1 LA SFIDA EDUCATIVA 1 (sintesi del Capitolo 5, pp. 88-110) Lavoro [cf. Lett. Enc. Caritas in veritate nn. 25, 32, 63, 64, 69 e Compendio della DSC, Cap. VI] Il problema: il disorientamento dei giovani (e non solo loro) di fronte al lavoro - Che posto ha il lavoro nella vita dei giovani d’oggi? Prevale lo stereotipo culturale negativo di «fine del lavoro», di «fine della società del lavoro» [J. RIFKIN] e di [«fine della persona»: A. NEGRI]. Ai giovani s’insegna che viviamo in una «società liquida» [«paura liquida»: Z. BAUMAN] del rischio e dell’incertezza. Secondo queste concezioni estremamente pessimistiche, sembrerebbe vano prepararsi al lavoro e darsi delle mète. La scuola, pure quella tecnico-professionale, curando solo competenze cognitive, appare disorientata: non riesce a proporre un progetto professionale e a indirizzare i giovani al lavoro. Alcune ricerche indicano che 1/3 dei giovani (tra i 16 e i 29 anni di età) vive in una profonda incertezza; 1/3 allo sbando è incapace di esprimere qualche attesa o progetto professionale; solo un 1/3 ha precise speranze sul futuro lavorativo. I sintomi della crisi educativa sono: smarrimento, schizofrenia, patologie (depressioni, comportamenti rinunciatari, devianza) dovute alla mancanza di prospettive lavorative attendibili. Il lavoro appare come un bene scarso e precario. La maggior parte dei giovani finisce per cercare solo denaro e sicurezza sociale. - Che cos’è che non funziona? La relazione di lavoro ha le caratteristiche del mercato: abbinamento tra disponibilità di lavoro e persone in cerca di occupazione. La forza lavoro è ritenuta una risorsa scarsa da comprare e vendere come qualsiasi merce. Si considerano solo motivazioni del tutto utilitaristiche e quantitative, slegate da aspetti relazionali, sociali, familiari. Il mercato capitalistico del lavoro è insoddisfacente e soprattutto dis-educativo, rispetto ad una concezione (e a una pratica) umanistica del lavoro. - Come educare i giovani al lavoro? L’educazione al lavoro (secondo una nuova istanza antropologica) dovrebbe evitare una visione negativa, basata su concezioni nichilistiche esaltanti l’incertezza senza alcuna speranza. Occorre rivedere il modo di intendere il lavoro oggi, ricorrendo anche ad un nuovo paradigma pedagogico aperto alla socializzazione. Per educare i giovani al lavoro bisogna aver chiaro il carattere antropologico del mercato (non fine ma strumento) e dell’impresa come espressioni della libera iniziativa dell’uomo. L’educazione al lavoro deve superare la prospettiva economicistica, che intende il lavoro come mero collegamento fra domanda e offerta puramente quantitativa, e spingersi oltre l’adattamento passivo a condizioni date; dovrebbe essere invece una questione di progettualità, di innovazione, di vocazione e di capacità imprenditoriale. In gioco c’è una relazione umana e sociale fra il soggetto e l’attività di lavoro, che decide della vita del giovane e non solo del reperimento di mezzi materiali per vivere. Perché il problema?: le cause oggettive e soggettive Il lavoro garantito e stabile per tutta la vita viene sostituito da lavori atipici. Le cause non riguardano solo i mutamenti dell’economia e delle strutture di lavoro, ma anche e soprattutto le qualità umane delle persone e una nuova visione del lavoro come relazione sociale. La modernità ha creato la disoccupazione e la precarietà del lavoro giovanile attraverso una cultura strumentale del lavoro e una struttura sociale che valorizza solo gli aspetti utilitaristici del lavoro. La disoccupazione è considerata come una necessità funzionale, inerente alla dinamica del dio mercato. Questo assetto è entrato in profonda crisi. Gli studi mostrano tre processi in atto: - la fine della divisione rigida, gerarchica e standardizzata (taylorismo, fordismo) del lavoro; - la fine di concezioni culturali che consideravano il lavoro industriale come lavoro con e per le macchine; - l’emergere di nuove esigenze soggettive (lavoro autonomo) e creative dell’attività professionale. Il lavoro da prestazione funzionale alla produzione deve acquisire più valenza sociale e relazionale, ispirandosi ad una visione antropologica ed etica che ponga in sinergia lavoro intellettuale e lavoro manuale, dimensioni dirigenziali e dimensioni esecutive, così da essere più orientato alla globalità della persona umana. L’educazione al lavoro deve tener presente questa strada, puntando su una pedagogia che aiuti i giovani: - a superare la concezione individualistica e materialistica del lavoro; - a considerare se stessi in relazione al proprio contesto sociale; - a sviluppare le capacità di collaborazione e di lavoro di gruppo e non solo tecniche - a chiarire gli scopi del loro progetto professionale non disgiunto da finalità etiche e sociali; - a tenere presente i valori ultimi che elevano il lavoro e trascendono le sole esigenze materiali. 1 A cura di FRANCO BIANCOFIORE, Ufficio per i problemi sociali e il lavoro, Diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia. 2 Proposte operative L’educazione al lavoro (inteso oltre il solo aspetto tecnico-efficientistico) deve mirare a formare il giovane in scienza e coscienza, considerando l’attività lavorativa come relazione sensata con se stessi, con gli altri e con il mondo. Devono essere coinvolte varie agenzie: famiglia, scuola, imprese, sindacati, associazioni professionali, istituzioni politico-amministrative [«una speciale alleanza educativa»: M. CROCIATA] per ripensare il lavoro e concepire un nuovo paradigma antropologico dell’educazione al lavoro basato su tre pilastri: a) La nuova cultura del lavoro (il progetto culturale del lavoro). Le sfide della globalizzazione esigono una nuova etica del lavoro né servile né alienata, ma propriamente umana [primato della persona umana rispetto al lavoro e al processo di produzione], recuperando gli aspetti relazionali dell’educazione al lavoro che favoriscono il lavoratore nell’esprimersi al meglio. La divisione del lavoro non deve riflettere solo esigenze economiche (produttività, efficienza, competizione), ma pure un nuovo modo di relazionarsi agli altri e ai consumi di beni e servizi (nuovi stili di vita). La vocazione professionale deve essere intesa non come strumento di successo, ma come realizzazione di sé nella piena integrazione con gli altri. L’educazione al lavoro si condensa nel seguente programma triadico e relazionale: - Umanizzare il lavoro significa esercitarlo con la massima perfezione possibile sia umana (competenza professionale) sia soprannaturale (per amore del progetto di Dio sul mondo e al servizio degli uomini). Perfezione dell’opera in sé e risposta ad una motivazione etica (onestà, lealtà, giustizia e altre virtù). - Umanizzare se stessi nel lavoro significa non considerare il lavoro semplicemente come strumento per il guadagno, ma saper vedere in esso il luogo, il tempo, il mezzo del perfezionamento delle proprie qualità e aspirazioni umane. Incontrare personalmente Cristo nel lavoro, scoprire quel qualcosa di divino. - Umanizzare gli altri attraverso il lavoro significa aprire il lavoro alla sua valenza inter-umana. Il lavoro se ben eseguito e vissuto è testimonianza attiva, esempio positivo e aiuto concreto per chi collabora alle attività e gode dei suoi frutti. E’ l’espressione di una spiritualità tipicamente laicale: «stare nel mondo» come i primi cristiani, con una cittadinanza insieme intra ed ultra terrena (cf. Lettera a Diogneto). Per il cristiano l’umanizzazione è tale quando avviene in sintonia con la santificazione delle varie realtà. L’intima relazionalità del lavoro (del soggetto rispetto agli altri e non solo rispetto alle cose) si realizza se inquadrata nell’armonia fra i tre piani fondamentali dell’esistenza umana: il naturale, l’artificiale (lavoro in senso stretto), il soprannaturale (significato ultimo dell’esistenza), che intrecciano insieme: - dimensione orizzontale del lavoro (nella fraternità e cooperazione tra uomini che esercitano il lavoro) e - dimensione verticale del lavoro (comune filiazione rispetto alla dimensione trascendente). b) La formazione della persona e del suo agire rispetto al lavoro. Alla base di tutto ci deve essere una pedagogia della riflessività capace di esplicitare il significato del lavoro, i motivi ultimi, le premure fondamentali che accompagnano le scelte. La perfezione tecnica non è un fine ma un mezzo. La professionalità non è solo questione di scienza ma anche di coscienza morale. I giovani si trovano ad affrontare un contesto lavorativo che cambia continuamente senza poter modificare l’assetto strutturale e culturale esistente nei luoghi di lavoro. Si richiedono dei mutamenti strutturali per «liberare il lavoro», delle garanzie sociali che consentano una certa mobilità fra un lavoro e l’altro e l’alternanza tra formazione/scuola e lavoro, per sostenere le motivazioni ad apprendere il nuovo e a sapersi ri-progettare. Ma queste strategie funzionano solo se rispondono a requisiti minimi che in Italia sono ancora senza risposta o insufficienti. c) Il ruolo degli attori istituzionali. - La famiglia è (o dovrebbe essere) luogo di apprendimento anche di un’etica del lavoro come servizio agli altri. I genitori dovrebbero dialogare con i figli pure sul loro futuro professionale, non per costringerli a certe scelte ma per promuovere una riflessività (conversazione interiore) che li aiuti a esplicitare intime aspirazioni. Si propongono corsi di formazione per genitori che li aiutino a educare i figli non solo dando regole morali, ma come guide relazionali che li stimolino a progettare una vocazione professionale. - La scuola nell’offerta formativa dovrebbe efficacemente prevedere opportunità di orientamento culturale (dai 14 anni in su) sul senso del lavoro e sulle modalità di perseguirlo, organizzando servizi idonei (di tutorship, counselling e coaching) che già possiedono metodologie ben sperimentate. Inoltre anche - l’università dovrebbe attivare servizi di questo genere con modalità adatte alla maggiore età e al curriculum dello studente. Dovrebbe essere prevista una formazione per docenti di scuole e università (spesso condizionati da culture con una visione negativa del lavoro) sull’educazione degli studenti al lavoro. - Le imprese sono chiamate ad uscire da una cultura grettamente utilitaristica e a rendere più umani i rapporti di lavoro. Dovrebbero: - dare un contributo alla didattica delle scuole superiori e dell’università 3 per migliorare la qualità e orientare i giovani in uscita lontani dall’esperienza del lavoro; - promuovere l’accesso dei giovani alle posizioni lavorative da loro offerte mediante servizi e opportuni percorsi, organizzati da associazioni di categoria; - educare al lavoro in modo da conciliarlo con le esigenze familiari. - I sindacati dovrebbero fare un maggiore sforzo per superare una cultura del lavoro centrata soprattutto sulla prestazione e rivendicazione di maggiori compensi monetari, per educare i lavoratori ad una visione meno economicistica del lavoro e dare ai giovani una capacità contrattuale non massificata ma personalizzata, con «contratti relazionali» che considerino, oltre l’aspetto salariale, il lavoro come relazione sociale tra lavoratore e impresa con attenzione alla vita complessiva, specie familiare, del lavoratore. - Le associazioni di categoria, gli ordini e le associazioni professionali hanno anch’essi precise responsabilità nell'educare, almeno indirettamente, i giovani al lavoro così da orientarli a determinate idee e modi di pensare la professione. Valgono per essi le proposte già espresse per le imprese e i sindacati. - Il sistema politico-amministrativo (Stato ed Enti locali), dovrebbe farsi carico di una maggiore equità fra le generazioni (equità intergenerazionale) di fronte al lavoro, superando l’andamento squilibrato di protezione degli adulti a danno dei figli. Ciò perché il sistema politico, per la spinta di certi gruppi di interesse, finisce per tutelare più spesso le posizioni forti e garantite anziché quelle deboli e precarie. - Le organizzazioni di privato sociale e terzo settore propongono un modo di lavorare che non mira al successo individuale, ma primariamente a un lavoro di cura delle persone con forti motivazioni non utilitaristiche ma ideali. Tuttavia la formazione dei giovani è ancora carente, quasi si trattasse di lavori di basso profilo e bassa remunerazione non bisognosi di particolari aggiornamenti. Pur non mancando talvolta spontaneismo e volontarismo, in questi settori nasce una diversa educazione al lavoro, che evita: - la burocrazia dei servizi statalizzati e tradizionali; - la competizione sfrenata; - le motivazioni mercantili; - il consumismo; - l’indifferenza alla sostenibilità ambientale, ricercando una «ecologia umana». - Bisogna puntare l’attenzione sulle nuove buone pratiche portatrici di una nuova etica civile di un lavoro che fa la differenza perché valorizza soprattutto le qualità umane del lavoro e di chi lo svolge. Così l’educazione al lavoro potrebbe essere ricostruita in senso umanizzante nel prossimo futuro.