale può crescere arrivando a un bambino su tre;
8) Nei paesi in via di sviluppo, 66 milioni di bambini in età scolare - 23 milioni nella sola Africa frequentano le lezioni a stomaco vuoto;
9) Il WFP calcola che ogni anno sono necessari 3,2 miliardi di dollari per raggiungere i 66 milioni di
bambini in età scolare vittime della fame.
Il problema dell’acqua
L’acqua potabile è stata vista finora come una merce qualsiasi e non come un elemento limitato ed essenziale
alla vita stessa. Nei Paesi sviluppati questo bene viene dato in gestione ad aziende private, che hanno con
tutta evidenza, il compito di far profitto, tuttavia l’acqua non è affatto garantita a tutti: settecento milioni di
persone vivono in condizioni tali da non avere accesso ad una fonte d’acqua sicura ovvero potabile. Le zone
dove più si accentua tale problema sono l’Oceania, Africa subsahariana, Caucaso e Asia centrale.
Tale mancanza idrica genera problemi igienici, malattie a livello internazionale, eppure la gran parte del
problema potrebbe essere risolto semplicemente con la costruzione di pozzi potabili.
Secondo stime attendibili 4 miliardi di persone soffrono per almeno un mese all’anno il problema
dell’approvvigionamento idrico e, circa 2 miliardi di persone vivono i problemi della siccità per almeno sei
mesi l’anno. Questi dati, già preoccupanti, non rappresentano la peggiore delle ipotesi: secondo le previsioni
del World Resources Institute, infatti, 167 Paesi avranno problemi di approvvigionamento entro il 2040.
Sulla stessa lunghezza d’onda si è espressa la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio nel 1992.
La condizione femminile
Sulla Terra il rapporto uomo-donna è ancora, nella stragrande maggioranza dei Paesi, profondamente
sbilanciato a favore dell’uomo.
La società patriarcale è radicata ancora in moltissimi Paesi. Lo stato di succubanza delle donne è ancora
fortissimo soprattutto nei paesi economicamente arretrati.
Una donna su tre, in tutto il mondo, ha dichiarato di aver subito (almeno una volta nella vita) una violenza
fisica e/o sessuale.
Finanche nei Paesi altamente sviluppati, dove il movimento femminista ha prodotto grandi rivoluzioni
culturali, la condizione di parità è ancora lontana dall’essere raggiunta.
In Italia, l’asimmetria di genere si rileva – dati Istat - ad es. nella retribuzione del lavoro, dove gli uomini
sono meglio retribuiti delle donne. Aumenta, inoltre, il numero di lavoratrici irregolari e di neo mamme
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senza occupazione dopo il parto; il trattamento pensionistico vede le donne con assegni più bassi rispetto agli
uomini.
Il fenomeno del femminicidio, ancora largamente diffuso finanche nei paesi più sviluppati, indica la distanza
da un vero e proprio cambio di rotta!
Cambiamento climatico
L’ONU, con la Conferenza di Kyoto del 1997, ha perimetrato il problema climatico dovuto all’effetto serra e
ha dato indicazioni su come porvi, quantomeno, un freno. Il trattato internazionale (firmato da più di 180
Paesi) è entrato in vigore nel 2005 dopo che lo ha ratificato anche la Russia, Paese responsabile del 17%
delle emissioni.
Paradossalmente il maggior responsabile mondiale delle emissioni di gas nocivi, gli Stati Uniti, che
partecipano per il 37% di emissioni di biossido di carbonio hanno abbandonato il Protocollo di Kyoto, che
era stato firmato dal democratico B. Clinton, e rigettato poi, dal conservatore G. Busch.
Il riscaldamento globale avrà sulla Terra un impatto catastrofico di cui saranno segno evidente:
l’innalzamento del livello del mare; l’incremento delle ondate di calore, dei periodi di intensa siccità e delle
alluvioni; l’aumento, per numero e intensità, delle tempeste e degli uragani. Tutto questo va a danneggiare
gli habitat e gli ecosistemi in modo irreversibile. Una ricerca condotta dal WWF, infatti, afferma che anche
se i paesi soddisfacessero tutti gli impegni di mitigazione del fenomeno finora assunti, il mondo
continuerebbe a confrontarsi con una minaccia di aumento medio della temperatura globale di almeno 4°c
rispetto alla temperatura media dell’epoca preindustriale.
Lavori in corso!!!
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