trópoς profili
monografie

Direttore
Gaetano C
Università di Torino
Comitato scientifico
Gianluca C
Università degli Studi di Torino
Nicholas D
University of Dundee
Federico L
University of North Carolina at Chapel Hill
Jeff M
University of Tasmania
Roberto S
Università di Torino
Gianni V
Professore emerito Università di Torino
trópoς profili
MONOGRAFIE
Le collane “trópoς orizzonti” e “trópoς profili” estendono la
proposta nata con la rivista «trópoς» attraverso la pubblicazione
di opere collettanee (nella sezione “orizzonti”) e monografiche
(nella sezione “profili”) che riflettono su temi della tradizione
ermeneutica, ma che si prestano altresì a interagire con altri
ambiti disciplinari, dall’estetica all’architettura, dalla politica
all’etica.
Pubblicazione assistita con contributo PRIN  del Dipartimento di
Scienze umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo.
Rosa Maria Lupo
Dalla parte dei fenomeni
Prefazione di
Enrico Guglielminetti
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 
“. . . Och smultron det gör jag åt barna
för det tycker jag dom kan få...”
A Ingrid
che mi ha insegnato a conoscere
la terra dei miei figli
Indice
I
Prefazione
11
Introduzione
23
Capitolo I
Processo all’oggetto
1.1. Ne procedat iudex ex officio, 23 – 1.2. Istruttoria, 28 – 1.3.
Thema decidendum, 33 – 1.4. Sentenza ed impugnazione, 45 – 1.5.
Ne eat iudex extra petita partium, 57
71
Capitolo II
La costituzione oggettiva
2.1. Dalla distrazione all’attenzione. Emergenze fenomeniche ed
oggettualità, 71 – 2.2. Andata e ritorno: destinazione fenomeno, 91
– 2.3. L’oggetto ed il problema del “resto”, 102 – 2.4. Oggetti
obliqui, 123
135
Capitolo III
Soggetti mobili
3.1. Quale filosofia per i fenomeni?, 135 – 3.2. La filosofia dalla
parte dei fenomeni è oggettiva e realista?, 157 – 3.3. Il gioco della
doppia trascendenza e della doppia immanenza: chi sta dentro e chi
sta fuori?, 175
9
10 Indice
199
Bibliografia
217
Indice dei nomi
Prefazione
«Noi siamo stati attesi sulla terra»
(Walter Benjamin)
Il rapporto tra lo spirito e il mondo, o tra il soggetto e
l’oggetto, può essere più o meno problematico, più o meno felice, più o meno drammatico. Dalla parte dei fenomeni mette a
fuoco le alterne vicissitudini di questo rapporto, che – nella descrizione che ne fa Rosa Maria Lupo – assumono una valenza
non solo gnoseologica, ma ontologica ed esistenziale.
Innanzitutto, lo spirito può perdere il mondo. Questa perdita
può avvenire dal lato dell’oggetto, oppure dal lato del soggetto.
Dal lato dell’oggetto, la perdita accade quando si nega – con
minore o maggiore radicalità – la possibilità stessa dell’oggetto
di manifestarsi per ciò che è. Non sempre e non necessariamente, come rilevava già la metafisica classica, l’essere transita
nell’apparire: può esserci anzi scissione tra ciò che è, e ciò che
appare.
Dal lato del soggetto, la perdita accade quando il soggetto si
rende indisponibile ai fenomeni che lo interpellano, per esempio
perché essi lo feriscono, o perché comunque suscitano in lui una
ripulsa (un non volerne sapere), o anche solo per semplice disattenzione.
Talora, il rapporto tra lo spirito e il mondo (o tra i due lati
del “fenomeno”: quello soggettivo e quello oggettivo) è invece
I
II
Prefazione
più placato, compiuto e risolto. Ma, anche qui, si pongono differenti problemi.
Poniamo che si possa avere fiducia nel mondo, che cioè, se
non sempre almeno qualche volta, le cose siano appunto cose
che appaiono, che si danno a un soggetto (il destinatario) per ciò
che sono. Ipotizziamo di avere messo fuori gioco la possibilità
di un soggetto manipolatore, che cioè rivesta le cose di un greve
apparato categoriale, a loro estranee. Portiamo a conguaglio intenzione e intuizione, di modo che le forme di apprensione dei
fenomeni da parte di un soggetto siano, da ultimo, i modi stessi
di datità dell’oggetto. Non abbiamo ancora deciso se il fenomeno appare una volta per tutte, nel fulgore della sua essenza, o se
invece a ogni manifestazione non inerisca essenzialmente un
segreto, talché nulla può rivelarsi, se non appunto insieme sottraendosi alla visione.
Ma poniamo che sia possibile un’intuizione eidetica, che
cioè non solo vi sia – almeno qualche volta – un transito pieno
dall’essere all’apparire dalla parte della cosa, ma anche che
questo transito offra l’essenza del fenomeno a un soggetto attento e recettivo. Sembrerebbe – questo – il caso ideale. Ma,
appunto, non si tratterà di una semplice idealizzazione? Che ne
è, in questa visione d’essenze, della mobilità, plasticità, disposizione a cambiare e del soggetto e dell’oggetto? Cose e persone
cambiano continuamente, e una visione d’essenza che irrigidisca il loro rapporto sembra perdere, in fondo, la finitezza.
Se, quindi, prevale la fiducia (che l’oggetto davvero si mostri e non ci inganni, che il soggetto sia disposto a recepirlo),
occorrerà pensare a qualcosa come a un’intuizione eidetica in
continua trasformazione, se ce n’è. La cosa ci si offre sempre
secondo una prospettiva determinata, ma, in quella prospettiva,
è la cosa intera che ci si offre, non solo un suo lato parziale. E,
d’altra parte, restare fedeli ai fenomeni non avrebbe senso, se i
due lati del fenomeno (il soggetto e l’oggetto) non avessero un
rapporto che si distende nel tempo, e che dunque sempre coniuga lo stesso con l’altro. Questo risulta ancora più chiaro quando
il rapporto in questione è una relazione tra due persone. È sempre lo stesso volto che mi si offre, e la fiducia consiste appunto
Prefazione
III
nell’escludere qualcosa come l’inganno, o anche solo la strutturale inafferrabilità della singolarità altrui; e tuttavia, questa singolarità – anche a causa dello stesso rapporto con il soggetto
che la intuisce – si dà metamorficamente, in forme sempre diverse. È possibile pensare insieme la varietà della metamorfosi
e la stabilità dell’essenza?
Vi sono poi i fenomeni saturi, quelli che accadono imprevedibilmente, che in certo modo diventano reali prima di essere
possibili, che ci feriscono di una ferita che non è quella della
lontananza, della perdita, dell’opacità, ma quella di una luce eccessiva, che ci soggioga. Di fronte ad essi, il soggetto – lungi
dal sapere o potere gestire il rapporto come preferisce – è posto
lui stesso nella posizione di oggetto, appare soggiogato: prende
a definirsi in base a ciò stesso, che gli si manifesta.
Del resto, non vediamo qualcosa del genere accadere tutti i
giorni? Non ci definiamo appunto a partire dall’oggetto della
nostra attenzione? C’è sempre uno sbilanciamento nel rapporto
tra il soggetto e l’oggetto, innanzitutto nel senso che gli oggetti
non sono tutti uguali per noi, ma sempre qualcuno si stacca dallo sfondo, ci si impone quasi come un destino, che – per altro
verso – siamo noi stessi a scegliere, ad andarci a cercare. È come se questi fenomeni speciali appunto ci attendessero, perché
se la datità non dipende dalla soggettività (gli oggetti si danno,
anche a prescindere dal soggetto), tuttavia essa non avrebbe alcun senso, se un soggetto non fosse pronto a recepirla. Si può
dire dunque che ogni soggetto abbia il suo oggetto d’elezione?
Il libro di Rosa Maria Lupo ricostruisce, a partire da
un’analisi serrata dei testi di Husserl e da un confronto tra la posizione del maestro e le eresie della fenomenologia, le varie posture, le posizioni fondamentali nel rapporto tra lo spirito e il
mondo. Fedele allo spirito della fenomenologia (e della metafisica aristotelica, che l’Autrice interpreta come una forma insuperata di fenomenologia), Lupo privilegia infine il caso di un
rapporto riuscito, in cui i fenomeni non restano muti, il soggetto
non resta chiuso, l’essenza delle cose si dà (in qualche caso) al
di là di ogni ragionevole dubbio, il soggetto recettore se ne assume la responsabilità, e non solo l’essenza ma tutte le aggiun-
IV
Prefazione
te, i tratti che la accompagnano, trovano spazio e risonanza in
un rapporto, che cresce nel tempo secondo una dinamica
dell’inesauribilità a partire da una prospettiva determinata ma
non per ciò distorcente.
Sullo sfondo di questa felicità, che resta forse la nota dominante dell’impresa fenomenologica, l’angoscia della perdita, del
fallimento, della sottrazione sempre possibile.
Enrico Guglielminetti
Introduzione
Ne L’Occhio e lo Spirito Maurice Merleau-Ponty scrive
che«[i]l pittore è l’unico ad aver diritto di guardare tutte le cose
senza alcun obbligo di valutarle», perché ad un pittore non si
chiede un parere o un consiglio come si fa con lo scrittore o il
filosofo, dai quali «esigiamo che prendano posizione»1. Il pittore avrebbe insomma una libertà di “postura”, sarebbe libero dal
doversi limitare ad una posizione fissa ed a chiudersi a tutti i
costi dentro una visione concettuale che imbriglia le cose. La
sua libertà di movimento consisterebbe, appunto, nel fatto che
egli può variare il suo punto di osservazione, può collocarsi diversamente rispetto a ciò che intende dipingere, può addirittura
rinunciare a qualsiasi rapporto di tipo spaziale con la realtà per
dare colore solo alle sue impressioni, ai suoi immediati sentimenti, alle sue libere associazioni. Alla libertà del pittore Merleau-Ponty contrappone il comportamento della scienza contemporanea che «manipola le cose e rinuncia ad abitarle»2: il
suo scopo è trasformare la realtà, operando su essa. In questo
modo, la scienza perde la sua stessa originaria disposizione al
mondo che le permetteva di «conserva[rne] il senso
dell’opacità»3. È palese ciò che Merleau-Ponty vuol denunciare.
La sua è una chiara critica ad un modello epistemico a cui si
sente estraneo perché, nella sua lettura, esso ha il carattere di un
1
M. MERLEAU-PONTY, L’Occhio e lo Spirito, tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989,
pp. 15-16.
2
Ivi, p. 13.
3
Ivi, p. 15.
11
12
Introduzione
rigido determinismo scientifico che, credendo di essere una conoscenza approfondita della realtà, diviene il contrario di ciò
che aspira ad essere. Visione di «sorvolo», superficiale, la
scienza dimenticherebbe le immediatezze del mondo della vita:
ogni fenomeno, portato sul piano di un’osservazione generale
(«pensiero dell’oggetto in generale»), è impoverito e spogliato
di tutto ciò che lo rende unico, irripetibile, emozionante. Caso
di una legge ontologica di comportamento, che consente di elaborare previsioni ed anticipare o modificare le occorrenze fenomeniche di quella stessa legge, il fenomeno del pensiero
scientifico cessa di essere una sorgente di percezioni ed emozioni e vige come riferimento cosale dimostrativo di un significato univoco, definito in modo immutabile dalla legge di comportamento stabilita in via di indagine scientifica.
Non è mia intenzione qui difendere l’analisi della scienza di
Merleau-Ponty o refutarla. Ciò che mi colpisce, in effetti, di
quest’ultimo saggio, che il filosofo francese riesce a completare
prima di morire improvvisamente, non sono le sue dichiarazioni
sui limiti della conoscenza scientifica, peraltro comuni ai diversi altri autori che della fenomenologia hanno fatto il loro campo
di lavoro, il terreno delle loro stesse battaglie filosofiche, a cominciare dagli allievi più stretti di Edmund Husserl (il cosiddetto “Circolo di Gottinga”) e da Martin Heidegger. Quel che invece mi “seduce” sono proprio le sue considerazioni sui “privilegi prospettici” di cui gode un pittore, perché, in fondo, è da
questi privilegi che io stessa ho preso un po’ le mosse, quando
mi sono resa conto che un pittore, un suo quadro, in particolare,
ma anche un tema ricorrente nella sua pittura riuscivano ad
esprimere su una tela quello che, con molta difficoltà ed incertezza, a mio avviso, la filosofia, specie nella sua forma scritta,
porta alla vista: l’imprevedibilità del mondo dei fenomeni,
l’imprevedibilità del mondo della vita.
È da qui che questo lavoro parte ed è a questo che esso approda, attraverso un percorso pensato come il tentativo di dare
una possibile risposta a tre questioni fra loro strettamente legate: “Quale filosofia sta dalla parte dei fenomeni?”; “Cosa vuol
Introduzione
13
dire, allora, stare dalla parte dei fenomeni?”; “È in generale
possibile una filosofia non dei fenomeni, ma per i fenomeni?”4.
Questo volume, nel tentare di confrontarsi con queste domande, si è, però, lasciato con sempre maggiore insistenza pensare come un commento fenomenologico ad un quadro: si tratta
di un dipinto di Caspar David Friedrich, uno dei maggiori esponenti del primo romanticismo pittorico tedesco. La tela ad olio
cui mi riferisco, oggi custodita alla Alte Nationalgalerie di Berlino, è nota con il titolo Frau am Fenster (Donna alla finestra).
È, dunque, per questo che essa compare sulla copertina di questo libro.
Il tema della tela gioca su una sorta di inversione prospettica
per cui del personaggio non si vede il volto, ma si apprezza il
suo esser volto, nell’esser ripreso di spalle, verso una realtà che
gli è di fronte. Il tema non è esclusivo della pittura di Friedrich
e in Friedrich stesso è ricorrente. Der Wanderer über dem Nebelmeer, Frau am Meer, Frau vor der untergehenden Sonne,
Auf dem Segler, Zwei Männer in Betrachtung des Mondes, Die
Lebensstufen sono tutti dipinti costruiti sulla stessa tipologia
prospettica: le figure umane sono riprese di spalle, piuttosto so4
In quest’ultima domanda si cela la corrente ambiguità del genitivo, cosa che genera, in effetti, poi un’ulteriore domanda cui invece la filosofia ha frequentemente dato risposta. Una filosofia dei fenomeni può significare una filosofia che prende a tema i fenomeni secondo il senso oggettivo del genitivo e questa è una domanda costante nella
storia della filosofia che resta aperta fino ad oggi. Secondo il senso soggettivo del genitivo, invece, per filosofia dei fenomeni possiamo intendere quella filosofia il cui autore
è a propria volta un fenomeno dato: l’esistenza umana. In questo senso si comprende
pienamente, a mio avviso, la strada di quelle filosofie che prendono a tema come loro
oggetto il soggetto. Queste filosofie seguono una deriva legittima, ma a volte questa
mossa sembra essere il cedimento alle istanze di una soggettività che resta assillata dal
bisogno di farsi garante di sé appercependosi come suo proprio oggetto e così rischiando di dimenticare i fenomeni, da cui parte, per giungere ad osservarsi come caso di fenomeno particolare. Rispetto a queste due direzioni parlare di una filosofia per i fenomeni non significa che i fenomeni per sé necessitino di una difesa, ma che il costituirsi
di una filosofia come pensiero per i fenomeni è, in fondo, a propria volta un “che di donato” dal fenomeno, se così posso esprimermi, nella misura in cui è il passaggio
dall’essere all’apparire ciò che fa scattare un dispositivo nel soggetto o, piuttosto,
l’assunzione di una postura. Da un lato questa postura è propria del soggetto perché
l’esistenza umana è sempre “aperta a”, “diretta verso”; dall’altro lato, però, si tratta di
una postura indotta dal “come” i fenomeni si mostrano, giungono a noi, appaiono per
noi e così compaiono come poste in gioco della nostra comprensione.
Introduzione
14
no sorprese alle spalle ed è proprio questo il punto cruciale. Il
quadro non “guarda” noi tramite la figura umana rappresentata
perché essa non si fa guardare in viso da noi; le figure non “ci”
guardano, si lasciano guardare, ma da dietro, offrendoci non il
loro volto, bensì un loro comportamento, una loro postura, appunto il loro guardare, il loro essere immerse in una visione. Il
pittore è come se stesse cogliendo alle spalle i suoi soggetti per
capire che cosa accade quando essi sono lì, dati ed aperti al suo
sguardo nel loro atto visivo, nel loro essere volti verso qualcos’altro da loro.
Ciò che i soggetti di Friedrich guardano è la natura, è la realtà fenomenica. A volte da soli, a volte in coppia, accomunati
dallo stesso intento, dalla stessa apertura alla visione, i soggetti
sono rivolti sempre alla natura. A voler tentare un’impossibile
impresa, potremmo forse provare ad immaginarci i loro vissuti
percettivi ed emotivi, le loro Stimmungen, proprio dimenticandoci di loro e guardando insieme a loro ciò che guardano loro,
anche se – e non possiamo non esserne coscienti – quella natura
è la natura di Friedrich; non è la natura che percepiremmo noi,
non è la natura come è in se stessa, ma è la natura del pittore ed
è soprattutto la natura che il pittore vuole dare a noi, una natura
che per lui ha quasi sempre un tono crepuscolare. Subentra qui
indubbiamente la libertà del pittore di cui ci dice MerleauPonty. In senso più ampio, però, si tratta pur sempre della libertà di un soggetto che, proprio per il “mestiere” che fa – vivere la
sua vita –, può permettersi una certa libertà di interpretazione
alla ricerca del senso della sua esistenza.
Rispetto al tema che mi sta a cuore in questo volume, la questione “dei” fenomeni, la pittura, con Frau am Fenster, si rivela
per me più capace della filosofia. Mi sembra, infatti, che la pittura di Friedrich riesca ad arrivare prima della filosofia proprio
perché riesce a godere del suo beneficio di non doversi in primo
luogo preoccupare di quel tradimento che, come insegna Paul
Ricoeur, ricorre invece in tutte le opere di traduzione5. Sapendo
5
Cfr. P. RICOEUR, Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, ed. it. a cura di M.
Oliva, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008. Anche la pittura sembra
Introduzione
15
godere di questo suo privilegio, il pittore si fa fenomenologo
grazie al fatto di essere «l’unico ad aver diritto di guardare tutte
le cose senza alcun obbligo di valutarle»6 rispetto ad un qualsivoglia paradigma conoscitivo o ontologico. Così, il pittore procede qui ad un’epoché del volto del soggetto per lasciarci comprendere proprio quell’aspetto – il volto, in fondo –
dell’esistenza umana. Prima di dare avvio alle sue ricerche analitiche, alle sue concettualizzazioni e teorizzazioni, alle sue interpretazioni e valutazioni, l’esistenza umana si scopre consegnata ad uno sfondo, quello fenomenico, che è lo stesso sfondo
nel quale essa si staglia e dal quale contemporaneamente emergono i fenomeni. Friedrich riprende per noi l’esperienza del
soggetto nella sua relazione con i fenomeni che, nella costruzione prospettica del quadro, restano appunto in secondo piano,
sullo sfondo. Restando sullo sfondo dell’esistenza, facendole da
sfondo, la datità dei fenomeni è, a propria volta, lo sfondo di se
stessa: i fenomeni si danno insieme su questo sfondo e da esso
scaturiscono, si “sollevano”, si lasciano guardare. Nella pittura
di Friedrich troviamo, dunque, il compito stesso della filosofia.
Questa deve descrivere insieme il soggetto ed il fenomeno; è
chiamata ad osservare il soggetto sul più vasto sfondo del fenomeno a cui il soggetto resta consegnato. In altri termini, la filosofia deve cercare di prendere il soggetto dalla parte del fenomeno che gli si mostra.
La pittura di Friedrich porta alla vista, però, anche qualcos’altro che, in un’ottica fenomenologica, non è affatto intersottostare al tradimento di cui appunto parla Ricoeur perché essa è un linguaggio. È quel
linguaggio a cui Platone guarda con sospetto proprio per il suo carattere rappresentativo
che consta anche del suo potere di svincolarsi da ogni fedeltà al reale, nel momento in
cui il pittore con ogni legittimità può rinunciare allo stile descrittivo, “fotografico”, per
ricorrere alla raffigurazione simbolica o, più semplicemente, per dipingere quel che gli
pare e rendere visibile qualcosa che nessun uomo potrebbe mai vedere su questa terra:
un ircocervo o una chimera. Tuttavia, ciò non significa che al pittore, per questo, sia
preclusa la possibilità di cogliere nessi o di mostrare il senso della realtà, o uno dei sensi, o anche la sua conformazione ontologica o le sue aporie che, fermate sulla tela, possono come d’incanto apparire non più esperienze di disperazione, ma momenti di commozione, in cui l’esistenza umana si raccoglie in tutta la sua fragilità, impotenza, finitezza, esposizione, ma anche straordinaria libertà e bellezza.
6
M. MERLEAU-PONTY, L’Occhio e lo Spirito, cit., p. 16.
16
Introduzione
pretabile come l’impronta del soggetto sul fenomeno di cui il
soggetto apprende. Si tratta di un carattere che costituisce il fenomeno come ciò che esso è in quanto realtà ostensiva di sé: il
suo apparire, il suo comparire come emergenza fenomenica, il
suo entrare in scena, colpendo così il soggetto che Friedrich coglie proprio nell’impatto con questa emergenza. È questo uno
dei tratti più interessanti della tela. Anche se il soggetto è rappresentato nel suo essere davanti ai fenomeni e anche se per noi
che guardiamo il quadro la natura si intravede spazialmente dopo la figura umana attraverso una piccola finestra aperta, non è
il soggetto che sta davanti ai fenomeni, ma sono i fenomeni che
stanno davanti ad esso. Sono i fenomeni, cioè, ad apparire al
soggetto, sono essi che gli vanno incontro, che gli si fanno incontro, che gli si parano davanti. Il pittore non ci sta esibendo il
privilegio prospettico del soggetto sul fenomeno. Al contrario
sta riprendendo un incontro, un atto originario, un atto genetico,
la nascita di un rapporto, il destarsi dell’attenzione, lo scaturire
della cura, lì dove il soggetto si può innamorare dei fenomeni o,
di contro, restarne trafitto e ferito7. Nel far questo il pittore ci
espone a nostra volta, ponendoci di fronte alla relazione fra il
soggetto ed il fenomeno, relazione dalla quale ci è dato apprendere come l’esistenza umana scopra se stessa in quanto a propria volta fenomeno dato, data-insieme – mai prima – ai fenomeni che essa scopre o, forse più propriamente, che la “scovano”, scoprendosi al suo cospetto. Friedrich ci dà conto, dunque,
dell’esperienza del soggetto che, da spettatore che attende al suo
desiderio euristico, si scopre atteso, aspettato dall’apparire del
reale. Di un tale apparire l’esistenza umana non può riconoscersi origine; semmai se ne riconosce desiderosa.
7
Leggermente inclinata in avanti ed un po’ verso sinistra, quasi a volere calibrare
meglio la propria vista, la donna potrebbe in qualsiasi momento richiudere la finestra,
perché annoiata, o contrariata, o delusa; o semplicemente stanca, se come ci ricorda Aristotele nel libro X dell’Etica Nicomachea è qualcosa che è divino (ϑεῖόν τι) nell’uomo
che lo fa permanere nella visione del vero (contemplazione, ϑεωρία) che si realizza
nell’attività teoretica (ἐνέργεια ϑεωρητική), laddove l’“elemento umano” si stanca e necessita di interruzione, di riposo.