Lezioni del corso di METODOLOGIE DI STUDIO DEI SISTEMI FARMACEUTICI Tenute dal Prof. Giacomo Di Colo A.A. 2012-13 Determinazione dell’effetto della soluzione micellare di un tensioattivo sulla solubilità di un farmaco Il farmaco si ripartisce tra la pseudofase micellare (farmaco legato al tensioattivo, concentrazione Cb) e la fase acquosa (farmaco libero, concentrazione Cf) Cf Ff , frazione di farmaco libero Cf C b Quando la soluzione è satura di farmaco si ha: Cf = Csi, dove Csi è la solubilità intrinseca del farmaco e Cf +Cb = Cs, dove Cs è la solubilità del farmaco nella soluzione micellare. Se la ripartizione tra fase micellare e fase acquosa è virtualmente indipendente dalla concentrazione del farmaco disciolto, assunzione che dovrà essere verificata, si ha: C Csi Ff ; da cui: Cs si Dunque Cs può essere determinata determinando Cs Ff sperimentalmente Csi e Ff. Csi è in genere nota, comunque si può determinare facilmente con il metodo classico. Ff, che si assume indipendente dalla concentrazione totale del farmaco disciolto, per una certa concentrazione di tensioattivo, può essere determinata studiando la permeazione del farmaco attraverso una membrana impermeabile al tensioattivo, in condizioni di stato quasistazionario e in condizioni di “sink” della fase ricevente (v. dispense di Farmaceutica Applicata). Per la permeazione del farmaco in assenza del tensioattivo dalla soluzione, si ha: dM SP C1 Cost C1 (1) dt h SP costante di membrana: S=superficie, h=spessore, P=permeabilità; h M= massa di farmaco permeata; C1= concentrazione del farmaco (inferiore alla solubilità, quindi, variabile nel tempo) nella fase donatrice (Fase 1). Q1i M (2) C1 V1 Q1i= massa di farmaco nella Fase 1 al tempo iniziale V1= volume della Fase 1 Derivando la (2) rispetto al tempo si ha: dC dM (3) V1 1 dt dt Uguagliando la (1) e la (3) si ottiene: dC1 Cost C1 ; separando le variabili e integrando: dt V1 Cost t (4) V1 Valori di C1 a vari tempi si calcolano dalla (2) determinando M nella fase ricevente e conoscendo Q1i e V1. Secondo la (4) riportando in grafico lnC1 vs. t si ottiene una retta la cui Cost pendenza è: Slope V1 ln C1 ln C1i In presenza del tensioattivo nella soluzione (il farmaco legato al tensioattivo non può dM dM Cost C f , e poiché Cf C1Ff , si ha: Cost C1Ff permeare) si avrà: dt dt dC Cost e quindi: 1 C1Ff , che porta a: dt V1 Cost ln C1 ln C1i Ff t (5) V1 Cost Slope' Ff V1 Se il grafico sperimentale di lnC1 vs. t in presenza del tensioattivo è lineare, ciò indica che Ff è costante al variare di C1 (v. Eq. (5)). Questo si verifica in genere, perché l’interazione farmaco-tensioattivo è una ripartizione fase micellare/fase acquosa. Slope' Ff Slope Infine: Slope Cs Csi Slope' Dettagli sperimentali Il modello di farmaco lipofilo poco solubile è il metil-p-idrossibenzoato, un conservante di asetticità. Il tensioattivo è il polisorbato 80, un tensioattivo non ionico ad alto HLB in cui la porzione idrofila è costituita da catene poliossietileniche con un totale di 20 unità di ossietilene (CH2CH2O) e la porzione lipofila è costituita da acido oleico (OCO(CH2)7CHCH(CH2)7CH3). La membrana permeabile al farmaco, impermeabile al tensioattivo è un film (spessore 12.7 m) di nylon 6 ((CO(CH2)5NH) n, policaprolattame). La membrana viene montata in una cella in modo da essere interposta tra un compartimento donatore, in cui viene introdotta la soluzione acquosa del farmaco permeante (Fase 1), e un compartimento accettore, in cui viene introdotta acqua come fase ricevente (Fase 2). La permeazione attraverso la membrana avviene in condizioni di stato quasi-stazionario (la concentrazione del farmaco nella Fase 1 diminuisce nel tempo e i gradienti di concentrazione nelle Fasi 1 e 2 vengono azzerati agitando entrambe le fasi).Il volume della Fase 2 è 10 volte maggiore di quello della Fase 1 in modo da rendere la concentrazione del farmaco permeato nella Fase 2 sempre trascurabile rispetto a quella nella Fase 1 (condizioni di “sink”). Dopo aver termostatato l’apparecchiatura già contenente la Fase 2 (la permeabilità della membrana dipende dalla temperatura) si pone la soluzione del farmaco (concentrazione inferiore alla solubilità), pretermostatata, nel compartimento donatore in assenza, o in presenza di una concentrazione nota di tensioattivo, si mettono in funzione i dispositivi per l’agitazione delle Fasi 1 e 2 e si comincia a misurare il tempo. A intervalli di tempo misurati si analizza allo spettrofotometro UV (max 255 nm) la quantità di farmaco permeata nella fase ricevente. Per l’analisi è necessaria una curva di calibrazione in cui si riporta l’assorbanza a 255 nm di soluzioni standard a concentrazione nota in funzione delle rispettive concentrazioni. Si ottiene una retta, che passa per l’origine, che permette di risalire alla concentrazione del farmaco nella Fase 2 ai vari tempi dividendo l’assorbanza della Fase, 2 misurata a tali tempi, per la pendenza della retta di calibrazione. Dalla concentrazione si risale facilmente alla massa permeata ai vari tempi moltiplicando la concentrazione a tali tempi per il volume della Fase 2. A questo punto abbiamo i dati sufficienti per costruire i grafici corrispondenti alle equazioni (4) e (5) e quindi ricavare il valore di Cs secondo la teoria sopra illustrata. Valutazione di interazioni interpolimeriche mediante Differential Scanning Calorimetry (calorimetria differenziale a scansione, DSC) La tecnica DSC permette di misurare le variazioni della capacità termica di un materiale al variare della temperatura, così fornendo informazioni quantitative su transizioni fisiche che avvengono nel materiale a causa del suo riscaldamento a velocità costante e controllata. Una piccola aliquota (alcuni mg) del materiale da analizzare, contenuta in un piccolo crogiolo, viene introdotta nella cosiddetta “fornace” dello strumento, un piccolo vano cilindrico al cui interno la temperatura, resa uniforme dalla circolazione di un gas inerte (generalmente azoto), viene fatta variare a velocità costante e controllata. Il campione (materiale + crogiolo) è posto a contatto con un sensore che ne registra la temperatura istantanea. Nella fornace, accanto al campione è posto un crogiolo vuoto come riferimento, anch’esso a contatto con un sensore di temperatura. Se al campione e al riferimento viene trasferita dalla fornace una quantità di calore dQ , ciò provocherà un aumento di temperatura, dT , legato a dQ nel modo seguente: dQ CT dT , dove CT è la capacità termica del corpo (campione o riferimento) che riceve il calore. Poiché il crogiolo è di alluminio, esso ha una capacità termica più bassa di quella del materiale analizzato, quindi l’aumento di temperatura del riferimento sarà maggiore di quello del campione e la temperatura del campione a ogni tempo sarà minore di quella del riferimento. Poiché inoltre l’alluminio ha un’elevatissima conducibilità termica, la temperatura del riferimento sarà in ogni tempo vicina a quella della fornace. I gradienti di temperatura nel crogiolo e nel materiale in esame devono essere minimizzati. Questo avviene nel crogiolo a causa dell’elevatissima conducibilità termica dell’alluminio, mentre per quanto riguarda il materiale, questo deve essere distribuito come uno strato sottile sulle pareti del crogiolo. Mediante i rispettivi sensori vengono misurate ad ogni tempo la temperatura del campione ( TC ) e quella del riferimento ( TR ). Il flusso di calore verso il materiale in esame è dato dalla differenza tra flusso di calore dalla fornace al campione ( qC ) e quello dalla fornace al crogiolo di riferimento ( qR ): q qC qR Considerando che il flusso di calore è proporzionale alla differenza di temperatura tra la sorgente (la fornace ( TF )) e il campione o tra la sorgente e il riferimento, si può scrivere: q qC qR k(TF TC ) k(TF TR ) k(TR TC ) Dove il coefficiente di proporzionalità, k, è un parametro noto dello strumento di misura. In generale la differenza TR TC varia al variare di TF nell’intervallo di temperature della “scansione”, se varia la capacità termica del materiale contenuto nel crogiolo. Dunque, il flusso di calore verso il materiale è una funzione di TF e durante la scansione, in cui TF viene aumentata a velocità costante e controllata, tale flusso, calcolato dal software dello strumento sulla base della differenza TR TC (variabile dipendente), viene riportato in funzione di TF (variabile indipendente) ottenendo una curva (termogramma) che può dare informazioni importanti sul materiale in esame. Qui sotto è raffigurato un esempio di termogramma che evidenzia una transizione endotermica, indicata dal picco che appare nella curva, che avviene nel materiale nell’intervallo di temperature della scansione. Prima e dopo il picco la curva è una linea pressoché retta che denota un aumento graduale del flusso termico dovuto a un graduale aumento della capacità termica del materiale all’aumentare della temperatura. Quando inizia la transizione (ad es., la fusione di un materiale cristallino) la curva si impenna a causa di un rapido aumento della capacità termica del materiale concomitante con il fenomeno endotermico. Raggiunto il massimo del picco la transizione termina, termina il fenomeno endotermico e la capacità termica scende molto rapidamente al valore del materiale dopo la transizione (ad es., il materiale fuso). Questo corrisponde a una rapida diminuzione del flusso termico. La curva prima e dopo il picco aiuta a costruire la linea di base del picco, tratteggiata nella figura. La capacità termica del materiale prima della transizione è in genere diversa da quella dopo la transizione, per cui la linea di base del picco può essere obliqua. Il flusso termico, funzione di TF è espresso nel modo seguente: dQ q(TF ) , dove dQ è la quantità di calore che attraversa l’unità di superficie di materiale dTF per una variazione infinitesima di TF. Dunque si può scrivere: dQ q(TF ) dTF e la variazione di entalpia della transizione sarà: Tf Tf Ti Ti ΔH dQ q(TF ) dTF AUC dove Ti e Tf sono la temperatura di inizio e di fine, rispettivamente, del picco, e AUC è l’area delimitata dalla curva q(TF) vs. TF nell’intervallo Ti -Tf e dalla linea di base (tratteggiata). Per poter calcolare il H per unità di massa di materiale è necessaria una pesata precisa di tale materiale. Per minimizzare i gradienti di temperatura all’interno del materiale la massa di materiale deve essere la minima possibile che consenta un H misurabile con sufficiente precisione. Nel caso di polimeri semi-cristallini il picco relativo alla fusione dei cristalliti può non essere ben evidente per la relativamente bassa densità delle zone cristalline. Perciò è necessaria una maggiore massa di materiale nel crogiolo con conseguente riduzione della precisione della misura. Si è valutata mediante DSC l’eventuale formazione di un complesso interpolimerico tra PEO 900 (poli(etilene ossido) di PM 900000) e Eudragit L100 (copolimero acido metacrilico-metil metacrilato con rapporto molare 1:1. (CH2CH2O)n PEO Me Me | | CH2––C CH2––C | | COOH COOMe Eudragit L100 (proporzione acido:estere = 1:1) | E’ stato ottenuto il termogramma DSC della polvere di Eudragit L100 (sigla EUD) e quello della polvere di PEO 900, entrambi nell’intervallo di temperatura 10-100 °C. Il primo è una linea che mostra un continuo aumento del flusso termico all’aumentare della temperatura, senza alcun picco che evidenzi una transizione nello stato fisico dell’EUD. L’aumento continuo del flusso termico indica un aumento continuo della capacità termica dell’EUD, mentre l’assenza di transizioni è in accordo con la natura amorfa dell’EUD. Il termogramma del PEO 900 mostra un picco evidente che inizia a 59.146 °C e termina a 72.737 °C, con un massimo (temperatura di picco) a 68.419 °C. Questo è in accordo con la natura semicristallina del PEO, in cui la transizione evidenziata è la fusione dei cristalliti. Il calore di fusione (variazione di entalpia, H), calcolato dall’AUC del picco, è di 183.454 J/g. La linea di base del picco è una curva che tiene conto che la capacità termica del materiale dopo la fusione è maggiore di quella prima della fusione. La base razionale dello studio è la considerazione che facendo venire a contatto intimo PEO e EUD l’eventuale formazione di un complesso molecolare tra i due polimeri dovrebbe alterare il picco di fusione dei cristalliti del PEO, come dovrebbe risultare dall’analisi della miscela mediante DSC. Per realizzare un contatto intimo tra le macromolecole di EUD e quelle di PEO si è preparata una soluzione dei due polimeri nello stesso solvente (miscela di cloroformio e metanolo). Successivamente, per ottenere la miscela dei polimeri allo stato solido si è usata la tecnica del “casting”, cioè, la soluzione è stata versata in una cavità cilindrica di Teflon e il solvente è stato lasciato evaporare lasciando come residuo la miscela solida dei due polimeri in forma di film. Pezzetti di questo film sono stati introdotti in un crogiolo e pesati per l’analisi calorimetrica. Non conoscendo la proporzione peso/peso dei due polimeri che massimizzi l’eventuale interazione interpolimerica, si sono preparati film di diversa composizione peso/peso: PEO:EUD (2:1); PEO:EUD (1:1); PEO:EUD (1:2). Film PEO:EUD (2:1) Il termogramma mostra un picco simile a quello del PEO puro, con una temperatura di picco di 60.831 °C, vicina a quella del PEO puro (68.419 °C) e un H di 182.22 J/g, anche questo vicino a quello del PEO puro (183.45 J/g). Questi dati possono essere spiegati considerando che il rapporto ponderale PEO:EUD (2:1) è molto più basso del rapporto molare tra le unità di ripetizione dei due polimeri. Infatti, il PM dell’unità di ripetizione del PEO è 44, mentre il PM dell’unità di ripetizione dell’EUD è 186. Quindi, il grande eccesso molare del PEO rispetto all’EUD consente alle macromolecole del primo di organizzarsi in cristalliti nella miscela in misura del tutto analoga a quella del PEO puro. Film PEO:EUD (1:1) Il termogramma mostra un picco attorno a 50.555 °C, la cui area corrisponde a 5.678 J/g. E’ evidente la riduzione sia della temperatura di picco che, soprattutto, del H rispetto ai corrispondenti valori per il PEO puro. Questi dati indicano una drastica riduzione del grado di cristallinità del PEO dovuta all’interazione PEO-EUD, che avviene verosimilmente con formazione di legami a ponte di idrogeno tra i carbossili dell’EUD e gli ossigeni eterei del PEO. Film PEO:EUD (1:2) Il termogramma non presenta alcun picco, bensì una linea inclinata indice di un aumento della capacità termica della miscela all’aumentare della temperatura. La totale scomparsa della cristallinità, evidentemente dovuta all’aumentata frazione di EUD nella miscela, conferma la formazione di un complesso interpolimerico tra PEO e EUD. Preparazione e valutazione di nanoparticelle di chitosano reticolato con tripolifosfato, medicate con diclofenac Il procedimento sperimentale consiste nella seguente sequenza di operazioni: Si prepara una soluzione acquosa di polisorbato 80 0.5% p/v (soluz. A). Il polisorbato 80 (sorbitolmonooleato di poliossietilene (20)) è un tensioattivo non ionico ad alto HLB in cui la porzione idrofila è costituita da catene poliossietileniche con un totale di 20 unità di ossietilene (CH2CH2O) e la porzione lipofila è costituita da acido oleico (OCO(CH2)7CHCH(CH2)7CH3). Si prepara una soluzione di chitosano cloridrato (ChHCl) 1 mg/ml nella soluz. A (soluz B) Struttura di ChHCl La soluz. B viene filtrata attraverso un filtro di acetato di cellulosa con pori di 0.45 m. A 10 ml di soluz. B (filtrata) si aggiungono 100 l di soluzione di diclofenac in metanolo (10 mg/ml) (soluz. C). La proporzione diclofenac:ChHCl nella soluz. C è di 1:10 p/p. Struttura di diclofenac Si prepara una soluzione di tripolifosfato (TPP) nella soluz. A alla concentrazione di1 mg/ml (soluz. D) Struttura di TPP Si aggiunge goccia a goccia un volume predeterminato di soluz. D alla soluz. C: dopo l’aggiunta la soluzione diviene opalescente a causa della formazione di nanoparticelle derivanti dalla reticolazione ionotropica del policatione chitosano ad opera dell’anione TPP. Si determinano la distribuzione dimensionale e la dimensione media delle particelle mediante light scattering. Lo strumento invia sulla dispersione di nanoparticelle un raggio laser. Quando il raggio colpisce le particelle esso subisce lo “scattering”, cioè la dispersione in tutte le direzioni, se la grandezza delle particelle è inferiore alla lunghezza d’onda della radiazione (<250 nm). L’intensità della radiazione “scatterata” subisce fluttuazioni la cui frequenza è direttamente dipendente dalla velocità del moto browniano delle particelle, la quale a sua volta è correlata con la grandezza delle particelle. L’analisi di queste fluttuazioni di intensità porta alla valutazione quantitativa della distribuzione dimensionale e della dimensione media delle nanoparticelle. Si ultracentrifuga la dispersione di nanoparticelle a 10500 g per 1 h. Si analizza allo spettrofotometro UV il surnatante (max 284 nm) dopo adeguata diluizione per determinare la concentrazione, e quindi, conoscendo il volume, la quantità del diclofenac non incapsulato nelle nanoparticelle e calcolare l’efficienza di incapsulazione (EE): Q QSUR EE TOT x100 QTOT dove QTOT è la quantità di diclofenac nella soluz. C e QSUR è la quantità di diclofenac nella soluzione surnatante dopo l’ultracentrifugazione, determinata per via spettrofotometrica. La EE esprime la percentuale di farmaco incapsulato nelle nanoparticelle. Determinazione dell’aumento della permeabilità dell’epitelio intestinale isolato del ratto da parte di un polisaccaride avente la proprietà di aprire le giunzioni strette L’assorbimento intestinale di farmaci peptidici e proteici è in genere scarso a causa sia dell’idrolisi di questi farmaci da parte degli enzimi proteolitici presenti nel tratto gastrointestinale, sia della scarsa permeabilità di peptidi e proteine attraverso la membrana intestinale. Per eliminare il secondo inconveniente sono stati usati derivati del chitosano, polisaccaridi policationici contenenti nella catena polimerica gruppi ammonici quaternari, che hanno la proprietà di interagire, tramite questi gruppi, con le biomolecole che regolano le giunzioni strette tra le cellule epiteliali. Tale interazione causa l’apertura reversibile delle giunzioni strette, il che può permettere ai farmaci proteici di permeare attraverso l’epitelio tramite la via paracellulare. Questo effetto risulta in un significativo aumento della permeabilità epiteliale. Perché l’effetto non sia tossico per l’epitelio, esso deve essere temporaneo e reversibile. Per confermare tale effetto si è usato l’epitelio intestinale isolato del ratto. Il ratto viene sacrificato secondo una procedura approvata dal comitato etico scientifico dell’Università e immediatamente dopo viene prelevato un pezzo di digiuno da cui viene tagliata una striscia di 1.5 cm, che viene fissata tra le due emicelle di una cella da permeazione in modo da essere interposta tra compartimento donatore, a cui è rivolta la faccia mucosale, e compartimento accettore, a cui è rivolta la faccia serosale della membrana intestinale. La superficie della membrana disponibile per la permeazione è di 0.78 cm2. Come modello di farmaco macromolecolare idrosolubile si usa un destrano di PM 4400 a cui è attaccato con legame covalente un fluoroforo come la fluoresceina che è determinabile per via fluorimetrica. La sigla del modello di farmaco è FD4. Il destrano è un polimero del glucosio in cui le unità di ripetizione sono legate con legami -1,6-glucosidici, con ramificazioni legate nella posizione 3 del glucosio con legami -1,3-glucosidici: Schema della struttura del destrano Nel compartimento donatore della cella viene posto 1 ml di un tampone pH 6.8, che è il pH del digiuno, contenente sali quali NaCl, KCl, MgSO4, NaHCO3 e glucosio per mantenere la vitalità del tessuto intestinale. Nel compartimento accettore, di volume maggiore, vengono posti 3 ml di un tampone a pH 7.4, che è il pH del siero, contenente anch’esso gli stessi sali e il glucosio come il mezzo nel compartimento donatore. Per realizzare l’ossigenazione continua del tessuto intestinale e allo stesso tempo l’agitazione della fase donatrice e di quella ricevente, azzerando i gradienti di concentrazione in tali fasi, si fa gorgogliare in ciascun compartimento una miscela di gas, O2:CO2 (95:5). La cella viene immersa in un bagno termostatico regolato a 37 °C. La termostatazione del sistema e il condizionamento della membrana intestinale dura 20 min, al termine dei quali il tampone contenuto nel compartimento donatore viene sostituito con una soluzione di FD4 0.2% p/v nello stesso tampone, pretermostatata a 37 °C, e si inizia a misurare il tempo. A intervalli misurati di tempo vengono prelevati volumi misurati (100 l) di fase ricevente che vengono analizzati con una metodologia HPLC usando un detector fluorimetrico, per determinare la quantità di FD4 permeata fino a quel tempo. La velocità di permeazione di FD4 attraverso la membrana intestinale è abbastanza bassa da considerare la concentrazione di FD4 nella fase donatrice costante nel tempo e molto maggiore di quella nella fase ricevente per tutta la durata dell’esperimento (stato stazionario, condizioni di “sink”). Il trasporto di massa è di tipo passivo e la barriera più resistente a tale trasporto è l’epitelio, perché il tessuto adiacente è di natura essenzialmente acquosa e il suo attraversamento non costituisce un ostacolo rate-determining per l’FD4, idrofilo. L’equazione che descrive il flusso di massa è la seguente, derivata dalla 1a legge di Fick: 1 dM PappC1 Eq. 1 A dt M = massa permeata A = area della superficie attraversata 1 dM = flusso di permeazione A dt Papp = permeabilità apparente della barriera rate-determining (epitelio) C1 = concentrazione della specie permeabile nella fase donatrice, costante durante l’esperimento Riportando in grafico i dati sperimentali (M/A, massa di FD4 permeata per unità di area, vs. t) si ottiene il seguente grafico: Dopo un tempo di ritardo (“lag time”), richiesto dallo stabilirsi del gradiente di concentrazione del permeante nella membrana, l’andamento dei punti sperimentali è lineare, in accordo con l’ipotesi dello stato stazionario. La pendenza della porzione lineare del grafico è il flusso 1 dM stazionario, , da cui si può ricavare la permeabilità apparente dell’epitelio: A dt Papp 1 dM 1 A dt C1 Eq. 2 In un successivo esperimento di permeazione con una nuova membrana intestinale uguale alla precedente, nella fase donatrice insieme a 0.2% p/v di FD4 viene posto 1% p/v di un coniugato chitosano-ammonio quaternario (sigla Ch-N+) supposto promotore di permeazione transepiteliale, procedendo quindi come nell’esperimento precedente. Anche in questo caso la permeazione dovrebbe avvenire in condizioni di stato-stazionario, il grafico M/A vs t dovrebbe essere lineare, dopo un “lag time”, ma la pendenza della retta, che rappresenta il flusso stazionario attraverso le giunzioni strette aperte dal promotore polimerico, dovrebbe essere aumentata. Conseguentemente dovrebbe essere aumentata la permeabilità apparente dell’epitelio, calcolata mediante l’Eq. 2. L’entità dell’aumento viene quantificata dal fattore di promozione, che è il rapporto tra il valore di Papp determinato con il polimero promotore nella soluzione a contatto con l’epitelio e quello determinato in assenza di tale promotore. Ottenimento della polvere micronizzata di un polimero tramite nebulizzazione e essiccamento (spray-drying) di una sua soluzione acquosa Il processo viene effettuato in laboratorio con uno strumento che invia in continuo, mediante una pompa peristaltica, la soluzione acquosa del polimero (chitosano cloridrato) in un nebulizzatore ad ugello pneumatico che, facendo venire la soluzione a contatto con aria compressa, la trasforma in uno spray finissimo, di forma conica. In una camera di essiccamento lo spray viene fatto venire a contatto con una corrente di aria calda che, data la elevata velocità relativa dell’aria e delle goccioline di spray e la elevata superficie specifica dello spray, provoca in pochi secondi l’evaporazione delle goccioline che si trasformano in particelle solide di dimensioni medie minori di 10 m. L’essiccamento delle goccioline deve avvenire mentre queste sono trasportate dall’aria (trasporto pneumatico). Le particelle solide sono trasportate dall’aria in un separatore a ciclone dove esse sono separate dall’aria per centrifugazione e raccolte sul fondo in un recipiente di raccolta, mentre l’aria depurata dalle particelle esce dalla sommità del ciclone. Il verso in cui si muovono lo spray e la corrente di aria nella camera è lo stesso, per questo si dice che il sistema è in co-corrente. Il processo è continuo, quindi, la massa di acqua introdotta dal nebulizzatore nella camera di essiccamento nell’unità di tempo deve essere uguale alla massa di acqua evaporata nell’unità di tempo e il peso della polvere raccolta nell’unità di tempo (ritmo di produzione) deve essere uguale al volume della soluzione erogata dal nebulizzatore nell’unità di tempo (uguale alla portata della pompa di circolazione) moltiplicato per la concentrazione peso/volume del soluto (polimero) contenuto nella soluzione. Tale bilancio di massa implica che non ci sia accumulo di liquido nella camera di essiccamento durante il processo. Per impostare le variabili del processo, quali la temperatura di pre-riscaldamento dell’aria di ingresso nella camera (Ti) e la portata della pompa peristaltica per l’alimentazione della dVal soluzione nel nebulizzatore ( Gal ; Val = volume della soluzione alimentata nel dt nebulizzatore, e quindi, nella camera di essiccamento) in modo da assicurare il corretto svolgimento del processo, dobbiamo costruire il diagramma della temperatura dell’aria di uscita dalla camera (Tu) rispetto alla portata di alimentazione, Gal, della soluzione nebulizzata nella camera di essiccamento. Tale diagramma dovrebbe risultare lineare con pendenza negativa. Infatti devono valere le seguenti uguaglianze: dmacqua dmev 1 dQlat (1) dt dt λ dt macqua = massa di acqua passata attraverso il nebulizzatore mev = massa di acqua evaporata nella camera di essiccamento Qlat = quantità di calore latente assorbito per l’evaporazione di mev = calore latente specifico di evaporazione dell’acqua Il Qlat è interamente fornito dalla corrente d’aria in forma di calore sensibile (Qaria) che l’aria cede con diminuzione della sua temperatura. Dunque la temperatura dell’aria all’uscita dalla camera, quando la soluzione è alimentata nella camera ( Tu ) è minore della temperatura di uscita dell’aria quando la soluzione non è alimentata nella camera ( Tu ( 0 ) ) e la differenza Tu ( 0 ) - Tu è proporzionale alla quantità di calore sensibile ceduta dall’aria nell’unità di tempo per fare evaporare l’acqua dello spray alla velocità matematicamente come segue: dQlat dQaria Tu ( 0 ) - Tu dt dt Poiché si ha: dmacqua dVal Gal = dt dt segue dalle relazioni (1) e (2): dmev . Quanto sopra si esprime dt (2) Gal Tu ( 0 ) - Tu e cioè, infine: Tu = Tu ( 0 ) - cost Gal (3) che esprime una caduta lineare di Tu all’aumentare di Gal. Sperimentalmente si devono impostare diversi valori di Gal della pompa peristaltica (variabile indipendente) e per ciascuno di essi osservare il risultante valore di Tu (variabile dipendente), quindi si deve costruire il grafico di Tu vs. Gal. La linearità di tale grafico dimostrerà che la velocità con cui viene introdotta acqua nella camera di essiccamento è effettivamente uguale alla velocità con cui tale acqua viene fatta evaporare dalla corrente di aria calda. Allora, nell’intervallo di valori di Gal per cui il grafico è lineare il processo avviene in modo corretto. Se la camera di essiccamento fosse isolata termicamente dall’esterno la Tu(0) dovrebbe risultare uguale alla temperatura di pre-riscaldamento dell’aria (Ti). Questa assunzione non è realistica perché la camera è di vetro e permette una significativa dispersione di calore sensibile dell’aria. Dunque la Tu(0) è significativamente minore di Ti. Per valutare il rischio termico per il materiale, cioè il rischio che il materiale raggiunga una temperatura alla quale esso si potrebbe degradare, bisogna considerare che quando lo spray non è ancora essiccato la maggior parte del calore che esso assorbe è calore latente, che non comporta un sostanziale aumento di temperatura. Quando il materiale è secco esso raggiunge la temperatura massima, che si avvicina alla Tu, ma permane per un tempo brevissimo a tale temperatura perché l’aria lo trascina fuori dalla camera, nel separatore a ciclone, dove si raffredda. Complessivamente il rischio termico per il materiale è basso. Liofilizzazione di sodio cloruro, considerato rappresentativo di farmaci o eccipienti cristallini idrosolubili, mediante un liofilizzatore semi-industriale Il processo della liofilizzazione consente di ottenere una sostanza solida anidra e liofila, cioè solubilizzabile molto rapidamente in acqua, a partire da una sua soluzione acquosa. Si tratta dunque di un processo di essiccamento particolare in cui l’acqua non viene allontanata per evaporazione, come nei consueti processi in cui il materiale da seccare viene in certa misura riscaldato, bensì per sublimazione sotto vuoto dopo averla congelata a ghiaccio. Si tratta dunque di crioessiccamento (essiccamento a freddo, in inglese “freeze-drying”). Nella tecnologia farmaceutica la liofilizzazione si applica ai materiali termolabili e/o non abbastanza chimicamente stabili in soluzione acquosa. Noi applicheremo il processo a una soluzione acquosa di sodio cloruro a scopo didattico in quanto questo sale ha un comportamento tipico di sostanze idrosolubili cristalline di basso peso molecolare, come molti farmaci e eccipienti per liofilizzazione. La liofilizzazione si articola nelle seguenti fasi: 1) congelamento; 2) essiccamento primario; 3) essiccamento secondario. Congelamento La soluzione da liofilizzare viene distribuita in flaconi su ciascuno dei quali viene appoggiato un tappo di gomma senza chiudere ermeticamente, in modo che nella successiva fase di essiccamento primario possa fuoriuscire il vapore che si svilupperà dalla sublimazione del ghiaccio. I flaconi vengono posti nella camera del liofilizzatore sulla piastra che viene raffreddata da un impianto frigorifero a una temperatura abbastanza bassa da sottrarre calore alla soluzione contenuta nei flaconi fino a farla congelare. In uno dei flaconi contenenti la soluzione viene posta una sonda termometrica (una termoresistenza, cioè, una resistenza elettrica sensibile alla temperatura) per registrare la temperatura del prodotto in funzione del tempo. La temperatura della piastra viene fatta scendere molto rapidamente dall’impianto frigorifero (fino a -40 -50 °C). Di conseguenza si raffredda rapidamente anche il prodotto tanto che la soluzione si sovraraffredda al disotto del suo punto di congelamento termodinamico senza congelare. Presto si ristabilisce l’equilibrio termodinamico e la temperatura risale fino al punto di congelamento, che è più basso di 0°C di una quantità dipendente in modo diretto dalla concentrazione della soluzione (abbassamento crioscopico). Dalla soluzione si separa ghiaccio puro, per cui la soluzione si concentra. Man mano che si forma il ghiaccio la concentrazione della soluzione aumenta e il suo punto di congelamento diminuisce. Infatti in questa fase del congelamento il grafico della temperatura del prodotto mostra una lenta diminuzione. La soluzione concentrata si viene a trovare negli interstizi tra i cristalli di ghiaccio (soluzione interstiziale) i quali occupano tutto il volume che era inizialmente occupato dalla soluzione. Se non ci fossero gradienti di temperatura nella soluzione i cristalli di ghiaccio sarebbero distribuiti uniformemente in tutto il volume della soluzione e, dopo la loro sublimazione anche i pori che prendono il loro posto sarebbero uniformemente distribuiti nel liofilizzato. Ma poiché la parte della soluzione più vicina alla parete fredda (quella sul fondo del flacone) ha la temperatura più bassa il ghiaccio si forma sul fondo del flacone prima e in maggior quantità che alla superficie della soluzione. Questo comporta che la porosità del liofilizzato finale non sia uniformemente distribuita e che essa sia maggiore sul fondo del liofilizzato e minore sulla sua superficie. Per limitare tale disomogeneità si cerca di limitare la distanza tra fondo e superficie della soluzione di partenza, che non deve superare 1 cm. Poiché il calore viene sottratto rapidamente al prodotto, la soluzione interstiziale, superata una certa concentrazione, esce dall’equilibrio termodinamico e si sovraraffredda senza che si formino più cristalli di ghiaccio. In questa fase il prodotto cede calore sensibile e la sua temperatura scende rapidamente, come si osserva nel diagramma. Raggiunta una certa temperatura in condizioni metastabili passano allo stato solido sia l’acqua che non era ancora congelata, sia il soluto, formando due fasi solide microcristalline intimamente mescolate. Il passaggio di stato avviene in condizioni di equilibrio termodinamico con sviluppo di calore latente, che fa risalire la temperatura a raggiungere il valore di equilibrio, detto “punto eutettico” che è ben al disotto del punto di congelamento della soluzione. Tale miscela intima di due fasi (microcristalli di farmaco solido e ghiaccio) è detta “miscela eutettica”. Essa deriva dalla solidificazione della soluzione interstiziale e si trova dunque in tutto il volume del prodotto. Quando il prodotto è completamente solidificato esso continua a cedere calore alla piastra perché essa si trova a una temperatura più bassa. Tale calore è interamente calore sensibile, dunque il prodotto si raffredda finché raggiunge una temperatura quasi costante. Questa però rimane più alta di quella della piastra perché il prodotto riceve calore per irraggiamento dall’ambiente a una velocità circa uguale a quella con cui cede calore per conduzione alla piastra. A questo punto il congelamento è terminato e si passa all’essiccamento primario. Essiccamento primario Si mette in comunicazione la camera di essiccamento con il vano del condensatore agendo sull’apposita valvola. Il condensatore è uno scambiatore di calore con un’ampia superficie di scambio. Si mette in funzione la pompa da vuoto per allontanare l’aria sia dalla camera di essiccamento che dal vano condensatore, si mette in comunicazione il frigorifero con il condensatore per portare la sua superficie a una temperatura (Tcd) più bassa di quella della superficie sublimante (Ts) del prodotto congelato (Tcd<Ts). In queste condizioni il vapore generato dalla sublimazione del ghiaccio diffonde senza l’ostacolo dell’aria dal prodotto al condensatore sulla cui superficie il vapore si deposita come ghiaccio. Dunque, per sublimazione il ghiaccio passa dal prodotto alla superficie del condensatore lasciando nei flaconi il liofilizzato poroso. Durante l’essiccamento primario il frigorifero non raffredda più la piastra bensì il condensatore. Anzi, la piastra deve ora fornire calore al prodotto congelato che lo assorbe come calore latente di sublimazione. Per questo la piastra ha una temperatura più alta di quella del prodotto. Alla fine dell’essiccamento primario, quando la sublimazione del ghiaccio è completa, il calore ceduto dalla piastra al prodotto non viene più assorbito come calore latente di sublimazione, bensì come calore sensibile e il prodotto si riscalda fino a raggiungere la temperatura della piastra. Le temperature di piastra e prodotto salgono insieme lentamente per equilibrarsi con la temperatura dell’ambiente circostante. Essiccamento secondario Alla fine dell’essiccamento primario una significativa quantità d’acqua rimane adsorbita a livello molecolare sulla superficie del liofilizzato. Per completare l’essiccamento occorre effettuare l’essiccamento secondario per allontanare quest’acqua (desorbimento). Quando il prodotto solido è cristallino, come nel nostro caso, esso può essere riscaldato sotto vuoto a una temperatura superiore alla temperatura ambiente, purché tollerabile dal prodotto. Perciò la piastra viene termostatata alla temperatura prestabilita per un tempo prestabilito e il prodotto rimarrà sotto vuoto per quel tempo a una temperatura vicina a quella della piastra. A tale temperatura le molecole dell’acqua adsorbita acquistano energia cinetica sufficiente per staccarsi dalla superficie del liofilizzato ed essere risucchiate dalla pompa da vuoto. Perché la pompa non aspiri anche il vapore in equilibrio con il ghiaccio depositato sulla superficie del condensatore il vano condensatore, in questa fase, deve essere isolato dalla camera del prodotto tramite l’apposita valvola e la pompa da vuoto deve essere messa in comunicazione con tale camera. Dopo l’essiccamento secondario il processo è finito e il liofilizzato può essere recuperato dopo aver messo in funzione il dispositivo per la chiusura sotto vuoto dei flaconi, aver disconnesso la pompa da vuoto, aver spento il compressore del frigorifero e, infine, aver portato il sistema a pressione ambiente azionando le valvole per l’ingresso dell’aria nella camera e nel vano condensatore. Schema di un liofilizzatore industriale Il liofilizzato costituisce una sorta di spugna rigida a elevata porosità avente un volume totale (solido+pori) uguale al volume della soluzione di partenza. Il solido occupa una frazione del volume del liofilizzato uguale alla concentrazione p/v del soluto nella soluzione di partenza (Ci) divisa per la densità del solido allo stato puro (solido): m V C i soluto ρsolido solido Vprodotto Vprodotto msoluto = massa del soluto nella soluzione iniziale Vprodotto = volume totale del prodotto (della soluzione, all’inizio del processo; del liofilizzato (solido+pori), alla fine). Vsolido = volume occupato dal solido nel liofilizzato (con esclusione dei pori) Fsolido Vsolido Ci Vprodotto ρsolido Fsolido = frazione di volume di solido nel liofilizzato Poiché la densità del sodio cloruro è 2 g/ml, se la concentrazione della soluzione iniziale è 10% g/ml la frazione di volume di solido nel liofilizzato sarà circa 5% e la porosità sarà circa 95%. Questi dati, insieme al nostro risultato sperimentale della liofilizzazione, indicano che la concentrazione della soluzione iniziale di 10% g/ml, da noi usata, garantisce una rapida ridissoluzione del liofilizzato ma è appena sufficiente a garantire che esso non collassi. Per ottenere liofilizzati meccanicamente più stabili si parte in genere da soluzioni più concentrate.