L`autismo dalla prima infanzia all`età adulta

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Metodologie e percorsi per la didattica, l’educazione,
la riabilitazione, il recupero e il sostegno
Collana diretta da Dario Ianes
Fred R. Volkmar e Lisa A. Wiesner
L’autismo dalla prima infanzia
all’età adulta
Guida teorica e pratica per genitori,
insegnanti, educatori
Edizione italiana a cura di
Leonardo Emberti Gialloreti
Traduzione di Carmen Calovi
Indice
7
Presentazione all’edizione italiana (L. Emberti Gialloreti)
9
Prefazione (G.B. Mesibov)
11
Premessa
15
CAP. 1 Che cos’è l’autismo?
39
CAP. 2 Quali sono le cause dell’autismo?
59
CAP. 3 Come si arriva alla diagnosi
99
CAP. 4 Interventi educativi e riabilitativi per l’autismo
139CAP. 5 L’età prescolare
163CAP. 6 L’età scolare
189CAP. 7 Dall’adolescenza all’età adulta
215CAP. 8 Come affrontare i comportamenti problematici
247CAP. 9 Come affrontare i problemi sensoriali
e dell’alimentazione
263CAP. 10 Come affrontare i disturbi del sonno e le crisi
epilettiche
283CAP. 11 La famiglia e le sue dinamiche
295Bibliografia
Presentazione all’edizione italiana
Ci trovavamo — la collega Francesca Benassi e io — presso il Child Study
Center della Yale University. Discutevamo con il professor Volkmar su come
valutare l’efficacia dei trattamenti nell’autismo. In una pausa dei lavori notammo
un libro da poco pubblicato, scritto proprio da Fred Volkmar e Lisa Wiesner e
indirizzato a genitori, insegnanti e educatori di persone con autismo. Ci siamo
subito entusiasmati per un libro rigorosamente scientifico, ma scritto in modo
accessibile a tutti. Questo volume è ora disponibile anche per il lettore italiano,
grazie alla competenza e alla professionalità dell’editore Erickson.
Quando il mondo cambia, anche le risposte devono cambiare. I Disturbi
dello Spettro Autistico si evidenziano nell’età evolutiva ed è necessario trattarli
il più precocemente possibile. Ma non sono una realtà esclusiva dell’infanzia.
Per i progressi sociali e sanitari, l’aspettativa di vita si è allungata per tutti,
anche per le persone con autismo. C’è dunque bisogno di uno strumento che
aiuti genitori e educatori ad accompagnare le persone con autismo attraverso
tutte le fasi della vita: dalla prima infanzia all’età adulta, arrivando anche alle
preoccupazioni dei genitori sul «durante noi e dopo di noi».
Il volume è indirizzato a genitori e insegnanti che vogliono meglio comprendere cosa sia l’autismo e cosa fare con i loro bambini. Ma anche chi è vicino
a persone adulte può trovare nel testo un aiuto per individuare i trattamenti più
adeguati e pianificare a lungo termine. Questa guida, redatta in linguaggio non
tecnico, è una sintesi a mio avviso ben riuscita di esperienza clinica, risultati
8
L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
della ricerca scientifica e approccio umano. Il volume aiuta a capire cosa sia
una diagnosi di autismo, quali siano i trattamenti disponibili e come scegliere
quello più adatto.
L’autismo si presenta con ampie differenze individuali. Per questo, il testo
guida il lettore verso quelle informazioni che più riguardano le sue specifiche
problematiche. Lungo il percorso si troveranno anche esempi pratici, tratti
da domande che, negli anni, genitori e insegnanti hanno realmente posto agli
autori.
L’edizione italiana ha mantenuto la struttura di base del testo originale,
anche se alcune sezioni, soprattutto quelle che riguardano la scuola, i servizi
pubblici e la legislazione, sono state in parte modificate per adattarle al contesto italiano.
Scopo del libro è quello di rendere accessibili a tutti sia i risultati della
ricerca scientifica, sia l’esperienza vissuta da tante famiglie. Saranno i nostri
lettori a dire se l’obiettivo è stato raggiunto.
Leonardo Emberti Gialloreti, Ph.D.
Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
2
Quali sono le cause dell’autismo?
Le prime descrizioni e trattazioni dell’autismo si concentravano soprattutto su quello che oggi potremmo definire autismo «classico», vale a
dire autismo nel senso stretto del termine, e molto meno su quelli che oggi
intenderemmo come disturbi dello spettro autistico o «del fenotipo autistico» come talvolta viene definito. Come abbiamo accennato nel capitolo
1, il primo resoconto di Kanner sull’autismo ebbe una grande influenza, in
molti modi diversi, sebbene nel tempo alcune delle sue iniziali osservazioni
siano state modificate. La sua descrizione dell’autismo era particolarmente
chiara riguardo a quelle che egli riscontrava come caratteristiche centrali
presenti nel disturbo (problemi nell’interazione sociale e risposte inusuali
all’ambiente). Kanner fu anche esplicito nel suggerire che l’autismo fosse
congenito, vale a dire che i bambini nascevano con il disturbo, anche se ora
sappiano che a volte sembrano svilupparlo nei primi anni di vita. Kanner
ipotizzò che l’autismo non fosse associato a disabilità intellettiva (ritardo
mentale), perché i bambini se la cavavano bene in alcune parti dei test di
quoziente intellettivo (QI). Alcuni aspetti del suo studio indussero erroneamente a pensare, ad esempio, che i genitori dei bambini con autismo
potessero in qualche modo causare il disturbo. L’idea iniziale (ed errata)
che l’autismo fosse più comune nelle famiglie in cui i genitori erano persone affermate portò indirettamente a una conseguenza molto infelice negli
anni Cinquanta del Novecento: incolpare il genitore (solitamente la madre)
40
L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
delle difficoltà del bambino. Nel tentativo di intervenire su quello che egli
considerava il problema fondamentale, Bruno Bettelheim, dell’Università
di Chicago, esortava ad allontanare i bambini dalla famiglia. L’idea che i genitori causassero in qualche modo l’autismo danneggiò una generazione di
genitori, che si sentirono responsabili dei problemi dei loro figli. Tuttavia, a
partire dagli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta, la ricerca iniziò
a dimostrare che l’autismo era un disturbo a base cerebrale.
Seguendo i bambini con autismo nel corso del tempo, divenne chiaro
che molti di essi — forse circa il 20% — sviluppavano crisi epilettiche. Altri
manifestavano caratteristiche insolite all’esame neurologico, come riflessi
«primitivi» persistenti (che sono presenti alla nascita, ma che generalmente
scompaiono dopo pochi mesi). Alcuni studi rilevarono che tra i bambini con
autismo c’era una maggiore frequenza di casi di complicazioni prima o dopo il
parto. Altri studi ancora riferirono associazioni tra l’autismo e una serie di condizioni mediche note per influire sullo sviluppo cerebrale; cosa più importante,
divenne chiaro che l’autismo aveva un forte aspetto genetico. Anche se ancora
non sappiamo quale ne sia la causa precisa, i dati più attendibili indicano che si
tratta di un disturbo neurologico con una forte componente genetica. Ancora
non conosciamo la causa genetica precisa (o le cause genetiche precise), ma
siamo molto più vicini, rispetto anche solo a pochi anni fa, a individuare i geni
responsabili.
Cause genetiche dell’autismo
Negli anni Settanta del Novecento, un articolo scritto da un qualche
autorevole genetista suggerì l’idea che la genetica non rivestisse alcun ruolo
nell’autismo. All’epoca, tuttavia, questo disturbo era relativamente raro e i dati
molto scarsi. Di lì a poco tempo, fu pubblicato uno studio molto importante di
Susan Folstein e Michael Rutter (1977), nel quale si mostrava che l’incidenza
dell’autismo nei gemelli identici (o monozigoti) era doppia rispetto a quella
rilevata nei gemelli dello stesso sesso ma dizigotici.1 I gemelli identici hanno
geni identici, mentre i gemelli dizigotici condividono solo alcuni geni. L’implicazione di questo studio era che poteva esserci una forte componente genetica
Naturalmente i gemelli identici o monozigoti sono sempre dello stesso sesso, ma anche gli studi
genetici sui gemelli eterozigoti si sono generalmente concentrati su gemelli dello stesso sesso, per via
della differenza di genere che si rileva per questo disturbo; in altre parole, per via di questa differenza
di genere, le ricerche generalmente non hanno considerato gemelli eterozigoti maschio e femmina.
1
Quali sono le cause dell’autismo?
41
nel determinarsi dell’autismo. Numerose ricerche hanno ora dimostrato che
è proprio così (per una trattazione dettagliata si veda Rutter, 2005), e sono
emersi anche altri risultati.
Man mano che gli scienziati iniziavano a esaminare il ruolo della genetica
nell’autismo, divenne evidente che l’incidenza del disturbo era maggiore tra
i fratelli e le sorelle dei bambini con autismo. I rapporti indicati variavano
da 1 a 10 a 1 a 50. Questo può non sembrare un rapporto particolarmente
alto, se non si considera il fatto che, nella popolazione generale, la frequenza
dell’autismo classico o in senso stretto va circa da un caso su 800 a uno su
1000 e che, per quanto l’autismo non sia affatto diffuso tra i fratelli e le sorelle dei bambini autistici, la frequenza è nettamente maggiore rispetto alla
popolazione generale.
La genetica dell’autismo
Ruolo importante dei fattori genetici indicato da:
•tassi elevati di concordanza nei gemelli identici (se un gemello ha il disturbo, è molto
probabile che lo abbia anche l’altro);
•maggior rischio di autismo per i fratelli e le sorelle dei bambini con autismo (2-10%,
significativamente superiore rispetto alla frequenza nella popolazione generale).
Quali sono i geni coinvolti?
•Sembra che i geni che contribuiscono all’autismo siano molteplici. Si sta attualmente
lavorando per identificarli.
Che cosa succederà quando i geni verranno individuati?
•Sarà possibile sviluppare modelli animali.
•Conosceremo meglio il modo di operare dei geni nel cervello.
•Ci potrebbero essere implicazioni per la diagnosi e lo screening.
Altri studi, inoltre, iniziarono a considerare i problemi correlati nei fratelli
e nelle sorelle dei bambini con autismo, rilevando che, anche quando questi non
avevano l’autismo, sembravano avere, con maggiore frequenza, altri problemi,
comprese difficoltà di linguaggio e di apprendimento.
Non è ancora del tutto chiaro che cosa venga ereditato, nell’autismo. È
possibile che si erediti una predisposizione generale ad alcune difficoltà più
che l’autismo in sé e per sé. Studi recenti sui familiari dei bambini con autismo
sembrano indicare che tra di essi possano esserci tassi più elevati di disturbi
d’ansia e dell’umore e, forse, maggiori difficoltà sociali.
Sebbene la ricerca abbia evidenziato con sempre maggiore chiarezza
l’importanza dei fattori genetici nell’autismo, non abbiamo ancora risposte
definitive. La genetica dell’autismo non è trasparente né facile e sembra
probabile siano coinvolti più geni, con stime che vanno da un numero di 4
42
L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
a 20 o più. A rendere la cosa ancora più complicata c’è anche la possibilità
che non tutte le forme di autismo abbiano le stesse basi genetiche e che derivino invece da fattori diversi; ad esempio, potrebbe esserci un problema
specifico al momento del concepimento, quando c’è la possibilità che parte
del materiale genetico vada perso o che si verifichi una mutazione genetica.
Potrebbero essere coinvolti anche altri fattori, come ad esempio difficoltà
alla nascita che interagiscono con una predisposizione genetica causando
l’autismo. Si sta lavorando molto per individuare i geni potenzialmente responsabili dell’autismo. Quelli che potrebbero essere coinvolti (noti come
geni candidati) sono attualmente oggetto di indagine. Appare probabile che
nel corso dei prossimi anni venga identificata qualche causa genetica (o più
cause genetiche) dell’autismo.
Epilessia e anomalie elettroencefalografiche
Uno degli elementi importanti che aiutò i medici a rendersi conto che i
genitori non avevano colpa dell’autismo dei loro figli fu una crescente consapevolezza del rischio, superiore alle attese, che i bambini autistici avevano di sviluppare crisi epilettiche. I disturbi epilettici (anche detti epilessia o convulsioni)
sono un gruppo di condizioni determinate da un’attività elettrica anomala nel
cervello. I sintomi dei disturbi epilettici sono molto eterogenei: possono andare
da brevi episodi nei quali il bambino sembra «distrarsi» a convulsioni molto
evidenti per le quali il bambino cade per terra, perde coscienza e ha periodi
alterni di contrazione e rilassamento muscolare. Ci sono molti tipi diversi di
epilessia (si veda il capitolo 10).
Uno dei modi con i quali i medici ricercano l’attività epilettica è l’elettroencefalogramma (o EEG), che misura l’attività elettrica nel cervello. Sia i primi
studi sia quelli più recenti indicano che circa il 50% dei soggetti con autismo
presenta anomalie nell’EEG; i risultati relativi all’EEG sono differenziati e
non specifici dell’autismo, ma la maggiore frequenza di anomalie denota,
chiaramente, dei problemi di base nel modo in cui il cervello è «cablato».
Nella popolazione di bambini «normali», le frequenze di esordio delle crisi
epilettiche sono più elevate attorno all’epoca della nascita e poi diminuiscono
sensibilmente nel corso del tempo. La figura 2.1 presenta i risultati di due studi
condotti con bambini con autismo e disturbo generalizzato dello sviluppo non
altrimenti specificato (DGS-NAS) e i dati ottenuti da un campione normativo
di bambini britannici. Le frequenze di comparsa di crisi epilettiche sono più
elevate tra i bambini con autismo classico.
5
L’età prescolare
Fino a tempi relativamente recenti si sapeva poco delle manifestazioni
iniziali dell’autismo. Quasi tutte le informazioni provenivano dalle descrizioni
che i genitori facevano dei loro figli all’età di 3 o 5 anni fino al momento in cui
ricevevano la diagnosi. In sostanza, ai genitori veniva richiesto di ricordare la
prima fase dello sviluppo del bambino.
Un altro modo per rilevare le caratteristiche dei primi anni era quello di
visionare i filmini girati in occasione della festa del primo compleanno o a Natale
e di osservare il comportamento dei bambini in modo retrospettivo. Entrambi
questi approcci fornivano informazioni, ma per i ricercatori era frustrante non
poter lavorare direttamente con bambini piccoli con autismo. Le cose stanno ora
cambiando radicalmente: vediamo diagnosi e interventi precoci più frequentemente e questo ha ripercussioni importanti a livello dei servizi e sul piano della
ricerca. Possiamo così provare a individuare gli aspetti più rilevanti dello sviluppo
nell’autismo e forse queste conoscenze ci permetteranno di sviluppare interventi
migliori. Conoscere i primi segni premonitori dell’autismo, magari anche quelli
più piccoli, ci aiuterà anche a effettuare screening più accurati.
In questo capitolo facciamo una panoramica di quanto attualmente si sa
delle manifestazioni dell’autismo nei neonati e nei bambini in età prescolare e
di alcuni dei metodi di intervento utilizzati. Nell’autismo abbiamo oggi diagnosi
abbastanza precoci; non è così per l’Asperger, che viene di solito diagnosticato
tardivamente.
140 L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
Nel suo studio originale, Leo Kanner leggeva l’autismo come congenito,
qualcosa che il bambino aveva fin dalla nascita. Le ricerche nelle quali è stato
chiesto ai genitori quando iniziavano a preoccuparsi dello sviluppo del figlio
mostrano che la maggior parte di loro iniziava ad avere timori durante il primo
anno di vita del bambino, circa il 90% cominciava a preoccuparsi al compimento del secondo anno e tutti si allarmavano quando il bambino arrivava ai
3 anni. Nella figura 5.1 sono presentati i dati sull’età di esordio del disturbo,
secondo quanto rilevato nel quadro del lavoro condotto per definire l’autismo
nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4a edizione (DSM-IV).
Occorre tener presente che stiamo parlando di quando i genitori iniziano
a preoccuparsi, non di quando cominciano a manifestarsi piccoli segnali di
difficoltà che uno specialista potrebbe riconoscere prima. Considerati i dati
a nostra disposizione, cosa preoccupa i genitori (e i professionisti) nei primi
anni di vita del bambino?
120
Numero di casi
100
80
60
40
20
0
6
12 18 24 30 36 40 48 54 60
Età di esordio riferita (in mesi)
Fig. 5.1 Età di esordio: casi con diagnosi clinica di autismo dalla sperimentazione sul campo del
DSM-IV. Riproduzione autorizzata da: Volkmar F. e Klin A. (2005), Issues in the classification of autism and related conditions. In F. Volkmar, R. Paul, A. Klin e D. Cohen (a cura di),
Handbook of autism and pervasive developmental disorders, 3a ed., Hoboken, NJ, Wiley, p.
20.
L’età prescolare
141
Osservare i bambini molto piccoli non è facile, perché cambiano con
estrema rapidità e perché il loro comportamento, anche nell’arco di una singola giornata, può variare enormemente. In genere, passano buona parte del
tempo dormendo e osservarli al momento giusto è essenziale per chi desidera
esaminarli. Inoltre, alcuni comportamenti del tutto adeguati in una certa fascia
di età possono diventare segnali di allarme in un’altra. Ad esempio, alcune delle
forme di gioco che i bambini molto piccoli praticano esplorando gli oggetti con
la bocca diventano preoccupanti se, quando il bambino cresce, non vengono
sostituite da forme di gioco più evolute.
Nei bambini piccoli si rilevano normalmente salti evolutivi importanti,
ad esempio quando il bambino sembra volere qualcosa, la sua capacità di ottenerlo, la capacità di raggiungere qualcosa e segnalare al genitore, tramite il
contatto oculare, che quella cosa gli interessa. Queste capacità si sviluppano
durante il primo anno di vita.
Data la variabilità negli stati di veglia/sonno, nel comportamento e
nella motivazione del bambino, può essere difficile per i genitori riuscire
a far sì che il piccolo dimostri cose che evidenziano uno sviluppo normale
o, al contrario, un comportamento di cui preoccuparsi: ciò crea alcune
difficoltà nella valutazione. Ad esempio, i motivi per cui i bambini possono
fare le cose con lentezza possono essere diversi e alcuni sviluppano metodi
alternativi per farle.
Un altro problema è la regressione. Alcuni bambini sembrano avere uno
sviluppo normale ma poi perdono alcune abilità, spesso l’uso della parola:
circa il 20-30% dei genitori di bambini con autismo riferisce la perdita rapida o
graduale del linguaggio verbale. Il bambino sembra poi essere meno interessato
all’interazione sociale. Gli studi che hanno analizzato i filmini indicano che in
alcuni casi i bambini non presentano alcun problema fino al compimento del
primo anno, ma poi regrediscono.
Altri studi indicano che a volte quella che i genitori percepiscono come
una regressione è piuttosto un arresto nello sviluppo; in altre parole, il bambino si sviluppa più o meno normalmente ma poi l’evoluzione rallenta. In altri
casi, nei quali anche i genitori riferiscono una regressione, una discussione
approfondita con loro rivela che già prima c’erano motivi di preoccupazione. È facile comprendere quanto sia complicato, in simili casi, interpretare
la regressione. È accertato che un esordio molto tardivo, con uno sviluppo
del tutto normale fino ai 3 o 4 di età a cui segue una profonda regressione,
non è buon segno.
Sono attualmente in corso studi per comprendere il significato della
regressione nell’autismo.
L’età prescolare
161
Domande e risposte
1 Mio figlio e sua moglie hanno un bambino di 8 mesi; è il primo
figlio. So che forse sono una nonna che si preoccupa troppo, ma
mi sembra che Billy non si comporti come gli altri bambini. Non
sembra avere interesse per le cose che interessano gli altri miei
nipoti. Se lo si chiama per nome non si gira e quando gli parlo non
sorride. Sembra che gli piaccia fissare le cose che si muovono. È
troppo presto per preoccuparsi che possa avere l’autismo?
Non è troppo presto. Lei ha colto in pieno il tipo di cose che devono
destare sospetto a questa età: l’assenza di reazioni alle altre persone e un
maggiore interesse verso gli oggetti. Anche se a questa età non è sempre
possibile fare una diagnosi certa, è possibile avviare un intervento se ci sono
buoni motivi per farlo. Dovrebbe parlare dei suoi timori con suo figlio e la
moglie e invitarli a discuterne con il pediatra o il medico di famiglia, che
potrà effettuare uno screening per i disturbi dello sviluppo e/o indirizzarli
ai servizi per la valutazione.
2 A nostra figlia, che ha 4 anni, è stato diagnosticato l’autismo
quando ne aveva 2. Ha fatto ottimi progressi con un programma ABA piuttosto intensivo e strutturato e frequentando per
qualche ora in settimana (sempre di più) un servizio tipo scuola
dell’infanzia. Mia moglie e io stiamo valutando se iscriverla alla
scuola dell’infanzia (con qualche aiuto) l’anno prossimo. Quando
si può dire che la «cura» ha funzionato?
In primo luogo è davvero una cosa positiva che vostra figlia abbia risposto
bene al trattamento. Ponete una domanda precisa, ma al contempo sollevate
un’altra questione importante: i cambiamenti. I cambiamenti di programma
riescono meglio quando sono stati pianificati e predisposti con anticipo e il
bambino è preparato. Le persone che l’hanno aiutata finora potranno sicuramente darvi molti suggerimenti utili e anche il fatto che abbia già frequentato,
anche se per periodi limitati, un ambiente simile alla scuola e i coetanei a sviluppo tipico renderà il cambiamento più facile. Ci sono diverse cose che potete
fare molto prima perché le cose filino il più possibile lisce, ad esempio andare
a vedere la classe e l’insegnante e mostrarle le immagini. Quando definite il
piano educativo personalizzato, considerate da dove la bambina è partita e dove
l’équipe vorrebbe che arrivasse; all’inizio può essere utile prevedere molti aiuti
e poi, se le cose vanno bene, ridurli o eliminarli.
162 L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
Alla vostra domanda esplicita, quella sulla cura, è difficile rispondere,
perché la risposta dipende da cosa intendete per «cura». Molti bambini con
disturbi dello spettro autistico hanno esperienze scolastiche molto positive,
a volte anche senza troppi aiuti formali. Spesso, anche i bambini con livelli di
funzionamento più elevati mantengono alcune bizzarrie o fissazioni da adulti,
così come succede a molte persone con sviluppo tipico. Siate orgogliosi dei
progressi che ha fatto fino a oggi e state a vedere come va l’esperienza alla scuola
dell’infanzia. Buona fortuna!
3 Sono un pediatra in pensione. Il mio primo nipote ha ora 15
mesi e ancora non parla. Sono preoccupato perché quando sente
il suo nome non reagisce e non sembra «scattare» alla vista delle persone (se faccio un suono strano non mi guarda). Ha avuto
molte infezioni alle orecchie, ma una volta passate l’udito era a
posto (ha già fatto diversi esami dell’udito). Ogni volta che ne
parliamo, mia nuora si agita molto e non vuole farlo valutare dal
neuropsichiatra infantile. Potete darmi un consiglio?
Ha ragione a essere preoccupato. Riconoscere le fragilità evolutive di un
figlio può essere un processo difficile per i genitori, soprattutto se si tratta del
primogenito e non hanno termini di confronto. Ovviamente lei ha una grande
esperienza, ma è anche nel ruolo non facile del suocero. In situazioni come
queste può provare a parlarne in privato con suo figlio e a esporgli i suoi timori.
Può anche suggerire ai genitori di portare il bambino a un gruppo di gioco o
in un altro contesto, dove possano vedere i suoi coetanei a sviluppo tipico e
osservare quali sono i comportamenti caratteristici per la sua età.
8
Come affrontare
i comportamenti problematici
Nell’autismo e nelle condizioni correlate le difficoltà comportamentali
possono assumere forme molto diverse, alcune comuni e altre meno frequenti.
Tra i comportamenti comuni ci sono movimenti ripetitivi, come i manierismi
che coinvolgono le mani e le dita, o movimenti più complessi che coinvolgono
l’intero corpo, come il dondolare avanti e indietro. A volte i comportamenti
problematici possono assumere altre forme, come scoppi d’ira o atti autolesionistici (ad esempio sbattere la testa). Il bambino può nutrire interessi molto
inconsueti, ad esempio può allineare giochi e bambole anziché giocarci. I comportamenti problematici tendono a modificarsi nel corso del tempo: spesso
raggiungono picchi di criticità nella prima metà dell’adolescenza; altre volte
si mantengono più o meno immutati, ma quello che può essere leggermente
problematico in un bambino di 3 anni può diventare un grande problema in
un ragazzino di 13!
In questo capitolo esamineremo alcuni dei problemi comportamentali e delle difficoltà emotive che si osservano nei disturbi dello spettro autistico. Occorre
tenere presente che, quando un bambino presenta un determinato problema, è
necessario lavorare non soltanto con lui, ma anche con le persone che lo conoscono molto bene. Inoltre bisogna ricordare che qui discuteremo l’intera gamma
di difficoltà che si possono rilevare nell’autismo, ma che un particolare soggetto
potrebbe presentarne soltanto alcune o anche nessuna. Nella valutazione dei
possibili interventi occorre sempre ponderare sia i benefici sia i rischi potenziali.
216 L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
In questa sede, e per gli scopi che ci proponiamo, raggrupperemo i comportamenti problematici e le difficoltà emozionali in alcune ampie categorie
che includono le manifestazioni più frequenti di entrambi; passeremo poi a
discutere alcuni aspetti generali degli interventi. Verso la fine del capitolo parleremo anche dei comportamenti problematici connessi a condizioni di salute
mentale, un aspetto molto importante per i soggetti dello spettro autistico
cognitivamente più dotati.
In un mondo perfetto ci troveremmo davanti a una chiara corrispondenza
biunivoca fra comportamento problematico o difficoltà emotiva e conseguente trattamento; purtroppo nel mondo reale le cose sono di gran lunga
più complicate. In primo luogo nei bambini con DSA, soprattutto nei casi in
cui c’è maggiore compromissione, può essere difficile applicare le categorie
diagnostiche abituali (questo è un problema che si pone con tutti i bambini con
disabilità significative). Per di più, talvolta le altre difficoltà/disturbi compresenti a quello autistico non vengono riconosciute: in sostanza, la diagnosi di
autismo o sindrome di Asperger rende più difficile il riconoscimento di altre
difficoltà, come ansia o depressione. Come vedremo più avanti in questo capitolo, tali aspetti complicano la scelta del trattamento più appropriato; anche
i bambini cognitivamente più dotati possono avere «crisi» e altre difficoltà,
ma a volte non è facile capirle.
Come già accennato, spesso i bambini presentano difficoltà plurime:
ad esempio, le difficoltà di attenzione possono accompagnarsi a comportamenti stereotipati (ripetitivi e apparentemente non finalizzati); in questi
casi è importante decidere su quali concentrarsi e stabilire i potenziali rischi
e benefici del trattamento. A volte lo stesso comportamento problematico
è dovuto a una molteplicità di fattori; altre volte, tuttavia, il fatto che un
bambino presenti più comportamenti problematici è molto importante nella
scelta dell’intervento. Di fatto, spesso sembra che i comportamenti problematici viaggino in gruppo! Per ragioni di semplicità facciamo generalmente
riferimento al «bambino», ma le considerazioni esposte valgono anche per
gli adolescenti e gli adulti.
Problemi comportamentali e dell’umore frequenti
nelle condizioni dello spettro autistico
Tipo di comportamento
Esempi specifici
Stereotipie
•Dondolarsi.
•Muovere le dita o le mani.
•Altri comportamenti ripetitivi.
Come affrontare i comportamenti problematici
Autolesionismo e aggressività
•Fare del male a se stessi o agli altri.
•Distruggere oggetti.
Rigidità e perseverazione
•Resistenza al cambiamento.
•Perseverazione, compulsione.
•Interessi insoliti.
Iperattività e difficoltà attentive
•Elevati livelli di attività.
•Difficoltà di attenzione.
•Impulsività.
•Scappare/correre via.
Problemi di umore
•Depressione.
•Ansia.
•Disturbi bipolari.
217
Gli interventi comportamentali: una breve introduzione
Gli interventi comportamenti e educativi sono generalmente il trattamento di prima scelta per le difficoltà comportamentali. Esistono moltissime
ricerche sulla comprensione e sul trattamento di tali difficoltà che hanno
utilizzato criteri di valutazione e intervento ispirati alla cosiddetta analisi applicata del comportamento (Applied Behavior Analysis, ABA). L’ABA si basa sul
presupposto che i bambini con DSA, come tutti gli altri, apprendono tramite
l’esperienza; perciò, gli eventi che precedono le difficoltà comportamentali
(gli antecedenti) e quelli che le seguono (le conseguenze) assumono grande
importanza. Per antecedenti s’intendono tutti quei fattori che attivano i comportamenti; ad esempio, se si chiede al bambino di smettere di dondolarsi e
di mettere via i giocattoli e lui ha un accesso di collera, è facile intuire che il
bambino non vuole smettere di dondolarsi né mettere via i giocattoli. Se la
reazione all’accesso di collera è quella di lasciare che il bambino continui a
dondolarsi, il messaggio forte e chiaro che gli si dà (la conseguenza) è che non
deve badare a quello che gli diciamo!
Esistono diversi approcci alla gestione dei comportamenti problematici; in
fondo al volume sono fornite alcune indicazioni di base. Poiché spesso i genitori
(ma anche gli insegnanti) si trovano a doversi occupare di più cose contemporaneamente, per loro non sempre è facile fare un passo indietro per osservare
il «quadro completo» in cui i comportamenti problematici avvengono.
Ci sono alcuni principi generali da tenere presenti. In primo luogo, non
bisogna dedicare attenzione al bambino soltanto quando si comporta male:
se si vuole incoraggiare il comportamento positivo, bisogna assicurarsi di
riconoscerlo e lodarlo specificamente. In altri termini, uno dei «trucchi» per
218 L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
gestire i comportamenti problematici è avere idee chiare riguardo ai tipi di
comportamento positivo alternativi a quelli problematici.
In generale, una delle cose più importanti da fare è osservare, cercando di
individuare eventuali costanti nei comportamenti problematici; ad esempio, il
comportamento si manifesta solo in un certo momento o luogo, o in seguito
a una determinata attività? Consideriamo cosa succede prima e cosa succede
dopo il comportamento: viene in qualche modo (involontariamente) gratificato? Tale approccio di valutazione viene a volte indicato come analisi ABC,
cioè analisi degli antecedenti (Antecedent), del comportamento (Behavior) e
delle conseguenze (Consequence).
L’obiettivo è quello di rinforzare il comportamento positivo; a questo
scopo, quando un bambino assume un comportamento che noi riteniamo
positivo, sarà necessario lodarlo esplicitamente e immediatamente. Per molti
aspetti, la risoluzione delle difficoltà comportamentali sta nel condurre il
bambino ad aumentare i comportamenti positivi, sostituendoli a quelli problematici. Prepararsi in anticipo è utile: se sappiamo che una certa situazione
crea difficoltà o stress al bambino, bisogna avere pronto un piano d’azione.
Prevenire un problema è più facile che doverlo gestire nel bel mezzo di una
crisi. Inoltre, occorre tenere presente che, quando si cerca di eliminare o ridurre
un comportamento problematico, al suo posto dovrà accadere qualcos’altro.
Bisogna osservare attentamente il bambino: spesso si riescono a notare
i piccoli segnali comportamentali che potrebbero indicare l’inizio di una difficoltà. Questi campanelli di allarme vanno utilizzati per prevenire i comportamenti problematici, magari dando al bambino qualcosa di diverso da fare o
indicargli una strategia più efficace per comunicare i suoi bisogni (ad esempio
lo scambio di immagini, si veda il capitolo 4). Quando è realmente necessario
mettere dei limiti o collegare le azioni alle loro conseguenze bisogna essere
chiari, specifici e andare fino in fondo. Di nuovo, gran parte della battaglia
si gioca sulla preparazione: se abbiamo un piano possiamo attuarlo, anziché
farci cogliere di sorpresa e rimanere disorientati. Se, ad esempio, il bambino
ha difficoltà quando si va a fare la spesa al supermercato, è opportuno pensare
a un piano prima di uscire. In primo luogo va fatto tutto il possibile perché le
prime uscite per la spesa vadano nel migliore dei modi, magari con uscite molto
brevi per acquistare il suo cibo preferito. Con i bambini che hanno difficoltà
a gestire i cambiamenti, il principio da seguire è quello di introdurli gradualmente, utilizzando le esperienze positive come base per nuovi apprendimenti.
Dopo un certo tempo si potrà usare una lista della spesa (se necessario corredata di fotografie, aiuti visivi o etichette dei prodotti ritagliate dalle relative
confezioni) da completare con l’aiuto del bambino. Se il bambino ha difficoltà
Come affrontare i comportamenti problematici
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comportamentali, occorre dirgli in anticipo che cosa succederà nel caso dovesse
comportarsi in modo problematico: «Lucia, al supermercato non si urla; se
urli, dovremo andare via e non potremo prendere il gelato».
Può essere utile annotare le osservazioni e/o creare una tabella nella quale
segnare l’ABC dei comportamenti problematici. Quali sono gli antecedenti,
quale il comportamento e quali le conseguenze? Spesso, prestando maggiore
attenzione, si iniziano a notare segnali costanti e significativi. Ad esempio, il
comportamento problematico potrebbe verificarsi soltanto in un luogo o in
un preciso momento della giornata.
Occorre anche osservare attentamente l’ambiente: talvolta modifiche
apparentemente piccole all’ambiente del bambino (ad esempio trasformare un
luogo disorganizzato e troppo ricco di stimoli in un ambiente più semplice e
strutturato) possono determinare cambiamenti enormi nel suo comportamento. I bambini con DSA rispondono bene alla strutturazione, alla prevedibilità e
alla coerenza, perciò è importante accertarsi che l’ambiente non contribuisca
in qualche modo alla comparsa dei comportamenti problematici.
Inoltre, bisogna esaminare le funzioni del comportamento. Se il bambino
sta usando un comportamento per ottenere attenzione, allora si può decidere
di ignorarlo (cioè di non considerare quanto di inappropriato sta facendo) e
di prestargli attenzione quando inizia a fare qualcosa che si desidera faccia. Se
il bambino (come la maggior parte dei bambini) non accetta i «no», occorre
fare attenzione a non rinforzare gli scoppi di rabbia e gli altri comportamenti
inappropriati; a volte i genitori, senza rendersene conto, incoraggiano questo
tipo di comportamento facendo esattamente ciò che il bambino vuole. È
importante diventare sempre più abili nel «sorprendere» il bambino a fare la
cosa giusta — anche solo per un istante — così da poterlo lodare per quella
anziché punirlo per il comportamento «sbagliato».
A volte i problemi sorgono perché il bambino cerca di evitare i compiti
o altre attività. Cedere, in questi casi, significa dargli un messaggio forte e
chiaro su come può fare quello che gli pare! Piuttosto, si può provare a farlo
impegnare per un breve lasso di tempo in un’attività, poi lodarlo e lasciargli
fare dell’altro per un po’ di tempo. Se possibile, si può anche incoraggiarlo a
una comunicazione adeguata ed esplicita.
Alcuni comportamenti riconducibili a problematiche sensoriali (si veda
il capitolo 9) possono essere affrontati trovando forme più appropriate; a
questo scopo può fornire un contributo prezioso il terapista occupazionale.
Facciamo un esempio: se il bambino si dondola molto a lungo, si può provare
a circoscrivere questo comportamento solo a un determinato luogo (magari la
sedia a dondolo), fissando periodi di tempo in cui il bambino può dondolarsi,
220 L’autismo dalla prima infanzia all’età adulta
alternandoli a periodi in cui svolge le sue attività (la durata delle quali può
essere progressivamente estesa).
Spesso i bambini che hanno gravi difficoltà comunicative utilizzano i
comportamenti problematici come modalità (inappropriata) per esprimersi.
Per cercare di ridurre al minimo questo tipo di difficoltà nella gestione dei
comportamenti problematici è importante utilizzare forme comunicative
molto semplici e chiare, assicurandosi di avere l’attenzione del bambino
quando ci rivolgiamo a lui. Occorre essere precisi rispetto a quanto vogliamo,
cercando di fornirgli strumenti appropriati per comunicare i suoi bisogni e
desideri, ad esempio con un cartellino «Aiuto» per chiedere, senza urlare,
di essere aiutato.
È importante aiutare i bambini a comunicare — a qualunque livello si
trovino — sentimenti di frustrazione, ansia e così via. Il logopedista dovrebbe
essere in grado di suggerire strategie o metodi utili in questo senso e concordare
insieme allo psicologo scolastico o al terapista comportamentale le modalità
del caso.
Come sempre, occorre tenere presente il quadro complessivo. Spesso
è facile dire che cosa non vogliamo che il bambino faccia, ma è molto più
importante insegnarli che cosa vogliamo che faccia. Gli insegnanti, lo psicologo scolastico, il logopedista e il terapista occupazionale o quello della
neuro e psicomotricità dell’età evolutiva possono fornire ciascuno un punto
di vista prezioso, essere di supporto uno all’altro e dare ai genitori ottimi
suggerimenti.
Talvolta è necessaria l’assistenza di uno specialista in terapia comportamentale; purtroppo, le differenze individuali tra i bambini con DSA sono tali
da richiedere interventi «su misura». La collaborazione di uno specialista
esterno può essere di grande aiuto in questo processo, soprattutto se il comportamento è particolarmente problematico. Esistono numerosi approcci
comportamentali che possono aiutare genitori e insegnanti con il loro lavoro
orientato a modificare i comportamenti del bambino.
Errori comuni nella gestione dei
comportamenti problematici
Usare un linguaggio troppo complesso. Quando i bambini o gli adolescenti appaiono in
forte difficoltà, c’è spesso il comprensibile desiderio, da parte di insegnanti e genitori, di
sostenere, rassicurare e confortare. Tuttavia sovente si tende a utilizzare un linguaggio
troppo complicato per il bambino; è più utile comunicare in maniera breve, semplice e
diretta. Il linguaggio complesso è difficile da comprendere e servirà soltanto ad aumentare
la frustrazione del bambino.
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