I SOGGETTI

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PARTE PRIMA
I SOGGETTI
SOMMARIO: Cap. IX. Persona fisica. – Cap. X. Diritti della personalità. – Cap. XI.
Gli enti. – Cap. XII. La capacità degli enti. – Cap. XIII. I tipi degli enti non economici. – Cap. XIV. I controlli amministrativi degli enti.
PERSONA FISICA
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CAPITOLO IX
PERSONA FISICA
SOMMARIO: 1. La persona fisica, le persone giuridiche, gli enti. – 2. La nascita e l’acquisto della capacità giuridica. – 3. Il nascituro. – 4. L’assenza e la presunzione di morte. – 5. La morte. – 6. Il
domicilio, la residenza, la dimora. – 7. L’acquisto e la perdita della capacità di agire. – 8. La minore età. L’interdizione e l’inabilitazione. – 9. Gli istituti di protezione dell’incapacità legale. –
10. L’incapacità naturale. – 11. Le condizioni della persona: gli status, la cittadinanza, gli stati
familiari. – 12. Gli atti dello stato civile.
1. La persona fisica, le persone giuridiche, gli enti
Accanto all’uomo, il sistema giuridico italiano, al pari di tutti gli altri sistemi giuridici moderni, attribuisce rilievo anche ad altre entità. Queste «entità», o enti, si qualificano in vari modi, ad esempio: associazioni, fondazioni, società commerciali, ecc.
Anche nel campo del diritto pubblico troviamo enti giuridicamente rilevanti distinti
dall’uomo: lo Stato, le regioni, le province, i comuni. Ad essi, al pari dell’uomo, il nostro sistema giuridico conferisce la possibilità, il potere, di agire nel mondo del diritto
per il conseguimento dei propri interessi.
Alcuni di questi enti assumono, come vedremo più avanti, il nome di persone giuridiche, per via della loro somiglianza con l’agire dell’uomo. Infatti, il diritto conferisce loro qualità, poteri, attitudini tipici dell’uomo, proprio perché ha voluto che a
quest’ultimo fossero equiparati. E così ha chiamato gli uomini persone fisiche e gli
enti persone giuridiche, attribuendo ad entrambi gli stessi poteri giuridici.
Gli uomini, dunque, analizzati nella loro attività giuridica, assumono il nome di
persone fisiche (i vecchi manuali dell’800 li chiamavano persone naturali), proprio
per distinguerli da altre persone che non possiedono un riferimento fisico, naturale,
ma sono astrazioni giuridiche. Questo modo di considerare come persone anche entità diverse dall’uomo è testimoniata dal vecchio codice civile del 1865, il quale affermava: «I comuni, le province, gli istituti pubblici civili od ecclesiastici, ed in generale
tutti i corpi morali legalmente riconosciuti, sono considerati come persone» (art. 2).
2. La nascita e l’acquisto della capacità giuridica
Il codice si apre, dunque, con la disciplina delle persone fisiche. All’art. 1 si afferma che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. Tutti i soggetti,
nati e nati vivi, acquistano automaticamente la capacità di essere soggetti del diritto,
soggetti dell’attività giuridica, la quale potrebbe essere avvicinata ad una sorta di cittadinanza all’interno dell’ordinamento giuridico. L’uomo con la nascita acquista la ca-
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pacità giuridica: vuol dire che acquista un’attitudine, un’idoneità ad essere titolare di
diritti e di doveri. Questi diritti e questi doveri potrà esercitarli più tardi, quando avrà raggiunto la maturità psico-fisica necessaria, ma con il solo atto della nascita ha
acquisito l’idoneità ad esserne titolare.
La nozione di capacità, come quella di soggettività o di personalità, cioè a dire la
rilevanza giuridica dell’uomo come essere corporeo e vivente, è nei sistemi giuridici
moderni elemento caratterizzante ed indefettibile.
La nascita e la morte sono i fatti aventi rilievo giuridico che segnano i limiti di
questa rilevanza. L’uomo è conosciuto sub specie iuris sotto le espressioni di persona
fisica e di soggetto del diritto; l’uomo, in quanto tale, è immediatamente e direttamente dotato di capacità giuridica. Talché si potrebbe dire che la capacità sia attributo naturale, cioè intrinseco all’uomo.
Ecco dunque applicato un significato elementare e primario del principio di eguaglianza: a tutti gli esseri umani viventi è riconosciuta, a differenza che in altri sistemi
giuridici (anche contemporanei), la cittadinanza nell’ordinamento giuridico.
Si soleva dire che il momento dell’acquisto della capacità giuridica dovesse coincidere con il momento dell’acquisto della capacità respiratoria. All’individuo vivo e
vitale, e solo a lui, era attribuita la capacità, e dunque la soggettività, giuridica. Si tratta del requisito comunemente denominato della vitalità, cioè del perdurare della vita
oltre il momento della nascita. Esso consisterebbe in una sorta di attitudine alla vita
dopo la nascita. Ad esso fanno riferimento espresso numerose legislazioni moderne, il
Code civil francese in primo luogo: è incapace di succedere «l’enfant qui n’est pas né
viable» (art. 725). Su questa stregua il vecchio codice italiano richiedeva il requisito
«della vita e della vitalità» del nato.
Il codice vigente ha soppresso questo requisito ritenendolo arbitrario, oltre che
inutile; ed ha conferito, tagliando corto a tutte le polemiche al riguardo, la capacità
giuridica a qualunque individuo «dal momento della nascita» (art. 1).
La prova della vita, ai fini dell’acquisto della capacità giuridica, spetta a colui che
abbia interesse ad affermarne l’avvenuta nascita. Tra i mezzi di prova sembra più attendibile, anche se non privo di incertezza, proprio l’acquisto della capacità respiratoria
(docimasia polmonare) cui sopra s’è accennato, e non anche altre funzioni vitali, come
l’attività circolatoria e quella nervosa, le quali, a differenza della prima, preesistono alla
nascita. Talvolta si è persino scritto essere l’iscrizione nei registri della stato civile una
possibile prova legale della nascita, ma senza evidenti riscontri né logici né funzionali.
3. Il nascituro
La nascita non solo fa acquistare la capacità giuridica del soggetto, ma anche
un’attribuzione retroattiva di alcuni aspetti importanti della soggettività prima del
momento della nascita, e talvolta addirittura prima della data del concepimento. Anche per tal via dunque affermando che, se l’inizio della vita avviene completamente
solo col distacco fisico dalla madre, vi sono altri fatti giuridici anteriori alla nascita
cui il sistema attribuisce efficacia, i quali impediscono la considerazione della nascita
alla stregua di un frutto naturale (ad esempio, come il parto degli animali, art. 820)
che assume individualità solo con la separazione dalla cosa madre.
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Le affermazioni che precedono introducono il tema della strettissima colleganza
che intercorre tra i commi 1 e 2 dell’art. 1. La considerazione che il nostro diritto assegna al concepito è tale da attribuire rilievo diverso all’evento medesimo della nascita, quasi a volerlo considerare un fatto condizionato. Se l’acquisto della capacità giuridica avviene con l’evento della nascita, taluni diritti di carattere patrimoniale sorgono tuttavia in capo al futuro soggetto fin dal concepimento, e dunque appaiono condizionati all’evento della nascita. Ed infatti il codice attribuisce ai genitori il potere di
rappresentanza e di amministrazione dei beni del nascituro (art. 320), ed a questo la
capacità di succedere per causa di morte («purché concepito al tempo dell’apertura di
successione», art. 462), e la capacità di ricevere per donazione (art. 784). Il nascituro è
titolare dunque di diritti patrimoniali.
Sarà necessario, pertanto, tener distinte due nozioni di nascituro: il nascituro concepito, che si presume debba nascere entro una certa data, ed il nascituro non ancora
concepito, che forse potrà nascere: anche a favore di quest’ultimo la legge prevede atti
di disposizione.
Il problema dell’acquisto della capacità giuridica ad una fase anteriore al momento della nascita, cui il capoverso dell’art. 1 sembra alludere potrebbe essere configurato sotto la forma di un’«attribuzione retroattiva» della capacità patrimoniale dei diritti sopra menzionati fino alla vita intrauterina. L’embrione non ha una vita indipendente a quella della madre, ciò nonostante si tratta di un’entità vivente. Il fatto non
appare sufficiente ad attribuirgli la qualità di soggetto del diritto; piuttosto si tratta di
assicurargli una tutela giuridica, ed in qualche caso una sorta di anticipazione della
qualità di soggetto. È su questo aspetto particolare che si sono rivolte le discussioni in
tema di aborto come lesione di un diritto alla vita. È bene però ricordare che, in senso tecnico, si può parlare di lesione del diritto solo quando vi sia un titolare, e tale il
soggetto diventa dal momento della nascita, e non prima.
La questione generale, che riguarda le condizioni e i limiti di tutela che l’ordinamento accorda all’embrione, va impostata sul rilievo che l’embrione non è titolare di
diritti e dunque non può essere un soggetto giuridicamente rilevante. Ciò non significa che il sistema italiano non ne accordi una protezione. Questa protezione va dunque ricercata sul piano dell’oggetto di tutela.
In Italia, con un ritardo di circa venti anni rispetto alla media europea,è stata approvata una legge sulla procreazione medicalmente assistita, l. 40/2004, della quale parleremo nel prossimo cap. X. All’art. 1 afferma di voler assicurare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
Abbiam detto che il nascituro acquista la capacità di ricevere per testamento e per
donazione: si tratta dunque di un’eccezione alla regola posta dal comma 1; o piuttosto di un effetto retroattivo, sottoposto alla condizione dell’evento della nascita? Una
parte della giurisprudenza s’è mossa in questa direzione sostenendo la retroattività
dell’acquisto della capacità fino al momento del concepimento.
A favore di questa concezione gioca anche la diversa considerazione che la legge
fa del nascituro non ancora concepito, cui attribuisce tutela, se pur fuori dell’ambito
di cui all’art. 1, cpv., come vedremo subito. Va di nuovo ricordato che l’attribuzione
dei diritti al concepito riguarda esclusivamente diritti patrimoniali.
I «diritti riconosciuti» al nascituro concepito sono subordinati all’evento della nascita, nel senso che il nascituro ne perde o ne acquista retroattivamente la titolarità.
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S’è parlato a questo riguardo di «personalità anticipata», o di «capacità provvisoria»,
o di «soggettività relativa», o di «diritti senza un attuale titolare».
La tendenza della moderna giurisprudenza sembra, così, orientata ad attribuire
rilievo e considerazione al brocardo latino infans conceptus pro nato habetur quoties
de commodo suo agitur. E che potremmo anche tradurre in un favor del sistema nei
confronti del nascituro concepito. Peraltro, la retroattività dell’acquisto della capacità giuridica non contiene in sé niente di ineluttabile e non può essere imposta: riguarda l’interessato medesimo, i suoi rappresentanti o i suoi eredi l’opportunità di
farla valere.
4. L’assenza e la presunzione di morte
La disciplina legale della scomparsa, dell’assenza, della dichiarazione di morte presunta (artt. 48-68) fonda il proprio presupposto normativo su di un dato comune ed
esclusivo: la mancanza di notizie del soggetto. La persona scompare quando «non se ne
hanno più notizie» (art. 48). La dichiarazione di assenza, e la dichiarazione di morte
presunta, possono essere richieste trascorsi due anni (ovvero dieci anni per la dichiarazione di morte presunta) dal giorno in cui risale «l’ultima notizia» (artt. 49 e 58).
Il riferimento alla circostanza che la persona si sia allontanata dal luogo del suo ultimo domicilio o della sua ultima residenza, cui l’art. 48 fa cenno, non pare rivestire
importanza per la qualificazione del fatto giuridico. Il legame con il regime del domicilio e della residenza sembra infatti derivato più da motivi di carattere sistematico (la
disciplina è infatti preceduta immediatamente da quella del domicilio e della residenza), che non da ragioni funzionali. L’allontanamento dalla residenza sembra allora
costituire un elemento di prova alla mancanza di notizie: non si hanno più notizie
perché si è allontanato dalla propria residenza.
Pare infatti del tutto ovvio che colui che non dà più notizie di sé si sia allontanato
dalla propria residenza. Fondamento, dunque, della norma che regola la scomparsa
del soggetto (art. 48) è l’ignoranza sull’esistenza della persona: la sua irreperibilità fisica rileva solamente nella misura in cui si abbia ragione di temere per la sua vita. La
persona che scompare fisicamente è persona che il sistema giuridico può considerare
come un soggetto privo di attitudini all’esercizio della propria capacità giuridica. La
ratio della norma è infatti quella di permettere che altri intervenga nell’esercizio delle
attività proprie del soggetto scomparso. La persona che non c’è non può non solo esercitare i propri diritti, ma forse neppure esserne titolare.
Va tuttavia avvertito che l’attenzione che il sistema giuridico dedica alla scomparsa fisica del soggetto, e dunque la disciplina dell’assenza e della dichiarazione di morte presunta, non riguarda gli aspetti connessi alla capacità ed all’impossibilità di esercizio dei diritti. Riguarda invece le conseguenze patrimoniali, gli effetti economici,
che anche in questo caso si dimostrano essere la costante del nostro sistema, che da
quella situazione soggettiva derivano.
La scomparsa dal domicilio o dalla residenza e la mancanza di notizie non determina conseguenze di carattere personale.
I presunti successori possono chiedere al tribunale di nominare un curatore «che
rappresenti la persona in giudizio o nella formazione degli inventari e dei conti e nelle
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liquidazioni o divisioni in cui sia interessata, e può dare gli altri provvedimenti necessari
alla conservazione del patrimonio dello scomparso» (art. 48).
Il prolungarsi della scomparsa per un periodo di almeno due anni può determinare il ricorso alla dichiarazione di assenza (art. 49). La quale produce alcuni effetti
giuridici sia di natura personale che di natura patrimoniale, anch’essi, pronunciati dal
tribunale su istanza degli interessati. La disciplina dell’assenza, come quella della presunzione di morte, è dettata principalmente a risolvere il contrasto che si determina,
tra gli interessi dei presunti successori e l’assente, nell’ipotesi che questo ritorni. A
questo fine coloro che sarebbero gli eredi legittimi o testamentari dell’assente possono essere immessi nel possesso temporaneo dei beni di questi; così come i legatari, i
donatari e tutti quelli ai quali spetterebbero diritti dipendenti dalla morte dell’assente
possono essere ammessi all’esercizio temporaneo dei diritti medesimi.
Egualmente, coloro che per effetto della morte sarebbero liberati da obbligazioni nei
confronti della persona assente, possono essere esonerati dall’adempimento (art. 50).
Il coniuge dell’assente può ottenere un assegno alimentare. L’immissione nel possesso temporaneo dei beni conferisce i poteri di amministrazione dei beni medesimi,
di rappresentanza dell’assente e di godimento delle rendite prodotte dai beni. Il possesso temporaneo ha una funzione principalmente conservativa del patrimonio dell’assente e di attesa del ritorno di lui: gli atti di disposizione sono compiuti solo per necessità e utilità evidenti riconosciute dal tribunale (art. 54). L’intero istituto dell’assenza sembra dettato sul presupposto del ritorno dell’assente o comunque della prova alla sua esistenza. Si tratterà di un’assenza involontaria e tale da far nutrire dubbi
sull’esistenza della persona: contrariamente, se essa fosse volontaria e non giustificata,
egli perderebbe il diritto di farsi restituire le rendite che gli eredi hanno nel frattempo
fatto proprie. Viceversa, se viene provata la morte, da quel momento viene aperta la
successione a favore degli eredi o legatari.
Diversa prospettiva è quella che la legge prevede per la presunzione di morte. La
dichiarazione di morte presunta viene emessa dal tribunale, su istanza del pubblico
ministero o di chiunque vi abbia interesse, dopo dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia.
L’istituto sembra dunque fondarsi sul presupposto del non ritorno dell’assente
perché deceduto. La sentenza con cui si dichiara la morte presunta del soggetto stabilisce carattere di definitività agli atti di attribuzione temporanea, in quanto produce
gli effetti giuridici alla morte fisica della persona. Ma non completamente: la disciplina che si occupa della persona di cui si ignora l’esistenza e si presume defunta non si
riduce alla considerazione dei diritti che nascono in capo agli eredi, come nell’ipotesi
della successione mortis causa. Ed infatti la posizione dei soggetti, sia gli aventi causa
che l’assente, è più complessa. In questo senso si giustifica l’affermazione del principio contenuto all’art. 69, secondo il quale «nessuno è ammesso a reclamare un diritto
in nome della persona di cui si ignora l’esistenza, se non prova che la persona esisteva quando il diritto è nato».
Con la dichiarazione di morte presunta, oltre agli effetti patrimoniali conseguenti
l’apertura alla successione, il coniuge può contrarre nuovo matrimonio (art. 65).
Rimane salva, è vero, la prova dell’esistenza della persona (art. 66). Ed in questo
caso egli recupera i beni nello stato in cui si trovano ed ha diritto che gli venga corrisposto il prezzo in caso di loro alienazione, ovvero di ottenere i beni nei quali sia sta-
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to investito. Il nuovo matrimonio è nullo, salvo naturalmente gli effetti del matrimonio putativo (v. oltre). Nel caso sia accertata la morte, avvenuta anche posteriormente
alla dichiarazione di morte presunta, non può procedersi alla dichiarazione di nullità
del nuovo matrimonio.
5. La morte
La morte, cioè la cessazione delle funzioni vitali della persona fisica, determina la
perdita della capacità giuridica. Il fatto giuridico della fine dell’esistenza è dunque
l’elemento qualificante la cessazione delle qualità giuridiche connesse alla vita della
persona fisica. La corrispondenza della morte, come fine della vita, con la nascita, come inizio della vita, è perciò speculare. Come la capacità si acquista con la nascita, così
si perde con la morte. Questa corrispondenza è così netta che la legge non indica
espressamente, non solo il momento della fine dell’esistenza, ma neppure il fatto in sé.
Cosicché, è proprio l’art. 1 sull’acquisto della capacità giuridica la norma cui occorre riferirsi per dedurne l’opposta regola della perdita della capacità.
La morte naturale estingue dunque la capacità giuridica dell’uomo. Dopo la soppressione dell’istituto della morte civile, la sola causa di estinzione della qualità di
soggetto di diritto per l’uomo è il decesso.
Secondo un’opinione corrente fino a qualche decennio fa si riteneva che la morte
coincidesse con l’arresto delle funzioni cardiache e di quelle respiratorie. Il dato era
reputato così certo da non richiedere indagini particolari da un punto di vista medico.
L’accertamento della morte consistendo nell’accertamento dell’arresto delle due funzioni cardiaca e respiratoria. La legge (n. 1238/1939, ordinamento dello stato civile)
disciplina i modi di accertamento della morte distinguendo i casi di accertamento diretto, allorché esista e sia presente il cadavere; e di accertamento indiretto, quando
non sia possibile rinvenire o riconoscere il cadavere (artt. 140 e ss.). In ambedue i casi
la formazione dell’atto di morte e la sua iscrizione nei registri dello stato civile, produce gli effetti della prova legale della morte e della pubblicità con efficacia erga omnes.
I mezzi medico-legali a disposizione per l’accertamento della morte fisica del soggetto appaiono oggi mutati enormemente rispetto alle certezze di qualche decennio
addietro. Viene accettato dalla maggior parte degli studiosi la nozione di morte cerebrale irreversibile, che è data dalla cessazione di ogni attività del sistema nervoso centrale. La nozione di «morte cerebrale» è stata accolta, al pari di altre legislazioni, in Italia con la l. 644/1975 ed ora dalla l. 578/1993.
Il tema del momento esatto della morte fisica del soggetto è ripreso oggi con maggiore attenzione, e con una regolamentazione minuziosa degli atti idonei all’accertamento, allorché è stata introdotta la possibilità, e con essa la legittimità, dei trapianti
di organi. La materia del prelievo di organi ai fini di trapianto terapeutico è ora disciplinata dalla l. 91/1999 che reca il titolo «Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti». La legge disciplina i casi nei quali può essere effettuato
il prelievo di organi ai fini di trapianto da cadavere. I princìpi che possono dedursi
dalla legge si riassumono sostanzialmente in due. Il primo riguarda il modo attraverso il quale viene rilevata la volontà alla donazione degli organi da parte del soggetto
e che è sintetizzabile nell’espressione silenzio-assenso: o meglio, consenso presunto.
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Tutti i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria volontà in ordine alla donazione di
organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte. E la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso tacito alla donazione.
A definire compiutamente la nozione giuridica di morte ragguagliata ai risultati ultimi cui è giunta la scienza medica, interviene la legge che disciplina le «norme per l’accertamento e la certificazione di morte», n. 578/1993. L’art. 1 reca la seguente definizione di morte: «La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».
Alle norme che disciplinano il momento della perdita della capacità del soggetto
vanno collegate quelle che prevedono la tutela morale e materiale del cadavere. La legge ricordata sul prelievo di organi da cadavere sembra dettata principalmente a tutela
degli interessi morali del deceduto. Anche un’altra legge speciale, l. 301/1993 relativa ai
Prelievi ed innesti di cornea prevede il consenso espresso alla «donazione gratuita» (sic).
La morte non impedisce tuttavia le possibilità di agire a tutela di interessi collegati
alla persona defunta. Così le norme dedicate alla legittimazione di figli premorti (art.
282), la legittimazione dopo la morte dei genitori (art. 285), l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità (art. 270), per il disconoscimento di paternità (art. 246).
Una norma infine, a parere di molti, superflua perché assorbita dal generale principio in tema di onere della prova (art. 2697), prevede la commorienza, cioè la regola
secondo la quale si presumono morte contemporaneamente più persone, allorché dalla sopravvivenza di una su un’altra possa dipendere un effetto giuridico (art. 4).
6. Il domicilio, la residenza, la dimora
La legge disciplina due tipologie di luoghi ove la persona fisica si trova ai fini della
propria attività giuridica. Il domicilio e la residenza. Domicilio è il luogo ove la persona «ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi» (art. 43). Residenza è il
luogo nel quale la persona abitualmente dimora. La precisa distinzione usata dal codice nel separare le due nozioni non ha impedito sia dalla legislazione speciale che
dall’uso pratico una frequente confusione dei due termini. Il diritto penale conosce,
ad esempio, una nozione diversa di domicilio (art. 570 c.p.). La persona può avere
più di un domicilio, allorché svolga la propria attività o i propri affari in un domicilio
generale e in un domicilio speciale. Talvolta il domicilio può essere elettivo, quando il
soggetto lo dichiari per iscritto per la conclusione di un determinato affare o la tutela
di un particolare interesse (si pensi all’elezione di domicilio presso lo studio del proprio difensore in una controversia giudiziaria).
La residenza, come abituale dimora, è nozione che si basa principalmente sull’elemento di fatto della presenza fisica della persona. Particolare e significativa specificazione è la residenza familiare (art. 144), sede della famiglia. I coniugi scelgono in comune la fissazione della residenza della famiglia, anteponendo gli interessi di questa
agli interessi personali di ambedue. La residenza della famiglia determina per i figli
minori il domicilio necessario, appunto nel luogo della residenza familiare.
La nozione di dimora non è disciplinata dal codice, ma si ricava dalla lettura del
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capoverso dell’art. 43. Si tratta del rilievo giuridico che viene talvolta attribuito al
luogo di temporaneo soggiorno, purché non si tratti di mera occasionalità. Per intendersi, si tratta di dimora il luogo di vacanza estiva, ma non la permanenza di due giorni in albergo. Una legge speciale (d.l. 59/1978), che regola alcune norme per la prevenzione di «gravi reati» (erano gli anni dei sequestri di persona a scopo di estorsione
e di terrorismo politico), aveva previsto l’obbligo di comunicare all’autorità locale le
generalità di persone a vario titolo (acquirenti, conduttori, ospiti temporanei) presenti dopo 48 ore nel territorio del comune.
7. L’acquisto e la perdita della capacità di agire
Con la maggiore età, la capacità della persona, che il codice chiama capacità di
agire (art. 2), diviene completa. Nel senso che «si acquista la capacità di compiere tutti
gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa». Dunque, si possono compiere da
solo gli atti ed esercitare i diritti dei quali il soggetto era titolare dal momento della
nascita (ed anche prima). Alla titolarità si aggiunge il potere dell’esercizio effettivo e
diretto. La dottrina italiana è solita tenere distinti i due concetti di capacità e quello
di soggettività, anche se ne rileva una sostanziale analogia concettuale. Talché, si potrebbe dire che la vera capacità si acquista con la piena attribuzione dei poteri colla
maggiore età, restando l’altra espressione indicativa di una qualità della persona in
quanto tale, e dunque per lo più pleonastica.
L’acquisto della capacità di agire colla maggiore età suppone la maturità psichica
e fisica che la legge reputa acquisita al compimento del diciottesimo anno.
Un riferimento a questa attitudine materiale è data dall’art. 414 che parla di capacità di «provvedere ai propri interessi», oppure dall’art. 1389 che parla di «capacità di
intendere e di volere».
Anche riguardo alla capacità di agire si opera dunque il medesimo automatismo
che abbiamo visto ricorrere per l’acquisto della capacità giuridica. Come in questa
era il solo fatto della nascita, così adesso il decorso del tempo attribuisce la piena capacità a tutti i soggetti, per il sol fatto del compimento della maggiore età.
Il compimento della maggiore età abilita il soggetto a porre in essere tutti gli atti
per i quali non sia richiesta un’età diversa. Un’età inferiore, cioè il sedicesimo anno è
prevista per gli atti relativi alle opere dell’ingegno, per il riconoscimento di figli naturali (art. 250), per contrarre matrimonio con l’assenso del tribunale (art. 84).
Un discorso parzialmente diverso va fatto a proposito della capacità a stipulare
contratti di lavoro. La materia del rapporto di lavoro subordinato in relazione ai minori ha avuto nel corso degli anni notevoli variazioni rispetto alle regole della capacità del soggetto. La disciplina attuale (l. 39/1975) conferma la maggiore età come età
necessaria alla valida stipulazione del contratto di lavoro subordinato. Tuttavia vengono fatte salve le leggi speciali che stabiliscono un’età diversa «in materia di capacità
a prestare il proprio lavoro» e che abilitano il minore a stare in giudizio per la tutela
dei diritti relativi al rapporto di lavoro (art. 2). Colui che ha compiuto i quindici anni
può prestare lavoro subordinato, anche se il contratto dovrà essere stipulato dal legale rappresentante: ma egli potrà esercitare direttamente i diritti e le azioni che derivano dal rapporto.
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La capacità di agire può essere limitata ovvero soppressa, contrariamente a quanto
avviene per la capacità giuridica: alla quale la Costituzione repubblicana dedica, con
finalità di ordine politico generale, una norma apposita, l’art. 22: «Nessuno può essere
privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».
L’ipotesi di perdita totale o parziale della capacità di agire sono elencati sotto
l’espressione di incapacità legale.
La legge in questa ipotesi accerta direttamente l’attitudine e le condizioni del soggetto idonee all’esercizio della capacità, come nel caso dell’interdizione o dell’inabilitazione; ovvero attraverso una presunzione, come nel caso della minore età.
8. La minore età. L’interdizione e l’inabilitazione
La posizione del soggetto che non ha compiuto la maggiore età è genericamente
indicata come quella del soggetto legalmente incapace. Il minore, al pari dell’interdetto e dell’inabilitato, è considerato dal sistema come soggetto non idoneo ad esercitare i diritti ed i doveri di cui è pur titolare. Come per la maggiore età, anche per il
minore rileva la presunzione secondo la quale colui che non abbia compiuto il diciottesimo anno non ha raggiunto la maturità fisica e mentale idonea. Come vedremo più
avanti (cap. XXI), la posizione del minore è definita dall’art. 316, secondo il quale «il
figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino alla maggiore età o all’emancipazione».
L’effetto principale della norma, per quel che riguarda i problemi di capacità, riguarda il potere di rappresentanza che la legge affida ai genitori, ed in virtù del quale
il minore si collega e si inserisce all’interno della famiglia: i problemi di capacità del
minore vengono risolti con l’attribuzione ai genitori del potere di rappresentanza (v.
infra, cap. XXI).
Qui importa solo rilevare che gli atti posti in essere dal minore, a pari degli atti
posti in essere da altri soggetti incapaci di agire, sono annullabili (art. 1425). Una
norma, tuttavia, l’art. 1426, pone in risalto (e forse anche in dubbio) la relatività della
nozione di incapacità del minore. Essa, contrariamente a quanto affermato dall’articolo precedente, dichiara valido il contratto stipulato dal minore che con raggiri ha
occultato la sua minore età: il principio dell’incapacità legale del soggetto che non ha
compiuto la maggiore età subisce una deroga nel comportamento che il soggetto pone in essere, dimostrando di aver raggiunto una sorta di emancipazione di fatto.
Minore emancipato è il minore che ha contratto matrimonio (art. 390). L’emancipazione consente al minore di compiere da solo tutti gli atti di ordinaria amministrazione (art. 394). Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è necessario il consenso del curatore e l’autorizzazione del giudice tutelare. L’emancipato può essere
autorizzato dal tribunale all’esercizio di un’impresa commerciale (art. 397): in questo
caso egli acquista la piena capacità di agire. È opportuno tuttavia rammentare come
l’abbassamento della maggiore età al diciottesimo anno (il codice del 1942 indicava la
maggiore età al ventunesimo anno) ha ridotto a queste due sole ipotesi l’istituto dell’emancipazione. Il quale in origine prevedeva (all’art. 391 ora abrogato) l’emancipazione per provvedimento del giudice tutelare per il minore che avesse compiuto i diciotto anni; in tal modo affidando al giudice un potere di accertare una graduazione
della capacità del minore.
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La capacità di agire, attribuita indifferentemente a tutti i soggetti che hanno raggiunto la maggiore età, può essere, allorché ricorrano determinate condizioni, soppressa o limitata. Abbiamo detto che ricorre una presunzione generale secondo la
quale colui che ha compiuto il diciottesimo anno ha raggiunto la maturità fisica e psichica necessaria all’esercizio della sua attività giuridica. Il sistema si riserva tuttavia il
potere di escludere o limitare questa capacità ai soggetti che si dimostrino non essere
capaci di intendere e di volere, rendendoli così in concreto inidonei a quell’esercizio.
Interdizione e inabilitazione sono gli istituti con i quali il giudice accerta e stabilisce
la limitazione totale o parziale della capacità di agire del soggetto. La l. 6/2004 che ha
introdotto in Italia la nuova disciplina dell’amministrazione di sostegno, e della quale si
dirà poco più avanti, ha modificato il titolo XII del Libro I del codice: «Delle misure di
protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia». Il Capo II è dedicato
alle misure tradizionali dell’incapacità, dove la nuova legge ha introdotto notifiche significative al riguardo, pur lasciando inalterata la struttura della disciplina. L’art. 414
dice che coloro che si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende
incapaci di provvedere ai propri interessi «sono interdetti quando ciò è necessario per
assicurare la loro adeguata protezione». Converrà osservare che la rubrica dell’art. 414
ha subito una modifica rilevante: parla delle persone che possono essere interdette. La
precedente dizione era invece: persone che devono essere interdette.
L’interdizione determina una situazione di incapacità legale, al pari di quella del
minore. Al riguardo, il codice opera una sorta di equiparazione tra l’incapacità del
soggetto derivante dall’età ed incapacità del soggetto derivante dallo stato di salute
mentale.
Quando l’inidoneità del soggetto alla cura dei propri interessi è determinata da infermità di mente, l’interdizione giudiziale è dunque intesa come misura di protezione.
Il sistema intende proteggere il soggetto incapace dai danni che egli può produrre a
se stesso, ovvero che terzi possano arrecare all’incapace.
L’interdizione legale discende invece come effetto di una condanna penale (art. 32
c.p.). Essa costituisce una pena aggiuntiva a carico della persona, non già dunque una
misura di protezione.
L’inabilitazione produce una diminuzione della capacità di agire del soggetto ed
ha come presupposti di fatto handicap fisici (cecità, sordomutismo) non superati da
un’educazione specifica; oppure condizioni di incapacità non permanente e teoricamente superabili, come l’alcolismo, l’uso di droga; ovvero ancora infermità di mente
non così grave da far luogo all’interdizione. La condizione giuridica dell’inabilitato è
assimilabile a quella del minore emancipato: può compiere da solo atti di ordinaria
amministrazione. Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possono essere annullati su istanza dell’inabilitato o dei suoi eredi o aventi causa (art. 427).
9. Gli istituti di protezione dell’incapacità legale
Le limitazioni che la legge pone all’esercizio dei diritti da parte delle persone fisiche (diversamente dalle persone giuridiche) sono determinate principalmente, se non
esclusivamente, da un’esigenza di protezione. Limitando totalmente o parzialmente la
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capacità d’agire di taluni soggetti, la legge intende predisporre alcune tutele a favore
di essi nei confronti di tutti gli altri soggetti del diritto e del sistema giuridico in generale.
Conseguenza principale che gli istituti di protezione fanno discendere a favore del
soggetto è la inefficacia giuridica degli atti da questi posti in essere.
La difficoltà o l’impossibilità all’attività giuridica conseguente la limitazione totale
o parziale della capacità di agire viene dalla legge risolta attraverso il conferimento di
poteri ad altri soggetti, destinati a sostituirsi all’incapace nell’esercizio dei diritti. Si
tratta di uno strumento giuridico, la rappresentanza, volto a permettere l’attività giuridica ai soggetti incapaci per mezzo dell’azione di sostituti.
La sostituzione può avvenire automaticamente, perché la legge già prevede ed indica quali sono i soggetti incaricati all’agire: come nella potestà dei genitori per i figli
minori.
Oppure, in altri casi, la legge assegna al giudice il potere di indicare i soggetti
chiamati a questo ufficio, e sono i casi della tutela e della curatela.
a) La potestà dei genitori sui figli minori, che non hanno compiuto il diciottesimo
anno, e non emancipati.
Gli articoli del codice, 315 e ss., che disciplinano i poteri dei genitori nei confronti
dei figli, distinguono due fasce di potere, una di natura personale, l’altra di natura
patrimoniale. Nella prima si comprendono i doveri di custodire, allevare, educare,
istruire; di fissare la residenza della famiglia (che costituisce per il minore il domicilio
necessario); e la rappresentanza legale «in tutti gli atti civili» (art. 320), sia dunque di
natura personale che di natura patrimoniale.
Potere di natura esclusivamente patrimoniale è quello che la legge conferisce ad
entrambi i genitori per l’amministrazione dei beni e per l’usufrutto legale sui beni dei
figli (art. 324). Sui frutti percepiti vi è un vincolo di destinazione, nel senso che i genitori hanno l’obbligo di destinarli al mantenimento della famiglia e all’educazione dei
figli medesimi.
Anche gli altri poteri di cui i genitori sono titolari incontrano i limiti di disposizione della preventiva autorizzazione del giudice tutelare e della «necessità o utilità
evidente» per il figlio (art. 320).
(Sul punto v. oltre, cap. XXI § 6).
b) Tutela dei minori e degli interdetti. L’istituto della tutela, che tradizionalmente
viene indicato come ufficio tutelare, obbedisce ad una funzione suppletiva dell’attività
giuridica. Allorché manchi chi assuma la potestà dei genitori, ovvero venga tolta la
capacità di agire per causa di infermità mentale, l’ordinamento provvede alla sostituzione nelle attività mediante altri soggetti: in ciò obbedendo ad una ricorrente esigenza, secondo la quale il sistema giuridico mal sopporta posizioni soggettive o situazioni
reali sospese o di incerta definizione.
La tutela viene «aperta» presso il giudice tutelare procede alla nomina del tutore
e del protutore, secondo un criterio di designazione predeterminato, seguendo le indicazioni del genitore, o dei parenti prossimi, o del giudice medesimo. Il protutore
rappresenta il minore (o l’interdetto) nel caso di conflitto di interessi tra questi e il
tutore (art. 360).
L’ufficio tutelare è gratuito ed irrinunciabile, e svolge a parere di molti una fun-
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COSIMO MARCO MAZZONI
zione pubblica, la quale si esplica in attività di esecuzione delle direttive del giudice
tutelare. Queste attività riguardano sia la sfera personale dell’incapace (con esclusione ovviamente per gli interdetti legali, cioè coloro che sono condannati ad una pena
detentiva), come la sfera patrimoniale.
Il potere che per l’esercizio di queste attività esercita il tutore è quello della rappresentanza, potere che appunto consente l’agire in nome altrui (v. cap. LV).
Il tutore ha la cura della persona del minore o dell’interdetto, lo rappresenta in
tutti gli atti civili e ne amministra i beni (art. 357).
c) Curatela dei minori emancipati e degli inabilitati. Se la funzione che la legge attribuisce al tutore è quella di sostituzione nell’esercizio di diritti nei confronti di un
soggetto che risulta carente di potere, la funzione del curatore è invece quella di integrare una capacità di agire che la legge, o il giudice, ha semplicemente limitato ma
non soppresso. Così si dice che il curatore interviene ad integrare la volontà dell’inabilitato o dell’emancipato. Essi possono tuttavia compiere da soli una serie di atti,
perlopiù di carattere personale, e se di natura patrimoniale non eccedenti l’ordinaria
amministrazione. Il curatore assiste nell’amministrazione dei beni. Per gli atti di straordinaria amministrazione l’attività di controllo del curatore non è sufficiente, necessitando l’autorizzazione del giudice tutelare e, per gli atti dispositivi, l’autorizzazione
del tribunale. Gli atti sono elencati agli artt. 374 e 375.
Il trattamento della disciplina delle incapacità, cui sono preposti gli uffici della tutela e della curatela (vengono anche chiamate incapacità assoluta ed incapacità relativa, in ragione della perdita totale o parziale del potere di agire), si completa con le
regole dettate per la loro inosservanza. Gli atti compiuti dall’incapace legale sono annullabili (artt. 427 e 1425) (v. cap. LVIII § 16).
10. L’incapacità naturale
Abbiam detto che presupposto affinché si possa procedere alla dichiarazione di
interdizione o di inabilitazione è lo stato di infermità mentale totale o parziale della
persona. Non sempre alla incapacità legale corrisponde lo stato effettivo di incapacità
del soggetto. In certi casi il minore, incapace legalmente, può benissimo e perfettamente essere in grado di provvedere ai propri interessi, al pari e più di molte persone
fornite della piena capacità di agire. All’inverso, colui a cui la legge attribuisce la piena capacità può non essere capace di intendere e di volere. L’ipotesi più frequente è
quella dell’infermo di mente, nei confronti del quale non è stato provveduto alla dichiarazione di interdizione o di inabilitazione. Si tratta di ipotesi frequentissime nella
realtà italiana di oggi.
La legislazione italiana in tema di protezione dei disabili, degli incapaci, dei soggetti deboli, era fino a pochi anni fa largamente incompleta. È intervenuta adesso la l.
6/2004 sull’amministrazione di sostegno. Gli istituti di protezione legale, cioè l’interdizione e l’inabilitazione, vengono sempre meno utilizzati e solamente nei casi più
gravi. Di fatto, più che ad una protezione effettiva del soggetto, questi istituti assolvono alla finalità di escluderlo totalmente dalla comunità sociale e dal commercio giuridico. Ricorre frequentemente dunque la situazione in cui ad una carenza effettiva, na-
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turale, di capacità a causa di malattia mentale corrisponde l’attribuzione della piena
capacità di agire, in quanto si preferisce non intervenire con un provvedimento giudiziale, quasi sempre irrevocabile, di soppressione della capacità. Altre volte la carenza
di capacità di intendere e di volere è determinata da cause transitorie, sia momentanee che durevoli nel tempo. Si pensi alla condizione psico-fisica del soggetto che fa
uso continuativo di alcool, di droga.
Per queste ipotesi, cioè per tutte le ipotesi in cui alla capacità legale non corrisponde la capacità naturale del soggetto, soccorre una norma importante del nostro
codice, l’art. 428. Il quale afferma che gli atti posti in essere da persona pur capace
legalmente ma al momento del compimento dell’atto incapace di intendere e di volere
il significato economico e giuridico della propria attività, sono annullabili su istanza di
lui, dei suoi eredi od aventi causa. Si chiama incapacità naturale, o non dichiarata, e
per poter essere fatta valere necessita della prova a carico di chi ha interesse all’annullamento dell’atto. La norma trova specificazioni ed applicazioni in materia di annullabilità del contratto (art. 1425), come causa di annullamento del matrimonio (art. 120),
del testamento (art. 591), della donazione (art. 775).
La norma ricordata dell’art. 428 stabilisce che ai fini dell’annullamento dell’atto
posto in essere dal soggetto incapace (incapace al momento del compimento dell’atto) risulta per lui «un grave pregiudizio». Essa distingue tra «atti», di cui parla al comma 1, e «contratti» di cui al secondo: per questi ultimi, oltre al pregiudizio, è richiesta
anche la mala fede dell’altro contraente. La norma ricorda molto da vicino le norme
dettate in materia di errore (artt. 1425 e ss.) su cui vedi più avanti (cap. LVII). È opportuno tener presente tuttavia che la giurisprudenza interpreta l’elemento della mala
fede dell’altro contraente come sufficiente all’annullabilità del contratto, sembrando
la prova del danno assorbita in quello.
Anche lo strumento dell’art. 428 si rivela dunque essere un mezzo di protezione
dell’incapace di intendere e di volere successivo al compimento dell’atto cui deriva
un pregiudizio e riparatorio del danno sofferto.
La disciplina, assai delicata per le connessioni che intercorrono con i profili costituzionali di tutela della salute della persona (art. 32 Cost.) (v. infra, cap. X), è stata
resa più elastica dalla giurisprudenza recente, la quale ha inteso l’incapacità come
menomazione psichica, e non solo come totale perdita delle facoltà mentali.
La l. 6/2004 introduce in Italia, sulla scorta delle esperienze di altri paesi europei
e in special modo della Francia, la già ricordata amministrazione di sostegno. A questa disciplina è dedicato il capo I del titolo XII. La tecnica legislativa usata in questo
caso è stata quella dell’inserimento della nuova disciplina all’interno del codice civile.
È una tecnica che ha prodotto vantaggi sistematici notevoli, sperimentata con successo soprattutto nel Libro I del codice in molte altre circostanze. La legge introduce
una figura nuova, l’amministratore di sostegno. Non si tratta di una figura intermedia
tra il tutore ed il curatore preposti alla protezione degli interdetti e degli inabilitati.
La lunga pratica di quegli istituti ha dimostrato negli anni la loro relativa inefficacia.
Se si pensa che per la maggior parte dei soggetti infermi di mente non si ricorre, se
non in casi rari, all’interdizione e all’inabilitazione; e che la più parte degli infermi di
mente risulta pienamente capace di agire, si può facilmente comprendere la ragioni
che hanno spinto il legislatore ad introdurre l’amministrazione di sostegno. La quale
muove dunque da ragioni diverse dai tradizionali istituti di protezione. La protezione
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COSIMO MARCO MAZZONI
in questo caso non toglie capacità di agire ai soggetti per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza dell’amministratore di sostegno; e «il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana» (art. 409). All’amministrazione di sostegno possono accedere anche soggetti interdetti o inabilitati; in questi casi il giudice tutelare
provvede alla revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione.
11. Le condizioni della persona: gli status, la cittadinanza, gli stati familiari
L’appartenenza del soggetto ad una comunità che abbia i caratteri della durevolezza nel tempo e della necessità viene solitamente definita come status. Le qualità o
le attitudini soggettive che collegano la persona ad una collettività valgono a determinare il grado di colleganza, il legame, che intercorre tra questa e quella.
Storicamente la parola status è servita ad identificare la condizione giuridica permanente e necessaria di talune categorie di soggetti. Il diritto romano conosce tre status fondamentali: lo status libertatis, lo status familiae, lo status civitatis. Il primo distingue gli uomini liberi dagli schiavi e distingue così i soggetti del diritto da coloro
che in quel sistema non sono forniti di personalità; il secondo indica l’appartenenza
alla comunità familiare e regola i rapporti e le gerarchie di quell’appartenenza; il terzo indica l’attribuzione della qualifica di civis romanus in contrapposizione a tutti gli
altri soggetti, i peregrini.
Appartenenza ad uno status significa obbligatorietà, coercizione, necessità. «Comunità necessitate», come anche sono stati chiamati gli status, identificano il modo
attraverso il quale il soggetto è riconosciuto e rappresentato nella società, indipendentemente e malgrado la propria volontà. Si è cittadini italiani perché si è nati in Italia o da genitori italiani; si appartiene a quel nucleo familiare e si porta quel nome
perché si è nati nella famiglia fondata sul matrimonio. Quando la nascita, e basta, all’interno di un ceto sociale serviva non solo ad identificare il soggetto in base al suo
status, ma ad attribuirgli poteri giuridici particolari, ovvero a limitarli o sopprimerli,
allora l’uso della parola rivestiva un significato esteso all’intera organizzazione dello
Stato. Si pensi allo Stato francese anteriore alla rivoluzione.
La storia dell’evoluzione, e poi dell’espandersi ed ancora del distinguersi della
nozione di status è per buona parte il percorso storico della nostra civiltà dall’antica
distinzione romanistica ad oggi. Se provassimo a studiare quel percorso storico sotto
il profilo del modo col quale l’individuo è stato identificato nella società, cioè del
grado di appartenenza dell’individuo ad una comunità politica, o ad una categoria
professionale, o ad un ceto sociale, studieremmo appunto l’evoluzione della nozione
di status.
Un giurista anglosassone deve la propria popolarità all’invenzione di una formula
con la quale ha sintetizzato mirabilmente quel percorso: «dallo status al contratto».
Le tappe fondamentali con le quali si è sviluppato il progresso sociale dell’umanità sono segnate quasi tutte dalla direzione indicata in quell’espressione. E i momenti di arresto o di sospensione di quel percorso hanno rappresentato i momenti in cui
la libertà e dunque la volontarietà verso l’aggregazione sociale diminuiva o scompariva del tutto per far posto alla coercizione, alla obbligatorietà, alla necessità di parte-
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cipazione, di appartenenza al gruppo sociale, all’etnia, alla razza, alla categoria di lavoro o professionale, ecc. Si pensi alla condizione degli ebrei nella storia dell’Occidente; si pensi, per fare l’esempio che ha un significato giuridico più vicino alla nostra esperienza storica, allo Stato corporativo instaurato in Italia con la Carta del Lavoro del 1927. Le attività economiche e produttive sono organizzate in categorie, ad
ogni categoria corrisponde una corporazione. La partecipazione e l’ingresso nella
corporazione è necessaria, cioè obbligatoria. Non si tratta di un’associazione alla quale il soggetto può, se vuole, aderire: non è un sindacato. La corporazione identifica,
per poi qualificarlo giuridicamente, il soggetto in virtù della sua attività, del suo modo di essere nella società.
Un giurista italiano ha sottolineato la tendenza recente ad un percorso inverso, la
tendenza alla rinascita di stati personali: «il bisogno individuale di sicurezza prevale
sulla tensione alla libertà». Alla soddisfazione di bisogni individuali e alla risoluzione
di conflitti personali la società di massa ha sostituito la più forte esigenza della parità
di trattamento, della considerazione eguale per situazioni eguali. Nasce ieri e si svolge
oggi la tendenza all’organizzazione di interessi collettivi ove prevale l’interesse all’appartenenza al gruppo piuttosto che quello alla diversità individuale. È stato ricordato
l’esempio della sostituzione del modello individuale di contratto alla contrattazione
di serie, accessibile ad una massa indifferenziata di soggetti, tutti portatori di un identico interesse; e così i moderni sistemi di sicurezza sociale, o di assicurazione obbligatoria per particolari forme di rischio. Sono tutte manifestazioni che sembrano denunciare «le vie del ritorno dal contratto agli status».
Conviene soffermarsi su un paio almeno degli status, ove l’appartenenza si carica
di particolari significati giuridici, anche nel nostro odierno sistema, cioè la cittadinanza e la famiglia. Anche l’appartenenza allo stato familiare, anzi agli stati familiari,
mantiene intatta la sua valenza giuridica, illuminata dalla norma costituzionale (art.
29 Cost.) e resa effettiva con la riforma del diritto di famiglia (l. 151/1975).
La cittadinanza è regolata da una legge recente (l. 91/1992) che ridefinisce interamente la materia prima regolata da una legge del 1912. I modi di acquisto della cittadinanza italiana, conformi ad una tradizione risalente, sono tre. La comunicazione:
per matrimonio o per filiazione. L’originario acquisto automatico da parte della moglie e dei figli della cittadinanza del paterfamilias è ora sostituito dalla volontà del
soggetto che acquista o perde la cittadinanza in virtù del matrimonio o della nascita.
È cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini; per nascita nel territorio
della Repubblica il figlio di ignoti o di genitori apolidi. Il beneficio di legge: la legge
prevede l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero o dell’apolide figlio di
padre o di madre, ovvero di avo già cittadino per nascita; e così dello straniero nato
in Italia. La naturalizzazione è infine il modo di acquisto della cittadinanza prevista
per lo straniero che abbia prestato lavoro alle dipendenze dello Stato per almeno cinque anni, ovvero abbia risieduto nel territorio della Repubblica da almeno quattro
(per i cittadini di paesi membri della Unione Europea) o dieci anni (per gli altri).
È necessario menzionare che il Trattato di Maastricht prevede l’acquisto di una
«Cittadinanza dell’Unione», e dunque di un nuovo status di cittadino europeo, cui
vengono collegati nuovi diritti politici a tutti i cittadini di uno Stato membro dell’Unione Europea.
Degli stati familiari ci occuperemo anche nel capitolo dedicato al diritto di fami-
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