ALLA FINE DEL GIOCO
Introduzione all’ascolto della musica progressiva inglese (1965 - 1974)
Introduzione
Polvere
nidi di rondine
e arbusti
strappati
sta soffiando un gelido vento dal nord
questa notte
copre le grida disperate
di bocche impastate
di terra
scalfisce le guance
entra dal collo
e dagli occhi
e non esce più
per Nick Drake (19.6.1948 / 25.11.1974)
AT
LAST I’M FREE
Ad un certo punto pensavo di non riuscire più a finirlo.
Quello che all’inizio sembrava un gioco divertente, un passatempo inebriante, giorno dopo
giorno diventava sempre più un’ossessione, un lavoro, un obbligo (verso me stesso). Tanto da
non riuscire a capire il perché, in quel preciso momento, di dover ascoltare due o tre volte di
fila In the court of the Crimson King o Third dei Soft Machine quando il pensiero e la voglia
correvano frenetici sui Doors o, che so, su La mela di Odessa degli Area.
E mia figlia a supplicare di ascoltare la Tina, Edoardo e Foxy lady con sul piatto Sysyphus da
Ummagumma.
Alla fine l'ho fatto. Dopo oltre un anno di errori e ripensamenti, dopo una ricerca infinita (e
ancora incompleta) una cosa mi è parsa chiara : è impossibile scrivere di musica, o meglio, è
tremendamente difficile spiegare con il “ruvido” materialismo dei vocaboli le mille sensazioni,
le emozioni a 360 gradi che la musica è capace di generare.
Mi tornano in mente le considerazioni di Glen Sweeney incluse nelle note di copertina di
Alchemy, il primo album della Third Ear Band, che ammoniscono sull’inadeguatezza delle
parole nel descrivere gli elementi portanti della musica del gruppo.
Comunque, scrivere di musica è necessario, comunicare agli altri la propria esperienza
d'ascoltatore (attivo ?), e se solo fossi riuscito a riversare nelle mie considerazioni il 10 % di
ciò che provo quando ascolto, allora potrei considerare riuscito il lavoro svolto. E il bello è che
nessuno lo può dimostrare, perché la musica non solo “vibra nelle ossa ed entra nella pelle”
ma s'insinua, spesso in modo subdolo, nei reconditi e impenetrabili ingranaggi che regolano il
funzionamento del sentimento e dell’emozione.
Non è certo un capolavoro questo libro, ma mi piacerebbe fosse considerato un lavoro onesto,
come l’opera della media dei musicisti che vi sono citati e dal momento che sono testardo
credo che ci riproverò, ancora tenterò di dar forma a qualche progetto che mi passa in zucca
perché la musica è vita e la vita, tutto sommato, è bella.
Un grazie di cuore, per la sopportazione, a Maura e Alice.
Nota introduttiva
Intanto è utile trovarsi d’accordo sul significato del termine “musica progressiva”, oppure
può anche non verificarsi conformità di opinioni ma una definizione a rigor di termine
musicale appare necessaria.
Di norma si tende a considerare “progressivi” complessi o singoli musicisti (e le loro
proposte sonore) appartenenti al fenomeno del rock romantico e sinfonico, quello che prende
le mosse dal neoclassicismo dei Beatles per giungere (attraverso una precisa fase evolutiva) a
formazioni quali Genesis, Yes, E L & P e simili.
“L’arte non è uno specchio - è un martello”, è il principio generale sentenziato da John
Grierson sulla copertina di In praise of learning degli Henry Cow. Facendo interagire queste
parole con il concetto di “musica progressiva”, potremmo considerare lo specchio come
edonistica e immobile riflessione di un’immagine sonora prestabilita mentre il martello, in
quanto umile strumento di lavoro, risulterebbe utile per l’esecuzione di piccole modifiche
strutturali, necessario al divenire faticoso delle note sul pentagramma.
Se il significato del termine “progressivo” sta per qualcosa che tende a progredire, che
procede lentamente e continuamente in senso evolutivo, allora qualcuno deve spiegare perché
(a puro e semplice esempio) vanno considerati progressivi i Genesis e non gruppi quali Who o
Led Zeppelin, sicuramente più importanti e decisivi sotto questo aspetto.
Si tratta, chiaramente, di uno dei tanti luoghi comuni del rock, dell’esigenza di etichettare,
catalogare, di rendere commerciabile un prodotto musicale.
Credo che gli artisti che hanno contribuito allo sviluppo della musica inglese, che hanno
lavorato “in progressione”, rappresentino una ben più vasta platea d’interesse. Non tutti
(anzi, quasi nessuno) hanno sviluppato interamente la carriera alla continua ricerca di un
accrescimento creativo della forma musicale (e l’esempio eclatante viene proprio dall’ambito
romantico-sinfonico) ; l’attitudine progressiva di molti va rintracciata in una parte
dell’attività, a volte in un singolo episodio.
E’ quindi obbligatorio calarsi nella complessità della musica rock inglese (o meglio britannica,
perché di questa si disquisisce) e non tragga in inganno la grande quantità di nomi citati :
questa non vuole essere, e non è, una storia del rock inglese, ma solo il resoconto del suo
aspetto progressivo.
Non c’è tutto, non è un’enciclopedia. Nemmeno mi piace chiamarla guida, sa troppo di
itinerari predisposti e comandati.
Una “traccia introduttiva all’ascolto della musica progressiva inglese” mi pare possa cogliere
il senso di queste righe, sufficientemente articolata, strumento utile a stimolare l’approccio (o
un sempre vantaggioso ricordo) verso un mondo musicale estinto ma ancora in grado di
trasmettere emozioni, di offrire input basilari alle nuove generazioni di appassionati.
Come già accennato, qui si parla di musica britannica e non mancano le inevitabili
eccezioni.
Lo sappiamo tutti, ad esempio, che Jimi Hendrix è nato a Seattle e ha girato gli Stati Uniti in
lungo e in largo per anni prima di essere casualmente “scoperto” da Chas Chandler. Non si
può però dissentire sul fatto che l’Experience vada considerata una formazione inglese, non
tanto per la presenza di Redding e Mitchell (che da soli...), quanto per la precisa collocazione
storico - musicale e geografica che interessa il complesso nella parte iniziale della carriera.
Chi può ragionevolmente affermare che Hendrix sarebbe divenuto lo stesso musicista di
successo mondiale, punto di riferimento essenziale per lo sviluppo della chitarra rock, che
avrebbe suonato la stessa musica e pubblicato un disco come Are you experienced ? se non
avesse seguito il consiglio di Chandler di recarsi in quella Londra piena di fermento, nel
settembre del 1966 ?
Si tratta di un preciso periodo storico : 1965 / 1974.
Ovviamente tale lasso di tempo non deve essere considerato come una sorta di esercizio
provvisorio del rock, che inizia al primo di gennaio del ’65 e termina il 31 dicembre 1974. Più
semplicemente si intende il 1965 come l’anno nel quale si vengono a concretizzare in modo
compiuto le prime forme complesse di musica rock e il 1974 rappresenta una possibile, ideale
chiusura di un decennio musicale irripetibile, la fine di un movimento che arranca in preda
ad una irreversibile decadenza creativa, del quale l’avvento del punk rock farà sommaria
giustizia.
All’ordine alfabetico dei nomi ho preferito una trattazione per capitoli e (per quanto
possibile) per “categorie omogenee”, con la presenza di un sommario discografico che non
vuole arrogarsi la pretesa dell’infallibilità ma certamente costituisce una corposa base di
partenza (con gli oltre 300 titoli consigliati) per chi vuole entrare in contatto con la parte
migliore del rock britannico.
Molti degli album citati sono oggi delle vere e proprie rarità reperibili, nell’originale versione
in vinile, esclusivamente nei vari mercatini dell’usato e dei dischi da collezione, a prezzi spesso
proibitivi.
E’ in ogni caso possibile, con un po’ di ricerca (e di fortuna, elemento sempre necessario per
fruire di musica in Italia), riuscire ad ascoltare il prezioso contenuto di questi lavori
rivolgendosi al settore delle ristampe.
Tra le principali etichette specializzate in riedizioni di vecchio e, a volte, dimenticato
materiale si possono segnalare Edsel, B.G.O., See for Miles, Repertoire che da qualche anno a
questa parte pubblicano quasi esclusivamente nel formato CD.
Certo, gli originali odorano (o puzzano) di storia ma ciò che veramente importa, alla fine, è
l’approccio alla bellezza, alla poesia, alla vitalità, alle emozioni che questa musica è ancora
capace di comunicare.
A New Day Rising
dal beat alla musica progressiva
Nella storia della musica, in realtà, una nuova alba non è mai esistita. Il concetto di
invenzione, di creazione dal nulla in questa materia appare fuori luogo ; dopo tanti eventi a
sensazione dobbiamo allenarci a ragionare nell’ottica del divenire, ad esaminare i piccoli e
grandi cambiamenti progressivi che traggono il loro valore aggiunto dal preesistente con
l’ausilio di figure di rilievo e di oscuri praticanti, di luminari e di imbonitori, tra grandi gioie e
sconfinate delusioni. E non può essere altrimenti se è esatto, come sosteneva Jacques Attali,
che “il mondo non si guarda, si ode - non si legge, si ascolta”, se è vero che la musica non è la
colonna sonora della nostra vita ma è il fluire dell’esistenza stessa.
A maggior ragione l’opinione pare valida per la musica rock, tipica espressione di sintesi
sonora, di fusione tra stili diversi riannodati su nuove metriche : a volte si tratta di prospettive
inedite, in altri casi di sfumature.
Verso la metà degli anni Cinquanta i maggiori musicisti americani di rock’n’roll (Elvis
Presley, Bill Haley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Little Richard, Chuck Berry ...) iniziano ad
ottenere grande successo nelle classifiche di vendita inglesi e di riflesso nascono i primi
cantanti indigeni del genere. I vari Cliff Richard, che si fa accompagnare da un gruppo
chiamato Shadows, Lonnie Donegan e simili non fanno comunque molto per tentare di
mascherare quella che si configura come una fase di chiara importazione culturale per la
musica inglese. Il loro successo commerciale risulta oltremodo importante per convincere una
moltitudine di aspiranti giovani musicisti a prendere in mano gli strumenti e confrontarsi con
i suoni che provengono da oltre oceano.
Lo sviluppo dal rock’n’roll alle prime forme compiute di linguaggio rock avviene nella
parte iniziale degli anni Sessanta seguendo due principali direttrici : il beat melodico e il blues
revival.
-1Il beat è una forma musicale direttamente derivata dal rock’n’roll degli anni ’50, con
una forte componente ritmico - melodica e un approccio piuttosto commerciale, anche come
genere da ballo. Nei primi tempi, il fulcro della musica beat si localizza nella zona del
Lancashire, in particolare nelle città di Liverpool e di Manchester, dove assume la
denominazione di Mersey Sound.
Da Manchester provengono gli Hollies di Graham Nash, dalla rigogliosa scena di Liverpool
gruppi quali Searchers, Gerry and the Peacemakers, Merseybeats, Big Three. In questo
contesto l’unica formazione che nel tempo riesce a sviluppare in modo significativo, e con
clamore irripetibile, le coordinate sonore di base della propria musica è quella dei Beatles.
John Lennon, Paul McCartney e George Harrison iniziano nel 1956 in una formazione
denominata Quarrymen e agli albori del nuovo decennio sono ancora insieme nei Silver
Beatles, che comprendono anche Stuart Suttcliffe (morirà nell’aprile ’62 a causa di
un’emorragia cerebrale) e il batterista Pete Best.
Nell’autunno 1961 incontrano Brian Epstein, che si propone come manager e riesce a
procurare al gruppo l’occasione di un provino per la Decca, effettuato il primo gennaio del
1962. I responsabili della casa discografica commettono il grave errore di non credere alle
potenzialità del quartetto di Liverpool, che riscuote maggior fortuna presso l’etichetta
Parlophone (del gruppo Emi) : qui lavora George Martin che diventa il produttore dei
Beatles.
L’ultimo avvicendamento in formazione riguarda il ruolo di batterista coperto da Ringo
Starr, a seguito dell’allontanamento di Best.
Il 5 ottobre 1962 viene pubblicato il primo 45 giri Love me do che ottiene un buon successo
entrando nei top 20 e i singoli del 1963 impongono i Beatles ai vertici delle classifiche inglesi.
In questa fase, la loro musica si basa su un serrato incrocio ritmico di rock’n’roll e twist, con
arrangiamenti semplici ed esaltanti armonie vocali tesi a generare un impatto estremamente
coinvolgente. Fondamentale è l’affermazione come compositori della coppia Lennon /
McCartney, che sin dalle prime uscite impone pezzi di propria produzione in un periodo nel
quale è prassi diffusa affidarsi alla rielaborazione di brani importati dagli Stati Uniti.
Canzoni come She loves you e I want to hold your hand marchiano indelebilmente lo stile dei
Beatles, che all’inizio del 1964 conquistano anche il mercato americano piazzando la bellezza
di cinque singoli e due album ai primi posti delle relative classifiche. Questo straordinario
risultato commerciale rappresenta il primo passo verso una decisa inversione di tendenza nel
rapporto tra musica rock inglese e americana : ora l’Inghilterra, sullo stimolo del fenomeno
Beatles, esporta la propria musica negli States (e nel resto del mondo) e di conseguenza i
musicisti americani devono iniziare a tenere conto di ciò che accade in terra inglese.
Nonostante tutto non si può certo affermare che i Beatles, fino a questo momento, abbiano
inventato chissà quali sconvolgenti novità in ambito musicale ; il loro sconfinato successo è in
gran parte determinato dall’abilità nel sapersi proporre ed atteggiare in modo nuovo e
anticonformista nei confronti dell’industria discografica e del music business.
Questo è il periodo delle grandi tournée in giro per il mondo che contribuiscono a rafforzare
ulteriormente la loro popolarità (nel giugno del 1965 visitano anche l’Italia, tenendo una serie
di concerti a Milano, Genova e Roma).
Nell’ottobre 1964 i Beatles registrano I feel fine, il singolo natalizio di quell’anno, che presenta
alcune novità rispetto alla precedente produzione. Si tratta ancora di particolari, in ogni caso
nell’introduzione del brano viene volutamente inserito un feedback di chitarra (prendendo
spunto dagli Yardbirds che per primi sperimentano questa possibilità) e la canzone possiede
un incedere caracollante che ricorda certe cose dei “rivali” Rolling Stones, con un lavoro di
chitarra un po’ più complesso del solito.
Anche sul fronte degli album si assiste ad un'evoluzione che offre i primi frutti importanti con
il sesto disco a 33 giri Rubber soul (Parlophone), pubblicato alla fine del 1965. Nella ballata di
Norwegian wood George Harrison introduce il sitar per la prima volta in un pezzo pop,
relegandolo però ad un ruolo di caratterizzazione timbrica (meglio sapranno fare gli Stones
con Paint it, black l’anno successivo). The word appare come uno dei brani più originali
prodotti dai Beatles fino a questo momento, con superbe armonie vocali che presentano vaghi
accenti jazz e gospel, mentre In my life è una raffinata ballata che sorprende per un inatteso
intermezzo neoclassico di George Martin al piano.
In contemporanea con la pubblicazione di Rubber soul viene immesso sul mercato un singolo
con Day tripper, un ordinato rhythm & blues avvalorato da un classico riff di chitarra, e con
We can work it out, dalla bella linea melodica decadente.
Con il nuovo anno inizia per i Beatles una seconda fase della propria carriera ; il gruppo
avverte l’esigenza di proporsi in modo più ambizioso rispetto ai contenuti musicali e
preferisce dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla ricerca sulle tecniche di
registrazione, abbandonando definitivamente l’incessante attività concertistica nell’agosto
’66.
Nonostante lo sforzo profuso e la pubblicazione tra il ’66 e il ’67 dei loro lavori maggiormente
significativi Lennon, McCartney e compagni perdono gradualmente l’unità d’intenti e
paradossalmente si vedono sfuggire di mano la leadership della scena rock, oramai in grado di
evolvere autonomamente verso obiettivi di notevole creatività.
BEATLES - REVOLVER (Parlophone - 1966)
Nel giugno 1966 viene commercializzato il 45 giri Paperback writer, e ancor più dell’ottimo
rock scorrevole ed immediato del lato A colpisce il retro Rain che anticipa le atmosfere del
successivo album Revolver, facendo largo uso di nastri manipolati.
Revolver, pubblicato nell’agosto ’66, è il disco più innovativo dell’intera produzione dei
Beatles ; l’album rappresenta una decisa svolta verso un approccio creativo radicale e
l’acquisita confidenza con le tecniche di registrazione permette, in particolare a Lennon, di
sperimentare sonorità originali ed in parte inedite.
L’apertura è riservata ad una sequenza di tre brani disposti in netto contrasto stilistico, quasi
a voler affermare in modo provocatorio le capacità dei musicisti nell’affrontare generi
musicali all’apparenza antitetici tra loro. Così Taxman è un rock spigoloso che evidenzia dure
linee di chitarra, Eleanor rigby propone un’atmosfera di musica da camera (per ottetto
d’archi e voce solista di McCartney), Love you to possiede un intenso sapore orientale con
Harrison che al sitar mostra progressi rispetto all’esperienza di Norwegian wood.
Molto coinvolgente è il rock melodico di She said - she said, sostenuto da un mix di chitarre
multicolori; interessanti anche l’atipica ballata di For no one e I want to tell you, condotta
dalla nitida e suadente sei corde di Harrison in contrasto con un obliquo trattamento
pianistico.
Il resto del disco si conferma su buoni livelli, e persino una canzoncina come Yellow submarine
viene contornata di rumori ed effetti di ogni tipo.
Il capolavoro dell’album è la conclusiva Tomorrow never knows, primo convinto tributo di
Lennon e McCartney alla montante cultura psichedelica. Dopo una breve introduzione di
sitar il brano decolla improvvisamente pervaso da strane sensazioni, con suoni che schizzano
in ogni direzione sospinti da un’oscura forza centrifuga, aggrappati al ritmo martellante ed
ipnotico della batteria, all’indifferenza della litania intonata da John Lennon, il tutto a creare
uno stordente effetto di stratificazione sonora.
Tomorrow never knows rappresenta uno dei vertici della creatività dei Beatles e prepara il
terreno per la realizzazione, nei mesi successivi, della notevole Strawberry fields forever e del
celebrato Sgt. Pepper.
-2Se il genere del beat melodico trova i principali punti di riferimento geografici
nell’ambito della provincia inglese, il fenomeno del blues revival si sviluppa essenzialmente a
Londra. Tra i personaggi più influenti, vero promotore della diffusione del blues e del rhythm
& blues in Inghilterra, va annoverato Alexis Korner che già a metà degli anni ’50 apre il
London Blues and Barrelhouse Club e all’inizio dei Sessanta l’Ealing Club, aiutato da Cyril
Davies, altra significativa figura dell’epoca.
Nel 1961 Korner crea la sua prima formazione, Blues Incorporated, una sorta di nucleo
aperto alla generazione di giovani musicisti inglesi, vogliosi di confrontarsi con il suono
proveniente dall’America. In questa formazione muovono i primi passi personaggi del calibro
di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richard, Charlie Watts (i Rolling Stones !), ma anche
importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Dave Holland e Mike Westbrook.
I Blues Incorporated continuano nella loro meritoria opera divulgatrice fino al 1967, quindi
Korner prosegue una rigorosa e poco remunerativa carriera con altre creature come Free at
Last, New Church, Collective Consciousness Society, Snape, collaborando spesso con musicisti
di prestigio fino alla morte nel 1985.
All’inizio degli anni Sessanta Mick Jagger e Keith Richard muovono i primi passi
nell’ambiente musicale suonando in un gruppetto studentesco chiamato Little Boy Blue & the
Blue Boys nel quale è presente anche Dick Taylor, futuro fondatore dei Pretty Things. I Blue
Boys entrano nel giro dell’Ealing Club di Alexis Korner dove conoscono il chitarrista Brian
Jones e il pianista Ian Stewart ; dal luglio 1962 il gruppo inizia ad esibirsi con regolarità e nel
gennaio successivo cambia nome in Rolling Stones, dopo l’ingresso in organico di Charlie
Watts (dai Blues Incorporated) e di Bill Wyman (dai Cliftons).
Il primo ad accorgersi del potenziale della nuova formazione è Giorgio Gomelsky, ma dopo
pochi mesi gli subentra come manager Andrew Loog-Oldham che decide di orientare la
carriera dei Rolling Stones ad un antagonismo musicale e d’immagine nei confronti dei
Beatles. A farne le spese è Ian Stewart, ritenuto non consono all’aspetto trasandato ed
aggressivo del complesso, che viene estromesso dalla formazione pur rimanendo in qualità di
collaboratore esterno.
Nel giugno del ’63 i Rolling Stones pubblicano il primo singolo Come on, un brano scritto da
Chuck Berry, e proprio l’utilizzo sistematico di canzoni rock’n’roll e blues importate dagli
U.S.A. caratterizza tutte le uscite discografiche iniziali. Così è per Not fade away (un brano di
Buddy Holly), per It’s all over now (di Bobby Womack, che nel giugno 1964 li porta per la
prima volta in testa alla classifica di vendita inglese), per Little red rooster (di Willie Dixon),
per la quasi totalità dei brani inclusi nei tre album di inizio carriera.
Nonostante l’assenza di materiale originale, a differenza dei Beatles che da subito
interpretano prevalentemente canzoni proprie, il successo è notevole e i Rolling Stones
s’impongono rapidamente come il gruppo inglese di maggior fortuna tra quelli dediti ad una
musica che trae le radici dal rock’n’roll e dal blues più robusto ed immediato.
Con i successivi singoli, la bella The last time e soprattutto la potente Get off of my cloud, la
coppia Jagger / Richard inizia a comporre canzoni originali e sempre più personali. Nel 1965,
con (I can’t get no) Satisfaction gli Stones s’impongono anche sul mercato americano :
Satisfaction è sostanzialmente un R & B ritmato e ossessivo, caratterizzato da un memorabile
riff ipnotico di chitarra, che tormenta per tutta la durata del brano, e da un Mick Jagger più
ruffiano e arrogante che mai.
Nell’aprile 1966 Paint it, black fa ancora meglio : pur non essendo in grado di tentare un
approccio tradizionale allo strumento, Brian Jones riesce a disegnare con il sitar un’originale
cadenza di danza orientale, sostenuta da una ritmica serrata e contrapposta ripetutamente al
rock’n’roll del ritornello. La voce di Jagger appare tenebrosa e contribuisce ad accrescere il
senso di mistero che aleggia sul brano.
La pubblicazione di Paint it, black è contemporanea a quella del quarto LP Aftermath, ma la
canzone non viene compresa nell’edizione inglese dell’album, bensì in quella americana del
giugno dello stesso anno.
ROLLING STONES - AFTERMATH (Decca - 1966)
Quando nella primavera del 1966 viene edito Aftermath i Rolling Stones sono ai vertici della
popolarità e il disco rappresenta un importante punto di arrivo. Il materiale è interamente
composto da Jagger e Richard e la musica fissa in modo irreversibile le coordinate del suono
del complesso.
Il momento di maggior emozione del disco è la sequenza Lady Jane - Under my thumb. La
dolce Lady Jane si mostra con una delicata melodia, impreziosita dalle rifiniture barocche
operate da Brian Jones che inserisce dulcimer e clavicembalo. Under my thumb appare come
la logica evoluzione di Satisfaction proponendo un moderno rhythm & blues, più moderato
sotto l’aspetto ritmico, con un azzeccato contrasto tra la spigolosa chitarra di Richard e le
marimbas di Jones che formano un sinuoso tappeto sonoro, ideale per le evoluzioni di Jagger.
Tutto l’album si conferma ad alto livello con una bella varietà di temi che spaziano
dall’iniziale, scarna e sarcastica, ballata di Mothers little helper alle aggressive ed accattivanti
Stupid girl e Think, dalla celebre Out of time (nello stesso anno grande successo per Chris
Farlowe) ai tipici esempi di Stones sound nelle sguaiate Flight 505 e It’s not easy. Non
mancano brani d’impostazione blues quali Doncha bother me, la stuzzicante High and dry e
l’estenuante Goin’ home, che con i suoi undici minuti di improvvisazione blues ha il merito di
uscire dai collaudati e oramai costringenti schemi del classico pezzo da classifica.
Gli Animals presentano notevoli affinità con i Rolling Stones ; anche loro si riferiscono
sostanzialmente alle stesse matrici R’n’R e blues e, come nei primi tempi per Jagger e
compagni, fanno largo uso di cover di autori americani, evidenziando una modesta attività di
scrittura originale.
Riescono ad emergere grazie alle doti vocali di Eric Burdon e alla presenza dell’organo di
Alan Price che personalizza brillantemente i loro brani.
Il gruppo, nato nel 1962 a Newcastle come Alan Price Combo e poi trasformatosi in Animals,
è guidato da Eric Burdon (v.) e, oltre a Price (ts.), comprende Hilton Valentine (ch.), Chas
Chandler (bs.) e John Steele (bt.) ; l’esordio discografico, sotto la produzione di Mickie Most,
avviene con la pubblicazione del singolo Baby let me take you home nel maggio 1964. Il disco
riscuote discreto successo ma è con il successivo 45 giri che gli Animals raggiungono la vetta
delle classifiche sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
House of the rising sun (giugno ’64) è un brano tradizionale che Bob Dylan aveva inciso per il
suo album d’esordio un paio di anni prima e gli Animals ne ricavano un arrangiamento
classico, denso di drammaticità, al quale contribuiscono in modo decisivo il lirico organo di
Price, l’efficace arpeggio di chitarra di Valentine e il tono grave della voce di Burdon,
realizzando di fatto uno dei primissimi esempi di folk rock.
La produzione degli Animals è intensa: entro la fine dell’anno il gruppo pubblica altri due
singoli, il primo dei quali (la dinamica I’m crying) porta la firma di Burdon e Price, e nel 1965
infila una serie di brani di successo improntati al rhythm & blues. Don’t let me be
misunderstood ( un brano di Nina Simone) e Bring it on home to me (di Sam Cooke) sono due
buone versioni, mentre le successive We’ve gotta get out of this place (luglio ’65) e It’s my life
(ottobre ’65) vanno annoverate tra le più belle canzoni del periodo, esaltate da un superlativo
Eric Burdon che esprime performance vocali originali e coinvolgenti, dimostrando di essere
uno dei migliori cantanti dell’epoca.
Gli album Animals (Columbia-1964) e Animals tracks (Columbia-1965) si basano
principalmente sui brani già editi a 45 giri e presentano, in ossequio ad una deprecabile moda
in auge a quei tempi, selezioni diverse tra le edizioni inglesi e americane.
I primi segni di cedimento del gruppo si avvertono quando Alan Price abbandona per
intraprendere la carriera solista, seguito a breve distanza da John Steele : i sostituti sono
Dave Rowberry, proveniente dai Mike Cotton Sound, e Barry Jenkins che aveva suonato con i
Nashville Teens.
Dopo la pubblicazione dell’album Animalisms (Decca-1966) Eric Burdon decide di lasciare gli
Animals, decretandone, di fatto, lo scioglimento nell’estate 1966. Tornerà alla fine dell’anno
con una nuova versione del gruppo su basi sonore decisamente diverse.
Per quanto riguarda gli altri componenti curioso è il destino di Chas Chandler che nel luglio
’66, in occasione dell’ultimo tour americano degli Animals, “scopre” Jimi Hendrix e ne
diventa manager e produttore : in seguito sarà anche il produttore dei controversi Slade.
Nonostante il buon riscontro di vendite e l’indiscutibile qualità delle loro canzoni, i Them
risultano meno decisivi per l’evoluzione del blues revival inglese rispetto a gruppi come
Rolling Stones, Animals e Yardbirds.
L’irlandese Van Morrison agli albori dei Sessanta canta e suona il sassofono nei Monarchs, un
piccolo complesso di Belfast che riesce a pubblicare un solo 45 giri. Verso la fine del 1963 il
cantante decide di approntare un gruppo più ambizioso che comprende alcuni strumentisti
locali ; in realtà la formazione si mostra estremamente instabile e subisce nel tempo un
continuo ricambio di musicisti, tra i quali vanno ricordati i fratelli Jackie (ts.) e Patrick (bt.)
McAuley, Alan Henderson (bs.), Jim Armstrong (ch.), Ray Elliott (ts.), David Harvey (bt.) e
Peter Bardens (ts. - nel 1965 solo per breve tempo).
Inoltre, il fatto che in molte registrazioni i musicisti ufficiali sono sostituiti da vari sessionmen
contribuisce a rendere maggiore la confusione e a rischio l’esistenza stessa del complesso.
L’esordio su vinile avviene nel settembre ’64 con Don’t start crying now, ma solo alla fine dello
stesso anno i Them s'impongono all’attenzione del grande pubblico con un notevole singolo
che presenta sul lato principale una focosa versione del blues di Joe Williams Baby please
don’t go. Sul retro viene inserita Gloria, una composizione di Morrison costruita su
un’insistente trama ritmica (in teoria senza inizio né fine) pilotata dalla voce grintosa del
cantante, che con il procedere dell’esecuzione determina una sorta di trance ipnotica. La
canzone diventerà un classico del rock e sarà reinterpretata in innumerevoli versioni, tra le
quali vanno ricordate quelle di Jimi Hendrix, dei Doors e di Patti Smith.
L’ottimo risultato di vendite porta il gruppo all’inevitabile trasferimento a Londra e alla
collaborazione con il produttore americano Bert Berns (famoso per essere il compositore della
celeberrima Twist and shout, portata alla notorietà dagli Isley Brothers e ripresa anche dai
Beatles) ; proprio una composizione di Berns (Here comes the night) procura un nuovo
successo ai Them.
In questo singolo e nei due LP incisi dal gruppo sono presenti numerosi sessionmen tra i quali
spiccano i nomi dei futuri Led Zeppelin, Jimmy Page e John Paul Jones. Nonostante
l’avversione di Morrison verso questa situazione gli album risultano interessanti. Sul primo,
The angry young Them (Decca-1965), oltre a Gloria meritano di essere segnalati un altro
grintoso originale di Van Morrison, Mystic eyes, e l’ottima versione di Bright lights, big city
che evidenzia le peculiarità del suono essenziale e pungente del complesso.
Nel successivo Them again (Decca-1966) spiccano le buone cover di I put a spell on you e di I
got a woman, l’eccellente resa del R & B con accenti gospel di Turn on your love light (in
U.S.A. un classico per i Grateful Dead) e soprattutto una magica rilettura di It’s all over now,
baby blue di Bob Dylan, arrangiata alla maniera dei migliori Rolling Stones e valorizzata da
una sofferta interpretazione di Van Morrison.
Ad ogni modo la fine dei Them è prossima e viene sancita nel maggio del 1966, al termine di
una sfortunata serie di concerti negli Stati Uniti. Morrison segue Berns a New York dove
intraprende una proficua carriera da solista.
I restanti componenti del gruppo, con il cantante Ken McDowell, si trasferiscono a loro volta
in Texas dove, tra il ’68 e il ’71, pubblicano quattro album sotto la sigla Them II.
Una menzione anche per i fratelli McAuley che nel 1966 formano i Belfast Gypsies, capaci di
realizzare un paio di singoli e un LP prima di un rapido scioglimento. In seguito Jackie
McAuley si unisce a Judy Dyble, la prima cantante dei Fairport Convention, per costituire il
duo folk dei Trader Horne (discreto l’unico album Morning way, Dawn-1970).
Eric Clapton è un chitarrista diciottenne innamorato del blues elettrico di Chicago quando,
nel marzo 1963, inizia la sua fortunata carriera in un piccolo complesso rhythm & blues
chiamato Roosters. Dopo una fugace apparizione in un’altra formazione di poche pretese
(Casey Jones & the Engineers), nell’ottobre dello stesso anno Clapton entra a far parte degli
emergenti Yardbirds, in sostituzione di Top Topham.
Il gruppo si era costituito pochi mesi prima, per via della fusione tra Chris Dreja (ch.), Jim
McCarty (bt.) e Top Topham (ch.) (provenienti dai Suburbiton R&B) con Keith Relf (v.ar.) e
Paul Samwell Smith (bs.) dei Metropolis Blues Quartet.
Gli Yardbirds si esibiscono regolarmente al Crawdaddy e il gestore del locale Giorgio
Gomelsky diventa loro manager e produttore. Nei primi tempi la musica del gruppo è
fortemente influenzata dal blues elettrico e dal R’n’R di Chuck Berry e di Bo Diddley, con la
peculiarità della brillante tecnica alla chitarra di Clapton, già all’epoca considerato uno dei
migliori strumentisti della scena rock. Un interessante resoconto di questo periodo è
documentato dall’album Five live (Columbia-1965), registrato (in modo non proprio
impeccabile) dal vivo al Marquee nel marzo 1964. Nello stesso anno vengono editi un paio di
singoli, I wish you would e Goodmorning little school girl, che rimangono distanti dalle
infuocate esibizioni live e vendono poco.
La svolta decisiva è del marzo 1965 : gli Yardbirds sono in studio per la realizzazione del
nuovo 45 giri For your love, una canzone di Graham Gouldman, un giovane compositore
proveniente da Manchester (negli anni settanta sarà membro fondatore dei 10 CC).
L’introduzione è affidata al clavicembalo suonato da Brian Auger e il brano possiede un
originale gioco vocale, abilmente incastrato su un tappeto di liquide percussioni, con il
rock’n’roll della parte centrale che si staglia prepotentemente su tutto il resto. Non c’è traccia
di chitarra solista o di blues, Clapton giudica il brano troppo commerciale e addirittura
preferisce abbandonare il gruppo per raggiungere i Bluesbreakers di John Mayall. In realtà
For your love, oltre ad essere il primo grande successo della formazione, rappresenta un abile
tentativo di ricorso alle nuove tecniche di registrazione, con l’utilizzo di strumenti e sonorità
estranei alla tradizione del blues e del R’n’R ; in questo modo, gli Yardbirds si pongono in
linea con i primordiali tentativi di musica progressiva che nel 1965 incominciano a
manifestarsi.
Eric Clapton viene ben sostituito da Jeff Beck, proveniente dai Tridents, e il gruppo insiste
nella direzione intrapresa con altri due singoli composti da Gouldman, Heart full of soul e Evil
hearted you, che confermano il successo di vendita anche se risultano inferiori all’illustre
predecessore.
Un nuovo balzo in avanti è costituito dalla bellissima Shapes of things (marzo 1966) dove il
lavoro di Beck risalta in modo deciso ; l’incedere ritmico della canzone paga un evidente
tributo al Bolero di Ravel e il pezzo apre la strada ad una nuova forma di blues, svincolata
dalla tradizione e aperta a contaminazioni con altri stili e a soluzioni melodiche più marcate.
Altri gustosi frutti della creatività del gruppo si possono rintracciare nel blues sepolcrale di
Still I’m sad e nella bizzarra Over under sideways down, un rock’n’roll anfetaminico
dall’atipica struttura.
Nel giugno 1966 Paul Samwell Smith lascia vacante il posto di bassista che viene rilevato da
Jimmy Page, un chitarrista conosciuto per il lavoro di turnista in dischi di svariati artisti. Per
qualche tempo gli Yardbirds provano la formula con due chitarre soliste, ma alla fine
dell’anno Beck decide di formare un proprio gruppo ; ridotti a quartetto, e con il nuovo
produttore Mickie Most, affrontano la parte terminale della loro storia senza riuscire a
rinverdire i fasti passati.
Di fatto, nell’estate del ’68 gli Yardbirds non esistono più e, dopo un breve tour in
Scandinavia con una nuova formazione denominata New Yardbirds, Jimmy Page decide
decisamente di cambiare rotta mutando sigla in Led Zeppelin.
Keith Relf e Jim McCarty proseguono come Together per poi fondare, nel giugno 1969, i
Renaissance.
Se esiste una formazione che nella parte centrale degli anni Sessanta serve da punto di
riferimento per il movimento del blues revival e da trampolino di lancio per numerosi giovani
musicisti, destinati ad ottenere grande fama nel firmamento del rock, questa è identificabile
nei Bluesbreakers di John Mayall.
E’ Alexis Korner a notare Mayall in un’oscura formazione di Manchester e a convincerlo al
trasferimento a Londra. Mayall non perde tempo e all’inizio del 1963 progetta i
Bluesbreakers con i quali pubblica un singolo (aprile ’64) e un LP registrato dal vivo al
Klooks Kleek, Plays John Mayall (Decca-1965). Nella primavera del 1965 Mayall si può
permettere il lusso di presentare una formazione comprendente l’ormai celebre Eric Clapton,
appena uscito dagli Yardbirds, e completata da John McVie (bs.) e da Hughie Flint (bt.). Il
quartetto resiste fino al luglio 1966, quando Clapton lascia per fondare i Cream con Jack
Bruce e Ginger Baker, facendo in tempo a registrare l’album Bluesbreakers, John Mayall with
Eric Clapton (Decca) con l’ausilio di una sezione fiati composta da Alan Skidmore, Johnny
Almond e Dennis Healy.
Si tratta di un lavoro piuttosto ortodosso, con versioni di classici blues tirati a lucido che
mettono in risalto la chitarra di Clapton, lirica e potente al tempo stesso ; particolarmente
brillanti risultano All your love e Steppin’ out ed è da sottolineare la presenza di alcuni pezzi di
discreta fattura composti da Mayall.
Alla partenza di Clapton si somma quella di Hughie Flint, che prima suona con i Free At Last
di Alexis Korner e poi, alla fine del ’69, forma con Tom McGuinness i McGuinness - Flint.
Mayall rifonda il gruppo con l’inserimento dell’emergente Peter Green (ch.), proveniente
dagli Shotgun Express, e dell’ottimo batterista Aynsley Dunbar, ex componente dei Mojos,
mentre al basso resta il fido McVie. Alla fine del 1966 i Bluesbreakers registrano A hard road,
che propone un suono più moderno e grintoso : Peter Green si lascia trasportare dal fervore
di The stumble ed è eccitante nella rilettura di Dust my blues, ma soprattutto offre un
fondamentale contributo creativo con le notevoli The same way e The supernatural, un brano
strumentale giocato sulla riuscita fusione tra la sezione ritmica piuttosto informale e la
chitarra che disegna linee profonde e suggestive. Tra le composizioni di Mayall, più numerose
e qualitative del solito, spiccano la title track e Another kinda love.
Anche questa edizione del complesso dura pochi mesi in quanto Green, nell’estate 1967, forma
i Fleetwood Mac ; Mayall ne approfitta per realizzare l’album Blues alone (Ace of Clubs1967), registrato quasi in solitudine con lo sporadico apporto di Keef Hartley (bt.). Hartley,
già membro degli Artwoods, entra nei Bluesbreakers al posto del defezionario Dunbar (che
nel ’68 costituisce la Retaliation) e Mayall ripone la propria fiducia nel diciottenne Mick
Taylor per il ruolo di chitarrista.
I brani che compongono Crusade (Decca-1967) segnano il ritorno ad un convinto rigore
stilistico, dopo le sperimentazioni di A hard road. Taylor si dimostra musicista tecnicamente
dotato, stilisticamente privo di sbavature e le versioni di Oh, pretty woman, My time after
awhile, I can quit you baby sono di grande livello ; Crusade può essere considerato il momento
di maggior fulgore del John Mayall legato alla tradizione blues.
Gruppo di modesto successo ma di notevole importanza per l’originalità delle soluzioni
sonore adottate, la Graham Bond Organization nasce alla fine del 1963 sulle ceneri del
Graham Bond Quartet.
Il leader inizia la carriera suonando il sassofono nel quintetto jazz di Don Rendell e passa
all’organo nel novembre del ’62, quando entra a far parte dei Blues Incorporated. Nel 1963
Bond crea un trio con altri musicisti provenienti dal gruppo di Korner, Jack Bruce (bs.ar.v.) e
Ginger Baker (bt.), che poi diventa un quartetto con il chitarrista John McLaughlin. Con
l’ingresso in organico del sassofonista Dick Heckstall Smith (al posto di McLaughlin) la
Graham Bond Organization s’inserisce tra i complessi più creativi ed innovativi della metà
degli anni Sessanta. Il sax di Heckstall Smith, che sostituisce la chitarra elettrica
nell’economia del suono, rende il blues dell’Organization diverso da quello dei gruppi
maggiormente in voga all’epoca, mentre Graham Bond si afferma come uno dei capiscuola
dell’organo Hammond ed è il primo ad introdurre il mellotron in ambito rock ; tra i musicisti
che attingono in qualche misura al suo stile vanno ricordati Brian Auger, Keith Emerson,
Vincent Crane e Dave Greenslade.
A supporto dei due solisti la sezione ritmica di Bruce e Baker si propone brillante e poliedrica,
nell'attesa di spiccare il volo con l’avventura Cream.
Il gruppo registra in un solo giorno l’album The sound of 65 che, pur presentando qualche
inevitabile imperfezione, poggia su solide basi blues e rhythm & blues con evidenti influenze
jazz ed è una miniera di spunti per il nascente suono progressivo inglese. Nel 33 giri trovano
spazio belle riletture (Hoochie Coochie di Willie Dixon e Got my mojo working di Muddy
Waters), raffinati arrangiamenti (Baby make love to me e Spanish blues), uno scintillante
esercizio per armonica (Train time che Bruce riproporrà nel repertorio dei Cream) e una
notevole prestazione ai tamburi di Ginger Baker (Oh baby), da sempre affascinato dai ritmi
africani e da Elvin Jones. Il brano più interessante dell’album è Wade in the water dove per la
prima volta si mostra un suono d’organo in bilico tra jazz e “classica” che nel tempo farà non
pochi proseliti, a cominciare dai Colosseum che terranno ben presenti le cadenze della musica
dell’Organization.
Sempre nel 1965 la Graham Bond Organization pubblica il secondo There’s a Bond between
us (Columbia), disco che conferma gli elementi del suono del gruppo senza aggiungere novità
significative. Da segnalare le belle versioni di Who’s afraid of Virginia Woolf ?, di Don’t let go
e di What’d I say (Ray Charles), le valide Hear me calling your name di Bruce e Camels and
elephants di Baker oltre a Walkin’ in the park, un pezzo di Bond che sarà ripreso dai
Colosseum in apertura del loro disco d’esordio.
Dopo la registrazione del secondo long playing Bruce e Baker abbandonano la formazione.
Bruce suona con Manfred Mann e con John Mayall prima di formare i Cream (assieme a
Baker e Eric Clapton), nell’estate 1966.
Heckstall Smith rimane nella seconda edizione dell’Organization dove incontra il batterista
Jon Hiseman ; entrambi finiscono nei Bluesbreakers di John Mayall con i quali incidono
l’album Bare wires e in seguito fondano i Colosseum.
Dopo il definitivo scioglimento dell’Organization, Graham Bond si trasferisce negli Stati Uniti
dove collabora con musicisti come Jefferson Airplane, Buddy Miles, Dr. John e pubblica due
LP nel 1968. Tornato a Londra suona con gli Airforce di Ginger Baker e progetta nuove
formazioni (Initiation / Holy Magick / Magus) con altre uscite discografiche, tra cui l’album
Two heads are better than one (Chapter One-1972) realizzato insieme a Pete Brown, uno dei
personaggi più importanti della scena underground londinese.
La parabola artistica di Bond si esaurisce tragicamente l’otto maggio 1974 alla stazione di
Finsbury Park, travolto da un treno della metropolitana.
Lo Spencer Davis Group è una delle tante formazioni inglesi che nei primi anni Sessanta si
dedicano alla proposta di una musica fortemente derivata dal R & B ; se il gruppo riesce ad
emergere dalla media il merito va attribuito in modo sostanziale alla presenza di un talento
del calibro di Stevie Winwood.
Il complesso nasce nell’agosto 1963 con Spencer Davis (ch.v.), Stevie Winwood (al tempo
quindicenne, ts.ch.v.), suo fratello Muff (bs.), Pete York (bt.) e nei primi mesi non ottiene
riscontri particolarmente favorevoli. La situazione cambia radicalmente nel novembre ’65
quando il gruppo registra Keep on running, un brano composto dal giamaicano Jackie
Edwards, basato su un rhythm & blues ossessivo e maniacale, che li proietta al primo posto in
classifica.
Il successo viene bissato nel marzo del ’66 con un’altra composizione di Edwards (Somebody
help me) costruita sulla falsariga della precedente. La musica del gruppo, in questo periodo,
risulta piacevole, curata e di buon impatto, ma manca d'originalità. Ben presto Winwood
comincia a dimostrare il proprio talento come strumentista, cantante e compositore, con la
realizzazione di due classici del calibro di Gimme some lovin’ (novembre 1966) e I’m a man
(gennaio ’67, ripresa con fortuna oltreoceano dai Chicago, sul loro LP d’esordio). Si tratta di
R & B con echi gospel, dinamici ed appassionanti, che tengono conto delle nuove istanze
progressive e possiedono segni distintivi in un suono d’organo particolarmente brillante e
fluido e nel timbro vocale, stentoreo ma suggestivo, di Winwood.
Degni di menzione anche due strumentali meno noti, quali il divertente Trampoline, con piano
ed organo in evidenza, e il sorprendente Waltz for Lumumba, costruito su un folto tappeto
percussivo a sostegno delle improvvisazioni all’organo di Winwood.
Il gruppo pubblica tre album per l’etichetta Fontana, ma nonostante il successo e il seguito
acquisiti Winwood matura l’esigenza di un salto di qualità ed abbandona nella primavera del
1967, alla ricerca di nuove, stimolanti esperienze con i Traffic. Privato della sua colonna
portante lo Spencer Davis Group si disgrega : Muff Winwood diventa produttore per
l’etichetta Island, mentre Davis e York reclutano l’organista Eddie Hardin e il chitarrista Ray
Fenwick, proseguendo senza ottenere grandi consensi fino all’ottobre ’68 quando anche
Hardin e York decidono di unire le forze in un sodalizio che frutterà alcuni interessanti
lavori, tra il ’69 e il ’71. Nel 1969 Spencer Davis decreta il definitivo scioglimento della
formazione.
-3La metà degli anni Sessanta vede emergere i primi complessi che fanno della durezza
espressiva la loro bandiera ; si tratta di formazioni che hanno caratteristiche differenti ma
possiedono una comune urgenza espositiva, resa nei termini di un suono asciutto ed essenziale
che in parte precorre le tematiche dell’hard rock.
Kinks, Who, Pretty Things, Small Faces sono i nomi capaci d’imporsi all’attenzione di una
crescente frangia di pubblico che non si accontenta più dei suoni puliti e educati del beat. La
lezione dei Rolling Stones, degli Animals viene radicalizzata, il rock’n’roll e il rhythm & blues
delle radici sono interiorizzati ed espulsi all’esterno, sotto forma di sintesi povera, scheletrica
ed originale, dalla quale partire per nuove, imprevedibili e appassionanti avventure.
I Kinks nascono alla fine del 1963, con i fratelli Ray e Dave Davies (ch.v.), Pete Quaife (bs.)
e Mick Avory (bt.) e s'avvalgono della produzione di Shel Talmy, un personaggio molto noto
all’epoca che lavorerà anche con Who e Creation.
I primi due singoli, all’inizio del ’64, riscuotono vendite fallimentari ma nell’agosto dello
stesso anno You really got me (con la presenza di Jimmy Page alla chitarra) proietta il gruppo
al primo posto in Inghilterra e nella top ten U.S.A. : il suono esplode dal nulla con un
durissimo riff di chitarra, ripetuto senza soluzione di continuità in un crescendo
estremamente coinvolgente.
In autunno, in contemporanea dell'uscita del primo LP Kinks (Pye-1964, vi partecipano Page,
Jon Lord e Nicky Hopkins, in qualità di sessionmen), All day and all of the night consolida i
risultati di vendita e la formula stilistica, mostrando un pizzico d’attenzione in più
all’arrangiamento.
Sin dall’inizio appare chiara la leadership di Ray Davies che compone tutto il materiale e
rappresenta l’immagine pubblica del gruppo. Il musicista decide di allentare la tensione con
Tired of waiting for you (inizio ’65), senza rinunciare ad un suono asciutto e privo di fronzoli ;
anche quest'aspetto melodico della musica dei Kinks piace al pubblico e così è per altri singoli
di buon successo, tra i quali va segnalato See my friends (agosto ’65), una bella composizione
che tenta un timido approccio con la psichedelia più morbida.
Nel confuso dedalo di pubblicazioni discografiche (singoli, EP, album originali inglesi,
compilazioni per il mercato americano) spicca nell’autunno ’65 l’EP Kwyet Kinks che contiene
il brano A well respected man, una ballata disincantata che introduce nel repertorio del
gruppo temi ironici sui luoghi comuni e sul perbenismo della società inglese, soggetti che
saranno alla base di molta della futura produzione di Ray Davies.
Sul finire dell’anno il 45 giri Till the end of the day / Where have all the good times gone segna
un ritorno al rock degli inizi e in particolare convince il retro, una corposa canzone dalle
piacevoli linee melodiche che influenzerà certa musica “glamour” dei primi anni settanta
(David Bowie).
Dal vivo i Kinks si costruiscono una fama poco rassicurante, dando vita ad esibizioni
infuocate che a volte sfociano in vere e proprie risse, come nel concerto al Tivoli Garden di
Copenaghen. Verso la fine del ’65, Davies e compagni effettuano due tournée americane e
durante la registrazione di una trasmissione televisiva causano una rissa ; per questo motivo
vengono banditi dagli Stati Uniti per un periodo di quattro anni. L’episodio complica
parecchio le strategie commerciali del complesso, che in ogni caso prosegue imperterrito a
sfornare singoli di successo e di buon livello qualitativo. Tra i migliori 45 giri del 1966
risultano canzoni atipiche come Dedicated follower of fashion, Dead end street e Sunny
afternoon, senza dimenticare l’ottimo album Face to face (Pye-1966).
La musica dei Kinks evolve verso soluzioni ricercate e Ray Davies comincia a lavorare su
forme complesse ed ambiziose, che troveranno realizzazione nell’ultima parte del decennio.
Il nucleo dei Who inizia a configurarsi nel 1962, quando Pete Townshend e John Entwistle
costituiscono i Detours ; a loro si uniscono Roger Daltrey e più avanti Keith Moon, al posto
del batterista originario Doug Sanden. Nel 1964 il gruppo permuta nome in High Numbers e
riesce ad incidere un singolo che non ottiene alcun riscontro. Le cose cambiano al termine
dell’anno, per via dell’interessamento dei manager Kit Lambert e Chris Stamp ; la
formazione si ribattezza come Who e i primi singoli, I can’t explain (gennaio ’65) e Anyway
anyhow anywhere (marzo ’65, entrambi prodotti da Shel Talmy), muovono le acque anche se
occorre attendere la pubblicazione di My generation, nel novembre dello stesso anno, per
apprezzare in pieno lo stile esuberante e selvaggio di Townshend e compagni.
WHO - MY GENERATION (Brunswick - 1965)
My generation, che sale fino al secondo posto della classifica di vendita inglese, è una canzone
di straordinario impatto ; mai, prima di allora, s’era ascoltato un brano così sfrontato nel suo
furore strumentale. Pete Townshend esegue una rielaborazione di un pezzo di Jimmy Reed
dove la chitarra tagliente, il basso martellante di Entwistle e la batteria disordinata di Moon
forniscono una base ritmica ossessiva, sulla quale Daltrey espone i suoi problemi
generazionali producendosi in una performance classica, imprecando e simulando una
rabbiosa balbuzie. Nella parte centrale il gruppo sorprende, riservando l’abituale spazio
dell’assolo di chitarra ad una vorticosa ed eccitante evoluzione del basso, mentre il convulso
finale richiama il caos tipico delle esibizioni dal vivo, con gli strumenti che prendono la mano,
muri di feedback e svisate tumultuose, fino all’inevitabile distruzione al termine della folle
corsa.
In My generation si possono riscontrare tutte le principali caratteristiche del suono dei primi
Who : una sezione ritmica travolgente con la potenza e la precisione di Entwistle, con la
rabbia di Keith Moon che sovverte i tradizionali canoni sull’uso della batteria nel rock - fino a
quel momento anonimo strumento ritmico - scatenando sui tamburi veri e propri temporali
percussivi che rendono il fraseggio immediatamente riconoscibile, e ancora l’abilità di
Townshend nell’approntare un originale stile alla chitarra, sperimentando un uso sistematico
del feedback. Solo un cantante dotato e sfacciato come Daltrey può riuscire a confrontarsi con
siffatti compagni senza essere travolto dal suono.
L’album d’esordio, che eredita il titolo dallo storico 45 giri, non è certo la classica compilation
di singoli (come spesso accade all’epoca), bensì un lavoro ricco di episodi brillanti in perfetta
coesione di stile, che anticipa di qualche mese i primi LP di rilievo dei Beatles (Revolver) e dei
Rolling Stones (Aftermath).
Registrato in poche ore di studio con l’aiuto di Nicky Hopkins al piano, il long playing
comprende brani per la maggior parte composti da Townshend, oltre ad alcune cover e alla
strumentale The ox, firmata a più mani. Il suono è compatto e grintoso, mantiene un
compromesso tra il R & B delle origini e i canoni delle belle armonie beat (La la la lies, Much
too much, A legal matter) attingendo ad alcuni classici quali I don’t mind, Please, please, please
(entrambi di James Brown) e I’m a man (Bo Diddley). I frutti migliori (a parte la celebrata
title track) sono il ruvido rhythm & blues iniziale di Out in the street con un deciso Daltrey, la
tipica e variegata The good’s gone costruita su un’interessante struttura a sezioni, la classica
armonia di The kids are alright e la conclusiva The ox, un vortice ritmico costituito da una
micidiale sequenza di rullate (eseguita da Moon), sulla quale si contorce il piano di un
tarantolato Hopkins e imperversa la tuonante chitarra di Townshend.
Il 1966 è un anno di transizione per i Who, che terminano la collaborazione con il produttore
Shel Talmy subito dopo la pubblicazione del buon singolo di Substitute. Il gruppo appare
irresistibile dal vivo, con spettacoli infuocati che culminano nella parossistica distruzione degli
strumenti, ma in studio non riesce a produrre canzoni memorabili, indeciso sulla direzione da
intraprendere. Così, il secondo album A quick one (Reaction-1966) suona deludente,
palesando una notevole frammentarietà d’intenti : il disco porta le novità di alcune
composizioni di John Entwistle (la truce Boris the spider e Whiskey man), di Keith Moon (la
bizzarra Cobwebs and strange e la graziosa I need you, che più d’altro evidenzia lo stile del
batterista) e di Roger Daltrey (un’anonima See my way). Anche i brani di Townshend
risultano meno brillanti del solito ; le eccezioni sono la potente Run run run, che riporta alle
atmosfere del precedente album (come Heat wave, unica cover presente) e, solo in parte, A
quick one while he’s away, embrionale tentativo del chitarrista nell’ambito dei soggetti a tema
che saranno alla base dei lavori successivi.
Il chitarrista Dick Taylor suona in una formazione studentesca dei primi anni sessanta
chiamata Little Boy Blue & the Blue Boys : i suoi compagni sono il cantante Mick Jagger e il
chitarrista Keith Richard. I Blue Boys, poco più avanti, cambiano sigla in Rolling Stones ma
Taylor è già uscito e nel 1963 idea un proprio complesso, i Pretty Things, prendendo a prestito
il nome da un brano di Bo Diddley. Con lui sono Phil May (v.), Brian Pendleton (ch.), John
Stax (bs.), Viv Prince (bt.) e il gruppo si pone in diretto antagonismo con gli Stones,
interpretando una musica ancora più sporca ed aggressiva su basi R & B e R’n’R.
La struttura magra ed ossessiva delle canzoni ricorda certi aspetti delle primissime
composizioni dei Kinks, ma mentre il gruppo di Ray Davies vira ben presto verso formule
sonore maggiormente ricercate i Pretty Things trovano nell’immediatezza e nella semplicità
espositiva la loro tipicità.
Il luglio 1964 vede la pubblicazione del primo singolo Rosalyn, un pezzo grezzo e tirato che
rimanda direttamente allo stile di Bo Diddley e sulla stessa impronta si assestano il successivo
Don’t bring me down (ottobre ’64) e il materiale del primo album omonimo, edito alla fine
dell’anno (Pretty Things, Fontana-1964). Tra le canzoni inserite sul long playing spiccano la
versione di Road runner (Diddley), i blues & roll ispidi ed incalzanti di Judgement day e 13
Chester street, oltre ai rock’n’roll minimali di Big city e Pretty Things (composta da Willie
Dixon e portata al successo da Bo Diddley).
Meno riusciti sono i 45 giri del 1965, Honey I need e Cry to me, e nello stesso anno Viv Prince
lascia il gruppo (nel 1968 suonerà con i Vamp, assieme a Mick Hutchinson e Andy Clark). Tra
i batteristi che provano per ottenere il posto spicca il nome di Mitch Mitchell e per le sessions
del secondo album i Pretty Things scelgono Skip Alan.
Alla fine del ’65 esce Get the picture ? (Fontana) che contiene You don’t believe me, firmata da
Jimmy Page, e le graffianti Buzz the jerk e Gonna find a substitute. In contemporanea con
l’album viene edito uno dei loro migliori singoli, Midnight to six man, un dinamico R & B
guidato da una bella melodia, brano che vede la probabile partecipazione di Nicky Hopkins al
piano. Di rilievo anche il retro del singolo, Can’t stand the pain, in bilico tra il classico suono
del gruppo e pacate atmosfere che accusano i primi sintomi psichedelici.
Il gruppo si ripete nella primavera del 1966 con un altro 45 giri di notevole spessore : la
prepotente sezione ritmica di Come see me ricorda da vicino i migliori Who e il titolo del
secondo lato, L.S.D., è tra i pezzi più scarni e pungenti dell’intero repertorio.
La formazione si dimostra alquanto instabile : prima della realizzazione del terzo LP
Emotions (Fontana-1966) Brian Pendleton viene avvicendato da John Povey (ts.) e in seguito
abbandona anche John Stax, sostituito da Wally Allen (bs.). A complicare ulteriormente la
situazione arriva lo scioglimento del contratto da parte della Fontana, delusa dalla qualità
non esaltante di Emotions che introduce nella musica del gruppo alcune novità poco
convincenti.
I Pretty Things torneranno sulla scena alla fine del 1967, con una nuova, smagliante veste di
stampo psichedelico, per produrre un paio di lavori di notevole rilievo.
Gli Small Faces nascono nel 1965, anno nel quale la scena musicale inglese attraversa un
momento d'importante crescita che determina una sempre più convinta autonomia creativa.
Il gruppo s’inserisce in questo panorama senza apportare un contributo particolarmente
innovativo, cercando anzi di sfruttare formule musicali già abbondantemente affermate per
ottenere importanti risultati commerciali.
Quando viene pubblicato il primo singolo Watcha gonna do about it la formazione è composta
da Steve Marriott (ch.v.), già con Frantics e Moments, Jimmy Winston (or., anch’egli ex
Moments), Ronnie Lane (bs.v.) e Kenny Jones (bt.) ; il brano, un rhythm & blues
metronomico che presenta un interessante inserto di chitarra satura di distorsione e feedback,
ottiene buon successo e consente agli Small Faces di acquisire credibilità come gruppo
alternativo ai Who nella scena mod londinese.
Winston è già sul piede di partenza e il complesso si assesta definitivamente con il tastierista
dei Boz & the Boz People, Ian McLagan. A questo punto inizia la scalata verso il successo con
una lunga serie di singoli che conseguono notevoli consensi di vendita : le divertenti, ma certo
non straordinarie, Sha la la la lee e Hey girl preludono ai grandi risultati commerciali di All or
nothing, che mostra qualche indizio di originalità e vola in testa alla classifica di vendita.
La coppia Marriott / Lane, responsabile delle composizioni, comincia ad affinare le proprie
capacità ed ottiene buoni risultati con la bella melodia di Here comes the nice e soprattutto
con la splendida ballata di Itchycoo park (1967), avvolta da un morbido afflato psichedelico e
caratterizzata dalla sperimentazione dell’effetto phasing sulla batteria (poi ripreso da Jimi
Hendrix nell’ottobre dello stesso anno per la spettacolare Bold as love).
Con Tin soldier Marriott sposta l’accento su un hard melodico che sarà alla base della sua
futura avventura con gli Humble Pie ; bisogna attendere sino all’estate ’68 per la
realizzazione di un lavoro organico e complesso sulla distanza del long playing (Ogdens’ nut
gone flake), dopo che i primi album si rivelano semplici raccolte di brani di successo, ad
ulteriore conferma che gli Small Faces vanno considerati gruppo di buone qualità ma
irrimediabilmente post datato, con la luminosa eccezione di Itchycoo park.
-4Il 1965 è l’anno zero per la musica progressiva inglese.
In quell’anno si assiste ai primi decisi tentativi di superamento dell’essenza del suono beat
grazie alla pubblicazione di canzoni come (I can’t get no) Satisfaction, We’ve gotta get out of
this place, It’s my life, For your love, My generation e un importante contributo alla
maturazione della musica rock inglese è dato della neonata cultura psichedelica, in via di
rapido sviluppo sull’impulso di un analogo fenomeno proveniente da San Francisco,
California.
In particolare, dal 1966 s’assiste al fiorire di numerose formazioni che si esibiscono in piccoli
locali fumosi della Londra sotterranea, proponendo una musica dai toni sgargianti, con
soluzioni armoniche a volte sorprendenti, assolutamente al di fuori della logica di un facile
successo commerciale.
I Beatles istituzionalizzano il fenomeno con quel colpo di genio che è Tomorrow never knows,
mentre fra i più intriganti pionieri del nuovo verbo vanno annoverati
i Creation e i
Misunderstood.
I Creation esordiscono nel giugno 1966, autori di una musica velata di psichedelia ed
estremamente policroma, tanto che il chitarrista Eddie Phillips ha modo di affermare che il
loro suono è “rosso con bagliori porpora”.
Tutto inizia nel 1964 quando Kenny Pickett (v.), Eddie Phillips (ch.v.), Mike Thompson (ch.),
John Dalton (bs.) e Jack Jones (bt.) formano i Mark Four : il gruppo produce quattro singoli,
il terzo dei quali (Hurt me if you will, agosto ’65) inaugura il lavoro di composizione della
coppia Pickett / Phillips. Dopo la dipartita di Thompson anche Dalton lascia il gruppo (per
sostituire Pete Quaife nei Kinks) e le sorti del complesso passano nelle mani del manager Tony
Stratton-Smith, che reperisce il nuovo bassista nella persona di Bob Garner e procura un
produttore affermato come Shel Talmy (Kinks, Who).
I tempi sono maturi per un deciso cambiamento di rotta : il gruppo modifica la sigla in
Creation e nell’estate 1966 esce con il primo 45 giri, Making time / Try and stop me, per la
Planet, l’etichetta personale di Talmy. Making time è un esordio importante, marcato da un
riff aggressivo di chitarra e con una linea melodica post beat ripetutamente disturbata dalle
sperimentazioni di Phillips, che ricava sonorità convulse suonando il suo strumento con
l’archetto del violino (ben prima di Jimmy Page). Il retro è un brano più convenzionale, in
qualche misura influenzato dallo stile dei Who.
Le vendite del disco non sono eccezionali (n. 49 in classifica) ma ugualmente sufficienti a
garantire un’apparizione al programma Ready Steady Go e l’interesse per i Creation
aumenta, anche per merito di concerti ben congegnati, basati sull’utilizzo di spettacolari
trucchi scenici.
L’ottobre ’66 vede la pubblicazione di Painter man, il loro singolo più celebre, che in sostanza
ricalca lo stile di Making time proponendo armonie vocali maggiormente curate ed
orecchiabili, in grado di conferire alla canzone una forma meglio commerciabile nonostante la
chitarra di Phillips che suona come un violoncello scordato. Sul retro trova posto Biff bang
pow (con il piano di Nicky Hopkins), un brano accattivante, curiosamente situato a metà
strada tra My generation e Run run run dei Who, senza possedere l’arrembante urgenza delle
composizioni di Townshend.
Eddie Phillips è all’apice della notorietà nel circuito rock, tanto che lo stesso Townshend gli
offre un posto da secondo chitarrista nei Who. Incredibilmente Phillips rifiuta, forse
illudendosi di poter emergere con il suo gruppo ma per i Creation, che sfiorano il successo
senza raggiungerlo pienamente (Painter man si ferma al n. 36 della classifica), il periodo
migliore è già terminato.
Il complesso perde il cantante Kenny Pickett, che viene sostituito come front man da Bob
Garner, e recluta il nuovo bassista Kim Gardner, proveniente dai Birds, un buon gruppo
autore di quattro singoli tra il ’64 e il ’66. La rinnovata formazione pubblica, nel giugno 1967,
il terzo singolo If I stay too long, una ballata piuttosto scialba, accompagnato da Nightmares
che, pur essendo distante dai pezzi migliori dei Creation, risulta quantomeno gradevole.
Neppure giova l’incisione di una canzone valida come How does it feel to feel, caratterizzata
da un gravido e distorto suono di chitarra, e i Creation sono sempre più ignorati dal grande
pubblico, ottenendo buoni riscontri esclusivamente in continente (in particolare in Germania
dove vengono pubblicati due album) ; Garner lascia e anche Phillips decide di porre fine alla
sua brillante e, purtroppo, anonima carriera.
A ben poco valgono il ritorno di Pickett e l’arrivo alla chitarra di Ron Wood, ex compagno di
Gardner nei Birds : il gruppo si scioglie definitivamente dopo un concerto londinese nel
giugno 1968.
Gli unici musicisti ad avere un’importante prosecuzione di carriera sono Gardner e Wood.
Entrambi partecipano all’effimera formazione dei Santa Barbara Machine Head (con Jon
Lord e Twink) ; quindi Gardner nel 1969 forma un trio con il tastierista Tony Ashton e il
batterista Roy Dyke, mentre Wood diventa bassista nel gruppo di Jeff Beck.
Se i Creation non possono essere considerati gruppo fondamentale per l’evoluzione del
rock inglese, limitandosi a colorare con tinte psichedeliche concetti sonori già espressi da altri
prima di loro, i Misunderstood entrano nel merito della questione, superando d’istinto i
canoni consolidati del blues revival, allargando gli orizzonti ritmici e melodici delle canzoni,
acrobaticamente proiettate verso inediti scenari creativi.
I Misunderstood giungono a Londra nel giugno 1966, provenienti non dalla provincia inglese
ma da Riverside, una piccola cittadina californiana ; curiosamente il gruppo anticipa quello
che accade a Jimi Hendrix pochi mesi più tardi (con ben diverso impatto sulla scena
musicale).
All’inizio del 1966 il complesso viene notato da John Ravenscroft, un disc jockey inglese di
passaggio da quelle parti, in occasione di un’esibizione resa per l’inaugurazione di un centro
commerciale. La loro musica è un rhythm & blues duro e selvaggio, influenzato dai gruppi
inglesi in voga a quei tempi e Ravenscroft, convinto dalle potenzialità dei musicisti, si offre
come manager. All’epoca i Misunderstood hanno già all’attivo alcuni provini di studio e un
singolo costituito da due brani blues, You don’t have to go out (Reed) e Who’s been talking
(Howlin’ Wolf), per una formazione comprendente Greg Treadway (ch.), Rick Brown (v.ar.),
Steve Whiting (bs.), Rick Moe (bt.) e Glenn Ross Campbell (un abile strumentista di steel
guitar con precedenti esperienze in un gruppo surf).
Ravenscroft riporta il gruppo in studio di registrazione e le sedute fruttano un acetato, nel
quale spicca un’originale versione di I’m not talking (già nel repertorio degli Yardbirds) che
lascia trasparire alcune importanti novità nello stile. Comprendendo che a Riverside il
complesso non ha possibilità d’emergere, Ravenscroft riesce a convincere i musicisti a varcare
l’oceano per cercare un’adeguata collocazione nell’ambito dei nuovi fermenti underground
londinesi.
Treadway preferisce arruolarsi in marina e viene sostituito dal giovane chitarrista inglese
Tony Hill, che apporta un decisivo contributo strumentale e creativo. Fra mille difficoltà i
Misunderstood riescono a registrare, per l’etichetta Fontana, sei brani (all’epoca
sconvolgenti) che costituiscono l’essenza della loro concezione musicale.
Children of the sun rappresenta bene l’impianto sonoro del gruppo, dominato dalle chitarre
distorte, taglienti, ammalate di feedback di Hill e Campbell che producono sonorità
fiammeggianti, scatti convulsi, sospensioni emozionanti. My mind presenta un incedere
ritmico tribale e possente, alternato a momenti più rilassati, con le chitarre che solcano lo
spazio come meteore impazzite. Una sezione ritmica senza respiro è alla base di Find a hidden
door, spezzata da interventi vocali di grand'effetto, mentre I unseen è un bel blues rock ben
poco ortodosso, segnato dalla steel guitar di Campbell e dall’armonica di Brown.
Due brani vedono la luce sotto forma di singolo, nel dicembre 1966 : un’atipica, notevole
versione della Who do you love di Bo Diddley, caratterizzata da un’originale introduzione e
sostenuta da chitarre deraglianti che magicamente si stemperano in atmosfere fluttuanti ed
impalpabili, e la bellissima I can take you to the sun, un’eterea canzone psichedelica che a
sorpresa si chiude con il passo della ballata folk.
Le cronache del tempo raccontano di poche ma memorabili esibizioni nelle quali i
Misunderstood sperimentano una sorta di musica per il corpo e per la mente, basata su un
approccio “spaziale” e qualcosa di quei coraggiosi propositi rimane nelle idee di giovani
formazioni emergenti dall’underground (Pink Floyd ?).
Nonostante un crescente, seppur modesto, interesse il gruppo è allo sbando : Rick Brown è
costretto a rientrare negli Stati Uniti mentre agli altri viene revocato il permesso di soggiorno,
e così termina la breve avventura di uno dei complessi più importanti per l’influenza
esercitata sulla nascente scena psichedelica e progressiva inglese.
Campbell torna in Inghilterra nel 1969 per portare la sua steel guitar al servizio dei discreti
Juicy Lucy ; nello stesso anno, Tony Hill forma gli High Tide, una delle migliori formazioni
della musica progressiva inglese.
John Ravenscroft, dopo l’esperienza come manager dei Misunderstood, si ribattezza con il
nome di John Peel e diviene il più apprezzato ed influente D.J. inglese, prima con trasmissioni
dalle frequenze della pirata Radio London, poi come affermato conduttore a Radio One dove
lancia il programma Top Gear, passaggio obbligato per i gruppi emergenti della scena
progressiva. Sarà anche produttore, discografico (con l’etichetta Dandelion, dalla durata
piuttosto breve) e giornalista per International Times e Sounds, proponendosi a modo suo
come personaggio centrale della vita musicale inglese, ancora fino ai nostri giorni.
The Turning Point
diario fantastico dell'esperienza interstellare di Pepper il sergente
Lo sviluppo dell’albero genealogico della musica progressiva inglese attraversa tre
principali fasi evolutive. Nella prima fase assistiamo alla presa di coscienza delle proprie
capacità creative da parte dei musicisti del beat e del blues revival, fino al raggiungimento, nel
biennio ’65 - ’66, di un originale linguaggio espressivo che possiamo definire compiutamente
rock.
Una seconda fase, storicamente collocabile tra il 1967 e il 1970 - ’71, vede una massiccia
proliferazione di musicisti e complessi con la conseguente ramificazione degli stili che, pur
derivando per la maggior parte dalle medesime radici, si allontanano sempre più tra loro
come sospinti da un’invisibile forza centrifuga.
Nei Settanta, la terza fase crea l’ordine costituito della musica progressiva che lentamente, ma
inesorabilmente, perde buona parte dei contenuti innovativi, propugnati negli anni precedenti
da minoranze creative di musicisti. Restano il commercio fine a se stesso, gli spettacoli ricchi
ed opulenti sovraccarichi di retorica, suoni pesantemente arrangiati che trovano nell’eccesso
dell’elaborazione e della ricercatezza la loro povertà tematica. Restano sino a quando una
nuova minoranza creativa, facendo leva su una ritrovata semplicità espressiva, ne determina
bruscamente la fine nel tardo 1976, con l’esplosione del fenomeno punk.
L’industria discografica, ovviamente, si adegua a queste fasi evolutive, creando al suo interno
gli strumenti per esercitare il controllo delle mutevoli esigenze espresse dal mercato.
Negli anni Cinquanta il mercato era sostanzialmente dominato da poche grandi case
discografiche, preponderanti anche all'inizio dei Sessanta. Decca, Pye, Emi e Philips (le ultime
due attive ai tempi del beat con le etichette Parlophone e Fontana) si spartivano senza troppa
fatica la ricchezza esistente, in un regime di solo apparente concorrenza. La crescente
diffusione di musicisti pronti ad intraprendere nuove direzioni musicali mette in difficoltà la
pachidermica organizzazione delle grandi case discografiche, e così nascono le prime etichette
indipendenti (la Island nel 1962, la Immediate nel 1965, la Blue Horizon nel 1967) pronte ad
appropriarsi di piccole o grandi fette di mercato.
Lo sviluppo di un fenomeno sociale e culturale di stampo underground determina, poi, la
creazione di ulteriori strumenti alternativi per la diffusione delle proposte musicali più
lontane dal concetto di “normalità”. Numerose sono le etichette che vedono la luce verso la
fine degli anni Sessanta, per la maggior parte ideate da manager e produttori, spesso destinate
a precoci fallimenti ; tra queste vanno ricordate la Marmalade di Giorgio Gomelsky, la
Dandelion di John Peel, la Young Blood di Miki Dallon, la Nephenta di Larry Page, la
minuscola e quasi mitica Stable.
La reazione delle grandi compagnie non si fa attendere e si materializza nella fondazione di
etichette specializzate che adottano una struttura elastica, capace di sfruttare
commercialmente anche il mercato della musica progressiva. Così nascono la Harvest (Emi),
la Deram (Decca), la Vertigo (Philips - Polydor), la Dawn (Pye), la Neon (della filiale inglese
RCA), marchi che ben presto riportano le major alla supremazia totale, ma che quanto meno
hanno il pregio di consentire a sconosciuti musicisti privi di successo l’approdo all’incisione
discografica.
Il 1967 è l’anno dei grandi rivolgimenti del rock inglese, marcato a fuoco dall’uragano
psychoblues di Jimi Hendrix, dai ricercati equilibrismi stilistici dei Beatles, dalle vertigini
allucinate dei Pink Floyd, dalla soffice e raffinata psichedelia soul folk dei Traffic.
Gran parte della musica prodotta in Inghilterra negli anni successivi dovrà inevitabilmente
confrontarsi con questi fondamentali insegnamenti.
-5E’ il luglio 1966 quando gli Animals iniziano una serie di concerti negli Stati Uniti.
Appena arrivato a New York il bassista del gruppo Chas Chandler ha modo d’assistere al
Café Wha ?, un piccolo locale del Greenwich Village, all’esibizione di una sconosciuta
formazione chiamata Jimmy James and the Blue Flames. Sul palco s’incrociano le chitarre
del giovanissimo Randy California (poi fondatore degli Spirit) e del leader del gruppo, tale
James Marshall Hendrix da Seattle che, suonando il proprio strumento in modo inconsueto ed
utilizzando alcuni strani trucchi scenici, colpisce immediatamente l’attenzione di Chandler, il
quale si convince che nel panorama del dopo beat inglese un siffatto personaggio può avere
qualche possibilità d’emergere. Sicuramente, nemmeno lo stesso Chandler immagina quale
sconvolgente impatto Hendrix sarà in grado di produrre nell’ambito della musica rock.
In quel volo del 23 settembre che lo porta in Inghilterra, convinto da Chandler che si propone
come manager e produttore, Hendrix porta con sé la chitarra e la speranza di successo, fino
allora sempre vanificata nei tanti complessi giovanili e nelle castranti collaborazioni con i vari
Little Richard, Jackie Wilson, Sam Cooke, Isley Brothers.
Il primo di ottobre è già sul palco del Polytechnic di Londra, ospite dei Cream di Eric
Clapton, e nel giro di pochi giorni gli vengono presentati Noel Redding (un oscuro chitarrista
reduce da piccole formazioni, che pur di suonare con Hendrix s’adatta al ruolo di bassista) e
Mitch Mitchell (batterista di buone qualità, già con Screaming Lord Sutch, Johnny Kidd &
the Pirates, Georgie Fame & Blue Flames e, per brevissimo tempo, con i Pretty Things).
La Jimi Hendrix Experience è pronta per le prime esibizioni francesi e tedesche : il musicista
inizia a suscitare interesse dal vivo affidandosi ad una musica che deriva in linea retta dal
blues, rivisto in chiave psichedelica tramite uno stile chitarristico innovativo, e grazie alla
selvaggia presenza scenica che riflette l’emozione del suono.
L’esordio discografico avviene il 16 dicembre con Hey Joe, un brano molto eseguito negli Stati
Uniti (tra gli altri l’interpretano i Byrds, i Love, i Leaves e Frank Zappa - l’ironica
controcover di Flower punk). La versione dell’Experience, introdotta da una semplice ma
memorabile frase di chitarra che cattura l’attenzione dell’ascoltatore, acquista un aspetto
drammatico a causa dell’utilizzo di un tempo fortemente rallentato, scandito da una lirica e
controllata parte strumentale e dalla severa voce narratrice di Hendrix. Al pezzo viene
associata Stone free, prima composizione originale di Jimi (almeno per quanto riguarda la
nuova carriera inglese), una bella canzone con chiari accenti soul, dallo stile sufficientemente
definito.
Ben più impressionante è il secondo singolo Purple haze (marzo ’67), una sorta di precoce
hard blues carico di tensione visionaria, che entra di diritto nel novero delle migliori
produzioni hendrixiane, con la chitarra che soffre, geme, s’impenna in un concentrato di riff
micidiali. Il disco arriva fino al terzo posto in classifica e l’Experience consolida rapidamente
una notevole popolarità in Inghilterra grazie all’intensa attività live (nell’aprile ’67 Hendrix
compie la prima organica tournée inglese).
Un ulteriore 45 giri, con l’eterea The wind cries Mary, precede di pochi giorni la pubblicazione
del primo album che avviene il 12 maggio 1967.
JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ARE YOU EXPERIENCED ?
(Track - 1967)
Are you experienced ? scuote dalle fondamenta il panorama musicale inglese, proponendo uno
strepitoso rock blues psichedelico ; i tempi del beat, delle ordinate linee melodiche, delle
pulite armonie vocali, degli strumenti ben controllati ed allineati sembrano lontani un secolo.
Qui la musica eccita, punta diritta allo sballo fisico e psichico, trasmette elettricità allo stato
puro, assimila la tradizione del blues per ridisegnarne la forma. L’Experience si rivela il
gruppo perfetto per le esigenze di Hendrix : Mitchell, con il suo stile in apparenza
disordinato, offre un ottimale contributo poliritmico e Redding suona il basso con
un’originale tecnica, direttamente derivata dalla sei corde, che rende ancor più movimentata
e imprevedibile la base ritmica.
Da parte sua, il leader definisce nuovi parametri di confronto e non è esagerato parlare di
tecnica della chitarra rock prima e dopo Hendrix, mentre lo stile vocale declamatorio di Jimi
s’adatta molto bene a una musica di gran peso specifico.
Alcune canzoni stordiscono per il furore ritmico e creativo : la danza tribale di I don’t live
today, guidata da un secco riff sospeso su un mare di feedback (qui appare per la prima volta
l’effetto wah-wah , del quale Hendrix resta insuperato maestro), le affascinanti sezioni
sovrapposte di Love or confusion, con le chitarre impalpabili, liquide, che improvvisamente
raggrumano per dettare il ritmo sostenuto da un Mitchell libero di qualsiasi preoccupazione
formale, la dimenticata Manic depression, basata su un insolito tempo di valzer, dove ancora
Mitch fornisce una propulsione ritmica circolare, ideale rampa di lancio per uno degli assolo
di chitarra più selvaggi di tutto il rock.
I brani più sperimentali sono 3rd stone from the sun, un’allucinata jam spaziale caratterizzata
da una melodia senza tempo e dall’uso di nastri manipolati a diverse velocità per i dialoghi
delle voci, che risultano fortemente rallentati, e la conclusiva Are you experienced ?, che
presenta parti con tutti gli strumenti registrati alla rovescia, in un coinvolgente e fascinoso
rituale asimmetrico.
Foxy lady, Fire, Can you see me, graffianti e dinamici, sono classici del repertorio hendrixiano,
particolarmente adatti all’atmosfera dei concerti, così come il nitido blues di Red house, né si
possono dimenticare le linee fluttuanti di May this be love. Il roccioso rhythm & blues di
Remember appare l’unico episodio leggermente sotto tono, ma forse la sua colpa è solo quella
di venire inserito in uno dei grandi capolavori della storia del rock.
Dopo la pubblicazione dell’album d’esordio Hendrix è già personaggio d’enorme fama e
successo ; i dischi navigano nelle posizioni alte delle classifiche inglese e americana e
l’Experience, per tutto il 1967, si dimostra un’instancabile macchina da concerti (nella sua
breve esistenza, prima dello scioglimento nel giugno 1969, il gruppo effettua ben 480 esibizioni
ufficiali !).
In maggio l’Experience fa un giro di concerti nel vecchio continente e quindi vola negli Stati
Uniti dove, il 18 giugno, esordisce in occasione del Monterey International Pop Festival, uno
dei più importanti avvenimenti dell’estate californiana. Nella scaletta del concerto, Hendrix
propone versioni solide e precise di alcuni brani di successo e, a sorpresa, inserisce una
brillante, personale rilettura del classico di Bob Dylan Like a rolling stone. La performance è
di altissimo livello, ma ciò che la rende unica è il gran finale dedicato a Wild thing, un brano
scritto da Chip Taylor e portato alla notorietà dai Troggs, nell’aprile 1966. Qualcosa di
veramente selvaggio s’abbatte sullo sbigottito pubblico californiano.
Gli altoparlanti al
massimo del volume sembrano sul punto di scoppiare sotto la spasmodica azione della
chitarra di Jimi, che si fionda in devastanti sequenze dissonanti, al limite del caos e del
rumore puro. Anche l’ingenuo trucco scenico finale, con il rito della chitarra arsa viva,
assume contorni inquietanti, con lo strumento abbandonato, agonizzante, che continua a
gemere impietosamente.
L’Experience resta negli States fino ad agosto per una serie di concerti, alcuni dei quali
inseriti di supporto ad un tour dei Monkees ; l’esperienza dura poco in quanto, dopo
un’esibizione nello stadio di Forest Hills a New York, il gruppo viene ripudiato per
incompatibilità stilistica. Tra le incessanti tournée e le sessioni di studio, la Jimi Hendrix
Experience trova il tempo per realizzare alcune eccellenti registrazioni per le trasmissioni
radiofoniche Saturday Club, Top Gear e Alexis Korner’s R & B Show (prodotte dalla BBC),
nastri che per anni costituiscono la base di numerose pubblicazioni discografiche illegali e nel
1988 vengono raccolti nell’ottimo doppio Radio One.
Verso la fine dell’anno Hendrix è nuovamente on the road con il secondo tour inglese che si
svolge in contemporanea della pubblicazione (il primo di dicembre) del nuovo LP, Axis : bold
as love. E’ l’ultimo lavoro prodotto da Chandler che poco dopo si defila dal management di
Hendrix e il disco, pur accusando inevitabilmente l’assenza del fattore novità, conferma
l’eccellente momento del chitarrista. I brani memorabili sono la granitica Spanish Castle
magic, dotata di un impatto poderoso, le delicate e poetiche Little wing e Castles made of sand,
l’avvolgente Bold as love (basata sul largo uso dell’effetto phasing) e la concisa If six was nine,
con le dure contrazioni della scorza blues.
“... cadete montagne, ma non su di me ...”, purtroppo non sarà così.
-6Il 1967 inizia per i Beatles con la pubblicazione (in febbraio) del singolo Penny Lane /
Strawberry fields forever. Se Penny Lane presenta un incedere classico, valorizzato da
arrangiamenti raffinati, Strawberry fields forever prosegue il lavoro iniziato con l’album
Revolver, alla ricerca di una viva sperimentazione sonora. Il brano, caratterizzato da
un’introduzione pastorale che sfocia in un dolce capogiro psichedelico, è uno dei capolavori
dei Beatles, sia per quanto concerne le imprevedibili soluzioni timbriche adottate che per ciò
che riguarda la tecnica di produzione, basata sulla manipolazione di nastri ottenuti da due
diverse registrazioni che convergono miracolosamente sulla stessa tonalità e si fondono
perfettamente tra loro.
BEATLES - SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND (Parlophone - 1967)
Il primo giugno 1967 viene commercializzato, in unica versione mondiale e senza estratti a 45
giri, Sgt. Pepper’s lonely hearts club band, un album considerato come lo storico momento di
trapasso dalla cultura beat alle nuove proposte progressive della musica giovanile.
Se da un punto di vista formale, d’immagine e d’impatto sulla scena musicale dell’epoca,
l’affermazione è condivisibile, sotto l’aspetto dei contenuti appare doveroso riconoscere che
altri, e più radicali innovatori, negli stessi giorni definiscono le linee portanti del suono
progressivo, ottenendo risultati formidabili.
Lennon e McCartney (autori di tutti i brani ad eccezione di Within you without you, composta
da Harrison) scelgono di produrre un flusso musicale senza soluzione di continuità,
determinando, di fatto, l’inizio della moda degli album a tema specifico (concept) ; inoltre, il
puntiglioso lavoro d’ingegneria sonora già sperimentato con eccellenti risultati viene
perfezionato e posto alla base di ogni creazione. Ugualmente, il gruppo è indotto a seguire
tracce melodiche raffinate ed arrangiate in modo invidiabile, ma anche troppo usuali e
costringenti : è il caso della bella ma innocua marcetta di A little help from my friends (Joe
Cocker riuscirà a cavar fuori da queste stesse note ben altre suggestioni), delle graziose
Getting better e Lovely Rita, dell’iniziale title track (che non va oltre ad un pulito R’n’R di
base), persino dell’ottima Fixing a hole, il cui lirico contenuto meriterebbe un arrangiamento
con un pizzico di coraggio in più.
Le intuizioni migliori sono sparse in Lucy in the Sky with Diamonds, una nenia allucinata da
carillon psichedelico, e nello stralunato valzer di Being for the benefit of mr. Kite !.
Convincono pure le abituali movenze orientali di Within you without you e diverte il bestiario
di Good morning, good morning, un R & B decisamente inconsueto.
A day in the life chiude simbolicamente l’era psichedelica dei Beatles, formando con Tomorrow
never knows e Strawberry fields forever un indimenticabile trittico denso di emozioni ;
l’introduttiva, tremante melodia viene risucchiata in una spaventevole spirale da incubo che
porta all’immaginario risveglio, forse solo un’illusione di poter fuggire dal tormento dei
propri sogni, definitivamente inghiottiti dalla voragine orchestrale che chiude il brano con
un’affermazione drammatica.
La morte improvvisa del manager Brian Epstein mette in crisi i complessi equilibri dei
Beatles, che da questo momento cominciano a perdere la propria unità d’intenti e
s’imbarcano in progetti disastrosi, come nel caso dell’inaugurazione della Apple,
un’ambiziosa etichetta discografica (ma anche una stravagante boutique, una divisione
cinematografica e una “foundation for arts” rimasta sulla carta delle buone intenzioni) che
finirà con il fallire dopo aver inghiottito notevoli risorse finanziarie.
La successiva mossa del complesso è la realizzazione, alla fine del 1967, del film per la BBC
Magical Mystery Tour, supportato da un doppio extended play che convince solo a tratti (la
valida orchestrazione di I am the walrus e la frizzante sigletta della title track). Negli U.S.A. i
sei brani sono raccolti su un album che, in aggiunta, comprende alcune canzoni tratte da
singoli, tra cui Strawberry fields forever.
Nell’estate 1968 il gruppo coglie un nuovo, grande successo con il 45 giri Hey Jude,
caratterizzato dalla celebre coda corale, canzone che paga un evidente e forse volontario
tributo a Dear mr. Fantasy dei Traffic (istruttiva in tal senso la bella versione in medley
fornita da Al Kooper e Mike Bloomfield nel loro Live adventures - Columbia 1969 - dove i due
brani si compenetrano alla perfezione, apparendo come un’unica entità).
Il doppio album omonimo, pubblicato nel novembre successivo, è l’ultimo disco importante
dei Beatles, in netto contrasto con i colori e le atmosfere del Sgt. Pepper sin dalla copertina
completamente bianca. Il “white album” s’affida ad un duro realismo sonoro, ben
rappresentato dai rock’n’roll scarni ed essenziali di Back in the U.S.S.R.. e di Birthday, dal
blues rock tirato ed urlato di Yer blues e soprattutto dalla stravolta Helter Skelter, costruita su
un muro di chitarre informi e strazianti. In generale, il lavoro presenta un’ampia molteplicità
di stili, passando con disinvoltura dal rock duro e graffiante a raffinate e suadenti ballate
(Dear prudence, While my guitar gently weeps con Eric Clapton), dall’ironica e neoclassica
Piggies (con tanto di grugniti finali) al country western di Rocky Raccoon, dal blues
impertinente di Why don’t we do it in the road ? all’enfatica tessitura ritmica di Everybody’s
got something to hide except me and my monkey, per finire con le caotiche ed inquietanti
sperimentazioni di Revolution 9.
Le spinte disgreganti all’interno del gruppo aumentano, l’accordo tra Lennon e McCartney
s’incrina sempre più, Harrison chiede una maggiore considerazione come compositore e i
Beatles si avviano al termine della loro colossale carriera, con la residua forza per realizzare
altri due album onesti quali Abbey road (Apple - 1969) e Let it be (Apple - 1970), a tratti molto
belli ma inesorabilmente avulsi dal contenuto musicale più avanzato della fine del decennio.
Dopo lo scioglimento ufficiale, avvenuto nell’aprile 1970, i quattro intraprendono separate
carriere, commercialmente molto produttive (in particolare McCartney) ma spesso eccepibili
sotto l’aspetto qualitativo.
John Lennon viene tragicamente ucciso da uno squilibrato alla fine del 1980.
-7Tra le decine di piccoli locali che hanno costituito la rete di sviluppo delle tendenze
underground e progressive nella zona di Londra (Middle Earth, Marquee, Pink Flamingo,
Roundhouse, Speakeasy ecc.), uno dei più mitici è sicuramente l’Ufo Club, con base a
Tottenham Court Road. Il ritrovo viene allestito da John Hopkins alla fine del 1966, allo
scopo di raccogliere fondi per la neonata rivista underground I.T. - International Times. In
breve tempo, l’Ufo diventa il rifugio dei musicisti alternativi, dediti a pratiche sperimentali e
alla ricerca di sintesi innovative ; qui vengono sperimentati i primi light show psichedelici,
sottolineati dalla musica di complessi agli esordi quali Soft Machine, Tomorrow, Crazy World
of Arthur Brown, Giant Sun Trolley (poi Third Ear Band) e, tra i più assidui frequentatori,
Pink Floyd.
Originario di Cambridge, Syd Barrett è un bizzarro chitarrista in perenne ed affannosa
ricerca, che sperimenta rumori assurdi fino alle prime ore del mattino rischiando il linciaggio
da parte dei vicini di casa. Le prime esperienze del musicista sono consumate all’inizio degli
anni Sessanta, in formazioni casalinghe dedite al R’n’R di Cliff Richard, degli Shadows, di
Chuck Berry.
Nel settembre 1964 Barrett si trasferisce a Londra dove incontra Roger Waters che l’invita ad
unirsi al suo gruppo, gli Abdabs, nel quale suonano pure Richard Wright e Nick Mason ;
prima della fine dell’anno nascono i Pink Floyd (la sigla deriva da un’idea di Barrett, che
accosta i nomi di due bluesmen della Georgia, Pink Anderson e Floyd Council). All’inizio la
formazione è composta da sei elementi, ma ben presto il chitarrista Bob Close e il cantante
Chris Dennis abbandonano e i Pink Floyd s’assestano con Barrett, Waters, Wright e Mason.
Il complesso cerca di darsi uno stile originale e di crearsi un piccolo seguito, a partire dal
febbraio 1966 quando ottiene la possibilità d’esibirsi con regolarità al Marquee. In estate i
quattro conoscono Peter Jenner e Andrew King, che diventano i loro manager ; gli ultimi
mesi del ’66 sono decisivi per lo sviluppo della scena underground londinese e i Floyd non
perdono occasione per partecipare a tutti gli appuntamenti importanti, dagli spettacoli alla
Roundhouse del 15 ottobre (per il lancio di I.T.) e del 3 dicembre (per il primo grande ritrovo
psichedelico, Psycodelphia versus Ian Smith), fino all’inaugurazione dell’Ufo Club (23
dicembre).
L’inizio del nuovo anno vede il gruppo in studio di registrazione, sotto la produzione di Joe
Boyd, per la realizzazione di alcune sessioni che fruttano quattro brani ; due di questi sono
scelti per il singolo d’esordio, Arnold Layne e Candy and a current bun, edito l’undici marzo.
Arnold Layne presenta un testo audace ed ambiguo, che procura difficoltà per la
radiodiffusione ma, al tempo stesso, permette ai Pink Floyd di diventare una delle formazioni
più rispettate nell’ambiente underground. La canzone, costruita su un impianto di ballata
folk, lascia trasparire solo a tratti alcuni degli elementi timbrici che renderanno tipica la
musica del gruppo, soprattutto per ciò che riguarda l’uso dell’organo da parte di Wright.
Di maggior efficacia appare il secondo singolo See Emily play, registrato in maggio con il
nuovo produttore Norman Smith (un ex tecnico dei Beatles) e originariamente intitolato
Games for May, che è pubblicato il 16 giugno ed ottiene un lusinghiero piazzamento in
classifica (n. 5). La musica è calata alla perfezione nella fervida scena psichedelica, con la
proposta di soluzioni fantasiose ed un gustoso assaggio della chitarra siderale di Syd Barrett.
Nel bel mezzo della pubblicazione dei due dischi, il complesso partecipa al 14th Hour
Technicolour Dream - Free Speech Benefit, una manifestazione organizzata dal solito John
Hopkins all’Alexandra Palace di Londra, tra la notte del 29 e il mattino del 30 aprile 1967, per
finanziare International Times. Il grande concerto si trasforma nell’evento più ricordato di
tutta la psichedelia inglese, al quale assistono diverse migliaia di persone ; tra le numerose
formazioni che vi prendono parte, spiccano i nomi dei primi Soft Machine, di Arthur Brown,
Pretty Things, Social Deviants, Tomorrow, Sam Gopal e Mick Hutchinson. I Pink Floyd
suonano poco prima dell’alba, in un’atmosfera surreale, e l’esibizione li consacra ai vertici
della scena underground.
PINK FLOYD - THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (Columbia - 1967)
Le sedute di registrazione del primo LP, agli studi di Abbey Road della Emi, si protraggono
per circa sei mesi e sono rese difficili dal comportamento imprevedibile di Barrett, che a quei
tempi è il leader e il maggior compositore del gruppo. Finalmente, il 5 agosto 1967 vede la luce
The piper at the gates of dawn che rapidamente ottiene ottimi risultati di vendita.
Il disco lancia i Pink Floyd in orbita stellare e conferma le qualità come autore di Barrett ; il
suono spiazza l’ascoltatore, ancora abituato a confrontarsi con stili derivati dal blues e dal
rock’n’roll, presentando una latente matrice folk, oltre a tematiche ereditate dalla cultura
musicale europea (in particolare classica), introdotte per la prima volta in un contesto rock
dai Beatles. Anche l’aspetto psichedelico della loro musica e la propensione alla ricerca sulle
tecniche di registrazione hanno un debito da saldare nei confronti del quartetto di Liverpool
(che, per uno strano gioco del destino, in quei giorni completa la produzione del Sgt. Pepper
proprio a Abbey Road, in uno studio attiguo a quello dei Floyd).
L’approccio dei Pink Floyd è comunque irriverente e proiettato verso ardite soluzioni
psichedeliche, ben lontano da quanto proposto nello stesso periodo da altri gruppi neoclassici,
quali i Procol Harum di A whiter shade of pale. Alla pulizia formale il complesso preferisce un
impegno in bilico fra sperimentazione e semplici melodie di base.
Barrett non insegue virtuosismi solistici ma si concentra sul rumore e sul fascino del timbro
del suono, confermandosi uno tra i più decisi innovatori dello stile del proprio strumento.
Canzoni come Lucifer Sam e Take up thy stethoscope and walk (con un memorabile
trattamento nevrotico della sei corde) sono deviate dalle originarie linee melodiche ; da parte
sua, Wright disegna all’organo inconsueti arabeschi nelle ballate psichedeliche di Matilda
mother e The scarecrow, emoziona nelle atmosfere classiche di Flaming, nella rumorista e
suggestiva Pow R. Toc. H. e nell’enigmatica Chapter 24.
I brani più significativi e futuribili sono le magistrali Astronomy domine, sospinta in volo dalle
pulsazioni vitali della chitarra di Barrett e delle percussioni di Mason, e l’inarrivabile
Interstellar overdrive, valvola di sfogo delle ulcere sonore barrettiane risucchiate dai gorghi
cosmici dell’organo di Wright.
Bike è pazzesca, con quella voce sfuggente e con l’orgiastico caos finale, quasi un prematuro
epitaffio di Barrett che poco dopo perde la misura, manifesta segni di squilibrio mentale ed
entra in una sorta di trance impenetrabile, costringendo i suoi compagni di viaggio a
scaricarlo, per non smarrire la strada del successo.
Syd alterna momenti di lucidità ad altri nei quali risulta assente, incapace di suonare in
gruppo ; ad acuire le sue preoccupazioni arriva l’insuccesso del nuovo singolo Apples and
oranges.
Verso la fine del ’67 i Pink Floyd partecipano al Jimi Hendrix Package Tour (con Experience,
Move, Amen Corner, Nice e Eire Apparent) che vede un Barrett ulteriormente peggiorato,
spesso sul palco con lo sguardo perso nel vuoto e, a volte, addirittura sostituito per
irreperibilità dal chitarrista dei Nice, David O’List.
Ben presto si arriva al punto in cui la comunicazione tra Barrett e il resto del gruppo diviene
impossibile, con il chitarrista proteso verso qualcosa di troppo nuovo, di troppo diverso, e con
i compagni incapaci di seguirlo convenientemente. Viene contattato David Gilmour, amico di
vecchia data dello stesso Barrett, e per breve tempo i Floyd tentano di tenere a galla una
formazione a cinque, ma nel marzo 1968 Syd Barrett esce dal gruppo.
Il secondo album, A saucerful of secrets (giugno 1968), segna il trapasso dalla dolce, allucinata
follia dei primi lavori alle regole che fissano il classico stile dei Pink Floyd. Se The piper at the
gates of dawn è il capolavoro dell’era psichedelica inglese, il nuovo disco acquista in peso
strumentale, scandagliando immani profondità astrali in brani di gran fascino, come
l’ipnotico Set the controls for the heart of the sun (dove, probabilmente, suona ancora Barrett)
e Let there be more light, due composizioni di Roger Waters che diventa il nuovo punto di
riferimento creativo della formazione.
Il vertice del disco è la lunga ed ambiziosa title track, un’ardita mini suite in tre movimenti
quasi a carattere sinfonico, che riveste notevole importanza nell’evoluzione futura della
musica dei Pink Floyd.
Barrett è presente in due registrazioni del 1967, Remember a day e la deliziosa Jugband blues,
che significativamente chiude in modo sarcastico la collaborazione del musicista con il suo
gruppo.
-8L’impatto dei Traffic sulla scena musicale del 1967 è meno sconvolgente rispetto a
quello generato da Jimi Hendrix e dai Pink Floyd, né la formazione è in grado di fare
affidamento, come nel caso dei Beatles, su un’autorevolezza conseguita negli anni del beat.
Eppure, la loro musica (forse proprio per il fatto che evita clamori sperimentali, preferendo
attingere a svariate e tradizionali fonti d’ispirazione) è un importante momento propositivo
destinato a far scuola, e va considerata come la prima riuscita sintesi nel campo del rock
progressivo.
Dopo il successo commerciale con lo Spencer Davis Group ed esaurita la breve parentesi di
studio con i Powerhouse di Eric Clapton (1966), Stevie Winwood organizza un nuovo nucleo
di musicisti nella primavera del 1967, con l’intento di dedicarsi ad una musica ambiziosa.
I componenti dei Traffic provengono da due formazioni della zona di Birmingham : Dave
Mason e Jim Capaldi hanno fatto gavetta nei Deep Feeling, mentre Chris Wood è reduce dai
Locomotive. Il nuovo gruppo mette a punto la propria formula musicale provando per alcuni
mesi in una fattoria del Berkshire e i singoli Paper sun (giugno ’67) e Hole in my shoe
(settembre ’67) raggiungono le zone alte della classifica di vendita.
TRAFFIC
-
MR. FANTASY
(Island - 1967)
Nel dicembre 1967 Mr. Fantasy dà forma ad una brillante fusione di folk, blues, jazz e soul,
venata da una morbida psichedelia. Il disco si apre con l’emozionante Heaven is in your mind,
una ballata folk sorretta dall’anima soul del piano di Winwood e della scarna batteria di
Capaldi. Chris Wood colora la musica con i fiati in modo naturale e discreto, senza forzature,
raggiungendo vertici assoluti in No face no name no number, una struggente canzone
autunnale di cristallina bellezza, accarezzata dalla melodia del flauto che evoca ricordi densi
di nostalgia ; con la sua impostazione classica (organo, mellotron e clavicembalo) il brano è un
vero e proprio preludio al rock romantico degli anni Settanta.
Coloured rain, marcata dall’incalzante organo di Winwood e nobilitata dall’elegante lavoro al
sax di Wood, e Dear mr. Fantasy (brano dal quale trae ispirazione Hey Jude dei Beatles), che
si fonda su una felice intuizione melodica risolta da un’infuocata jam chitarristica, sono i
manifesti psichedelici dei Traffic.
Mason è responsabile dell’orientaleggiante Utterly simple, valida, ma troppo legata ad
analoghe esperienze dei Beatles, e della discreta Hope I never find me there ; degne d’interesse
anche Dealer (un brano di Capaldi) e il conclusivo strumentale blues jazz di Giving to you.
Dopo appena pochi mesi, il gruppo diviene instabile a causa delle divergenze sulla conduzione
artistica, esistenti tra Winwood e Mason ; quest’ultimo abbandona per dedicarsi ad alcune
collaborazioni con grossi nomi del circuito rock (Rolling Stones, Jimi Hendrix) e alla
produzione degli emergenti Family. Da parte loro, nella primavera ‘68 Winwood e Wood
partecipano alle registrazioni di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, apportando un importante
contributo al lavoro del chitarrista di Seattle.
I Traffic si riuniscono per le sessioni che danno vita al secondo album omonimo, pubblicato
nell’ottobre 1968 ; nonostante contenga materiale di ottima qualità, il disco risente della
difficile situazione interna e mostra i musicisti divisi sugli obiettivi da raggiungere.
Da un lato Mason progetta una musica lineare e tradizionalmente rock, come dimostrano il
country di You can all join in e le belle ballate di Feelin’ alright ? e Don’t be sad, dall’altro
Winwood e Capaldi recuperano sonorità tipiche dei primi Traffic nelle ottime Forty thousand
headmen e No time to live. Notevoli sono Pearly queen, dall’accattivante cadenza rock blues, e
Cryin’ to be heard, un brano di Mason che Winwood fa suo con un poderoso suono d’organo.
Il gruppo trova la forza per incidere un terzo album, Last exit (Island - maggio 1969), discreto
anche se inferiore ai lavori precedenti. Il disco è suddiviso in una parte registrata in studio,
nella quale risaltano la raffinata Shanghai noodle factory, il cadenzato valzer di Withering tree,
la spigliata Medicated goo, e in una ricavata da un’esibizione al Fillmore West di San
Francisco, che comprende una buona Feelin’ good.
Quando il lavoro viene pubblicato Mason ha di nuovo abbandonato e Winwood, nel febbraio
del ’69, decide di sciogliere il gruppo per entrare nell’effimero nucleo dei Blind Faith, con
Eric Clapton, Ginger Baker e Ric Grech.
Capaldi e Wood recuperano Mason e, con l’aiuto di Mick Weaver, s’impegnano nei Wooden
Frog, una formazione dalla vita breve. Mason si trasferisce poi negli Stati Uniti dove
collabora con Gram Parsons, con Delaney & Bonnie e pubblica svariati album come solista.
Il Fuoco e l'Acqua
un ricordo di British blues
-9Sin dai primi mesi del 1966 nella scena del blues revival inglese inizia ad affermarsi
un nuovo atteggiamento, teso alla ricerca di una sistemazione dell’originario linguaggio di
recupero delle matrici blues all’interno di un contesto espressivo progressivo.
Tra i pionieri del genere, un posto di rilievo spetta agli Yardbirds che per primi escono dagli
schemi consolidati del blues revival e del rock’n’roll, introducendo (già nel 1965) decisivi
elementi di novità e giungendo ad un'ottimale sintesi nella seminale Shapes of things, primo
compiuto esempio di rock blues.
Neppure va dimenticata l’appartenenza a questa formazione di tre chitarristi di primaria
importanza, quali Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, che con i rispettivi gruppi saranno
tra i più significativi esponenti del blues duro e progressivo
Dopo le esperienze con Yardbirds e John Mayall’s Bluesbreakers, nel 1966 Eric Clapton
raccoglie sotto la sigla Powerhouse alcuni noti musicisti dell’epoca, tra i quali Stevie Winwood
e Pete York (entrambi dello Spencer Davis Group) e il cantante Paul Jones (già con Manfred
Mann) ; l’effimera associazione incide solo tre brani che sono raccolti sull’antologia What’s
shakin’ (Elektra-1966). Proprio nei Powerhouse (e altrettanto brevemente nei Bluesbreakers)
Clapton ha modo di suonare con Jack Bruce, con il quale matura l’idea di costituire una
formazione che mostri un atteggiamento originale nei confronti del blues elettrico.
Nel luglio del ’66 è il produttore Robert Stigwood a realizzare operativamente il progetto di
un vero e proprio supergruppo con Clapton, Bruce e il batterista Ginger Baker (la sezione
ritmica si conosce sin dai tempi della Blues Incorporated di Korner e della Graham Bond
Organization).
I Cream sono, di fatto, il primo complesso triangolare della storia del rock, configurazione che
sottintende una diversa organizzazione del suono e dei compiti, nella quale ogni strumento
acquisisce (in particolare dal vivo) una valenza ritmica e solistica di reciproco stimolo.
Il gruppo esordisce in occasione del festival di Windsor ed effettua una serie di concerti al
Marquee, prima di pubblicare il singolo Wrapping paper, nell’ottobre ’66. Il successivo I feel
free segna l’ingresso nelle classifiche di vendita e i Cream si affermano con una fitta serie di
spettacoli dal vivo.
E’ l’epoca dell’immigrazione londinese di Jimi Hendrix, che il primo di ottobre è ospite del
trio sul palco del Polytechnic ; Hendrix diventa grande ammiratore ed amico di Clapton e
tiene in debita considerazione l’insegnamento dei Cream, la potenza e la tensione emotiva del
loro blues, la propensione per una musica liberata dagli schemi del successo di classifica e
spinta verso modalità d’improvvisazione ancora sconosciute in ambito rock. Come accade a
mille altri gruppi, anche Hendrix crea la propria formazione sull’esempio triangolare dei
Cream e, di certo, trae giovamento dalla crescente popolarità di Clapton e soci e
dall’affermazione dei principi della loro musica. Appena un attimo dopo la situazione si
ribalta : saranno i Cream, e tutti gli altri musicisti inglesi del periodo, ad inseguire le teorie
evolutive hendrixiane.
Nel dicembre 1966 viene dato alle stampe il primo album Fresh Cream che, pur non essendo
esente da pecche, ha il merito di mostrare gli elementi portanti dello stile del gruppo. Il disco
contiene numerose versioni di classici blues, reinterpretati con grande potenza e dinamismo :
nelle varie Spoonful (Dixon), Rollin’ and tumblin’ (Waters) e Cat’s squirrel la chitarra di
Clapton, pur mantenendo una lirica classicità, indurisce notevolmente il suono, sostenuta da
un’eccellente sezione ritmica capace di andare ben oltre ad un mero ruolo
d’accompagnamento. La produzione originale dei Cream appare ancora piuttosto incerta,
anche se i timidi frammenti di N.S.U. e Sweet wine diventano dal vivo solide basi per lunghe,
incandescenti improvvisazioni strumentali, e il micidiale riff di Toad introduce un gustoso
saggio dello sciolto ed originale stile percussivo di Ginger Baker, che si conferma uno tra i più
preparati e qualitativi batteristi rock.
Come altre importanti formazioni del tempo (Beatles, Rolling Stones, Animals), i Cream nel
1967 aderiscono all'imperante cultura psichedelica con la realizzazione del secondo album
Disraeli gears, che in parte ripropone il caratteristico power blues e in parte si espone al
contagio del morbo lisergico. Il disco segna il passaggio della produzione da Robert Stigwood
a Felix Pappalardi (futuro bassista dei Mountain), capace d’offrire anche un valido contributo
come sessionman, e determina il consolidamento della proficua collaborazione tra Jack Bruce
e il paroliere Pete Brown, che proseguirà nei successivi lavori dei Cream e dello stesso
bassista. Tra i brani spicca prepotente la sagoma di Sunshine of your love, un rock blues
scolpito nella roccia con un riff epocale di chitarra ; è il pezzo più ricordato dell’intero
repertorio (si dice, dedicato a Hendrix) e fissa definitivamente i tratti salienti della musica del
gruppo. L’ottima Tales of Brave Ulysses si ricollega al suono tradizionale del complesso, come
pure l’aggressiva Swlabr e le meno appariscenti Outside woman blues e Take it back. Al
versante flower power appartiene l’iniziale Strange brew, che propone cadenze meno ruvide e
un suono più colorito ; in questo contesto sono da segnalare le melodiche e sognanti World of
pain (un bel brano di Pappalardi) dove appare l’effetto wah-wah alla chitarra, Dance the
night away con graziose soluzioni armoniche e la rarefatta We’re going wrong.
Disraeli gears va, in ogni caso, considerato un lavoro di transizione, con il gruppo ancora alla
ricerca di una piena maturità espressiva che, in parte, giunge con il seguente Wheels of fire.
CREAM - WHEELS OF FIRE
(2 LP Polydor - 1968)
Il doppio album si compone di un disco registrato in studio, con l’aiuto del produttore
Pappalardi in qualità di musicista aggiunto, e di una parte dedicata al resoconto di un
concerto tenuto nel marzo 1968 al Fillmore West.
I brani più significativi del disco di studio sono due composizioni di Jack Bruce (sempre
coadiuvato dal fido Pete Brown), la stupenda White room, caratterizzata dalla lirica frase
introduttiva, vero miracolo d’equilibrio tra il ruvido rock blues di base e la formidabile linea
melodica vocale, e la cadenzata Deserted cities of the heart, che s’avvale di ricercati
arrangiamenti per viola e violoncello.
Il blues emerge prepotente nelle notevoli interpretazioni di Sitting on top of the world (Howlin’
Wolf), Born under a bad sign e Politician, un originale brano composto da Bruce / Brown.
La sognante Passing the time, la bella Those were the days e l’atipica Pressed rat and warthog,
tutte di Ginger Baker, sono valorizzate dagli interventi con viola, tromba e percussioni di
Pappalardi, e ancora va ricordata l’obliqua melodia di As you said, che anticipa atmosfere
care alla futura produzione solistica di Jack Bruce.
In sintesi, le registrazioni di studio di Wheels of fire appaiono tanto brillanti ed originali,
quanto espressione di tre musicisti divisi sulla direzione artistica da intraprendere e con
Clapton totalmente escluso in fase compositiva.
Il disco dal vivo si apre con l’energica versione del blues di Robert Johnson Crossroads,
completamente riscritta per l’occasione ; la seguente Spoonful (Dixon) mostra il virtuosismo
dei musicisti e risulta un po’ prolissa, pur appassionando a tratti per la volontà di tirare al
massimo gli strumenti, in perenne rincorsa tra loro. Traintime (un brano di Bruce, già nel
repertorio della Graham Bond Organization) è una performance per armonica che sfocia
nella durissima Toad, introduzione ad un ottimo ma interminabile assolo di Baker.
Dopo appena due anni dalla nascita, la popolarità e il successo dei Cream sono diffusi in tutto
il mondo, ma il gruppo risente di forti tensioni interne determinate dalla spiccata personalità
dei musicisti, che decidono di porre termine all’avventura con uno spettacolare concerto
d’addio (che diventa anche un film musicale) tenuto il 26 novembre 1968 alla Royal Albert
Hall di Londra.
Ciò che resta viene pubblicato l’anno successivo, nel postumo Goodbye (Polydor-1969) che
contiene buone versioni dal vivo di I’m so glad, Politician, Sitting on top of the world, e una
manciata di brani di studio tra i quali emerge la bella melodia di Badge, una canzone di
chiaro stampo beatlesiano, composta da Clapton assieme a George Harrison, che vede la
presenza dell’ex Beatles alla seconda chitarra e del solito Pappalardi alle tastiere.
Nei primi anni settanta vengono pubblicati altri due dischi quasi interamente registrati dal
vivo, Live Cream (Polydor-1970) e Live Cream vol. II (Polydor-1972), di discreto valore, ma
rimane il rammarico dell’assenza di un lavoro organico che rappresenti degnamente l’attività
concertistica del gruppo.
Allo scioglimento dei Cream, Jack Bruce decide di percorrere la strada solistica, ottenendo
interessanti risultati artistici ; Clapton e Baker, invece, restano insieme per la controversa ed
effimera esperienza dei Blind Faith. La nuova formazione si atteggia, ancor più dei Cream, a
supergruppo, per via della presenza dell’affermato Stevie Winwood (v.ts.ch., reduce dai
Traffic) e del bassista / violinista Ric Grech (proveniente dai Family). Sull’operazione aleggia
il sospetto di precisi calcoli commerciali e la musica del gruppo non risulta così incisiva come
avrebbe dovuto, viste le capacità dei musicisti coinvolti nel progetto.
I Blind Faith nascono nel febbraio 1969 e il debutto ufficiale avviene il 7 di giugno, in
occasione di un concerto tenuto a Hyde Park di fronte a 100.000 persone.
Il materiale del loro unico disco pubblicato (Blind Faith, Polydor-1969) è valido, ma il gruppo
non osa, il suono estremamente misurato resta ancorato a reminiscenze Cream e Traffic,
privo di sbavature ma anche di particolari sussulti, con un'equa divisione dei ruoli tra i
musicisti. L’iniziale Had to cry today è un perfetto esempio del loro stile, con la chitarra di
Clapton a sciorinare un piacevole hard blues senza uscire dalle righe e la stentorea voce di
Winwood (autore del brano) che non è certo la più adatta alle atmosfere forti del rock blues.
Nonostante il buon assolo centrale e quello finale (notevole, con due chitarre soliste
sovraincise) Clapton non riesce a ripristinare il tipico clima da jam dei Cream e, alla lunga, il
brano suona ripetitivo.
Can’t find my way home e, soprattutto, Sea of joy, una canzone vicina ai Family più intimisti
valorizzata dal violino di Grech, godono della scrittura e dell’interpretazione di Winwood
risultando tra gli episodi migliori, così come l’unico brano di Clapton, il classico Presence of
the Lord, giocato sul contrasto tra il sofferto preludio dai toni gospel e l’improvvisa eruzione
centrale della chitarra. Well all right è piacevole e serve ad evidenziare le capacità di
Winwood alle tastiere, mentre la conclusiva Do what you like è pensata da Baker come
indolente base di partenza per l’ennesima, eccellente, esibizione ai tamburi.
A promozione dell’album il gruppo s’imbarca in una tournée americana, al termine della
quale (nel gennaio 1970) Clapton e compagni decidono di separarsi, lasciandosi alle spalle il
dubbio di una grande occasione persa.
Ginger Baker organizza gli Airforce, un’ampia formazione dove, all’inizio del ’70, si
ritrovano Winwood e Grech, oltre a Chris Wood, Graham Bond e Harold McNair. Il gruppo,
che predilige una matrice musicale essenzialmente ritmica (con la presenza di ben tre
batteristi !), pubblica due album nel 1970, il primo (Airforce -2 LP, Polydor) registrato dal
vivo alla Royal Albert Hall e il secondo (Airforce 2 - 2 LP, Polydor) realizzato in studio. Il
batterista forma poi i Salt, senza ottenere particolari riscontri, quindi si trasferisce in Nigeria
dove per tre anni suona con musicisti locali e studia le radici africane del ritmo. Nel 1974 è di
nuovo in Inghilterra con la Baker Gurvitz Army, assieme ai fratelli Adrian e Paul Gurvitz
(titolari, alla fine dei sessanta, di due LP con i Gun e in seguito di tre dischi con i Three Man
Army) ; con questo complesso incide tre lavori, tra i quali il migliore appare il primo
omonimo (Vertigo-1974) che presenta un discreto hard variegato da frequenti aperture
melodiche.
Subito dopo la collaborazione con gli Airforce, Stevie Winwood riunisce i Traffic dove finisce
anche Ric Grech.
Clapton insiste con la teoria dei supergruppi (questa volta negli Stati Uniti) con Derek & the
Dominos, al fianco di Duane Allman nel doppio Layla e contemporaneamente inizia la
carriera da solista, prolifica dal punto di vista commerciale ma non sempre all’altezza del suo
nome.
- 10 Il 1968 è per Jimi Hendrix l’anno della consacrazione ai vertici della scena rock
mondiale. Il baricentro della sua attività si sposta decisamente negli U.S.A., dove tiene la
maggior parte dei concerti (sempre affiancato dall’Experience) ed effettua, agli studi Record
Plant di New York, la quasi totalità delle registrazioni che formano l’ossatura del nuovo
ambizioso album.
JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ELECTRIC LADYLAND (2LP Track - 1968)
Electric Ladyland, pubblicato nell’ottobre 1968 (n. 1 nella classifica americana dei long
playing), nonostante sia accreditato alla Jimi Hendrix Experience può essere considerato
come un disco solista del chitarrista, che per la prima volta si avvale di numerosi collaboratori
esterni ; in particolare l’apporto di Noel Redding è molto ridotto (è titolare della decorosa
Little miss strange ma in circa metà dei brani viene sostituito al basso da Jimi) mentre
Mitchell, batterista ideale per Hendrix, è saldamente al suo posto, a parte un paio di pezzi nei
quali dietro ai tamburi siede Buddy Miles.
Hendrix produce autonomamente quasi tutto il materiale e il suono risulta più curato, senza
perdere in aggressività ed espressività. C’è un ampio uso di ricercate tecniche di registrazione
e molte canzoni sono realizzate attraverso fasi di lavorazione più lunghe e complesse del solito.
I nastri manipolati di ...and the gods made love, la raffinata melodia di Have you ever been (to
electric ladyland) e la ritmata Crosstown traffic (con Dave Mason ai cori) servono da
introduzione al primo capolavoro dell’album, Voodoo chile. Il brano è un lungo blues
originale che vede la presenza del bassista Jack Casady (Jefferson Airplane / Hot Tuna) al
posto di Redding e con Stevie Winwood all’organo. Hendrix disegna linee di chitarra nitide e
profonde, creando un’atmosfera impregnata di tensione che rende unico l’incedere del pezzo,
valorizzato da una sezione ritmica potente e dall’ottimo lavoro di Winwood.
Come on - Let the good times roll, un ottimo blues & roll senza peli sulla lingua (opera di Earl
King) e Gypsy eyes, un soul rock dominato da chitarre graffianti, riportano ad un rock
immediato e serrato.
Burning of the midnight lamp, registrata nel luglio ’67 e prodotta da Chandler come singolo
nel settembre dello stesso anno, è una delle più elaborate canzoni di Jimi, dotata di una bella
melodia epica e decadente e caratterizzata dall’uso di clavicembalo e mellotron (per le
armonie vocali). Rainy day, dream away, che ha una singolare ‘reprise’ in Still raining, still
dreaming, è un raffinato blues jazz dove Hendrix esibisce magistralmente l’effetto wah-wah
della chitarra ; nell’occasione sono presenti Freddie Smith al sassofono, Mark Finnigan
all’organo e Buddy Miles alla batteria, coadiuvato da Larry Faucette alle congas. Il brano
sfocia nella stupenda 1983...(a merman I should turn to be), un affresco sonoro maestoso e di
grande suggestione. Nel viaggio Hendrix è accompagnato da un Mitchell ispirato e dal flauto
di Chris Wood ; la sua produzione è a tratti eccessivamente d’effetto ma il lirismo poetico
della canzone inebria il suono, che ondeggia fino a sprofondare in gelidi abissi marini e si
dissolve nella coda rumorista di Moon, turn the tides... House burning down, con la
fiammeggiante chitarra trattata dall’effetto phasing, crea la giusta tensione per il travolgente
finale del disco.
All along the watchtower (una canzone di Dylan, dall’album John Wesley Harding) è
completamente riscritta da Hendrix che ne modifica il significato sostanziale ; tanto
l’originale di Dylan è un timido folk rock scarno ed essenziale, quanto l’edizione di Jimi si
fregia di soluzioni fantasiose, affidandosi ad una ritmica serrata e alla magia delle chitarre
che si librano in volo verso orizzonti di straordinaria bellezza.
Il contrasto con la conclusiva Voodoo child è aspro, torna a trionfare il magnifico marasma
sonoro dell’Experience in un rituale selvaggio, sconvolto da chitarre che sputano fulmini, che
provocano scosse telluriche, che graffiano come artigli la corteccia stagionata del blues.
Electric Ladyland è l’apice della creatività hendrixiana ed è anche l’inizio della fine
dell’Experience, con il leader desideroso di provare nuove esperienze e con Redding che si
sente trascurato, smanioso di affermare le proprie capacità come propulsore del suo gruppo, i
Fat Mattress. Dal vivo il trio si conferma convincente, come dimostrano i concerti
dell’ottobre 1968 al Winterland di San Francisco, quelli europei d’inizio 1969 (in particolare
Stoccolma) e il famoso spettacolo del 24 febbraio tenuto alla Royal Albert Hall di Londra con
la partecipazione di Dave Mason, Chris Wood e del percussionista ‘Rocky’ Dzidzournu.
In aprile l’Experience è nuovamente negli U.S.A. per un’ulteriore serie di spettacoli che si
conclude il 29 giugno quando, al termine del concerto del Denver Pop Festival, Noel Redding
abbandona il gruppo per dedicarsi come chitarrista ai Fat Mattress. Questa formazione,
completata da Eric Dillon (bt.), Jimmy Leverton (bs.ts.) e Neil Landon (v.), riesce a
pubblicare due discreti LP prima di terminare la propria breve esistenza.
Sciolta l’Experience, Hendrix sospende la stressante attività live per predisporre un’ampia
formazione che gli permetta di esprimere una musica più articolata. L’esperimento dei Gypsy
Sun and Rainbows (con Billy Cox - bs. -, Mitch Mitchell - bt. -, Larry Lee - ch. -, Juma Sultan
e Jerry Velez - pr.) dura soltanto il tempo dell’importante esibizione che segna la chiusura del
festival di Woodstock, la mattina del 18 agosto 1969.
In seguito Hendrix matura l’idea di un nuovo ristretto nucleo composto da soli musicisti di
colore, che si concretizza in ottobre con la fondazione della Band of Gypsys ; lo
accompagnano nella breve avventura, che culmina con i concerti di capodanno al Fillmore
East di New York, il metronomico batterista Buddy Miles e il vecchio amico Billy Cox al
basso. Il suono della formazione è meno fantasioso ed aggressivo rispetto alla gloriosa
Experience, imperniato su un accattivante soul blues che solo a tratti (Machine gun) permette
a Jimi di esprimersi liberamente all’interno di una struttura troppo rigida e calcolata.
Il chitarrista ben presto richiama Mitchell e con il confermato Cox inizia, nell’aprile ’70, una
nuova tournée americana, che si protrae fino al primo di agosto e culmina nelle esibizioni di
fine luglio tenute all’isola di Maui (Hawaii). Qui Hendrix presenta l’ambizioso progetto del
Rainbow Bridge Vibratory Color Sound Experiment, risoltosi con esito deludente.
Dopo aver inaugurato a New York lo studio privato di registrazione Electric Lady, Hendrix
torna in Inghilterra per partecipare al festival dell’isola di Wight dove suona (all’alba del 30
agosto) una controversa e sofferta esibizione, mai giustamente apprezzata per il suo effettivo
valore musicale e storico.
Hendrix è allo stremo delle forze ; nei giorni successivi effettua alcune date nel nord Europa
(in Danimarca abbandona il palco dopo due soli brani) e il 6 settembre tiene il suo ultimo
concerto nell’allucinante atmosfera del Love and Peace Festival, tenuto in Germania nell’isola
di Fehmarn.
Il 18 settembre 1970 muore a Londra, in circostanze mai definitivamente chiarite ; con Jimi
Hendrix scompare il più importante ed influente chitarrista di tutto il rock.
“...e allora i castelli di sabbia scivolano nel mare, alla fine”.
- 11 La splendida trilogia blues elaborata da John Mayall tra il 1966 e il 1967
(Bluesbreakers - John Mayall with Eric Clapton, A hard road e Crusade) vanta l’indiscutibile
merito di lanciare diversi giovani musicisti che affermano, negli anni immediatamente
successivi, le loro doti in proprie formazioni di blues progressivo.
Da quelle edizioni dei Bluesbreakers provengono Eric Clapton, fondatore dei Cream, Peter
Green e John McVie, poi nei Fleetwood Mac, il chitarrista Mick Taylor (che nel luglio ’69
sostituisce Brian Jones nei Rolling Stones) e i batteristi Aynsley Dunbar e Keef Hartley, in
seguito titolari di complessi di buon valore.
JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS - BARE WIRES (Decca - 1968)
A seguito della pubblicazione di Crusade John Mayall realizza due album dal vivo (Diary of a
band vol. 1 e 2, Decca-1968), registrati in occasione dei concerti europei e inglesi di fine 1967.
John McVie ha già abbandonato per raggiungere i Fleetwood Mac e poco dopo se ne va pure
Keef Hartley, in cerca di gloria solista.
Così Mayall deve riorganizzare i Bluesbreakers per l’ennesima volta e la scelta si rivolge ad
un gruppo orientato verso un blues meno canonico, con accenti jazzati e uno stile progressivo.
Ne esce un’ambiziosa formazione a sette che, oltre al leader e a Mick Taylor, presenta Dick
Heckstall Smith e Jon Hiseman (provenienti dalla Graham Bond Organization), l’ottimo
bassista Tony Reeves e una corposa sezione fiati con Chris Mercer e Henry Lowther (che si
esibisce anche al violino).
Bare wires è idealmente suddiviso tra una prima sezione costituita da una singolare suite blues
che titola l’intero lavoro e una seconda parte più in linea con la precedente produzione di
Mayall.
Gli aspetti moderatamente innovativi e sperimentali della suite di Bare wires, interamente
composta da Mayall, creano un affascinante contrasto con il blues sempre rigoroso della
struttura complessiva dell’opera, sostenuta da una sezione ritmica che si affida alla colorita
poliritmia di Hiseman e alle capacità tecniche di Reeves, e valorizzata dall’inserimento dei
fiati che dettano gli arrangiamenti con originalità. La litania di Bare wires introduce Where
did I belong, un quieto brano sottolineato dal violino di Lowther. La successiva Start walking
accende improvvisamente il ritmo, con belle cadenze blues jazz e la brillante chitarra di
Taylor, notevolmente irrobustita rispetto a Crusade. Open a new door offre interessanti
arrangiamenti dei fiati che modellano il dinamico blues di base ; in Fire il suono del complesso
presenta parti improvvisate che allontanano dal classico approccio stilistico dei
Bluesbreakers, riproposto su I know you, un sofferto blues con inserti di clavicembalo. Chiude
la suite l’incalzante Look in the mirror, con gli strumenti che s’incrociano in un’elastica jam e
la prestazione di Heckstall Smith ai sax tenore e soprano, soffiati all’unisono.
Nella seconda parte del disco spiccano i fiati blues di I’m a stranger, il moderato gusto soul di
No reply, il brioso strumentale Hartley quits (un brano di Taylor) e il magro folk blues di
Sandy.
Come al solito il gruppo dura lo spazio di un LP in quanto Hiseman, Reeves e Heckstall Smith
nello stesso anno elaborano il progetto Colosseum.
Nel 1969 Mayall abbandona la gloriosa sigla dei Bluesbreakers e torna alla vecchia formula
del quartetto ; con lui sono il solito Taylor e una nuova sezione ritmica costituita dal bassista
Stephen Thompson e dal batterista Colin Allen. Blues from Laurel Canyon è un disco
estremamente godibile, che s’affida all’alternanza di pezzi soffusi (First time alone) con brani
quasi hard (Vacation, 2401) condotti a chitarra sguainata da Mick Taylor. Ottima è The bear
(dedicata a Bob Hite dei Canned Heat), con un’introduzione coinvolgente dominata dal suono
metallico della chitarra. La musica risulta più roccata del solito, il gruppo appare solido ed
affiatato ma, di nuovo, è destinato ad un precoce scioglimento.
Taylor entra nei Rolling Stones, Allen nel 1970 è uno dei membri fondatori degli Stone the
Crows, gruppo nel quale sarà raggiunto (nel ’71) anche da Thompson.
Sempre nel 1969, Mayall dimostra un notevole eclettismo approntando un nuovo quartetto
con il confermato Thompson al basso, il chitarrista Jon Mark e il fiatista Johnny Almond,
che aveva già avuto un approccio nel 1966 per il disco dei Bluesbreakers con Clapton. La
novità risiede in una proposta completamente acustica di un folk blues jazz divertente e
raffinato, che trova buona espressione nella dimensione live dell’album The turning point
(Polydor-1969), registrato nel luglio ’69 al Fillmore East di New York ; da queste basi
acustiche Mark e Almond traggono lo spunto per la costituzione di una propria formazione
attiva nei primi anni Settanta.
Da questo momento la produzione discografica di John Mayall prosegue copiosa ma spesso
priva dell’elevata qualità che contraddistingue gli album degli anni Sessanta. Una piacevole
eccezione è il doppio Back to the roots (Polydor-1970) che registra la partecipazione di
Clapton, Green e Taylor, momentaneamente tornati a dare una mano al loro vecchio datore
di lavoro.
Le origini dei Fleetwood Mac risalgono al 1966 quando il batterista Mick Fleetwood, dopo
le prime esperienze con i Cheynes e i Bo Street Runners, entra nei Peter Barden’s Looners. Il
complesso dura appena pochi mesi (dal febbraio al maggio ’66) e comprende, oltre a Bardens
e Fleetwood, il bassista Dave Ambrose (poi con Brian Auger) e il giovane chitarrista Peter
Green. La formazione pubblica un solo 45 giri e quindi si amplia con l’inserimento dei
cantanti Rod Stewart e Beryl Marsden, modificando nome in Shotgun Express.
Contemporaneamente Green partecipa, con i Bluesbreakers, alle sedute di registrazione
(ottobre/novembre ’66) dalle quali viene ricavato il classico A hard road, e qui il musicista ha
occasione di conoscere John McVie, sin dal 1964 fido bassista di John Mayall.
A discapito di un organico dal notevole potenziale gli Shotgun Express hanno vita breve (due
singoli all’attivo) ed esaurita la parentesi con Mayall, nel luglio ‘67 Green decide di riunire
assieme a Fleetwood un nuovo gruppo, i Fleetwood Mac.
Il primo nucleo del complesso è completato dal chitarrista Jeremy Spencer (proveniente dai
Levi Set) e dal bassista Bob Brunning, che poco dopo l’esordio del gruppo (nell’agosto ’67, in
occasione del Windsor Jazz & Blues Festival) abbandona per dedicarsi alla propria Sunflower
Band ; al suo posto entra McVie che pone termine alla collaborazione con Mayall.
E’ il produttore Mike Vernon ad offrire al complesso un contratto con la sua etichetta appena
costituita, la Blue Horizon. Sono così pubblicati il primo album omonimo (Blue Horizon-1967)
e il secondo Mr. Wonderful (Blue Horizon-1968), con i quali i Fleetwood Mac si affermano in
modo autorevole nel panorama del blues inglese, facendo leva su uno stile piuttosto classico.
La presenza di un talento del calibro di Green, naturalmente portato ad affrontare la materia
blues con spirito innovativo, spinge il gruppo ad elaborare la musica in senso progressivo e
l’ingresso in organico di un terzo chitarrista (Danny Kirwan) accentua ancor più questo
processo evolutivo.
Nel novembre ’68 esce il singolo Albatross, un brano melodico che differisce in modo evidente
dalla produzione precedente ma la mossa successiva appare ancora saldamente legata alla
tradizione e vede i Fleetwood Mac registrare, nel gennaio 1969, i nastri per un doppio LP nei
mitici studi Chess di Chicago, a diretto confronto con musicisti quali Shakey Horton, Willie
Dixon e Otis Spann. La musica contenuta in Blues jam at Chess (1969) è sanguigna ed
appassionante, ma i tempi sono pronti per un deciso cambiamento di rotta ; purtroppo questo
avviene solamente per il materiale inserito nell’album Then play on (1969), un disco di valore
anche se non privo di sbavature.
L’album viene commercializzato in modo caotico, con svariate differenti versioni sia per il
mercato inglese sia per quello americano. Tra i brani sparsi sono da sottolineare i notevoli
contributi di Green in Show-biz blues, che calca la mano sul folk blues più coinvolgente, in
Underway, dotata di una melodia avvolgente che si collega a certo suono ‘acquatico’ alla
Hendrix, nella pacata Before the beginning, che mostra il suo fluido stile caldo e passionale.
Due composizioni si collocano ai vertici dell’album : la mutevole Oh well, che passa dal
torrido clima hard blues dell’ouverture agli sprazzi classicheggianti della lunga e suggestiva
coda acustica, e l’elettrizzante Rattlesnake shake, caratteristica nell’incedere pesante e
caracollante, poggiata su una serie di marmorei riff delle chitarre che rendono il brano un
vero manuale del rock blues. Buone anche Coming your way (di Kirwan) e Searching for
Madge (di McVie), quest’ultima strutturata a livello di jam informale, a tratti spezzata da
inserti forzati e non del tutto convincenti.
Gli ultimi frutti del lavoro di Peter Green sono raccolti nei 45 giri di Man of the world e Green
Manalishi, subito prima dell’improvviso abbandono da parte del chitarrista all’inizio del
1970.
I Fleetwood Mac accusano il colpo, con la dipartita di Green il gruppo perde buona parte
della fantasia creativa e strumentale, e l’uscita di scena, nel 1971, dell’altro membro
fondatore Jeremy Spencer provoca un ulteriore, deciso allontanamento dallo stile della
decade precedente. Numerosi musicisti si alternano all’interno del complesso e dopo una serie
di dischi interlocutori, nel 1975, i Fleetwood Mac scelgono la strada dell’easy listening,
ottenendo un successo di portata mondiale con la produzione di musica commerciale che nulla
ha da spartire con i fasti blues degli anni Sessanta.
Tra i musicisti che entrano a far parte dei Fleetwood Mac negli anni Settanta è da
sottolineare la presenza della moglie di John McVie, Christine Perfect, cantante e tastierista
con alle spalle un’interessante avventura nei Chicken Shack. Ideatore e animatore della
formazione è il chitarrista Stan Webb ; originario di Birmingham, nel 1966 si trasferisce a
Londra dove incontra la Perfect e il bassista Andy Sylvester (che sin dal ’64 suonano assieme
nei Sounds of Blue, lo stesso complesso del futuro Traffic Chris Wood). Il gruppo viene
completato con l’inserimento del batterista Dave Bidwell e, come accade ai Fleetwood Mac,
guadagna un contratto discografico con la Blue Horizon.
Nel 1968 i Chicken Shack pubblicano l’album d'esordio, 40 blue fingers freshly packed & ready
to serve (prodotto da Mike Vernon), al quale collaborano Dick Heckstall Smith e Johnny
Almond ai sassofoni. La musica ha dei solidi punti di riferimento nel blues revival dei primi
anni Sessanta e nei Bluesbreakers di Mayall, accostando alla matrice tradizionale l’attitudine
ad un suono non eccessivamente curato ed elaborato, che fa della semplicità espressiva il suo
punto di forza. Lo stile alla chitarra di Webb non è formalmente perfetto né particolarmente
innovativo, ma risulta tirato e godibile, la Perfect svolge un prezioso lavoro all’organo e
soprattutto al piano, mentre la sezione ritmica è solida e precisa.
Numerose le cover presenti, tra le quali risalta King of the world di John Lee Hooker, discreti
sono i brani scritti da Webb, la strumentale Webbed feet e What you did last night che esibisce
una buona prestazione del chitarrista, ottime l’originale You ain’t no good con il piano in
evidenza e When the train comes back, entrambe composte dalla Perfect che si disimpegna
anche come cantante solista.
Sempre sotto la produzione di Vernon, nello stesso anno vengono effettuate le brevi sessions
che generano il secondo LP O.K. Ken ?, lavoro che non aggiunge novità alla loro proposta
musicale ed appare leggermente inferiore al precedente.
Nel 1969 i Chicken Shack ottengono un buon successo con il singolo I’d rather go blind, una
canzone del repertorio di Etta James che raggiunge le parti alte della classifica di vendita,
poco prima che la Perfect abbandoni per entrare nei Fleetwood Mac. Al suo posto entra il
tastierista Paul Raymond con il quale il gruppo realizza altri due album, 100 ton chicken
(Blue Horizon-1969) e Accept (Blue Horizon-1970). Subito dopo i Chicken Shack si sfaldano :
all’inizio del 1971 Sylvester, Bidwell e Raymond emigrano nei Savoy Brown e il solo Webb
tenta di ripristinare la vecchia sigla, riuscendovi nel ’72 con l’aiuto tra gli altri dell’ex bassista
dei Gods e dei Toe Fat, John Glascock.
Esce ancora un disco accettabile (Imagination lady, Deram-1972), quindi la vicenda si trascina
senza particolari sussulti, fra scioglimenti ed estemporanee riunioni.
Quando all’inizio del 1970 Peter Green decide di lasciare i Fleetwood Mac il musicista è
all’apice della popolarità, leader di uno dei più rispettati gruppi dell’epoca e chitarrista tra i
migliori della scena rock. In realtà l’imprevedibile dipartita di Green evidenzia una grave
crisi esistenziale, acuita da problemi legati all’assunzione di notevoli quantità di alcool e
droghe. Da qui la necessità di chiudere il conto con l’assillante stile di vita proprio dello star
system, senza ripensamenti, con il musicista che arriva addirittura a devolvere in beneficenza
i diritti e i guadagni derivanti dalla vendita dei suoi dischi, quasi a volersi spogliare di ogni
superfluo fardello di notorietà.
PETER GREEN - THE END OF THE GAME
(Reprise - 1970)
In una situazione di così profonda instabilità psichica, Green riesce a trovare la lucidità per
registrare un disco solistico di straordinaria bellezza, che con amara ironia viene intitolato
The end of the game.
Registrato nel maggio 1970 con l’aiuto di musicisti di notevoli capacità quali il pianista Zoot
Money e il bassista Alex Dmochowsky (membro della Retaliation di Aynsley Dunbar), senza
l’ausilio di produzioni esterne, il disco vede la luce in settembre generando costernazione tra
gli appassionati, che si aspettano qualcosa di simile a Bluesbreakers e Fleetwood Mac, e
spiazzando gli stessi addetti ai lavori, portati a reagire per lo più negativamente di fronte ad
una musica senza inizio né fine, ben lontana dal consolidato concetto di canzone blues e
rock’n’roll.
In effetti, più che un disco tradizionalmente rock The end of the game appare come un
estremo tentativo, privo di compromessi, di rendere comprensibile la grande passionalità
dell’anima di Green, di cogliere l’attimo fuggente della propria arte tramite una musica in
libertà, disinibita, aperta a contaminazioni di ogni genere, dotata di estatiche vibrazioni e
d'improvvisi cambi d’umore.
La materia trattata è completamente strumentale e le parti liriche spettano di diritto alla
chitarra che canta d'amore e sofferenza, di splendori e di disillusione. Naturalmente un’opera
siffatta non vende, ma questa è di certo l’ultima preoccupazione di Peter Green, ormai
destinato ad una dolorosa, autonoma emarginazione dal music business.
L’apertura spetta al vortice senza vie d’uscita di Bottoms up, un’informale jam funky blues
dove Green mette a frutto la lezione hendrixiana, cavalcando con autorità le potenti ondate
ritmiche (notevole il lavoro al basso di Dmochowsky) e insinuandosi tra le pieghe del suono,
quando la cadenza rallenta e prende respiro.
L’introduzione di Descending scale mette in luce il piano di Zoot Money, fino all’impatto con
la chitarra che geme disperatamente trasformando il brano in un’ostica improvvisazione a
forma libera. Burnt foot si affida a modi jazzati che evolvono in un’enfasi ritmica liberatoria ;
Hidden depth è rarefatta e rilassata (come pure il breve frammento di Timeless time),
illuminata dalla chitarra languida ed espressiva. La conclusiva The end of the game esplode
nel turbine impetuoso dello strumento di Green, per poi navigare verso l’ignoto in una
sensazione di pace irreale.
Nel 1971 Green prova a tornare sulla scena, aiutando i Fleetwood Mac a completare un tour
americano (quando Jeremy Spencer lascia la formazione in preda ad una crisi religiosa), ma il
tentativo si rivela infruttuoso. L’anno successivo è la cantante Maggie Bell degli Stone the
Crows a tentare di portarlo nel suo gruppo, in sostituzione del chitarrista Les Harvey
(rimasto folgorato da un corto circuito durante un concerto).
La leggenda vuole che Green, negli anni Settanta, entri un paio di volte in manicomio e, per
sopravvivere, si dedichi ad umili attività (becchino, infermiere ecc.) : la dura realtà ci
riconsegna, nel 1979, un musicista ben diverso, impegnato con uno stuolo di onesti mestieranti
(si confondono nel mucchio anche il vecchio amico Peter Bardens e, in un solo brano, il
batterista Godfrey Maclean) nella realizzazione dell’album In the skies, lavoro stanco e di
modesti contenuti.
Una storia finita male, ma non troppo, con la passione e l’amore per la musica, con fasti e
disgrazie, e perciò ancor più vera. In ogni caso, alla fine del gioco, restano la musica e lo stile
di grande strumentista di Peter Green, tra i maggiori innovatori del rock progressivo inglese.
Tra i gruppi derivati in linea retta dai Bluesbreakers, meritano di essere ricordate almeno
altre tre formazioni in grado di proporre una musica di buon livello nel panorama del British
blues, sia pure partendo da presupposti e con stili diversi. Si parla di Aynsley Dunbar
Retaliation, di Keef Hartley Band, di Mark-Almond.
Prima d’entrare a far parte dei Bluesbreakers, il batterista Aynsley Dunbar suona con i
Mojos, una piccola formazione di Liverpool che riesce a pubblicare un paio di 45 giri.
Nell’estate 1966 Dunbar entra in una delle più importanti edizioni del gruppo di John Mayall,
quella con Peter Green e John McVie che alla fine dello stesso anno registra A hard road. La
decisione di costituire un proprio gruppo matura dopo una breve permanenza nell’appena
nato Jeff Beck Group, con il quale il batterista non ha occasione d’incidere.
Per la sua Aynsley Dunbar Retaliation, nel 1968, il neo leader s’avvale della collaborazione
del cantante Victor Brox (già con Alexis Korner), del chitarrista John Moorshead e del
bassista Keith Tillman, presto sostituito da Alex Dmochowsky.
Così sistemato, il gruppo registra i primi due album, Aynsley Dunbar Retaliation (Liberty1968) e Dr. Dunbar prescription (Liberty-1969), validi anche se legati ai collaudati schemi del
blues revival e privi di riscontro commerciale.
AYNSLEY DUNBAR RETALIATION - TO MUM, FROM AYNSLEY AND THE BOYS
L’avvento in organico di Tommy Eyre, tastierista della Grease Band (il gruppo di Joe Cocker,
suo l’indimenticabile organo di With a little help from my friends), apporta sostanziali novità
nella musica del complesso. Pur mantenendo una chiara impostazione blues (c’è la produzione
di John Mayall) il suono acquisisce un approccio decisamente moderno, con una tendenza
vagamente jazz sotto l’aspetto timbrico ; l’equilibrio e il buon gusto dei musicisti fanno il
resto, rendendo la proposta raffinata e, al tempo stesso, dotata di notevole dinamismo.
L’apertura del terzo album è riservata alla sepolcrale Don’t take the power away, seguita dalle
movimentate Run you off the hill e Let it ride che esibiscono le indubbie capacità tecniche dei
Retaliation : il drumming variegato e preciso del leader confortato dalle linee di basso del
buon Dmochowsky, il timbro caldo dell’organo di Eyre, la chitarra mai invadente di
Moorshead e il burbero canto melodico di Victor Brox.
Journey’s end è introdotta da un imprevedibile, classico, organo da chiesa, preludio ad un
lento blues strumentale. Down, down, down e Sugar on the line s’affidano ad interessanti
soluzioni ritmiche, Unheard esplicita le doti percussive di Dunbar e quelle al piano di Eyre, in
un insolito duetto (almeno in territori rock), mentre Leaving right away chiude degnamente un
lavoro di qualità, lontano dai facili entusiasmi del disco da classifica.
La mancanza di successo rende difficile la vita della Retaliation che, nel 1970, attraversa una
crisi piuttosto profonda, con lo stesso Dunbar che si defila momentaneamente. Il gruppo,
guidato da Brox, pubblica un disco raffazzonato anche se non del tutto deludente (Remains to
be heard, Liberty-1970), al quale Dunbar partecipa solo in alcuni brani. Poco dopo il
batterista rifonda il complesso e registra Blue whale (Warner Bros.-1970), un buon lavoro che
presenta uno stile atipico rispetto al resto della produzione.
Dmochowsky nel maggio 1970 partecipa alle registrazioni del capolavoro di Peter Green The
end of the game, Eyre raccoglie il posto di tastierista nei Mark-Almond e Dunbar trova il
modo di collaborare a diverse registrazioni di Frank Zappa (tra il ’70 e il ’72), nel ’74 è
presente su Diamond dogs di David Bowie, quindi raccoglie i frutti di una gloriosa carriera
partecipando alle fortune commerciali dei Journey e degli stracotti Jefferson Starship.
Certamente meno rigorosa ed interessante risulta la proposta della band di Keef Hartley. Il
musicista inizia ai tamburi degli Artwoods, un gruppo R & B formato nel 1964 dal cantante
Art Wood (già con i Blues Incorporated e fratello del noto chitarrista Ron Wood) che vede la
presenza del tastierista Jon Lord, poi fondatore dei Deep Purple. Hartley rimane negli
Artwoods fino all’aprile 1967, quando entra a far parte dei Bluesbreakers con i quali incide il
notevole Crusade.
Nel 1968 nasce la Keef Hartley Band che inizialmente comprende i chitarristi Miller
Anderson e Spit James, il tastierista Peter Dines e il bassista Gary Thain ; il suono parte,
ovviamente, da presupposti blues ma la proposta manca del rigore stilistico della Retaliation,
né riesce a colmare le lacune con un impatto forte degli strumenti. L’aspetto più originale va
ricercato nell’afflato melodico di gran parte del materiale presente sul primo album,
registrato sul finire del 1968.
Halfbreed (Decca-1969) vede la partecipazione del solito Mayall e di una corposa sezione fiati
dove spiccano i nomi di alcune vecchie conoscenze del giro Bluesbreakers, quali Henry
Lowther (tr.vi.) e Chris Mercer (sax.). Il disco è un lavoro di buon livello, il migliore della
produzione di Hartley e presenta i momenti più convincenti nella sequenza iniziale di The
halfbreed, nel lungo blues melodico Born to die, nelle agili soluzioni ritmiche di Sinnin’ for
you, impreziosita da una buona prestazione dei fiati.
Le chitarre accennano a qualche rudezza nella solida Leavin’ trunk, che in alcune parti
s’avvale di un’andatura alla Free, e nella cover di Think it over che imposta il riff alla maniera
soul rock della Band of Gypsys.
I successivi The battle of north west 6 (Deram-1969), che vede la partecipazione di Mick
Taylor, e The time is near (Deram-1970) sono dischi dignitosi che non aggiungono granché a
quanto espresso nell’album d’esordio.
Nella prima metà dei Settanta Hartley continua ad incidere come solista, collabora con
Mayall all’album Back to the roots del 1970, suona come accompagnatore di Michael
Chapman, quindi ritrova Miller Anderson (reduce da un disco sotto proprio nome e
dall’esperienza Hemlock, nel 1973 con due ex Fat Mattress) nei Dog Soldier che pubblicano
un album nel 1975.
Il chitarrista Jon Mark e il sassofonista Johnny Almond costituiscono l’ossatura del
complesso di John Mayall che nel 1969 registra il long playing di The turning point. In
precedenza, Mark partecipa all’effimero progetto dei Sweet Thursday, dove tra gli altri sono
presenti Nicky Hopkins e Alun Davies (stretto collaboratore di Cat Stevens, nel periodo d’oro
del cantante), mentre Almond vanta esperienze con i gruppi di Zoot Money, di Alan Price e
collabora con i Bluesbreakers all’epoca di Eric Clapton. Ai due si uniscono Tommy Eyre (ts.),
al termine dell’avventura con i Retaliation, e Roger Sutton (v.ch.bs.pr.vc.) proveniente dai
Jody Grind.
I Mark-Almond rappresentano l’espressione soft della scena del blues progressivo inglese, con
la particolarità di una musica completamente acustica che associa rarefatte atmosfere folk
blues a raffinati toni di derivazione jazzistica. Il limite della loro proposta risiede nella natura
stessa dello stile, indolente ed esasperatamente ricercato, che affascina ma, pure, congela le
emozioni in fragili cristalli sonori.
L’omonimo album d’esordio del 1971 sintetizza al meglio i concetti creativi del gruppo, ad
iniziare dall’estatica pace gospel di The ghetto che funge da suggestiva introduzione al lavoro.
La delicata chitarra di Mark ricama movenze eleganti nella calda The city, prima di un
repentino ritorno al minimalismo timbrico, quasi cameristico, di Tramp and the young girl,
caratterizzata da vibrafono (Almond), flauti e violoncello.
La ‘minisuite’ di Love è il brano più ambizioso del disco, dove il ritmo s’accende
all’improvviso creando un concreto punto di riferimento per gli spunti solistici di una
moltitudine di strumenti ; la chiusura è riservata ai bagliori rifratti delle sensazioni jazz di
Song for you.
Il secondo LP Mark-Almond II (Blue Thumb-1972) prosegue sulla stessa via, mostrando una
maggiore propensione ritmica a causa della presenza di Danny Richmond (batterista con
Charles Mingus), ma anche una minore varietà di temi, affidandosi in prevalenza ad una
forma canzone classica e risultando meno brillante nelle sonorità. Poi la formazione si allarga
a nuovi musicisti, Eyre e Sutton vengono sostituiti e le opere seguenti sono di qualità inferiore.
- 12 Jeff Beck entra negli Yardbirds in sostituzione del dimissionario Eric Clapton nel
marzo 1965, dopo una breve gavetta con i Tridents, e vi resta sino al novembre 1966, quando
abbozza l’idea di una propria formazione che s'inserisca con autorità nella nascente era del
rock blues, inaugurata dai bollenti eccessi sonori di Jimi Hendrix e dal power blues dei
Cream.
La prima versione del complesso si concretizza nel 1967 e s’avvale dell’apporto di Rod
Stewart, di Ron Wood e di Aynsley Dunbar ; il batterista, appena uscito dai Bluesbreakers di
A hard road, preferisce continuare per la sua strada formando nel ’68 la Retaliation e il posto
ai tamburi viene rilevato da Mick Waller, ex membro degli Steampacket.
Stewart nei primi anni sessanta canta e suona l’armonica in oscure formazioni e arriva
all’incisione discografica con gli Hoochie Coochie Men di Long John Baldry (il 45 giri Good
morning little schoolgirl). Tra la fine del ’65 e l’autunno ’66 è nel supergruppo degli
Steampacket (forse il primo della storia del rock), una formazione ideata dal produttore
Giorgio Gomelsky comprendente Baldry, l’organista Brian Auger, la cantante Julie Driscoll e
Mick Waller alla batteria. Nella breve e travagliata esistenza il nucleo riesce a registrare solo
alcuni nastri di prova che vedono la luce qualche anno più tardi.
Subito prima d’entrare nel Jeff Beck Group, Stewart suona con i Shotgun Express, altra
formazione sulla carta molto promettente che annovera la cantante Beryl Marsden, Peter
Bardens (ts., poi nei Camel), Dave Ambrose (bs.) e i futuri Fleetwood Mac, Peter Green e
Mick Fleetwood ; dopo due soli singoli, nel febbraio 1967, il gruppo cessa d’esistere.
Ron Wood esordisce alla chitarra nel complesso dei Birds e giunge alla corte di Beck dopo due
brevi parentesi con i Santa Barbara Machine Head, al fianco di musicisti quali Jon Lord,
Twink e Kim Gardner, e con gli ultimi Creation (marzo - giugno ’68). Pur essendo un
chitarrista già sufficientemente considerato, Wood entra nel Jeff Beck Group come bassista
per mettere in condizione il leader d’usufruire del massimo spazio possibile per le sue
evoluzioni.
JEFF BECK
-
TRUTH
(Columbia - 1968)
Attribuito al solo Jeff Beck, Truth fissa con determinazione i punti fermi di un rock blues
conciso e muscoloso, che mostra chiaramente la via da seguire per giungere all’hard più
creativo.
Se i Cream dirigono la loro musica verso l’improvvisazione radicale, espandendo
all’inverosimile la struttura delle canzoni in particolare nelle esibizioni dal vivo, Jeff Beck
preferisce seguire l’insegnamento del primo Hendrix, proponendo creazioni stringate, mirate
ad un diretto coinvolgimento fisico dell’ascoltatore. E’ fuori di dubbio che da queste solide
basi attingono a piene mani gruppi come Free e, soprattutto, Led Zeppelin, per la messa a
punto di uno stile hard blues di grande impatto emotivo e commerciale.
Certo non è casuale la scelta d’aprire il disco con Shapes of things (dal repertorio degli
Yardbirds), brano che segna un fondamentale momento evolutivo del British blues che si
rivolge verso nuovi orizzonti. Beck riscrive la canzone sotto l’aspetto ritmico e melodico, con
l’apporto decisivo del fraseggio agile ed insistente del basso di Wood e del caldo timbro vocale
di Stewart, tra i cantanti più adatti al genere. Il suono è indurito da un eccellente lavoro di
Beck, che sovrappone diverse parti di chitarra riuscendo a donare al brano una consistenza
inedita.
Rod Stewart si propone come compositore di alcune ottime canzoni, tra le quali risalta la
possente Let me love you, dominata da un pregevole assolo di chitarra che conferma Beck
grande strumentista ed innovatore ; valide anche Rock my plimsoul, che segue le medesime
coordinate sonore, e Blues de luxe, un blues ordinato che permette di apprezzare l’operato al
piano di Nicky Hopkins, in una finta atmosfera live.
Tra le versioni di classici del blues spiccano due composizioni di Willie Dixon, You shook me,
della quale terranno debito conto i Led Zeppelin sul loro album d’esordio, e I ain’t
superstitious, con Beck che si supera all’effetto wah-wah.
Beck’s bolero è un breve e gustoso omaggio ai modi di Ravel, con le chitarre che ondeggiano
sfuggenti sul ritmo ossessivo spezzato, nella parte centrale, da una poderosa esplosione hard.
La session, che risale al 1966, è realizzata da una formazione di gran prestigio, con Beck e
Jimmy Page (autore del brano) alle chitarre, Nicky Hopkins al piano, John Paul Jones al
basso e Keith Moon alla batteria ; proprio in quest’occasione inizia a circolare il nome Led
Zeppelin, suggerito da Moon per un’eventuale collaborazione con Page.
Non tutto l’album è su livelli così elevati, ma qualche piccola caduta di tono non toglie a Truth
il rilievo storico che merita nell’ambito della nascente scena rock blues.
Dello stesso anno sono alcune valide registrazioni di Stewart con i Python Lee Jackson, tra le
quali va ricordata In a broken dream, pubblicata come singolo di buon successo solo nel 1972.
Nel 1969 il Jeff Beck Group si ripropone con l’ingresso a pieno titolo di Nicky Hopkins,
mentre Waller viene sostituito dall’ottimo Tony Newman, proveniente dai Sounds
Incorporated. Sempre sotto la produzione di Most, il gruppo concede il bis con l’album BeckOla (Columbia-1969) che conferma le qualità della musica senza aggiungere grandi novità,
risultando disco compatto e privo di sbavature. Anche in Beck-Ola trovano posto belle
versioni di classici quali All shook up e Jailhouse rock, ma l’apporto creativo dei membri del
gruppo è accresciuto come dimostrano Plynth (water down the drain) e Hangman’s knee. Di
rilievo la conclusiva Rice pudding, una ruvida jam caratterizzata da una delicata parentesi
centrale, dove Beck e Hopkins tolgono il respiro approntando un fraseggio d’incantata
bellezza che anticipa le atmosfere esportate in California dallo stesso Hopkins, sull’album
Volunteers dei Jefferson Airplane.
L’improvviso scioglimento della formazione, nel luglio 1969, porta Stewart e Wood (tornato
alla sei corde) all’unione con gli ex Small Faces Ronnie Lane, Ian McLagan e Kenny Jones per
la nascita dei Faces, onesto gruppo rock blues di buon successo con diversi album all’attivo.
Ben presto i Faces sono oscurati dalla maggiore consistenza di vendite dei dischi solisti di
Stewart, tra i quali s’evidenzia l’ottimo Gasoline Alley (Vertigo-1970). Nell’occasione il
cantante è accompagnato dai Faces quasi al completo e produce una sorta di manuale pratico
della ballata rock blues, proponendo materiale equilibrato ed uniforme, senza particolari
picchi o scadimenti creativi. La sua musica ha ormai abbandonato ogni velleità progressiva,
risultando legata a canoni tradizionali di fare rock e la qualità delle uscite discografiche,
inizialmente buona, appare inversamente proporzionale al successo ottenuto, già dai primi
anni Settanta.
Sciolta la congrega dei Faces nel 1975, in seguito all’abbandono di Stewart, Ron Wood pesca il
jolly dell’intera carriera rilevando il posto di Mick Taylor nei Rolling Stones.
Da parte sua, Beck progetta una formazione triangolare con la sezione ritmica degli
americani Vanilla Fudge (Tim Bogert - bs. - e Carmine Appice - bt.) quando un serio
incidente d’auto lo costringe lontano dalla scena musicale per diversi mesi ; il trio ha modo di
unirsi qualche anno più avanti, nel 1973, per l’incisione di due album di non eccelsa qualità.
Una nuova edizione del Jeff Beck Group nasce nel 1971, con Bob Tench (v.), Clive Chaman
(bs.), Max Middleton (ts.) e Cozy Powell (bt.), e nell’arco di un paio d'anni pubblica Rough
and ready (Epic-1971) e Jeff Beck Group (Epic-1972), due dischi di simile livello qualitativo
caratterizzati da un hard melodico con venature soul e qualche vaga sfumatura jazz.
Si tratta degli ultimi fuochi creativi di Jeff Beck, che dal ’75 prosegue la carriera con
pubblicazioni di valore alterno.
I Black Cat Bones sono un’oscura formazione del primo rock blues inglese, nella quale
militano il chitarrista Paul Kossoff e il batterista Simon Kirke. I due non riescono ad incidere
con il gruppo e all’inizio del 1968 provano a cercare maggior fortuna nei Free, assieme al
cantante Paul Rodgers (ex membro dei Roadrunners e dei Brown Sugar) e al bassista
sedicenne Andy Fraser (al suo attivo un breve ‘stage’ di due mesi con John Mayall).
Nello stesso anno il gruppo esordisce brillantemente con l’album Tons of sobs, che mette
subito in chiaro gli elementi basilari del loro rock blues, tirato e sudato, in brani di notevole
spessore quali Worry, Goin’ down slow, Moonshine, I’m a mover.
Rodgers s’impone come uno dei migliori interpreti del genere, dotato di un timbro vocale
caratteristico e di un approccio personale, bilanciando sapientemente una trasandata
aggressività con l’ottima predisposizione melodica. Kossoff è un chitarrista piuttosto
originale, in grado di fornire un buon impatto ritmico e un apporto solistico asciutto ed
essenziale, sostenuto dal basso irrefrenabile di Fraser e dalla metronomica batteria di Kirke.
FREE
-
FREE
(Island - 1969)
Il secondo long playing, pubblicato nell’autunno del 1969 e prodotto da Chris Blackwell
(fondatore della Island Records), raggiunge l’apice delle possibilità espressive dei Free. Così
come Tons of sobs mostra, sin dall’apertura, la potenza e la vitale aggressività del suono con il
blues roccato e urlato di Worry, Free propone subito, con I’ll be creepin’, arrangiamenti curati
ed eleganti mediante l’uso di tempi rallentati e di frequenti aperture melodiche. Rodgers
domina la situazione con eccellenti prestazioni vocali, che lo confermano tra i cantanti di
maggior interesse del tempo, spalleggiato da un Kossoff ispirato e teso a soppesare
attentamente le note che scaturiscono dal suo strumento, evitando di prodursi in inutili
sproloqui solistici.
Fraser e Rodgers, autori di quasi tutte le composizioni, propongono un’alternanza tra brani
lenti, melodici e canzoni di maggior spessore ritmico, senza mai scadere in sonorità scontate o
banali. Songs of yesterday marca il tempo in modo deciso, con il sostegno fantasioso del basso
di Fraser e della possente batteria di Kirke. Se la raffinata Lying in the sunshine non convince
del tutto, notevoli sono invece la rarefatta Mouthfull of grass (uno strumentale illuminato
dalla lirica chitarra di Kossoff, che accarezza le note con disarmante semplicità) e la sofferta
ballata blues di Free me. Trouble on double time s’affida ad un accattivante rhythm & blues
dotato di un’originale coda finale a tempo di valzer, mentre Woman mostra il gruppo
compatto ed aggressivo. Broad daylight e Mourning sad morning sono belle ballate, elettrica ed
indolente la prima, acustica e malinconica l’altra, a conclusione di un disco originale e ricco di
fascino.
La serie di concerti negli Stati Uniti come gruppo di spalla ai Blind Faith contribuisce ad
accrescere ulteriormente la popolarità dei Free che poco dopo ottengono grande successo con
il singolo All right now, un hard’n’roll che si piazza ai primi posti delle classifiche inglese ed
americana.
I Free sono all’apice della notorietà quando, nel 1970, incidono il terzo LP Fire and water, che
li conferma ancora ad alto livello. Il disco contiene una ‘long version’ di All right now,
sicuramente ben costruita anche se non troppo fantasiosa e alcune canzoni mostrano un suono
piuttosto rilassato, in qualche caso convincente (Oh I wept, Heavy load), in altri momenti con
evidenti segni di stanchezza (Remember, Don’t say you love me). Ad elevare notevolmente la
media qualitativa dell’album contribuisce la stupenda Fire and water, un rock blues tra i più
classici del repertorio dei Free che presenta un’epica e concisa introduzione, cadenze dure e
un memorabile, ficcante assolo minimale di Paul Kossoff. La vitalità residua viene spesa
nell’entusiasta jam di Mr. Big che si apre sofferta e strascicata, nella migliore tradizione del
gruppo, per poi evolvere in un concentrico ed ipnotico effetto armonico realizzato dalla
chitarra di Kossoff, a sostegno dell’incontenibile basso solista di Fraser.
Sull’onda del successo i Free si esibiscono nell’agosto 1970 al festival dell’isola di Wight e
pubblicano un nuovo microsolco, che segna l’inizio della decadenza creativa del complesso.
Highway (Island-1970) non possiede la forza propulsiva dei primi tempi, né le raffinate
intuizioni e l’equilibrio stilistico del secondo album e nella musica dei Free si fa strada un
manierismo che provoca alcune nette cadute di tono, intaccando la qualità delle pur discrete
The highway song, The stealer, Be my friend, che in ogni caso s’ascoltano più volentieri di
decine di modesti epigoni.
Ancora esce il discreto Free live (Island-1971), quasi interamente registrato dal vivo, e il
gruppo si scioglie nel maggio del ’71. Kossoff e Kirke registrano un disco con il giapponese
Tetsu Yamauchi (bs.) e il texano John ‘rabbit’ Bundrick (ts.), Fraser suona con i Toby senza
ottenere alcun riscontro e Rodgers costituisce i Peace, un trio teoricamente interessante che
annovera Stuart McDonald (bs., ex Killing Floor) e Mick Underwood (bt., dai Quatermass). I
Peace falliscono miseramente dopo aver effettuato una manciata di registrazioni in studio e
alcuni concerti di spalla ai Mott the Hoople.
Visto l’insuccesso dei vari progetti, i Free tornano insieme all’inizio del 1972 per dare alle
stampe il non esaltante Free at last (Island-1972). Alla fine dell’anno Fraser abbandona
definitivamente i compagni ed entra negli Sharks, la nuova band del chitarrista Chris
Spedding (Battered Ornaments, Nucleus), con i quali incide l’album First water (1973) ; in
seguito forma la Andy Fraser Band.
Per l’ultimo, deludente, Heartbreaker (Island-1973) i Free s’avvalgono della collaborazione di
Yamauchi e Bundrick ; durante le registrazioni del disco Kossoff entra in crisi a causa di
gravi problemi di droga e il suo abbandono è il colpo di grazia alle residue velleità del
complesso, che si disgrega per sempre alla fine del 1973.
Poi viene la Bad Company, gran successo commerciale per Rodgers e Kirke con Mike Ralphs
(ch., Mott the Hoople) e Boz Burrell (bs., King Crimson), sotto il patrocinio del manager dei
Led Zeppelin, Peter Grant, e ancora si ascolta l’onesto rock blues dei Back Street Crawler, la
nuova formazione di Kossoff che quando sembra aver superato i momenti critici della
tossicodipendenza muore improvvisamente, colpito da un attacco cardiaco nel marzo 1976.
Sin dal 1963 Jimmy Page è un apprezzato sessionman della scena rock (la sua chitarra
appare in registrazioni di Them, Kinks, Donovan, Chris Farlowe, Jeff Beck, Joe Cocker e
mille altri) e nel giugno 1966 trova un posto fisso (come bassista) negli Yardbirds, in
sostituzione del dimissionario Paul Samwell Smith. Pochi mesi più tardi, quando abbandona
anche Jeff Beck, Page torna ad esibirsi alla chitarra solista e gestisce l’ultima fase della
carriera del complesso ; nel settembre del ’68 è senza gruppo, con il problema di dover
ottemperare ad impegni presi per un tour in Scandinavia e, per far fronte alla situazione,
decide di allestire una formazione provvisoria chiamata New Yardbirds. Il chitarrista si
ricorda di John Paul Jones (bs.or.), un sessionman con il quale ha ripetutamente avuto modo
di lavorare, e per i ruoli di cantante e batterista contatta il già famoso Terry Reid e B. J.
Wilson dei Procol Harum. I due, però, non si rendono disponibili e Page è costretto a
ripiegare su sconosciuti musicisti che tra il ’67 e il ’68 suonano con la Band of Joy, Robert
Plant e John Bonham.
Stanco di suonare in dischi di altri, Page insiste nell’ipotesi di un suo gruppo e in ottobre i
New Yardbirds cambiano sigla in Led Zeppelin, prendendo spunto da un vecchio
suggerimento di Keith Moon allo stesso Page. In quel mese il gruppo si reca negli studi
Olympic dove registra, in una trentina di ore, i pezzi da includere in un eventuale album ed
inizia ad esibirsi in piccoli club e nel circuito dei college e delle università.
LED ZEPPELIN
-
LED ZEPPELIN
(Atlantic - 1969)
Le potenzialità dei Led Zeppelin sono eccezionali e le poche ore di lavoro in studio risultano
sufficienti a partorire un album eccellente e travolgente, che si colloca al vertice
dell’espressione più dura ed intransigente del blues inglese.
Le intuizioni della loro proposta derivano in linea retta da Truth di Jeff Beck ma il gruppo di
Page va ben oltre, sintetizzando al massimo l’ispirazione blues delle canzoni in una musica
ruvida e coinvolgente che rappresenta l’anticamera dell’hard rock. Page sfrutta la notevole
esperienza maturata in anni di sessioni di registrazione dimostrando una padronanza tecnica
invidiabile, sempre puntuale nella propulsione ritmica, incontenibile e al tempo stesso
misurato nel solismo, arricchendo nel corso degli anni uno stile che rimane costante punto di
riferimento per i chitarristi del genere. Robert Plant non dispone degli straordinari mezzi
vocali di un Rod Stewart ma grazie ad una grande personalità, nel tentativo di adattarlo
perfettamente alla musica del gruppo, modella il canto rendendolo immediatamente
riconoscibile. La sezione ritmica è solida e precisa come poche, non solo per merito di Page
ma anche per il suono profondo e spettrale del basso di Jones e per i poderosi colpi inferti ai
tamburi da Bonham.
Good times bad times mette subito le cose in chiaro : mai si era ascoltato un approccio così
duro e schematico, se si eccettuano alcune invenzioni del primo Hendrix (Fire, If six was nine,
Spanish Castle magic). Qui però il suono è puro metallo fuso, privo d’implicazioni
psichedeliche, crudo e diretto ad un impatto fisico meno selvaggio ma ancor più pesante e
senza vie di fuga.
Babe I’m gonna leave you, un traditional arrangiato da Page, è giocata sul continuo contrasto
tra un clima acustico stemperato e improvvise accelerazioni ritmiche, con una sofferta
interpretazione di Plant.
Due sono gli omaggi a Willie Dixon, sicuramente uno dei compositori più apprezzati dai
musicisti inglesi nell’ambito del blues di Chicago : You shook me, già proposta da Jeff Beck su
Truth, è resa con un arrangiamento originale che annovera interventi di organo, armonica e
un pirotecnico assolo di chitarra con eco, mentre I can’t quit you baby appare classica e
controllata ma non per questo meno brillante, a dimostrazione che gli Zeppelin sanno calarsi
nel blues anche a stretto confronto con la tradizione.
Dazed and confused è un blues da girone infernale, condotto dalla sicura voce di Plant e da un
inquietante giro di chitarra ; il suono si placa e Page accarezza le corde con l’archetto del
violino (seguendo l’esempio di Eddie Phillips dei Creation) sino alla micidiale ripresa che
spezza bruscamente l’irreale atmosfera del brano.
La ballata di Your time is gonna come si apre con l’organo di Jones che allenta la tensione,
mentre la seguente Black mountain side, uno strumentale acustico di Page con il sapore della
canzone folk, si avvale dell’accompagnamento di Viram Jasani alle tabla. Il brano è interrotto
dall’improvvisa eruzione della chitarra elettrica che con un riff mozzafiato spiana la strada a
Communication breakdown, il primo grande pezzo hard del gruppo, dove Plant riesce a
dominare l’alta tensione generata con una prestazione estremamente aggressiva. Chiude il
disco la spigliata How many more times che prende spunto da un giro di blues velocizzato,
rendendo quasi l’impressione della prova da sound check nel suo incedere privo di precisi
punti di riferimento (una citazione di The hunter, classico soul ripreso anche dai Free sul loro
primo LP), con frequenti stacchi solistici e repentini cambi d’umore.
Il dirigibile s’è levato in volo e non precipiterà tanto presto.
- 13 L’espressione più calda e creativa del rock blues inglese si afferma nel biennio 1969 /
1970, nel quale si assiste ad un’ampia proliferazione di gruppi e musicisti dediti, con diversi
approcci e caratteristiche, allo sviluppo di questo genere musicale.
In tale momento storico molti iniziano (e a volte terminano pure) la loro carriera, altri
raggiungono la piena maturità ; alcuni conquistano un consistente successo commerciale, i più
si devono accontentare della gloria e a volte nemmeno di quella.
Tra le formazioni longeve va segnalata quella dei Ten Years After del chitarrista Alvin Lee,
attiva sin dal 1966 ; oltre a Lee, il quartetto comprende l’organista Chick Churchill, il bassista
Leo Lyons e il batterista Ric Lee. I Ten Years After si mettono in mostra con una serie di
esibizioni al Marquee e riscuotono gran successo nell’edizione 1967 del festival di Windsor.
Sotto la produzione del solito Mike Vernon, nell’ottobre ’67 esce il primo omonimo LP che
evidenzia un gruppo alle prese con una musica piuttosto rigorosa ed illustra lo stile virtuoso di
Alvin Lee. I risultati sono buoni nel blues’n’roll di I want to know, nel lento d’atmosfera I
can’t keep from crying, sometimes valorizzato da un'accattivante chitarra a tinte jazz, in Love
until I die che (pur con un arrangiamento diverso) presenta curiose assonanze con la versione
di Crossroads dei Cream. Anche le immancabili versioni di brani composti da Willie Dixon
sono riuscite : Spoonful, meno potente rispetto all’interpretazione dei Cream, e Help me si
basano essenzialmente sullo stile veloce e tecnico di Alvin Lee, che a volte esagera tirando le
esecuzioni troppo per le lunghe con il rischio d’annoiare.
La dimensione live è quella maggiormente congeniale al complesso che nel 1968 effettua la
prima di una lunga serie di tournée in U.S.A., suonando in jam addirittura con Janis Joplin e
Jimi Hendrix. Nell’agosto dello stesso anno esce il secondo album Undead, registrato dal vivo
al Klooks Kleek di Londra, che presenta un effervescente blues jazz elettrico e roccato di
buona fattura e contiene uno dei classici del repertorio del gruppo, I’m going home.
TEN YEARS AFTER
-
STONEDHENGE
(Deram - 1969)
Album di transizione nella discografia dei Ten Years After, Stonedhenge è stato fin troppo
sottovalutato dalla critica che lo ha sempre posto in secondo piano rispetto ad altri lavori del
gruppo.
Registrato nel settembre ’68 e pubblicato all’inizio del 1969 ancora con la produzione di
Vernon, l’album, in effetti, risulta vario e poliedrico, apprezzabile tentativo da parte di Alvin
Lee e compagni di confrontarsi con materiale più elaborato e, in parte, distante dalla classica
matrice blues che contraddistingue i primi due dischi. Emblematico è l’esempio della
complessa (e un poco frammentaria) Going to try, che passa con gran disinvoltura dal
rock’n’roll a certo ‘Oriental space rock’ d’impostazione floydiana.
Churchill è responsabile del breve frammento pianistico (...Monk ?...) di I can’t live without
Lydia, che anticipa la godibile Woman trouble, un blues jazz dall’impronta simile alle
atmosfere di Undead.
Skoobly-oobly-doobob è un divertente scioglilingua chitarristico, introduzione al trascinante
boogie di Hear me calling. I due blues sepolcrali A sad song e No title sono collegati tra loro
dalla sarabanda percussiva di Three blind mice ; in particolare piace No title, che si dipana
sonnecchiante per rivolgersi all’improvviso verso profili rock blues, grazie alle contorsioni
della graffiante chitarra di Lee.
C’è spazio anche per un intervento solistico del bassista Lyons (Faro) e per la buona chiusura
del blues velocizzato di Speed kills.
I Ten Years After ottengono un crescente successo commerciale e Alvin Lee è uno degli
strumentisti più apprezzati quando partecipano al festival di Woodstock, nell’agosto 1969. In
quell’occasione il gruppo fornisce una brillante prestazione che culmina nell’esecuzione al
fulmicotone di I’m going home. Sono lontani i tempi delle raffinatezze di Undead e la musica,
nella sua coinvolgente enfasi, appare decisamente orientata verso sonorità hard che trovano
puntuale riscontro su Ssssh., il nuovo album pubblicato in settembre. Lo stile del complesso è
sostanzialmente lo stesso ma l’approccio appare convenzionale, legato alle esigenze del
successo di classifica : da un lato il suono indurisce, conservando qualche appiglio con le
origini blues (Good morning little schoolgirl e I woke up this morning), dall’altro si perde in
mollezze insipide, come dimostra la debole e leggera If you should love me che non si sa bene
se vuol fare il verso a Hey Jude dei Beatles, o che altro. Ssssh. non è certo un brutto disco ma,
di fatto, rappresenta l’avvio verso un lento ed inesorabile declino della fantasia creativa di
Alvin Lee.
Il successivo Cricklewood green (Deram-1970) conferma la tendenza ad un progressivo
alleggerimento del suono. La resa definitiva avviene con Love like a man (ma nel disco c’è di
peggio), uno dei maggiori successi commerciali della formazione, dove l’accento rock blues
suona a semplice giustificazione per una musica esile, aggraziata ed innocua, che neppure
riesce ad aggrapparsi a qualche sana sferzata hard.
Ancora le solite ovazioni a Wight, nell’agosto ’70, ma per i Ten Years After l’avventura si fa
sempre più deludente, sino allo scioglimento nella primavera del 1974.
Più duratura, rispetto ai Ten Years After, ma meno produttiva ai fini del successo
conseguito è la storia dei Groundhogs, un gruppo le cui origini risalgono addirittura al 1962.
In pieno fenomeno blues revival il chitarrista Tony McPhee allestisce una formazione che
spesso funge da sostegno per i bluesmen americani in tour nel vecchio continente ; tra questi il
grande John Lee Hooker, con il quale i Groundhogs incidono un LP (And seven nights - 1966).
Nel 1966 McPhee scioglie il gruppo e si dedica a svariate collaborazioni, suonando tra l’altro
con gli Hapshash & Coloured Coat e con la John Dummer Blues Band, ma l’esigenza
d’esprimere autonomamente la propria creatività porta il chitarrista a rispolverare il vecchio
marchio. I Groundhogs del 1968, oltre a McPhee, comprendono Pete Cruickshank (bs., già
presente nella primissima formazione), Ken Pustelnik (bt.), Steve Rye (v.ar.) e in ottobre sono
autori dell’album Scratching the surface (Liberty-1968), disco dai toni ancora legati al blues
revival.
GROUNDHOGS - BLUES OBITUARY
(Liberty - 1969)
Perso per strada Rye, il gruppo s’assesta in un’asciutta configurazione triangolare che evolve
la propria musica verso un’espressione moderna, tenendo in debito conto la lezione della Jimi
Hendrix Experience.
Con alla base un suono scarno ed essenziale, dalle profonde convinzioni blues, si fa largo
l’impetuoso ed originale stile alla chitarra di McPhee che sicuramente deve molto a Hendrix,
soprattutto per la predisposizione a saltare a piedi pari i vincoli precostituiti. Tra i tanti
campioni della chitarra elettrica, McPhee è penalizzato dalla mancanza di un adeguato
riscontro commerciale che gli consenta di elevarsi alla notorietà dei grandi dello strumento,
come meriterebbe ; per contro, lo status di musicista underground è ciò che gli consente di
rimanere per lungo tempo rigoroso nelle proposte, estraneo alle tentazioni di facili
accomodamenti e compromessi. Come lo stile del chitarrista, anche la musica dei Groundhogs
trova l’originalità della propria essenza non tanto in ambiti innovativi o sperimentali, quanto
nel singolare contrasto tra una scrupolosa, e quasi testarda, ricerca timbrico - melodica e la
propensione a liberare il suono in modo spregiudicato. Da parte loro, Cruickshank e Pustelnik
forniscono un adeguato sostegno ritmico, all’apparenza disordinato ma pure solido ed
efficace.
Nel giugno 1969 i Groundhogs registrano il materiale (composto ed arrangiato da McPhee)
che viene incluso nel secondo LP Blues obituary, lavoro dove si concretizzano i notevoli
progressi conseguiti dal trio (impegnato in un eccellente blues progressivo dai caratteri molto
informali), realizzato senza bisogno di complicati accorgimenti tecnici e privo di qualsiasi
concessione alla canzone di facile consumo.
Accanto a brani che mantengono una fisionomia tradizionale, come le ottime Express man e
Natchez burning, trovano posto composizioni personali quali B.D.D., in grado di passare da un
clima pacato a sfuriate al limite dell’hard rock, Times e Mistreated, blues ad alta velocità che
adottano interessanti ed atipiche soluzioni timbriche.
La creatività cruda e disorientante di McPhee si esplica nella stupenda Daze of the weak,
introdotta da movenze hendrixiane e sviluppata attorno ad un'altalenante sequenza di suoni
deraglianti, sostenuti dall’informale sezione ritmica. Altro vertice del disco è la conclusiva
Light was the day, una cupa e frenetica cavalcata strumentale condotta da una chitarra da
incubo, che modifica continuamente la cadenza in una sorta di rituale ossessivo di gran presa.
Blues obituary chiude il lungo periodo marcatamente blues dei Groundhogs, risultando tra le
migliori espressioni del genere in ambito progressivo. Il successivo Thank Christ for the bomb,
registrato nel febbraio 1970 con l’assistenza di Martin Birch (poi fedele ingegnere del suono
dei Deep Purple ‘Mark II’ e di altri gruppi hard), stabilisce in modo irreversibile le basi dello
stile dei Groundhogs per i dischi degli anni Settanta. Il suono è ora orientato verso un rock
più schematizzato, che mantiene connotati blues privilegiando aspetti vicini all’hard, mitigato
da improvvise aperture melodiche.
Strange town è uno degli esempi più vividi del nuovo corso, un ostinato e stridente hard blues
capace di ritagliarsi impensabili spazi melodici di notevole fascino. Molto belle sono Garden,
giocata sul contrasto tra l’armonia precisa e curata e il riff predatore della chitarra, la title
track, che parte da sostenute linee folk blues per approdare all’ennesima anfetaminica e
incontenibile jam, le spedite ballate di Soldier e di Ship on the ocean e la tirata Eccentric man.
I Groundhogs si esibiscono al festival di Wight, ma il successo resta scarso e McPhee non
scende a compromessi nemmeno nel seguente LP Split, realizzato nel novembre del ’70
sempre con la presenza di Birch. La suite suddivisa in quattro parti che titola l’album è la
migliore sintesi dell’originale hard rock del complesso ; in alternativa, McPhee propone la
bellissima ballata decadente di A year in the life, con una chitarra glaciale, e il gradito ritorno
al blues della brillante Groundhog.
Nel 1971 viene dato alle stampe un disco dal vivo a tiratura limitata, Live at Leeds (Liberty), e
nel gennaio del ’72 il trio si ritrova in studio per le registrazioni del nuovo Who will save the
world ? The mighty Groundhogs ! (United Artists-1972), che introduce sostanziali innovazioni
nella loro musica. McPhee inserisce alcuni strumenti a tastiera (in particolare il mellotron)
che donano al suono un aspetto più ricercato ; viene a mancare l’ardore tipico dei lavori
precedenti ed affiora qualche mollezza di troppo, ma in fin dei conti l’operazione regge e dà
buoni frutti, almeno nella sostanziosa The grey maze e nelle più formali Earth is not room
enough e Wages of peace.
Ken Pustelnik lascia il gruppo per tentare una carriera solistica che mai si concretizzerà,
sostituito dall’ex batterista degli Egg, Clive Brooks. Il nuovo triangolo è responsabile di due
album, Hogwash (United Artists-1972) e Solid (WWA-1974), che possiedono il merito di
mantenere a livelli accettabili la produzione dei Groundhogs. In particolare Hogwash
recupera parte dell’originaria aggressività, e anche se le novità sono oramai esaurite il suono
appare vivo e pulsante : 3744 James road, il gioco funziona ancora ed è davvero difficile
chiedere di più ad un personaggio semplice ed onesto come Tony McPhee.
Di minor interesse appaiono le successive riedizioni del complesso, con le quali il chitarrista
cerca di tenersi attivo sulla scena rock.
Non meno intrigante ed ugualmente di scarso successo commerciale è la musica proposta
dai Patto. Mike Patto (v.), Ollie Halsall (ch.), Clive Griffiths (bs.), John Halsey (bt.) e Chris
Holmes (ts.) sono i Timebox, un complesso che tra il ’67 e il ’69 incide una numerosa serie di
45 giri ; con l’uscita dal gruppo di Holmes (che finirà nei Babe Ruth) i quattro rimasti
cambiano nome in Patto ed iniziano a farsi conoscere per merito di alcuni riusciti spettacoli
dal vivo, nei quali i musicisti dimostrano di possedere notevoli capacità tecniche.
PATTO
-
PATTO
(Vertigo - 1970)
Con il sostegno di Muff Winwood (produttore della Island), verso la metà del 1970 i Patto
firmano un contratto per l’etichetta progressiva Vertigo e realizzano un primo album
omonimo che ottiene giudizi lusinghieri da parte degli addetti ai lavori, ma vende decisamente
poco.
Certo, la proposta del gruppo non è tra le più immediatamente digeribili ma, lo stesso, si
fatica a capire come musicisti tanto preparati, autori di una musica originale, non facile ma
pure di buon impatto fisico, vadano incontro ad un così netto insuccesso commerciale.
Halsall, un chitarrista molto considerato nell’ambiente, è titolare di uno stile atipico, che
scorre velocemente da entusiasmi hard a sfumature jazz, eppure resta in sostanza un emerito
sconosciuto dovendosi accontentare in carriera di ruoli interessanti ma, in ogni caso,
marginali. Griffiths e Halsey rendono la base ritmica imprevedibile ed imprendibile, eccellenti
strumentisti che finiscono ben presto nel dimenticatoio. L’unico ad ottenere una meritata (e
non esagerata) notorietà è Mike Patto, capace d’esprimere una delle più belle voci rock dei
primi anni Settanta.
I Patto dimostrano una buona dose di coraggio aprendo l’album con un brano quale The man
che punta su fascinose e raffinate sonorità, in un’ideale sintesi di rock, blues e jazz. E’ una
musica dai toni pacati, ben caratterizzata sotto l’aspetto timbrico (eccellente il tocco di
vibrafono di Halsall), dove il blues è presente a livello di citazione embrionale nelle cellule che
compongono i tessuti di un’espressione complessa, autonomamente svincolata dai modi
classici del British blues.
Gli stessi elementi sono alla base della bella Government man, gestita con una maggiore
attenzione verso la forma canzone tipicamente rock, mentre l’impervia introduzione
strumentale di Money bag riflette un’insolita predisposizione ad un approccio vicino al free
jazz, mascherando qualche giustificabile incertezza con il brillante solismo di Halsall.
Hold me back evolve in efficaci scansioni contrapposte, schizzi rock’n’roll, minimali riff hard
blues e, come le più tradizionali Time to die e San Antone, mantiene un’elevata libertà
espressiva. La rocciosa Red glow e il moto circolare dell’hendrixiana Sittin’ back easy
completano l’ampio spettro sonoro dell’album, fissando i momenti di maggior solidità,
affidandosi ad impetuose ondate chitarristiche imparentate con il grintoso rock blues del
tempo, senza perdere un grammo dell’originale propensione creativa.
Dal vivo i Patto ottengono buoni consensi, ma le vendite discografiche sono modeste anche in
occasione del secondo LP Hold your fire (1971) che propone un suono levigato ed equilibrato,
smussando gli estremismi presenti sul lavoro precedente. I riferimenti stilistici restano gli
stessi ma la loro moderna sintesi strumentale si fa più complessa e personale, priva di definiti
punti di riferimento e, forse proprio per questo motivo, difficile da collocare sul mercato. In
ogni caso il disco è di ottima qualità, anche se inferiore al Patto d’esordio, e tra i brani vanno
ricordati la bella Hold your fire, che si riallaccia a schemi già sperimentati, l’ottima polemica
ballata di You, you point your finger, il rock’n’roll dai mille sviluppi di See you at the dance
tonight e la rilassata Magic door.
Mike Patto, sempre nel 1971, partecipa ai Centipede, ambiziosa creatura del jazzista Keith
Tippett, apparendo sull’album Septober energy ; poco più avanti (inizio ’72) è Halsall a
mettere in cantiere un progetto solista, che prevede l’interessamento di Robert Fripp, senza
riuscire mai a renderlo definitivo.
La Vertigo non rinnova il contratto al gruppo e un’ulteriore possibilità è offerta dalla Island
per la quale esce un terzo album, l’ancora valido Roll’em smoke’em put another line out
(Island-1972), ma tutti i tentativi per emergere sono vani. Dopo un concerto di addio tenuto a
Sheffield nell’aprile del 1973, i Patto si sciolgono e la quarta fatica a 33 giri (Monkey’s bum)
resta inedita per lunghi anni.
Griffiths esce completamente dalla scena musicale, mentre Halsey suona con i Decameron.
Halsall, fino al giugno ’74, si sistema con i Tempest di Jon Hiseman, con i quali registra
l’album Living in fear, quindi collabora con Kevin Ayers ed è parte del cast del celebrato
concerto evento al Rainbow del primo giugno 1974. Nel ’75 ritrova Mike Patto (che nel
frattempo ha avuto un breve flirt con gli ultimi Spooky Tooth per l’album The mirror) nei
Boxer, una formazione completata da altri due musicisti d’esperienza quali Keith Ellis (bs.,
Van Der Graaf Generator e Juicy Lucy) e Tony Newman (bt., Jeff Beck Group e May Blitz).
L’epilogo della storia, purtroppo, è triste : Patto muore nel marzo del ’79 per un tumore alla
gola e recentemente scompare anche Halsall.
I Taste vivono un’importante, quanto breve, stagione tra il 1969 e il 1970, durante la quale
il complesso guidato da Rory Gallagher sfiora il grande successo e viene additato da molti
critici del tempo come la possibile reincarnazione del mito dei Cream.
Il chitarrista irlandese forma il primo nucleo del gruppo nel 1966, con due membri
provenienti dall’oscura band degli Axels, Eric Kitteringham (bs.) e Norman Damery (bt.). La
svolta che porta alla nascita della formazione più nota avviene nel maggio del ’68, quando
entrano nel gruppo due ottimi strumentisti quali il bassista Charlie McCracken e il batterista
John Wilson, anche loro irlandesi.
Le prime uscite discografiche, l’album Taste (Polydor-1969) e il singolo Born on the wrong side
of time, propongono un triangolo compatto ed aggressivo che recupera la tradizione del blues
elettrico con piglio duro e sfrontato, senza curarsi troppo della forma estetica dei brani.
Il paragone con i Cream è giustificabile, ma pure forzato ed ingrato per i Taste che non
possiedono l’eccelsa levatura tecnica del gruppo di Clapton, né la facilità di scrittura della
coppia Bruce / Brown ; dal vivo poi Gallagher e compagni appaiono un poco velleitari,
impostando il repertorio su lunghe improvvisazioni impetuose, coinvolgenti ma prive di
quell’interscambio solistico che caratterizza le migliori rappresentazioni live dei Cream.
Ovviamente questo non impedisce ai Taste di guadagnare la posizione di gruppo onesto e
preparato, che convince per la grinta e l’esuberanza dello stile in pezzi quali Sugar mama (una
delle esercitazioni preferite da Gallagher), Dual carriageway pain, Blister on the moon, Leaving
blues.
Il gruppo partecipa a supporto (così come i Free) del tour americano dei Blind Faith,
nell’agosto del ’70 suona al festival di Wight e Gallagher viene votato miglior chitarrista dai
lettori del Melody Maker.
Il secondo LP On the boards (Polydor-1970) riscuote buon successo e lascia trasparire sprazzi
di sonorità insolitamente eleganti, anche se il rock duro e spigoloso è subito dietro l’angolo
come dimostra What’s going on (edita pure come singolo).
Nel momento in cui i Taste sono sul punto di acquisire un ruolo di primo piano nell’ambito
della scena rock inglese Gallagher, spinto da ambizioni solistiche, decide d’abbandonare i
compagni, decretando la fine del gruppo all’inizio del 1971. Dopo lo scioglimento viene dato
alle stampe il postumo Live Taste (Polydor-1971), con inserti del concerto al festival di
Montreaux e successivamente esce Live at Isle of Wight (Polydor-1972).
McCracken e Wilson proseguono in trio con il chitarrista Jim Cregan (proveniente dai
Blossom Toes) sotto la sigla Stud, pubblicando tre onesti LP ; McCracken diventa in seguito
un richiesto sessionman, mentre Wilson abbandona la scena musicale.
Gallagher si getta a capofitto in una lunga serie d’incisioni sotto proprio nome, confermando
il ruvido rock blues degli esordi ma, alla lunga, perdendo lo smalto dei tempi migliori. Del
resto, la testarda perseveranza del chitarrista nel proporre la stessa formula (incurante delle
mode e dei cambiamenti) è la virtù che lo rende immacolato agli occhi dei fedeli fans di
sempre, fino alla morte nel 1995.
Tra i numerosi complessi minori dediti ad una proposta saldamente legata alla tradizione
meritano una citazione la Climax Chicago Blues Band, titolare di una lunga e non sempre
felice serie d’incisioni, i Jellybread del tastierista Pete Wingfield (poi con la Keef Hartley
Band), che sotto l’impulso di Mike Vernon pubblicano tre LP per la Blue Horizon, e i Love
Sculpture. Guidato dal chitarrista Dave Edmunds, il gruppo è capace d’offrire un lavoro
d’esordio più che dignitoso (Blues helping, Parlophone-1968) prima di optare, nel febbraio del
’70, per uno stile compromesso da tendenze neoclassiche, espresso nel secondo album Forms
and feelings (presente perfino una controversa rilettura - Sabre dance - della Danza delle
sciabole del compositore sovietico Aram Khaciaturian).
Tutte formazioni che, per varie ragioni, risultano inferiori a quella dei Savoy Brown.
La Savoy Brown Blues Band nasce nel 1966 da un’idea del chitarrista Kim Simmonds, che
s’avvale della collaborazione del bravo pianista Bob Hall, del cantante Bruce Portius, della
sezione ritmica composta da Ray Chappell (bs.) e Leo Mannings (bt.), oltre che del secondo
chitarrista Martin Stone. Il gruppo, accorciato il nome in Savoy Brown, entra nell’orbita del
produttore Mike Vernon e nel settembre ’67 realizza l’album Shakedown (Decca-1967),
strettamente legato a canoni blues.
Subito dopo i Savoy Brown subiscono una profonda trasformazione : rimangono i soli
Simmonds e Hall, Mannings va con la Sunflower Blues Band, Stone entra negli ottimi Mighty
Baby, mentre arrivano il cantante Chris Youlden e tre nuovi strumentisti dallo stile robusto,
Dave Peverett (ch.), Rivers Jobe (bs.) e Roger Earl (bt.). Il primo frutto della nuova
compagine è Getting to the point (Decca), che nell’estate del ’68 conferma la musica dei Savoy
Brown molto vicina al blues revival di scuola Bluesbreakers. Il repertorio è diviso tra un buon
numero di pezzi originali e alcune belle versioni di brani di Muddy Waters (Honey bee) e di
Willie Dixon (You need love).
SAVOY BROWN
-
BLUE MATTER
(Decca - 1969)
Nel maggio 1969 Blue Matter raggiunge l’apice delle possibilità dei Savoy Brown, mediando il
rigoroso idioma tradizionale dei primi tempi con un suono forte e deciso, convincente e ancora
lontano da superflui esibizionismi. Il lavoro si compone di una parte registrata in studio ed
una che fissa l’esibizione dal vivo del dicembre ’68 al Leicester College of Education.
In studio il gruppo appare elegante e creativo nel sostenere originali forme di blues
progressivo, come nell’iniziale Train to nowhere che s’avvale del decisivo apporto di
un’inconsueta sezione di cinque tromboni. Nel brano è ancora presente il bassista Rivers Jobe,
come pure nella seguente Tolling bells, un raffinato blues d’atmosfera caratterizzato dalla
presenza del piano ritmico suonato da Simmonds che accompagna quello solista di Hall.
Ancora il piano di Hall è protagonista assoluto in Vicksburg blues, a sostegno della potente e
personale voce di Youlden. She’s got a ring in his nose and a ring on her hand è mossa e
gradevole, mentre la cover di Don’t turn me from your door (John Lee Hooker) scuote alla
base la musica dei Savoy Brown, affidandosi ad un inedito clima torrido.
Dal vivo l’organico presenta la defezione di Youlden, con un assetto a cinque dal quale
emergono le qualità di Peverett come chitarrista e cantante ; May be wrong (composta dallo
stesso musicista) illustra il suo tagliente stile alla chitarra, mentre la voce appare meno
convincente rispetto a quella di Youlden. L’energica e coinvolgente versione di Louisiana
blues (Waters) e la classica It hurts me too concludono l’album nel migliore dei modi.
La produzione discografica si conferma di valore più che discreto con A step further (Decca1969), ultimo disco al quale partecipa il brillante pianista Bob Hall, poi i toni della musica dei
Savoy Brown si fanno tesi e meno interessanti. Dopo Raw Sienna (Decca-1970) lascia anche
Youlden, che tenta una poco proficua carriera solista, e in seguito a Looking in (Decca-1970)
il gruppo si sfalda per via dell’abbandono di Peverett, Stevens e Earl. I tre si uniscono a Rod
Price (ex chitarrista dei Black Cat Bones) per dar vita ai Foghat, formazione che conseguirà
notevole successo soprattutto in U.S.A. proponendo un hard rock che muta progressivamente
da un apprezzabile hard blues iniziale (Foghat, Bearsville-1972, con una potente versione
della I just want to make love to you di Willie Dixon) verso forme sempre meno fantasiose.
All’inizio del 1971 Simmonds riorganizza i Savoy Brown facendo leva sugli ex Chicken Shack
Paul Raymond (ts.), Andy Sylvester (bs.), Dave Bidwell (bt.) e sul cantante Dave Walker. Con
quest'assetto il gruppo pubblica i discreti Street corner talking (Decca-1971) e Hellbound train
(Decca-1972) ; più avanti entrano altri musicisti di notevole esperienza quali Andy Pyle (bs.,
Blodwyn Pig), Stan Webb (ch., Chicken Shack) e Miller Anderson (ch., Keef Hartley Band),
ma nulla permette ai Savoy Brown di rinverdire la qualità e l’autorevolezza delle prime
opere.
Personaggio di notevole fama (anche ai giorni nostri), Joe Cocker non può essere
considerato figura fondamentale del British blues, in virtù dell’assenza da buona parte della
sua produzione di connotati particolarmente originali e di un’attitudine realmente
progressiva.
Dopo alcune esperienze marginali in campo musicale, Cocker decide di abbandonare il lavoro
fisso da benzinaio per costituire un proprio gruppo, la Grease Band. Il nucleo si compone di
Chris Stainton (bs.), Tommy Eyre (ts.), Henry McCullough e Alan Spenner (ch.), Kenny Slade
(bt.) e lo stile fissa il raggio d’azione su rhythm & blues e soul.
L’anno decisivo per il cantante di Sheffield è il 1968, quando pubblica a 45 giri la discreta
Marjorine, effettua un'applaudita esibizione al festival di Windsor e giunge al successo con il
secondo singolo, la versione di With a little help from my friends dei Beatles, che raggiunge la
prima posizione della classifica inglese e vende bene anche negli States. Per l’incisione del
brano Cocker si avvale di una formazione prestigiosa, con Jimmy Page (ch., poco dopo
fondatore dei Led Zeppelin), Chris Stainton (bs.), Tommy Eyre (or., poi con Aynsley Dunbar
Retaliation e Mark-Almond) e B.J. Wilson (batterista dei Procol Harum) ; il pezzo è
completamente ridisegnato su schemi R & B e gospel, con la calda e grintosa voce del
cantante, la fulminante chitarra di Page e il fluido, drammatico timbro dell’organo di Eyre.
All’inizio del 1969 il primo LP With a little help from my friends sfrutta sin dal titolo l’enorme
popolarità del pezzo guida e risulta un lavoro valido, anche se non del tutto convincente.
Accompagnato da un favoloso cast di musicisti, Cocker si dimostra ottimo interprete quanto
poco prolifico ed efficace compositore. Tre soli i brani originali (di discreta qualità) che
portano la sua firma, associata a quella del fido Stainton, e le cose migliori sono (oltre alla
celebre title track) una bella e annerita versione di Feelin’ alright ?, dal repertorio dei Traffic,
l’azzeccato arrangiamento romantico della Just like a woman di Bob Dylan e la bella Do I still
figure in your life ? con l’organo di Stevie Winwood. Di minor rilievo appaiono le riletture di I
shall be released (ancora Dylan) e di Don’t let me be misunderstood, che fa rimpiangere il clima
infuocato dell’originale di Eric Burdon con gli Animals.
Nel ’69 il cantante compie un primo giro di concerti negli Stati Uniti dove conosce il pianista,
chitarrista e compositore Leon Russell, che scrive per lui il successo di Delta lady, ed
organizza le basi per l’ampia formazione del Mad Dogs & Englishmen con la quale l’anno
seguente sostiene un secondo importante tour americano.
La gloria definitiva arriva nell’agosto 1969, quando Cocker consegna alla storia del rock una
esaltante performance di fronte all’infinito pubblico del festival di Woodstock. Il cantante si
supera in una memorabile interpretazione di With a little help from my friends, resa con
eccezionale trasporto emotivo in un’elettrizzante condizione di trance epilettica (caldamente
consigliata la visione del film di Michael Wadleigh sul famoso avvenimento).
Woodstock rimane per Cocker il momento più fulgido di una parabola artistica che tende ad
un rapido deterioramento, anche se il secondo LP Joe Cocker ! (Regal Zonophone-1970) è una
dignitosa conferma dei pregi e dei difetti del suo stile, con alcune frizzanti cover (Lawdy miss
clawdy, She came in through the bathroom window, Hitchcock railway) e la fortunata Delta
lady.
Gli ultimi fuochi veramente interessanti bruciano nella passione live del doppio Mad dogs &
englishmen (A&M-1970), registrato nel marzo ’70 in occasione dei concerti al Fillmore East di
New York, album denso di classici del rock’n’roll, del soul e del rhythm & blues proposti con
un’attitudine ancora coinvolgente. Nel momento di maggior successo Cocker è costretto ad un
forzato ritiro dalle scene per via di gravi problemi di droga ; il ritorno avviene nel 1972 ma il
cantante appare stanco e privo d’ispirazione, accusando la scarsa propensione creativa che lo
rende oltremodo vulnerabile, per cui i dischi successivi mostrano una qualità modesta. Che
poi il vecchio leone colga qualche corroborante risultato commerciale negli anni Ottanta fa
sicuramente piacere, ma al tempo stesso intristisce l’animo al pensiero dell’antica grinta.
- 14 Un importante contributo creativo alla scena del British blues è offerto da complessi
che agiscono essenzialmente in ambito underground, privi di grande notorietà (a volte quasi
sconosciuti), che proprio per la mancanza di un rapporto diretto con le classifiche
discografiche riescono a mantenere un’identità immune da compromessi sulle scelte
stilistiche.
Tra i nomi relativamente più noti emerge quello dei Blodwyn Pig, valvola di sfogo per le
evoluzioni del chitarrista Mick Abrahams costretto, alla fine del ’68, ad abbandonare i Jethro
Tull, a causa dei notevoli contrasti con Ian Anderson riguardo alla direzione musicale da
seguire.
BLODWYN PIG
-
AHEAD RINGS OUT
(Island - 1969)
Sulla carta Blodwyn Pig è una buona occasione per l’ex Jethro Tull, potendo liberamente
attingere a matrici blues e jazz che confluiscono in una sorta di hard progressivo, buon punto
di mediazione tra la pregevole chitarra di Abrahams (tecnicamente ineccepibile, limpida e
pure impetuosa) e le interessanti soluzioni ai fiati di marca jazz adottate da Jack Lancaster,
che rendono il suono prezioso ed elegante, il tutto sostenuto dalla solida sezione ritmica dotata
di una sufficiente varietà di schemi.
Si passa da R & B dinamici e grintosi quali It’s only love e Summer day ad orientamenti jazz,
come nella strumentale The modern alchemist, e a blues di squisita fattura acustica in Dear Jill
e in The change song (con il violino di Lancaster). Tra i pezzi migliori sono da annoverare
anche le robuste Walk on the water, Ain’t ya coming home ? e See my way, che prediligono una
vigoria metallica non strettamente in linea con l’orientamento generale del lavoro. In
particolare See my way è l’esercizio più diretto, un brano dal piglio fiero e di facile
assimilazione, che fa leva su una felice combinazione armonica caratterizzata nella parte
centrale da chiari riferimenti a Ravel (anche se Abrahams affermò di non aver ascoltato
prima di allora le opere del compositore francese).
Ahead rings out non ottiene gran riscontro di vendite ma il gruppo insiste ed incide un
secondo album, Getting to this (Island-1970), che non presenta grandi novità e perde qualcosa
in equilibrio e freschezza. Nel disco risalta la mini suite San Francisco sketches, forse troppo
pretenziosa, e trova posto un’inspiegabile ripresa di See my way.
Visti gli scarsi risultati commerciali Abrahams abbandona il gruppo, che per breve tempo
prosegue con Peter Banks (dagli Yes) prima di giungere allo scioglimento. La sezione ritmica
(Andy Pyle e Ron Berg) si sposta nei Juicy Lucy e poi nei Savoy Brown, mentre Lancaster
prova a lanciare gli Aviator (con il batterista Clive Bunker, pure lui proveniente dai Jethro
Tull), senza risultati apprezzabili.
Nel frattempo Abrahams fonda i Womat, che in seguito diventano più semplicemente la Mick
Abrahams Band : con lui sono Bob Sargeant (ts.), Walt Monaghan (bs.), Ritchie Dharma (bt.)
e il primo album omonimo, pubblicato nel 1971 su etichetta Chrysalis, appare più che discreto
(ottima la lunga Seasons), facendo perno su un rock progressivo distante dalle originarie
matrici blues ma lo stesso ben organizzato e piacevole. Ancora un disco nel ’72 (At last,
Chrysalis), al quale partecipa Lancaster, e il gruppo già non esiste più.
Abrahams effettua un paio di velleitari tentativi per resuscitare i suoi complessi, nel ’74 con i
Blodwyn Pig (presenti Lancaster, Pyle e Bunker) e nel ’78 con la Mick Abrahams Band, ma la
fortuna non l’assiste ; la scelta finale consiste nel definitivo abbandono della scena musicale
da parte di un chitarrista di grandi potenzialità, che avrebbe meritato una carriera più densa
di risultati concreti.
In assoluto tra le migliori formazioni del blues progressivo inglese, gli Steamhammer
nascono alla fine del 1968 appoggiandosi sulle solite basi tradizionali, senza nascondere però
fin dai primi momenti una moderna impostazione destinata a sviluppare un discorso originale
ed ambizioso.
Dal circuito folk provengono Martin Quittenton (ch.) e Kieran White (v.ch.ar.), ai quali
s’uniscono Martin Pugh (ch.), Steve Davy (bs.) e Michael Rushton (bt.), tutti musicisti con alle
spalle esperienze in gruppi rhythm & blues.
Il complesso gira in Inghilterra, spesso come formazione d'accompagnamento del bluesman
Freddie King, e nella primavera del ’69 ottiene un contratto discografico con la CBS. Il
risultato è la pubblicazione dell’omonimo album d’esordio (Reflection-1969) al quale
partecipa, in qualità di ospite, il flautista Harold McNair ; il disco pone in risalto un rock
blues spedito e piacevole, caratterizzato da soluzioni melodiche e timbriche piuttosto
personali, con largo uso di brani di propria composizione (Quittenton, White, Pugh). Tra i più
significativi vanno ricordati Junior’s wailing (pubblicata anche a 45 giri), She is the fire, When
all your friends are gone e la buona e potente rilettura di You’ll never know (B.B. King).
Dal vivo gli Steamhammer si mettono in luce partecipando ai maggiori festival europei, con
concerti che spesso superano le due ore di durata e con una musica che trae ispirazione da
ampie parti improvvisate. Nell’estate del ’69 il gruppo subisce un’importante ristrutturazione
interna causata dall’abbandono di Michael Rushton e soprattutto di Martin Quittenton, a
quei tempi uno dei maggiori responsabili dell’orientamento musicale. Il chitarrista diventa
collaboratore di Rod Stewart, regalando al cantante il successo di Maggie May (’71), ed in
seguito entra nei Pilot con cui incide un album nel 1972.
STEAMHAMMER
-
M K II
(Reflection - 1969)
Al posto della chitarra di Quittenton arrivano i fiati del pluristrumentista Steve Jollife,
avvenimento che modifica sostanzialmente gli equilibri creativi del complesso ; M K II è un
deciso salto in avanti che pone gli Steamhammer tra i migliori esponenti della ricerca
progressiva, e non solo in ambito blues.
Sin dall’iniziale, stupenda, Supposed to be free si fa strada un nuovo metodo, completamente
svincolato dagli aspetti tradizionali del genere, uno stile lirico, raffinato, aperto ad importanti
contaminazioni jazz introdotte con gusto e moderazione dai fiati di Jollife. La chitarra di
Pugh esprime una sorprendente libertà melodica e il nuovo Mick Bradley si dimostra
percussionista poliedrico ed elegante.
Il peso creativo, dopo la dipartita di Quittenton, passa essenzialmente sulle spalle di Kieran
White, con contributi di Jollife e Pugh che in molti arrangiamenti svolgono una duplice
funzione propositiva e di rifinitura strumentale.
L’originale Johnny Carl Morton introduce il clavicembalo suonato da Jollife, Pugh sposta a
sorpresa l’accento sull’ambientazione folk della breve ed intensa Sunset chase, Contemporary
chick con song si riallaccia al blues più roccato e moderno ed è l’unico brano a portare la
firma di tutti i membri del complesso.
Turn around è un altro parto di Jollife, composizione di sobria bellezza con clavicembalo,
flauto e un suono che mirabilmente resta in equilibrio tra il neoclassicismo di marca
beatlesiana e tenui sfumature jazz.
6/8 for Amiran sceglie la strada dei ritmi complessi con profonde convinzioni blues, mentre
White preferisce affidarsi a soluzioni (a lui care) da lirica e trasognata ballata folk nella bella
Passing through, valorizzata da un ottimo lavoro alla chitarra di Pugh.
Il brano più ambizioso è Another travelling tune che nella lunghissima stesura mai perde in
lucidità, evolvendo con passione in calde e premurose atmosfere blues jazz, esempio
insuperato di un concetto di fare musica romantico e libero da costringenti punti di
riferimento, sulla falsariga di ciò che nello stesso periodo viene proposto oltreoceano dai
Grateful Dead, sentimento condiviso dalla strumentale e sfuggente coda finale di Fran and
Dee take a ride.
Come sovente accade, a tanto impegno ed amore non corrisponde necessariamente un ritorno
concreto in termini d’interesse e gli Steamhammer si devono accontentare della buona
popolarità ottenuta in alcuni paesi europei (Scandinavia, Olanda, Germania) che certo non è
sufficiente alla CBS per rinnovare il contratto.
Jollife preferisce lasciare (più avanti sarà, brevemente, con i Tangerine Dream e pubblicherà
un LP solista) e il gruppo prosegue come quartetto, ripiegando in Germania per riuscire a
trovare nella Brain una nuova controparte discografica.
Nell’estate del ’70 gli Steamhammer registrano il terzo album Mountains ; l’assenza
dell’apporto creativo e strumentale di Jollife rende la musica meno varia e priva dell’originale
impronta jazz, ma quest'aspetto non pregiudica la qualità sempre elevata del disco. La prima
facciata muove in territori vicini a certo hard progressivo con la bellissima I wouldn’t have
thought, dominata da un Pugh ispirato alla chitarra solista, e con l’ottima performance dal
vivo fissata su nastro in occasione di un concerto al Lyceum di Londra (Riding on the L&M /
Hold that train), sempre con i Dead ben fissi in mente anche se il tenore è più duro ed esplicito.
La seconda parte del disco, interamente composta da White, è imperniata su alcune buone
canzoni dallo stile dolce ed estatico, tipico del cantante, quali Levinia e Mountains.
Nulla riesce a scalfire l’indifferenza del grande pubblico e White, nell’autunno 1970, decide di
abbandonare il progetto (pubblicherà un disco da solo nel ’75), seguito da Davy ; Pugh e
Bradley mantengono in vita il complesso ingaggiando il bassista Louis Cennamo (già con i
Jody Grind e i primi Renaissance) e a distanza di un anno registrano l’ultimo LP Speech
(Brain-1972), che vede la luce quando gli Steamhammer non esistono più.
Pugh e Cennamo restano insieme negli Axis e quindi negli Armageddon, con la partecipazione
del cantante Keith Relf (Yardbirds, Renaissance). Per Bradley il destino è amaro : il
batterista muore di leucemia nel 1972.
I Bakerloo, formazione underground originaria di Birmingham inizialmente denominata
Bakerloo Blues Line, cominciano a farsi conoscere verso la fine del 1968 quando hanno
l’occasione d'esibirsi al Marquee come spalla dei Led Zeppelin, in uno dei primi concerti del
gruppo di Jimmy Page. Sono notati dalla Harvest che li mette sotto contratto e nel luglio ’69
pubblicano a sorpresa un atipico singolo, Drivin’ Bachwards, che recupera Bach per gruppo
rock, clavicembalo, tromba (Jerry Salisbury), proponendo soluzioni lontane dalla naturale
ispirazione del trio. Curiosa la sovrapposizione temporale con la ben più celebre Bourée dei
Jethro Tull, pubblicata sull’album Stand up proprio in quei giorni.
BAKERLOO
-
BAKERLOO
(Harvest - 1969)
Ben diversa è l’impressione generata dall’ascolto del loro unico album pubblicato alla fine del
1969 ; il gruppo suona forte, vicino all’approccio dei primi Led Zeppelin, anche se manca
l’esuberante personalità della formazione di Page e Plant e le composizioni appaiono più
orientate verso una sensibilità di stampo underground. I Bakerloo sopperiscono alle lacune
grazie ad una notevole forza d’urto e alle indubbie capacità strumentali dei singoli musicisti.
Apre il disco la divertente Big bear ffolly che, per trovare un raffronto a tutti i costi, si
avvicina ai primi Ten Years After ; Bring it on home è un buon rifacimento del classico di
Willie Dixon (utilizzato anche dai Led Zeppelin sul loro secondo album), e in stretto ambito
blues si calano pure l’ottima This worried feeling e Last blues, dal passo lento e cupo che lascia
spazio, nella parte centrale, ad una torrida improvvisazione di Clempson. E’ il chitarrista a
guidare le danze nell’immediata Gang bang, veloce e sicuro, prima di lasciare la scena a Keith
Baker, autore di un pregevole spunto solistico.
La grande opportunità per confrontarsi con una musica libera da impegni formali e satura di
grinta ed elettricità viene impegnata nel quarto d’ora della devastante Son of moonshine, ma
si rivela un’occasione perduta in quanto Bakerloo già all’uscita dell’album non esiste più.
In ottobre Clempson accetta l’offerta di entrare nei Colosseum, in sostituzione di James
Litherland, e così i Bakerloo chiudono la loro breve avventura. Clempson rimane nei
Colosseum sino allo scioglimento del gruppo (autunno ’71) per poi entrare l’anno successivo
negli Humble Pie, al posto del dimissionario Peter Frampton. Tra le altre sue esperienze sono
da ricordare una breve collaborazione con i Greenslade e i complessi dei Strange Brew e
Rough Diamond (con l’ex cantante degli Uriah Heep, David Byron).
Baker e Poole s’impegnano nell’ideazione dei May Blitz (con i quali non riescono ad incidere)
e in seguito Baker accetta il ruolo temporaneo di batterista per le registrazioni del secondo LP
degli Uriah Heep (Salisbury), mentre Poole va a suonare con Graham Bond.
Gruppo conosciuto esclusivamente per aver annoverato nei primi tempi musicisti destinati
alla notorietà, quali Paul Kossoff, Simon Kirke (entrambi nei Free) e Rod Price (con i
Foghat), i Black Cat Bones meritano qualcosa di più di una fredda citazione.
Sin dalle prime sessioni di studio, dove accompagnano Champion Jack Dupree, il gruppo
s’affida all’esperienza del produttore Mike Vernon. Nel ’68 Kossoff e Kirke cambiano aria,
unendosi al cantante dei Brown Sugar, Paul Rodgers, per la costituzione dei Free ; ai
superstiti (i fratelli Derek e Stuart Brooks - ch. e bs. - e il cantante Brian Short) si uniscono
l’ottimo chitarrista Rod Price e il batterista Phil Lenoir, e con questo assetto i Black Cat
Bones registrano il materiale che, nel novembre 1969, viene inserito nel loro unico album
Barbed wire sandwich (Nova-1969), prodotto da David Hitchcock. La musica è onesta, priva di
fronzoli, diretta ed aggressiva, con lo stile basato su un blues duro e sfrontato che presenta più
di qualche punto di contatto con i Free dell’esordio. Così è per la grintosa Chauffeur e per i
trascinanti hard blues di Save my love e Good lookin’ woman, mentre Death valley blues è un
ottimo blues nobilitato da un bell’assolo di chitarra di Rod Price.
Il disco passa pressoché inosservato e la formazione si avvia ben presto al fallimento con
l’abbandono di Price, destinato ai Foghat assieme a tre ex Savoy Brown. Rimangono solo i
fratelli Brooks, che tentano di sostenere la causa invitando nel gruppo due musicisti
provenienti dalla Brunning Sunflower Blues Band, il cantante Pete French e il chitarrista
Mike Halls : con un nuovo batterista, i Black Cat Bones si trasformano in Leaf Hound
dedicandosi ad un vigoroso hard rock, di pregevole fattura ma purtroppo di nessun successo.
Di esito poco diverso è la carriera dei Killing Floor, formazione di base nel South London
verso la fine del 1968, composta da Michael Clarke (ch.), Bill Thorndycraft (v.ar.), Stuart
McDonald (bs.), Bas Smith (bt.) e Lou Martin (pn.). I Killing Floor s’inseriscono nell’ormai
affermato panorama del rock blues inglese di fine decennio e, grazie ad un contratto
discografico con l’etichetta Spark, nel 1970 pubblicano il primo LP omonimo, registrato di
getto con l’ausilio della produzione di John Edward, un ex D.J. di Radio Caroline.
La musica proposta è un frizzante rock blues di ottima qualità strumentale, che non prevede
importanti novità concettuali ma si distingue per la scioltezza delle esecuzioni e per l’energico
divertimento profuso. Il disco mostra un livello molto omogeneo, anche se vale la pena
sottolineare la bella cover di Woman you need love (Willie Dixon, ma guarda...ancora lui) e le
dure sciabolate di Forget it ! e People change your mind.
Nonostante le doti espresse sull’album e la buona reputazione conseguita nei concerti dal vivo,
i Killing Floor non riescono a sfondare sul piano commerciale e il pianista Lou Martin
preferisce trasferirsi, dal 1972, alla corte dell’ex leader dei Taste, Rory Gallagher. I quattro
rimasti firmano un nuovo contratto con l’etichetta Penny Farthing, preludio alla realizzazione
del secondo LP Out of Uranus (1971), ancora prodotto da Edward con la supervisione di
Larry Page (manager dei Troggs). Il suono diviene schematico e vicino all’hard rock, manca il
brillante contrasto tra la chitarra di Clarke e il piano di Martin, resta in ogni caso una
sufficiente freschezza esecutiva e, pur con qualche caduta di tono, il materiale appare più che
dignitoso ; degne di menzione sono la scattante Acid bean (edita anche a 45 giri), la
convinzione blues di Where nobody ever goes, le ruvide contrazioni di Fido Castrol (non
distante da certe cose dei Groundhogs) e di Lost alone.
La breve parabola dei Killing Floor giunge al termine, nonostante l’ingresso negli ultimi
tempi del cantante Ray Owen (dai Juicy Lucy), del bassista Mick Hawksworth (già con Five
Day Week Straw People, Andromeda e Fuzzy Duck) e del batterista Rod De’Ath
(successivamente con Rory Gallagher) : il gruppo cessa d’esistere a metà del 1972.
Stuart McDonald viene coinvolto da Paul Rodgers nei Peace, un'effimera formazione
triangolare priva di fortuna (alla batteria Mick Underwood dei Quatermass). Il solo Michael
Clarke trova la forza per continuare con la sua band personale, pubblicando alcuni dischi
negli anni Ottanta.
Gruppo di notorietà leggermente superiore e di maggior durata nel tempo i Juicy Lucy
perdono progressivamente lucidità ed urgenza espressiva, risultando nel complesso meno
efficaci rispetto ad altre formazioni del sottobosco rock blues.
Il chitarrista americano Glenn Campbell, reduce dalla gloriosa ma povera avventura dei
Misunderstood, è tra i principali promotori della nascita del gruppo ; al suo fianco sono il
cantante Ray Owen, l’altro chitarrista Neil Hubbard (proveniente dai Bluesology, dove milita
anche un imberbe Elton John), il sassofonista Chris Mercer (con alle spalle importanti
collaborazioni a dischi storici quali Crusade e Bare wires di John Mayall), il bassista Keith
Ellis (presente nei primi Van Der Graaf Generator) e il batterista Pete Dobson.
Quest’organico è responsabile di Juicy Lucy (Vertigo-1969), buon album dal quale è tratto un
45 giri di discreto successo contenente una versione di Who do you love (Diddley) che si piazza
nei top twenty.
I Juicy Lucy mostrano da subito un’estrema instabilità d’organico : Ray Owen preferisce
dedicarsi ad una propria band (Ray Owen’s Moon, un LP nel 1971) e se ne vanno pure
Hubbard e Dobson, sostituiti dal cantante Paul Williams (che vanta esperienze con Zoot
Money, Alan Price e John Mayall), dal chitarrista Mick Moody (ex Tramline) e dal batterista
Rod Coombes.
Alla fine del 1970 esce il secondo album Lie back and enjoy it (Vertigo), aperto dal rhythm &
blues disinvolto di Thinking of my life e con le discrete cover di Built for comfort (Dixon,
naturalmente !) e dell’inattesa Willie the pimp di Frank Zappa.
Subito dopo abbandona anche Keith Ellis (nel ’75 è con i Boxer di Mike Patto e Ollie Halsall),
rimpiazzato dall’ex Fat Mattress Jim Leverton e il gruppo pubblica il nuovo Get a whiff at this
(Bronze-1971), forse senza gran convinzione. La breve parentesi di Leverton (nel ’73 suona
con gli Hemlock di Miller Anderson) e la partenza di Coombes (destinato agli Stealers Wheel
e agli Strawbs) porta nei Juicy Lucy la vecchia sezione ritmica dei Blodwyn Pig (Andy Pyle e
Ron Berg). Assente anche Campbell, Pieces (Polydor-1972) è l’ultima fatica del gruppo che
giunge inesorabilmente allo scioglimento. Moody riscuote buon successo in formazioni heavy
quali Snafu e Whitesnake, mentre Williams nel giugno ’72 raggiunge i Tempest di Jon
Hiseman e l’anno successivo realizza un disco solista dedicato alla memoria di Robert
Johnson.
Come per i Juicy Lucy, anche la carriera dei Freedom si sviluppa nello stesso periodo
temporale e nell’arco di quattro pubblicazioni a 33 giri ; la musica proposta è improntata ad
un blues roccato con stimoli hard, realizzato con buona cura strumentale, privo di sbavature
ma pure di impennate geniali. Non manca qualche valido spunto ritmico e melodico, anche se
prevale una certa linearità esecutiva che lega il suono ai luoghi comuni del genere.
Ideatore del gruppo è il batterista Bobby Harrison, un elemento della formazione originaria
dei Procol Harum uscito da quel complesso all’epoca del grande successo di A whiter shade of
pale (forse irritato dal fatto che per la registrazione del brano gli viene preferito un
sessionman) ; con lui sono Roger Saunders (ch.ts.), Peter Dennis (bs.) e, nei primi tempi, Steve
Jolly (ch.). Nell’ambito della selezione discografica dei Freedom, il terzo LP Through the years
(Vertigo-1971) costituisce un buon rendiconto dei pregi e dei difetti della loro musica.
Fra le tante formazioni delle quali con il passare del tempo s’è persa ogni memoria, gli
N.S.U. meritano di essere ricordati se non altro per l’onestà di fondo che permea la loro
proposta musicale. Impostati a quartetto con Ernest Rea (ch.), John Pettigrew (v.), Peter
Nagle (bs.) e William Brown (bt.) gli N.S.U. giungono alla prova discografica grazie alla
Stable, piccola e mitica etichetta underground che annovera tra le sue fila anche Deviants e
Sam Gopal, tra gli altri. In soli tre giorni del febbraio 1969 il gruppo registra (agli studi De
Lane Lea) il materiale utile al loro unico album Turn on, or turn me down, prima di essere
travolto dal fallimento della stessa casa discografica.
Il disco presenta evidenti difetti dovuti, presumibilmente, al poco tempo a disposizione per le
registrazioni e mostra gli N.S.U. un poco indecisi sulla via da seguire, ma ugualmente è
godibile per l’utilizzo insistito di linee melodiche abbastanza insolite (come nel brano che
titola il long playing) e buone intenzioni sono sparse nei pezzi più densi e tirati (His Town, You
can’t take it from my heart, The game). Originali, anche se deboli, le parti vocali.
Una delle cose più difficili nel trattare dei May Blitz è riuscire ad inquadrare il gruppo di
Tony Newman in un genere ben definito. Questa, probabilmente, è la forza relativa del
complesso, relativa perché se la promiscuità tra blues, hard rock e suono progressivo rende la
musica dei May Blitz appassionante e moderna, la sua stessa natura poco incline a facili
accomodamenti commerciali relega Newman e compagni ai margini del mercato,
costringendoli ad una rapida ritirata. Purtroppo, proprio l’ingarbugliata relazione fra
creatività e music business è uno degli elementi deboli dell’espressione rock, sia che ciò si
rifletta in grandi tragedie umane o più semplicemente nell’incapacità di realizzare i propri
sogni e progetti.
Ancor più insolita è la vicenda che porta alla costituzione della band. L’idea originale risale
alla fine del 1969 quando, dopo la dipartita di Clem Clempson (destinazione Colosseum),
Keith Baker e Terry Poole dei Bakerloo decidono di proseguire insieme progettando una
nuova formazione triangolare chiamata May Blitz. In realtà il gruppo non decolla perché
Baker collabora con gli Uriah Heep per le registrazioni del loro secondo album Salisbury (e
solo per quell’occasione), mentre Poole, di conseguenza, va a suonare con Graham Bond.
MAY BLITZ
-
MAY BLITZ
(Vertigo - 1970)
Tony Newman è un veterano della scena beat con i Sounds Incorporated, quindi suona (agli
albori del blues progressivo) con il Jeff Beck Group dell’album Beck-Ola. Il batterista rifonda
completamente il complesso, chiamando due ottimi strumentisti quali James Black e Reid
Hudson, e il nuovo gruppo ottiene un contratto discografico per la Vertigo.
L’omonimo esordio su vinile convince per la ricercata elaborazione di una sintesi hard blues
permeata da una spiccata attitudine progressiva. Smoking the day away enuncia le coordinate
della musica del trio : padronanza strumentale, equilibrio formale, agili strutture in continua
evoluzione. Tra i tanti gruppi del dopo Cream, i May Blitz sono tra i meno indiziati di plagio e
forse tra i più limpidi estensori del verbo rock blues. Newman si trova benissimo in tale
contesto e mette in mostra le sue migliori qualità poliritmiche, Black e Hudson suonano
convinti e concisi, evitando di perdere il fiato dietro ad evanescenti elucubrazioni solistiche. I
don’t know ? parte da climi contenuti per aprirsi in una stringata jam memore di free festival
e concerti in piccoli club. Dreaming attenua notevolmente il ritmo, preferendo atmosfere
soffuse, suoni rilassati che deragliano all’improvviso nella parte centrale della canzone. La
frastagliata Squeet e soprattutto la pirotecnica Fire queen affrontano il suono sul lato di
maggior tensione, divise dalla bellissima e raffinata Tomorrow May come, cullata dagli asciutti
colori del vibrafono di Newman. L’epica Virgin waters chiude il disco, a metà tra il sogno e la
consapevolezza, con parti di grande fascino.
La Vertigo concede al gruppo una seconda possibilità, con la pubblicazione (il due di maggio
1971) di un nuovo lavoro, appunto The 2nd of May. La via si fa più stretta, forse per trovare
una maggiore concretezza commerciale ; For mad men only è hard al fulmicotone, aggressivo,
coinvolgente, ma perde in varietà tematica, e Snakes and ladders presenta frammenti di chiara
derivazione Black Sabbath. C’è qualche contraddizione di troppo, come nel caso del pur
ottimo solo percussivo di Newman su In part (impensabile sull’album precedente). Siamo
comunque su livelli qualitativi di rilievo, in presenza di musica esente da clamorosi
compromessi che trova nella ballata di High beech, nella quasi psichedelica Just thinking e
nell’esposizione tesa e sincera ragioni sufficienti a giustificare la propria esistenza.
Le vendite, naturalmente, sono scarse e il gruppo (privo di contratto discografico) non ha più
motivi per continuare. L’unico a rimanere nella scena musicale è Newman, che partecipa ai
Three Man Army dei fratelli Adrian e Paul Gurvitz e vanta collaborazioni con Marc Bolan,
David Bowie, Chris Spedding e David Coverdale (Whitesnake).
Due brevi citazioni, infine, per Sharks e Back Door, formazioni molto diverse tra loro ma
entrambe appartenenti agli anni del riflusso del British blues, ormai in fase creativa
decisamente calante.
Gli Sharks si formano nell’autunno del 1972 su impulso del chitarrista Chris Spedding,
desideroso d’allestire un complesso stabile nel bel mezzo di una lunga carriera densa di
soddisfazioni sul piano della qualità della musica proposta (Battered Ornaments, Nucleus e un
paio di dischi come solista), ma priva d’importanti riscontri commerciali. Lo accompagnano il
prestigioso bassista Andy Fraser, appena uscito dai Free, il batterista Marty Simon e il
cantante Snips. Così sistemato il gruppo pubblica nel 1973 l’album First water, essenzialmente
basato su un rock blues classico e datato, anche se piacevole, caratterizzato da una bella vena
melodica, da un impatto abbastanza grintoso e da buone virtù tecnico strumentali.
Il disco però non vende, è un mezzo fiasco e Fraser lascia subito i compagni, sostituito da
Busta Cherry Jones ; si aggrega inoltre il tastierista Nick Judd e il gruppo registra un secondo
33 giri, Jab it in yore eye (Island-1974), che non apporta novità ed appare leggermente
inferiore al precedente.
Gli Sharks svaniscono nel nulla quando Simon e Judd abbandonano, alla fine del ’74. Judd va
a suonare con la Andy Fraser Band, Snips entra nella Baker Gurvitz Army, Spedding
prosegue la carriera alternando l’attività solistica a collaborazioni con artisti del calibro di
John Cale, Brian Eno, Donovan, Roy Harper, fino all’incredibile rinuncia al bonus da
miliardario per la mancata sostituzione di Mick Taylor nei Rolling Stones. Un personaggio
vero, meritevole di rispetto.
Di poco antecedente è la nascita dei Back Door, all’inizio degli anni Settanta. Il bassista
Colin Hodgkinson proviene dall’esperienza dei New Church, una delle tante creature blues di
Alexis Korner, dei quali avrebbe dovuto far parte addirittura Brian Jones, di fatto in uscita
dagli Stones, se non fosse che il 3 luglio del 1969 il chitarrista viene trovato annegato nella sua
piscina. Per ironia della sorte i New Church esordiscono il 5 luglio successivo, proprio in
occasione del free concert di Hyde Park organizzato dai Rolling Stones per commemorare il
compagno scomparso.
Hodgkinson s’associa a Ron Aspery (sf.) e a Tony Hicks (bt.), in un’insolita formazione
triangolare che non prevede la presenza della chitarra elettrica né delle tastiere. Le parti
solistiche sono riservate ai fiati di Aspery e soprattutto al basso di Hodgkinson, titolare di una
tecnica strumentale d’indubbio interesse. All’epoca qualcuno arriva a sostenere che
Hodgkinson è tanto importante per il suo strumento quanto Hendrix per la chitarra ;
decisamente troppo. Altri, dimostrando notevole fantasia, sentenziano che i Back Door si
avviano a diventare i nuovi Cream. La loro musica viene definita un incontro tra Ornette
Coleman e Robert Johnson, e il gruppo è propagandato come la rivelazione inglese dell’anno.
Paradossalmente, il primo album Back Door, registrato in due soli giorni nel giugno 1972, è
un buon disco, semplice, diretto, portatore di un frizzante jazz blues che contrasta non poco
con l’esagerata azione pubblicitaria profusa.
Per il secondo 8th street nites (Warner Bros.-1974) viene chiamato alla produzione Felix
Pappalardi (guarda caso !) ma il gruppo soffre di una certa carenza a livello creativo, la
sorpresa dell’esordio lascia il posto ad una rapida decadenza d’interesse nei confronti dei
Back Door, che riescono a pubblicare altri due dischi trascurabili prima di sciogliere le fila
nel 1976.
A Rock'n'Roll Damnation
...ovvero il diavolo, probabilmente
- 15 Può apparire argomento strano, addirittura presuntuoso e fuori luogo, trattare di
musica progressiva riferendosi ai Rolling Stones, il gruppo che più di ogni altro ha definito in
modo netto ed immediatamente riconoscibile il proprio stile musicale.
La più grande band di rock’n’roll al mondo, tutto vero, ma almeno fino a quando nei Rolling
Stones è stata presente la creatività sregolata di Brian Jones, la musica del gruppo ha subito
una costante evoluzione, se non nella sostanza quantomeno nella forma. Basta ricordare
singoli epocali quali (I can’t get no) Satisfaction, Paint it, black e un album dal valore assoluto
come Aftermath.
Alla fine del 1967 anche gli Stones, al pari di tanti altri, si fanno coinvolgere nell’ondata
psichedelica producendo l’album Their satanic majesties request, un lavoro complesso, reso in
modo piuttosto frammentario, che appare pretenzioso e di molto inferiore ai grandi parti
discografici di quel magico anno.
In ogni caso, non si può far finta di nulla di fronte alla cialtroneria di Sing this all together, che
sfocia nella stupenda Citadel, un corposo brano psichedelico sospinto da pesanti chitarre e
impregnato di variopinti arcobaleni lisergici. In another land sfodera il clavicembalo di Jones
e un incedere tra sogno e realtà, mentre Gomper fa il verso ai Beatles d’oriente perdendosi in
qualche sproloquio di troppo. 2000 man e la bella She’s a rainbow (con l’originale
arrangiamento d’archi di John Paul Jones e il piano di Nicky Hopkins) scelgono la strada del
suono Stones più riconoscibile.
ROLLING STONES
-
BEGGAR’S BANQUET
(Decca - 1968)
Licenziato il vecchio manager Loog-Oldham e visti gli scarsi risultati ottenuti con la breve
svolta psichedelica, i Rolling Stones decidono di virare verso schemi a loro più congeniali. Già
il singolo di Jumping Jack Flash, con quel riff assassino, preferisce climi sporchi e grintosi. La
conferma, eclatante, arriva nel dicembre 1968, giusto un anno dopo il ‘satanic’, con la
pubblicazione di Beggar’s banquet.
La musica pare sorgere dal nulla nella grandiosa Sympathy for the devil, cresce in
progressione, sorretta da un fitto tappeto percussivo e dal prezioso lavoro al piano di Hopkins
(perfetto su tutto il long playing). Strani fremiti pervadono il brano, chitarre taglienti, e
Jagger esibisce una delle performance più calde ed incisive del suo ricco repertorio.
Nel disco trovano posto diversi brani direttamente collegati alla tradizione country blues
rivista con spirito moderno : No expectations si crogiola nel tiepido torpore della chitarra
slide, Dear doctor muove con passo di valzer zoppicante, Prodigal son è spigliata e priva di
remore. Parachute woman rivitalizza dure cadenze blues, sintetizzando al massimo il ritmo.
Piacciono pure Jig-saw puzzle, che recupera il movimento ritmico di Sympathy for the devil
preferendo climi più rilassati, e la contenuta Factory girl.
Street fighting man è dura, monolitica, incisiva più per la forma e le maniere che per il suono ;
la graffiante, torrida Stray cat blues è immersa in un quattro quarti tipicamente rock blues, un
grimaldello capace di forzare il coperchio della coscienza pulita del pop psichedelico in
declino, negazione convinta del ‘satanic’, trionfo del rock tirato per i capelli. Salt of the earth è
una ballatona dalle sfumature decadenti e accento gospel, che chiude il cerchio di un lavoro
irripetibile per il gruppo di Jagger e Richard.
Rock’n’roll è un termine nobile ma riduttivo per musica di questo livello. Che il diavolo ci
abbia davvero messo lo zampino ? Ai tanti esorcisti del rock l’ardua sentenza...
Jones forse non era un gran compositore, come a più riprese hanno rilevato gli stessi Jagger e
Richard, ma di sicuro era un ottimo ‘inventore’ di suoni, donava colori imprevedibili alla
musica degli Stones mediante il frequente utilizzo di strumenti estranei alla tradizione rock,
era il guastatore che contribuiva in modo decisivo a rendere straordinario ciò che a volte
appariva solo consueto. Nel giugno 1969 Brian Jones esce dal gruppo e il 3 di luglio viene
trovato morto nella sua piscina. Due giorni dopo i Rolling Stones celebrano la tragica
scomparsa del vecchio compagno con un free concert a Hyde Park, davanti ad una folla di
300.000 persone. Nell’occasione presentano il nuovo chitarrista, l’ottimo Mick Taylor
proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall. Con Taylor gli Stones acquisiscono in tecnica e
potenza, divenendo una perfetta macchina da rock’n’roll come dimostrano gli LP successivi :
Let it bleed (Decca - dicembre 1969), il live Get yer ya-ya’s out ! (Decca-1970, registrato nel
novembre ’69 al Madison Square Garden di New York), Sticky fingers (Rolling Stones Rec. aprile 1971) e il doppio Exile on main street (Rolling Stones Rec. - maggio 1972), tutti dischi di
notevole livello che confermano la statura di Jagger e Richard come autori ed esecutori.
Nel momento in cui (dicembre 1974) uno sfiancato Taylor lascia il posto a Ron Wood, il
gruppo ha da tempo focalizzato il proprio stile. Rimane il rammarico (o forse l’onore ?) che
sia il loro nome a chiudere definitivamente l’epoca dei sogni, del flower power, degli ideali di
libertà, pace, amore della Woodstock nation, il 6 dicembre 1969 ad Altamont, California,
quando davanti a 400.000 persone gli Hells Angels del servizio di sicurezza uccidono nei pressi
del palco un giovane di colore, durante l’esibizione dei Rolling Stones. E’ solo rock’n’roll ?
Dopo essere diventato uno dei cantanti più rappresentativi del blues revival inglese, Eric
Burdon pone termine all’avventura degli Animals nell’estate del 1966 quando s’infatua del
movimento flower power di cui, dalla lontana California, giungono notizie inebrianti anche
nel cuore della ‘riservata’ Inghilterra.
Burdon segue una rotta inversa rispetto a quella intrapresa al tempo da Jimi Hendrix,
trasferendosi a San Francisco per toccare con mano i fermenti della scena musicale locale. Là
decide di dar vita ad una nuova formazione sotto il nome di Eric Burdon & the Animals,
conosciuta anche come New Animals, con la quale approntare progetti inediti e sfogare le
proprie capacità come compositore, sempre represse nell’economia creativa del vecchio
complesso. Con lui resta il batterista Barry Jenkins, già presente negli ultimi dischi degli
Animals, e si aggiungono il chitarrista / violinista John Weider, il chitarrista Vic Briggs e il
bassista Danny McCulloch.
Nel giugno del 1967 la formazione partecipa al Monterey International Pop Festival,
avvenimento fondamentale e momento di maggior fulgore della California musicale dei
Sessanta, o forse solo evento che sancisce la prematura fine di un breve ma splendido ciclo
creativo, a puro scopo commemorativo.
Burdon comunque gioca al rialzo. Il sitar che introduce Winds of change, il suo nuovo album
del 1967, mette in chiaro la nuova impostazione stilistica del cantante ; la musica è rarefatta,
colorata, intrisa di psichedelia, le chitarre più che aggredire accarezzano il suono e il violino
di Weider scompagina ulteriormente ciò che resta del rhythm & blues originario. Poem by the
sea soffre di una strana tensione occulta, che solo a tratti affiora dalle linee lievi e melodiche
del brano; la canzone si spegne con il violino di Weider, che sottolinea anche l’ottima versione
psichedelica della classica Paint it, black. Le atmosfere enigmatiche di The black plague
sostengono la recitazione di Burdon in uno statico sentimento dai toni drammatici, rotto dalla
hendrixiana risposta a Hendrix di Yes I am experienced.
San Franciscan nights è l’inno del nuovo corso dove Burdon esprime, con sconfinata dolcezza
e qualche tratto nostalgico, tutto l’amore per quei giorni unici. Man - Woman torna alle
origini del ritmo, con un insistente rituale in crescendo che trova sfogo solo nella sua antica
essenza. Hotel hell è struggente ed ipotizza la nostalgia selvaggia di scenari da vecchio west,
Good times e la romantica Anything recuperano la forma canzone tradizionale, utilizzando
arrangiamenti melodici di notevole pregio. Il finale con It’s all meat propone l’unico pezzo con
caratteri duri e tirati, quasi ai confini dell’hard più creativo.
La proposta di Burdon è, in ogni caso, lontana dalla spensieratezza di certo flower power e
sull’opera persiste un’impressione d’angoscia, di drammaticità, di pesante inquietudine, quasi
a contraddire lo spirito apparente di quei tempi.
ERIC BURDON & THE ANIMALS
-
THE TWAIN SHALL MEET
(MGM - 1968)
The twain shall meet inaugura un 1968 di grande intensità per Burdon (tre album, di cui uno
doppio, in quell’anno) e rappresenta un ulteriore salto in avanti. Se Winds of change annusava
i sintomi del cambiamento e si predisponeva a seguirne le coordinate, Monterey è già
celebrazione per il mito californiano. Non c’è molto altro da aggiungere, si può solo
confermare la tesi, decadere lentamente, con gioia meravigliata che presto si trasforma in
nostalgia.
Just the thought s’insinua improvvisa nei meandri della psichedelia soffice, cullata dai violini
di Weider. Closer to the truth pare scaturire dai residui della memoria di Burdon e si
rammenta degli entusiasmi giovanili per il blues. No self pity vive sul contrasto tra un timido
clavicembalo e l’ossessione percussiva di Jenkins, con il sitar a guidare la melodia. La
decadente e trasognata Orange and red beams riassume gli elementi armonici della musica del
gruppo, avvalendosi di pregevoli arrangiamenti.
Burdon introduce solitario la stupenda Sky pilot che, dietro all’incedere accattivante e
all’innocente ritornello, nasconde meraviglie inenarrabili, chitarre siderali in partenza per lo
spazio, vecchie cornamuse scozzesi e scenari di battaglie campali, docili quartetti d’archi,
orchestrazioni di largo respiro e la voce del cantante, strumento concreto, palpabile, vero. E’
il vertice creativo dei New Animals. Nulla può andare oltre.
Ci prova We love you Lil, e quasi ci riesce, con quel suo epico incedere alla Quicksilver, carico
di tensione non completamente liberata ; le cornamuse s’incrociano al sitar per illuminare la
nenia di All is one che si apre su placidi orizzonti di speranza, alla fine.
Al disco collabora Zoot Money, un ottimo ma poco conosciuto musicista reduce dell’epoca del
blues revival con la sua Big Roll Band. Nel luglio 1967 quel gruppo si scioglie e George Bruno
(suo vero nome) con due compagni d’avventura, Andy Summers (ch.) e Colin Allen (bt.),
recluta il bassista Pat Donaldson per dar vita ad una nuova, effimera formazione che si dedica
ad argomenti psichedelici. I Dantalian’s Chariot pubblicano un solo, mitico singolo (Madman
running through the fields, ottobre ’67) e tengono qualche esibizione al Middle Earth. Dopo il
precoce scioglimento Money entra in pianta stabile nei New Animals, Allen suona con Mayall
(nell’ottimo Blues from Laurel Canyon) e poi con gli Stone the Crows, mentre Donaldson
incide nel ’69 con i Poet & One Man Band e partecipa al progetto Fotheringay di Sandy
Denny.
Il nuovo album Every one of us, con una formazione a sei (Money alle tastiere), resta in cielo
almeno nella risoluta ed accattivante White house e nella potente Year of the guru, entrambe
composte dal solo Burdon. Serenade to a sweet lady, un valido strumentale scritto da Weider,
si accontenta di girare attorno al sentimento del suono senza penetrare in profondità. La
tanto decantata New York 1963 - America 1968 si perde in qualche lungaggine di troppo,
anche se non mancano attimi di grande intensità emotiva e strumentale.
Verso la fine del ’68 i New Animals subiscono un rimpasto d'organico per via dell’abbandono
di Briggs e McCulloch. Per l’ultimo, ambizioso doppio LP Love is, registrato in ottobre, le
parti di basso sono assorbite da Money ed entra in formazione il chitarrista Andy Summers,
suo collaboratore di vecchia data.
L’aspetto visionario della musica di Burdon è ormai irrimediabilmente perduto. Rimangono
però le qualità di un suono spigliato, vitale, privo di sofisticazioni ; da segnalare le belle ed
originali versioni di River deep mountain high (un successo per Ike and Tina Turner), di
Coloured rain (Traffic), di Madman running through the fields (in eredità dai Dantalian’s
Chariot), di To love somebody (Bee Gees) e ancora le trame progressive di Gemini e il buon
originale di Burdon I’m dying (or am I).
Con il cambiare delle stagioni il gruppo si dissolve : Weider va a suonare il basso con i Family,
mentre Summers collabora con Kevin Coyne e con Kevin Ayers prima di diventare uno dei
Police. Al termine dell’esperienza con i New Animals, Burdon si unisce ai War, una
formazione funk di colore, con i quali incide due album tra il ’70 e il ’71 ; collabora poi con il
bluesman Jimmy Whiterspoon e nel ’72 allestisce una propria band. Il miglior disco degli anni
Settanta è il Sun secrets pubblicato nel 1974, dove il cantante mette in opera un grintoso e
pirotecnico recupero di grandi classici quali It’s my life, Don’t let me be misunderstood, When I
was young, Ring of fire, affiancati da qualche buona nuova composizione. Il suono è secco e
tagliente, caratterizzato dalla chitarra del giovane Aalon, da una dinamica e potente sezione
ritmica di colore e con Burdon incontenibile, in forma smagliante.
Il successo quasi non lo degna più d’uno sguardo, ma Eric continua per la sua strada ed
annega la nostalgia per i bei tempi andati nelle varie reunion degli Animals.
- 16 E’ con la pubblicazione del Sgt. Pepper dei Beatles che s’inaugura la moda dell’album
concept, con canzoni realizzate sulla base di un tema dominante che funge da ispirazione per
lo sviluppo del lavoro di composizione.
Tra coloro che per primi aderiscono al nuovo metodo sono da annoverare i Who, con l’album
The Who Sell out, gli Small Faces e, poco dopo, altre due formazioni, Pretty Things e Kinks,
che (ancora con il gruppo di Pete Townshend) producono alcuni dischi imperniati su una
concezione sempre più complessa, mirata all’elaborazione di vere e proprie storie in musica,
le cosiddette opere rock.
Il fenomeno degli album a soggetto si diffonde abbondantemente nell’ambito della musica
progressiva dei primi anni Settanta, divenendo per numerosi musicisti una tappa obbligata
della carriera. In questo paragrafo si vuole evidenziare il primordiale approccio alla materia
da parte di gruppi legati a doppio filo con la classica tradizione del rock’n’roll e del rhythm &
blues.
SMALL FACES
-
OGDENS’ NUT GONE FLAKE
(Immediate - 1968)
Nell’estate 1968 il nuovo album degli Small Faces, Ogdens’ nut gone flake, suscita buon
interesse non solo per l’originale copertina rotonda (la prima nel rock) ma soprattutto per il
contenuto musicale, che si riallaccia alla psichedelia più dura in voga all’epoca. Si tratta del
primo ed unico 33 giri organico della formazione, abituata a produrre compilazioni di
successi ottenuti su singolo, e il tentativo acquisisce un importante rilievo sia per
l’apprezzabile (anche se non rivoluzionaria) qualità della musica proposta, sia per un
approccio vagamente ‘a concetto’ con diverse canzoni proposte in medley.
Il brano che titola il disco si presta ad introduzione strumentale, stabilendo un convincente
feeling di base mediante l’uso di orchestrazioni articolate. Afterglow appare indecisa, tra
delicati arpeggi intrisi di melodia e una propensione per rudezze quasi hard, seguita in rapida
successione da Long agos and worlds apart e dalla facile cadenza di Rene, nobilitata da una
solida coda con chitarre distorte, armonica e tastiere in evidenza.
Song of a baker è hard, senza mezzi termini, melodica come nella migliore tradizione di
Marriott, inesorabile e bella. Lazy Sunday riporta a pigre atmosfere da psichedelia soffice, con
particolare attenzione all’equilibrio formale e un azzeccato utilizzo di effetti speciali.
La seconda parte del disco è costituita da una sorta di suite intitolata Happiness Stan. Nel
brano omonimo il clavicembalo e le tastiere di McLagan s’impegnano in ariose aperture a
carattere sinfonico ; Rollin’ over riconduce ad un rock semplice, diretto e fisico, soluzioni e
umori si alternano in canzoni di buon livello quali The hungry intruder e The journey. Mad
John sceglie la chitarra acustica senza nascondere toni aspri ed epici, subito contraddetti
dalla stoltezza della conclusiva Happydaystoytown.
Nonostante il notevole successo di classifica ottenuto dall’album e il tentativo, sia pur tardivo,
di rinnovamento stilistico, il gruppo perde rapidamente colpi e all’inizio del nuovo anno gli
Small Faces si sciolgono, lasciando in eredità (nel novembre ’69) la buona antologia di The
autumn stone, ricca di classici brani da 45 giri, inediti ed incisioni dal vivo.
Già in aprile Marriott è impegnato con Peter Frampton nella fondazione degli Humble Pie
mentre, poco più tardi, Lane, McLagan e Jones si uniscono a Ron Wood e Rod Stewart
(entrambi dal Jeff Beck Group) ribattezzandosi come Faces. Tra il ’76 e il ’78 c’è tempo per
la consueta, poco opportuna reunion e Jones sale agli onori delle cronache quando, al termine
del ’78, prende il posto di Keith Moon nei Who.
Di peso ben superiore è il contributo offerto, sempre nel 1968, dai Pretty Things. Dopo il
periodo ’64 - ’66, dedicato ad una musica grintosa ed incisiva direttamente derivata dal blues
e dal rock’n’roll, il gruppo di Dick Taylor e di Phil May si appresta ad affrontare con
rinnovato entusiasmo i tempi della musica psichedelica e progressiva. Con loro sono John
Povey (ts.), Wally Allen (bs.), Skip Alan (bt.) e il complesso trova asilo discografico alla
Columbia, per la produzione di Norman Smith (collaboratore dei primi Pink Floyd).
Nel novembre 1967 l’ottimo singolo di Deflecting grey mostra già il nuovo volto dei Pretty
Things, ma è con l’album S.F. Sorrow che Taylor e compagni realizzano il massimo sforzo
creativo dell’intera carriera.
PRETTY THINGS
-
S. F. SORROW
(Columbia - 1968)
I Pretty Things inaugurano, di fatto, l’epoca delle opere rock senza la minima indecisione e
contraddizione, con un esempio sobrio sotto l’aspetto concettuale e risoluto dal punto di vista
espressivo.
Le chitarre efficaci e taglienti di Taylor, la voce di May capace di passare con disinvoltura da
climi infuocati a momenti delicati e melodici, le percussioni surreali di Twink (dai Tomorrow,
per l’occasione subentrato a Skip Alan) e il prezioso apporto strumentale di Povey e Allen
rendono il suono molto vario e sfuggente a sterili classificazioni.
S.F. Sorrow is born apre con le chitarre di Taylor in grande spolvero, armonie vocali ben
congegnate e ariosi inserti di organo quasi floydiano. Bracelets of fingers è un carillon
psichedelico dagli scenari in continuo mutamento, ricco di soluzioni armoniche e ritmiche
veramente originali. She says good morning prende la strada della consapevolezza e stabilisce
un ottimale punto d’incontro tra Beatles e Pink Floyd. La ballata folk, stravolta e ridisegnata,
di Private Sorrow termina sui colpi inesorabili di Twink e solidifica nel ritmo della sostenuta
Balloon burning, guidata dalla ficcante chitarra di Taylor.
Death, e pare che il mondo s’afflosci sulle proprie miserie, sul dolore di una processione
funebre che sgombra il campo, con perfido realismo, dell’innocuo agitarsi di tanti stregoni
dark di seconda mano. Le chitarre tremano, il sitar intona la litania, le voci spettrali e i
tamburi di Twink, come pietre che rotolano negli abissi dell’oblio.
Baron Saturday riporta in auge il ritmo di uno sbilenco R & B, con il gruppo camuffato da
Beatles psichedelici ; l’apertura acustica di The journey conduce ad una spontanea jam
elettrica dal sapore sotterraneo, mentre I see you fonda la sua essenza su trame sognanti e
passionali, contrapposte ad incubi chitarristici che trovano ulteriore sfogo nel frammento
strumentale di Well of destiny.
Trust è quasi normale nella sua stupenda melodia e prepara il campo all’esplosione metallica
di Old man going, con le chitarre che avvolgono la canzone in una spirale di drammatica
costrizione, contorcendosi e sibilando, supportate da un implacabile Twink che pare divertirsi
ad evitare sistematicamente i luoghi comuni della batteria rock. L’epilogo malinconico di
Loneliest person chiude degnamente un gran disco, capace (in teoria) d’elevare i Pretty Things
ai vertici espressivi del rock’n’roll progressivo.
Purtroppo, come spesso accade alle cose belle ma scomode, l’album viene ingiustificatamente
ignorato. Non da Pete Townshend, che più volte ha riconosciuto l’influenza di S.F. Sorrow
sull’ispirazione che lo ha portato alla stesura del celebrato Tommy. Per ironia della sorte,
quando il capolavoro dei Pretty Things viene dato alle stampe negli Stati Uniti, con quindici
mesi di colpevole ritardo, il disco finisce alla gogna per aver copiato Tommy dei Who ! ! !
Subito dopo la pubblicazione del long playing Twink si dilegua nei sotterranei londinesi per
preparare nuove avventure, lasciando il posto al ritorno di Skip Alan. Ancora più pesante
risulta la perdita del fondatore Dick Taylor che va a collaborare con gli Hawkwind (lo
ritroveremo nei Pretty Things della seconda metà dei Settanta).
May, Povey, Allen e Alan trovano un temporaneo sostituto nel chitarrista della Edgar
Broughton Band, Victor Unitt, e così sistemato il gruppo registra Parachute (1970), ancora
prodotto da Norman Smith. Il disco alterna brani melodici quali In the square, The letter,
Grass a tempi medi come Sickle clowns e She’s a lover ; il brano di maggior interesse è la dura
e sofferta Cries from the midnight circus e la qualità media del materiale è molto buona.
Parachute è opera degnissima ed onesta, addirittura la prestigiosa rivista Rolling Stone
investe il lavoro del ‘titolo’ di miglior album dell’anno, anche se alla base c’è solo un rock
diretto, essenziale, convincente, privo degli aspetti sperimentali e psichedelici del disco
precedente.
Anche in quest’occasione il successo è cosa che non riguarda il gruppo, che sbanda e
preferisce sciogliersi nel 1971. L’anno seguente i Pretty Things ci riprovano grazie alla
perseveranza di Phil May (unico membro della band originaria) che si porta appresso Povey e
Alan, oltre a reclutare i nuovi Peter Tolson (ch. - una breve esperienza con gli Eire Apparent)
e Stuart Brooks (bs. - ex Black Cat Bones e Leaf Hound). Esce Freeway madness (Warner
Bros.-1972) e seguono altri due LP, ma il gruppo ha smarrito l’originalità creativa del
decennio precedente e sopravvive senza particolare convinzione, tra separazioni ufficiose e
riunioni dettate dalla nostalgia.
I tempi della maturità artistica per Ray Davies e i suoi Kinks si materializzano nel 1967,
con la realizzazione di due 45 giri di notevole qualità. In maggio esce Waterloo sunset, un
bellissimo brano melodico, con armonie vocali impostate alla Beatles, che sogna di estatici
tramonti ; nel luglio seguente è la volta della ballata di Death of a clown che conferma i Kinks
sempre più lontani dalle dure matrici R’n’R degli inizi, con Ray Davies proteso verso
creazioni armoniche e melodiche di grande respiro, ricche di trasporto emotivo, spesso intrise
d’ironia e accompagnate da testi polemici.
L’album Something else by the Kinks (ottobre 1967) comprende i due singoli citati e riassume
l’orientamento musicale, dando sfoggio d'equilibrio e sobria eleganza stilistica. Il disco è
anche l’ultima produzione di Shel Talmy per ciò che riguarda i Kinks.
Le ambizioni del gruppo (in particolare di Ray Davies) si orientano insistentemente verso
progetti a concetto, come nel caso di Four more respected gentlemen, un lavoro che non viene
completato ma offre diversi spunti al successivo album The Kinks are the village green
preservation society (Pye-1968). Preceduto, in giugno, dall’ottimo singolo Days, una
composizione di squisito stampo melodico non inserita nella scaletta dell’album, Are the
village green... è il primo LP a tema dei Kinks e appare lavoro di transizione, non privo
comunque di canzoni degne di menzione quali The last of the steam powered trains, dalle
reminiscenze blues, Big sky e la bellissima Animal farm, che unisce cadenze in vago stile Stones
a fascinose aperture melodiche e orchestrali.
I 33 giri faticano a conservare il successo riscosso dai singoli, anche perché la Pye considera i
Kinks gruppo essenzialmente da 45 giri e non promuove adeguatamente gli album.
KINKS
-
ARTHUR OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE (Pye
- 1969)
Sul finire del 1968 Davies inizia a lavorare ad un’opera commissionatagli da Granada TV sul
tema della caduta dell’impero britannico. La stessa emittente rifiuta le composizioni di
Davies, che decide di utilizzare il materiale per la produzione del nuovo album dei Kinks. Il
disco viene definito opera rock e, all’inizio del ’69, si colloca tra S.F. Sorrow dei Pretty Things
e Tommy dei Who, non possedendo il coraggioso vigore sperimentale del primo, né la
razionale lucidità narrativa del secondo.
Arthur, con il bassista John Dalton (ex Mark Four) in sostituzione di Pete Quaife, gode di un
approccio diretto ed essenziale evitando, come costume di Ray Davies, soluzioni sperimentali e
proponendo belle canzoni intrise di amara ironia. La divertita, beffarda nostalgia di Victoria
contrasta con la rudezza tematica di Yes sir, no sir, con la triste elegia di Some mother’s son e
con il duro monito dell’esplicita Brainwashed.
Australia torna all’ironia pungente e si risolve in un magistrale arrangiamento che trae spunto
da citazioni rock’n’roll, romanticismo classico e fiati rhythm & blues. Altrove il suono fatica
ad emergere a causa di qualche timidezza di troppo, anche se vanno ricordate l’agrodolce
Shangri-la e l’asciutta Mr. Churchill says.
Ray Davies è da tempo il leader indiscusso, compositore, produttore e immagine dei Kinks,
ma al suo interno il gruppo soffre di forti contrasti che, in ogni caso, non ne mettono a
repentaglio l’esistenza. Nel 1969 i Kinks tornano ad esibirsi negli Stati Uniti dopo il lungo,
forzato ‘esilio’, esordendo con un concerto al Fillmore East, di spalla agli Spirit.
Nonostante il limitato successo dei 33 giri di recente pubblicazione, Davies insiste con gli
album concept ideando nel 1970 l’ottimo Lola versus the powerman and the moneygoround, di
certo uno dei migliori LP dei Kinks che, sfruttando le potenzialità della bella e passionale
Lola, li spinge fino al secondo posto in classifica. Lola viene censurata, non per il testo
scabroso che narra di un’ambigua avventura sessuale ma in quanto contiene un’allusione alla
Coca Cola, che chiede ed ottiene la modifica del verso incriminato.
L’album presenta contenuti molto polemici ; Davies se la prende con i manager precedenti,
con il sindacato musicisti americano (che aveva bandito il gruppo dagli States), con il business
musicale in genere. Stilisticamente si nota un deciso ritorno all’antico con modi rock semplici
ed incisivi, di notevole impatto come nelle spigliate The contender, Rats, Powerman. La
sarcastica Top of the pops si avvale di un riff granitico e di una parte centrale che cita Wilson
Pickett. Ovviamente non mancano ballate di valore, tra le quali sono da ricordare Strangers e
l’amara Get back in the line. Al disco collabora il tastierista John Gosling che a maggio
diventa il quinto Kinks.
Lola tocca l’apice qualitativo della produzione dei Kinks e al tempo stesso determina la fine
del loro momento d’oro. Nel ’71 Percy è l’ultimo disco inciso per la Pye e un nuovo lavoro a
tema, ma la vena non è quella solita. Il contratto con la RCA permette ai Kinks un approccio
più marcato alle classifiche americane, pur in assenza di risultati creativi di particolare
rilievo.
Dopo la pubblicazione del non eccelso A quick one (1966), all’inizio del ’67 i Who vanno in
tour negli Stati Uniti e in giugno forniscono una memorabile esibizione in occasione del
festival di Monterey, mantenendo elevato l’interesse nei loro confronti soprattutto per merito
delle tumultuose performance dal vivo. Nello stesso anno il gruppo registra il terzo LP The
Who sell out, che si propone come uno dei primi esempi di album concept. Il disco, quasi
interamente firmato da Pete Townshend, presenta il complesso in ottima forma e s’avvale di
un atteggiamento ambizioso a livello creativo ; il tema affrontato è quello della pubblicità, con
le canzoni collegate tra loro dai jingles delle radio pirata inglesi, dichiarate fuorilegge proprio
in quei giorni. Tra i brani migliori figurano la psichedelica Armenia city in the sky, la melodica
Tattoo, I can see for miles, percorsa dai fremiti di una micidiale progressione ritmica, e Rael
1+2, che permette d’ascoltare alcune embrionali idee poi utilizzate da Townshend per la
stesura del fortunato Tommy.
Townshend lavora ossessionato dalla volontà di realizzare una rock opera a carattere teatrale,
che possa rappresentare un contributo definitivo alla storia del rock, e pensa la figura di
Tommy, un ragazzo cieco sordo muto, la cui novella è parabola del successo, con la crescente
esaltazione, l’onnipotenza e la rapida decadenza. La pubblicazione del doppio disco, nel 1969,
giunge in ritardo rispetto a S.F. Sorrow dei Pretty Things (dal quale Townshend si dichiara
fortemente impressionato) e a Arthur dei Kinks, ma il lavoro dei Who supera di gran lunga il
successo dei predecessori, a livello di critica e soprattutto per l’impatto sul pubblico.
Dedicato al guru Meher Baba, influenza di Townshend sin dal ’68, Tommy è valorizzato da
una stesura raffinata e godibile, strutturato quasi a forma di musical, dotato di un solido
impianto narrativo che porterà l’opera ad essere adattata per numerose versioni teatrali e a
diventare nel 1974 un film per la regia di Ken Russell. Overture e Underture fungono da
necessari collegamenti fra le sezioni del lavoro, a proposta e recupero dei temi salienti. Il
brillante strumentale di Sparks, il focoso soul rock di Acid queen, il divertente rock’n’roll di
Pinball wizard (anche su singolo), con la celebre introduzione alla chitarra acustica di
Townshend, sono i brani più significativi. La progressione epica di We’re not gonna take it
chiude il disco in un crescendo emotivo, ma alla fine resta la sensazione di una grande
occasione persa.
In Tommy manca il coraggio d’osare, di incrinare e mettere in discussione le certezze
strutturali e con questo dare un valore aggiunto al perfezionismo formale che permea l’intero
lavoro. Solo di rado affiora la rude forza espressiva che rende irresistibili i concerti dei Who e
una dimostrazione pratica viene dal magnifico Live at Leeds, dove è possibile toccare con
mano la consistenza dal vivo di parte del materiale ereditato da Tommy.
Rimane un successo di larga portata, a netto rilancio delle quotazioni del gruppo che
partecipa da protagonista ai grandi raduni di Woodstock e dell’isola di Wight. Il già citato
Live at Leeds (1970) è uno dei più importanti ed esaltanti dischi dal vivo di tutto il rock,
presentando i Who così come sempre avrebbero meritato, nella veste d'irrequieti folletti
capaci di scatenare uragani sonori d’inaudita energia. Oltre che nelle interpretazioni di alcuni
classici del repertorio (My generation a forma di medley con alcuni frammenti prelevati da
Tommy, The magic bus e Substitute), il gruppo si esprime ai massimi livelli nella devastante
versione di Young man blues, che mette in luce tutte le migliori prerogative delle quali i
musicisti dispongono : il magistero ritmico di Townshend, il basso incontenibile di Entwistle,
la batteria disordinata ma tremendamente efficace di Moon, la voce sfrontata e potente di
Daltrey. Notevoli anche le proposte di Summertime blues (Eddie Cochran) e di Shakin’ all over
(Johnny Kidd and the Pirates).
WHO
-
WHO’S NEXT
(Track - 1971)
Non pago del gran successo di Tommy, Townshend inizia a lavorare ad un’opera rock ancor
più complessa ed ambiziosa, dal titolo provvisorio di Lifehouse. Il progetto, strutturato in
circa quaranta canzoni, naufraga miseramente ma per fortuna alcuni brani di eccezionale
qualità vanno a costituire l’ossatura del nuovo album Who’s next, senza dubbio il miglior
disco di studio dei Who, capace di condensare in una manciata di canzoni gli elementi
essenziali delle capacità creative di Townshend e in grado di recuperare quell’urgenza
espressiva, semplice e diretta, che dopo il primo album si era un poco persa per strada.
Le tastiere suonate da Townshend introducono sonorità derivate dal minimalismo di Terry
Riley, sia su Baba o’Riley che su Won’t get fooled again, parti estreme del lavoro accomunate
da un senso di fiera rassegnazione e disillusione riguardo agli ideali ‘rivoluzionari’ degli anni
Sessanta. L’iniziale si stempera in uno stupendo scenario in equilibrio tra Riley e il violino di
Dave Arbus, ad est dell’Eden, mentre la conclusiva trova nella durissima ed amara scorza la
propria attrazione fatale.
Altro vertice del disco è la splendida Behind blue eyes, il cui disagio interiore attraversa con
inaudita disinvoltura climi dolcissimi ed improvvisi sfoghi rabbiosi. Bargain è secca e
tagliente, nella quieta e melodica Song is over e nella solida Getting in tune si può ascoltare
l’ottimo contributo strumentale di Nicky Hopkins, mentre leggermente inferiori appaiono le
rilassate Love ain’t for keeping e Going mobile, oltre all’unica composizione di Entwistle, My
wife.
La tensione interna al gruppo è elevata : Townshend si conferma il compositore pressoché
esclusivo della musica dei Who e Daltrey non è disposto ad accettare un ruolo di secondaria
importanza. Entrambi, come pure Entwistle, tra il ’71 e il ’73 iniziano a dedicarsi a progetti
individuali, nei quali sfogare liberamente le proprie convinzioni creative.
Townshend continua nella ricerca esasperata della perfetta opera rock e nel ’73 ci riprova con
Quadrophenia (anche in questo caso si arriverà alla trasposizione cinematografica), un doppio
LP incentrato sulle vicissitudini e sulle incomprensioni di un giovane mod. Il rock asciutto e
vibrante di The real me, la spigliata 5 :15 e la drammatica Love, reign o’er me sono gli attimi
salienti di un lavoro compatto e ben assemblato, che mostra qualche piccolo segno di
stanchezza e, in ogni caso, non raggiunge il livello del disco precedente.
Da questo momento le prove dei Who si fanno sporadiche e piuttosto stanche. Le ultime cose
degne d’interesse si ascoltano nel The Who by numbers (Polydor) del 1975, ancora con la
presenza del piano di Hopkins (bella How many friends). Un altro album nel ’78 (Who are you)
e la morte di Keith Moon, il 7 settembre, mette seriamente a rischio l’esistenza del gruppo.
La voglia di continuare da parte di Townshend e compagni è scarsa, ma ugualmente si
provvede alla sostituzione di Moon con la poco convincente assunzione di Kenny Jones, ex
Small Faces e Faces. Non è più la stessa cosa, l’entusiasmo è perso per sempre. Ancora un
paio di dischi e poi la fine nel 1982, con successive occasionali reunion che fruttano qualche
tour.
Nell’ambito dei lavori a tema, su basi chiaramente di stampo rock’n’roll, un pensiero va
dedicato agli sconosciuti Fire che nel 1970 pubblicano il loro unico album The magic
shoemaker.
Il nucleo del gruppo prende consistenza nell’inverno del ’66 su iniziativa del chitarrista David
Lambert, affiancato da Dick Dufall (bs.) e da Bob Voice (bt.), ed inizia ad esibirsi nel circuito
londinese dei club sotterranei (Middle Earth, Marquee, Pink Flamingo). Dopo la realizzazione
nel 1968 di due singoli che passano inosservati, i Fire (nel gennaio ’70) giocano la carta del
disco concept, di gran moda a quei tempi, e registrano per la Pye i nastri di The magic
shoemaker. L’album accusa qualche ingenuità e caduta di tono e si colloca a debita distanza
dai più importanti esempi del genere, ma non è privo di belle composizioni e di spunti
pregevoli. Tutte le canzoni, come del resto la parte narrativa, sono opera di Lambert e tra le
migliori vanno segnalate le grintose Tell you a story, Flies like a bird e l’ottima ballata di
Reason for everything.
Per le registrazioni del long playing i Fire s’avvalgono dell’aiuto di Dave Cousins (degli
Strawbs) e di Paul Brett (degli Elmer Gantry’s Velvet Opera). Quest’ultimo entra per breve
tempo, come secondo chitarrista, nell’organico del gruppo per poi costituire una propria
formazione (Paul Brett Sage) nella quale finiscono Voice e Dufall.
Lambert mantiene in vita il marchio Fire assumendo una nuova sezione ritmica, ma
l’illusione di poter emergere con la propria musica svanisce rapidamente e nel 1972 il
chitarrista entra negli Strawbs del vecchio amico Cousins, al posto del dimissionario Tony
Hooper. Con gli Strawbs Lambert registra ben sette album, prima di realizzare nel ’79 un
disco come solista (Framed).
- 17 In ordine sparso, uno scarno ed eterogeneo manipolo di musicisti che vantano al
denominatore una comune origine dalle solide radici del rock’n’roll più disinvolto ed
intelligente.
Terry Reid, ad esempio, pur avendo sviluppato la parte decisiva della carriera negli Stati
Uniti è personaggio tutt’altro che marginale per la scena inglese. A soli 15 anni è cantante e
chitarrista nei Redrig e nel 1964 entra nei Peter Jay & the Jaywalkers, che hanno
l’opportunità di partecipare al tour dei Rolling Stones e di Ike & Tina Turner del ’66. Poco
prima di sfaldarsi (nell’aprile del ’67) il gruppo diventa Terry Reid & the Jaywalkers e
registra un primo singolo.
La mossa successiva di Reid è quella di allestire un trio con Eric Leese (ts.) e Keith Webb
(bt.), con il quale si esibisce come spalla di formazioni di notevole notorietà (Hollies, Small
Faces, Yardbirds, Beach Boys, Jefferson Airplane), costruendosi una buona reputazione.
All’inizio del 1968 entra nell’orbita del produttore Mickie Most (Jeff Beck, Donovan...)
pubblicando in aprile il singolo Better by far. Leese viene sostituito alle tastiere da Pete Solley
e il gruppo se ne va in America al seguito dei Cream, conseguendo discreto successo.
Per capitalizzare l’interesse creatosi sul posto, Reid incide un album negli Stati Uniti con il
quale ottiene una buona risposta a livello commerciale.
Bang, bang you’re Terry Reid mette in mostra le inequivocabili doti vocali di Reid, assieme ad
un suono privo di fronzoli imperniato sul lavoro di chitarra e tastiere. Molti brani si risolvono
nella forma di ballata, con Reid sempre puntuale nell’interpretazione vocale ; belle sono le
versioni di Bang, bang (my baby shot me down) di Sonny Bono, pervasa da improvvise
mutazioni di ritmo, e del robusto soul rock di Something’s gotten hold of my heart. La lunga
Season of the witch perde il respiro psichedelico dell’originale di Donovan, acquisendo sincere
cadenze rock che vivono di luce propria, come accade per l’altrettanto lungo e convincente
medley che comprende l’ottima Writing on the wall (forse la miglior composizione di Reid) e
l’originale rilettura di Summertime blues. Tra le canzoni a firma di Reid convincono Tinker
Taylor (un rhythm & blues progressivo) e Loving time, dove un lucido suono d’organo si
mescola all’efficacia ritmica della chitarra.
Per assurdo l’album viene pubblicato solo negli Stati Uniti, mentre in Inghilterra è reperibile
esclusivamente sul mercato d’importazione.
Nell’estate del ’68 Jimmy Page è alle prese con la fondazione di un nuovo gruppo che deve
nascere dalle ceneri degli ultimi Yardbirds ; già deciso per il bassista (John Paul Jones) Page
cerca di convincere il batterista B.J. Wilson dei Procol Harum e, come cantante, lo stesso
Reid. Terry commette un grave errore declinando l’offerta, nella speranza di un fulgido
futuro come solista, ed è proprio lui a consigliare l’assunzione dei due Band of Joy, Robert
Plant e John Bonham : saranno i Led Zeppelin.
La leggenda vuole che, tornato in tour in Inghilterra con Jethro Tull e Savoy Brown, a metà
del ’69 Reid perda una seconda grossa occasione per sostituire il cantante Rod Evans nei Deep
Purple. Toccherà a Ian Gillan.
La carriera di Terry Reid non riesce a decollare, nonostante la pubblicazione del secondo LP
omonimo (Epic-1969) che contiene valide cover di Stay with me baby (Jerry Ragavoy), di
Highway 61 revisited (Bob Dylan) e di Superlungs my supergirl (ancora Donovan). A questo
punto il cantante si stabilisce definitivamente in USA dove, negli anni Settanta, pubblica altri
tre dischi discreti, ma il solo River (Atlantic-1973) ottiene un’accettabile risposta di pubblico.
Gli Spooky Tooth, formazione dall’esistenza tribolata e di buon impatto alla fine degli anni
Sessanta, hanno le loro radici nei V.I.P., un complesso del 1966 dove si conoscono il cantante /
pianista Mike Harrison, il chitarrista Luther Grosvenor, il bassista Greg Ridley e il batterista
Mike Kellie. I V.I.P., con i quali suona brevemente anche Keith Emerson prima
dell’esperienza Nice, pubblicano due singoli e nel 1967 cambiano nome in Art, dedicandosi ad
una proposta in linea con la psichedelia dell’epoca. Dopo un album (Supernatural fairy tales,
Island-1967) e la partecipazione al primo LP degli Hapshash & the Coloured Coat,
nell’ottobre del ’67 i quattro s’imbattono nell’organista americano Gary Wright e danno
luogo ad un'ennesima metamorfosi, diventando Spooky Tooth.
Con la produzione di Jimmy Miller (Traffic, Rolling Stones) l’esordio di It’s all about (Island1968, con una dura cover di Tobacco road) è confortante, così come il successivo Spooky two
che nel 1969 fissa lo stile del gruppo su una fusione tra R & B e R’n’R progressivo, con
qualche influenza Traffic e una sostanza riconducibile più ai toni duri dell’hard che alla
raffinata psichedelia e alla varietà stilistica del gruppo di Winwood. Buono è lo schematismo
del 4/4 di Waitin’ for the wind, Feelin’ bad (quasi una risposta ai Traffic) è una tipica ballata
con riflessi armonici gospel, perfetta per un Joe Cocker ; la versione hard di Evil woman
risulta appassionante, guidata dalla pesante chitarra di Grosvenor e sostenuta dall’organo di
Wright. Interessanti pure Lost in my dream e la dura Better by you, better than me.
Nell’aprile dello stesso anno Ridley lascia il gruppo per raggiungere i neonati Humble Pie e il
suo posto viene rilevato da Andy Leigh. Il terzo album Ceremony (Island-1970) sperimenta a
sorpresa l’idea di una ‘messa rock’ progressiva, con la collaborazione del francese Pierre
Henry, riscuotendo buon successo ; gli Spooky Tooth sono però allo sbando per la decisione
assunta da Gary Wright di abbandonare il complesso e Harrison, Kellie, Grosvenor, con
l’aiuto di alcuni musicisti esterni tra i quali spicca l’organista Chris Stainton, incidono un
ultimo The last puff (Island-1970).
Si riparla di Spooky Tooth solo nel settembre del ’72 quando Wright e Harrison rifondano il
gruppo su basi completamente nuove, con l’ausilio di Mick Jones (ch.), Chris Stewart (bs.) e
Bryson Graham (bt.). Questa formazione incide il valido You broke my heart so...I busted your
jaw (Island-1973) che è l’ultimo disco di rilievo degli Spooky Tooth, almeno nelle belle Old as I
was born, This time around, Moriah mirate ad un riuscito compromesso tra le esigenze
commerciali e il residuo fuoco progressivo che ancora arde.
Più avanti torna il vecchio batterista Mike Kellie e dispiace veder coinvolto il bravo Mike
Patto in un disco poco ispirato come The mirror, che nel 1974 chiude definitivamente la storia
degli Spooky Tooth.
Wright prosegue come solista, con una musica facile e di notevole successo. Kellie resiste alle
intemperie punk e nel 1977 si ritrova negli Only Ones. Mick Jones, ultimo chitarrista della
formazione, forma con Ian McDonald (King Crimson) i Foreigner, con i quali propone un
vendutissimo hard dalle poche pretese artistiche.
Thunderclap Newman, un gruppo del giro Who prodotto da Pete Townshend, vive un
attimo di fuggevole gloria nel 1969 quando imbrocca un brano come Something in the air, che
sorprendentemente si piazza al primo posto della classifica inglese. Si tratta di una bella
canzone dall’ampio respiro melodico, valorizzata da un misurato arrangiamento orchestrale
che non nasconde l’originalità dello stile del gruppo.
Il trio è composto da Andy Newman alle tastiere, un ex impiegato postale di quarant’anni che
si diletta a suonare il piano jazz e ragtime, dal giovanissimo chitarrista scozzese Jimmy
McCulloch, scoperto da Townshend mentre suona al Middle Earth con il suo complesso One
In A Million, e dal batterista / cantante John ‘Speedy’ Keen, con all’attivo una collaborazione
con John Mayall e autore della bella Armenia city in the sky inclusa dai Who nell’album Sell
out.
Il secondo 45 giri Accidents è interessante, ma poco adatto al ruolo di singolo e non ripete il
successo di Something in the air.
L’unico album Hollywood dream (Track-1969) risulta valido, ma non vende. Il divertimento
ragtime di Hollywood 1 e l’esotismo percussivo di Hollywood 2, Wild country, con Newman che
s’impegna ad oboe e flauto, e la discreta cover di Open the door, homer (con il consueto inserto
ragtime - Dylan, dal bootleg di Great white wonder) dimostrano che i Thunderclap Newman
sono in grado d’esprimere qualcosa di più rispetto al rock’n’roll di base.
Ancora, The reason è decisamente bella con quell’incedere risoluto, tipico delle ballate in stile
Townshend, impreziosita dal pregevole lavoro alle chitarre di McCulloch. Viene pubblicata
anche su singolo ma nessuno se ne accorge e al gruppo non resta che la scelta di un rapido
scioglimento, nel 1970.
Keen e Newman producono alcuni dischi come solisti, mentre McCulloch suona, tra gli altri,
con Stone the Crows e i Wings di Paul McCartney.
Un pensiero per David Bowie non è fuori luogo, in questo contesto. Per il Bowie del primo
periodo, quando il musicista ancora si agita nei meandri dell’underground alla ricerca di
un’identità definita, che del resto mai riuscirà (e vorrà) trovare. Proprio il disinvolto
trasformismo è alla base del suo immane successo commerciale, essenza fondamentale per un
artista sempre in grado di riproporsi a seconda (o incurante) delle mode di passaggio.
David Robert Jones, in arte Bowie, tra il ’63 e il ’65 fa esperienza in gruppetti beat e rhythm
& blues come i King Bees, i Manish Boys (un singolo prodotto dal noto Shel Talmy, nel quale
suona il giovanissimo sessionman Jimmy Page), i Lower Third (suonano spesso al Marquee
con gli High Numbers, poi diventati Who). Nel 1966 escono i primi due 45 giri a nome David
Bowie, entrambi pubblicati dalla Pye, e nel ’67 altri singoli per la Deram, oltre all’omonimo
album d’esordio che passa del tutto inosservato. Bowie entra come mimo nella compagnia di
Lindsay Kemp e vi rimane per tutto il 1968 ; è un’esperienza molto importante, messa a frutto
dal cantante negli anni Settanta quando affina le proprie capacità sceniche, dando vita ad una
serie di fantasiosi personaggi di gran presa sulla scena rock.
La svolta della carriera di Bowie avviene nel luglio ’69 con la pubblicazione del singolo Space
oddity, un brano melodico ed accattivante ispirato al film ‘2001 Odissea nello Spazio’ di
Stanley Kubrick. Il successo della canzone permette la pubblicazione di un secondo LP,
anch’esso omonimo (Philips-1969), ma solo nel 1970 inizia a prendere consistenza una precisa
linea artistica.
Tony Visconti diventa il manager del cantante e nascono gli Hype, con lo stesso Visconti (bs.),
John Cambridge (bt.) e soprattutto Mick Ronson (ch.) ; per il nuovo album The man who sold
the world entra nel gruppo il batterista Mick Woodmansey, che successivamente con Ronson
sarà negli Spiders From Mars.
The man who sold the world non è certo l’album migliore di Bowie, nemmeno il più bello e
piacevole, ma è l’unico dell’intero catalogo ad ostentare con convinzione la sua natura
sotterranea, disponendo ritmo ed elettricità senza curarsi troppo di subdoli calcoli
commerciali. Musica ingenua, se si vuole, soluzioni semplici, una voce innamorata di Dylan e
le chitarre di Ronson dispiegate al vento come nelle crude Running gun blues e She shook me
cold, come nel vortice di Saviour machine. The width of a circle è il brano più ambizioso, con
l’insinuante melodia che raccoglie per strada tutti gli scampoli d’elettricità disponibili e si
chiude con la citazione del ‘Zarathustra’ di Richard Strauss (curiosamente la stessa
conclusione poi riservata alla celebre Life on Mars ?, sull’ellepì di Hunky dory). C’è spazio per
momenti meno convulsi, anche se le sinistre trame di After All e il sapore decadente della title
track contribuiscono ulteriormente ad elevare la tensione sonora.
Nel 1971 Hunky dory vede per la prima volta insieme Ronson, Woodmansey e il bassista
Trevor Bolder, che poco dopo diventano i Ragni di Marte. Al disco partecipa Rick Wakeman
(al piano) che in quei giorni sta passando dagli Strawbs agli Yes. Hunky dory stabilisce
definitivamente i connotati del timbro vocale di Bowie e musicalmente ammorbidisce i toni,
attingendo da certo folk melodico ; il bersaglio è centrato in pieno, visti i successi di Changes e
della ballata di Life on Mars ?, ma non si tratta dello stesso musicista del disco precedente.
L’ultimo contributo al mondo musicale alternativo avviene nel 1971, con l’esibizione alla festa
del Glastonbury Fayre; Bowie concede ai compilatori del triplo album che celebra l’evento la
discreta The supermen, in una versione di studio diversa da quella compresa su The man who
sold the world.
Poi il trasformismo prende la mano, Bowie diventa Ziggy Stardust con la pubblicazione di
The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (Rca-1972) e di Aladdin sane
(Rca-1973), non privi di spunti validi nell’ambito di un rock facile e edulcorato.
Il 7 luglio del ’73, in occasione di un concerto londinese, con abile mossa pubblicitaria Bowie
pone fine alla breve ma redditizia epopea di Ziggy Stardust, riciclandosi come Duca Bianco su
territori soul rock. Arriverà alle pregevoli sintesi elettroniche di Low e Heroes (1977, con
Fripp e Eno), per dedicarsi in seguito a discutibili soluzioni dance.
I Mott The Hoople, infine. Nella parte conclusiva degli anni Sessanta Mick Ralphs (ch.v.),
Overend Watts (bs.), Verden Allen (or.), Dale Griffin (bt.), con il cantante Sean Tippens, si
propongono come Silence. All’inizio del 1969 il gruppo si trasforma in Mott The Hoople e
cambia cantante, con l’avvento di Ian Hunter.
Il primo album omonimo, registrato nel luglio ’69 con la produzione di Guy Stevens, risulta il
più fresco e creativo, svariando da Dylan ad un rock molto vicino all’hard. You really got me
dei Kinks è resa in una dura versione strumentale, che si stempera nel classico stile dylaniano
(tradito sin dall’impostazione vocale di Hunter) dell’ottima At the Crossroads, un brano del
texano Doug Sahm. Backsliding fearlessly e Laugh at me (altra cover, questa volta di Sonny
Bono) presentano un incedere simile, ma in aggiunta la seconda possiede un finale
elettrizzante. Lo stile del gruppo è ampiamente interessato da connotati hard, come dimostra
la piacevole Rock and roll queen ; punto focale dell’album appare la bellissima Half moon bay,
solcata da placide ed ammalianti onde melodiche controllate da un Hunter ispirato.
Mott The Hoople riceve una buona accoglienza da parte della critica, ma le vendite non sono
esaltanti ; la stessa cosa capita ai successivi album Mad shadows (1970), Wild life (1971) e
Brain capers (1971), tutti incisi per la Island.
Il gruppo entra in crisi ma un illustre fan, David Bowie, li aiuta in modo decisivo scrivendo
per loro All the young dudes, una canzone che raggiunge il terzo posto in classifica nel 1972. Il
brano, una bella melodia tipica dello Ziggy Stardust di quei tempi, diventa il pezzo guida del
nuovo LP che porta lo stesso titolo (Cbs-1972), nel quale Bowie suona il sax, arrangia parte
del materiale e si occupa della produzione. Tra le canzoni spiccano la versione di Sweet Jane
(Velvet Underground) e numerosi episodi che spostano la musica del gruppo su lidi
chiaramente hard, con qualche strizzatina d’occhio ai Rolling Stones (Sucker, One of the boys,
Ready for love).
Verden Allen abbandona per formare i Cheeks e la formazione prosegue come quartetto,
registrando all’inizio del ’73 il long playing Mott (Cbs - luglio ’73), il miglior album del nuovo
corso. Al disco, che presenta una buona varietà di temi, partecipano Paul Buckmaster (vc.),
Graham Preskitt (vi.) e Andy Mackay dei Roxy Music (sax.), e tra le canzoni emergono
durissimi hard rock (All the way from Memphis e Drivin’ sister), ballate dai toni contenuti e
decadenti (Hymn for the dudes e Ballad of Mott The Hoople), l’originale ed intraprendente
Violence e la composita I’m a cadillac / El camino Dolo Roso.
Il successo è assicurato ma a sorpresa Ralphs lascia il gruppo per raggiungere Paul Rodgers
nella Bad Company, con Boz Burrell e Simon Kirke. Il suo posto viene ereditato da Luther
Grosvenor (ex Spooky Tooth, sotto lo pseudonimo di Ariel Bender) ed entra anche l’organista
Morgan Fisher (dai Love Affair).
Ancora due album, The Hoople (Cbs-1974) e l’ottimo Live (Cbs-1974), ricavato da due
concerti tenuti a Londra e New York, e alla fine del ’74, con l’ingresso del chitarrista Mick
Ronson (già con Bowie), il gruppo sembra pronto per nuove imprese, quando Hunter decide
di porre fine all’avventura dei Mott The Hoople per intraprendere una buona carriera solista.
Più Duro di tuo Marito
i miti e le illusioni dell'hard rock inglese
Quante volte, ascoltando un brano di musica hard, abbiamo rischiato di cadere in una crisi
di euforica epilessia, presi dalla potenza liberatoria del suono ; quante volte, con
atteggiamento freddo e distaccato, ci siamo accorti di presenziare a strutture sonore banali e
risapute, d’assistere a fenomeni iconografici più pacchiani che oltraggiosi.
In fin dei conti, è proprio a questo vizio originario, a questo dubbio storico, che paga il
pedaggio gran parte della critica di settore, spesso incapace di (o forse non interessata a)
separare il buono dal cattivo, di attribuire al fenomeno una valutazione serena e al di sopra
delle parti. Da un lato i sostenitori a tutti i costi del verbo metallico, capaci d’accettare le
esasperazioni più allucinanti, dall’altro il gruppo dei colti, convinto che dietro alla facciata di
sudore e rumore si celi il nulla intellettuale.
A ben guardare, sono entrambi atteggiamenti che nascondono una lunga teoria di luoghi
comuni.
Nonostante tutto, l’hard rock inglese vanta nobili radici, riconducibili al fenomeno del British
blues, all’Hendrix quadrato e vigoroso, agli alfieri della musica post beat più ispida che mal
digerivano il neoclassicismo inaugurato dai Beatles (Rolling Stones, Who, Pretty Things). Lo
stile si consolida definitivamente con il blues roccato alla massima potenza dei triangoli
classici dei Cream e dell’Experience, esplicitandosi in toni oramai prossimi al suono più duro
in occasione dei primi lavori del gruppo di Jeff Beck e dell’esordio dei Led Zeppelin. Un
crescendo di soluzioni, sempre più tese ed ossessive, porta alla coniazione di un linguaggio
caratterizzato da un suono violentemente fisico e possente, fortemente coinvolgente e
altrettanto costringente, destinato a canalizzarsi in aridi rivoli di musica ripetitiva, che a
lungo andare paga l’essenza della propria natura con la perdita di quella freschezza dinamica
che appare come la componente originaria di maggior attrazione.
In questo panorama non mancano situazioni tristi ed incresciose, esecutori di musica priva di
fantasia e di qualità trascurabile, ma neppure ci si deve dimenticare di coloro, grandi e
piccini, che hanno avuto il merito d’offrire una versione credibile e, perché no, progressiva del
suono più duro della roccia.
- 18 -
Innanzi a tutti, i Led Zeppelin.
Se il primo album della formazione fornisce un’interpretazione estrema del rock blues più
duro in voga all’epoca, restando in ogni caso saldamente ancorato all’idioma originario, il
seguente lavoro Led Zeppelin II (pubblicato nell’ottobre 1969) non conosce compromessi e
stabilisce, in via definitiva, le modalità del loro personale e godibile hard rock.
LED ZEPPELIN
-
LED ZEPPELIN II
(Atlantic - 1969)
Whole lotta love si apre con il riff tagliente della chitarra di Page, una sorta di tema blues
sviluppato a velocità supersonica ; l’immediato raddoppio del basso di Jones, l’enfatico
fraseggio di Plant e il dirompente ingresso dei tamburi di Bonham producono una tensione
crescente ed avvolgente. Incubi, lacerazioni, selvaggi vocalizzi orgasmici, stacchi mozzafiato,
assoli lancinanti. E’ la sigla di un modo imperioso, estremo ed implacabile di concepire,
plasmare ed esternare gli ultimi residui della cultura blues.
L’unico brano che si avvicina allo stile dell’album d’esordio è The lemon song, uno spesso
power blues dominato dalla chitarra di Page. Heartbreaker sospinge gli Zeppelin verso l’hard
più arcigno, pompato dal basso e dalla perentoria batteria, con la chitarra che produce riff
poderosi e un iperbolico solismo ; la tremenda forza d’urto si placa nell’orecchiabile Living
loving maid (she’s just a woman), carina ma nulla più. What is and what should never be è
giocata sul contrasto tra un raffinato blues da night club e violente frasi hard, così come
Ramble on, un brano molto importante per l’evoluzione futura della musica dei Led Zeppelin,
muove in territori a mezza strada tra il folk acustico e l’esuberanza elettrica tipica del gruppo.
Discreta è Thank you, ballata di vaga ispirazione folk segnata dall’organo di John Paul Jones,
mentre Moby Dick offre l’occasione a Bonham per scuotere le pelli della batteria a mani nude.
La conclusiva Bring it on home, introdotta da un noto blues di Willie Dixon (stranamente non
citato tra gli autori della canzone), si scatena nel solito turbinio ritmico selvaggio ed
assordante.
Il successo dell’album è eccezionale, con il primo posto di classifica in Inghilterra e Stati
Uniti ; la strada da seguire, facile e priva di rischi, è quella di ripetere gli schemi e bissare i
risultati di vendita. Invece no ; laddove altre formazioni longeve dell’hard inglese (Deep
Purple, Uriah Heep, Black Sabbath) puntano ad una standardizzazione del suono i Led
Zeppelin, pur senza mutare le caratteristiche di uno stile di base già ben definito, cercano di
divincolarsi da questa facile ma creativamente penalizzante equazione, attingendo di volta in
volta a matrici tra le più disparate.
L’esempio eclatante arriva con il notevole Led Zeppelin III, pubblicato nell’ottobre del 1970.
Nel primo lato del disco il gruppo dà dimostrazione di notevole eclettismo, mettendo a
confronto con disinvoltura i diversi aspetti della propria musica : l’iniziale Immigrant song,
uno dei brani classici del repertorio, dal ritmo sincopato, incessante, che pare travolgere ogni
ostacolo, sorvolato dagli agghiaccianti vocalizzi di Plant - l’acustica Friends, costruita su
strane armonie ed intriganti arrangiamenti d’archi - il robusto rock’n’roll di Celebration day,
con il consueto gran lavoro di Page alle chitarre.
Since I’ve been loving you, magnifica e inattesa, è un lungo blues dominato da una chitarra
brillante e incisiva, sottolineato dall’organo e sostenuto dalla poderosa batteria, con una
sofferta interpretazione di Plant che conferma le sue indiscutibili doti vocali. E’ un grande
omaggio alla tradizione blues, a precisazione di quali sono le originarie radici dei Zeppelin.
Out on the tiles offre l’impatto di un accettabile pezzo hard e chiude la parte elettrica del
disco.
La seconda facciata è quasi completamente acustica con la saltellante Gallows pole, le ballate
di That’s the way e Bron-y-aur-stomp ; c’è anche spazio per una dedica, non proprio
memorabile, a Roy Harper (Hats off to Roy Harper), amico di vecchia data di Page. Tangerine
è stupenda, commovente nostalgia dell’estasi di una tarda psichedelia folk che rapisce il cuore.
Il risultato commerciale non cambia : primo posto ovunque.
Nel novembre 1971 è la volta del quarto LP, che curiosamente non presenta alcun titolo ; per
praticità d’uso (e senza troppa fantasia) scegliamo di chiamarlo Led Zeppelin IV. Il gruppo è
ormai un'istituzione della scena rock mondiale e l’impressione che s’ottiene ascoltando il
quarto album è quella di musicisti alla ricerca di risultati definitivi sul piano artistico. La cosa
riesce solo in parte, di certo nella fantastica Stairway to heaven che si evolve all’interno di
un’incantata sospensione generata dai delicati arpeggi dell’acustica di Page e dal canto
confidenziale di Plant. La tensione sale con l’ingresso della batteria e, al culmine, le chitarre
(come squilli di fanfara che annunciano l’imminente battaglia) si lanciano in un memorabile
assolo, a conclusione di un capolavoro assoluto del concetto di ballata hard.
Altro vertice del disco è il Black dog d’apertura, dove l’introduzione vocale e il riff convulso e
complicato della chitarra devono non poco alla Oh well di Peter Green (come ha modo di
affermare lo stesso Page). Notevole appare la suggestiva versione di When the levee breaks, un
vecchio blues di Memphis Minnie ristrutturato secondo i progetti dell’architetto Page che
crea appassionanti intrecci utilizzando la tecnica bottleneck, ben coadiuvato dal recupero
dell’eredità blues, garantito dall’armonica di Plant, e dallo stile percussivo devastante di
Bonham. Il resto dell’album non risulta altrettanto convincente. Piace Rock and roll, esplicita
sin dal titolo, ideale apripista per le esibizioni dal vivo, e si salva l’ossessionante Four sticks,
sorretta da un’incessante reiterazione armonica. In The battle of evermore compare la voce di
Sandy Denny che dialoga con Plant, ma l’impianto folk del brano non persuade del tutto e
anche altri episodi rimangono in un limbo di aurea mediocrità.
Il successo appare inarrestabile (a tutt’oggi IV è uno dei dischi più venduti della storia del
rock), rinnovato e suggellato grazie all’efficacia dell’attività concertistica del gruppo ; il
quinto LP Houses of the holy (Atlantic-marzo ’73) non fa eccezione, anche se qualcosa nei
meccanismi sonori dei Led Zeppelin non funziona come ai bei tempi. Il materiale, almeno in
parte, è piuttosto buono : la ritmata The song remains the same, le soffuse atmosfere di The
rain song e della notevole No quarter, la bella Over the hills and far away, il discreto hard di
The ocean, ma in generale le interpretazioni non brillano, mostrando qualche segno di
stanchezza.
Il gruppo decide di allentare la presa, dal luglio ’73 al gennaio ’75 evita di esibirsi dal vivo e
nel 1974 si dedica alla preparazione del materiale da utilizzare per il nuovo 33 giri. Previsto
sulla doppia distanza e pubblicato all’inizio del ’75 per la personale neonata etichetta Swan
Song, Physical graffiti introduce alcune novità nella musica e rilancia l’entusiasmo
strumentale dei Led Zeppelin. Tra l’aggressività di Custard pie e la contagiosa nostalgia di
Ten years gone si snodano le lunghe e complesse In my time of dying, che raggiunge un’enfasi
ritmica devastante, Kashmir, con convincenti orchestrazioni di sapore orientale, In the light,
che passa senza problemi da tonalità leggere ed ariose ad implacabili cadenze metronomiche.
E’ l’ultimo grande impegno discografico dei Led Zeppelin che nel ’76 tentano di ripetersi con
Presence (Swan Song-1976) il quale, sia pur distante dall’elevata media qualitativa del disco
precedente, contiene l’appassionante cavalcata chitarristica di Achilles last stand e qualche
altra canzone degna d’approvazione (For your life, Nobody’s fault but mine).
Nello stesso anno il gruppo dà alle stampe il doppio dal vivo The song remains the same (Swan
Song - parziale colonna sonora di un film concerto, tra i più famosi del genere), registrato in
occasione di una serie di spettacoli tenuti nel luglio 1973 al Madison Square Garden di New
York. Purtroppo i Led Zeppelin non sono colti in alcune delle migliori esibizioni della loro
lunga storia ‘on stage’ e, a parte una splendida versione di No quarter, il materiale proposto
non rappresenta in modo esaustivo le grandi potenzialità live del gruppo. Ancora oggi si
attende una pubblicazione ufficiale che faccia giustizia in tal senso.
Gli ultimi giorni dei Led Zeppelin sono anche i più controversi : l’album del ’79 In through
the out door (Swan Song) risulta in buona parte deludente e la morte di John Bonham, nel
settembre del 1980, chiude per sempre l’avventura esaltante ed imprescindibile della
formazione di Jimmy Page.
La carriera dei Deep Purple attraversa varie fasi storiche, contraddistinte dalla presenza
di diversi organici, che riflettono almeno due momenti fondamentali e ben distinti della loro
produzione discografica.
Nella parte iniziale della carriera, tra il ’68 e il ’69 con la formazione originaria, il gruppo
produce tre discreti album dal contenuto estremamente eterogeneo, in bilico tra hard rock,
soluzioni progressive e tardo psichedeliche, versioni di brani famosi, senza riuscire a definire
con precisione il proprio stile.
In una seconda fase, che decorre dal 1970 e comunemente viene contrassegnata dalla sigla
‘Mark II’, i Deep Purple raggiungono l’apice della notorietà realizzando i lavori classici del
repertorio e stabilendo con estrema chiarezza uno stile immediatamente riconoscibile.
I successivi cambiamenti d’organico, dal 1973 in avanti, modificano esclusivamente le
sfumature, i particolari di un suono già abbondantemente definito e pesantemente sfruttato
sul piano commerciale.
Dal 1964 al 1967 Jon Lord è organista negli Artwoods, un complesso rhythm & blues fondato
dal cantante Art Wood (fratello del noto Ron) che comprende pure il batterista Keef Hartley.
Dopo aver registrato alcuni singoli e un album nel 1966, Hartley preferisce continuare con
John Mayall e gli Artwoods si trasformano, senza fortuna, in St. Valentine’s Day Massacre. In
seguito ad una brevissima parentesi con i Santa Barbara Machine Head (assieme a Ron
Wood, Kim Gardner e Twink - tre soli brani all’attivo) Lord si ritrova nei Flowerpot Men,
dove conosce il bassista Nick Simper con il quale poi forma i Roundabout. In organico è
presente anche il chitarrista Ritchie Blackmore, reduce da una breve esperienza con i Trip (si,
proprio la formazione anglo - italiana di Joe Vescovi). Dalla fusione tra musicisti dei
Roundabout (Lord, Blackmore, Simper) e dei Maze (gruppo nel quale militano il batterista
Ian Paice e il cantante Rod Evans) nascono nel marzo 1968 i Deep Purple.
Il complesso esordisce con un singolo che presenta una bella versione hard soul di Hush, un
brano di Joe South, che in estate ottiene un insperato successo negli Stati Uniti. I Purple
colgono l’occasione al volo e si recano in tour negli USA, di supporto ai Cream. L’ottimo
risultato di Hush rimane però isolato e i tre album pubblicati tra il ’68 e il ’69 non riescono ad
andare oltre un tiepido interesse da parte del pubblico inglese. Del resto i Deep Purple
faticano oltremodo nell’elaborare trame sonore originali di un certo valore e si affidano in
larga misura alla proposta di cover di brani celebri.
Sul primo LP Shades of Deep Purple (Parlophone-1968), oltre a Hush, sono comprese le
discrete I’m so glad (Skip James), già provata dai Cream sul loro album d’esordio, Help
(Beatles), in una versione rallentata percorsa da fremiti hard e vaghe sfumature soul, Hey Joe
(portata al successo in Inghilterra da Hendrix), caratterizzata da un ritmo di Bolero e climi
spagnoleggianti.
Nella musica dei primi Deep Purple si nota un’evidente preminenza delle tastiere di Lord
sugli altri strumenti, ribadita anche su The book of Taliesyn (1969), con il quale la EMI gira il
gruppo alla nuova etichetta progressiva Harvest. Tra i brani originali appare discreta la
strumentale Wring that neck, mentre Anthem accampa troppe pretese in una volta sola. We
can work it out dei Beatles è davvero poco ispirata ; le cose vanno meglio con l’elaborata
versione di River deep, mountain high, che comunque fatica a reggere il confronto con
l’originale di Ike & Tina Turner e con l’ottima cover dei New Animals.
La direzione musicale del terzo album Deep Purple (Harvest-1969) resta saldamente nelle
mani di Jon Lord e il disco registra un maggior impegno compositivo da parte del gruppo, dal
momento che l’unica rilettura inserita è una sognante versione di Lalena di Donovan. I brani
migliori sono il dinamico Chasing shadows, per percussioni ed organo, Blind (una
composizione di Lord che adotta soluzioni barocche con tanto di clavicembalo, dotata di una
buona struttura lirica) e The painter, registrato in diretta, che concede più spazio a Blackmore
cercando la via dell’immediatezza, in anticipo sui modi a venire. Per un attimo ci si dimentica
dei progetti ambiziosi di Lord, ma solo fino alla suite in tre parti di April, dove il tastierista
sfoga la sua visione ‘classica’ del rock con l’ausilio di una piccola formazione da camera
comprendente flauti, oboe, clarinetti ed archi.
Nel luglio del 1969 Rod Evans e Nick Simper lasciano il gruppo ; il cantante entra nei Captain
Beyond, senza fortuna, e poco meglio riesce a fare Simper con i discreti Warhorse e poi con gli
oscuri Fandango. La celebre Mark II dei Deep Purple prende consistenza subito dopo, con
l’ingresso in organico di due ex componenti degli Episode Six, una formazione di scarso
successo (un briciolo di notorietà solo in Libano !) ; i nomi sono quelli del cantante Ian Gillan
e del bassista Roger Glover. In apparenza nulla cambia nelle strategie del gruppo, dal
momento che i Deep Purple s’impegnano nella realizzazione di un ambizioso concerto rock
per gruppo ed orchestra sinfonica, composto nell’arco di tre mesi dal solito Lord e messo in
pratica il 24 di settembre con uno spettacolo tenuto alla Royal Albert Hall, alla presenza della
Royal Philarmonic Orchestra (Concerto for group & orchestra, Harvest-1970).
DEEP PURPLE
-
IN ROCK
(Harvest - 1970)
I primi sintomi di un radicale cambiamento di stile sono annunciati dal singolo di Black night,
che nel giugno del ’70 riesce finalmente a conquistare le classifiche inglesi. Il nuovo 33 giri In
rock sancisce definitivamente le intenzioni.
Il caos, la frenesia esplosiva, le brusche accelerazioni del rhythm & blues al tritolo di Speed
King in pochi minuti spazzano via i residui e le incertezze del passato. Lo spazio per la
chitarra di Blackmore è notevolmente aumentato, Lord si limita a rifiniture ritmiche e a
sprazzi solistici più controllati, in sintonia con l’hard rock del gruppo. La ritmica è potenziata
dal plastico basso di Glover e Gillan mostra una forza ed un’esuberanza vocale sconosciute a
Evans. Gli ultimi spasmi di Speed King lasciano strada al devastante riff della chitarra in
Bloodsucker ; è musica creativa, originale, trascinante, in apparenza libera d’osare. Non
possiede la varietà dei toni, le sfumature, la poliedricità che rendono inarrivabile l’hard dei
Led Zeppelin, ma funziona. Child in time presenta un’introduzione dal sapore orientale
copiata da, o quantomeno identica a, Bombay calling (dal primo album dei californiani It’s a
Beautiful Day). Non importa, il brano si evolve autonomamente con buona lucidità d’intenti e
diventa un classico del repertorio dei Purple.
Into the fire ha un bell’incedere ritmico e un riff accattivante, Flight of the rat è durissima,
compatta, così come le meno brillanti Living wreck, che a tratti furbeggia alla Grand Funk, e
Hard lovin’ man, dove s’avverte puzza di bruciato, dopo soli quaranta minuti scarsi il sapore
di cose già ascoltate.
Il disco vende più di un milione di copie e forse il problema sta tutto qui. Il nuovo Fireball
(Harvest-1971) manca di un vero pezzo guida e ricalca la matrice di In rock, senza possederne
l’esuberanza e l’impatto travolgente. Discrete, ma con riserva, la title track e The mule, e non
mancano alcune pesanti cadute di tono, le modeste Demon’s eye e Anyone’s daughter che
davvero non si capisce dove vogliano andare a parare.
Che poi l’album finisca al primo posto della classifica sorprende relativamente poco (così va il
mondo) ; il successivo Machine head (Purple-1972) rende ancora meglio ad un gruppo che,
ormai ricco e famoso ovunque, si può permettere la fondazione di un’etichetta discografica
privata, la Purple. Anche Machine head non sposta di una virgola lo stile dei Deep Purple, ma
contiene almeno due classici del repertorio quali Highway star e la celeberrima Smoke on the
water, dimostrandosi nel complesso nettamente superiore all’album precedente. In ogni caso
meglio rivolgersi a Made in Japan, doppio album registrato dal vivo in Giappone nell’agosto
del ’72, che risulta essere una buona antologia live con graffianti interpretazioni di brani
famosi e qualche lungaggine di troppo (Space truckin’ e il non indispensabile solo di batteria
su The mule).
Alla Mark II resta la forza di registrare un ultimo, stanco, Who do we think we are ! (Purple1973), e, dopo un concerto giapponese a Osaka, nel giugno ’73 Gillan e Glover si defilano per
lavorare a progetti solistici.
Un nuovo cantante, David Coverdale, e l’ex bassista dei Trapeze, Glen Hughes, permettono ai
Deep Purple di realizzare i due album del 1974, Burn e Stormbringer, prima dell’abbandono
di Ritchie Blackmore (aprile ’75) che allestisce la formazione dei Rainbow. Al suo posto arriva
l’americano Tommy Bolin, già con Zephyr e James Gang, per l’ultimo LP Come taste the band
(1975). I Deep Purple si sciolgono nel luglio del 1976 ma non si tratta di una mossa definitiva,
visto che negli anni Ottanta la Mark II si riunisce per l’incisione di alcuni vendutissimi album.
E’ fumo sull’acqua...o meglio negli occhi.
Gruppo tra i più controversi, agli inizi osteggiato e a volte ridicolizzato dalla critica
musicale, in tempi recenti riscoperto ed elevato al rango di influenza essenziale da parte di
numerosi complessi grunge e heavy metal, i Black Sabbath vanno considerati tra gli iniziatori
e i massimi esponenti di una corrente dark sviluppatasi nel rock degli anni Settanta.
A differenza di Led Zeppelin e Deep Purple, formazioni composte da strumentisti di notevole
livello tecnico, i Black Sabbath puntano tutto nella cocciuta ricerca di una musica dal timbro
originale, compromessa con aspetti legati all’occulto e a sentimenti attratti dal polo negativo,
evitando di lanciarsi in improbabili virtuosismi individuali. Quanto di sinceramente arcano si
cela nella musica dei Black Sabbath e quanto è dovuto alla necessità di stupire, di
pubblicizzare il prodotto, può benissimo essere oggetto di studi filosofici da parte dei soliti
benpensanti (con le loro prove schiaccianti !), purché non si voglia cogliere a tutti i costi
l’occasione, con una scusa o un’inquisizione, per cancellare con un colpo di spugna ciò che
procura fastidio e va contro il tetro (quello si !) concetto di normalità quotidiana.
I Black Sabbath nascono a Birmingham verso la fine del 1969, dalle ceneri degli Earth. Il
chitarrista Tony Iommi e il batterista Bill Ward provengono da un gruppo chiamato
Mythology, mentre il cantante Ozzy Osbourne e il bassista Geezer Butler iniziano con i Rare
Breed. Osbourne, prima d’entrare negli Earth, suona anche con i Magic Lanterns che nel ’69
pubblicano un album, ottenendo un attimo di notorietà con il brano Shame shame.
Tutto rischia di andare in fumo quando Iommi viene convocato da Ian Anderson per
sostituire Mick Abrahams nei Jethro Tull, ma dopo pochi giorni di prove l’incompatibilità tra
i due musicisti si rivela incolmabile e il chitarrista torna sui suoi passi per dedicarsi ai Black
Sabbath.
BLACK SABBATH
-
BLACK SABBATH
(Vertigo - 1970)
Un temporale, rintocchi di campana a morto, un tuono libera un’agghiacciante cascata di
dure vibrazioni metalliche partorite dalla chitarra di Iommi. La voce di Osbourne è
asfissiante, spettrale ; il suono avvolgente, plumbeo, gravido d’inquietudine non concede
distrazioni. Black Sabbath è il manifesto programmatico del gruppo e si capisce perché, prima
di venire accettati dalla Vertigo, Iommi e compagni sono costretti a sopportare ben
quattordici rifiuti da parte di altrettante etichette discografiche. The wizard rompe il grave
peso e s'inerpica su possenti strutture di derivazione blues, mentre Behind the wall of sleep è
costruita su impietosi riff carichi di oscuri presagi e convince per la capacità di mutare ritmi e
modalità. Evil woman si accomoda su argomentazioni vicine ai territori del rock’n’roll, subito
zittita dalle atmosfere da film dell’orrore di Sleeping village, con la chitarra che si contorce,
s’allunga e si contrae sugli spasmi del ritmo.
In N.I.B. e in Warning (un pezzo di Aynsley Dunbar) Osbourne si produce in performance
efficaci ed originali e la chitarra di Iommi esprime tonalità cupe, appare veloce, precisa ; la
sezione ritmica è a suo modo virtuosa, con Butler a disegnare linee pesanti ma
sufficientemente elastiche e Ward che si dimostra capace di raffinatezze, in grado di donare
alla struttura granitica delle canzoni sfumature poco appariscenti ma indispensabili.
Registrato in due giorni, nel febbraio 1970, senza produzioni faraoniche e in completa
autonomia creativa, Black Sabbath desta al tempo numerose e pretestuose polemiche riguardo
a presunte accelerazioni dei nastri con le parti di chitarra, e sono in molti a deridere il
complesso a causa delle prime caotiche esibizioni dal vivo, ma il disco lascia un segno
indelebile generando discreto interesse tra il pubblico.
Il fortunato 45 giri di Paranoid (un rock’n’roll scuro e compresso, destituito di ogni
apparenza di divertimento) proietta i Black Sabbath ai vertici delle classifiche di vendita,
trascinando al successo anche il secondo album. Nel settembre del ’70, Paranoid riassume,
sintetizzandoli e rendendoli canonici, i caratteri del loro stile, fissando i confini della musica
del gruppo. Si nota, in generale, qualche forzatura di troppo, nel tentativo d’ottenere una
consistenza sonora drammatica e negativa (Iron man, Electric funeral) ; ciò che sul primo LP
pare sgorgare da una reale esigenza espressiva, nel nuovo lavoro è opera dell’insistenza, della
voglia di stupire e consolidare sul mercato il proprio marchio di fabbrica. In ogni caso, non
mancano brani importanti come War pigs, dalla scorza hendrixiana, Hand of doom, con una
spigliata parte centrale, Fairies wear boots, costruito su un’insinuante linea chitarristica.
Nel luglio 1971 Master of reality (Vertigo), pur introducendo alcuni frammenti acustici, non
riesce a rinnovare il suono e si crogiola nella routine di lusso della granitica Sweet leaf e delle
grintose After forever, Children of the grave, Into the void. Sembra l’inizio di una precoce
decadenza creativa ma il Vol. IV del settembre ’72 rialza la testa, per un attimo, quanto basta
a produrre una manciata di piccoli classici dell’hard inglese quali la lunga ed articolata
Wheels of confusion, le concise e aggressive Tomorrow dream, Supernaut, Cornucopia e, in
particolare, Snowblind, che si posiziona ai vertici del loro personale rock duro sfoderando una
cadenza micidiale. E’ l’ultimo sussulto. Da Sabbath bloody Sabbath (Vertigo-1973) in avanti la
storia è ancora lunga, ma certamente meno interessante.
I Gods sono una buona ma poco considerata formazione, che opera nel panorama della
seconda metà degli anni Sessanta, nota soprattutto per aver ospitato nelle sue fila alcuni
musicisti destinati agli onori delle cronache nel decennio seguente. Il primo nucleo, nel 1965,
comprende Ken Hensley (ts.ch.v.), Mick Taylor (ch.), John Glascock (bs.) e Brian Glascock
(bt.) ; nel giugno del ’67 Taylor entra nei Bluesbreakers di John Mayall e più avanti succede a
Brian Jones nei Rolling Stones. Hensley coglie l’occasione per ristrutturare il complesso con il
chitarrista John Konas, il bassista Paul Newton e il batterista Lee Kerslake.
Anche questa edizione del gruppo dura poco perché Newton preferisce andare con gli Spice
(nucleo che anticipa la nascita degli Uriah Heep), sostituito da tale Greg Lake che, a sua volta,
resta fino all’estate del ’68 per poi raggiungere i neonati King Crimson (inizio ’69). Il
controverso ruolo di bassista viene nuovamente e definitivamente ricoperto da John Glascock
e il quartetto ha modo d’incidere e pubblicare due discreti LP, Genesis nel 1968 e To Samuel a
son nel 1969 (entrambi per la Columbia), oltre ad alcuni singoli.
I Gods sono autori di un rock brioso, senza troppe pretese ma neanche insulso. La loro musica
costituirà un’influenza primaria per gli Uriah Heep, in particolare per l’uso delle tastiere, per
l’impostazione delle parti vocali e di certi arrangiamenti. Merita un ascolto almeno Genesis,
un lavoro omogeneo nel quale risaltano le buone Toward the skies, Farthing man (vagamente
psichedelica) e I never know che presenta assonanze con gli oramai prossimi Uriah Heep.
I Gods sopravvivono fino alla metà del ’69, quando in giugno Hensley, Konas (passato al
basso) e Kerslake confluiscono nei Toe Fat, il nuovo gruppo ad ambientazione hard del
cantante Cliff Bennett, titolare negli anni precedenti della formazione R & B dei Rebel
Rousers. I Toe Fat non perdono tempo e subito registrano il primo album omonimo, edito
all’inizio del ’70 dall’etichetta Parlophone. Il suono del gruppo è diretto, privo di
complicazioni, elettrico ma non esasperato anche nei brani tipicamente hard come But I’m
wrong e Just like me. La voce di Bennett appare potente e grintosa, così come il rock’n’roll di
That’s my love for you ; Bad side of the moon è una scaltra, energica e piacevole versione di
una ballata di Elton John, pubblicata anche come retro del 45 giri Working nights, un pezzo
alla Bo Diddley.
Subito dopo la registrazione del long playing Hensley concorre alla fondazione degli Uriah
Heep, mentre Kerslake va a suonare con la National Head Band, prima d’entrare anch’egli
nel noto gruppo hard (verso la fine del ’71). Bennett si vede costretto a rinnovare
completamente l’organico dei Toe Fat e curiosamente chiama la vecchia sezione ritmica dei
Gods (John e Brian Glascock), oltre al chitarrista Alan Kendall. Esce Toe Fat two (Regal
Zonophone-1970) che si apre con la spettacolare Stick heat e poi si perde per strada : un
lavoro senza infamia, ma incapace d’oltrepassare la soglia di un hard rock privo di novità.
E’ l’ultimo fuoco del gruppo che poco dopo si scioglie. Bennett si dedica a nuovi progetti
(Rebellion, Shangai), Brian Glascock e Alan Kendall suonano con i Bee Gees, John Glascock
nel ’72 incide con i Chicken Shack, quindi entra nei Carmen e dal dicembre ’75 è bassista nei
Jethro Tull, fino alla morte nel 1979 in seguito ad un’operazione al cuore.
Verso la fine del 1969 Mick Box (ch.), David Byron (v.), Paul Newton (bs.) e Alex Napier
(bt.), membri degli Spice, si uniscono al tastierista / chitarrista Ken Hensley (ex Gods e Toe
Fat) dando vita agli Uriah Heep. Durante le sessioni di registrazione del primo album, Napier
lascia il gruppo e viene temporaneamente sostituito dal batterista di Elton John, Nigel Olsson.
...very ‘eavy...very ‘umble (Vertigo-1970) non piace alla critica musicale del tempo, ma
ugualmente riesce a creare interesse grazie ad un hard rock di certo meno personale rispetto a
quello di altre formazioni contemporanee. L’iniziale Gypsy illustra perfettamente la musica
del complesso, tutta raccolta attorno alla pesante chitarra di Box, all’organo di Hensley e al
caratteristico timbro vocale vibrato di Byron. Come away Melinda propone soluzioni acustiche
di discreta fattura, pur rimanendo inferiore alla precedente versione del brano rilasciata dagli
sconosciuti Velvett Fogg. I toni dominanti sono però quelli sfrontati e spietati del rock duro di
Dreammare, di I’ll keep on trying e il risultato finale non appare eclatante.
Incuranti delle critiche gli Uriah Heep proseguono per la loro strada reclutando il batterista
Keith Baker, in precedenza negli ottimi Bakerloo, con il quale nell’autunno del ’70 sono
effettuate le registrazioni del secondo LP Salisbury (Vertigo-1971). A dir il vero il bravo Baker
è praticamente irriconoscibile, relegato ad un poco appariscente accompagnamento ritmico,
ingoiato e stritolato dai tratti forzati che pervadono il disco. La tuonante Bird of prey pare
dover demolire il mondo, ma alla fine suona un poco ridicola, non si sa bene se con una punta
d’ironia o se tragicamente seria. La prestazione vocale di Byron, come in altri casi, è a suo
modo notevole, grazie ad un acuto ed inconsueto falsetto al limite del paradosso. Di grosse
novità non ce ne sono, se si eccettua una maggiore attenzione alla cura dei particolari e alla
produzione : l’accettabile Time to live è un trattato sui luoghi comuni dell’hard rock e la suite
di Salisbury contribuisce esclusivamente a generare ulteriore confusione nello stile del gruppo.
I dischi si succedono copiosi e ottengono successo soprattutto negli Stati Uniti e in continente ;
nel terzo Look at yourself (Bronze-1971) compare ancora una volta un batterista diverso (Iain
Clark dei Cressida), e dal successivo Demons & wizards (Bronze-1972) gli Uriah Heep possono
finalmente disporre di una sezione ritmica definitiva, con il nuovo bassista Gary Thain (ex
Keef Hartley Band) e il batterista Lee Kerslake, compagno di Hensley in Gods e Toe Fat. Live,
doppio LP registrato nel gennaio 1973, è una delle migliori prove degli Uriah Heep,
contenendo buone interpretazioni dal vivo di brani hard con sfumature melodiche quali
Sunrise, Sweet Lorraine, Traveller in time. La carriera del gruppo prosegue senza soste, con
risultati qualitativi di scarso rilievo, non riuscendo mai ad elevarsi oltre il limite di un
modesto rock duro privo di qualsiasi connotato innovativo.
Conclusa l’esperienza con gli Small Faces, Steve Marriott si dedica al nuovo progetto degli
Humble Pie, formazione con la quale il chitarrista conta d’esprimere una musica in bilico tra
un torrido hard rock e marcate esigenze melodiche. Il gruppo nasce nell’aprile del 1969 e
presenta alla seconda chitarra il giovanissimo emergente Peter Frampton (proveniente dagli
Herd), al basso l’ex Spooky Tooth Greg Ridley e il batterista Jerry Shirley. Sulla carta
l’organico è piuttosto interessante e l’esordio con il 45 di Natural born woman conforta le
aspettative, raggiungendo i primi posti della classifica.
Il meglio viene espresso nei due album pubblicati nel 1969 per l’etichetta Immediate, As safe
as yesterday is e Town and country, dove gli Humble Pie si dedicano ad un suono passionale,
caldo, dai toni ruvidi, che non disdegna divagazioni acustiche di stampo country rock, con
armonie vocali degne di nota. Desperation, ottima cover di un brano presente sul primo LP
degli Steppenwolf, si orienta sul lato hard, mitigata da belle figure melodiche di chitarra
solista ; sullo stesso versante si collocano A nifty little number like you, giocata sull’insinuante
intreccio delle chitarre, e Silver tongue, dominata dalla solista di Marriott, che ricorda da
vicino lo stile degli ultimi Small Faces come del resto la più elaborata ed ottima As safe as
yesterday is, accattivante punto d’incontro elettroacustico. Every mother’s son è una ballata
acustica in vago stile Stones, Home and away è leggera ed orecchiabile, ma pure curata e
dignitosa.
I due dischi vendono meno del previsto e il fallimento della Immediate crea non pochi
problemi agli Humble Pie ; il passaggio alla A&M segna l’inizio di un buon successo, ottenuto
con i vari Humble Pie (1970), Rock on (1971), Performance : rockin’ the Fillmore (1971-doppio
dal vivo), ma sul finire del 1971 Frampton lascia il gruppo per intraprendere una fortunata
(sul piano economico) carriera solistica. Al suo posto arriva l’ottimo Dave Clempson
(Bakerloo, Colosseum), ma gli Humble Pie non hanno più granché da dire anche se
mantengono un discreto successo negli USA fino allo scioglimento, all’inizio del 1975.
Purtroppo Marriott entra a far parte della cospicua schiera di coloro che non sono più con
noi, nel 1991, quando resta coinvolto nell’incendio della propria abitazione.
Steve Upton e Martin Turner sono la sezione ritmica dei Tanglewood, un oscuro complesso
attivo verso la fine degli anni Sessanta nel quale suona anche Glen Turner (chitarrista,
fratello di Martin). Quando Glen abbandona la formazione Steve e Martin decidono di
pubblicare un’inserzione sul Melody Maker per reperire un nuovo chitarrista e finiscono per
trovarne due : con l’aggiunta di Andy Powell e di Ted Turner, nel 1969 nascono i Wishbone
Ash.
Il gruppo inizia ad elaborare uno stile personale tenendo numerosi concerti dal vivo e nel
dicembre ’70 realizza un primo omonimo LP (Mca) che tradisce subito il particolare
approccio del quartetto, sicuramente atipico rispetto ai normali canoni dell’hard inglese. Nel
disco brilla Phoenix, una canzone che nelle esibizioni live si espande tranquillamente verso i
venti muniti di durata, capace di elencare con precisione le principali caratteristiche della
musica dei Wishbone Ash. Le chitarre di Powell e Turner dominano il suono, a tratti eteree,
legate tra loro in rarefatte ambientazioni di stampo westcoastiano, spesso indurite e pressanti,
pronte ad alternarsi ed incrociarsi in lunghe parti solistiche.
Il successivo Pilgrimage, registrato nel maggio ’71, è un deciso passo in avanti ; The pilgrim
muove da quiete atmosfere per gettarsi in un vortice strumentale di sicuro effetto, adottando
soluzioni originali ed interessanti, Jail bait va diritta al nocciolo sfruttando al meglio il ritmo
immediato del boogie. Non mancano eccellenti frammenti strumentali a forte componente
romantica come Lullabye e Alone, concetto ampiamente ribadito nella passionale Valediction.
La conclusiva Where were you tomorrow, registrata a Leicester nel giugno del ’71, consente un
assaggio del clima torrido dei loro concerti.
WISHBONE ASH
-
ARGUS
(Mca - 1972)
I primi dischi dei Wishbone Ash incontrano un discreto interesse, vendono bene senza
raggiungere i vertici delle classifiche. Il terzo LP Argus porta il gruppo al massimo risultato di
vendita grazie ad un’impostazione musicale ancor più melodica e, se vogliamo, commerciale.
Laddove Pilgrimage enumerava gli elementi del loro particolare hard rock, mostrando
abbastanza frequentemente i muscoli e le chitarre incandescenti, Argus sviluppa su territori
d’apparente mollezza che vantano, invece, il pregio di evidenziare meglio l’originalità e la
diversità dalle mode correnti del rock duro, sin dall’essenza stessa della musica proposta. Le
chitarre di Powell e Turner si dividono equamente le parti solistiche, spesso anche all’interno
della stessa canzone, e il gruppo riesce a mascherare bene l’assenza di un cantante potente e
carismatico tramite l’utilizzo quasi sistematico di armonie vocali corali di buona fattura.
Il delicato inizio acustico di Time is cede il posto ad un rock spigliato che evita di cadere nel
manierismo. Sometime world e Leaf and stream sono ballate melodiche dal caratteristico
timbro nostalgico, tutt’altro che banali. Blowin’ free procede sul ritmo sostenuto dalla
chitarra solista di Powell, aprendo squarci corali e melodici di chiara matrice californiana ;
The king will come s’avvale di una struttura grintosa, varia e ben controllata. Warrior è
l’unico pezzo veramente hard del disco, almeno nelle intenzioni introduttive dove le chitarre si
sovrappongono per offrire vigore al suono, ma non rinuncia ad una lunga parte centrale
rarefatta e meditativa per poi riannodare le sei corde in un finale dai toni epici. Infine Throw
down the sword preferisce toni pacati, da lussuosa ballata, dettata come sempre dalle chitarre
e arricchita dall’organo di John Tout. Benché si tratti di un brano orecchiabile e commerciale
i Wishbone Ash tengono a galla il suono grazie ad una sufficiente asciuttezza formale e al
solismo intrigante di Powell.
E’ un momento di notevole notorietà per i Wishbone Ash che all’inizio del 1973 sono
nuovamente in studio di registrazione per la realizzazione di Wishbone four (Mca-1973) ;
l’iniziale So many things to say pare dare maggior forza al suono, ma la seguente (non
esaltante) Ballad of the beacon torna alla canzone d’atmosfera mostrando qualche ruga in più
del solito. In generale il lavoro soffre di una certa ripetitività di temi, di una minore
freschezza espositiva, pur alla presenza del rock’n’roll privo di fronzoli di Doctor e della
pregevole Rock’n’roll widow che contribuiscono ad elevare il livello medio dell’album.
Nello stesso anno i Wishbone Ash offrono un saggio del notevole impatto dal vivo con la
pubblicazione del doppio Live dates, bellissima escursione all’interno del classico repertorio
del gruppo. La passione, l’onestà, la semplice ma creativa dizione del loro rock assumono
nella dimensione live una coerenza ammirevole.
Ted Turner si chiama fuori, nel giugno del 1974 ; con la sua dipartita termina la stagione
migliore e fortunata ma non la storia dei Wishbone Ash. I numerosi dischi pubblicati in
seguito, con il nuovo chitarrista John Wisefield (ex Home e accompagnatore di Al Stewart),
non raggiungono i livelli qualitativi e commerciali dei primi lavori ; in ogni caso rimane un
gruppo fatto di personaggi sinceri, capace di entusiasmare nei concerti per tutta la durata
della carriera.
- 19 -
Non è tutto oro (nel senso di milioni di dischi venduti) ciò che riluce di riflessi hard.
Tra i gruppi dediti in modo creativo ad una proposta musicale dura ed intransigente s’eleva il
nome dei mitizzati Clear Blue Sky, una formazione triangolare che si forma all’inizio del 1970
dall’unione di tre giovanissimi musicisti, praticamente alle prime armi.
CLEAR BLUE SKY
-
CLEAR BLUE SKY
(Vertigo - 1970)
I tre sconosciuti diciottenni ottengono la fiducia della Vertigo che consente la realizzazione di
un trentatré giri, mettendo a disposizione anche la firma prestigiosa di Roger Dean per
quanto riguarda il disegno di copertina. Ne scaturisce un lavoro d’indubbio interesse per
l’originale forma dell’hard rock proposto, che però non trova il necessario riscontro da parte
del pubblico.
La prima facciata del disco è occupata da Journey to the inside of the sun, una specie di opera
a tema che si risolve in tre brani ben distinti. Sweet leaf apre con una lunga jam informale,
costruita su un ritmo sostenuto ed insistente che offre la possibilità alla chitarra di Simms di
lanciarsi in libere improvvisazioni, grintosa e veloce, frenata ripetutamente da sospensioni di
vaga ispirazione psichedelica. The rocket ride ha un approccio secco, micidiale e propone
un’originale struttura ritmica. Il brano mostra il lato migliore della musica dei Clear Blue
Sky, un hard rock tirato allo spasimo con gli strumenti al massimo della tensione, stacchi
improvvisi, assoli lancinanti di chitarra, disorientanti aperture melodiche. Il terzo brano I’m
comin’ home appare più ortodosso, valido ma di minore interesse.
Sull’altra parte del disco You mystify è una nuova possente esplosione di ritmi e soluzioni in
continua mutazione, Tool of my trade porta il sapore della ballata elettrica con intrusioni
ritmiche alla Black Sabbath, la bella My heaven concede un importante spazio alla chitarra
acustica senza rinunciare alle consuete accelerazioni del suono, la compatta Birdcatcher non
dà tregua sino allo strano e poco convincente finale.
Alcune inevitabili ingenuità dovute all’inesperienza e parti vocali un poco deboli non
pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo, ma il disco non vende e, nonostante un
secondo album sia già praticamente pronto, la Vertigo scarica frettolosamente il gruppo. Un
solo disco è davvero troppo poco per una formazione che dimostra di possedere ottime idee e
la giusta predisposizione alla materia.
Sicuramente fa piacere ritrovare la sigla Clear Blue Sky nel 1990 per un nuovo disco (Destiny,
Saturn-1990) e in occasione di una nostalgica esibizione sotterranea a Wight, assieme ad altre
vecchie ‘glorie’ del sottobosco inglese (Trees, Janus...), anche se il solo rimasto della
formazione originale è il chitarrista John Simms.
A differenza dei Clear Blue Sky, l’organico dei Leaf Hound è composto da musicisti di
buona esperienza, dotati di capacità tecniche non trascurabili ; anche se l’unico album inciso
si dimostra di elevato livello qualitativo e può essere considerato un piccolo classico dell’hard
dei primi anni Settanta, i Leaf Hound rimangono relegati nel più assoluto anonimato,
dimenticati pure quando, in anni recenti, la moda del recupero nostalgico dello stile
progressivo provvede a restituire dignità a tanti musicisti persi nella memoria storica del rock
inglese.
LEAF HOUND
-
GROWERS OF MUSHROOM
(Decca - 1971)
I cugini Peter French e Mick Halls suonano in improbabili gruppetti che rispondono ai nomi
di Switch, Erotic Eel, Joe Poe, prima di arrivare all’esperienza in sala d’incisione con la
Brunning Sunflower Blues Band, il gruppo del bassista originale dei Fleetwood Mac. Subito
dopo i due entrano a far parte dell’ultimo organico dei Black Cat Bones, in sostituzione di
Rod Price partito in cerca di gloria con i Foghat. Qui trovano i fratelli Derek e Stuart Brooks,
reduci di quell’onesto complesso di power blues, e con il nuovo batterista Keith Young il
gruppo cambia sigla in Leaf Hound.
French e Halls si propongono come nucleo creativo e propulsivo della formazione, puntando
su un suono pesante, inesorabile ma non privo di freschezza. La Decca mette sotto contratto i
Leaf Hound, anche se la complicata gestazione del loro unico album Growers of mushroom
dimostra quanto poca fosse la fiducia riposta dalla casa discografica nelle capacità del
gruppo. Il disco viene inizialmente pubblicato in Germania per la Telefunken, oltretutto privo
di due brani, e la versione inglese completa vede la luce solo nell’ottobre del ’71, quando il
complesso si è già dissolto. Growers of mushroom è registrato in sole undici ore di studio e il
contenuto ne risente in senso positivo per l’immediatezza del suono, e in negativo per alcune
inevitabili imperfezioni dovute alla fretta con cui il disco è realizzato.
Freelance fiend entra subito nel vivo, introdotta da un attacco micidiale della chitarra di
Halls, ed è priva di compromessi, con gli strumenti che all’unisono si lanciano in una danza
tribale di inaudita potenza. La voce di French è aspra e grintosa, la ritmica puntuale e priva
di sbavature. Il gruppo sa dare dimostrazione di buone qualità anche in ambito più moderato,
come dimostra la ballata di Sad road to the sea, priva di qualsiasi edulcorazione stilistica.
Alcuni brani risentono in modo evidente del retaggio rock blues dei musicisti ; Drowned my
life in fear (pubblicata a 45 giri, con sul retro la ballata melodica di It’s gonna get better) è
basata su un classico e potente riff blues e su una notevole consistenza strumentale, Work my
body naviga sulla rotta di collisione con certa musica underground, la chitarra di Halls
interpreta il blues in maniera ora educata, ora ficcante e selvaggia, e il finale piace per il gusto
melodico e per le procedure semplici e determinate. Stagnant pool e la supersonica Stray sono
gli esempi marcatamente duri ed intransigenti del loro stile. Entrambe pilotate dai riff
d'acciaio della chitarra, presentano affinità con i Led Zeppelin più impettiti mostrando
comunque una buona personalità. Bella e ben costruita è With a minute to go, una ballata
elettrica che trova pregi nell’apparenza semplice e trasandata del suono. La title track si
ricorda d’echi tardo psichedelici e la conclusiva Sawdust Caesar appare originale sotto
l’aspetto ritmico, chiudendo senza clamori eccessivi un album meritevole di ben diversa
fortuna commerciale.
L’unico membro del gruppo che riesce a lasciare un piccolo segno nella storiografia del rock è
il cantante Peter French che, subito dopo lo scioglimento dei Leaf Hound, entra negli Atomic
Rooster (autunno ’71) in tempo per registrare il terzo LP In hearing of. L’anno successivo
French è con Tim Bogert e Carmine Appice (l’ex sezione ritmica degli americani Vanilla
Fudge) nei Cactus, con i quali incide un album, quindi entra in lizza senza successo per il
ruolo di cantante in gruppi quali la Earth Band di Manfred Mann, gli Uriah Heep e i Deep
Purple. D’altro rimane da segnalare la partecipazione di Stuart Brooks, tra il ’72 e il ’74,
all’organico dei Pretty Things.
Nick Simper è bassista nella formazione originale dei Deep Purple, con i quali incide i
primi tre album ; quando, nel luglio del ’69, decide di abbandonare il complesso, il musicista
ha in mente il progetto Warhorse dove sfogare le proprie capacità creative e strumentali,
sempre oscurate nei Deep Purple da personaggi del calibro di Jon Lord e Ritchie Blackmore.
Il nucleo prende consistenza nel giugno del ’70 e, oltre a Simper, comprende il cantante
Ashley Holt, il tastierista Frank Wilson, il chitarrista Ged Peck e il batterista Mac Poole. I
Warhorse consolidano una buona reputazione come live band soprattutto in Europa, senza
riuscire pienamente a sfondare dal punto di vista commerciale ; la critica poi è
completamente divisa tra chi esalta il gruppo come uno dei migliori dell’hard progressivo e
coloro che, senza mezzi termini, lo considerano una nullità, pallida copia dei Deep Purple.
Non sempre la verità sta nel mezzo, ma forse in questo caso è proprio così dal momento che il
primo album omonimo del 1970 illustra una musica di forte derivazione Purple, dotata però
di sufficiente personalità e grinta. Tra i brani significativi sono da citare l’iniziale Vulture
blood, con il preludio dell’organo maestoso di Wilson, le grintose ed efficaci Burning e Woman
of the devil, la disinvolta cover di St. Louis (edita anche a 45 giri). Più ponderate e d’atmosfera
appaiono No chance e Solitude, appesantite da un pizzico di retorica dark.
La Vertigo concede un’ulteriore opportunità discografica e il gruppo, dopo aver sostituito
Ged Peck con il nuovo Peter Parks, nel ’72 realizza il secondo LP Red sea. L’album non è
brutto, almeno per quanto concerne la title track e alcune parti della lunga Back in time, ma
mostra il limite, invalicabile, della loro musica che si rivolge su se stessa senza ulteriori
possibili sbocchi, ricalcando schemi pesantemente sfruttati.
Ancora un cambio in organico, con il batterista Barney James al posto di Mac Poole, e i
Warhorse si sciolgono nel 1974 ; Simper prova senza successo con i Fandango, Holt in seguito
collabora con Rick Wakeman.
Dal mondo sommerso del più oscuro rock inglese gli Zior, un’idea nata dalle menti di Keith
Bonsor (v.ch.ts.) e di Pete Brewer (bt.ts.), con John Truba (ch.v.) e Barry Skeels (bs.v.). Il
gruppo gode di un breve momento di gloria quando accompagna i Cream per qualche data
inglese, e proprio dal vivo esprime i contenuti di maggior interesse proponendo spettacoli
selvaggi, con l’ausilio di effetti speciali, di luci stroboscopiche, con la messa in scena di rituali
satanici e altre trovate da film dell’orrore, il tutto sostenuto da un rock maniacale.
Gli Zior ottengono un contratto discografico dalla Nephenta, la nuova etichetta progressiva
fondata da Larry Page (manager dei primi Kinks e dei Troggs), che concede un piccolo spazio
anche a Dulcimer e Earth and Fire ; l’omonimo LP d’esordio (giugno ’71) è orientato ad un
suono duro e legnoso, con connotati dark (I really do, Your life will burn), non particolarmente
fantasioso ma neppure disprezzabile. A sprazzi affiorano elementi psichedelici e progressivi
(New land) che rendono la musica del gruppo più varia e, al tempo stesso, confusa. Il
fallimento della Nephenta porta con sé anche quello degli Zior che poco più avanti
contribuiscono alla realizzazione di un altro illusorio lavoro, accreditato come Monument.
Un doveroso riconoscimento ai Third World War, oggi dimenticati da tutti ma ancora
attuali in virtù della serietà dimostrata, credibili in quanto incapaci di attribuire una bella
facciata di comodo alla propria musica, fieri sostenitori di un rock da combattenti di razza,
stradaiolo e a suo modo poetico.
Il gruppo prende forma all’inizio del 1970, atteggiandosi a nucleo aperto ad una moltitudine
di collaborazioni con alla base Terry Stamp (ch.v.), Jim Avery (bs.) e Fred Smith (bt.). Per
l’omonimo album d’esordio, registrato nell’autunno del ’70, i Third World War s’avvalgono
della chitarra solista di Mick Lieber e delle prestazioni al piano di Tony Ashton. Ascension
day è ruvida, rauca, pura carta vetrata strofinata sulle corde vocali e della chitarra, quasi un
esempio di perfetta, epica sintesi punk sei anni prima. E’ un suono povero, che si sistema
lontano anni luce dai lustrini e dalle tentazioni del music business, quello che unisce la lunga
M.I.5’s alive alla scarna Teddy teeth goes sailing, l’intransigente Working class man alle parti
intrise di consapevolezza di Stardom road. Shepherds bush cowboy (con il piano di Ashton)
coglie la sana essenza del rock’n’roll venato di R & B e Preaching violence (ancora con
Ashton) anticipa durezze che saranno, debitamente levigate e ricondotte entro i termini del
gioco, tipiche in certo rock della metà dei Settanta (Mott The Hoople). I Third World War
hanno vita breve, giusto il tempo di registrare II (Track-1972) con il batterista Craig Collinge
e di salutare la compagnia nel 1973.
Seasons They Change
le contaminazioni del folk inglese
Le radici dell’espressione progressiva del rock inglese risiedono senza dubbio negli stili
musicali importati dagli Stati Uniti da parte dei complessi del beat e del blues revival. Non
sono questi, però, gli unici elementi a provocare la caratterizzazione del suono : la cultura
classica europea è alla base dello sviluppo di un filone rock definito romantico / sinfonico, così
come la cultura della tradizione popolare inglese, scozzese e irlandese determina la nascita di
un’originale rappresentazione musicale riconducibile alla spesso abusata marca del folk rock.
Senza voler entrare nel merito della storia e degli aspetti della musica popolare britannica, in
questa occasione importa rivolgere l’attenzione alla contaminazione, alla fusione di matrici e
stili diversi, spesso anche solo alla colorazione che il suono ricava a seguito del contatto con la
materia.
- 20 Sicuramente il più importante gruppo del folk rock inglese, i Fairport Convention
nascono nel novembre 1967 dall’evoluzione dei Tim Turner’s Narration. La formazione è
imperniata sulle chitarre di Richard Thompson e Simon Nicol, sulle voci di Ian Matthews e
Judy Dyble, con il basso di Ashley Hutchings e la batteria di Martin Lamble (succeduto a
Shawn Frater, presente solo sul singolo d’esordio).
Il complesso, sotto la produzione di Joe Boyd, registra all’inizio del ’68 il primo album
omonimo (per la Polydor) e si muove nel panorama dell’underground londinese, suonando
all’UFO e al Middle Earth.
Nel maggio dello stesso anno la Dyble lascia i Fairport per formare i Trader Horne, con l’ex
Them Jackie McAuley : l’effimera formazione incide nell’agosto del ’69 l’unico LP Morning
way (Dawn-1970), un lavoro abbastanza originale con influenze folk, per poi sciogliersi nella
primavera del ’70. In sostituzione della Dyble arriva Sandy Denny (via Strawbs), destinata a
divenire personaggio centrale nella scena del folk inglese. Il suo apporto compositivo e vocale
si rivela importantissimo sin da What we did on our holidays (Island - gennaio ’69) ; sotto
l’aspetto creativo la Denny si limita al delicato, dolce arpeggio della bellissima Fotheringay,
mentre la sua stupenda voce segna in modo indelebile le canzoni di un gruppo che è ancora
alla ricerca di una precisa definizione stilistica. L’album è un collage valido ma alquanto
disorganico di brani di varia estrazione, con i Fairport Convention che passano
disinvoltamente dalla tenue melodia della citata Fotheringay al rock blues di Mr. Lacey, da
pezzi dal sapore americano d’ispirazione country folk (Meet on the ledge, le cover di I’ll keep it
with mine - Dylan - e di Eastern rain - Mitchell) a tradizionali quali Nottamun town e il classico
irlandese She moves through the fair, reso in un’ottima interpretazione dalla chitarra di
Thompson e dalla magica voce della Denny.
Contemporaneamente alla pubblicazione del disco il cantante Ian Matthews abbandona per
formare i Matthews Southern Comfort, con alla base un suono decisamente orientato verso
un country folk di matrice americana. I cinque componenti rimasti registrano le canzoni da
inserire nel nuovo album con l’aiuto esterno del violinista Dave Swarbrick e, in piccole parti,
dello stesso Matthews e di Trevor Lucas.
Unhalfbricking (luglio ’69, sempre prodotto da Boyd) si conferma legato ad un suono di
prospettiva USA, con ben tre versioni di brani di Bob Dylan, Si tu dois partir (riedizione in
francese di If you gotta go, go now) che vale un eccellente piazzamento nella top ten dei singoli,
Percy’s song e Million dollar bash. Thompson è responsabile della bella Genesis hall e del
gioioso rock’n’roll di Cajun woman, la Denny regala momenti intensi con le ballate di Autopsy,
dal soffuso profumo di estati californiane, e di Who knows where the time goes. Episodio
centrale del disco è la lunga, emozionante cavalcata di A sailor’s life che muove da rarefatte
atmosfere per acquisire un crescente peso strumentale ; l’arrangiamento di questa canzone
tradizionale, con l’atteggiarsi degli strumenti ai modi della jam rock, si rivela decisivo per la
definizione del tipico stile Fairport Convention, traccia base di grande importanza per tutto il
movimento folk a carattere progressivo.
FAIRPORT CONVENTION
-
LIEGE & LIEF
(Island - 1969)
Subito prima della pubblicazione di Unhalfbricking il batterista Martin Lamble rimane ucciso
in un incidente stradale ; il gruppo reagisce alla sventura aggregando nei due mesi successivi
il violinista Dave Swarbrick (già presente sul disco, ex Ian Campbell Group) e il nuovo
batterista Dave Mattacks, capace di calarsi perfettamente nei non facili equilibri ritmici del
complesso.
I tempi sono maturi per ottenere un grande risultato e puntualmente questo si verifica
quando, alla fine del 1969, viene dato alle stampe l’album Liege & lief, giustamente
considerato il capolavoro del folk rock inglese. Tale definizione appare perfino riduttiva
perché il lavoro è, prima di tutto, un disco profondo, sincero, umano, vero, che trascende ogni
catalogazione e ancora oggi non ha smarrito la struggente poesia della quale a suo tempo fu
nutrito. Essendo presenti ben cinque brani tradizionali il disco risulta, tra i primi lavori dei
Fairport Convention, quello che maggiormente s’avvicina all’ispirazione popolare e pure
appare come il più sperimentale e carico di novità.
L’originale violino di Swarbrick e le chitarre a forti tinte rock dominano Come all ye, una
canzone limpida e lineare, ben controllata dalla voce della Denny. Reynardine è magica ;
l’estatico, meraviglioso canto di Sandy crea profonde suggestioni, sospeso sulle placide onde
delle chitarre, del tenue violino, delle percussioni.
I Fairport raggiungono vertici espressivi impensabili solo pochi mesi prima ; il dolce respiro
di Reynardine si dissolve nella quadrata struttura di Matty groves che recupera e spazia i
concetti di A sailor’s life, attribuendo al suono una solidità ancora superiore. L’enfasi ritmica,
gli improvvisi cambi di tensione, la padronanza strumentale sempre al servizio della globalità
del risultato finale fanno di Matty groves uno degli attimi di massimo splendore della musica
del gruppo.
The deserter s’affida ad una linea melodica nitida, supportata da atipiche soluzioni ritmiche,
l’arrangiamento della bellissima Tam lin è sottolineato da chitarre insolitamente dure e
dall’insistente ripetitività del tema dominante, elementi che donano alla canzone un carattere
teso e drammatico. L’unico episodio che non s’avvale delle notevoli prestazioni vocali di
Sandy Denny è il Medley, costituito da quattro frammenti strumentali che rappresentano una
piacevole incursione nel campo della musica popolare da ballo, con Swarbrick in gran risalto.
In conclusione dei lati dell’album Farewell, farewell e Crazy man Michael, due canzoni
originali, melodiche e delicate, dipinte dalla voce di Sandy Denny.
Nel corso delle registrazioni di Liege & lief il gruppo incide anche una versione del brano dei
Byrds The ballad of easy rider, che non viene inclusa nel disco, forse per evitare d’incrinare la
particolare atmosfera creatasi. Il pezzo sarà recuperato sull’album di Richard Thompson
Guitar, vocal (2 LP Island-1976) che contiene altri inediti dei Fairport Convention, tra cui un
brano residuale delle sessioni del successivo album Full house.
Nonostante l’interesse sollevato e la qualità eccelsa della musica Liege & lief vende
relativamente poco, sicuramente molto meno di quanto avrebbe meritato. Hutchings
preferisce lasciare per dedicarsi al progetto Steeleye Span e subito dopo se ne va anche la
Denny, che appronta i Fotheringay e si dedica alla carriera solista.
A queste pesanti perdite il gruppo fa fronte ingaggiando il bassista Dave Pegg (già con
Swarbrick nello Ian Campbell Group) e decidendo di non sostituire la cantante, puntando su
una musica asciutta ed essenziale espressa al meglio nel disco del 1970, Full house. Certo è
andata persa l’impalpabile magia sonora del capolavoro precedente, i Fairport si sfogano con
le chitarre al vento, con le evoluzioni del violino e una ritmica concisa e puntuale. Molto
buone sono le composizioni originali, le spigliate Walk awhile, Doctor of physick e soprattutto
la lunga e sofferta ballata di Sloth, canzoni in perfetta sintonia con il materiale tradizionale
che comprende gli ottimi strumentali Dirty linen e Flatback caper, le piacevoli Sir Patrick
Spens e Flowers of the forest.
Lo stesso organico di Full house è responsabile di un eccellente disco registrato dal vivo al
Troubador di Los Angeles nel corso di un tour negli Stati Uniti, album inspiegabilmente
pubblicato solo nel 1976 (Live at L.A. Troubador - Island). Nel gennaio del ’71 i Fairport
Convention perdono per strada anche Richard Thompson, certamente il musicista cardine
della formazione fino a quel punto, che intraprende una proficua carriera solista (inizialmente
con la moglie Linda) e diventa un apprezzato sessionman. L’evento segna la fine del periodo
di maggior creatività del complesso che da questo momento perde in freschezza e lucidità,
continuando in ogni caso ad incidere con regolarità.
Angel delight (Island-1971) è nettamente inferiore ai lavori precedenti, mentre il successivo
Babbacombe Lee (Island-1971) si confonde nelle ambizioni da disco concept ; nel corso degli
anni si susseguono i cambiamenti d’organico, arrivano gli ex Fotheringay Trevor Lucas e
Jerry Donahue, per un attimo torna Sandy Denny, ma i vertici del passato non vengono
neppure sfiorati.
La dignità, quella si, rimane.
A differenza dei Fairport Convention che iniettano la tradizione folk su solide basi rock, i
Pentangle evolvono il loro credo musicale mischiando disinvoltamente l’ispirazione popolare
con il jazz e il blues, come ben dimostrano i lavori più indicativi del gruppo, Sweet child e
Cruel sister.
Bert Jansch e John Renbourn, chitarristi allievi di Davy Graham, sono tra gli esponenti
importanti del folk inglese e sin dalla metà degli anni Sessanta iniziano una prolifica carriera
come solisti. Nel 1966 i due collaborano per la realizzazione dell’ottimo Bert & John
(Transatlantic-1966) e alla fine dell’anno successivo decidono d’unire stabilmente le forze in
un nucleo che chiamano Pentangle. Con loro sono la cantante Jacqui McShee, già
collaboratrice di Renbourn, Danny Thompson (cb.) e Terry Cox (bt.), provenienti dalla Blues
Incorporated di Alexis Korner.
Dopo la pubblicazione di un buon disco d’esordio (Pentangle, Transatlantic-1968, con la
produzione di Shel Talmy) il gruppo raggiunge elevati livelli espressivi con il doppio Sweet
child (sempre nel ’68 e ancora prodotto da Talmy), proponendo un folk jazz blues di notevole
qualità. L’album si compone di un disco registrato dal vivo alla Royal Festival Hall di Londra
nel giugno del ’68 e di una parte realizzata in studio nell’agosto seguente.
Dal vivo risalta la limpida bellezza di Market song, che svaria su tempi complessi, dei brevi
frammenti che compongono le Three dances, del duetto di chitarre di No exit (dal long playing
Bert & John), del tradizionale inglese di Bruton town. Toccante è la poesia di A woman like
you, una canzone scritta e interpretata dal solo Jansch. Lo spiritual di No more my Lord e il
blues di Turn your money green sono brillanti sul piano strumentale, con la voce della McShee
precisa ma poco adatta alla materia, certamente più a suo agio nella canzone scozzese So early
in the spring. Presenti due brani di Charles Mingus, Haitian fight song in un’interpretazione
di Danny Thompson e il classico tributo a Lester Young di Goodbye Pork-Pie hat. Non meno
interessante il materiale di studio che presenta una rifinitura sonora estremamente curata.
Ancora grande musica in Sweet child, nella cameristica Three part thing, nei briosi strumentali
In time e Hole in the coal, nelle linee melodiche della bella The trees they do grow high (ripresa
da Angelo Branduardi - Gli alberi sono alti), nel suono ancestrale delle percussioni di Cox in
Moon dog.
PENTANGLE
-
CRUEL SISTER
(Transatlantic - 1970)
A seguito della notevole prestazione di Sweet child, i Pentangle incidono un terzo album
(Basket of light, Transatlantic-1969) che permette al gruppo d’ottenere un discreto successo
commerciale, piazzando ben due singoli in classifica.
Il capolavoro resta Cruel sister, il 33 del 1970, tutto imperniato su materiale tradizionale
arrangiato con maestria ed interpretato con sopraffina duttilità strumentale. A maid that’s
deep in love colpisce per l’intreccio delle chitarre, acustica ed elettrica, di Renbourn, con il
dulcimer di Jansch e la soave voce della McShee che subito dopo s’esibisce nel canto solitario
di When I was in my prime. Lord Franklin è una canzone eseguita da Renbourn con l’ausilio
della concertina di Jansch e delle armonie vocali di Jacqui McShee. La chitarra di Jansch e la
celebre nenia vocale fanno di Cruel sister un piccolo classico, al quale il sitar di Renbourn
attribuisce un sapore insolito, che vagamente richiama il folk hippie della Incredible String
Band. Il compendio delle intenzioni si concentra nei quasi venti minuti di Jack Orion, che
attraversa i modi della canzone popolare con la consueta visuale jazz - blues, dilatando il
tempo e lo spazio ai limiti estremi con un approccio affine alle lucide sintassi dei primi
Grateful Dead.
Il gruppo gode di buona popolarità, nell’agosto del ’70 partecipa al festival dell’isola di
Wight, ma le possibilità espressive sono già state completamente sviscerate e gli ultimi dischi,
Reflection (Transatlantic-1971) e Solomon’s seal (Reprise-1972), non aggiungono nulla a
quanto affermato in precedenza. Così, nel marzo del 1973, Jansch e Renbourn pongono fine
all’esistenza dei Pentangle per tornare ad occuparsi delle rispettive carriere solistiche.
Distante sia dalle quadrate strutture ritmico melodiche dei Fairport Convention, sia dal
preziosismo strumentale dei Pentangle, la Incredible String Band nasce nel 1965 su impulso di
Mike Heron e di Robin Williamson, polistrumentisti e soprattutto hippie per vocazione.
Associati a Clive Palmer, nei primi tempi i musicisti agiscono nella zona di Glasgow e nel 1966
(per l’etichetta Elektra) incidono l’omonimo album d’esordio. Con la produzione di Joe Boyd,
la cui collaborazione proseguirà fino al 1970, la Incredible String Band propone una musica
acustica fortemente legata alla tradizione, che solo marginalmente lascia trasparire la
prossima tendenza per un folk libero da schemi e preconcetti d’ordine formale.
INCREDIBLE STRING BAND
-
THE HANGMAN’S BEAUTIFUL DAUGHTER
(Elektra - 1968)
A seguito del rapido abbandono di Palmer, Heron e Williamson mettono a punto uno stile
originale, una sorta di caleidoscopio musicale variopinto e bizzarro. 5000 spirits or the layers
of the onion (Elektra-1967) tenta d’affermarsi con improbabili country blues e ballate
stralunate, il seguente The hangman’s beautiful daughter proietta il duo verso una buona
notorietà nell’ambiente underground. All’album partecipano le ragazze dei due musicisti,
Likky e Rose, presenti sui dischi successivi con organo e basso.
Sin dall’iniziale Koeeoaddi there la Incredible String Band esibisce le strane, immaginarie
linee che uniscono tradizione popolare britannica e misticismo orientale, stupende melodie
perse nel tempo e anomale particelle sonore che si fondono e si scompongono con continuità
sorprendente. The minotaur’s song pare nutrirsi della medesima scienza che illumina le visioni
schizoidi di Syd Barrett. I cori assurdi e i modi sgarbati di Swift as the wind contrastano (ma
solo in apparenza) con il raffinato lirismo di Waltz of the new moon, con la poetica The water
song, con il sogno sfuggente di Nightfall.
Davvero non si capisce quale preponderante fonte d’ispirazione permetta ai musicisti di
generare un affresco sonoro quale A very cellular song, dove si mischiano echi folk, blues,
gospel, classicismo barocco, Donovan forse. Verrebbe quasi voglia di parlare di musica totale,
se con questo abusato termine spesso non si cercasse di celare la mancanza d’ispirazione e la
confusione creativa. Diciamo allora musica free form, libera da ogni condizionamento, pura
nell’essenza primordiale del suono, concepita ed eseguita per il piacere di esserlo.
I dischi si susseguono a ritmo serrato con risultati altalenanti, senza che la Incredible String
Band riesca a rinnovare la vena migliore dell’ispirazione ; degno di menzione il doppio Wee
tam and the big huge (Elektra-1968), che contiene la bellissima The circle is unbroken. Nel
1970 il gruppo chiude la collaborazione con la Elektra (passerà alla Island) approntando un
ambizioso spettacolo che diventa anche un doppio LP, U. Il fallimento del progetto e
l’inesorabile calo d’interesse nei confronti della proposta musicale della Incredible String
Band non precludono alla formazione di continuare a pubblicare alcuni lavori dignitosi fino al
novembre del ’74, quando Heron e Williamson decidono di proseguire ognuno per la propria
strada.
- 21 Dave Cousins e Tony Hooper formano gli Strawberry Hill Boys nel 1967 ; all’inizio
dell’anno seguente, raggiunto dal bassista Ron Chesterman e dalla cantante Sandy Denny, il
gruppo cambia nome in Strawbs e si reca in Danimarca per registrare con un batterista locale
(Ken Gudmond) un album che resta inedito fino al 1973. Nel maggio del ’68 la Denny lascia
gli Strawbs per entrare nei Fairport Convention ed iniziare una folgorante carriera nel
panorama del folk rock.
Cousins e Hooper rifondano il complesso, aggregando la sezione ritmica degli Elmer Gantry’s
Velvet Opera (John Ford - bs. - e Richard Hudson - bt. - due LP all’attivo alla fine dei
Sessanta) e il giovane tastierista Rick Wakeman, formatosi su studi classici alla Royal
Academy of Music. Così gli Strawbs, nel 1969, possono finalmente effettuare il vero esordio
discografico (Strawbs, A&M) e replicare nel 1970 addirittura con due LP sempre per la A&M,
Dragon fly (al quale partecipa la violoncellista classica Claire Deniz) e Just a collection of
antiques & curious, registrato dal vivo nel luglio ’70 alla London Queen Elizabeth Hall.
Il gruppo fonda la propria musica sull’ispirazione trasognata, quasi mistica, di Dave Cousins,
con canzoni per la maggior parte poggiate su un’intelaiatura acustica, rifinita dagli interventi
delle tastiere di Wakeman non ancora in fase di sproloquio strumentale.
From the witchwood, registrato all’inizio del 1971, è il frutto migliore fino a quel momento,
con le belle A glimpse of heaven, Witchwood, Flight, In amongst the roses, la più complessa The
shepherd’s song ; The hangman and the papist e Sheep risentono in modo netto della
commistione con il rock romantico e progressivo dell’epoca, fornendo importanti spunti per il
successivo Grave new world.
STRAWBS
-
GRAVE NEW WORLD
(A&M - 1972)
Dopo le registrazioni di From the witchwood, Rick Wakeman decide che per lui è arrivato il
tempo della raccolta ed accetta l’invito a sostituire l’organista Tony Kaye nei lanciati Yes.
Cousins si dedica alla realizzazione di un ottimo lavoro come solista (Two weeks last summer,
A&M-1972) e provvede all’avvicendamento di Wakeman, chiamando l’ex tastierista degli
Amen Corner, Blue Weaver.
L’atmosfera di Grave new world, registrato nel novembre del ’71, è intrisa di misticismo e la
musica appare decisamente votata ad aspetti romantico - progressivi. Benedictus ha le
movenze della ballata folk, percorsa dalle tastiere sinfoniche di Weaver e caratterizzata
dall’epico canto corale (con Trevor Lucas e Anne Collins) ; questo vale anche per la bella The
flower and the young man, introdotta da un suggestivo coro a cappella. Il piacevole scorrere di
Queen of dreams è interrotto da una parentesi rumorista ; a tratti la canzone ricorda
soluzioni strumentali in stile Jethro Tull (modello Thick as a brick), pur mantenendo una
propria originalità di base. New world è un girone infernale, durissima nelle intenzioni la voce
di Cousins, sinfonica nell’impostazione la musica, con il mellotron in grande evidenza ;
Tomorrow riconduce a trame care ai Jethro Tull e per l’occasione Cousins sfodera una
ficcante chitarra elettrica.
Il folk acustico trova saltuario spazio nei brevi frammenti di Hey, little man..., nelle brillanti
songs di Heavy disguise (Ford) e di On growing older (Cousins), echeggia lontano
nell’orientaleggiante Is it today, Lord ? (Hudson) e nella classica ballata di The journey’s end.
Tutto sommato, con il loro folk barocco e romantico, gli Strawbs escono positivamente dalla
prova, in una stagione dove già s’avverte aria pesante di recessione creativa, nell’ambito del
rock sinfonico. Grave new world è in ogni caso l’ultima opera importante del gruppo, che
subito dopo perde il defezionario Hooper ; al suo posto arriva il chitarrista David Lambert,
reduce dalla poco fortunata esperienza dei Fire e vecchio amico di Cousins. Nel 1973 lasciano
pure Hudson e Ford, che proseguono insieme per qualche anno, e la musica diventa sempre
meno interessante, conducendo gli Strawbs ad un rapido declino di credibilità.
Tra i gruppi dediti ad un folk rock pulito e lineare, senza eccessive pretese, uno dei migliori
è quello dei Magna Carta, nato alla fine degli anni Sessanta attorno alle figure del cantante
Glen Stuart e del chitarrista Chris Simpson. Se paragonati ad alcune formazioni loro
contemporanee, quali i graziosi ma scarsamente incisivi Amazing Blondel (Evensong, Island1970), i timidi e commerciali Lindisfarne di Alan Hull (Fog on the Tyne, Charisma-1971), i
Magna Carta possono mettere sul piatto della bilancia (almeno su Seasons, Vertigo-1970, la
prova più convincente) un suono controllato e abbastanza variegato, strutturato su ballate
impreziosite da buoni contributi strumentali (Rick Wakeman, Tony Carr, Davy Johnstone) ed
orchestrali. In questa musica non c’è traccia di sperimentazione o di soluzioni azzardate, però
non dispiace l’equilibrio formale di brani come Airport song e della lunga suite ‘delle stagioni’,
che s’avvalgono di arrangiamenti ricondotti ad una corretta dimensione complementare.
Ben altri risultati sono in grado di raggiungere i Fotheringay, in teoria la formazione
ottimale per Sandy Denny.
Dopo l’effimera apparizione d’inizio carriera negli Strawbs e in seguito all’esperienza
esaltante con i Fairport Convention, la Denny nel 1970 è giustamente annoverata tra i
protagonisti fondamentali della scena folk rock inglese. Nel marzo dello stesso anno nascono i
Fotheringay, con il chitarrista Jerry Donahue e il bassista Pat Donaldson (provenienti dai
Poet & One Man Band, un LP nel ’69) e con il cantante / chitarrista Trevor Lucas (che nel
1973 diventerà marito della Denny) e il batterista Gerry Conway, entrambi ex Eclection
(anche per loro un LP, nel ’68).
FOTHERINGAY
-
FOTHERINGAY
(Island - 1970)
Pur essendo la figura più nota ed importante, Sandy Denny non monopolizza la musica del
gruppo, raffinata ma fondamentalmente semplice, caratterizzata da una notevole brillantezza
strumentale, nella quale sentimento, intensità, trasporto emotivo sono le virtù principali.
La cantante apporta quattro composizioni personali. Nothing more è stupenda ; la canzone,
interpretata con passione ineguagliabile dalla Denny, si risolve in un flusso continuo di
raffinate sonorità incastonate in una limpida melodia folk. La sua voce accarezza le pacate
armonie di The sea, guidata dalla precisa chitarra di Donahue, colora la cristallina poesia di
Winter winds, sublima la narrazione di The pond and the stream.
Lucas imposta The ballad of Ned Kelly e Peace in the end con sicuro passo cadenzato e il
gruppo conferma un’elevata capacità strumentale, mostrando notevole coesione in brani
orecchiabili ma di buon gusto. Molto bella è la versione corale di The way I feel di Gordon
Lightfoot, che ricorda da vicino l’approccio vocale di certi gruppi della California fine anni
Sessanta (It’s a Beautiful Day), coinvolgente è Too much of nothing, immancabile cover di un
brano di Dylan. Il tradizionale Banks of the Nile, arrangiato dalla coppia Denny / Lucas,
chiude degnamente l’eccellente unico lavoro dei Fotheringay che pochi mesi più tardi, nel
corso delle registrazioni di un secondo album mai completato, pongono fine alla breve
avventura.
Sandy Denny intraprende la carriera come solista, pubblicando nel ’71 l’ottimo The north star
grassman and the ravens che, seppur inferiore, si avvicina molto al repertorio stilistico dei
Fotheringay, presenti al completo alle registrazioni del disco. Tra i brani significativi
dell’album, al quale partecipano pure Richard Thompson, Tony Reeves (Colosseum), Ian
Whiteman e Roger Powell (Mighty Baby), vanno ricordati Late november, una ballata dalle
struggenti linee melodiche nella migliore tradizione della Denny, la tradizionale
Blackwaterside, la marziale John the gun e le autunnali The north star grassman and the ravens
e Next time around.
A questo primo lavoro seguono i validi Sandy (Island-1972), Like an old fashioned waltz
(Island-1973) e l’atipica esperienza di The Bunch, estemporaneo incontro di musicisti, per la
maggior parte del giro Fairport Convention, che frutta Rock on (Island-1972), imprevedibile
ritorno alle radici del rock’n’roll scatenato degli anni Cinquanta.
La carriera della Denny appare in fase calante ; nel ’74 la cantante effettua un breve rientro
nei Fairport Convention per un paio di LP e nel ’77 pubblica l’ultimo lavoro, Rendezvous,
come sempre per la Island. Il 21 aprile 1978 è una data triste da ricordare : una banale caduta
dalle scale le procura un’emorragia cerebrale e la porta via, sicuramente per il paradiso.
Altro personaggio di notevole rilevanza del folk rock inglese, Ashley Hutchings (come la
Denny) lascia i Fairport Convention subito dopo la pubblicazione del capolavoro Liege & lief,
alla fine del 1969. Il passo successivo è la creazione degli Steeleye Span, con la cantante
Maddy Prior, Tim Hart (ch.v.) e i coniugi Gary e Terry Woods, provenienti dagli Sweeneys
Men. Il gruppo incide Hark the village wait (RCA-1970), album interamente e rigorosamente
basato su materiale tradizionale ; quest’aspetto viene confermato anche nei lavori seguenti,
sia pure con qualche timida concessione verso sonorità elettriche. Molto belli sono Please to
see the king (B&C-1971) e soprattutto Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again
(Pegasus-1971), che appare il disco più riuscito del primo periodo. Il programma prevede
gighe, reels e canzoni quali Gower wassail, che alterna cori a cappella ad un incedere marziale,
le belle When I was on horseback (lenta e rarefatta) e Captain Coulston.
Quando vengono incisi questi due album gli Steeleye Span hanno già perso per strada i
Woods, e al loro posto troviamo Martin Carthy (ch.v. - autore sin dal ’65 di una lunga serie di
dischi solistici) e il violinista Peter Knight. Nel 1972 il fondatore Ashley Hutchings preferisce
lasciare il gruppo per dedicarsi ad una nuova creatura, la Albion Country Band, alla quale
poi s’aggregherà lo stesso Carthy.
STEELEYE SPAN
-
BELOW THE SALT
(Chrysalis - 1972)
Gli Steeleye Span si assestano definitivamente con i nuovi Robert Johnson e Rick Kemp (fino
a quel momento stretto collaboratore di Michael Chapman). Il primo risultato del nuovo
corso è Below the salt, un disco controverso che rispetto al passato presenta un suono
notevolmente orientato al rock, ma che non per questo rinnega l’aspetto tradizionale della
musica del gruppo ; si tratta di un riuscito momento d’incontro tra musica popolare (tutto il
materiale è ancora d’epoca) e la propensione ad un’espressione che tiene maggior conto del
numero di copie vendute. Purtroppo, per gli Steeleye Span Below the salt è anche un punto di
non ritorno, un precedente di successo che induce la formazione a svilire i contenuti della
proposta musicale alla ricerca di una costante conferma commerciale. In ogni caso l’album è
opera degna, in parte pregevole, che pure riflette una certa freddezza stilistica tipica del
complesso.
La voce della Prior è sicura, ineccepibile sotto l’aspetto formale, ma manca della calda
passione che consente a Sandy Denny di volare ben più in alto ; la strumentazione è
impeccabile anche se non lascia trasparire spunti particolarmente fantasiosi. La gelida King
Henry presenta un incedere deciso, la chitarra è più elettrica che mai e Knight orchestra i
violini concedendosi qualche licenza espressiva. Molto belle pure Sheepcrook and blackdog e
Saucy sailor, che sfrutta un arrangiamento facile e ammiccante senza perdere la vena
romantica. Rosebud in june e l’inno sacro di Gaudete (pubblicato con successo su singolo) sono
maestosi canti a cappella. Le gighe di The bride’s favourite e di Tansey’s fancy, le graziose
Spotted cow e John Barleycorn, la gioiosa Royal forester completano degnamente un album che
merita rispetto e considerazione.
I dischi successivi incrementano il successo degli Steeleye Span, ma la qualità del materiale si
dimostra in rapido ed evidente calo ; da Now we are six (Chrysalis-1974), prodotto da Ian
Anderson dei Jethro Tull, trova posto in organico il batterista Nigel Pegrum, e in quel long
playing appare persino David Bowie al sassofono...davvero un’altra musica. Nonostante
l’ingloriosa svolta i primi album rimangono, senza dubbio, degni di una collocazione ai vertici
del movimento folk rock.
Dalla terra d’Irlanda gli Horslips, una buona ma non eccelsa formazione che rivisita in
maniera elettrica e con arrangiamenti elaborati la musica tradizionale dei propri luoghi
d’origine. Il gruppo prende forma a Dublino nel 1970 ed inizialmente si schiera con il
chitarrista Declan Sinnot (nei primi anni Ottanta sarà con i Moving Hearts), Charles
O’Connor (vi.mn.), Jim Lockhart (fl.ts.), Barry Devlin (bs.v.) e Eamon Carr (bt.). Sinnot
viene presto sostituito da Gus Guiest e alla fine il posto di chitarrista spetta, in via definitiva, a
John Fean.
Dopo un paio di 45 giri di discreto successo gli Horslips registrano il primo LP Happy to meet
sorry to part, che nel 1973 ottiene ottimi riscontri di vendita. Il disco è il più rappresentativo
della folta discografia ed esplica le soluzioni sonore care agli Horslips, forse non troppo
originali per via del facile (e ingeneroso) paragone con i Jethro Tull, comunque accettabili e
non forzatamente commerciali, almeno nei primi due lavori. Piace la vena strumentale di The
musical priest, di Hall of mirrors, di The clergy’s lamentation, della bella ballata di Furniture,
dell’aria popolare di The shamrock shore. Bon istgh ag ol, in effetti, presenta uno stile non
distante da quello del gruppo di Ian Anderson, ma nel complesso il disco non dispiace.
Nell’autunno del ’73 gli Horslips vanno in tour con gli Steeleye Span e poco dopo pubblicano
il secondo album The tain (Oats-1973), che si propone come opera concept senza sostanziali
modifiche sul piano stilistico (Charolais, Cu chulainn’s lament / Faster than the hound).
Nei primi due lavori sono concentrate le migliori intuizioni degli Horslips, che in seguito
spostano il baricentro musicale verso forme ancora più rock e di minore personalità,
disperdendo buona parte dell’interesse inizialmente suscitato.
- 22 Numerose formazioni poco conosciute dal grande pubblico si agitano nel panorama
underground offrendo un sottovalutato, quasi sempre fuggevole ma anche originale,
contributo ad un rock d'ispirazione folk. Tra queste, i Foresters of Walesby nascono nel 1967
dall’unione dei fratelli Martin e Hadrian Welham con Derek Allenby, tutti polistrumentisti. Il
gruppo, mutato il nome in Forest, firma un contratto discografico con la Harvest che frutta la
pubblicazione di un singolo e dell’album omonimo, prodotto nel 1969 dal manager dei primi
Pink Floyd, Andrew King.
FOREST
-
FOREST
(Harvest - 1969)
Interamente composti dai tre musicisti, i brani dei Forest sono costruiti su arrangiamenti
piuttosto originali e bizzarri, con improvvisi cambi di umore e di tempi, sorretti da un
approccio strumentale complesso ed articolato, solo in apparenza trasandato. La proposta dei
Forest è avvicinabile a quella della Incredible String Band anche per le strane, atipiche
armonie vocali ; il gruppo si ferma però all’aspetto esteriore e superficiale delle canzoni,
magari rese in modo informale, mancando del surrealismo, del fervore sperimentale e
visionario di un’opera quale The hangman’s beautiful daughter.
Filastrocche dall’incedere obliquo (Bad penny, While you’re gone), canzoni cariche d'inatteso
lirismo (A glade somewhere, Don’t want to go), limpide e suggestive ballate sempre pronte a
stupire per l’elasticità della struttura (Lovemakers’ ways, Sylvie, Rain is on my balcony) ; in
Mirror of life si assiste ad un piccolo delirio sulla stessa lunghezza d’onda di Peter Hammill e
l’emozionante Fading light conquista uno spazio nel cuore per via dell’ottimo lavoro alle
chitarre e per la bella melodia della voce di Hadrian Welham.
Il gruppo suona ovunque gli sia offerta la possibilità, acquisendo una certa notorietà anche in
continente. Nella primavera del 1970 i Forest registrano il nuovo LP Full circle (sempre per la
Harvest), che appare leggermente meglio rifinito, perdendo parte dell’aspetto estemporaneo e
mantenendo pressappoco lo stesso livello qualitativo del disco precedente. Tra i brani migliori
sono da ricordare Hawk the hawker, con la bella steel guitar di Gordon Huntley dei Matthews
Southern Comfort, l’aggraziata ballata pianistica di The midnight hanging of a runaway serf,
l’accattivante linea melodica di Do not walk in the rain, il classicismo gotico di Graveyard
(quasi una canzone di Paul Roland, venti anni prima).
Ovviamente una simile musica non vende e il destino dei Forest è segnato, senza possibilità
d’ulteriore appello.
Ancora più amara è la storia dei Trees, autori di due splendidi lavori per la CBS nel 1970
che non hanno molto da invidiare ai migliori esempi del folk rock inglese. Nessuno li ha
degnati di uno sguardo, di un tardivo ascolto.
La formazione presenta un organico sul modello dei primi Fairport Convention, con le
chitarre di Barry Clarke e David Costa, una solida sezione ritmica composta dal bassista e
cantante (e principale compositore) Bias Boshell e dal batterista Unwin Brown, con la voce
solista di Celia Humphris. All’inizio del 1970 il gruppo pubblica l’album The garden of Jane
Delawney, che propone materiale tradizionale alternato ad ottime composizioni di Boshell.
Indubbiamente riusciti appaiono gli arrangiamenti della bella melodia tradizionale di The
great silkie, le ottime elaborazioni di Lady Margaret e Glasgerion, l’appassionante rilettura
della classica She moved thro’ the fair, tutti brani caratterizzati da un emozionante suono
elettroacustico che a tratti presenta forti tinte rock.
Tra i brani composti da Boshell spiccano la pacata ballata di The garden of Jane Delawney, la
delicata Epitaph e il canto meravigliato della conclusiva Snail’s lament.
TREES
-
ON THE SHORE
(CBS - 1970)
The garden of Jane Delawney passa pressoché inosservato, ma ugualmente al gruppo viene
concessa una doverosa ulteriore chance ; il secondo On the shore è lo splendido frutto di
alcune sessions dell’ottobre ’70 ai Sound Techniques di Londra, disco che merita d’essere
ricordato tra i più bei lavori del folk rock britannico. Il gruppo appare compatto e convinto
dei propri mezzi, la musica acquista maggior consistenza e sposta l’attenzione verso
un’espressione marcatamente rock. La voce di Celia Humphris, un poco timida e priva della
personalità delle grandi cantanti della scena folk, si difende bene e risulta più sicura e precisa
rispetto all’album precedente.
Soldiers three inaugura il disco con sonorità decisamente elettriche. Murdoch è una notevole
composizione di Boshell, con un’ottima interpretazione della Humphris, chitarre acustiche ed
elettriche a sostenere il ritmo e la melodia. L’attacco della magnifica e fiera Streets of Derry è
quasi hard, la ritmica insistente e mutevole, le chitarre elettriche si distendono verso
drammatici orizzonti rosso fuoco. I Trees sono al massimo delle possibilità espressive, difficile
andare oltre. Sally free and easy (con Tony Cox al basso) ci prova, con un approccio
sussurrato e melodico che spazia in un coinvolgente crescendo strumentale.
La seconda parte del disco appare equilibrata, priva di sbavature, con due buoni originali
quali Fool e While the iron is hot (segnata da un inconsueto arrangiamento di archi e da un
intermezzo rock piuttosto marcato). Ancora prestazioni di rilievo in Geordie e in Polly on the
shore, ancora una volta il disinteresse nei loro confronti.
Ignorati al di fuori della scena underground, ai Trees non resta che rassegnarsi all’ennesimo
beffardo scioglimento.
Due gli album anche per i Dr. Strangely Strange, Kip of the Serenes (Island-1969) e Heavy
petting (Vertigo-1970). In particolare il secondo lavoro, prodotto dall’onnipresente Joe Boyd e
valorizzato dalla bizzarra copertina di Roger Dean, si segnala per una musica che trae spunto
dalla tradizione popolare rivista attraverso atmosfere semplici e di buona presa armonica. La
poetica sincera della loro proposta si riflette in brani di folk dolcemente stralunato (Ballad of
the wasps, Kilmanoyadd stomp) e di frequente subisce decise intromissioni rock : è il caso di
canzoni immediate ed accattivanti come Summer breeze (che contiene un assolo di chitarra in
stile rock blues), la fluida Sign on my mind, le roccate Gave my love an apple e Mary Malone of
Moscow, pezzi nei quali appare l’importante contributo del chitarrista degli Skid Row, Gary
Moore (poi Colosseum II, Thin Lizzy e fortunato solista) e del batterista Dave Mattacks
(Fairport Convention). Alla voce solista si alternano tutti e tre i componenti dei Dr. Strangely
Strange, Jim Goulding (ts.vi.), Jim Booth (ch.bs.) e Ivan Pawle (bs.ts.sf.ch.) ; il loro epitaffio è
il tenero, poetico frammento di Friends. Poi il silenzio.
I nomi del sottobosco folk sono numerosi : la fascinosa C.O.B., gli sconosciuti Dulcimer, la
appena più nota formazione dei Tudor Lodge (un album nel ’70 per la Vertigo, al quale
collaborano Danny Thompson e Terry Cox dei Pentangle) ed altri ancora, tutti superati in
notorietà dai Dando Shaft, un complesso nato nel 1968 dall’ampliamento di un duo folk
composto da Kevin Dempsey (ch.v.) e da Dave Cooper (v.ch.). Con loro finiscono Martin
Jenkins (v.ch.mn.vi.), Roger Bullen (bs.), Ted Kay (pr.) e il gruppo firma per la Young Blood,
la nuova etichetta del produttore Miki Dallon (in catalogo fra l’altro anche gli psichedelici
Julian’s Treatment e gli hard rockers Elias Hulk).
Nel luglio del 1970 viene pubblicato il disco d’esordio, An evening with Dando Shaft, che li
pone all’attenzione degli appassionati del folk inglese. In autunno si aggiunge al gruppo la
cantante Polly Bolton e a metà del ’71 i Dando Shaft giungono alla maturità artistica con il
secondo LP omonimo, edito dall’etichetta Neon. Del complesso non si discutono la vena
limpida e raffinata di canzoni quali Coming home to me e Kalyope driver, la brillantezza del
suono, lo stile rigoroso ed accattivante al tempo stesso ; solo manca un pizzico di coraggio, o
forse la volontà, per generare qualche azzardo geniale, qualche contaminazione meno
ordinaria.
Il lavoro ottiene buone critiche ma vendite scarse, a ben poco valgono i numerosi concerti di
supporto a gruppi quali Pentangle, Brian Auger, e altri come attrazione principale alla
Roundhouse e al Lyceum. Alla fine del ’71 i Dando Shaft registrano Lantaloon, che viene
pubblicato nel ’72 dalla casa madre RCA, ma il successo non arriva e nello stesso anno il
gruppo si scioglie. La Bolton e Dempsey proseguono in duo, Jenkins entra negli Hedgehog Pie
e collabora con Bert Jansch ; nel 1977 l’effimera ricostituzione che frutta l’album Kingdom.
Verso la fine degli anni Sessanta l’ex manager degli Yardbirds Simon Napier-Bell è alla
ricerca di musicisti emergenti per la sua neonata etichetta SNB, quando in Irlanda s’imbatte
in due dotate cantanti, Clodagh Simonds e Alison Williams. Il duo si battezza come Mellow
Candle e nell’agosto 1968, per l’etichetta di Napier-Bell, realizza il singolo Feeling high / Tea
with the sun. Il 45 giri riscuote un insuccesso assoluto, come del resto la stessa casa
discografica che ben presto fallisce.
MELLOW CANDLE
-
SWADDLING SONGS
(Deram - 1972)
Dopo il ritorno in Irlanda, di Clodagh e Alison si perdono le tracce fino all’inizio del nuovo
decennio, quando il nome Mellow Candle torna alla ribalta per alcuni concerti irlandesi. La
formazione si è nel frattempo ampliata, con l’ingresso di David Williams, fratello di Alison, di
Frank Boylan e di William Murray (che vanta una collaborazione con Kevin Ayers). Il
gruppo suona dal vivo di supporto a Horslips, Thin Lizzy, Skid Row e la Simonds partecipa,
alla fine del ’71, in qualità di tastierista al secondo album dei Thin Lizzy.
Nell’autunno dello stesso anno i Mellow Candle firmano per la Decca, che prima pubblica
(per l’etichetta Deram, all’inizio del ’72) il singolo di Silver song / Dan the wing e quindi
l’album Swaddling songs.
La formazione si esprime con delicate, stupende melodie dal
sapore antico, rivisitate con spirito attuale e afflato romantico, come la preziosa Heaven heath,
l’incantevole Sheep season, con le voci di Clodagh Simonds e Alison Williams che s’incrociano
e si rincorrono mirabilmente, in un’estasi sonora alla quale contribuisce una strumentazione
raffinata ed essenziale. La pianistica Reverend sisters e la tenue ballata di Silver song,
entrambe composte dalla Simonds, si associano alla bellissima melodia di Messenger birds
(della Williams) nell’affrontare ed impadronirsi dei fragili, emozionanti equilibri che regolano
questa musica. Anche quando i ritmi si fanno più sostenuti la stesura rimane diretta e
naturale, priva d'artifizi, innocente nel suo profondo romanticismo : The poet and the witch,
Dan the wing, Break your token, Buy or beware, Boulders on my grave s’avvalgono delle
eccellenti capacità strumentali dei musicisti, delle chitarre di David Williams (Lonely man),
della mai invadente sezione ritmica.
Nonostante l’elevata qualità il disco vende pochissimo e davvero non si capisce il perché, dal
momento che la proposta non sottintende ricerche sperimentali, né evidenzia particolari
asperità timbriche. Il finale di partita è già visto, con i Mellow Candle che si dissolvono nel
nulla accompagnati dalla loro eterea musica. Il solo Murray resterà nella scena musicale
apparendo occasionalmente in lavori di Mike Oldfield, Richard & Linda Thompson e Paul
Kossoff.
Per concludere, i Gryphon, una formazione sorta nel 1972, da molti considerata una
fulgida speranza del folk inglese, promessa mantenuta solo in parte a causa di un precoce
decadimento commerciale dopo i primi tiepidi entusiasmi. Richard Harvey (ts.sf.) e Brian
Gulland (sf.), due brillanti studenti del Royal College of Music, si uniscono al chitarrista
Graeme Taylor e al percussionista e cantante David Oberlé con l’obiettivo di realizzare una
musica basata su soluzioni acustiche d’impostazione tradizionale, attraverso una rivisitazione
personale, un atteggiamento estroverso, tutt’altro che cattedratico.
Un buon esempio del loro approccio originario è rintracciabile sul primo album Gryphon
(Transatlantic-1973), nel quale trovano posto aggraziati e stravaganti brani come Sir Gavin
Grimbold, Three jolly butchers, The astrologer, Juniper suite.
Il disco vende abbastanza bene, ma già il secondo LP Midnight mushrumps (Transatlantic1974) evidenzia l’esigenza dei Gryphon di allargare gli orizzonti della loro musica ; di questa
necessità si nutre la lunga suite che titola il lavoro, interessante anche se un poco dispersiva,
apprezzabile ma incapace di mostrare il volto migliore del complesso. Il suono è appesantito
da ambizioni esagerate e non riesce completamente a coinvolgere.
GRYPHON
-
RED QUEEN TO GRYPHON THREE
(Transatlantic - 1974)
In ogni caso la popolarità dei Gryphon è in aumento, grazie anche a numerosi concerti dal
vivo come spalla degli Yes, e il nuovo Red queen to Gryphon three (registrato nell’agosto del
’74) avvicina notevolmente il gruppo a forme di rock progressivo, con largo uso di
strumentazione elettrica.
L’estetismo di Opening move offre la prospettiva del folk ormai completamente assorbito nei
tessuti di una musica che riassume la propria bellezza formale in lunghe e raffinate
composizioni interamente strumentali, di notevole equilibrio stilistico ed estremamente
seducenti, vagamente assimilabili alle prime esperienze di un Mike Oldfield ma dotate di
un’anima più profonda. Second spasm richiama in linea retta i dischi precedenti ma tastiere,
chitarra e ritmica sono ben più presenti e corpose, il contrasto fra strumenti elettrici e d’epoca
crea un singolare fascino e una musica intelligente e divertente.
Lament si basa su una splendida melodia senza tempo, che gli Yes avrebbero pagato a peso
d’oro, e internamente evolve in svariate direzioni dimostrando la poliedricità e la sensibilità di
questi musicisti. La conclusiva Checkmate appare ancora più complessa e moderna nella
scelta dei suoni, senza perdere in immediatezza.
I Gryphon hanno raggiunto i limiti della loro sintesi, l’avventura prosegue ancora (Raindance,
Transatlantic-1975, con Malcolm Bennett - bs.fl. - al posto di Nestor) ma i tempi cambiano
rapidamente e per il gruppo è sempre più difficile confrontarsi con le rinnovate esigenze del
mercato discografico.
Le settimane Astrali e i giorni della Luna Rosa
- 23 Chiusa l’avventura dei Them, il produttore Bert Berns convince Van Morrison a
trasferirsi a New York per registrare alcuni singoli e una serie di canzoni, raccolte su vari
album senza l’autorizzazione dell’artista. Dopo la morte di Berns, l’irlandese trova spazio alla
Warner Bros. e qui inizia una monumentale carriera da solista
VAN MORRISON
-
ASTRAL WEEKS
(Warner Bros. - 1968)
Il vero esordio avviene con Astral weeks, registrato nell’arco di due sessioni di studio
consecutive, per un totale di ben...sedici ore complessive di lavoro, e pubblicato nel novembre
del 1968. I tempi del focoso rhythm & blues dei Them sembrano appartenere alla preistoria :
la musica ora è acustica, fascinosa e romantica, di grande raffinatezza strumentale con
presupposti folk e jazz, arricchita da misurati interventi orchestrali.
Ciò che importa in Astral weeks non sono tanto la bellezza e le soluzioni di ogni singolo
episodio, quanto l’imponente struttura complessiva del lavoro, concepito come una sinfonia
per ‘low budget orchestra’ che si stempera in una sobria atmosfera quasi cameristica. Il solo
brano che in qualche modo si ricorda del R & B originario è The way young lovers do, che
recupera il ritmo confondendolo con chiari riferimenti jazzistici. Le altre (Astral weeks, Beside
you, Cyprus avenue e Madame George le più virtuose) sono canzoni rarefatte ed intense, con
chitarra, flauto, vibrafono, violino, contrabbasso che si alternano alla guida del suono,
duettano, si fondono tra loro creando uno spazio vergine colmato magistralmente dalla voce
di Morrison, caratteristica, forte ed espressiva, capace di assumersi la responsabilità di un
contesto musicale tutt’altro che semplice e accomodante, dando fiato ad una poesia visionaria,
trasognata e nostalgica.
Al disco partecipano musicisti di notevole levatura, tra i quali il chitarrista Jay Berliner (già
collaboratore di Charles Mingus) e il batterista Connie Kay, del Modern Jazz Quartet. Astral
weeks appare momento unico, isolato nella discografia di Van Morrison che nei lavori
successivi solo episodicamente rinverdirà l’approccio stilistico di tale capolavoro.
Nel febbraio1970 Moondance sposta l’accento su un rhythm & blues meno avanguardistico
ma di gran classe ; scompaiono i colori tenui del disco precedente per lasciare spazio a suoni
concisi e diretti, con una sezione ritmica tradizionale e i fiati di Jack Schrorer e Collin Tillton
al posto degli archi. Stoned me, Crazy love, Caravan, Into the mystic sono le fondamenta
dell’impianto sonoro presente e futuro di Van Morrison, e il nuovo corso piace al pubblico
americano che ne decreta il buon successo, al contrario di quanto accaduto al ‘difficile’ Astral
weeks.
La tendenza stilistica è confermata dal meno brillante His band and the street choir (Warner
Bros.-1970) e dal discreto Tupelo honey (Warner Bros.-1971). Tra i dischi dei primi anni
Settanta, di rilievo sono il doppio ...it’s too late to stop now... (Warner Bros.-1974, registrato
dal vivo) e Veedon fleece (Warner Bros.-1974), l’opera che più s’avvicina alle atmosfere di
Astral weeks. La carriera di Van Morrison prosegue senza intoppi sino ai nostri giorni, con
pubblicazioni costanti e irrefrenabili ; per qualcuno è sempre la stessa canzone, per i fans i
capolavori si sprecano.
Philip Donovan Leitch è originario di Glasgow e, a soli diciannove anni, viene già definito il
nuovo Bob Dylan. E’ il primo di un’interminabile serie (che continua ancora oggi) di presunti
discepoli del menestrello di Duluth ma, come spesso accade, l’accostamento con il maestro è
improprio.
Donovan intelligentemente cerca di sfruttare la popolarità derivata dallo scomodo paragone
atteggiandosi a novello folksinger, e una fortunata esibizione televisiva lo pone in condizione
d’incidere nel 1965 una notevole quantità di brani, che vengono raccolti su alcuni singoli e su
due LP (What’s bin did and what’s bin hid e Fairytale, Pye-1965). Il repertorio spazia da
canzoni di protesta, dal tono comunque gentile (The war drags on, Universal soldier, Ballad of
a crystal man), a dolci brani che in parte anticipano lo stile futuro (Colours, To sing for you,
Turquoise) e qualche arrangiamento leggermente più impegnativo (Sunny goodge street e
l’ottima Hey Gyp, dig the slowness). Buone canzoni, ma nel complesso nulla di trascendentale.
Nel 1966 Donovan effettua una serie di concerti negli Stati Uniti, accompagnato alla chitarra
dallo sconosciuto Shawn Phillips, e durante il tour entra in contatto con la scena psichedelica
californiana e con il flower power ; sotto la produzione di Mickie Most vedono la luce due
importanti album improntati ad una musica sognante e psichedelica, percorsa da brividi
orientali, sostanziata da arrangiamenti rock e da un uso misurato di orchestrazioni classiche.
Il notevole Sunshine superman (Pye, per il mercato inglese) e la versione USA Mellow yellow
(Epic) sono pubblicati nel 1967 e comprendono numerosi titoli in comune. Al fianco di
canzoncine preparate con gusto inimitabile, quali Sunshine superman e Mellow yellow,
trovano posto delicati acquerelli d’infinita dolcezza che rispondono ai nomi di Guinnevere,
Celeste, Writer in the sun, la lucente ballata di House of Jansch, la cupa litania di Young girl
blues, la riuscita melodia orientale di Three kingfishers. Sulla bellissima Season of the witch
spira un tiepido vento proveniente dalla costa occidentale degli States che porta una musica
elettrica e disinvolta, in contrasto con il classico e prezioso arrangiamento di Hampstead
incident e con l’intensa forza espressiva di Legend of a girl child Linda, che pure non possono
prescindere da una semplice essenza folk.
DONOVAN
-
A GIFT FROM A FLOWER TO A GARDEN
(2 LP Pye - 1968)
Alla fine del ’67 Donovan ripone le fantasie psichedeliche di Sunshine superman e diventa
seguace del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi ; la musica ne risente fortemente,
acquisendo serenità e toni quieti in omaggio alla teoria dell’amore assoluto ed universale. La
voce del cantante appare ancora più distesa, rilassata, e la strumentazione si propone con
gran sobrietà, dimenticando buona parte dei preziosismi timbrici senza perdere in eleganza e
fascino. Il risultato è il doppio A gift from a flower to a garden.
Il primo disco presenta un suono moderatamente elettrico, equilibrato ed arricchito dai
misurati interventi di ospiti quali il flautista Harold McNair e il tastierista Mike O’Neil. I
brani più significativi sono l’eterea Wear your love like heaven, l’accattivante Mad John’s
escape, l’affascinante cadenza jazzata di Oh gosh con il decisivo apporto del flauto di
McNair ; O’Neil introduce con discrezione il clavicembalo in There was a time, produce
liquide sonorità all’organo e al piano nella valida The land of doesn’t have to be, Jack Bruce
appare al basso nella orchestrata Someone singing.
Il secondo LP, completamente acustico e con sporadici interventi di musicisti esterni, è ancora
più rigoroso ed estremo nella scelta stilistica, rasentando a tratti una certa monotonia di
fondo. Non mancano però attimi di assoluta illuminazione, come nel caso di Isle of Islay, forse
la sua canzone più bella tra quelle che si muovono in territori di delicata passione. Ottime
anche la sussurrata Song of the naturalist’s wife e le tenere ballate dal sapore tradizionale di
Widow with shawl e di The lullaby of spring.
La pubblicazione dell’album è seguita da un nuovo tour americano di gran successo. Da
alcuni concerti tenuti al Fillmore West di San Francisco è tratto il materiale di Donovan in
concert, squisito esempio della capacità di coinvolgimento e della nitida bellezza della sua
proposta acustica. Il successo prosegue anche con gli ultimi lavori dei Sessanta, Hurdy gurdy
man (Epic-1968) e Barabajagal (Epic-1969) ; in quest’ultimo album trova posto la facile
ballata di Atlantis e fa capolino un suono dal forte impatto rock, per via della presenza del Jeff
Beck Group in due brani (Barabajagal e Trudi). Nel decennio successivo Donovan continua ad
incidere regolarmente, senza riuscire a rinverdire la popolarità ed il successo dei tempi
migliori, dimostrando un progressivo calo d’ispirazione.
Certamente meno interessante, ma non per questo trascurabile, la parabola artistica di
Steven Georgiou, un cantante d’origine greca che nel 1966 esordisce con il 45 giri I love my
dog, dopo essersi ribattezzato Cat Stevens. Buone vendite giungono nel 1967 con Matthew and
son, che si piazza ai vertici della classifica inglese e presta il titolo al primo LP. Nello stesso
anno Stevens suona spesso dal vivo, in aprile partecipa ad un tour inglese come supporto a
Jimi Hendrix ma, all’inizio del ’68, la sua carriera subisce un brusco arresto dovuto alla
tubercolosi che lo costringe in ospedale per un lungo anno.
Durante questo periodo di forzata inattività il cantante prepara buona parte del materiale
utilizzato per il ritorno discografico del 1970, l’ottimo album Mona bone jakon, prodotto
dall’ex bassista degli Yardbirds Paul Samwell Smith. Accompagnato dal chitarrista Alun
Davies, da John Ryan (bs.), da Harvey Burns (bt.pr.) e con una fugace apparizione di Peter
Gabriel al flauto, Cat Stevens propone una musica acustica che prende spunto dalla canzone
d’autore piuttosto facile ma di buon gusto, ispirata a modelli vagamente folk. La voce è
caratteristica, modulata con precisione, capace di affrontare atmosfere dolci e morbide, come
di passare senza problemi a toni più robusti. Le ottime vendite del singolo con la leggiadra
ballata di Lady d’Arbanville servono da traino per tutto il long playing, che si sostenta con le
semplici ma efficaci armonie delle buone Maybe you’re right, I think I see the light, Mona bone
jakon, trova sfogo nell’ironia di Pop star e si crogiola nelle leggere tinte color pastello di
Trouble e di Katmandu.
Con Tea for the tillerman (Island-1971) Cat Stevens non modifica l’assetto vincente del disco
precedente ; stesso produttore, stessi musicisti, due brani trainanti di gran successo come Wild
world e Father and son, le belle Where do the children play ? e Miles from nowhere, soprattutto
le tenere e raffinate Sad Lisa e Into white ad elevare la qualità del lavoro.
Teaser and the firecat (Island-1971) spreme ciò che resta della creatività del cantante,
proponendo una musica curata ed elegante, ormai chiusa a qualsiasi possibilità di
rinnovamento stilistico. Terminato il periodo migliore, Stevens rimane sulla breccia fino al
1978 con una qualità decrescente dei lavori e con minore seguito di pubblico. S'interessa di
misticismo orientale, emigra in Brasile per motivi fiscali, elargisce denaro in beneficenza ; nel
1979 il clamoroso colpo di scena, con la conversione alla religione musulmana e il nuovo nome
di Yosef Islam. Onestamente, sono fatti suoi.
- 24 Syd Barrett : mito e leggenda, disgrazia e disperazione, forse solo un uomo alla
ricerca di se stesso, con le sue illusioni, con i suoi vertici creativi e i frequenti crolli psichici,
esaltato da inafferrabili voli d’immaginazione, provato dalle droghe e dall’incapacità
d’esprimere compiutamente in musica il pensiero. Il chitarrista infuriato di sperimentazione
degli anni Sessanta o il grasso, tranquillo e un poco strano signore dei tempi recenti, quale sia
il suo vero volto alla fine del gioco ha ben poca importanza. Meglio lasciar perdere il
complicato rebus della sua vita, anche per rispetto alla persona, e guardare con serenità alla
sua opera da solista, a quella preziosa manciata di canzoni che ci ha lasciato come testamento
musicale di un’epoca colma di disagio, ma non solo di sofferenza.
SYD BARRETT
-
THE MADCAP LAUGHS
(Harvest - 1970)
Dopo l’inevitabile, sofferto abbandono dei Pink Floyd nel marzo del 1968, Syd Barrett tiene a
Abbey Road le prime sessioni di registrazione come solista, tra il maggio e il luglio dello stesso
anno. Il materiale realizzato non trova posto nei suoi album originali e verrà recuperato in
occasione della raccolta Opel (del 1969) e del cofanetto antologico Crazy diamond (1993).
L’allontanamento dai Floyd e l’uso sempre massiccio di droghe allucinogene provocano un
ulteriore peggioramento della situazione, con conseguente ricovero per sottoporsi a
trattamento psichiatrico. Finalmente, nell’aprile del 1969, Barrett torna in studio in discreta
forma per registrare, con l’aiuto del produttore Malcom Jones, del nuovo materiale da
inserire in un ipotetico album. Per facilitare il lavoro Jones decide di far incidere la base di
chitarra e voce dal solo Barrett, evitando il problematico confronto diretto con altri musicisti
(Wyatt, Hopper, Ratledge - i Soft Machine - Jerry Shirley degli Humble Pie e Willie Wilson
dei Jokers Wild) che successivamente vengono chiamati a sovraincidere i propri strumenti.
Da queste sedute sono ricavate la lenta e indolente Terrapin, la tipica filastrocca di Love you e
un gruppo di ottime composizioni caratterizzate da un suono piuttosto elettrico : molto bella è
No good trying, probabilmente sovraincisa dai Soft Machine al completo, No man’s land è
elettrica e caotica, Late night è arrangiata in stile Pink Floyd mentre Here I go viene registrata
in diretta con Wilson e Shirley. La musica appare notevolmente lontana dalle sperimentazioni
dei primi Pink Floyd, una sorta di pigro e stravolto impasto elettroacustico che si muove
attorno alla voce trasognata di Barrett, resa ancora più insolita dal forzato montaggio sonoro
adottato per l’occasione.
In giugno Jones è rimpiazzato da David Gilmour e Roger Waters, che cercano d’imprimere al
lavoro di Barrett una maggiore concretezza. Una nuova seduta di registrazione frutta
l’accattivante ballata di Octopus, la suggestiva Golden hair e due nuovi brani, le notevoli Dark
globe e Long gone (la prima solitaria, la seconda con qualche aggiunta di voce e organo) che
portano Barrett ai limiti delle sue possibilità.
La EMI ha fretta e reclama la conclusione del lavoro ; alla fine di luglio viene affrontata
un’ultima serie d'incisioni per ricavare il materiale necessario al completamento del 33 giri.
Sotto pressione Barrett fatica ancora di più a trovare la necessaria lucidità ; ne risultano tre
canzoni incerte (She took a long cold look, Feel, If it’s in you) ma comunque in linea con il
resto della produzione.
Nel gennaio ’70 viene infine pubblicato The madcap laughs, che ottiene ottime recensioni e
vendite incoraggianti. Questo spinge la EMI a tentare un immediato raddoppio discografico al
fine di sfruttare l’evidente popolarità che Barrett continua a mantenere, nonostante i
problemi fisici, mentali e l’impossibilità ad effettuare esibizioni dal vivo. Il secondo LP Barrett
esce nel novembre del 1970, messo a punto tra febbraio e luglio e costituito essenzialmente da
canzoni composte nel ’69 durante la lavorazione di The madcap laughs.
Il carattere e il comportamento di Barrett sono volubili ; Gilmour (che con Richard Wright si
accolla la produzione del nuovo disco), viste le difficoltà insormontabili di Syd per suonare
con altri musicisti, decide di seguire due strategie di lavoro. Fare eseguire il brano dal solo
Barrett e cercare poi di quadrare il tutto con la sovraincisione di basso (lo stesso Gilmour),
tastiere (Wright) e batteria (Shirley), oppure preparare le basi preventivamente e quindi
indurre il musicista ad inserire la parte vocale e la chitarra. In febbraio Barrett incide due
nuovi brani, la pregevole Baby lemonade e lo strampalato blues di Maisie, e recupera vecchi
progetti tra i quali spicca la lineare Gigolo aunt. A tratti il musicista ritrova lucidità, come in
marzo quando esibisce un’ottima performance alla trasmissione radiofonica Top Gear,
condotta da John Peel. In giugno torna a suonare dal vivo (la prima volta dopo i Pink Floyd)
in occasione della manifestazione Extravaganza Concert ’70 all’Olympia Theatre di Londra ;
lo accompagnano Gilmour e Shirley, Barrett suona alcune canzoni piuttosto bene, poi
improvvisamente ringrazia e toglie il disturbo.
Le ultime incisioni, nel luglio ’70 a completamento del secondo album, generano le discrete
Dominoes e It’s obvious, brani che mettono in luce più che altro l’apporto strumentale, fin
troppo marcato e predominante. Inoltre viene realizzata Rats, una pazzesca jam in presa
diretta che si risolve in un caotico ed insistente crescendo vocale e strumentale.
In seguito alla pubblicazione di Barrett l’artista non riesce a combinare granché. Nel febbraio
del ’72 il bassista Jack Monk (ex membro dei Delivery, una poco conosciuta formazione di
Canterbury) matura l’idea degli Stars, un gruppo che coinvolge Barrett oltre al batterista
John ‘Twink’ Alder (personaggio di centrale importanza dell’underground londinese, già con
Tomorrow, Pretty Things, Pink Fairies). La formazione prova per qualche settimana e il 24
febbraio effettua l’esordio ufficiale al Corn Exchange di Cambridge, con gli MC5 e gli Skin
Alley. Le precarie condizioni di Barrett determinano il totale insuccesso dell’esibizione e il
rapido scioglimento degli Stars. Benché circoli la voce insistente dell’esistenza di nastri del
gruppo registrati dallo stesso Barrett, nulla di quell’effimera avventura vede la luce su disco.
Sempre nel 1972 Peter Jenner tenta di riportare il musicista in sala d’incisione, senza riuscire
a ricavare niente d'ascoltabile. Poi il silenzio cala su Barrett, a cementare la solita leggenda
del perdente. Ciò che importa e deve bastare sono le tracce da lui lasciate nei dischi, da solo e
con i Floyd, inamovibile testimonianza del talento di uno dei grandi innovatori del rock
progressivo inglese.
- 25 Musicista di notevole interesse della scena musicale inglese Jack Bruce, dopo gli
eclatanti ma poco duraturi entusiasmi con i Cream, preferisce dedicarsi ad una carriera come
solista di non facile affermazione, al contrario di Baker e soprattutto di Clapton impegnati
nella ricerca di nuovi supergruppi con i quali mantenere la popolarità acquisita. La scelta di
Bruce appare ancora più coraggiosa dal momento che l’attenzione creativa viene rivolta ad
un’originale mistura di rock, folk, canzone melodica con forti inflessioni jazz, che ben poco ha
da spartire con i precedenti rock blues. I validi Song for the tailor (Polydor-1969) e Things we
like (Polydor-1972) mostrano la via e non mancano di collaborazioni di prestigio (John
McLaughlin, Jon Hiseman, Dick Heckstall Smith).
JACK BRUCE
-
HARMONY ROW
(Polydor - 1971)
Il vertice qualitativo è raggiunto con le registrazioni del gennaio ’71, dalle quali emerge il
piccolo capolavoro di Harmony row. Avvalendosi esclusivamente dell’apporto della chitarra
graffiante e creativa di Chris Spedding e della batteria potente e precisa di John Marshall, a
quei tempi entrambi di stanza nei Nucleus di Ian Carr, Bruce si dimostra compositore
sopraffino e musicista completo, bassista fantasioso e dotatissimo (già si sapeva), tastierista
misurato e cantante limpido ed equilibrato.
Impossibile resistere al fiero e struggente lirismo della pianistica Can you follow ?, alle
ingegnose soluzioni armoniche della bellissima Escape to the Royal Wood (on ice), alla grazia
melodica di Folk song, al rock brioso e mai ottuso di You burned the tables on me, con la
chitarra scoppiettante di Spedding, e ancora di Post war e di A letter of thanks. Le movenze
jazz di There’s a forest lasciano spazio all’incontenibile frenesia ritmica di Morning story e
alle geometrie inconsuete della varia Smiles and grins. Chiudono la gustosa ballata Victoria
sage e l’originale The consul at sunset.
Bruce non perde occasione per collaborare con musicisti jazz di rilievo quali Carla Bley, Mike
Mantler e Tony Williams ; contemporaneamente si presta ad un provvisorio ritorno verso
forme di rock duro con gli ex Mountain Leslie West e Corky Laing (tre album tra il ’72 e il
’74). Nel 1974 torna ad incidere come solista con il valido Out of the storm, lavoro nel quale
conferma la collaborazione con Pete Brown nella veste di paroliere e, forse indotto dalla
presenza del grintoso chitarrista Steve Hunter, adotta ritmi più forti (Pieces of mind) senza
scendere a compromessi, mantenendo integre tutte le componenti fondamentali del suo stile
melodico (Golden days) e composito (l’ottima Timeslip, con un finale...alla Cream).
La produzione degli anni Ottanta non sempre sarà all’altezza delle sue possibilità, comunque
le note di Harmony row e dei dischi migliori sono sufficienti per attribuire a Bruce un giusto
riconoscimento artistico anche come solista.
Roy Harper è un cantante e compositore atipico dalla complessa personalità, che sconta
un’infanzia difficile e disavventure varie a base di manicomio, elettroshock e galera. Nel 1964
giunge a Londra dove suona ovunque capita, per le strade e gratis a Hyde Park ; qualche
tempo dopo trova il modo di registrare, con mezzi poveri, un album dal titolo The
sophisticated beggar (Strike-1967) subito bissato da un secondo LP, Come out fighting Ghengis
Smith (CBS-1967), prodotto da Shel Talmy. Il miglior lavoro del primo periodo è il successivo
Folkjokeopus (Liberty-1969), ancora curato da Talmy : nel complesso discreto, il disco
raccoglie i momenti più significativi nella bella Sgt. Sunshine d’apertura e nella lunga Mc
Goohan’s blues.
Dopo continui cambi di casa discografica finalmente Harper trova spazio alla Harvest e, con
la pubblicazione di Flat baroque and beserk (1970), inizia il periodo decisivo della sua carriera.
Sull’album appaiono i Nice e proprio in quei giorni Harper ha modo di conoscere i Led
Zeppelin, in occasione del festival di Bath. Con il gruppo di Jimmy Page il bizzarro folksinger
va in tour negli Stati Uniti e si vede gratificato di un omaggio nella parte acustica del terzo LP
del gruppo (Hats off to Roy Harper).
ROY HARPER
-
STORMCOCK
(Harvest - 1971)
Roy Harper è ormai musicista rispettato ed apprezzato da grossi nomi della scena inglese, dai
Pink Floyd a Ian Anderson dei Jethro Tull a Paul McCartney, mantenendo lo stesso integra la
propria immagine di artista underground. Stormcock raggiunge il vertice espressivo in una
complessa, matura elaborazione acustica e vocale che si dispiega in quattro lunghe
composizioni. Apre la pacata Hors d’oeuvres con quelle voci impossibili, sospese ed intrecciate
su diversi piani mentali ; uno stato d’incoscienza virtuale, un sogno ad occhi aperti. The same
old rock riporta a terra, con la chitarra solista di Jimmy Page, e affronta una maggiore varietà
armonica, alternando frasi di notevole pregnanza e bellezza formale ed evoluzioni vocali
d'assoluta eccellenza che ricordano i voli stellari di Tim Buckley, gli incubi spaziali di Peter
Hammill, in ultima analisi l’insegnamento basilare delle stratificazioni sonore di Ligeti, sia
pure rivisti in forma barocca.
Le linee folk blues della chitarra di One man rock and roll band sono allungate, strascicate fino
all’esasperazione del suono, nella trepidante attesa di un evento mai consumato. Me and my
woman è stupenda, equilibrato esempio di suite da camera in quattro tempi con misurati ed
adeguati interventi orchestrali di David Bedford, sviluppata in una sequenza di lirici
frammenti folk, canzoni intime, suggestive, momenti ritmati e lucidi sprazzi strumentali.
Harper è costretto ad una prolungata sosta per via di seri problemi di salute. Il ritorno sulla
scena avviene nel 1973 con l’ottimo Lifemask, ancora prodotto da Peter Jenner e realizzato
con l’ausilio di un cast importante di musicisti quali il solito Page, Brian Hodges (bs.), Ray
Warley (fl.) e i percussionisti Tony Carr, Laurie Allen, Brian Davison (Nice), Steve Broughton
(Edgar Broughton Band). La musica si assesta su strutture meno ambiziose in canzoni
d’intrinseca bellezza come Highway blues, Bank of the dead, la funerea All Ireland ;
l’eccezione è costituita dal poema musicale The Lord’s prayer che tradisce un assetto troppo
rigido e severo, accusando qualche cedimento nell’arco della lunga esposizione.
L’artista è all’apice della notorietà, tiene esibizioni live accompagnato da musicisti di fama.
Nel febbraio ’74, il giorno di San Valentino, viene pubblicato il nuovo LP Valentine (Harvest)
e Harper tiene un famoso concerto al Rainbow con il sostegno tra gli altri di Jimmy Page,
Keith Moon e di un’orchestra diretta da David Bedford. Di non minore effetto il concerto a
Hyde Park, gratuito come agli inizi ma ora l’artista è accompagnato da Dave Gilmour, John
Paul Jones e Steve Broughton. Nel 1975 interpreta la parte vocale di Have a cigar sul Wish you
were here dei Pink Floyd e realizza un discreto album di studio, al quale partecipano Chris
Spedding (ch.) e Bill Bruford (bt.) (HQ, Harvest). L’approccio è ora decisamente elettrico,
molto del fascino originario è andato perso ma Harper rimane un musicista credibile, capace
di conservare dignità e sincerità nel suo modo introspettivo di fare musica.
Michael Chapman è un altro folksinger sotterraneo e ingiustamente sottovalutato ; come
Harper, anche Chapman fa parte della scuderia Harvest, almeno nel periodo migliore dal
punto di vista creativo. I suoi Rainmaker (1969), Fully qualified survivor (1970), Window
(1971) e Wrecked again (1971) spiegano abbondantemente l’onestà e le qualità del musicista.
Si passa da brani per sola chitarra acustica come Rainmaker, colorata da un sano
impressionismo, come lo squisito ragtime di Naked ladies and electric ragtime alle belle ballate
folk di In the valley e The first leaf of autumn, sino alla schiettezza stilistica di Last lady song
che richiama vaghe allusioni soul. Chapman è un valido chitarrista folk ma pure un cantante
ricco di sensibilità, dotato di una voce cruda e vissuta, diretta e carica di nostalgia. In alcuni
brani del secondo album appare l’elettrica di Mick Ronson : notevoli sono Kodak ghosts,
Soulful lady (dal forte accento rock) e soprattutto la triste e decadente Postcards of
Scarborough, valorizzata da un misurato arrangiamento di archi di Paul Buckmaster.
L’intervento di Buckmaster è decisivo alla riuscita della magnifica Wrecked again, una
canzone nel cui impianto folk s’innestano interventi orchestrali di stampo classico.
Con Chapman collabora assiduamente fino al 1972, spesso anche dal vivo, il bassista Rick
Kemp, fino a quando lo strumentista coglie l’occasione per entrare nei più fruttiferi Steeleye
Span, a partire dall’album Below the salt. Nel 1973 esce Milestone grit (Deram), primo album
prodotto a seguito del passaggio alla Decca, dove appare ancora Kemp e suona il batterista
Keef Hartley ; Chapman può proseguire la carriera, senza particolari riscontri commerciali
ma sempre con estrema lealtà.
Texano di Fort Worth, Shawn Phillips può essere considerato inglese d’adozione anche se,
per il carattere libero ed aperto, pare giusto definirlo un girovago cittadino del mondo. Gli
inizi di carriera narrano di un folksinger in perenne movimento negli States, che si mantiene
con umili lavoretti e cerca ispirazione prima nella canzone folk e poi s’innamora di Ravi
Shankar, delle filosofie orientali.
A metà degli anni Sessanta arriva a Londra dove, per la Columbia, pubblica i primi lavori
I’m a loner (1965) e Shawn (1966) ; subito dopo, nel ruolo di chitarrista, accompagna Donovan
in una serie di concerti americani. Al ritorno in Inghilterra, privo di regolare permesso di
lavoro, si vede costretto a lasciare il paese per cercare rifugio in Italia, a Positano.
Il primo risultato di rilievo viene colto con Contribution (A&M-1970) che riassume alcune
parti di quello che sarebbe dovuto diventare un progetto ambizioso, un album triplo con
musicisti della London Philarmonic Orchestra, Paul Buckmaster e i Traffic. Phillips inizia a
sviluppare uno stile vocale affascinante ed originale, caratterizzato dalla grande capacità di
controllo di toni e sfumature. Il modello preso a base del suo lavoro è di certo quello del Tim
Buckley sperimentale di opere come Lorca, Blue Afternoon e in parte di Starsailor ; un buon
esempio si rintraccia nell’affascinante L ballade, mentre sul versante della canzone folk meno
ortodossa risalta l’ottima Screamer for Phlyses. Notevole, sul piano strettamente vocale, è
l’influenza esercitata da Phillips nei confronti di Alan Sorrenti per la realizzazione del piccolo
classico nostrano di Aria.
Second contribution nel 1971 ottiene i risultati migliori con un collage sonoro di grande
equilibrio formale, reso possibile da una raggiunta maturità compositiva ed interpretativa di
Phillips, oltre che dall’aiuto profuso da una fitta schiera di musicisti di valore, tra i quali il
tastierista Pete Robinson (Quatermass, Come To The Edge) e Paul Buckmaster, splendido
esecutore al violoncello e responsabile di pregevoli arrangiamenti orchestrali. La tecnica
vocale di Phillips esprime il massimo delle possibilità a livello esecutivo, sfruttando in pieno il
sostegno fornito da una base strumentale d’elevata qualità.
Importa rilevare la compattezza dell’insieme dell’opera, ma non si può far a meno
d’applaudire l’intrinseco valore (e l’impossibile titolo) dell’iniziale She was waitin’ for her
mother at the station in Torino and you know I love you baby but it’s getting to heavy to laugh,
d’ammirare il suono fluido e lucido delle notevoli Song for Mr. C, Song for sagittarians,
Lookin’ up lookin’ down, la meraviglia e lo stupore strumentale della Ballad of Casey Deiss, la
tenue melodia folk che sconfina nel silenzio di Steel eyes.
Lo stesso anno Shawn Phillips si segnala per un altro disco di pregio (Collaboration, A&M),
poi la vena creativa tende ad esaurirsi, così come l’interesse nei suoi confronti.
Kevin Coyne inizia la carriera nei Siren, una formazione che nel 1970 ha modo di
registrare e vedere pubblicati un paio di album (Siren e Strange locomotion) per la Dandelion,
l’etichetta di John Peel. Sempre per la stessa casa Coyne effettua nel 1972 l’esordio da solista,
con il long playing di Case history, e subito dopo passa alla neonata Virgin dove trova notevole
fiducia, tale da permettergli un’intensa e duratura attività discografica.
Proprio il lavoro che inaugura il rapporto risulta uno dei più interessanti dell’intera
produzione di Coyne : Marjory razor blade, in due LP verso la fine del ’73, raccoglie le
principali configurazioni del suo particolare stile. Tra il rhythm & blues di Marlene (e della
potente Eastbourne ladies) e il rock’n’roll di Chicken wing trovano posto canzoni prossime alla
ballata folk (Talking to no-one, Chairmans ball e la pregevole House on the hill), oltre a brani
come Jackie and Edna e il tradizionale I want my crown, di chiara impostazione blues. La voce
è decisamente sgraziata, a volte ricorda l’approccio insofferente di Van Morrison, in altre
occasioni si deforma attingendo alla scuola ‘bestiale’ di Captain Beefheart, come nella
Marjory razor blade iniziale e in Karate king, pur rimanendo originale, sofferta, spesso al limite
dell’insolenza (Dog latin, This is Spain, Good boy). Certo siamo lontani da improponibili
accostamenti con Joe Cocker, come qualcuno ha furbescamente cercato di lasciar intendere,
forse per agevolare una poco probabile carriera commerciale.
- 26 John Martyn e Nick Drake, musicisti diversi tra loro ma uniti da una comune
sensibilità artistica che, ciascuno a modo suo, li fa giungere alle soglie della consapevolezza.
John Martyn è il più forte dei due, la personalità più spiccata, capace di governare
creativamente le spinte propulsive del proprio animo e per questo estremamente efficace
nell’interpretazione, duraturo nei risultati, ma pure privo della tremante, sofferente purezza
poetica della musica di Nick Drake.
Nativo di Glasgow, Martyn inizia come cantante folk legato alla tradizione con l’ellepì London
conversation (Island-1967), e nel successivo The tumbler (Island-1968, con la partecipazione di
Harold McNair) comincia ad introdurre elementi blues - jazz e a sviluppare uno stile vocale
personale. Nel 1970 produce due dischi assieme alla moglie Beverly (Stormbringer e The road
to ruin, sempre su Island), che preludono al momento migliore dell’artista, inaugurato da
Bless the weather (Island-1971, dedicato proprio a Nick Drake).
Il culmine è raggiunto nel 1973 con la pubblicazione di due lavori fondamentali, quali Solid
air e Inside out.
Solid air ricorda da vicino il quieto e raffinato folk acustico, intriso di blues e di jazz, di MarkAlmond, con in aggiunta una voce espressiva e coinvolgente ; su questo piano si collocano
brani come la title track e Don’t want to know, mentre altri preferiscono affidarsi a nitide
rimembranze folk (Over the hill) o ad esuberanze blues (The easy blues). La sperimentazione si
fa strada nella rilettura di I’d rather be the devil di Skip James, resa con gran trasporto
ritmico e con sonorità che si dividono tra basi acustiche ed impennate elettriche, il tutto
cementato da una notevole prestazione vocale. Meno incisive, anche se interessanti, sono
Dreams by the sea, The man in the station e la soffusa poesia di Go down easy.
JOHN MARTYN
-
INSIDE OUT
(Island - 1973)
Registrato nel luglio 1973 con l’aiuto di musicisti del calibro di Stevie Winwood, Chris Wood
(Traffic) e Danny Thompson (Pentangle), Inside out è il superbo risultato della creatività di
Martyn. Fine lines mostra subito una voce profonda, appassionata e una totale padronanza
sugli arrangiamenti, caratteristiche fondamentali di tutto il disco. Il traditional Eibhli ghail
chiuin ni chearbhaill è un leggero alito di vento tiepido spazzato via dal brusco realismo di
Ain’t no saint, che aggredisce con una vocalità insistente e con un memorabile, spasmodico
trattamento di chitarra.
Outside in capovolge i termini del discorso musicale di Martyn, che esce allo scoperto e
fornisce la pagina più sperimentale, coniugando enfasi ritmica e lirici sprazzi armonici, echi
ancestrali e prospettive di moderna sintassi in un’atipica simmetria di suoni e colori. Subito
dopo, The glory of love diffida ironicamente a prendere tutto troppo sul serio.
Di minore intensità la seconda parte dell’album, che offre le cose migliori nell’acida Look in e
nel toccante strumentale di Beverley ; le restanti Make no mistake, Ways to cry e So much in
love with you non mancano di nulla, ma neppure aggiungono particolari a quanto già
enunciato.
La lunga carriera musicale di Martyn regala ancora l’ottimo Sunday child (Island-1974) e,
sporadicamente, qualche bagliore creativo che permette di ricordare l’illustre passato di
sperimentatore folk.
Quando, il 25 novembre 1974, Nick Drake si toglie la vita assumendo una dose eccessiva di
un antidepressivo il mondo della musica rock resta indifferente al consumarsi dell’ennesima
grande tragedia. Proprio perché di grande tragedia non si tratta, non di mito né di leggenda
ma solo di un sensibile ragazzo impegnato nel disperato tentativo di comunicare con il
prossimo, con la natura, con il mondo esterno che impietosamente lo respinge. Una figura
fragile, un angelo di depressione e d'infinito amore.
E’ Ashley Hutchings, allora bassista nei Fairport Convention, a scoprirlo nel 1968 e ad
introdurlo al solito Joe Boyd, produttore di primaria grandezza in ambito folk rock. Il
risultato è la pubblicazione nel 1969 di Five leaves left (Island), per la realizzazione del quale
Drake s’avvale di collaboratori importanti (Richard Thompson, ch. e Danny Thompson, bs.).
La musica di Drake non pare ancora completamente definita ma il disco evidenzia
ugualmente le principali doti di uno stile costruito su ballate semplici e lineari, di lucente
bellezza, reso appena più severo dal frequente utilizzo di arrangiamenti orchestrali di stampo
classico. Tra i brani vanno segnalati Time has told me, Cello song (con il violoncello di Clare
Lowther), Fruit tree e Saturday sun.
La critica pare ben disposta ed accoglie positivamente l’album, che comunque non ottiene
grandi risultati commerciali. Nel settembre del 1970 Drake ci riprova con convinzione ancora
maggiore, dando alle stampe lo splendido Bryter layter. La disillusione e la tragedia sono
lontane e Drake offre ampia dimostrazione delle potenzialità creative ed interpretative,
fissando le qualità e i limiti della sua musica, perfezionando un timbro vocale caratteristico,
fatto di ‘aria solida’ e colmo di passione.
Si passa dalle due spigliate Hazey Jane, con i Fairport Convention (Thompson, Pegg e
Mattacks), a One of these things first nel più classico stile di Drake. At the chime of a city clock
e Poor boy presentano un incedere ricco di sfumature jazzate, con la presenza del sax alto di
Ray Warleigh ; Poor boy contempla pure il piano di Chris McGregor e l’utilizzo di
arrangiamenti gospel per i cori. Bryter layter e Sunday sono frammenti d’illuminata semplicità
nei quali, riposta per un attimo l'affascinante voce, Drake traccia una serena linea melodica
alla chitarra, valorizzata dal delicato fraseggio del flauto (Lyn Dobson e Ray Warleigh) e da
una sezione d’archi sobriamente arrangiata da Robert Kirby. Basilare la presenza dell’ospite
d’onore John Cale, che lega il proprio contributo a due delle canzoni più belle : Fly,
cameristica ed appassionata, con l’ex Velvet Underground alle prese con clavicembalo e
l’inseparabile viola, e Northern sky, nel tipico stile del cantautore.
NICK DRAKE
-
PINK MOON
(Island - 1972)
Purtroppo la qualità di Bryter layter non è ripagata dal giusto riscontro di pubblico ; stimato
da musicisti e addetti ai lavori, ma incapace di trovare il necessario rapporto con il pubblico e
il music business, Drake si chiude in se stesso e il carattere fragile ed introverso gli rende
problematico l’esibirsi dal vivo con continuità. Questa situazione porta l’artista ad incidere in
completa solitudine il terzo album Pink moon, pubblicato nel febbraio del 1972.
L’iniziale brano omonimo fa gelare il cuore, illustrando perfettamente lo stato d’animo
decadente e privo di speranza di Drake che canta con voce cupa e rassegnata,
accompagnandosi con un pregevole quanto inanimato suono di chitarra ed inserendo poche
tristi note di pianoforte. L’intrinseca bellezza di canzoni quali Place to be, Road, Which will
non modifica l’atmosfera opprimente che attanaglia il disco. Nick Drake canta la solitudine,
l’impotenza, l’incapacità di comunicare al prossimo la propria arte.
Horn è un breve, desolato frammento per sola chitarra che emette rintocchi funerei. Things
behind the sun, capolavoro dell’album, si muove su spigliate linee da ballata folk, sembra dare
segni di ripresa ma è solo apparenza, la voce di Drake raggiunge l’apice della sofferenza,
l’uomo è ormai solo sotto la pioggia.
La minimale Know lascia presagire poco di buono con il suo canto patito, uno spiritual
proveniente da una dura terra di ghiaccio ; dopo l’interlocutoria Free ride, Parasite getta
nuovamente nella costernazione, e nelle note finali di Harvest breed e di From the morning non
si trova serenità, nessun messaggio positivo. Il suono della chitarra si spegne senza sussulti,
quasi a volersi mettere definitivamente in disparte. La debole spinta è esaurita, il destino
segnato.
Ovviamente Pink moon non migliora la situazione, risolvendosi in un ennesimo fiasco
commerciale, aiutato dall’aspetto triste e sconsolato della musica. E’ in ogni caso un lavoro
carico d'eccezionale umanità, sotto quest’aspetto simile ai grandi capolavori incompresi di un
altro illustre disperato del rock, Tim Buckley.
Ars Longa Vita Brevis - 1
la musica della casa delle bambole
- 27 Uno dei sicuri meriti, fra i tanti, che deve essere ascritto ai Beatles è quello
dell’introduzione nella musica rock di tematiche proprie alla tradizione culturale classica.
L’uso che il quartetto di Liverpool fa di strumenti, arrangiamenti e orchestrazioni derivanti
dalla musica classica contagia ben presto il panorama del beat e persino quello del blues
revival, tanto che in certe canzoni dei Rolling Stones e degli Yardbirds, per portare un paio
d’esempi, accanto alla chitarra elettrica e alla batteria compare l’austero clavicembalo.
L’allargarsi del fenomeno, dovuto al successo di brani pionieristici (come A whiter shade of
pale dei Procol Harum), e l’avvento nei gruppi rock di numerosi studenti provenienti dalle
scuole d’arte e dal conservatorio sono alla base della nascita del cosiddetto rock romantico sinfonico, che tanta fortuna commerciale riscuote nei primi anni Settanta.
Non tutte le formazioni che solcano il mare in fermento del rock progressivo inglese
decidono di affidarsi al suono neoclassico. Alcune preferiscono confrontarsi in modo diretto,
anche se con diverse prospettive rispetto al passato, con i vecchi e sempre validi idiomi del
folk, del blues e del jazz. Tra queste i Traffic di Stevie Winwood, che all’inizio del 1970, dopo
lo scioglimento dei Blind Faith e la parentesi con gli Airforce di Ginger Baker, ricostituisce il
gruppo tornando a collaborare con Chris Wood e Jim Capaldi. Di nuovo insieme in studio per
registrare le canzoni di un album solistico di Winwood, dal titolo provvisorio di Mad shadows,
i tre musicisti decidono di concentrare gli sforzi per un nuovo lavoro a sigla Traffic.
TRAFFIC
-
JOHN BARLEYCORN MUST DIE
(Island - 1970)
John Barleycorn must die viene pubblicato nell’aprile del ’70 e consente ai Traffic di
riguadagnare rapidamente la popolarità d’inizio carriera, tanto da diventare il primo disco
d’oro del gruppo. La musica è notevolmente cambiata rispetto ai lavori degli anni Sessanta ;
non c’è traccia di psichedelia, oramai fuori moda, e il suono si fa professionale e concreto,
sicuramente ancora in grado di generare forti emozioni.
La prima facciata dell’album è da antologia. L’apertura è affidata al fluire della strumentale
Glad, condotta a buon ritmo dal piano di Winwood e dal sax di Wood ; nella parte conclusiva
il brano si risolve in pacate armonizzazioni che si dissolvono nella seguente Freedom rider,
introdotta da un suadente sax. Torna l’inconfondibile voce di Winwood, Wood soffia nel
flauto con il consueto buon gusto e Capaldi fornisce l’asciutto, indispensabile sostegno
ritmico. La bellissima Empty pages è un rhythm & blues di tempo medio basato su un grande
suono d’organo (si esibisce allo strumento anche Wood), interpretata dalla melodica voce di
Winwood che pure è autore di un bell’intermezzo al piano.
Su Stranger to himself Winwood suona tutti gli strumenti, aiutato da Capaldi alle armonie
vocali, e lo stesso accade in Every mothers son, con Capaldi alla batteria. John Barleycorn è
una delicata canzone folk arrangiata da Winwood, con una bella prestazione di Wood al
flauto.
Winwood amplia la base della formazione accogliendo il bassista Ric Grech (proveniente dai
Family, già con il leader nei Blind Faith e negli Airforce) ; poco dopo è la volta del
percussionista africano ‘Reebop’ Kwaku Baah e del batterista americano Jim Gordon (ex
Derek & the Dominos), che rinforzano la sezione ritmica permettendo a Capaldi di dedicarsi
con maggior attenzione alle parti vocali. Alla nuova edizione dei Traffic s’aggrega anche il
vecchio compagno Dave Mason e la temporanea riunione frutta un album dal vivo, Welcome
to the Canteen (Island-1971), attribuito ai vari singoli musicisti. Il disco, registrato a Croydon
e a Londra nel luglio ’71, è discreto pur non presentando particolari motivi d’interesse ; si
tratta sostanzialmente di un’antologia live, con buone (a volte non esaltanti) versioni di
classici quali Medicated goo, 40000 headmen, Dear mr. Fantasy, Gimme some lovin’ e con
l’accattivante Shouldn’t have took more than you gave apportata da Mason.
Sempre nel 1971, con lo stesso organico (senza Mason), i Traffic realizzano il nuovo album di
studio The low spark of high heeled boys (Island), un buon disco anche se nettamente inferiore
a John Barleycorn. La musica presenta tessiture ritmiche frastagliate e complesse, evolve in
lunghe parti strumentali senza per questo perdere in immediatezza, anzi risultando più
facilmente fruibile nell’ambito di canzoni quali la title track, Light up or leave me alone,
Rainmaker ; le pagine migliori sono la raffinata Hidden treasure e l’appassionata ballata di
Many a mile to freedom.
Grech e Gordon abbandonano il gruppo e vengono sostituiti da due musicisti americani del
giro dei Muscle Shoals Studios, il bassista David Hood e il batterista Roger Hawkins. Shoot
out at the fantasy factory (Island febbraio 1973) enfatizza il nuovo corso musicale dei Traffic,
proponendo un piacevole e leggero soul rock ; Winwood ammette candidamente in musica di
attraversare momenti di scarsa ispirazione creativa...Sometimes I feel so uninspired.
Con l’organico ulteriormente allargato dalle tastiere di Barry Beckett, anche lui sessionman ai
Muscle Shoals, il gruppo intraprende un tour mondiale. Dai concerti tedeschi sono ricavati i
nastri per un doppio LP (On the road, Island-1973), che rivisita il repertorio dei dischi degli
anni Settanta con buoni risultati.
Alla fine del ’73 i tre strumentisti americani e ‘Reebop’ sono congedati e i Traffic tornano al
classico triangolo d’inizio decennio ; per affrontare una serie di concerti inglesi nel ’74 il
gruppo s’avvale delle prestazioni del bassista Rosko Gee e così organizzato pubblica l’ultimo
When the eagle flies (Island-1974), prima di sciogliersi alla fine dell’anno. Winwood e
compagni dimostrano di poter ancora produrre musica dignitosa, il suono riacquista parte
della scarna semplicità espressiva di qualche anno prima e canzoni come Dream Gerrard e
When the eagle flies meritano di suggellare la gloriosa carriera dei Traffic.
Capaldi si dedica all’attività solistica pubblicando numerosi dischi, così come Winwood che
negli anni Ottanta ottiene gran successo proponendo una musica piuttosto facile, dopo il
fallimento dell’ennesimo supergruppo dei Go, con Stomu Yamash’ta, Klaus Schulze e Michael
Shrieve. Dopo vent’anni Winwood e Capaldi si ritrovano con il vecchio marchio per un album
(Far from home) e la partecipazione alla discutibile festa di Woodstock ’94. Purtroppo, non è
della partita Chris Wood, morto nel luglio1983 ; l’agile fraseggio del sassofono, il magico
respiro del suo flauto sono emozioni che rimangono, per sempre.
Gruppo di fondamentale importanza per lo sviluppo della musica progressiva inglese,
ingiustamente relegato ai margini della vasta notorietà, i Family nascono nel 1966 dalle ceneri
dei Roaring Sixties (un singolo nel ’66), a loro volta derivati dai Farinas (attivi tra il ’62 e il
’64). Il gruppo si compone del cantante Roger Chapman, del chitarrista Charlie Whitney, del
bassista / violinista Ric Grech, del fiatista Jim King e del batterista Rob Townsend ed inizia
ad esibirsi nel circuito underground, arrivando all’incisione con il singolo Scene through the
eye of a lens nell’estate del 1967.
Dopo aver firmato un contratto con la Reprise, i Family giungono alla prova sulla lunga
durata con Music in a doll’s house (Reprise-1968) ; l’influenza principale è certamente quella
dei Traffic e non è un caso che la produzione del long playing sia affidata a Dave Mason. Il
gruppo riesce comunque ad imprimere, sia pure in modo caotico e privo della futura potenza
espressiva, alcuni spunti personali di notevole rilievo che preparano il terreno per audaci ed
innovative sintesi sonore. La sequenza The chase / Mellowing grey sorprende per gli
arrangiamenti originali e in particolare la seconda è imbevuta di classicismo fino al midollo,
anticipando atmosfere care ai primi King Crimson. Il contrasto tra la musica aggraziata e la
voce di Chapman, incredibilmente forte e priva di pudore, contribuisce ad accrescere la
drammaticità e il fascino della canzone. Mason offre un contributo compositivo con Never like
this e nell’insieme piacciono Be my friend, Winter, il rock blues con interventi corali a cappella
di Old songs new songs, Peace of mind e la strana, rumorista Voyage, nelle quali il mellotron e
l’intraprendente violino di Grech affermano concetti poco usuali.
FAMILY
-
FAMILY ENTERTAINMENT
(Reprise - 1969)
Se Music in a doll’s house abbozza in ordine sparso gli elementi di un nuovo approccio
stilistico, Family Entertainment è in grado di raccogliere i primi significativi risultati. Le fonti
d’ispirazione della musica del gruppo sono innumerevoli (rock, folk, jazz, classica e qualsiasi
d’altro) ma miracolosamente non s’assiste ad un forzato ed accademico esercizio
d'accostamento fra generi, bensì al riuscito tentativo di creazione di un rock sfaccettato, dai
molteplici interessi. Chapman inizia a stabilire con chiarezza il tipico stile dei Family, a
cominciare dall’indimenticabile The weaver’s answer, uno dei brani più belli di tutto il
‘progressive’ inglese. L’introduzione è dolcissima, una tenue melodia folk sottolineata dal
violino ed interpretata dalla stupenda voce del cantante. Subito la canzone acquista peso, con
un incedere ritmico che si fa ossessivo senza bisogno di elettrificare in eccesso il suono ; i fiati
di King sibilano, Chapman supera ogni barriera, apre squarci vibranti d’emozione al limite
delle possibilità fisiche. Alla fine tutto si quieta, come per incanto torna il tono iniziale.
Observations from a hill è più di maniera ma ugualmente di notevole interesse, per quel suo
mescolare la brillante melodia folk con un violino prossimo a modi classici. Chapman è di
nuovo incontenibile nell’originalissima Hung up down ; impossibile catalogare questa musica
che trae le radici dal folk pur essendone lontana nella forma, che associa senza problemi fiati
di colorazione jazz, violini e corpose orchestrazioni classiche, che non cede nemmeno
all’impeto rock blues nonostante la presenza di un interprete vocale potente e rabbioso. E
chissà da quali meandri proviene l’idea di Whitney per l’arrangiamento d’archi di Summer
’67, in bilico con un indefinito sapore orientale. Ric Grech è responsabile dell’ottima How-HiThe-Li che ricorda il metodo di scrittura di Jack Bruce : un’identità rock con il sapore del
jazz e del folk.
La seconda facciata si apre con la chitarra libera di indurire il suono e lasciar partire il
rock’n’roll di Second generation woman (un’altra composizione di Grech) ; From past archives
possiede un impianto classico e nostalgico che all’improvviso si schiude in estemporanee
visuali jazz, mentre Dim si lascia suggestionare da modi country. Processions (scritta dal solo
Whitney) è bellissima nel suo incedere decadente e pieno di fascino, mirabilmente sostenuta
dalle chitarre di Whitney e dalla stupenda interpretazione di Chapman ; in successione un
altro notevole brano di Grech, Face in the cloud, con sitar e ambientazione classica, nel quale
si vanno a spegnere gli ultimi bagliori psichedelici. La conclusione è affidata ad Emotions che
recupera ritmo e voce da orco, con le solite inconsuete elaborazioni armoniche all’interno di
un contesto solo in apparenza convenzionale.
Un disco d’elevato livello qualitativo e, una volta tanto, stupisce positivamente il sesto posto in
classifica.
All’inizio del 1969, nel bel mezzo di un tour USA, Grech abbandona i Family per entrare nei
Blind Faith ; il suo posto è preso da John Weider, ex membro dei New Animals. Verso la fine
dell’anno lascia anche King, sostituito da John ‘Poli’ Palmer (dai Deep Feeling) che apporta
vibrafono, tastiere e flauto. Il nuovo quintetto nel 1970 realizza A song for me, un lavoro
ancora più radicale del precedente, senza curare minimamente l’aspetto commerciale della
proposta musicale. Drowned in wine è priva di compromessi, audace convergenza di riff hard,
tre / quarti improbabili, arpeggi folk, spunti jazzati, con la voce che non fatica a ritagliarsi lo
spazio necessario all’interno di un arrangiamento caotico ma godibile.
Diverse sono le canzoni di notevole bellezza, come la pacata Some poor soul, la strumentale
93’s ok J e Song for sinking lovers, con il violino di Weider. Tra i solchi affiora qualche
rudezza in più del solito, che si nota nelle insinuanti linee di chitarra di Love is a sleeper e
soprattutto nel giro semplice e micidiale di A song for me.
La produzione dei Family rimane ad altissimo livello con un altro album pubblicato nel ’70,
sempre per la Reprise. Anyway... ha il pregio di mostrare le indiscutibili doti del gruppo dal
vivo, proponendo sul primo lato una breve selezione di quattro brani registrati durante un
concerto alla Fairfields Hall di Londra. La dimensione live conferma la vitalità e la grinta dei
Family : Good news - bad news è esaltante e durissima, con qualche spunto ricercato (l’assolo
centrale di vibrafono) e chi pensava che la voce di Chapman fosse un’invenzione di studio è
destinato a ricredersi ; Strange band raggiunge i confini estremi della forza espressiva, la voce
è spinta ai limiti della dissonanza, l’approccio è selvaggio, appena mediato da violino,
vibrafono e qualche apertura melodica. La seconda parte registrata in studio guadagna la
piena maturità, i suoni sono intensi e curati, difficile pretendere qualcosa di meglio. La
poliedrica Part of the load è una sorta di moderno R & B, pregevoli sono la ballata di Anyway
e lo strumentale di Normans, con violino e piano in evidenza. Infine la stupenda Lives and
ladies che apre la strada alla fortunata progenie della ballata rock epico - romantica, filone
imprescindibile per le fortune commerciali di formazioni quali Genesis e simili.
Nell’agosto del ’70 i Family sono nel cast del festival di Wight e poco dopo John Weider lascia
il gruppo, sostituito dal bassista dei Mogul Thrash, John Wetton.
Fearless (nel 1971) segna un nuovo vertice nella discografia del gruppo. Between blue and me,
lo stile si collega alla parte di studio di Anyway..., dominato dalle chitarre di Whitney e dalla
voce di Chapman. Si nota l’assenza del violino di Grech e di Weider, ma non viene a mancare
la varietà timbrica tipica della musica del gruppo. Tra i brani, estremamente livellati,
risaltano i raffinati Spanish tide, Burning bridges, la solida e moderna Take your partners.
Fearless è il limite invalicabile della proposta dei Family, riassunto creativo e fantasioso delle
puntate precedenti che possiede il merito di evitare noia e cadute di tono.
Cosa che purtroppo non riesce al successivo Bandstand (Reprise-1972) che, in ogni caso,
appare disco dignitoso con qualche canzone particolarmente brillante (My friend the sun, Top
of the hill, Burlesque). Una cosa è certa : la vena creativa di Chapman e soci è in decisa fase
calante, ma questo non comporta svendite e facili liquidazioni, la caduta nel banale.
Il gruppo resta fiero ed eretto, senza colpe delle quali vergognarsi, fino all’ultimo It’s only a
movie del 1973. Dei Family non fanno più parte ‘Poli’ Palmer e Wetton (approdato alla corte
dei King Crimson), mentre danno il loro contributo il tastierista Tony Ashton (già con
Gardner & Dyke) e il chitarrista (per l’occasione bassista) Jim Cregan, ex Blossom Toes e
Stud. It’s only a movie è di certo il disco meno brillante ed interessante dei Family, con ben
poca carne da mettere al fuoco (parzialmente ci si può accontentare delle sufficienti Buffer tea
for two e Boom bang).
Lo scioglimento del gruppo, nell’ottobre del 1973, non sorprende eccessivamente anche se i
Family ottengono consensi trionfali proprio in occasione del tour inglese di addio, culminato
in un concerto al Rainbow. All’inizio del ’74 Chapman e Whitney formano gli Streetwalkers,
che pubblicano cinque discreti LP prima di naufragare nel 1977 ; negli anni Ottanta il
cantante si dedica alla carriera solistica realizzando una fitta serie di album, a volte con
apprezzabili risultati artistici. Da parte sua Whitney forma gli Axis Point : con lui sono Rob
Townsend (che nel ’74 suona con i Medicine Head) e altri due veterani quali Eddie Hardin
(Spencer Davis Group, Hardin & York) e Charlie McCracken (Taste, Stud).
Le origini storiche dei Jethro Tull, uno dei gruppi più longevi di tutto il rock inglese,
risalgono alla metà degli anni Sessanta e a piccole formazioni della zona di Blackpool, quali
Blades e John Evan Band. Nel 1967 Ian Anderson e Glenn Cornick sono nella John Evan’s
Smash mentre Mick Abrahams e Clive Bunker suonano nei McGregor’s Engine, provenienti
da Luton. Dall’unione dei quattro musicisti, nel novembre 1967, inizia l’avventura dei Jethro
Tull che nel febbraio del ’68 esordiscono con il timido 45 giri di Sunshine day / Aeroplane. Il
gruppo suona spesso al Marquee e in occasione del festival di Sunbury effettua una riuscita
esibizione che contribuisce ad aumentare la considerazione in terra inglese.
Nell’ottobre del 1968 esce il primo album This was (Island), accompagnato dal singolo A song
for Jeffrey. Il disco mostra in modo esauriente lo stile dei primi Jethro Tull, improntato ad un
entusiasta rock blues nel quale si trova a perfetto agio la chitarra di Abrahams, grintosa ed
ineccepibile sotto l’aspetto tecnico. Meno impeccabile risulta l’approccio al flauto da parte di
Anderson, con uno stile ancora approssimativo, mutuato dal jazzista Roland Kirk ; il suono
dello strumento caratterizza però in modo deciso il timbro della musica del gruppo, Anderson
è un front man spettacolare in grado di coinvolgere il pubblico dei concerti e inoltre dispone
di una bella voce immediatamente riconoscibile. La sezione ritmica è solida e precisa, anche
inventiva dal momento che Glenn Cornick è un bassista piuttosto fantasioso e Clive Bunker si
dimostra batterista capace di andare oltre ad un oscuro lavoro di accompagnamento.
L’atmosfera del disco è frizzante e brani come My Sunday feeling, Beggar’s farm, It’s breaking
me up, l’incontenibile Cat’s squirrel sono ben congegnati ed eseguiti con passione e freschezza.
Indubbiamente originale appare A song for Jeffrey, dedicata da Anderson al vecchio
compagno Jeffrey Hammond Hammond, bassista nei Blades e nella John Evan Band (buono
anche One for John Gee, retro del singolo, uno strumentale jazz blues a ringraziamento del
manager del Marquee che fu il primo a credere nelle possibilità dei Jethro Tull). Serenade to a
cuckoo è la ripresa di un classico di Roland Kirk, mentre la serrata Dharma for one offre a
Bunker la possibilità di mettere in luce le proprie doti con un assolo conciso e pirotecnico, che
vanta il merito di riuscire a non annoiare.
I contrasti tra Anderson e Abrahams, sulla direzione musicale da seguire e riguardo alla
leadership interna del complesso, si fanno sempre più netti e quando, nel dicembre del ’68,
viene dato alle stampe il nuovo singolo Love story / Christmas song il chitarrista ha già
abbandonato per dedicarsi ai Blodwyn Pig. Per il posto vacante vengono contattati diversi
musicisti tra i quali Dave O’List (dei Nice) e soprattutto Tony Iommi ; quest’ultimo rimane
per pochi giorni con il gruppo di Anderson, tanto quanto basta per capire che non è quella la
sua strada. Iommi torna ai suoi progetti e dopo qualche mese dà vita ai Black Sabbath. Alla
fine la scelta cade su Martin Barre, uno strumentista di ottima qualità e (guarda caso) in
piena sintonia con le esigenze stilistiche di Ian Anderson ; Barre diviene il fedele scudiero del
leader, ancora oggi al suo fianco.
La prima incisione pubblicata dal rinnovato quartetto è Living in the past (maggio ’69), un
brano melodico contraddistinto da un gradevole e misurato arrangiamento orchestrale. Dopo
un paio di mesi è la volta di Stand up, manifesto del nuovo corso musicale intrapreso dai
Jethro Tull che da questo momento, sotto la spinta determinante del padre padrone
Anderson, preferiscono attingere a matrici folk, con canzoni di ampio respiro melodico
notevolmente irrobustite dalle sferzate hard della chitarra e segnate dalla presenza sempre
più insistita del flauto. Il blues rimane come influenza marginale, qualcosa si può ancora
scorgere nella tirata struttura di A new day yesterday. A tratti emerge un gustoso e
caratteristico suono elettroacustico nelle piacevoli Jeffrey goes to Leicester Square, Look into
the sun, Fat man, così come nella celebre rivisitazione di Bach (Bourée) fornita in chiave jazz
rock. Capolavoro in ambito acustico è Reasons for waiting, mirabilmente in equilibrio tra
squisita canzone dal sapore folk ed arrangiamenti orchestrali che ricordano l’esperienza di
Living in the past. We used to know è una convincente ballata che da un inizio acustico sale
progressivamente di tono, grazie agli interventi della chitarra di Barre. Decisivi per
l’economia complessiva del lavoro sono i brani legati ad un’esposizione grintosa, ai limiti
dell’hard rock. L’egregia Back to the family s’avvale di una base melodica di stampo folk ed è
scossa da potenti soluzioni elettriche, ben lontane dal soffocare l’apparato narrativo della
canzone. Notevole anche Nothing is easy, imperniata su una struttura ritmica circolare che
ricorda l’Experience, stacchi e sospensioni eccitanti e una buona prestazione di Lancelot
Barre. Efficace la conclusiva For a thousand mothers, marcata da un originale incedere
ritmico.
Mick Abrahams è presto dimenticato, bene o male che sia. In ogni caso, da ora in avanti,
questi sono i Jethro Tull di Ian Anderson.
Con la popolarità in netta ascesa il gruppo effettua un paio di tour negli Stati Uniti,
riscuotendo buon successo ; del resto la creatività di Anderson è all’apice della forma, come
dimostrano gli ottimi singoli di Sweet dream (ottobre ’69), di The witches promise (gennaio
’70), stupenda, con la gentile melodia e un turbinio di flauti, e soprattutto come lascia
intendere la pubblicazione dell’album Benefit (aprile ’70), punto più alto raggiunto dai Jethro
Tull nella prima parte della carriera. Al disco collabora in modo sistematico (per il momento
come membro esterno) il vecchio amico John Evan, che introduce piano e organo.
L’iniziale With you there to help me, marcata da un flauto spettrale, sviluppa sonorità dure, a
tratti sorrette da ritmi convulsi. La musica del gruppo pare orientata ad una marcata rudezza
espressiva, mitigata dalla vena compositiva di Anderson e dal lavoro alle tastiere di Evan. To
cry you a song è hard in continua evoluzione, capace di guardare oltre l’angusto recinto del
riff implacabile grazie alla duttilità della chitarra e all’elasticità dell’impronta ritmica. Piace
pure Play in time, anche se il brano non brilla per eccessiva originalità ; piuttosto inconsueta è
invece Son, che presenta un’elaborazione singolare senza convincere in pieno. Non mancano
canzoni di gran presa melodica come la bellissima e poetica Nothing to say, la romantica For
Michael Collins, Jeffrey and me, la ballata di Sossity ; you’re a woman. Inside (pubblicata
anche a 45 giri) e A time for everything ? sono caratterizzate dal flauto di Anderson e da una
notevole duttilità strumentale, mentre Alive and well and living in (retro del singolo) possiede
un suono raffinato con l’importante contributo di Evan al piano.
Subito dopo la pubblicazione di Benefit John Evan entra come quinto elemento stabile e il
gruppo si esibisce al festival di Wight, ma alla fine del 1970 il bassista Glenn Cornick
abbandona i compagni per fondare i Wild Turkey, con i quali incide due LP (sarà poi nei
Kathargo e nei Paris, con l’ex Fleetwood Mac Robert Welch). Con l’ingresso del tante volte
citato Jeffrey Hammond Hammond i Jethro Tull sono pronti per affrontare il grande successo
anche negli Stati Uniti, che giunge puntuale per merito di Aqualung.
JETHRO TULL
-
AQUALUNG
(Chrysalis - 1971)
Pubblicato nel marzo del 1971, Aqualung è una sorta di album concept incentrato sul tema
della religione. Alla ricerca di un vasto riscontro di vendite negli USA, Anderson predispone
un lavoro nel quale prevalgono gli estremi dei concetti sonori sviluppati dal gruppo sino a
quel momento.
Sotto l’aspetto più prossimo al rock duro i Jethro Tull realizzano tre brani tra i più
importanti di tutta la loro produzione. Aqualung s’affida ad un giro micidiale di chitarra e ai
modi della ballata folk, con chitarra acustica e una lontana, nostalgica voce narratrice ; come
sempre alla base esiste una forte componente melodica in grado di donare equilibrio e
gradevolezza all’insieme. Cross-eyed Mary, introdotta da flauto e mellotron, evolve in un
rhythm & blues moderno e personale, schematizzato da una quadrata sezione ritmica. My
God sorge magnifica su un’audace architettura gotica, in continua trasformazione tra suoni
acustici, durissime linee di chitarra ed incontenibili assoli di flauto.
In alternativa a questi suoni spigolosi Anderson pone alcune ballate d’impronta folk, per lo
più esili, delicate e di breve durata quali Cheap day return, Mother goose, Wond’ring aloud,
Slipstream. In mezzo alle due tendenze alcuni episodi di minore interesse (le discrete Hymn 43,
Wind up, Up to me) e la bella Locomotive breath, destinata a diventare un classico nello
sconfinato repertorio del gruppo per via del coinvolgente incedere ritmico.
Aqualung raccoglie le ultime prestazioni dell’ottimo Clive Bunker, che in maggio lascia i
Jethro Tull per formare i Jude con Robin Trower (chitarrista dei Procol Harum), James
Dewar (bassista degli Stone the Crows) e il cantante Frankie Miller. Si tratta però di una
sistemazione poco durevole : la formazione si dimostra torrenziale dal vivo ma non riesce a
trovare un contratto discografico e in breve tempo si dissolve. Bunker proverà poi, sempre
senza fortuna, con gli Aviator e con l’infruttuoso tentativo di riunione dei Blodwyn Pig.
Il sostituto è Barriemore Barlow, anch’egli ex Blades e John Evan Band. Il nuovo LP Thick as
a brick (febbraio 1972) non fatica a raggiungere un gran successo di vendita, ma vede la
critica divisa sulla valutazione dell’opera che porta Anderson al raggiungimento della forma
espressiva della suite. Sono lontani i tempi dell’euforia rock blues di This was, del pregevole
hard folk degli album successivi. Distante dal vuoto estetismo di cui è stato spesso accusato,
Thick as a brick presenta un collage ben organizzato di temi, melodie vagamente folk,
improvvisi stacchi hard, ‘reprise’ e cambiamenti di ritmo tenuti insieme dalla sicura voce di
Anderson. I Jethro Tull esibiscono le note capacità strumentali, dalla ritmica potente ed
esuberante al lucido suono delle tastiere (organo in particolare) ; un po’ in secondo piano la
chitarra elettrica, dopo le possenti parti su Aqualung.
Sempre nel ’72 il gruppo pubblica il doppio Living in the past, che raccoglie numerosi brani
tratti da 45 giri e mai inseriti nei precedenti album ; nel disco sono presenti anche le cinque
canzoni che costituiscono il maxi singolo edito nell’estate del 1971, tra le quali spiccano le
gradevoli Life is a long song e Up the ‘pool. Inoltre una facciata dell’album è interamente
dedicata ad un interessante estratto di un concerto alla Carnegie Hall.
Bisogna attendere fino al luglio del 1973 per la presentazione del nuovo A passion play
(Chrysalis-1973) e il risultato non convince pienamente. Stroncato dalla critica l’album, che si
compone di un’unica lunga suite, in effetti appare eccessivamente pretenzioso e a tratti
disorganico, notevolmente appesantito nelle parti strumentali.
I Jethro Tull continuano imperterriti a realizzare dischi, nonostante i tempi migliori siano
ormai tramontati, ottenendo risultati a volte degni di menzione (Minstrel in the gallery,
Chrysalis-1975 / Songs from the wood, Chrysalis-1977) e ancora oggi insistono, incuranti delle
mode e degli anni che pesano sulle spalle.
Ars Longa Vita Brevis - 2
la musica della casa delle bambole
- 28 Verso la metà degli anni Sessanta, il tastierista Keith Emerson e il bassista Lee
Jackson suonano in un complesso chiamato Gary Farr & the T. Bones. Dopo una breve
parentesi nel 1966 con i V.I.P. (formazione che annovera diversi musicisti che poi saranno
negli Spooky Tooth) Emerson si ritrova con Jackson nei Nice, con la partecipazione del
chitarrista David O’List e del batterista Brian Davison. Inizialmente il gruppo accompagna le
prestazioni della cantante P.P. Arnold, una delle Ikettes di Ike and Tina Turner in cerca di
successo solista, ma ben presto (nell’ottobre del ’67) decide di proseguire autonomamente
ottenendo risultati di rilievo.
NICE
-
THE THOUGHTS OF EMERLIST DAVJACK
(Immediate - 1968)
A seguito di una fortunata partecipazione al festival di Windsor il gruppo firma per la
Immediate e pubblica l’album The thoughts of emerlist davjack, nel maggio del 1968. Spinti da
Emerson, musicista di predisposizione classica, i Nice sperimentano una musica che porta alle
estreme conseguenze le forme neoclassiche introdotte nel rock dai Beatles, mettendo in risalto
la posizione preminentemente solistica dell’organo rispetto alla chitarra (pure presente con
esiti qualitativi) e gettando un ponte decisivo verso le forme di rock classico - sinfonico dei
primi anni Settanta.
Le regole del gioco sono fissate in brani di notevole impatto quali Flower king of flies, War and
peace e Rondo : in particolare quest’ultimo brano riveste importanza fondamentale per lo
sviluppo di certo rock a forte caratterizzazione classica, basato su una fluida e mai verbosa
esercitazione all’organo di Emerson disturbata dalla chitarra del guastatore O’List e
sostenuta da un’estrosa sezione ritmica. Proprio il suono della chitarra di O’List, incentrato
sul rumore e sul timbro (sulle orme di Barrett), contribuisce a definire in modo originale i
tratti della musica dei Nice. Possono così prendere forma impegnativi affreschi d’ispirazione
psichedelica, quali l’eterea The cry of Eugene, pervasa dall’acido timbro della chitarra che
culmina in vortici allucinati, e l’ottima Dawn, resa affascinante dal gioco di chiaroscuri messo
in opera da tastiere e chitarra. Il disco è completato dalla title track, una spiritata canzoncina
dalle atmosfere barocche e dal sapore vagamente psichedelico, e dalle meno intraprendenti
(ma non per questo di poco interesse) Bonnie K e Tantalising Maggie.
David O’List abbandona i Nice subito dopo. Nella sua sfortunata carriera perde varie buone
occasioni, alla fine del ’68 quando va in prova con i Jethro Tull (che per sostituire Mick
Abrahams scelgono poi Martin Barre) e nel 1971 con i neonati Roxy Music, dove viene
rapidamente avvicendato da Phil Manzanera.
Dal vivo il gruppo si fa largo offrendo esibizioni oltraggiose, che colpiscono le fantasie del
pubblico ; pezzo forte dei concerti è la rivisitazione di America, tema tratto dalla commedia
musicale West side story di Leonard Bernstein che lo stesso compositore sconfessa
nell’interpretazione dei Nice, ritenuta offensiva. Leggendaria resta l’esecuzione del brano in
occasione di un concerto alla Royal Albert Hall, con tanto di rogo della bandiera americana ;
ovviamente l’impresa frutta al gruppo l’espulsione permanente dalla celebre sala
concertistica.
Dopo la pubblicazione su singolo di America, nel luglio del ’68, i Nice ridotti a trio producono
il nuovo album Ars Longa Vita Brevis, che contiene un adattamento della Carelia suite di Jean
Sibelius e insegue un’ambiziosa via espressiva nella suite che titola il disco. L’assenza
dell’imprevedibile e sfuggente chitarra di O’List rende la musica dei Nice meno fantasiosa,
decisamente tecnica e densa di riferimenti alla cultura classica ; nella suite di Ars Longa Vita
Brevis appaiono un’orchestra sinfonica e una citazione dai Concerti Brandeburghesi di Bach,
ma lo stile del gruppo (dominato dalle tastiere di Emerson) risulta ancora fresco e piacevole,
lontano dal freddo conformismo che attanaglierà i Nice stessi e buona parte del rock sinfonico
negli anni Settanta.
Il terzo LP Nice (settembre ’69) chiude la stagione migliore della formazione. Sul primo lato,
registrato in studio, trovano posto buone canzoni progressive come Azrael revisited (dove viene
citato il compositore russo Serghei Rakhmaninov), la fluida For example e un'ispirata
versione della Hang on to a dream di Tim Hardin. La seconda parte, dal vivo al Fillmore East
di New York, presenta una brillante esecuzione della classica Rondo e una libera
interpretazione di She belongs to me di Bob Dylan.
Già alla fine del 1969 Emerson è intento ad organizzare, con Greg Lake dei King Crimson, un
supergruppo triangolare che esordirà nell’agosto del ’70 al festival dell’isola di Wight. Per
contro la musica dei Nice si fa di minor interesse, come dimostrano la non esaltante prova di
Five bridges (Philips-1970) e l’ultimo Elegy (Philips-1971), che esce postumo in seguito allo
scioglimento del gruppo.
Il dopo Nice vede Lee Jackson formare i Jackson Heights che nel 1970 si disimpegnano
positivamente con King progress (Charisma), album gradevole dalle raffinate sonorità
elettroacustiche. La formazione pubblica altri tre LP prima di sciogliersi nel 1973. Buona
anche la fugace esperienza di Brian Davison con gli Every Which Way, dove è presente l’ex
Skip Bifferty Graham Bell ; il gruppo riesce ad incidere un solo album omonimo nel 1970,
pubblicato dall’etichetta Charisma. Nell’agosto del 1973 Davison e Jackson tornano insieme
per fondare i Refugee, con il tastierista svizzero Patrick Moraz (presente nell’ultima edizione
dei Jackson Heights). Ispirati chiaramente dai Nice sin dall’assetto triangolare della
formazione, i Refugee fanno giusto in tempo a realizzare un long playing dal titolo omonimo
(Charisma-1974) prima che Moraz entri negli Yes, come sostituto di Rick Wakeman all’epoca
di Relayer.
Procol Harum e Moody Blues sono tra le prime formazioni ad elaborare una musica di
evidente impostazione classico - sinfonica, ottenendo notevoli consensi commerciali a fronte di
un rock melodico dai toni esili, che spesso stenta a trovare contenuti efficaci.
La carriera dei Procol Harum registra un fondamentale, imprescindibile punto di riferimento
nella pubblicazione del primo singolo, quella A whiter shade of pale che nel maggio 1967 vola
al comando della classifica inglese vendendo mezzo milione di copie in tre sole settimane. Il
brano costituisce uno degli esempi embrionali del cosiddetto ‘art rock’, ispirato all’Aria sulla
quarta corda di Johann Sebastian Bach e con un latente gusto soul che rende la canzone un
classico per le sale da ballo dell’epoca (in Italia famosa la versione dei Dik Dik : Senza luce).
Gli unici membri dei Procol Harum che partecipano a quella storica incisione sono il
tastierista Matthew Fisher (sue le maestose linee d’organo che caratterizzano il pezzo) e il
cantante Gary Brooker. Gli altri componenti (Dave Knights, Ray Royer e Bobby Harrison)
nell’occasione sono sostituiti da alcuni sessionmen, e pare che proprio per questo motivo
Royer e Harrison decidono di abbandonare la formazione (l’ultimo fonda i Freedom).
I due lasciano il posto al chitarrista Robin Trower e al batterista B.J. Wilson, entrambi
compagni di Brooker nei Paramounts, un complesso di R & B attivo tra il ’62 e il ’66. I
Procol Harum insistono sulla stessa falsariga con il nuovo 45 giri Homburg (ennesima
traduzione in Italia per i Camaleonti, L’ora dell’amore) e alla fine del 1967 incidono il
materiale del primo album omonimo, che comprende anche la celebre A whiter shade of pale.
Il disco appare piuttosto timido e fragile, nonostante la presenza di alcune canzoni
dall’accattivante linea melodica (A Christmas camel, She wandered through the garden fence) e
di concise soluzioni soul rock (Certes e la bella Kaleidoscope).
Il long playing e quelli immediatamente successivi, Shine on brightly (Regal Zonophone-1968)
e A salty dog (Regal Zonophone-1969), ottengono gran successo negli Stati Uniti e confermano
i limiti espressivi del gruppo : accanto a buone canzoni, come la sinfonica A salty dog, che
comunque non vanno oltre l’impianto melodico sul quale sono costruite, i Procol Harum si
lasciano prendere la mano da eccessive ambizioni (la lunga, artificiosa In held twas in I)
risultando dispersivi e poco credibili. Nel ’69 Fisher e Knights lasciano il gruppo e con
l’ingresso di Chris Copping in pratica si ricostituisce la vecchia formazione dei Paramounts ;
nel 1970 esce Home, sempre per la Regal Zonophone, e si registra l’esibizione al festival
dell’isola di Wight.
Robin Trower, chitarrista focoso ed innamorato del rock blues più vigoroso, presto si stanca
delle atmosfere melodiche e classicheggianti dei Procol Harum e nel luglio del 1971
abbandona il gruppo per formare i Jude, con Clive Bunker (Jethro Tull), James Dewar (Stone
the Crows) e il cantante Frankie Miller. I Jude hanno vita breve, nonostante dimostrino dal
vivo di possedere notevoli capacità esecutive con la proposta di un rock blues ad alta
temperatura. La scelta definitiva del chitarrista è per una propria formazione triangolare
(ancora Dewar, oltre al batterista Reg Isadore, poi sostituito da Bill Lordan di Sly & the
Family Stone) che ottiene buoni risultati discografici, interpretando una musica grintosa di
evidente derivazione hendrixiana.
Da parte loro, i Procol Harum continuano pubblicando altri lavori poco originali ed
interessanti, fino allo scioglimento verso la fine degli anni Settanta.
I Moody Blues si formano in piena epoca beat nel maggio del 1964 ed ottengono notevole
successo con il singolo Go now, che balza in vetta alle classifiche inglesi del ’65 ; nello stesso
anno il gruppo supporta i Beatles in un tour americano e pubblica l’album The magnificent
Moodies (Decca). Nel novembre ’66 i Moody Blues s’assestano con Ray Thomas (v.ar.fl.),
Mike Pinder (ts.v.), Graeme Edge (bt.) e i nuovi arrivati Justin Hayward (ch.v.) e John Lodge
(bs.v.). Anche lo stile muta dal rhythm & blues degli esordi ad un ambizioso pop sinfonico,
che trova ampia raffigurazione sul 33 giri di Days of future passed (Deram), realizzato nel
1967 con la partecipazione della London Festival Orchestra diretta da Peter Knight.
Days of future passed è un lavoro pretenzioso, che solo a tratti riesce ad esprimere qualche
spunto convincente (la leggera Peak hour, che perlomeno risveglia dal torpore generale, e le
belle melodie di Forever afternoon (Tuesday ?) e soprattutto di Nights in white satin - in Italia
Ho difeso il mio amore, un successo per i Profeti), all’interno di una logica sinfonico orchestrale troppo enfatica.
Tra i dischi successivi possono essere segnalati In search of the lost chord (’68) e On the
threshold of a dream (’69), entrambi su etichetta Deram, con un crescente successo
commerciale che prosegue nel decennio seguente ma senza risultati particolarmente
memorabili sul piano artistico.
Ars Longa Vita Brevis - 3
la musica della casa delle bambole
Musicista di formazione jazz, Brian Auger crea il primo nucleo dei Trinity nel 1964 ; in
tempi diversi suonano con lui il bassista Rick Laird (poi nella Mahavishnu Orchestra), il
batterista Mick Waller (Jeff Beck Group) e il chitarrista John McLaughlin (Miles Davis,
Mahavishnu Orchestra). Nel 1965 i Trinity vengono destinati a fungere da gruppo di base
negli Steampacket, una formazione ideata dal manager Giorgio Gomelsky che annovera i
cantanti Rod Stewart e Long John Baldry (provenienti dagli Hoochie Coochie Men), oltre alla
segretaria di Gomelsky, Julie ‘Jools’ Driscoll. Gli Steampacket durano un anno scarso e
registrano solo alcuni nastri di prova, pubblicati in svariate edizioni postume.
Sciolti gli Steampacket, Auger riorganizza i Trinity e nel 1967 esordisce con Open (edito dalla
Marmalade dello stesso Gomelsky), ottenendo buon successo con i 45 giri Save me e This
wheel’s on fire (un brano di Bob Dylan). Forse un tantino sopravvalutati, i Trinity meritano
giusta considerazione almeno per il doppio LP Streetnoise (Marmalade-1969). A quei tempi,
oltre a Auger e alla Driscoll, il gruppo comprende il bassista Dave Ambrose e il batterista
Clive Thacker, proponendo una musica che spazia dalla canzone melodica di facile presa alle
nuove istanze progressive, con qualche timida influenza jazz. Elementi fondamentali sono la
brillante tecnica all’organo di Brian Auger che si può assaporare in tutto il lavoro, in
particolare nelle dinamiche escursioni di Tropic of capricorn, Ellis island, Finally found you
out, e la voce della Driscoll che pare atteggiarsi come una Grace Slick più eterea e jazz, priva
dell’emozionante respiro psichedelico della californiana (belle interpretazioni in
Czechoslovakia e When I was young). Presenti anche numerose cover, alcune riuscite come
Save the country di Laura Nyro (dall’album New York Tendaberry), altre discrete (All blues,
dal monumentale Kind of blue di Miles Davis), altre ancora certamente poco ispirate (la
discutibile versione di Light my fire dei Doors).
Poco dopo la Driscoll lascia il gruppo e convola a nozze con il pianista jazz Keith Tippett ;
Auger mantiene in vita i Trinity fino al luglio 1970 per poi formare gli Oblivion Express,
discreta formazione jazz rock con cui produce una lunga serie di album.
Di rilievo indubbiamente superiore sono i risultati artistici conseguiti dai Colosseum, una
delle formazioni più interessanti tra quelle che si misurano con una sintesi sonora che
riassume senza forzature rock, jazz, blues e influenze classiche.
Il batterista Jon Hiseman inizia la carriera suonando in un gruppetto jazz nel quale conosce il
tastierista Dave Greenslade, quindi entra nel quintetto di Don Rendell al fianco di Graham
Bond ; quando Bond si mette in proprio con la prima edizione dell’Organization, alla sezione
ritmica costituita da Jack Bruce e Ginger Baker l’organista decide di associare non la solita
chitarra solista, bensì il sassofono di Dick Heckstall Smith. Hiseman ha modo di partecipare
per breve tempo alla seconda formazione dell’Organization (al posto di Baker) e di entrare in
contatto con Heckstall Smith.
Il nucleo base dei Colosseum prende forma all’interno dei Bluesbreakers di John Mayall,
dove si ritrovano Hiseman, Heckstall Smith e il bassista Tony Reeves ; quella versione del
complesso nel 1968 è responsabile dell’album Bare wires. Recuperato Greenslade (nel
frattempo con i Thunderbirds di Chris Farlowe) ed inserito il chitarrista James Litherland,
nello stesso anno viene ufficializzata la nascita dei Colosseum. Il blues più ritmato e il jazz
sono gli elementi basilari su cui il gruppo sviluppa le proprie trame sonore sin dal primo
album Those who are about to die salute you, pubblicato all’inizio del 1969 per l’etichetta
Fontana ; presenti anche chiare reminiscenze di stampo classico, apportate in particolare da
Greenslade (Beware the ides of march, come la A whiter shade of pale dei Procol Harum,
s’ispira all’Aria sulla quarta corda di Bach), il tutto sostenuto da una sezione ritmica ricca di
talento. Tra i brani di maggior interesse gli strumentali Mandarin e Debut, il blues di
Backwater blues (con Litherland e Heckstall Smith in evidenza), il grintoso R & B di Walking
in the park (recuperato dal secondo LP della Graham Bond Organization) e l’elaborata
partitura della title track.
COLOSSEUM
-
VALENTYNE SUITE
(Vertigo - 1969)
I Colosseum producono il massimo sforzo compositivo con la realizzazione del secondo album
Valentyne suite (prima pubblicazione assoluta per l’etichetta Vertigo, con la quale il gruppo
ha nel frattempo firmato). Il disco appare idealmente suddiviso in due parti ben distinte. Nel
primo lato i Colosseum mostrano i diversi aspetti della propria ispirazione con il rock
trascinante dell’aggressiva The kettle, con le escursioni jazz di Elegy (l’arrangiamento degli
archi è curato da Neil Ardley), con il blues fiatistico di Butty’s blues, mentre atipico è il rituale
ritmico di The machine demands a sacrifice.
E’ la seconda parte del disco, interamente occupata dalla suite che titola l’album, a fissare i
confini e sublimare la sostanza della musica dei Colosseum ; si tratta di una composizione
suddivisa in tre sezioni, ben strutturata ed arrangiata, capace di fare coesistere umori e suoni
di diversa origine. January’s search associa immagini evocative a ripide trame ritmiche,
condotte dal fluido organo di Greenslade che salda su fondamenta classiche la propensione a
fughe jazz, facendo tesoro della lezione dei Nice di Keith Emerson. La corale February’s
Valentyne serve da sezione di collegamento con la maestosa, indimenticabile apertura
melodica di The grass is always greener..., che prima anticipa certo estetismo romantico tipico
del rock d’inizio anni Settanta (poggiando su solide basi classiche - Ravel), quindi si lancia in
una pirotecnica jam con tanto di chitarra ai limiti dell’hard.
A dispetto dell’ottimo risultato ottenuto il gruppo comincia a mostrare sintomi di cedimento ;
nell’ottobre del ’69 Litherland viene sostituito dall’ottimo Dave Clempson (proveniente dai
Bakerloo), che con il suo robusto stile rock blues rende più pesante la musica dei Colosseum,
in particolare dal vivo. E’ poi il turno del bassista Tony Reeves che lascia il posto a Mark
Clarke, ed infine l’affermato Chris Farlowe (una versione di Out of time degli Stones gli
regala un primo posto in classifica nel 1966) entra come cantante.
I primi frutti del nuovo organico sono contenuti su Daughter of time (Vertigo-1970), registrato
nell’estate del 1970, album che vede la partecipazione del bassista Louis Cennamo
(Renaissance) e di Barbara Thompson ai fiati. La musica dei Colosseum appare ancora
interessante, anche se viziata da troppe pretese stilistiche, con il vocione baritonale di Farlowe
a creare un singolare contrasto con il jazz rock del gruppo (Three score and ten amen) : degni
di menzione sono gli arrangiamenti di Neil Ardley delle ottime Time lament e The daughter of
time, e il robusto melodismo di Theme for an imaginary western, un brano della coppia Pete
Brown / Jack Bruce già nel repertorio dei Mountain.
Dal vivo lo stile del complesso indurisce notevolmente, come dimostra il valido Colosseum live,
testimonianza del buon successo ottenuto nei concerti all’inizio del 1971. Buone sono le
versioni di Rope ladder to the moon e di Walking in the park, caratterizzate dalla rude chitarra
di Clempson e dalla voce potente di Farlowe, eccellente è la performance conclusiva di Lost
Angeles che pare rinverdire i fasti dei tempi migliori. Quantunque l’esperienza live mostri un
gruppo ancora in brillante forma, i Colosseum si sciolgono nell’autunno 1971, subito prima
della pubblicazione dell’antologia Collectors (Bronze-1971) che comprende alcuni interessanti
brani inediti, tra i quali una libera interpretazione del Bolero di Ravel su sfondo hard blues.
Clempson va a cercare gloria negli Humble Pie, Farlowe si unisce agli Atomic Rooster per
l’incisione di un paio di album, mentre Greenslade e Reeves formano (alla fine del 1972) i
discreti Greenslade ; in organico anche il tastierista Dave Lawson, proveniente dai Samurai e
in precedenza membro dei Web, una buona ma poco conosciuta formazione con all’attivo tre
LP tra i quali il migliore risulta l’ultimo I Spider.
Da parte sua Hiseman lavora alla realizzazione di una musica sorretta da durezze hard e
mitigata da inflessioni jazz ; il progetto sfocia nella nascita dei Tempest, con la partecipazione
di Clarke al basso, del cantante Paul Williams (ex componente dei Juicy Lucy) e soprattutto
di Allan Holdsworth, chitarrista di grandi doti tecniche con alle spalle una breve esperienza
con i Nucleus. Il primo album omonimo, pubblicato nel 1973, non sempre presenta materiale
di assoluta originalità. Sorprende la potenza del suono in brani quali Gorgon e Foyers of fun ;
la voce di Williams è particolarmente grintosa, Hiseman e Clarke costituiscono una sezione
ritmica rodata e di notevole impatto, Holdsworth sfoggia uno stile tecnicamente ineccepibile
che associa in modo originale riff d’impostazione hard con tirate solistiche veloci e jazzate. Il
gruppo dimostra buona personalità in canzoni come Up and on e Upon tomorrow, che parlano
una lingua jazz rock robusta ed incisiva.
Ben presto Williams abbandona e Holdsworth viene affiancato e successivamente sostituito
dal chitarrista dei Patto, Ollie Halsall. L’edizione triangolare dei Tempest genera l’album
Living in fear (Bronze-1974), prima del definitivo scioglimento nell’estate 1975. Hiseman tenta
un impacciato recupero della vecchia sigla con i Colosseum II, incidendo tre LP di modesta
fattura che vantano il solo pregio di mettere in luce le qualità del chitarrista Gary Moore, già
leader degli Skid Row (due album nel ’70 - ’71) e saltuariamente membro dei Thin Lizzy,
destinato ad una fruttuosa carriera solistica.
Dopo il furioso periodo creativo con Syd Barrett e la lucida sperimentazione controllata di
A saucerful of secrets i Pink Floyd, all’inizio del 1969, s’impegnano nella realizzazione di More
(Columbia-1969), colonna sonora del film di Barbet Schroeder. Il disco, a parte un’inevitabile
frammentarietà tematica, evidenzia momenti d’ispirazione folk in belle composizioni quali
Cirrus minor, Green is the colour, Cymbaline e presenta due inconsueti brani hard, The nile
song e Ibiza bar.
Il doppio Ummagumma (un disco dal vivo e uno in studio) nell’ottobre dello stesso anno
chiude la fase creativa del periodo iniziale, prima della svolta sinfonica decretata da Atom
heart mother. La parte live, registrata nel giugno ’69 a Birmingham e Manchester, contiene
eccellenti versioni di classici come Astronomy domine, Set the controls for the heart of the sun,
A saucerful of secrets, oltre alla lisergica Careful with that axe, Eugene (già apparsa come retro
del valido singolo Point me at the sky e in seguito, con il titolo di Come in number 51, your time
is up, parte fondamentale della colonna sonora del film di Michelangelo Antonioni, Zabriskie
point - MGM 1970). Il brano è uno degli esempi più eclatanti di musica sott’acido, una sorta di
estatico dormiveglia squarciato da un’improvvisa, agghiacciante esplosione sonora.
Il disco di studio sceglie il metodo di quattro distinti progetti predisposti dai singoli musicisti,
rinunciando all’ideale coesione d’intenti del precedente A saucerful of secrets. La musica tocca
vertici notevoli nelle impressionanti tonalità delle quattro parti che compongono Sysyphus,
generate dall’impetuoso, esasperato, appassionato, vivisezionato classicismo delle tastiere di
Wright, e nell’ottima sequenza di The narrow way con Gilmour che si disimpegna tra la
ballata acustica di buone maniere della prima parte, gli inquietanti fremiti elettrici della
sezione seguente e la bella melodia conclusiva, anticipazione di alcuni aspetti del futuro stile
del gruppo. Waters si affida al folk campestre in Grantchester meadows ed è responsabile della
divertente gazzarra faunistica di Several species of small furry animals gathered together in a
cave and grooving with a pict, mentre intelligente ed originale appare l’affresco percussivo di
The grand vizier’s garden party proposto da Mason.
PINK FLOYD
-
ATOM HEART MOTHER
(Harvest - 1970)
La prima volta che i Pink Floyd eseguono in pubblico la suite di Atom heart mother è in
occasione del concerto al festival di Bath, dove si presentano con coro, sezione fiati e
spettacolo di fuochi artificiali. Nell’ottobre del 1970 la composizione è l’elemento portante del
nuovo LP, del quale occupa l’intera prima facciata. Il possente sperimentalismo di
Ummagumma lascia posto ad un’elaborazione concettualmente vicina al poema sinfonico a
carattere epico, articolato attraverso l’imponente introduzione di Father’s shout, le atmosfere
pastorali di Breast milky, le partiture corali di Mother fore, lo space funk di Funky dung, fino
alla rumorista Mind your throats please e all’affannoso riflusso mnemonico di Remergence.
La decisa virata stilistica, suffragata da un notevole successo commerciale (l’album va al
primo posto in Inghilterra), trova riscontro anche nelle moderate creazioni della seconda
parte. If è un delicato arpeggio della chitarra acustica, con la voce indolente di Waters ;
notevolmente migliori sono Summer ’68, un brano di Wright che adotta interessanti soluzioni
armoniche, e l’ottima Fat old sun (Gilmour), pallido tramonto degli ultimi tepori psichedelici.
La conclusiva Alan’s psychedelic breakfast s’affida ad un crudo realismo poco consono agli
scenari psichedelici evocati nel titolo, e il timido contributo strumentale non permette alla
creazione di decollare pienamente.
Da questo momento la musica dei Pink Floyd s’incammina decisa verso scenari che
necessitano di ambiziosi soggetti a tema e di lunghe, complesse elaborazioni, abbandonando
sempre più i territori della ricerca e dell’intuito. Per qualche tempo il gioco funziona
egregiamente, almeno fino al novembre del ’71 quando esce Meddle, album in grado di
regalare attimi di grande intensità e bellezza. Le folate space rock della brillante Out of these
days e il cromatismo timbrico della lunga, eccellente Echoes (in bilico tra stringato sinfonismo
e dinamico funk rock) possono essere considerati gli ultimi compiuti episodi della creatività
floydiana.
I Pink Floyd attraversano un buon periodo anche per ciò che riguarda i concerti dal vivo. Da
ricordare l'affascinante esibizione dell’ottobre ’71 tra le rovine di Pompei, senza la presenza
di pubblico, con i musicisti ripresi dalle telecamere per la realizzazione di un famoso film
concerto.
Dopo la superflua colonna sonora del film ‘La Vallée’, sempre del regista Barbet Schroeder
(Obscured by clouds, Harvest-1972), i Pink Floyd ottengono un immane successo commerciale
con The dark side of the moon che per anni resta in classifica negli Stati Uniti, risultando tra i
dischi più venduti di tutti i tempi. Paradossalmente, l’album (pubblicato nel 1973) è un’opera
a tema che contiene una dura critica alla società dei consumi e una denuncia sull’alienazione
del ‘moderno’ vivere umano, ma è pure il lavoro più commerciale del gruppo, dove va persa
ogni necessità creativa per lasciare spazio a suoni compromessi con l’estetica del bello a tutti i
costi e con l’esigenza di raggiungere una platea di acquirenti sempre più vasta.
I dischi successivi non introducono grosse novità : Wish you were here (Harvest-1975, dedicato
a Syd Barrett) è gradevole e ben strutturato, Animals (Harvest-1977) e il doppio The wall
(Harvest-1979) proseguono sulla stessa strada con gli oramai consueti trionfi commerciali.
Ars Longa Vita Brevis - 4
la musica della casa delle bambole
Robert Fripp inizia la carriera di musicista rock nell’agosto del 1967, associandosi in
un’atipica e fallimentare formazione triangolare con i fratelli Peter (bs.) e Mike (bt.) Giles.
Nel 1968 Giles, Giles & Fripp pubblicano l’album The cheerful insanity of G.G. & F. (Deram),
disco che adotta interessanti soluzioni armoniche ma risulta non particolarmente memorabile.
All’epoca l’insuccesso è clamoroso, con poche centinaia di copie vendute, e il gruppo giunge
all’inevitabile separazione verso la fine del ’68, senza riuscire a tenere esibizioni dal vivo.
La nuova ambiziosa creatura di Fripp nasce nel gennaio del 1969 (si narra il giorno 13) ; con
il chitarrista rimane Mike Giles e si aggiungono Ian McDonald (sf.ts.), Greg Lake (ex bassista
dei Gods) e, in qualità di paroliere, Pete Sinfield. In aprile i King Crimson tengono un primo
concerto allo Speakeasy di Londra, ma il vero esordio avviene in luglio, con la partecipazione
(davanti ad una folla oceanica) al free concert per Brian Jones organizzato a Hyde Park dai
Rolling Stones.
KING CRIMSON
-
IN THE COURT OF THE CRIMSON KING (Island - 1969)
Il gusto inconfondibile per la ballata melodica dei Beatles, il classicismo privo di remore dei
Nice, le intuizioni sinfoniche dei primi Family e lo sperimentalismo colto dei Pink Floyd post
Barrett (e pure la chitarra free form di Syd) sono alla base di uno stile originale, che trova
adeguato sfogo nell’album d’esordio dei King Crimson, primo compiuto tentativo (e in
assoluto tra i migliori esempi) di rock sinfonico impressionista.
I ritmi convulsi e schizofrenici, gli scatti repentini, l’apparente disordine e il rigido controllo
dinamico imposto da Fripp fanno di 21st century schizoid man un brano dalla notevole
originalità, destinato ad imprimere un importante segno sulla scena musicale progressiva. Il
personale approccio di Fripp allo strumento genera un suono teso, inquieto e stridente, capace
d’improvvise aperture melodiche, i fiati e le tastiere (il mellotron in particolare) di McDonald
costruiscono affascinanti ambientazioni classiche e la sezione ritmica si disimpegna con
eleganza, grazie al solido e tecnico basso di Lake (buono anche l’apporto vocale) e al leggero,
variegato tocco percussivo di Giles.
I talk to the wind è una canzone di meravigliata dolcezza, che nulla pare avere in comune con
l’intransigenza dell’episodio precedente e mette in primo piano i fiati di McDonald ; la stessa
Moonchild muove in territori placidi, con toni quieti e sfumati, quasi alla ricerca di una
recondita natura intima del suono.
Le grandiose ambientazioni di Epitaph e di The court of the Crimson King possiedono un
incedere epico, con il mellotron che produce imponenti squarci sinfonici punteggiati dalla
romantica chitarra di Fripp e contrapposti alla bellezza dei temi lirici delle canzoni.
I King Crimson compiono un tour negli Stati Uniti ma al ritorno in patria, verso la fine del
’69, Giles e McDonald escono dal gruppo per realizzare l’album McDonald & Giles (Island1970). Più avanti McDonald fa fortuna con i commerciali Foreigner, mentre Giles rientra alla
corte di Fripp per le registrazioni del secondo LP. Per In the wake of Poseidon (1970) Fripp
(da questo momento impegnato anche alle tastiere) organizza un’ampia formazione che
annovera, oltre a Mike Giles e a Greg Lake (entrambi però sul piede di partenza), il jazzista
Keith Tippett (pn.), il vecchio compagno Peter Giles (bs.), il fiatista Mel Collins (proveniente
dai Circus) e il cantante Gordon Haskell. Il disco ricalca le cadenze e i modi del lavoro
precedente con discreti risultati : Pictures of a city ricorda da vicino le atmosfere tese di 21st
century schizoid man senza possederne il devastante impatto, Cadence and cascade cerca
invano di catturare la magica dolcezza di I talk to the wind, In the wake of Poseidon si cala con
gusto ed equilibrio nel più tipico sinfonismo crimsoniano. Cat food strizza l’occhio a certo pop
jazz intelligente, con più di qualche reminiscenza Beatles e con il piano rotolante di Tippett.
Tra gli episodi di maggior interesse è da annoverare la mini suite di The devil’s triangle, che
attinge pesantemente dal primo movimento (Mars, the bringer of war) de ‘I pianeti’ di Gustav
Holst, tanto che il compositore classico d’origine svedese avrebbe meritato almeno una fredda
citazione fra gli autori del brano.
Attorno alla figura centrale di Robert Fripp l’organico dei King Crimson continua a
modificarsi senza soste : Mike Giles esce definitivamente di scena, Greg Lake abbandona
all’inizio del 1970 durante le registrazioni del secondo LP per raggiungere Keith Emerson e
Carl Palmer. Si narra che Fripp pensò di utilizzare come cantante lo sconosciuto Elton John
al fine di completare le sessioni di In the wake of Poseidon e che lo stesso chitarrista rifiutò
l’offerta di sostituire Pete Banks negli Yes. In ogni caso il basso passa nelle mani del cantante
Gordon Haskell, e accanto al confermato Mel Collins si posiziona il nuovo batterista Andy
McCulloch. Con l’aiuto di una sostanziosa schiera di jazzisti (il solito Tippett, oltre a Robin
Miller, Mark Charig e Nick Evans ai fiati) e del cantante Jon Anderson degli Yes, la
formazione registra il controverso Lizard (sempre nel 1970), disco considerato da molti addetti
ai lavori come il più debole dell’intera produzione. Probabilmente il giudizio è troppo severo
nei confronti di Fripp e compagni ; di certo Lizard non raggiunge i vertici assoluti della
produzione dei King Crimson, ma neppure va disconosciuto il coraggio di Fripp nel voler
utilizzare sistematicamente un linguaggio contaminato da accenti jazz, senza perdere di vista
il classicismo sinfonico di base. Piacciono il romanticismo che permea la bella Cirkus e il
divertente dinamismo di Indoor games, che pure mostra qualche indecisione. La suite che
titola l’album occupa l’intero secondo lato, passando dalla ballata romantica di Prince Rupert
awakes (cantata da Anderson) ad un inconsueto Bolero per gruppo rock, piano e fiati jazz, per
concludersi con le complesse stratificazioni sonore di The battle of glass tears.
Nel 1971 i King Crimson subiscono un ennesimo rimpasto per via dell’uscita di Haskell e di
McCulloch (che va con i Greenslade) ; cessa la collaborazione anche con Tippett che
organizza i Centipede, un mastodontico ensemble con cui effettua un paio d’esibizioni e
registra un album, Septober energy (2 LP RCA-1971), interamente composto ed arrangiato
dal jazzista e prodotto da Fripp (presenti, tra gli altri, Elton Dean, Robert Wyatt, Karl
Jenkins, John Marshall, Mike Patto e la moglie del pianista Julie Driscoll).
La nuova sezione ritmica dei King Crimson è composta dal bassista e cantante
Raymond ‘Boz’ Burrell e dal batterista Ian Wallace, proveniente dai World di Neil Innes.
Così sistemato il gruppo registra nel 1971 l’ottimo Islands, lavoro che riassume un raffinato
connubio tra rock, jazz e classica dai toni soffusi e romantici. Dopo l’apertura riservata al pop
jazz impertinente di Ladies of the road e preceduta dalle movenze classiche di Song of the
gulls, Islands è un tenue, suggestivo affresco che conquista nonostante l’assoluta staticità di
esposizione. Sulla stessa cadenza rallentata si muove la bella Formentera lady, che sfocia nel
maestoso sussulto ritmico di Sailor’s tale ; la conclusiva The letters si agita tra morbide linee
melodiche, rock d’avanguardia e free jazz, anticipando in parte i modi a venire della musica
del Re Cremisi. Islands è l’ultimo disco alle cui liriche contribuisce Pete Sinfield, che in
seguito di dedica alla produzione (il primo LP dei Roxy Music), incide un disco solista (Still,
Manticore-1973) e scrive i testi per Photos of ghosts della P.F.M., versione inglese di Per un
amico, per poi scomparire dalle scene.
I King Crimson effettuano un tour americano all’inizio del 1972, dal quale sono estratte le
registrazioni che fruttano l’incerto Earthbound (Island-1972). Al termine della serie di
concerti il gruppo si sfalda : Collins, Burrell e Wallace prima formano gli Snape con Alexis
Korner, quindi Collins entra nei Kokomo, Wallace suona con gli Streetwalkers di Roger
Chapman e Burrell trova successo con i Bad Company di Paul Rodgers. Da parte sua Fripp
impiega qualche mese per riassettare l’organico ed impostare il discorso musicale su basi
piuttosto differenti.
- 29 E’ la fine del 1969 quando il tastierista dei Nice Keith Emerson comincia a meditare
sulla possibilità di costituire una formazione triangolare, in grado d’inserirsi autorevolmente
nel dilagante fenomeno del rock classico progressivo che inizia a raccogliere importanti
risultati commerciali. L’idea è quella del supergruppo e il primo ad essere coinvolto è Greg
Lake, bassista e cantante di Shame, Gods, ma soprattutto dei King Crimson di sua maestà
Robert Fripp. All’inizio del 1970 viene individuato il batterista nella figura di Carl Palmer,
già con Chris Farlowe, Arthur Brown e Atomic Rooster, e nascono ufficialmente gli Emerson,
Lake & Palmer che sin dalla sigla adottata lasciano trasparire un certo narcisismo di fondo.
EMERSON, LAKE & PALMER
-
EMERSON, LAKE & PALMER
(Island - 1970)
Le ambizioni di Emerson, Lake & Palmer si riflettono anche sulla scelta del prestigioso
palcoscenico dell’isola di Wight per il debutto live, nell’agosto del 1970. Il gruppo propone
una musica ad elevata concentrazione tecnica, di notevole effetto e non priva di soluzioni
interessanti. Sicuramente sono lontane la freschezza, le trovate estemporanee dei primi Nice,
ma almeno non compaiono stucchevoli tentazioni orchestrali, assai diffuse nel territorio del
rock neoclassico ; qui le tastiere inseguono vertigini barocche ad alta definizione, il basso
sostiene possentemente la struttura delle canzoni e la batteria fornisce una propulsione
inarrestabile.
Se The barbarian propone uno scorcio strumentale introduttivo alla musica del trio, Take a
pebble s’affida alla voce e alla chitarra acustica di Lake, oltre che alla tecnica esecutiva di
Emerson, mentre Knife-edge lascia scorrere plastiche configurazioni ritmiche d’indubbia
presa. The three fates permette ad Emerson di sfogare le brame classiche con partiture per
organo e piano (solo e trio), Tank riporta il ritmo sul rock ad alta tecnologia e contiene un
assolo di batteria non troppo fantasioso, Lucky man è un finale atipico con il passo della
ballata elettrica.
Il disco ottiene lo sperato successo, piazzandosi nelle posizioni alte della classifica inglese, e
ancora meglio fa Tarkus, che nel ’71 raggiunge il primo posto. Il suono di Tarkus appare più
freddo e calcolato, ma comunque piace molto pur nell’estrema rigidità tematica ed espressiva
dell’omonima suite. Del resto i brani residui ridimensionano parecchio le pretese, con qualche
innocua canzoncina (Jeremy Bender, Are you ready Eddy ?) ed episodi non del tutto
convincenti.
Il controverso Pictures at an exhibition (Island-1971), registrato dal vivo a Newcastle nel
marzo del ’71 su musiche del compositore russo Modest Mussorgski, e il successivo album di
studio Trilogy (Island-1972) brillano solo a sprazzi e mostrano il gruppo in chiara fase
discendente, in contrasto con il sempre notevole successo discografico. Su Trilogy trova posto
From the beginning, una rilassata ballata composta da Lake che ottiene buona fortuna
commerciale come singolo, ed è presente una riuscita elaborazione (Hoedown) di un
frammento tratto dal balletto Rodeo del compositore americano Aaron Copland.
Emerson, Lake & Palmer giungono al traguardo della costituzione di una propria etichetta
discografica, la Manticore, ma i risultati creativi deludono le attese : Brian salad surgery
(Manticore-1973) si perde nei meandri di una musica pesante negli arrangiamenti e priva di
emozioni, che viene celebrata definitivamente nel mastodontico resoconto live di Welcome
back my friends, to the show that never ends (3 LP Manticore-1974).
Contemporanei di E.L.&P., i Quatermass sono una formazione costruita sulle stesse
modalità del triangolo con al vertice le tastiere, capace di lasciare il segno della propria
effimera esistenza con la realizzazione di un album di notevole qualità.
Le origini del gruppo risalgono alla fine degli anni Sessanta, quando il bassista John
Gustafson (musicista di grande esperienza che attraversa la scena del beat di Liverpool in
complessi come Big Three, Seniors e Merseybeats) si ritrova negli Episode Six, una
formazione di scarso successo nota per aver annoverato nelle sue fila Ian Gillan e Roger
Glover, futuri Deep Purple. Negli Episode Six Gustafson conosce il tastierista Pete Robinson e
il batterista Mick Underwood, con i quali nel settembre ’69 dà vita ai Quatermass.
QUATERMASS
-
QUATERMASS
(Harvest - 1970)
L’unico album inciso dai Quatermass resta uno dei migliori esempi di rock progressivo
realizzato da una formazione priva di chitarra solista. Il gruppo dimostra padronanza
strumentale e, al tempo stesso, notevole vitalità e dinamismo esecutivo ; ciò che per E.L.&P.
appare serioso e forzato è reso dai Quatermass in modo disinvolto, con gran naturalezza.
Tra i due estremi rappresentati dai brevi frammenti di Entropy, il lavoro evidenzia una
musica che in alcuni episodi possiede l’impatto dell’hard rock : è il caso di Black sheep of the
family, così come di Gemini (già nel repertorio dei New Animals, spaziata dall’organo siderale
dello scatenato Robinson) e della bella Make up your mind, che fa perno su un convincente
apparato melodico per poi svolgersi nella parte centrale con una buona sequenza strumentale.
Good Lord knows è una melodia felicemente arrangiata da Robinson, con clavicembalo e
orchestra d’archi ; il tastierista si ripete anche a livello compositivo con la fluida Laughin’
tackle, dove trova spazio un breve assolo di batteria di Underwood.
L’introduzione di stampo progressivo di Post war Saturday echo lascia il posto ad un lento
blues d’atmosfera, valorizzato dall’ottimo lavoro di Robinson all’organo e al piano. Up on the
ground libera gli strumenti e propone qualcosa di molto simile (e di meglio) a ciò che
utilizzeranno i decantati E.L.&P. per Tarkus.
Purtroppo i Quatermass non godono di un sufficiente riscontro di vendite e sono costretti allo
scioglimento già nell’aprile del 1971. Underwood si associa a Paul Rodgers nella brevissima
esperienza dei Peace, quindi incide vari LP con i Sammy e gli Strapps prima di finire nel
gruppo di Ian Gillan. Robinson e Gustafson nel 1972 effettuano un tentativo di riunione dei
Big Three, con la registrazione di un album ; in seguito Robinson sceglie la via del jazz rock
con i Come To The Edge di Stomu Yamash’ta, con i Suntreader e con i Brand X per capitare
pure lui nella Ian Gillan Band, mentre Gustafson si dedica a gruppi hard come gli Hard Stuff
(due LP per la Purple) e i Baltik (un album), fino al 1973 quando entra nei Roxy Music (in
occasione di Stranded) per rimanervi un paio d’anni.
Uno dei primi gruppi ad essere messo sotto contratto dal manager Tony Stratton-Smith
per la sua etichetta Charisma, i Rare Bird esordiscono al Mother’s Club di Birmingham e nel
1969 pubblicano il primo album omonimo che viene prodotto da John Anthony (lo stesso dei
Genesis ad inizio carriera). L’organico del complesso ricalca i presupposti del triangolo
basato sulle tastiere, di gran moda a quei tempi, con la particolarità della presenza di due
strumentisti che agiscono in sincrono, Graham Field all’organo e David Kaffinetti al piano,
sostenuti da una sobria sezione ritmica (Steve Gould : v.bs., Mark Ashton : bt.pr.v.).
Rare Bird evidenzia una buona varietà di temi in brani quali Iceberg, Beautiful scarlet, God of
war, mantenendo alla base una musica dai toni romantici abbastanza originale e semplice,
evitando complicazioni tecnologiche ed arrangiamenti troppo appariscenti. Nonostante la
presenza di una canzone accattivante come la melodica Sympathy, il disco ottiene risultati
commerciali deludenti, dal momento che il pubblico sembra gradire maggiormente
formazioni in grado di proporre una musica più pretenziosa e di garantire spettacoli dal vivo
di sontuoso impatto scenico.
I Rare Bird pubblicano un secondo album, As your mind flies by contenente una suite
suddivisa in quattro movimenti (Flight), ma la fortuna non s’accorge del complesso e oggi
nessuno si ricorda della loro esistenza.
Dal maggio ’63 al luglio ’68 Jim McCarty e Keith Relf sono batterista e cantante dei
gloriosi Yardbirds ; dopo lo scioglimento del gruppo, i due provano come Together e poi (nel
giugno del 1969) organizzano un’ambiziosa formazione, i Renaissance, con la quale affrontare
la stagione del rock romantico progressivo. Con loro sono la cantante Jane Relf (sorella di
Keith), il tastierista John Hawken (proveniente dai Nashville Teens) e il bassista Louis
Cennamo (dai Jody Grind).
RENAISSANCE
-
RENAISSANCE
(Island - 1969)
Prodotto da Paul Samwell Smith, ex compagno negli Yardbirds, il primo album del 1969
propone un’efficace miscela di folk, rock e romanticismo classico, capace di mantenere i piedi
ben ancorati a terra. Si tratta, ovviamente, di musica molto distante dalle precedenti
esperienze di Relf e McCarty, nella quale emergono in particolare il tocco al piano di Hawken
e l’aggraziata, esile voce di Jane Relf.
Kings & queens e Innocence trovano la giusta mediazione tra stimoli ritmici, belle melodie ed
influenze classiche. Se Island si sofferma esclusivamente su toni pacati e romantici, la bella
Wanderer preferisce reminiscenze barocche con il clavicembalo in primo piano ; entrambi i
brani registrano la bella voce solista della Relf. La complessa Bullet torna a forme tipicamente
rock, con timidi accenni jazz e un’inconsueta (per il genere) armonica country blues, per
disperdersi nell’enigmatica atmosfera finale direttamente derivata dalle figure corali di
Gyorgy Ligeti.
La buona prova iniziale non è sufficiente garanzia di vita tranquilla ; Relf e McCarty se ne
vanno già nell’agosto ’70 e le registrazioni del secondo LP Illusion (Island-1970) vengono
completate con l’ausilio di musicisti esterni. Nei Renaissance fa la sua apparizione il cantante
e chitarrista Michael Dunford, che eredita il marchio e riorganizza il complesso con nuovi
musicisti. Dal 1972 il nucleo comprende, oltre a Dunford, la cantante Annie Haslam, il
tastierista John Tout, il bassista Jon Camp e il batterista Terrence Sullivan ; i Renaissance
ottengono buon successo soprattutto negli USA, con una serie di album nei quali è proposto
un rock sinfonico che attinge a piene mani dal panorama classico (in particolare russo
dell’Ottocento), con citazioni di Rimski-Korsakov, Borodin e Mussorgski tra gli altri. Ottima
sintesi della loro opera rimane il doppio Live at Carnegie Hall, registrato con l’apporto della
New York Philharmonic nel giugno del 1975.
Dei componenti originari McCarty suona con gli Shoot (un LP nel ’73), Relf partecipa al terzo
album dei Medicine Head (1971) per poi fondare nel 1975 gli Armageddon, un gruppo hard
nel quale ritrova Cennamo e che comprende il chitarrista Martin Pugh (Steamhammer) e il
batterista Bobby Caldwell (Johnny Winter). Nel 1976 Relf lavora al progetto della riunione
dei Renaissance originali (sotto diversa sigla : Illusion) ma in novembre, durante le ultime
prove casalinghe, muore folgorato da una scarica elettrica ; gli Illusion riescono comunque a
pubblicare due album tra il ’77 e il ’78. Di altro, da ricordare le collaborazioni di Cennamo
con Steamhammer e Colosseum e la partecipazione di Hawken a dischi di Third World War e
Strawbs.
Nel 1963 i Syndicats sono tra le prime formazioni inglesi a dilettarsi con il rhythm &
blues ; con in organico Steve Howe il gruppo pubblica tre singoli, prima dell’abbandono del
chitarrista stesso che nell’estate del ’65 raggiunge gli In Crowd (poi evoluti in Tomorrow). Nei
Syndicats entrano il chitarrista Pete Banks e il bassista Chris Squire, e nel 1967 il complesso
accorcia il nome in Syn, abbracciando la causa psichedelica. I Syn registrano due singoli,
l’ultimo dei quali contiene la mitica 14 hour technicolour dream, dedicata al festival della
psichedelia e dell’underground inglese tenuto nell’aprile ’67 all’Alexandra Palace. All’inizio
del 1968 Banks e Squire sono nei Toy Shop, dove conoscono il cantante Jon Anderson (ex
Warriors). I tre s’uniscono all’organista Tony Kaye (dai Bitter Sweet) e al batterista Bill
Bruford, dando vita agli Yes (giugno ’68).
Il gruppo si fa le ossa tenendo numerosi concerti al Marquee, allo Speakeasy e partecipando
come supporto al famoso concerto d'addio dei Cream, tenuto alla Royal Albert Hall nel
novembre del ’68. I primi due album, Yes (Atlantic-1969) e Time and a word (Atlantic-1970),
sono discreti (e nulla più) alternando brani originali a numerose cover (tra queste canzoni di
Byrds, Beatles e Stephen Stills) ; il gruppo non ha ancora individuato con precisione uno stile
sufficientemente personale, anche se alcuni brani (Beyond and before, Harold land, Astral
traveller) e le belle armonie vocali lasciano timidamente intravedere le caratteristiche del
futuro suono.
YES
-
THE YES ALBUM
(Atlantic - 1971)
Una prima importante svolta avviene all’inizio del 1970, quando Pete Banks lascia i compagni
per entrare nei Blodwyn Pig in sostituzione di Mick Abrahams ; il suo posto negli Yes viene
rilevato da Steve Howe, reduce dall'esaltante avventura con i Tomorrow. Lo stile del gruppo
subisce una decisa maturazione acquisendo un’identità ben definita, come dimostra il terzo
LP The Yes album (registrato nell’autunno del 1970) che permette agli Yes di conquistare un
buon seguito di pubblico.
L’incedere fratturato della sezione ritmica, i preziosismi della chitarra di Howe e le ottime
parti corali di Yours is no disgrace introducono al classico Yes sound, uno stile articolato e
complesso, ma ancora lontano dagli esagerati arrangiamenti sinfonici dei tempi a venire. E’
evidente il gusto per la ballata, per un rock che mantiene agganci (sempre più esili) con certa
musica di derivazione americana. The clap è un esercizio d’abilità strumentale di Howe, in
curioso equilibrio tra Leo Kottke, Roy Harper e i Led Zeppelin del terzo LP ; I’ve seen all
good people suona come una ballata folk impreziosita da formidabili parti vocali (sul modello
di C.S.N.&Y.) e solidifica in un originale rock’n’roll, chiuso da un gran finale per organo e
coro a cappella. La dinamica struttura dalle belle aperture melodiche di Perpetual change e le
indovinate sequenze armoniche delle tre parti di Starship trooper offrono la misura estrema
dei delicati meccanismi che regolano la sintesi sonora degli Yes.
In seguito alla pubblicazione di The Yes album, Tony Kaye lascia (nel ’73 è nei Badger di
Jackie Lomax, con la sezione ritmica di Gardner & Dyke) e con l’ingresso di Rick Wakeman,
dagli Strawbs, si costituisce l’organico degli Yes più conosciuto e fortunato sotto il profilo
commerciale.
L’ottimo Fragile, registrato nel settembre del ’71, consegue notevole successo un po’
ovunque ; l’apporto strumentale di Wakeman, diplomato alla Royal Academy of Music,
determina un chiaro avvicinamento a modi classici, non solo nel breve estratto della quarta
sinfonia di Brahms (Cans and Brahms) ma nell’intera opera degli Yes. Tutti i membri del
complesso propongono frammenti di varia natura e consistenza (Long distance runaround e la
spettacolare azione corale di We have heaven - Anderson -, gli estratti ritmici di Five per cent
for nothing - Bruford - e di The fish - Squire -, il pezzo per chitarra classica di Mood for a day Howe), che ruotano attorno ai tre episodi centrali del disco : Roundabout, sostanzialmente un
raffinato e brillante rock’n’roll dove emergono squarci del crescente approccio
classicheggiante, South side of the sky e soprattutto la notevole Heart of the sunrise, che coglie
l’essenza del migliore rock sinfonico sull’esempio dei King Crimson.
Al culmine del successo Close to the edge nel 1972 inaugura la fiera delle vanità per gli Yes,
ormai proiettati verso una ricerca esasperata della perfezione tecnica ed estetica,
pesantemente ostentata nelle esibizioni dal vivo. Close to the edge non manca di spunti
pregevoli, come nell’ambiziosa And you and I, imperniata sul già sperimentato contrasto fra
trame acustiche ed aperture di romantico sinfonismo. Poche novità sotto i cieli ma almeno un
suono ancora vivo, capace di regalare tenere emozioni, quello che non sempre accade nella
pomposa suite che titola l’album, con i suoi quattro tempi viziati da un eccesso di freddo e
calcolato formalismo.
Per Bill Bruford la misura è colma ; nel luglio ’72 effettua la coraggiosa scelta di lasciare gli
Yes, all’apice della popolarità, per raggiungere i riorganizzati King Crimson di Robert Fripp.
Sul lussuoso triplo Yessongs (Atlantic-1973), fedele celebrazione della stagione concertistica
del 1972, appaiono Bruford e, in alcuni brani, il sostituto Alan White, un batterista
d’esperienza anche se sicuramente meno inventivo.
I progetti del gruppo si fanno sempre più ambiziosi e sfociano nell’elefantiaco Tales from
topographic oceans (2 LP Atlantic-1973), che pure in alcune parti mostra residui segni di
vitalità. Per la prima volta la critica si divide sulla valutazione del lavoro, ma il pubblico
gradisce ugualmente il disco premiandolo con un buon numero di copie acquistate. Nel
maggio del ’74, in seguito a forti tensioni interne al gruppo, Wakeman abbandona per
proseguire una carriera solista inaugurata l’anno precedente con il discreto The six wives of
Henry VIII (A&M-1973) e solo raramente all’altezza della fama acquisita come strumentista ;
torna negli Yes nel ’77, per l’album Going for the one, quando la vena del complesso si è
definitivamente esaurita.
Relayer (Atlantic-1974) è inciso con l’aiuto del tastierista Patrick Moraz (fresco
dell’esperienza con i Refugee), perfetto compendio della decadenza di una musica priva di
respiro, soffocata da una maniacale cura riservata ad ogni benché minimo particolare, che
determina un inestricabile, barocco groviglio di note senz’anima.
Gruppo che s’orienta su coordinate sonore non molto distanti da quelle degli Yes, i Gentle
Giant si formano nel 1970 su impulso dei fratelli scozzesi Derek, Ray e Phil Shulman, in
precedenza impegnati nei Simon Duprée & the Big Sound, un complesso musicalmente
collocabile nella scena del R & B, con all’attivo un album e un successo a 45 giri (Kites). La
formazione viene completata dal chitarrista Gary Green, dal tastierista Kerry Minnear
(diplomato al Royal College of Music e con un passato nei Rust), dal batterista Martin Smith e
sin dall’omonimo album d’esordio, pubblicato nello stesso anno, i Gentle Giant propongono
una musica ancor più raffinata e composita rispetto a quella degli Yes, con una fusione tra
rock, R & B, classica, jazz, folk che prevede l’utilizzo di un’ampia strumentazione.
Gentle Giant è un’ottima dimostrazione del già ben definito stile del complesso, con la
presenza di alcuni dinamici brani rock basati su cadenze ricche di variabili e con un suono
caratterizzato dalle lucide tonalità di chitarra e tastiere, oltre che da preziose armonie vocali
(Giant, Nothing at all con il vento a fischiare la melodia !), mentre il folk e il rhythm & blues
fanno capolino nelle strutture barocche di Funny ways e Alucard. Il successo ottenuto in
Inghilterra è modesto e, come succede ad altri gruppi del periodo (Genesis, Van Der Graaf
Generator), i Gentle Giant trovano motivazioni per continuare nell’interesse suscitato in vari
paesi europei, Italia in particolare.
GENTLE GIANT
-
ACQUIRING THE TASTE
(Vertigo - 1971)
Acquiring the taste, seconda emissione a 33 giri, raggiunge i limiti espressivi dei Gentle Giant
sin dall’iniziale Pantagruel’s nativity, marcata dalla chitarra di Green che ne scolpisce la
struttura portante ; le raffinate parti vocali, il tocco di vibrafono, la jam della parte centrale
rendono un insieme di notevole impatto, in equilibrio fra preziosismi funambolici e potenza
hard. Le valide The house, the street, the room (con maniacali inserti strumentali) e Wreck
seguono le stesse direttive, in contrasto con gli arrangiamenti estremamente elaborati di Edge
of twilight, di The moon is down e di Black cat che, sia pur pregevoli sotto l’aspetto
strumentale, rischiano di cadere nella trappola di un rigido formalismo. Plain truth è più
immediata, con il sostegno di un corposo rock dal quale emerge la prestazione di Ray
Shulman al violino, il cui trattamento con il wah-wah evoca addirittura ricordi hendrixiani.
Il gruppo mantiene inalterato lo stile anche nei dischi successivi, senza particolari
accomodamenti commerciali ma pure rinunciando ad una ricerca originale, che possa evitare
le ripetitive regole della propria musica. Così nel terzo LP Three friends (1972 - con il
batterista Malcom Mortimer al posto di Smith) trovano collocazione canzoni già sentite quali
Prologue e Mister class and quality ?, perfino la buona Schooldays appare leziosa e troppo
legata a schemi collaudati. Tutto sommato, gli sforzi migliori restano il vago R & B (per
quello che può essere R & B un brano dei Gentle Giant...) di Working all day e la classica Peel
the paint, che nasconde una certa carenza d’ispirazione nella ‘overture’ da camera e nei
potenti riff hard rock della chitarra di Green. Dal seguente Octopus (Vertigo-1973) il gruppo
si stabilizza con il batterista Pugwash Weathers (dalla Grease Band di Joe Cocker) ; Octopus è
però l’ultimo lavoro al quale partecipa Phil Shulman e proprio questo disco segna l’inizio di
un tardivo (in ogni caso meritato) successo, in Inghilterra come negli Stati Uniti. La musica è
ancora accettabile, manca di novità, ma agli appassionati del genere può piacere almeno fino
al Free hand (Chrysalis) del 1975.
Cosa resta oggi delle canzoni dei Genesis, di quelle fragili tessiture fantastiche che trovano
sistemazione nelle loro opere migliori, agli albori degli anni Settanta. Oggi che Peter Gabriel è
diventato un musicista moderno, alla ricerca di eccitanti contaminazioni tra musica
occidentale e suoni del ‘terzo e quarto mondo’, oggi che Phil Collins è assurto agli onori delle
cronache facendo l’attore, producendo musica di facile ascolto e di gran consumo. Nostalgia,
forse un po’ di tristezza, ma vale la pena ricordare quella storia iniziata nell’autunno del 1967
con l’incontro tra Peter Gabriel, Tony Banks, Chris Stewart (tutti provenienti dai Garden
Wall), Anthony Phillips e Michael Rutherford (entrambi degli Anon).
Nel 1968 i Genesis firmano un contratto che li lega alla Decca, per la quale incidono un paio di
singoli e l’album From Genesis to revelation (maggio 1969), dove suona il batterista John
Silver al posto di Stewart. L’insuccesso è tale per cui i componenti del gruppo pensano
seriamente ad una precoce ritirata dal mondo musicale. Li salva Tony Stratton-Smith, boss
della Charisma, alla ricerca di formazioni da sistemare nella scena del rock progressivo in via
di forte affermazione.
Il primo significativo frutto è Trespass (Charisma-1970) che, sia pure con qualche timidezza di
troppo e in modo frammentario, mostra le potenzialità del gruppo ; le canzoni lasciano
trasparire una buona capacità di scrittura e il risultato è discreto, anche in assenza di brani
memorabili. Le vendite restano scarse, il batterista John Mayhew (presente sul disco) e il
chitarrista Anthony Phillips preferiscono lasciare (Phillips tornerà come solista nel 1977) ;
con l’ingresso di Steve Hackett e di Phil Collins, quest’ultimo batterista nei Flaming Youth, si
concretizza la formazione più celebre dei Genesis.
GENESIS
-
NURSERY CRYME
(Charisma - 1971)
Pur essendo dei discreti strumentisti, i Genesis non possono essere paragonati dal punto di
vista tecnico a complessi quali Yes e Gentle Giant ; il maggior impegno è perciò profuso sotto
l’aspetto creativo e degli arrangiamenti, e questo permette alla musica del gruppo (almeno
per quanto riguarda l’eccellente Nursery Cryme) di mantenere una sufficiente semplicità di
esposizione, all’interno di un contesto curato ed elegante. Gabriel non è cantante dotato di
particolare estensione vocale e preferisce lavorare sulla tonalità del canto, rendendola
immediatamente riconoscibile ; inoltre dimostra di essere personaggio estroso, adottando in
scena travestimenti a dir poco fantasiosi, contribuendo in modo decisivo all’affermazione del
complesso che dal vivo si esibisce in ambiziose forme di ‘rock teatrale’.
Nursery Cryme vede la luce nel novembre 1971 e lo stile espressivo preferito appare quello
della canzone romantica, come dimostrano i riusciti episodi di For absent friends, Seven
stones, Harlequin, mentre The return of the giant Hogweed possiede un accentuato telaio
ritmico ed esibisce più di qualche punto di contatto con la musica dei Gentle Giant.
Ancora lontana per i Genesis appare la dilagante moda della suite, anche se i brani più
significativi anticipano, di fatto, la futura adesione ad ambiziose forme a tema. Introdotta da
un delicato arpeggio, The musical box scorre fluida su un tappeto di soffuse e romantiche
melodie per chitarra, flauto e voce, animata a più riprese dal dialogo serrato tra chitarra e
organo, fino all’epico crescendo del finale pervaso dall’organo di Banks e dal canto, ora
deciso, di Gabriel ; il tema di The fountain of Salmacis, sufficientemente movimentato ed
impreziosito dagli interventi di Hackett, è caratterizzato dal mellotron che si produce in folate
d’intenso sinfonismo.
I Genesis ottengono buon successo, vanno in classifica con The musical box e spopolano in
Italia, dove nel corso del 1972 (tra aprile e settembre) tengono ben 31 concerti ! Foxtrot
nell’ottobre del ’72 ottiene risultati commerciali addirittura migliori (in Italia è n. 1), ma
risulta musicalmente inferiore all’opera precedente. Giunge l’ora della suite e Supper’s ready,
nonostante la presenza di qualche spunto notevole, si perde in un eccessivo sforzo di
connessione delle varie parti, senza raggiungere un risultato pari alle energie profuse. Del
resto anche i rimanenti brani non valgono le piccole gemme di Nursery Cryme ; in generale c’è
minore fantasia ed affiora un rigido schematismo sonoro.
Tra il ’72 e il ’73 il gruppo effettua numerosi concerti negli Stati Uniti, intervallati da un
trionfale tour inglese dal quale viene ricavato Genesis live (Charisma-1973, registrato nel
febbraio ’73 a Manchester e Leicester), comprendente un breve compendio dei loro brani
migliori.
In autunno esce il nuovo album di studio Selling England by the pound, che tenta di
recuperare l’originaria forma canzone e nell’ottima Dancing with the moonlit knight quasi
riesce a rinverdire la magia di Nursery Cryme. Purtroppo il suono soffre di un crescente
tecnicismo che penalizza le buone intenzioni sparse sul disco, soffocando la natura romantica
della musica (Firth of fifth) e permettendo l’affiorare di episodi poco ispirati (I know what I
like in your wardrobe) o superflui (More fool me, con il futuro leader Phil Collins al canto).
La situazione non migliora con il doppio The lamb lies down on Broadway (Charisma-1974)
che si affida a soluzioni concept, tanto spettacolari quanto fredde e calcolate. Il 24 marzo 1975
la formazione classica dei Genesis tiene, per l’ultima volta in Italia, un concerto
nell’affollatissimo palasport di Torino, con situazioni di grande tensione per gli scontri che
coinvolgono la polizia e numerosi dei presenti ; il gruppo propone The lamb... in modo
scontato, senza entusiasmo. Due mesi dopo Gabriel abbandona clamorosamente i compagni.
Per lui l’età delle favole è terminata, il successo fine a se stesso evidentemente non è ciò che il
musicista sta cercando. Collins assume il comando delle operazioni, ma oramai i Genesis sono
fuori tempo massimo (non per il successo, che negli anni Ottanta diviene eclatante), luccicante
ed ingombrante soprammobile di un’epoca tramontata.
C’era una volta...
La leggenda vuole che siano proprio loro ad ispirare la sigla Harvest, prestigioso marchio
progressivo della EMI ; a prescindere da curiose e non determinanti considerazioni del
genere, i Barclay James Harvest riescono a ritagliarsi uno spazio tutt’altro che sfarzoso, ma
quantomeno meritevole di rispetto, nel campo del pop romantico dei primi anni Settanta.
John Lees (ch.v.), Stewart Wolstenholme (ts.), Les Holroyd (bs.) e Mel Pritchard (bt.) sono
musicisti con alle spalle esperienze rhythm & blues, quando nel 1967 s’associano per
costituire il nuovo gruppo. Affidati alle cure del produttore Norman Smith (Pink Floyd) i
Barclay James Harvest registrano nel novembre ’69 il primo album omonimo (Harvest-1970),
che chiarisce immediatamente gli elementi essenziali della loro musica.
I risultati più significativi sono ottenuti con i lavori d’inizio carriera e in particolare con
l’ottima seconda prova, Once again, registrata alla fine del 1970 e pubblicata nel febbraio
dell’anno successivo. Nelle lunghe She said e Mocking bird i Barclay James Harvest si
dimostrano autori di un rock tardo romantico dai forti caratteri sinfonici, ma
sufficientemente equilibrato e non pesantemente stucchevole. Tra i brani più concisi piacciono
la leggiadra Galadriel, la robusta Ball and chain e soprattutto l’ottima Song for dying, che
sintetizza tutte le componenti migliori del suono del gruppo, con gli sfumati toni romantici e
decadenti uniti ad un approccio vagamente psichedelico della chitarra.
Qualcosa di simile è alla base della proposta musicale dei discreti Fruupp, gruppo di
origine irlandese autore, tra il 1973 e il 1975, di quattro album pubblicati dall’etichetta Dawn.
Dal primo, e forse migliore, Future legends all’epitaffio di Modern masquerades, i Fruupp
s’impegnano in una musica dal pesante respiro melodico, non priva di spunti interessanti
(Decision) ma frequentemente viziata da un eccesso di colorazioni barocche che rendono il
suono alquanto artefatto e pretenzioso.
Altra formazione che soffre le contraddizioni di una musica scarsamente equilibrata e
ricca d’ingenuità è quella dei Beggar’s Opera, che nel 1970 pubblicano Act one (Vertigo), un
lavoro che porta all’esasperazione le tipiche componenti dello stile classico progressivo, con
forti accenti barocchi di dubbio gusto. Davvero non si capisce se ad animare pasticci sonori
quali Poet and peasant, Passacaglia, Raymond’s road, Light cavalry sia una sana necessità di
divertimento al limite dell’ironia, oppure una triste consapevolezza di sofisticate ed
improbabili elucubrazioni ben poco piacevoli. Qualcosa di meglio si ascolta nella più lineare
Memory, in ogni caso resta una musica ibrida e scarsamente coinvolgente, una sorta di collage
disarticolato tra frammenti di diversa natura ed origine stilistica, appiccicati tra loro senza
logica apparente. Se questa è l’opera dei poveri, i poveri restano tali, in quanto all’opera...
Fortunatamente il gruppo, costituito da Martin Griffiths (v.) - Alan Park (ts.) - Ricky
Gardiner (ch.) - Marshall Erskine (bs.) - Raymond Wilson (bt.), con il secondo LP Waters of
change (Vertigo-1971) rende il suono un po’ più sobrio, e il successivo Pathfinder (con Gordon
Sellar al posto di Erskine) riesce perfino a suscitare un discreto interesse. Ora i Beggar’s
Opera hanno semplificato notevolmente i modi, eliminando buona parte degli ammiccamenti
barocchi, e gli esiti sono buoni nella bella versione di MacArthur park (un brano di Jimmy
Webb, di gran successo alla fine dei Sessanta nell’interpretazione di Richard Harris,
riadattato con un gustoso arrangiamento soft jazz e venato da forme classiche più contenute),
oltre che nel fluido impeto ritmico di The witch.
Il gruppo resiste fino al 1976, senza andare oltre ad un moderato interesse da parte di
pubblico e addetti ai lavori ; il solo Gardiner vanta ulteriori esperienze degne di menzione,
con partecipazioni saltuarie a dischi di David Bowie e Iggy Pop.
Appartenenti alla schiera dei classico-romantici di successo, i Curved Air si distinguono
per la propensione verso moderate soluzioni sperimentali, come lascia intendere perfino il
nome scelto per il complesso, tratto da una celebre composizione di Terry Riley (A rainbow in
Curved Air).
La nascita del gruppo risale al marzo del 1970, quando Darryl Way, Francis Monkman e
Florian Pilkington (tutti membri dei Sisyphus) si uniscono alla cantante Sonja Kristina e al
bassista Robert Martin ; con quest’organico i Curved Air registrano l’album d’esordio Air
conditioning.
CURVED AIR
-
AIR CONDITIONING
(Warner Bros. - 1970)
I buoni propositi sperimentali restano però sulla carta e solo di rado trovano collocazione nel
vivo dell’esposizione strumentale ; Monkman si dimostra il più convinto assertore del verbo di
Riley ma, nonostante l’ottimo operato alle tastiere e le tonalità elettriche, secche e dilatate
delle chitarre, è obbligato a rimanere sulla difensiva per via del virtuosismo dilagante del
violino di Way e della presenza della piacevole voce solista di Sonja Kristina. Inoltre, il
gruppo è spinto in modo consistente a livello promozionale e l’esigenza dell’ottenimento di un
riscontro commerciale immediato contrasta con la produzione di una musica che risulti
troppo slegata dai canoni della bella melodia.
In ogni caso Air conditioning, che si presenta negli scaffali di vendita in una rivoluzionaria
(per i tempi) veste ‘picture’, appare convincente e al di sopra della media di produzioni
similari. Il complesso si disimpegna bene in alcuni brani rock corposi, come l’intrigante It
happened today, capace di distendersi in una bella frase melodica conclusiva diretta dal violino
di Way, come la divertente (e un po’ scontata) Stretch e l’originale Propositions, forse la
composizione di maggior interesse, con le tastiere e le chitarre di Monkman a ricordare da
vicino le strutture iterative di Terry Riley.
Le valide Hide and seek e Situations si nutrono di cadenze mutevoli e possiedono un buon
impatto, mentre Screw e Rob one approdano su atmosfere classiche, con il violino a generare
impressioni romantiche di gran fascino, e Vivaldi s’affida all’abilità strumentale di Darryl
Way non senza introdurre tra le pieghe del suono le manipolazioni elettroniche di Monkman,
elementi di disturbo al dilagante classicismo.
Il Second album (Warner Bros.-1971, con il bassista Ian Eyre) conferma l’interesse per il
gruppo, beneficiato dal successo del 45 giri Back street Luv che con il suo rock vigoroso
raggiunge i primi posti delle classifiche nel dicembre del ’71. Ancora un avvicendamento nel
ruolo di bassista (Mike Wedgwood al posto di Eyre) segna il terzo LP Phantasmagoria
(Warner Bros.-1972), subito prima dell’abbandono di Darryl Way che, formando i Wolf (tre
album incisi), in pratica determina lo scioglimento dei Curved Air.
Sonja Kristina non intende mollare e, aiutata dal confermato Wedgwood, organizza
un’inedita formazione che comprende Eddie Jobson (vi.), Kirby Gregory (ch.) e Jim Russell
(bt.), giusto per l’incisione di Air cut (Warner Bros.-1973). Il nuovo assetto ha però breve
durata, in quanto Jobson si unisce ai Roxy Music (all’epoca del loro terzo LP Stranded) e
Wedgwood entra nei Caravan.
Alla fine del 1974 i Curved Air originali (con il bassista Philip Kohn) tornano insieme per un
tour che frutta il dignitoso Curved Air live (Deram-1975) comprendente, quantomeno, una
bella versione di Propositions. Monkman e Pilkington abbandonano definitivamente, mentre
la Kristina e Way decidono di continuare con l’assunzione di altri musicisti, tra i quali sono
da segnalare Tony Reeves (bs., ex Colosseum) e il batterista Stewart Copeland, che prima si
sposa la bella Sonja e poi (dicembre ’76) fonda con Sting e con Andy Summers i Police.
ARS LONGA VITA BREVIS - 5
la musica della casa delle bambole
- 30 Per alcuni gruppi del rock romantico che riescono ad agguantare un solido successo
commerciale, ve ne sono parecchi altri (non sempre di trascurabile qualità) che restano
desolatamente ai margini della scena, ignorati dal grosso pubblico e colpevolmente
dimenticati dagli addetti ai lavori.
Il nome più fulgido è quello dei Cressida, complesso autore di due interessanti album per la
Vertigo, il primo dei quali pubblicato all’inizio del 1970 con un organico che prevede Peter
Jennings (ts.), Angus Cullen (v.), John Heyworth (ch.), Kevin McCarthy (bs.) e Iain Clark
(bt.).
Cressida appare esordio timido ma privo di particolari scadimenti, che riesce a gettare le
fondamenta del suono del gruppo con una manciata di limpide composizioni in equilibrio tra
rock romantico e derivazioni della prima scuola di Canterbury (in particolare Caravan).
CRESSIDA
-
ASYLUM
(Vertigo - 1971)
Asylum, con il nuovo chitarrista John Culley e con la prestigiosa partecipazione di Harold
McNair (collaboratore di lunga data di Donovan), raggiunge livelli d’assoluta eccellenza con
una musica che piace soprattutto per la scioltezza stilistica ed esecutiva, nell’ambito di un
genere nel quale si tende ad estremizzare l’aspetto tecnico e a complicare fino all’assurdo gli
arrangiamenti. Gli elementi della proposta dei Cressida restano quelli iniziali, con riferimenti
al Canterbury sound sia per l’approccio strumentale, sia per l’impostazione vocale di Cullen,
come si può dedurre dall’ascolto delle belle Asylum e Goodbye post office tower goodbye ; il
lavoro mantiene comunque una profonda originalità, grazie al sentimento e all’intima
decadenza romantica che le canzoni dimostrano di possedere.
Munich, ad esempio, è un lungo brano melodico giocato sul morbido dialogo tra voce e
organo, con lirici interventi di chitarra, misurate intromissioni orchestrali e con una brillante
parte centrale strutturata a forma di jam session. L’accoppiata Survivor / Reprieved passa da
potenti soluzioni in continua evoluzione (che ricordano l’incedere dei brani ritmicamente più
sostenuti di Shawn Phillips) ad atmosfere strumentali vagamente jazz. La maggior intensità
emotiva è raggiunta da Lisa, brano che racchiude la migliore espressione del rock romantico,
senza dover fare ricorso ad inutili orpelli, preferendo accarezzare i risvolti più intimi del
suono con sprazzi di gran lirismo e con eccellenti spunti strumentali (tra cui il flauto di
McNair) ed orchestrali. Molto bella è pure la conclusiva Let them come when they will, una
spigliata jam con chitarra e organo in evidenza.
La qualità del disco non basta a salvare i Cressida da un precoce scioglimento, causato dal
completo disinteresse del pubblico nei loro confronti. Kevin McCarthy fonda gli oscuri
Tranquillity, John Culley fa una breve apparizione nell’ultima formazione dei Black Widow e
il bravo Iain Clark sfiora per un attimo la notorietà sedendosi ai tamburi degli Uriah Heep,
ma solo per il terzo LP Look at yourself.
Giustizia vuole che almeno altri tre complessi del sottobosco musicale inglese meritino
d’essere presi in considerazione e, anche solo per un attimo, fatti emergere dalla fitta nebbia
che ne oscura il ricordo. Pur non raggiungendo i livelli espressivi dei Cressida, i vari
Gracious, Czar e Spring riescono ad imprimere nelle loro poche opere vitalità e passione
sufficienti a non farli sfigurare al cospetto dei tanto osannati colleghi di successo.
I Gracious si formano nel 1968, con un organico che prevede Paul Davis (v.ch.pr.), Martin
Kitcat (ts.), Alan Cowderoy (ch.v.), Tim Wheatley (bs.), Robert Lipson (bt.), e subito vanno in
tournée come spalla dei Who. Nella primavera del 1970 il gruppo registra il primo album
Gracious !, per l’etichetta Vertigo ; il rock conciso di Introduction echeggia soluzioni care ai
primi Gentle Giant, con inserti di clavicembalo e una buona predisposizione ritmica, un
organo floydiano si staglia all’orizzonte del placido neoclassicismo di Heaven, che confluisce
nelle devastanti, soffocanti spirali di Hell. Tutto sommato, l’episodio di maggior interesse è la
lunga e complessa sequenza di The dream, che poggia su elaborate frasi rock alternate a
creazioni melodiche di derivazione classica, mostrando però una frammentarietà troppo
accentuata.
L’insuccesso è totale, il secondo e ultimo LP (This is Gracious, Philips-1972) risulta inferiore e
comprende materiale scartato dal lavoro precedente ; dopo lo scioglimento del complesso, il
bassista Wheatley finisce nei Tagget (due LP all’attivo) mentre il cantante Davis prova come
solista ed entra a far parte del cast di Jesus Christ Superstar.
I Czar sono un ancor più oscuro gruppo, che ha la forza d’incidere nel 1970 il solo album
omonimo d’esordio, pubblicato dalla Fontana. Bob Hodges (ts.v.), Mick Ware (ch.v.), Paul
Kendrick (bs.ch.v.) e Del Gough (bt.) sono titolari di una musica dalle sonorità avvolgenti,
direttamente derivata dal rock sinfonico (in particolare dai King Crimson del primo LP), con
largo spiegamento di mellotron e un’impostazione più marcatamente rock nell’uso della
chitarra. Nei brani migliori, la valida Tread softly on my dreams e le belle ballate di Cecelia e
Today, affiora qualche tonalità dark che rende la proposta moderatamente originale.
Gli Spring dimostrano di possedere discrete capacità strumentali e soprattutto una vena
creativa semplice ed estremamente efficace, che permette al gruppo d’ottenere risultati di
tutto rispetto con brani caratterizzati da una pronunciata sensibilità romantica. Anche loro,
come molte altre formazioni underground, capitalizzano gli sforzi in un’unica pubblicazione
(Spring, per la Neon), che raccoglie registrazioni effettuate tra l’inverno ’70 e la primavera
’71.
Con un organico dominato dalla presenza di ben tre mellotron (il cantante Pat Moran, il
chitarrista Ray Martinez e il tastierista Kips Brown, oltre alla sezione ritmica costituita da
Adrian Maloney - bs. - e da Pique Withers - bt.), il gruppo evita di affondare in un pesante e
forzato sinfonismo, avendo l’accortezza di porre particolare cura alla melodia delle canzoni
che, dotate di un'appassionante anima acustica (Golden fleece, Gazing, Grail), conquistano
senza riserve con il loro fascino discreto.
L’unico membro degli Spring ad ottenere significativi risultati dalla carriera musicale è il
batterista Withers, che si riduce a suonare con Mal e i Primitives, affronta una dignitosa serie
d’incisioni come sessionman (tra l’altro partecipa a buone registrazioni di Michael Chapman,
dove è presente anche il bravo Ray Martinez) e alla fine si ritrova catapultato sulla grande
scena musicale alle spalle di Mark Knopfler, nei Dire Straits.
- 31 Tra i nuclei più interessanti del pop progressivo inglese, i Van Der Graaf Generator si
collocano ai margini del rock a tinte classiche, preferendo dedicarsi ad una musica aperta a
svariate influenze stilistiche, filtrata attraverso il comune denominatore della creatività
‘cosmica’ e visionaria di Peter Hammill.
Le prime tracce del gruppo sono rintracciabili a Manchester nel 1967, dove Hammill s’associa
a tali Nick Pearne (ts.) e Chris Smith (bt.) ; l’anno successivo i due sono sostituiti dal
tastierista Hugh Banton, dal bassista Keith Ellis e dal batterista Guy Evans. Le registrazioni
dell’album d’esordio The aerosol grey machine (Fontana-1969) si tengono tra il gennaio e
l’estate del ’69, partendo dal presupposto di un album solista di Hammill che alla fine viene
pubblicato con la sigla del complesso. Il disco non può certo essere annoverato tra le migliori
produzioni del periodo, anche se un po’ tutte le composizioni hanno il pregio d’evidenziare
l’interessante impostazione vocale di Hammill, non adeguatamente supportata da una musica
ancora lontana dall’acquisire una maturità stilistica ben definita. Giusto si possono ricordare
l’irreprensibile staticità melodica di Afterwards e l’intonazione futuribile di Aquarian, oltre a
qualche frammento delle acerbe Into a game e Octopus.
Keith Ellis lascia subito dopo per raggiungere i Juicy Lucy, sostituito da Nic Potter ; ben più
decisivo per lo sviluppo musicale dei Van Der Graaf è l’ingresso in organico del fiatista David
Jackson, che introduce importanti variabili al suono del gruppo sin dal secondo LP The least
we can do is wave to each other (1970), disco di qualità nettamente superiore al precedente.
L’oscura, glaciale Darkness è il primo risultato di rilievo per i Van Der Graaf, merito delle
tastiere spaziali di Banton, delle interessanti (e spesso imprevedibili) tessiture armoniche dei
fiati di Jackson, di una sezione ritmica (in particolare Evans) dotata di fantasia e buon
dinamismo, e ovviamente delle notevoli armonie vocali di Hammill che affina il canto,
prendendo a prestito spunti dal Tim Buckley più melodico per inserirli in un intenso
romanticismo gotico ricco di fascino. Refugees, canzone pervasa da una dolcezza nostalgica e
decadente, il lirismo epico dell’ottima White hammer (contraddistinta da una caotica ed
inquietante chiusura) e la lunga, articolata After the flood sono i momenti importanti di un
lavoro sicuramente riuscito.
Il complesso si stabilizza con un organico al quadrato (Hammill, Banton, Jackson, Evans) che
non prevede la presenza fissa di un bassista (anche se Potter rimane collaboratore esterno in
molti dischi dei Van Der Graaf e dello stesso Hammill) ; il nuovo album H to He, who am the
only one, sempre nel 1970, registra l’illustre partecipazione di Robert Fripp, la cui chitarra
s’insinua tra le spirali nevrasteniche di The emperor in his war-room. Il disco è aperto da
Killer, un brano insolitamente aggressivo che sfrutta un accattivante riff dettato dai fiati di
Jackson e determina un netto contrasto con la riflessiva pacatezza pianistica della successiva
House with no door. Hammill rende ancor più verticale l’impostazione del cupo romanticismo
vocale, estremizzando le escursioni tonali, assecondato efficacemente dal gruppo alla ricerca
di un suono elaborato e surreale in Lost e Pioneers over C, composizioni che anticipano le
magistrali evoluzioni di Pawn hearts.
VAN DER GRAAF GENERATOR
-
PAWN HEARTS
(Charisma - 1971)
I Van Der Graaf Generator ottengono qualche timido consenso in Inghilterra, mentre sono
molto apprezzati in Italia dove competono in notorietà con Genesis e Gentle Giant, gruppi ai
quali vengono erroneamente paragonati ; sarà per l’appartenenza alla medesima casa
discografica (la Charisma) e per la presenza del produttore John Anthony, ma la musica
possiede in realtà ben pochi punti di contatto con il rock romantico di Genesis e simili.
Pawn hearts, registrato nel settembre del ’71, lo dimostra chiaramente. Certo l’aspetto
melodico è una delle componenti basilari, ma il suono è indirizzato verso inquietanti forme di
psichedelia dark, con gli strumenti che evitano di scendere a smaccati compromessi di natura
classica (pur rimanendo sensibili a questa matrice), esibendosi in intricate architetture che
piuttosto fanno affiorare qualche affinità con le partiture dei King Crimson (in tal senso
appare tutt’altro che casuale la rinnovata e più radicata presenza della chitarra di Fripp).
Notevoli sono le due lunghe composizioni di Hammill che trovano posto sulla prima facciata
del disco, brani che evidenziano l’abilità del gruppo nell’attraversare climi strumentali
mutevoli e di gran caratterizzazione lirica per merito delle coinvolgenti prestazioni vocali del
leader stesso. Lemmings e Man-erg rappresentano il vertice della creatività dei Van Der Graaf
Generator, così come la suite A plague of lighthouse-keepers recupera in sintesi tutti gli aspetti
fondamentali della loro musica, fornendo una sorta di affascinante epitaffio della storia di
Hammill e compagni.
Già prima delle registrazioni di Pawn hearts Peter Hammill realizza un buon album come
solista (Fool’s mate, Charisma-1971, con l’aiuto di vari musicisti del giro Van Der Graaf), che
non si discosta eccessivamente dalle linee portanti del suono del gruppo madre. La decisione
del cantante è quella di proseguire sotto proprio nome, determinando così lo scioglimento dei
Van Der Graaf che torneranno alla ribalta solo nel 1975, senza riuscire a conseguire i mirabili
risultati dei primi tempi.
L’ottimo Chameleon in the shadow of the night sceglie la via di un suono scarno ed essenziale,
basato quasi esclusivamente su chitarra acustica, piano e voce, con belle e impressionanti
composizioni (German overalls, Easy to slip away e l’elettrica Rock and Role) che mostrano
qualche punto di contatto con lo stile di Roy Harper. La carriera solista di Hammill prosegue
ricca di episodi sino ai nostri giorni, sempre contraddistinta da una buona qualità media dei
lavori e con punte di particolare interesse negli eccellenti Nadir’s big chance (Charisma-1975)
e The future now (Charisma-1978).
Spesso associati ai Van Der Graaf Generator, probabilmente a causa della presenza dei
fiati di Keith Gemmell, gli Audience muovono su coordinate sonore nettamente diverse da
quelle del gruppo di Peter Hammill. Dopo la pubblicazione di un controverso lavoro d’esordio
(Audience, Polydor-1969), rinnegato dai musicisti stessi, il gruppo formato da Howard Werth
(v.ch.), Keith Gemmell (sf.), Trevor Williams (bs.), Tony Connor (bt.pr.) viene messo sotto
contratto da Tony Stratton-Smith per la sua Charisma, realizzando il discreto Friend’s
friend’s friend (1970).
La musica è lontana dagli oscuri, plumbei incubi psicospaziali tipici dei migliori Van Der
Graaf e si sofferma sulla modalità della ballata rock, presentata di volta in volta con
caratteristiche diverse, come si può desumere dal lavoro più rappresentativo, The house on
the hill del 1971. Il brano più noto (e forse più bello) è Jackdaw, che mette in risalto un’intensa
scrittura melodica con solidi arrangiamenti dei fiati e la convincente prestazione al canto di
Werth, potente e sicuro. In altri casi le ballate diventano lenti d’atmosfera (I had a dream),
oppure canzoni dal ritmo spigliato (Nancy) ; bella anche la title track, che si avvale del
decisivo apporto dei fiati di Gemmell e riesce a sopportare un breve e poco indicato assolo di
batteria.
Gli Audience non resistono al crescente interesse e all’inevitabile pressione di pubblico e
critica ; nel 1971, dopo una serie di concerti americani con i Faces, Keith Gemmell abbandona
per disaccordi interni (suonerà nei Sammy e negli Stackridge) e la formazione si scioglie
l’anno successivo, dopo un ultimo superfluo album e un disastroso concerto al Lyceum.
Candidato da Stratton-Smith, Werth rinuncia all’offerta di diventare il nuovo cantante dei
Doors, in seguito alla scomparsa di Jim Morrison, ed inizia la carriera solista. Il bassista
Trevor Williams entra nei Johnatan Kelly Outside, dove sono pure l’ex batterista dei Ben
(Dave Sheen) e il chirarrista Snowy White (poi con Pink Floyd, dal vivo, e con Thin Lizzy).
Quando alla fine del 1969 crea un proprio gruppo con il quale affrontare i modi del pop
romantico progressivo, Rod Argent è musicista con alle spalle un lungo tirocinio nella
formazione beat degli Zombies, che tra il ’62 e il ’67 riesce sporadicamente a centrare qualche
successo con un paio di 45 giri e con l’album Odyssey & oracle (CBS-1968).
Nel nuovo complesso, denominato semplicemente Argent, confluiscono il chitarrista Russ
Ballard e il batterista Robert Henrit (entrambi con precedenti in gruppi beat quali Roulettes e
Unit 4+2), oltre al bassista Jim Rodford, cugino di Argent ed ex Mike Cotton Sound.
ARGENT
-
RING OF HANDS
(CBS - 1971)
Con gran parte del materiale composto da Argent e da Chris White (ex compagno del leader
negli Zombies), e qualche significativo contributo di Ballard, gli Argent esordiscono nel 1970
con un discreto album omonimo per la CBS che appare tentativo di superamento del vecchio
idioma beat. Solo a tratti lo sforzo per cercare di creare un suono vario ed eclettico ottiene i
risultati sperati, pur in presenza di buone canzoni quali Like honey, Liar, The feeling is inside.
Ovviamente la musica prevede ampio spazio per l’organo e il piano di Argent, avvalendosi di
raffinate e piacevoli (anche se un poco esili) armonie vocali.
Sicuramente più maturo e godibile risulta il successivo Ring of hands, che cattura il giusto
equilibrio di un pop progressivo facile ed ordinato, sempre molto curato, con belle melodie e
precise soluzioni vocali come nell’iniziale Celebration, nella grintosa Chained (una sorta di riff
rallentato alla Hendrix, sul quale viene incastonata una stratificazione corale di
grand’effetto), come nelle beatlesiane Rejoice e Pleasure (con echi Yes). Cast your spell uranus
è un R & B con accenni gospel, ben strutturato e dominato dalle tastiere di Argent, che pure
forniscono le trame classicheggianti all’ambiziosa Lothlorien. Il pop jazz di Sleep won’t help
me e lo spedito senso affermativo di Where are we going wrong chiudono degnamente il disco ;
purtroppo la musica del gruppo subisce una rapida involuzione nei lavori seguenti, perdendo
gran parte della freschezza stilistica.
Al termine del 1974, Ballard abbandona i compagni per intraprendere la carriera solistica,
evento che precede di poco la separazione definitiva degli Argent.
Gli Ashton, Gardner & Dyke nascono nel 1969, dall’associazione tra il tastierista Tony
Ashton e il batterista Roy Dyke (entrambi reduci dell’epoca beat con i Remo 4) con il bassista
Kim Gardner, musicista di notevole esperienza che vanta partecipazioni a Birds, Santa
Barbera Machine Head e Creation. Nonostante la predisposizione triangolare tipica
dell’epoca (Nice, E.L.&P., Quatermass) la proposta del gruppo si dimostra originale, restando
in bilico tra rock, jazz e soul, valorizzata dalle raffinate tastiere e dalla voce rauca di Ashton.
Consigliabile l’ascolto, quanto meno, del primo omonimo LP datato 1969, nel quale spicca la
bella Maiden voyage (pubblicata anche come singolo), vagamente in stile Traffic. Nel disco
trovano spazio diversi brani swinganti di qualità come Young man ain’t nothing in the world
these days, Picture sliding down the wall, Rolling home e una discreta versione della New York
mining disaster 1941 dei Bee Gees.
Il gruppo resta ai margini del successo commerciale e in seguito allo scioglimento (avvenuto
nel 1972, dopo la pubblicazione di altri tre album) ritroviamo Gardner e Dyke impegnati nel
rock blues dei Badger, con Jackie Lomax e Tony Kaye (Yes) ; Ashton s’unisce agli ultimi
Family per poi dedicarsi a svariate collaborazioni con i Broken Glass (presenti Stan Webb e
Miller Anderson), con i due Purple Jon Lord e Ian Paice e con i Chicken Shack.
Pete York è il batterista dello Spencer Davis Group sin dalla fondazione del complesso,
nell’aprile del ’63 ; Eddie Hardin entra in formazione nel 1967, a seguito della dipartita di
Stevie Winwood. Insieme elaborano un ambizioso (anche se scarno) progetto e nell’ottobre del
’68, dopo avere lasciato Davis, decidono di attuarlo. Nasce così uno stravagante duo che
rivede in termini minimali il concetto di formazione rock impostata sulle tastiere (in pratica
organo + batteria), fregiandosi del titolo di ‘più piccola Big Band del mondo’. Il primo LP di
Hardin & York, Tomorrow today (pubblicato a metà del ’69), è un buon esempio della loro
proposta musicale imperniata su un suono scarno, essenziale ma non privo di arrangiamenti
ricercati e in grado d’interessare grazie alla notevole fluidità strumentale, dimostrata dal duo
soprattutto dal vivo. In studio il gruppo si avvale della collaborazione di vari musicisti, che
contribuiscono a donare ai brani una maggiore completezza ; in particolare piacciono canzoni
semplici (ma tutt’altro che banali) quali Tomorrow today (un soul rock alla Traffic),
Candlelight, le moderate Listen everyone e I’m lost. Degni di menzione gli arrangiamenti jazz
rock di Mountains of sand, e pure quelli blues che fanno capolino nella raffinata Can’t keep a
good man down.
Dal vivo Hardin & York sfoderano una grinta e un dinamismo strumentale rilevanti, doti
indispensabili per evitare il pericolo di esibizioni povere della necessaria ampiezza timbrica. Il
progetto si consuma rapidamente, nel giro di poche stagioni, con la realizzazione di altri due
buoni lavori, World’s smallest big band (Bell-1970) e For the world (Decca-1971), per perdersi
in ambizioni solistiche che passano quasi inosservate. Ma davvero, non erano male.
Una breve citazione per Affinity e Manfred Mann’s Earth Band. I primi riscuotono buone
critiche all’uscita, nel 1970, di quello che rimane l’unico album pubblicato dal gruppo,
costituito da Lynton Naiff (or.), Mike Jopp (ch.), Mo Foster (bs.), Grant Serpell (bt.) e dalla
cantante Linda Hoyle. In effetti, gli Affinity dimostrano di avere buone qualità da spendere,
anche se la musica si avvicina con marcata evidenza allo stile dei Trinity di Brian Auger, con
l’organo in bella mostra e la voce della Hoyle ispirata dalla Driscoll. Così le ottime Night flight
e Mr. Joy soffrono dell’inevitabile paragone con i più rinomati Trinity, mentre I am and so are
you e soprattutto Three sisters appaiono meno ambiziose ma concrete nella fluida elasticità
ritmica che le contraddistingue. Non particolarmente esaltante, invece, la versione di All along
the watchtower posta in chiusura dell’album.
Alla pubblicazione di Affinity il complesso è già in via d’estinzione : la Hoyle ci prova come
solista con Pieces of me (Vertigo-1971), dove suonano i Nucleus quasi al completo (Spedding,
Marshall, Jenkins e Clyne). Degli altri membri, Naiff fa una breve apparizione con i Toe Fat,
Foster va con i RMS e Serpell con i Sailor.
Dopo lo scioglimento dei Chapter Three, primo tentativo da parte di Manfred Mann
d’adeguamento alle vigenti norme progressive, nel 1971 è la volta della Earth Band,
formazione che poggia su solide basi rock appena sfiorate da arrangiamenti ispirati a certa
psichedelia spaziale vuota ed esteriore. Dei numerosi dischi incisi il migliore sembra il Solar
fire del 1973, su etichetta Bronze. Non indispensabili.
La carriera musicale di Peter Bardens inizia nel 1963 con i Cheynes, un complesso del
quale fa parte anche il batterista Mike Fleetwood e che riesce ad incidere tre singoli, prima di
scomparire a metà del decennio. Bardens suona per un breve periodo con i Them di Van
Morrison, quindi all’inizio del ’66 fonda i Peter B’s Looners, con la presenza (oltre al
ritrovato Fleetwood) di Peter Green alla chitarra e di Dave Ambrose al basso. Con
l’inserimento delle voci di Rod Stewart e di Beryl Marsden, nell’inverno del ’66, il gruppo si
trasforma in Shotgun Express e nel giro di pochi mesi incide un paio di singoli : Green e
Fleetwood vanno a fondare i Fleetwood Mac, Ambrose suona con i Trinity di Brian Auger,
Stewart entra nel Jeff Beck Group e Bardens resta ai margini della grande scena,
partecipando a formazioni secondarie quali Love Affair e Mike Cotton Sound. Inoltre,
all’inizio dei Settanta, l’organista pubblica due album in proprio editi dalla Transatlantic,
subito prima di tuffarsi nella tarda scena progressiva con le creature dei Village (poi
ribattezzati Global Village Trucking Co.) e quindi degli On, che nel 1972 comprendono tre ex
membri dei Brew, Andrew Latimer, Doug Ferguson e Andy Ward.
L’anno successivo gli On mutano nome in Camel.
CAMEL
-
CAMEL
(MCA - 1973)
La nuova formazione concretizza immediatamente ottimi risultati con la pubblicazione
dell’album omonimo d’esordio, che sin dall’iniziale Slow yourself down esprime al meglio il
tipico suono sobrio, elegante ed efficace, povero di novità ma ricco d’equilibrio, ciò che manca
ai gruppi del rock romantico degli anni Settanta inoltrati. I Camel ricordano da vicino il
suono di Canterbury per il tocco leggero e gentile e per l’incedere fluido, mai forzato degli
strumenti. Tra i lati negativi, la modesta qualità delle parti vocali è il punto debole della loro
proposta, sicuramente più attraente nella veste strumentale.
Mystic queen è un bel lento d’atmosfera, che presenta linee d’organo sinuose e gradevoli e una
lirica chitarra, ottenendo un effetto non molto distante dai migliori Argent. Se Never let go
(chitarristica e scorrevole, ma pure un tantino scontata), la strumentale Six ate (ben eseguita,
anche se priva di particolare brillantezza), la graziosa Curiosity (Canterbury sound un po’
timido) segnano il passo senza per altro deludere, le ottime Separation e Arubaluba
rivitalizzano con un suono scattante che, soprattutto per la chitarra in stile simil Hillage dei
primi tempi e per l’articolazione della struttura dei brani, ricorda i Khan più determinati.
Il buono stato di forma è confermato dal vivo ; nell’ottobre del ’73 i Camel contribuiscono
alla realizzazione del doppio Live at Dingwall’s Dance Hall, che raccoglie performance di
Global Village Trucking Co., Henry Cow e Gong. La loro suite strumentale in tre parti God of
light revisited sfoggia un suono brillante e privo di fronzoli, basato essenzialmente sull’ottimo
lavoro all’organo di Bardens.
Il gruppo tiene bene anche nel successivo album di studio del ’74, Mirage, che non introduce
elementi di novità, focalizzando l’abilità dei musicisti nel saper dar vita a trovate armoniche
ingegnose e poco complicate, a mezza strada tra rock duro e melodia romantica. Indicative in
tal senso le lunghe Nimrodel e Lady fantasy.
I Camel conseguono un buon successo e la qualità dei dischi resta discreta almeno fino al
quarto Moonmadness (1976) ; verso la fine del decennio entra nel gruppo Richard Sinclair
(Caravan, Hatfield & the North), in sostituzione di Ferguson, e lo stesso Bardens abbandona il
suo complesso per raggiungere la band di Van Morrison.
- 32 ‘Jazz rock’ è uno dei termini più ambigui e, al tempo stesso, ricchi di fascino di tutto
il ‘progressive’ inglese. Ricco di fascino perché lascia presagire sconvolgenti architetture
sonore in grado di tener conto della trazione diretta del rock e della libertà espressiva del
jazz ; ambiguo in quanto, come di sovente accade ai sistemi binari, sottintende forzati
compromessi destinati a produrre esiti deludenti, privi della necessaria lucidità tematica.
Non tutto, però, è confusione o scontata ‘fusion’ : tralasciando volutamente esemplari
musicisti jazz, solo marginalmente coinvolti nel panorama rock, quali Mick Westbrook, John
Surman e simili, ottimi esempi vengono dai Soft Machine e da più di un gruppo dell’orbita di
Canterbury (presi in considerazione nel successivo capitolo), dai Nucleus di Ian Carr e dalla
Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin.
Il trombettista Ian Carr crea i Nucleus all’inizio del 1970, unendosi a Karl Jenkins (sf.ts.),
Brian Smith (sf.), Chris Spedding (ch., proveniente dai Battered Ornaments), Jeff Clyne (bs.)
e John Marshall (bt.pr.) ; con loro si reca immediatamente in studio per registrare Elastic
rock (Vertigo-1970), un buon disco che però solo raramente riesce a scalfire lo stile freddo e
calcolato che contraddistingue la proposta del gruppo. Grande importanza nell’economia del
suono dei Nucleus spetta al ruolo di Chris Spedding che, con il suo informale approccio rock,
dona alla musica solidità ritmica e allo stesso tempo varietà timbrica.
Nel settembre del ’70 i Nucleus sono nuovamente impegnati in studio per le registrazioni di
We’ll talk about it later, che si rivela il miglior album grazie all’omogeneità di fondo della
musica proposta più che alle pur eccellenti prestazioni strumentali dei musicisti. Di rilievo
l’ottima Song for the bearded lady, perfetta illustrazione delle caratteristiche del tipico brano
jazz rock, mediata tra l’elastico sostegno ritmico di stampo rock (ricco di originali ed
azzeccati interventi della chitarra di Spedding) e la stratificazione armonica generata dalla
sezione fiati ; notevole anche la nitida progressione di We’ll talk about it later.
Il terzo Solar Plexus (Vertigo-1971), realizzato con un organico allargato a contributi esterni,
chiude un ciclo : poco dopo Marshall passa ai Soft Machine, seguito a ruota da Jenkins. Di
fatto, i Nucleus non esistono più. Carr continua pubblicando a suo nome Belladonna, sempre
per la Vertigo nel 1972, al quale partecipano musicisti del calibro di Dave McRae e Alan
Holdsworth. Più avanti, per Labyrinth, torna di moda la vecchia marca ma per i Nucleus i
tempi migliori sono tramontati.
Musicista tra i più significativi per la capacità di sapersi porre come tramite tra jazz e rock
con precisa cognizione di causa, John McLaughlin inizia la carriera nei primi anni Sessanta
facendo gavetta nei complessi di Graham Bond (con Jack Bruce e Ginger Baker) e di Brian
Auger. Il 1969 è l’anno cruciale per il chitarrista, che entra nella formazione di Miles Davis
partecipando all’incisione di due album storici come In a silent way (in febbraio) e Bitches
brew (in agosto). A marzo trova il tempo per effettuare una mitizzata session di studio con
Jimi Hendrix (mai ufficialmente edita), nella quale è presente anche il bassista jazz Dave
Holland ; inoltre pubblica a proprio nome l’ottimo Extrapolation (Polydor), con l’aiuto di
alcuni esponenti di prestigio dell’English jazz (John Surman, Brian Odges e Tony Oxley). Tra
le varie collaborazioni e i dischi incisi come solista spicca My goal’s beyond (Douglas-1971), nel
quale suonano il violinista Jerry Goodman (già membro dei Flock) e il batterista di colore
Billy Cobham che, nel 1972, con l’innesto del pianista cecoslovacco Jan Hammer e del bassista
Rick Laird formeranno l’ossatura della Mahavishnu Orchestra.
MAHAVISHNU ORCHESTRA
-
BIRDS OF FIRE
(CBS - 1973)
Dopo la realizzazione di lavori concettualmente piuttosto distanti dall’espressione rock, la
Mahavishnu Orchestra è, nelle intenzioni di McLaughlin, il complesso ideale per tornare ad
eseguire una musica di chiara impostazione elettrica.
Nel 1972 il gruppo registra The inner mounting flame (CBS), ma è con il seguente Birds of fire
che la Mahavishnu Orchestra raggiunge i limiti delle possibilità espressive del genere. Il suono
è secco, graffiante, elettrico, teso allo spasimo : nell’iniziale Birds of fire gli strali di fuoco della
chitarra s’avvinghiano alle evoluzioni del violino, in una straordinaria sospensione dai
contorni indefiniti, sostenuti dal treno ritmico Laird / Cobham.
Non mancano belle e pacate melodie quali Miles beyond (di Miles Davis, unico brano non
composto da McLaughlin) e Sanctuary, che vengono comunque sottoposte ad interessanti
trattamenti armonici. L’ardore ritmico di Celestial terrestrial commuters e di One word mette
in luce l’abilità strumentale dei musicisti, sfiorando territori ‘fusion’ senza scadere nella
banalità più ovvia ; c’è anche spazio per la nitida canzone di Open country joy, dai vaghi
accenni country, e per il breve frammento dallo svolgimento circolare di Hope. La conclusiva
Resolution è magistrale nella sua ascesa disperata, senza fine e senza meta, e pare preludere
alle sequenze utilizzate a piene mani da Robert Fripp su Red, qualche mese più tardi.
La Mahavishnu Orchestra si conferma formazione interessante anche dal vivo, come
dimostra Between nothingness & eternity (CBS-1973), registrato nell’agosto del ’73 in
occasione di un concerto al Central Park di New York. I lunghi sfoghi strumentali che
compongono il disco forse non piacciono a chi ricorda con nostalgia il McLaughlin dei tempi
jazz, ma colpiscono per l’incontenibile dinamismo, per l’approccio anfetaminico, incapaci di
giungere a traguardi d'assoluta eccellenza ma tremendamente efficaci per l’impatto frontale
generato.
Il finale della storia è meno esaltante : McLaughlin scioglie la formazione per approntarne
una nuova, ancora più ambiziosa, strutturata a somiglianza di una piccola orchestra nel cui
organico spicca la presenza del violinista Jean-Luc Ponty. I due album pubblicati, Apocalypse
(CBS-1974) e Visions of the emerald beyond (CBS-1975), mantengono poco del precedente
splendore, naufragando in un funky jazz rock spigliato e piacevole, quanto privo d’importanti
contenuti tematici.
Anche il sassofonista Dick Morrissey è musicista d’estrazione jazz che all’inizio dei
Sessanta gira con un proprio gruppetto (riesce persino ad incidere un LP), nel quale di
passaggio appare il grande Ginger Baker ; al suo attivo, inoltre, qualche collaborazione con
Georgie Fame e Animals.
Nel 1970 Morrissey fonda gli If, una formazione a sette che comprende il tastierista John
Mealing, il chitarrista Terry Smith, il cantante J.W. Hodkinson, il bassista Jim Richardson, il
batterista Dennis Elliot e l’altro sassofonista Dave Quincy. Quest’organico è responsabile
della realizzazione dei lavori più importanti, tra i quali può essere scelto ad esempio il secondo
If 2, pubblicato verso la fine del 1970 (ottimo anche l’esordio di If - Island, 1970 - con la bella
What can a friend say ?).
I primi nomi che vengono in mente, ascoltando gli If, sono quelli di analoghe formazioni
americane quali Blood Sweat & Tears e Chicago, soprattutto per la ritmica scattante e per i
corposi arrangiamenti fiatistici. La musica è prevalentemente orientata in ambito rock, con
canzoni ben strutturate, dotate di belle linee melodiche (Sunday sad, I couldn’t write and tell
you) e colorate da una poco fitta ma solida sezione di fiati derivata dal jazz e dal rhythm &
blues (A song for Elsa, Three days before her 25th birthday).
Certo non si tratta di jazz rock nel senso letterale del termine, ma questi If risultano piacevoli
e meritano un piccolo angolo di considerazione. Tre anni più tardi Morrissey rifonda il
gruppo, modificandone radicalmente l’assetto, ma gli ultimi album (prima dello scioglimento
nel ’75) sono deludenti ; Elliot fa fortuna con i Foreigner, Mealing suona con gli Strawbs
dell’ultimo periodo, Smith e Quincy formano gli Zzebra con due LP all’attivo.
La luna in giugno nella terra del grigio e del rosa
- 33 Gruppo seminale della scena musicale sviluppatasi nella zona di Canterbury, i Wilde
Flowers nascono nel giugno del 1963 dall’aggregazione di alcuni giovani musicisti del luogo,
tali Robert Wyatt, Kevin Ayers, Richard Sinclair e i fratelli Hopper, Brian e Hugh. Nei primi
mesi del ’66 Ayers e Wyatt lasciano i Wilde Flowers e si uniscono ad un bizzarro personaggio
proveniente dall’Australia, Daevid Allen. Nell’agosto di quell’anno l’insolito trio si trasforma
in quintetto, con l’aggiunta di Mike Ratledge (anch’egli del luogo) e del chitarrista americano
Larry Nolan, denominandosi Soft Machine.
Ben presto Nolan se ne va e la formazione s’assesta a quartetto, risultando tra le più assidue
frequentatrici dell’Ufo Club. Proprio durante un’esibizione nel mitico locale underground
londinese il complesso viene notato da Chas Chandler, scopritore e manager di Jimi Hendrix ;
Chandler produce il primo 45 giri del gruppo, Love makes sweet music, che si rivela un
completo insuccesso. Ai Soft Machine s’interessa anche Giorgio Gomelsky, che nell’aprile del
’67 porta il gruppo in studio per alcune sessions di discreto valore storico, pubblicate su disco
solo dopo diversi anni (buona la ristampa At the beginning, Charly-1977).
Pochi giorni più tardi, i Soft Machine partecipano alla ‘14th hour technicolour dream’,
leggendaria festa dell’underground e della psichedelia inglese ; sono gli ultimi fuochi della
formazione originaria che in settembre perde Daevid Allen, al quale viene negato il rinnovo
del permesso di soggiorno (riemergerà con i Gong).
Wyatt, Ayers e Ratledge decidono di proseguire come trio e per loro il 1968 è un anno di
notevole intensità : a più riprese partecipano come supporto a numerosi concerti americani
della Jimi Hendrix Experience e, sempre negli Stati Uniti, pubblicano l’album d’esordio
omonimo. L’inizio di Hope for happiness è un tuffo al cuore per via della voce di Wyatt,
originale per i riferimenti alla cultura jazz, eterea e tremante, imprendibile nel suo volo in
caduta libera, prima che il ritmo e l’organo di Ratledge prendano il sopravvento. Why am I so
short ? appare timida, ma lascia intravedere ottime soluzioni che saranno sviluppate nel
lavoro successivo. Bella anche la spigliata Lullabye letter e in generale il materiale è valido,
l’album non delude pur scontando una cura sommaria della produzione, che si riflette
nell’eccessiva frammentarietà della musica.
I ritmi delle esibizioni dal vivo si fanno sempre più intensi e sono mal tollerati dal carattere
pigro ed insofferente di Ayers, che preferisce abbandonare per dedicarsi ad una carriera
solistica inizialmente densa di buoni risultati ; al suo posto entra Hugh Hopper, altro ex Wilde
Flowers. All’inizio del 1969 il nuovo trio registra Soft Machine volume two, nel quale esibisce i
notevoli progressi conseguiti. Le buone intuizioni comprese nel lavoro d’esordio sono
confermate e le varie e complesse componenti dello stile vengono amalgamate con equilibrio e
precisione. Decisivo è l’apporto strumentale e compositivo di Hugh Hopper (sua la bellissima
Dedicated to you but you weren’t listening) che, in perfetta sintonia con Wyatt, tende a spostare
l’accento della musica verso influenze jazz, con alcune parti al limite del free (Fire engine
passing with bells clanging). L’apertura è affidata ad una snella Pataphysical introduction che
incappa nel divertimento delirante di A concise British alphabet. L’eccellente Hibou anemone
and bear sfoggia un suono maturo, che si confronta con l’evidente ispirazione jazz (marcata in
varie parti del disco dalla presenza dei fiati di Brian Hopper) ; il canto di Wyatt si libera
improvviso, limpido ed impalpabile, carico di sentimento al limite dello stordimento.
SOFT MACHINE
-
THIRD
(2 LP CBS - 1970)
Le ambizioni dei Soft Machine aumentano e, di pari passo, la formazione si allarga con
l’ingresso, come elemento fisso, del sassofonista Elton Dean. Inoltre, alle registrazioni del
terzo album partecipano alcuni esponenti di rilievo del ‘new English jazz’, che donano alle
composizioni un’inedita intensità strumentale.
Third rappresenta l’ideale punto d’incontro tra l’aspetto trasognato e dadaista dei primi Soft
Machine e il jazz moderno, elettrico e sperimentale, dei dischi degli anni Settanta, con esiti
qualitativi di primaria grandezza. E’ musica che trascende il significato del termine jazz rock,
che evita una fredda fusione di stili e generi per intervenire direttamente sulla consistenza
molecolare del suono, modificandone le caratteristiche atomiche al fine di generare un
risultato creativo e originale.
L’apporto dei sassofoni di Elton Dean è decisivo, gli interventi di Ratledge appaiono
adeguatamente misurati e la sezione ritmica registra un’evidente maturazione che permette a
Wyatt e Hopper di collocarsi tra gli strumentisti più raffinati ed innovativi dell’epoca.
Il doppio LP si compone di quattro lunghe composizioni che occupano i relativi lati del disco.
Due portano la firma di Ratledge : Slightly all the time, fluida disposizione di una bella varietà
di temi, e Out-bloody-rageous, che attinge a certo minimalismo iterativo vicino a Philip Glass e
ancor più a Terry Riley, per poi ricollegarsi al jazz elettrico e fiatistico. Hopper presenta
Facelift, brano proposto in una versione dal vivo realizzata con registrazioni provenienti da
due concerti del gennaio 1970, che si apre con una libera sequenza di suoni elettronici ed
evolve in una serie d’affascinanti aperture armoniche improntate sui fiati.
La felice vena creativa di Wyatt dona al pop inglese la stupenda Moon in June, unico brano a
presentare una parte vocale e a non tradire lo spirito originario della Soft Machine. Il canto
colmo di sentimento e la bellezza inarrivabile della parte strumentale, che non prevede
l’intervento di strumenti a fiato, afferma per l’ultima volta e in modo definitivo (almeno con i
Softs) la scienza ‘patafisica’ tanto cara a Robert.
La direzione musicale del gruppo procede in senso inverso, alla ricerca di forme sempre più
impervie di jazz elettrico ; in Fourth (CBS-1971) non c’è spazio per la creatività di Wyatt,
relegato al ruolo di comprimario di lusso, batterista virtuoso capace di trasferire la gran
personalità della sua arte sui tamburi dello strumento prediletto. Il quarto parto dei Soft
Machine resta in ogni caso un disco di buon livello ; sotto le indicazioni stilistiche dettate da
Hopper, Ratledge e Dean, e per merito di un agguerrito manipolo di fiatisti, il disco sviluppa
un forte approccio bandistico che straripa fin sulle rive del free jazz. Prima della
pubblicazione di Fourth, Wyatt sfoga la creatività repressa realizzando un album come
solista, il mitico The end of an ear, e nell’estate del ’71 saluta la compagnia per formare, non
senza una punta di polemica ironia, i Matching Mole (dal francese Machine Molle).
Per le registrazioni di Fifth i Soft Machine s’avvalgono dell’opera di due batteristi, Phil
Howard (sul primo lato) e John Marshall (proveniente dai Nucleus, sul secondo), che diventa
il sostituto ufficiale. La qualità del materiale dell’album è all’altezza del nome del gruppo,
anche se la musica appare totalmente sganciata dalle precedenti esperienze. Fifth va
considerato tra le migliori espressioni del jazz rock inglese, ma la forma rigorosa, poco incline
ad accomodamenti commerciali, non permette al complesso di guadagnare spazio nelle
classifiche di vendita.
Elton Dean viene sostituito da Karl Jenkins, un altro musicista dei Nucleus, e nel 1973 il
gruppo incide l’ancora valido Six (2 LP, CBS) che presenta alcune parti dal vivo.
L’instabilità dell’organico è costante ; nel maggio ’73 Hopper lascia per incidere un ottimo
disco da solista (1984, CBS-1973) e successivamente finire negli Isotope di Gary Boyle. A
partire da Seven (CBS-1973) la proposta musicale diviene di scarso interesse e l’uscita di
scena, nel 1976, di Ratledge (l’ultimo presente dei fondatori del complesso) precede di poco la
fine dei Soft Machine.
I Caravan vantano una comune derivazione genealogica con i Soft Machine. Il bassista
Richard Sinclair fa parte dei Wilde Flowers sin dalla loro costituzione e quando, all’inizio del
1966, Robert Wyatt e Kevin Ayers abbandonano per formare i Soft Machine, i due vengono
rimpiazzati (in tempi diversi) dal fratello di Richard, David (ts.), dal chitarrista Pye Hastings
e dal batterista Richard Coughlan. I Wilde Flowers si sciolgono ufficialmente alla fine del
1967, trasformandosi in Caravan.
Il primo album (Caravan, Verve-ottobre1968, lavoro dignitoso che presenta le belle Love song
with flute e Where but for Caravan would I) passa inosservato, ma dopo il necessario periodo di
rodaggio i Caravan firmano per la Decca e nel settembre del ’70 pubblicano l’eccellente If I
could do it all over again, I’d do it all over you, che stabilisce i canoni dello stile ed ottiene
maggiori (anche se non eccezionali) riscontri di vendita. Tra i brani, peraltro di qualità media
elevata, spiccano la frizzante title track e le notevoli sequenze di And I wish I were stoned e,
soprattutto, di Can’t be long now, che anticipa le ambientazioni della celebrata Nine feet
underground.
CARAVAN
-
IN THE LAND OF GREY AND PINK
(Deram - 1971)
Pubblicato nella primavera del 1971, In the land of grey and pink rappresenta la definitiva
consacrazione artistica dei Caravan, che si propongono come secondo polo d’attrazione del
Canterbury sound, con una musica meno cerebrale e all’avanguardia rispetto a quella dei
Soft Machine, ma non per questo di minore efficacia ed importanza per l’influenza esercitata
su numerose altre formazioni. Se la ‘macchina soffice’, sospinta da una furiosa creatività,
evolve verso soluzioni complesse e spesso di difficile assimilazione, i Caravan predicano il
verbo della semplicità e della melodia, evitando accuratamente ogni accento sperimentale. Il
suono appare nitido e pulito, semplice ma curato nei minimi particolari, con in evidenza le
tastiere spumeggianti di David Sinclair e le belle armonie vocali di Richard Sinclair e Pye
Hastings.
La gustosa ed indolente cadenza di Golf girl ammalia sin dall’originale introduzione e pone in
evidenza l’importante contributo ai fiati di Jimmy Hastings, già presente nei precedenti LP e
collaboratore dei Soft Machine. Winter wine è una canzone stupenda, intrisa di nostalgia,
interpretata magistralmente dalla malinconica voce di Richard Sinclair e percorsa da
insinuanti, liriche frasi d’organo. La disarmante, divertente semplicità espositiva della
tutt’altro che banale Love to love you introduce la raffinata ballata di In the land of grey and
pink, che conferma l’equilibrio stilistico ed esecutivo raggiunto dai musicisti.
La suite di Nine feet underground raccoglie l’esperienza globale della proposta Caravan, senza
cadere in facili riti celebrativi, mantenendo il suono straordinariamente compatto come solo i
migliori Traffic in quel periodo riescono a fare.
Nell’agosto ’71 David Sinclair cede all’invito di Robert Wyatt per entrare a far parte dei
Matching Mole e il suo posto nei Caravan viene preso da Steve Miller, tastierista con alle
spalle l’effimera esperienza dei Delivery, leggendaria formazione nata a Canterbury nel 1968
con la presenza di Phil Miller (ch.), Lol Coxhill (sax.), Jack Monk (bs.) e Pip Pyle (bt.). Con
Roy Babbington al posto di Monk e con l’inserimento della cantante Carol Grimes, i Delivery
incidono nel 1969 l’unico album Fools meeting (B&C-1970), per poi sfaldarsi nel ’71 tra
l’indifferenza generale.
Waterloo Lily (maggio ’72) raccoglie critiche controverse, ma tutto sommato non delude. Le
qualità del suono Caravan per il momento sono salve, anche se alcune parti del disco non
convincono completamente ; l’assenza delle tastiere di Sinclair (per quanto ben sostituito
dall’ottimo Miller) si fa sentire e la maggiore propensione verso aspetti jazzati, unita alla
ricerca accentuata del particolare e di tonalità originali, determina un sensibile
appesantimento delle canzoni.
Il gruppo è in evidente difficoltà per via dell’immediato abbandono di Miller e soprattutto a
causa dell’uscita di Richard Sinclair, che ritrova il fratello negli Hatfield & the North. Il
pallino passa in mano a Pye Hastings, che nel ’73 riassetta i Caravan con l’assunzione di John
Perry al basso e di Geoffrey Richardson alla viola ; per l’album For girls who grow plump in
the night (Deram, pubblicato nell’ottobre del ’73) e per il successivo Caravan & the New
Symphonia (Decca-1974, registrato dal vivo lo stesso mese con l’aiuto di un’ampia formazione
orchestrale) torna temporaneamente con il gruppo David Sinclair. Non si tratta di dischi del
livello abituale, tra i solchi affiora un rock di facile presa che manca di freschezza ed
inventiva, anche se la proposta appare ugualmente curata e dignitosa, a tratti piacevole.
L’album dal vivo, complessivamente migliore, deve rispolverare l’antica cadenza di For
Richard per decollare completamente.
Sono gli ultimi episodi degni di nota di un gruppo che avrebbe meritato miglior fortuna e
considerazione. Ma tanto basta, la musica del grigio e del rosa non si può cancellare dai nostri
cuori.
A mezza strada tra Soft Machine e Caravan si collocano gli Egg di Dave Stewart. Nel 1967
l’organista fa parte degli Uriel, un complesso dedito alla materia flower power, del quale sono
membri il chitarrista Steve Hillage, il bassista Hugh Montgomery-Campbell e il batterista
Clive Brooks. Le uniche tracce registrate dagli Uriel vengono pubblicate nel 1969, su un
album attribuito curiosamente agli Arzachel ; nel luglio del ’68 Hillage lascia il gruppo per
dedicarsi agli studi universitari (in quel di Canterbury, ovviamente) e i tre rimasti cambiano
nome, ribattezzandosi Egg.
La nuova denominazione esordisce nell’estate del ’69 con il discreto singolo Seven is a jolly
good time / You are all princes, e il gruppo giunge alla prova sulla lunga distanza nel marzo del
’70. Egg (pubblicato dalla Deram) è un esordio di tutto rispetto, che nelle ottime I will be
absorbed e The song of McGillicudie the pusillanimous mette a fuoco lo stile del gruppo, in
gran parte basato sul talento di Stewart e sull’uso di tempi inconsueti di lontana derivazione
jazz. Emergono anche evidenti aspetti classici nel timido arrangiamento della Fuga in D
minore di Bach e nella stesura dei quattro movimenti della Symphony no. 2 che, pur
sfoderando episodi strumentalmente brillanti, appare nell’insieme un po’ esagerata di pretese.
EGG
-
THE POLITE FORCE
(Deram - 1970)
Passano pochi mesi ed entro la fine dell’anno gli Egg pubblicano il secondo LP The polite
force, un lavoro maturo e particolarmente complesso. A visit to Newport hospital presenta una
cadenza grave, pesante, con la parte centrale del brano abilmente strutturata attorno all’agile
gioco delle tastiere. In Contrasong viene introdotta una nutrita sezione di fiati (nella quale
spicca la tromba di Henry Lowther), in un bell’intreccio di tempi complessi. L’atmosfera della
lunga Boilk echeggia un classicismo stralunato, inquinato da una psichedelia oscura ed
inquietante, al limite del rumore.
Il secondo lato del disco è interamente occupato da un ennesimo tentativo sulla lunga
distanza : le quattro parti di Long piece no. 3 si spingono agli estremi della concezione sonora
degli Egg, con soluzioni armoniche e ritmiche che appaiono formalmente inappuntabili, pur
correndo il rischio di una latente freddezza espressiva.
L’assoluta mancanza di potenziale commerciale è fuori di dubbio e nel luglio 1972 il gruppo si
scioglie : Brooks va a suonare con i Groundhogs di Tony McPhee, mentre Stewart mette a
disposizione del progetto Khan il proprio magistero strumentale, per poi entrare negli
Hatfield & the North.
La sigla Egg torna in scena per l’ultima volta nel 1974, quando i tre membri si riuniscono
temporaneamente per l’incisione di The civil surface (Caroline-1974), con un organico
allargato a numerosi musicisti esterni.
Dopo la breve ed intensa esperienza degli Egg, Dave Stewart all’inizio del 1972 ritrova
sulla sua strada il vecchio compagno Steve Hillage il quale, terminati gli studi universitari, ha
nel frattempo allestito la formazione dei Khan. A far gavetta con lui in piccoli club, come
supporto di Genesis, Caravan, Van Der Graaf Generator, sono il bassista Nick Greenwood
(con alle spalle una partecipazione al Crazy World di Arthur Brown), il batterista Eric
Peachey e il tastierista Dick Henningham. Quando si presenta l’occasione di recarsi in studio
d’incisione per realizzare un album, Hillage si rivolge a Stewart per le parti relative alle
tastiere ; nel maggio del 1972 la Deram pubblica Space shanty, pregevole parto di tal
estemporanea collaborazione.
La musica è un’interessante, spettacolare fusione tra soluzioni romantiche d’impronta
canterburiana e un rock spigliato ed incisivo, dotato di gran dinamismo strumentale, con
l’ovvia predominanza della chitarra di Hillage (che inizia a sfoderare il tipico stile, melodico e
ricco di echi spaziali) e delle pregevoli tastiere di Stewart. Il binomio chitarra / tastiere
dell’iniziale Space shanty, la ballata melodica di Stranded, l’intera struttura di Driving to
Amsterdam sono essenziale nutrimento per lo sviluppo del suono dei Camel di Peter Bardens.
Mixed up man of the mountains e Hollow stone mostrano le radici genuinamente rock di
Hillage (eterno debitore dello stile ‘acquatico’ dell’Hendrix più quieto), senza rinunciare ad
una convincente varietà di temi.
Hillage e Stewart lavorano per breve tempo all’allestimento di una nuova formazione dei
Khan, senza esito, dal momento che il tastierista entra negli Hatfield & the North mentre il
chitarrista finisce nei Gong di Daevid Allen. In quel bizzarro complesso rimane fino al 1976,
ma già l’anno precedente Hillage inizia una carriera solistica che dà ottimi frutti con i primi
lavori, Fish rising e L (quest’ultimo, prodotto da Todd Rundgren, vanta la presenza degli
Utopia e del jazzista Don Cherry). Fish rising (Virgin-1975) si collega direttamente alle
precedenti esperienze dei Khan e dei Gong, con l’elaborazione di alcune riuscite mini suite
(Solar musick suite, The salmon song, Aftaglid).
Gruppo di nobili radici del Canterbury sound, Hatfield & the North prende forma
nell’ottobre del 1972. I fratelli David e Richard Sinclair affrontano assieme le esperienze dei
Wilde Flowers e dei Caravan, il chitarrista Phil Miller proviene dai Delivery e suona (con lo
stesso David Sinclair) nei Matching Mole, Pip Pyle è batterista alla corte di Daevid Allen e nei
primi Gong. L’organico s’assesta definitivamente all’inizio del 1973 con l’ingresso di Dave
Stewart, in sostituzione di David Sinclair tornato a suonare con i Caravan.
HATFIELD AND THE NORTH
-
HATFIELD AND THE NORTH
(Virgin - 1973)
Pubblicato alla fine del 1973, Hatfield and the North non delude di certo le esigenti aspettative
dei pochi appassionati del genere. Sin dall’iniziale The stubbs effect, gli Hatfields danno
dimostrazione dell’abilità nel saper trasporre le precedenti esperienze dei singoli musicisti in
un’entità sonora indivisibile. Echi di Matching Mole e Caravan (nel momento in cui questi
gruppi hanno cessato di esistere o di produrre musica di qualità) si rincorrono in un vortice di
emozioni ; sintetizzando al massimo, si può parlare di jazz rock ma, in realtà, è facile rendersi
conto dell'insufficiente precisione del termine.
Going up to people and tinkling fa leva, come tutto il lavoro, su una notevole poliedricità
strumentale e d’ispirazione : le raffinate tastiere di Stewart attingono a trame minimali ed
iterative, la chitarra jazz di Miller inferisce colpi secchi ed improvvisi, a forti tinte
psichedeliche, i fiati di Leigh - in prestito da Henry Cow - ampliano le coordinate sonore (jazz
e lo Zappa bandistico, dietro l’angolo).
Le composizioni di Sinclair (Big jobs, Bossa nochance, l’eccellente Fol de rol) non perdono di
vista l’aspetto romantico (e di commovente nostalgia) di una proposta che, a ben vedere,
chiude un ciclo e forse l’intera epopea della musica di Canterbury. Se un difetto si vuole
trovare a tutti i costi, si può ragionare su qualche parte che tollera una certa freddezza
stilistica, ma è un’impressione dovuta alla natura elaborata e ‘seria’ della materia trattata,
assolutamente estranea a qualsiasi concessione mercantile.
Nonostante lo scarso riscontro ottenuto, gli Hatfield & the North ci riprovano e all’inizio del
1975 registrano i nastri del secondo The rotter’s club, pubblicato in marzo. Alla lavorazione
partecipa una bella serie di ospiti impegnati ai fiati, come Jimmy Hastings (Caravan, Soft
Machine), ‘Mont’ Campbell (Egg), Lindsay Cooper e Tim Hodgkinson (Henry Cow), e il
risultato appare ugualmente ispirato e raffinato, forse con un pizzico di concretezza in più.
Belle e limpide composizioni quali Share it e Didn’t matter anyway possono lasciar intendere la
ricerca di un maggior seguito di pubblico, e non è uno scandalo. Ma poi troviamo le
complicate configurazioni ritmiche di The yes no interlude, l’ennesima elaborazione a forma di
suite ad opera di Stewart (Mumps), e la teoria non regge.
Il gruppo non riesce a suscitare interesse nel pubblico inglese e scivola tristemente verso lo
scioglimento, poco dopo aver partecipato al concerto di chiusura del Rainbow Theatre (marzo
1975). Stewart e Miller tentano ancora formando i National Health, che si avvalgono della
stessa filosofia musicale (interessanti i dischi del ’78, National Health e Of queues and cures) e
soffrono ugualmente della mancanza di successo.
- 34 Ma che fine hanno fatto i tre Soft Machine originali, Kevin Ayers, Daevid Allen e
Robert Wyatt ?
Kevin Ayers abbandona i Soft Machine nel 1968, al termine di una lunga serie di concerti
come supporto alla Jimi Hendrix Experience che mette a dura prova la sua resistenza
psicofisica. Torna sulla scena verso la fine del ’69, con la pubblicazione per la Harvest di Joy
of a toy, buon album dallo stile in apparenza scanzonato e leggero che, in verità, nasconde
insidie d’ogni tipo in brani quali Stop this train again doing it, Town feeling, Song for insane
times, Lady Rachel, Oleh oleh bander bandong. Al disco, prodotto da Peter Jenner,
partecipano i Soft Machine al completo (Wyatt, Ratledge, Hopper), il compositore /
arrangiatore / tastierista David Bedford e il batterista Rob Tait (Battered Ornaments e
Piblokto).
KEVIN AYERS AND THE WHOLE WORLD
-
SHOOTING AT THE MOON
(Harvest - 1970)
Ayers matura l’idea di una formazione fissa ed allestisce il Whole World, eterogenea unione
comprendente Bedford, il giovane e promettente chitarrista Mike Oldfield (ancora lontano
dai fasti delle ‘campane tubolari’) e il batterista Mick Fincher.
A completamento del gruppo il sassofonista Lol Coxhill, personaggio sempre rimasto ai
margini della notorietà, capace di passare con disinvoltura dal rhythm & blues al free jazz e a
tutto ciò che può stare in mezzo. Nella sua carriera suona con Alexis Korner, nel 1969 appare
con i Delivery e ancora vaga senza una meta precisa, passando da Robert Wyatt a Hugh
Hopper, da Mike Oldfield a Mike Westbrook, esibendosi da solo ovunque possibile. Il suo Ear
of beholder (2 LP Dandelion-1971) merita un ascolto, con la dovuta attenzione.
Shooting at the moon è il saporito frutto della collaborazione con il Whole World ; stimolato
dall’intraprendenza dei compagni, Ayers s’impegna nella realizzazione di un insieme a nuclei
contrapposti, dove cialtroneria e sperimentazione s’affrontano mantenendo peso ed identità
ben distinti. Siamo lontani dalla scienza ‘patafisica’ di Wyatt e dalla pietra filosofale della
‘musica totale’ ; qui si bada ad accostare le sostanze senza generare incontrollate
trasformazioni della materia, puntando piuttosto sul contrasto timbrico tra i suoni.
L’apertura è riservata a May I, perfetto prototipo di ballata indolente in ossequio del
carattere pigro dell’autore ; Rheinhardt and Geraldine azzecca un piacevole giro armonico
(sottolineato dal sax di Coxhill), che s’infrange in un furioso zapping radiofonico (Cage ?) per
lasciare posto alla concreta Colores para dolores.
Lunatics lament fa il verso all’hard freak informale di Daevid Allen, in antitesi con la
sperimentazione di Pisser dans un violon, dove s’avverte lo zampino di Bedford. Le divertenti
The oyster and the flying fish e Clarence in wonderland scelgono la trama della filastrocca di
poco senso, spezzate dal frammento allucinato di Underwater. Coxhill si conferma in gran
forma nell’ottima melodia di Red green and you blue e nell’acida iterazione conclusiva di
Shooting at the moon.
La strana congrega del Whole World si dimostra priva di unità, impossibilitata a durare nel
tempo, e dopo diversi rimaneggiamenti la sigla viene accantonata ancor prima della
pubblicazione del terzo LP Whatevershebringswesing (1972), nel quale Ayers è accompagnato
dall’ennesimo lussuoso cast di musicisti (ancora Bedford, Oldfield e Wyatt, Didier Malherbe
dei Gong, i batteristi Tony Carr e William Murray, tra gli altri). Il disco segna l’approdo a
climi più rilassati, con qualche sussulto distribuito nell’iniziale There is loving / Among us,
dotata di un interessante arrangiamento approntato da Bedford, nella deragliante
allucinazione di Song from the bottom of a well, nel rock’n’roll di Stranger in blue suede shoes,
che scherza con Lou Reed e i Velvet Underground.
E’ la fine del periodo migliore dell’artista, che in ogni modo mantiene una buona popolarità
almeno fino al 1974, grazie ad altri due album (Bananamour, Harvest-1973 e The confessions
of Dr. Dream, Island-1974) e al celebre concerto del primo giugno al Rainbow Theatre di
Londra, del quale è ideatore e tra i principali animatori. Con lui salgono sul palco personaggi
della statura artistica di John Cale, Nico, Brian Eno, Robert Wyatt, musicisti del calibro di
Mike Oldfield, Ollie Halsall, "Rabbit" e Ayers tiene per sé l’intera seconda facciata del disco
registrato a ricordo dell’evento (June 1, 1974, Island-1974).
I lavori successivi sono indubbiamente meno brillanti e la sua stella declina rapidamente,
nonostante l’appoggio ricevuto (in tempi diversi) da strumentisti di prim’ordine quali Ollie
Halsall, Zoot Money, Tony Newman, Andy Summers, Rob Townsend, Charlie McCracken.
Daevid Allen, australiano, musicista di professione e freak per vocazione, giunge in
Inghilterra all’inizio dei Sessanta e nel ’66 finisce nella formazione originale dei Soft Machine.
Con il gruppo di Robert Wyatt rimane fino al settembre 1967, quando è costretto a rinunciare
per via del mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Assieme alla compagna Gilli Smyth
non gli resta che trasferirsi in Francia, dove suona con musicisti del posto, conosce Didier
Malherbe (con il quale nel 1970 fonderà i Gong), partecipa al festival rock di Amougies (dove
si esibiscono anche i Soft Machine) e pubblica due album come solista, Magick brother, mystic
sister (Byg-1970) e l’ottimo Banana moon (Byg), pubblicato nel 1971.
Banana moon, che vede la partecipazione di un nutrito gruppo di musicisti tra cui Robert
Wyatt, Pip Pyle e l’organista Gary Wright, è un esemplare compendio di stranezze freak con
un ampio ventaglio di soluzioni sonore a disposizione. Time of your life si colloca a metà strada
tra Hendrix e i Beatles, Memories (cantata da Wyatt) è una bella, romantica ballata ripescata
dalle prime sessions dei Soft Machine, White neck blues è una ‘zapperia’ di buona fattura, con
tanto di coretti stupidi e coda finale.
Ancora suoni duri in Stoned innocent Frankenstein, che regge le briglie dell’hard più estroso
ed estroverso, mentre la prosecuzione & his adventures in the land of flip si lascia andare ad
un lungo delirio free form, specchio della bizzarria di questa musica che in embrione anticipa
alcuni aspetti dell’opera dei Gong.
Contemporanea è la creazione dei Gong che, oltre Allen, la Smyth e Malherbe, comprendono
il bassista Christian Tritsch e il batterista Pip Pyle ; quest’organico esordisce nel 1971 con
Continental circus (Philips-1971), colonna sonora per un documentario sul motociclismo, ed
entro l’estate dello stesso anno ultima le registrazioni di Camembert electrique (Byg), album di
notevole importanza che prosegue il discorso iniziato dai dischi solistici di Allen ed introduce
alle fantastiche storie spaziali del pianeta Gong. Proprio su Camembert electrique è possibile
ascoltare per la prima volta le vocine degli abitanti di Gong (direttamente dalle frequenze di
Radio Gnome), entrare in contatto con gli orizzonti spaziali di Tropical fish : Selene e
dell’ottima Fohat digs holes in space. You can’t kill me è un hard fantasioso con un duro riff di
chitarra, il petulante sassofono di Malherbe e i vocalizzi erotico - spaziali della Smyth ;
Dynamite : I am your animal possiede un’andatura anfetaminica e gira senza soluzione attorno
ad un ipotetico centro di gravità.
GONG
-
RADIO GNOME INVISIBLE Part 1 : FLYING TEAPOT
(Virgin - 1973)
Il 22 giugno 1971 Allen torna in Inghilterra, per esibirsi con i Gong alla festa alternativa del
Glastonbury Fayre Festival (il gruppo è presente sul triplo LP che commemora l’evento). In
seguito l’artista decide di sciogliere temporaneamente il complesso, per dedicarsi alla messa a
punto della fantasiosa e strampalata trama di Radio Gnome, una sorta di radio pirata che
effettua le trasmissioni a bordo di una teiera volante proveniente dal pianeta Gong. Verso la
fine del ’72 giunge l’ora di riassettare la formazione, per dare riscontro discografico alla
storia di Radio Gnome ; l’organico prevede la presenza, oltre alla vecchia guardia (Allen, la
Smyth e Malherbe), del chitarrista Steve Hillage (reduce dai Khan), del bassista Francis Moze
(ex Magma, subentrato a Tritsch che comunque suona ancora in alcune parti di Flying
teapot), di Tim Blake e del batterista Laurie Allan (al posto di Pip Pyle).
All’inizio del ’73 Flying teapot costituisce la prima parte della prevista trilogia di Radio
Gnome e già l’introduttiva Radio Gnome invisible offre una sintesi con i classici ingredienti del
maturo suono Gong, un mix di ‘stupid music’, scatti jazz, soavi linee dall’intenso sapore
orientale, sibili elettronici dall’iperspazio, gorgheggi sospesi a mezza via tra echi spaziali e
sogni erotici. La Flying teapot giunge dallo spazio elettronico, lucido e rilassato, di Blake (ben
distante dagli scenari sperimentali approntati dai Pink Floyd), navigando alla velocità di un
brioso jazz rock.
La proposta appare originale e divertente, passando dall’accattivante canzoncina di The pot
head pixies alla distesa elettronica di The octave doctors & the crystal machine, dallo sciolto
dinamismo strumentale di Zero the hero and the witch’s spell alla bizzarra interpretazione
della conclusiva Witch’s song - I am your pussy.
Di livello ugualmente elevato è il secondo capitolo Angel’s egg, registrato nell’agosto del 1973
con una nuova sezione ritmica composta dal bassista Mike Howlett, dal batterista Pierre
Moerlen e dalla percussionista Mireille Bauer. Nell’esigenza di continuità con il lavoro
precedente, la musica non subisce modifiche di rilievo, confermandosi godibile nella
tranquilla cantilena di Selene, nello space rock di Other side of the sky, nello spigliato jazz
rock di Oily way e di I niver glid before e un po’ ovunque. Memorabile Prostitute poem, dotata
di un passo di valzer tinto d’oriente, con una curiosa interpretazione sexy della Smyth.
Allo stesso periodo risalgono alcune registrazioni dal vivo che vengono inserite nel doppio Live
at Dingwall’s Dance Hall (Greasy Truckers-1973) ; nella facciata dedicata ai Gong trovano
posto la valida General flash of the united hallucinations, registrata in giugno al Festival di
Tabarka (Tunisia) e una frammentaria Part 32 floating anarchy, dal vivo a Sheffield (ottobre
’73).
Nell’estate 1974 lo stesso organico provvede alle incisioni che compongono l’ultima parte della
trilogia di Radio Gnome, raccolte su You (Virgin-1974). Il gioco comincia a farsi prolisso, pur
essendo un discreto album You non possiede la spontaneità e l’originalità dei capitoli
precedenti, suona un poco noioso e anche i passaggi strumentali di maggior impatto (The isle
of everywhere, Master builder) appaiono risapute copie del glorioso passato. La pubblicazione
di You anticipa quella che, nel 1975, è per i Gong una vera e propria rivoluzione ; il fondatore
Allen e la Smyth abbandonano il gruppo (continuano insieme con diverse sigle fino agli anni
Ottanta, quando si separano anche affettivamente), seguiti a breve distanza da Steve Hillage,
proteso verso un’intensa carriera solistica.
Gli ultimi due dischi degni di nota sono il discreto Shamal (Virgin-1975), prodotto da Nick
Mason dei Pink Floyd e con un contributo di Steve Hillage che suona in due brani, e Gazeuse !
(Virgin-1976), con Allan Holdsworth (ch. - ex Nucleus e Tempest). La musica si trasforma
(anche dal vivo) in un jazz rock piuttosto convenzionale, eseguito con buone cognizioni
tecniche ma privo della fantasia e della personalità trascorse. Oramai i Gong si confondono
tra le numerose formazioni del genere e la pubblicazione del doppio retrospettivo Gong live
etc. (Virgin-1977), che raccoglie tracce dal vivo e registrazioni per la BBC datate tra il ’73 e il
’75, non può fare a meno di suonare ad epitaffio di una concezione musicale tramontata per
sempre. Il resto si può dimenticare.
Abbiamo lasciato Robert Wyatt al tempo in cui abbandona i Soft Machine (fine estate ’71),
in totale disaccordo con le scelte artistiche intraprese dal gruppo. Già l’anno precedente il
batterista pubblica un album come solista, The end of an ear, che si dimostra coraggioso
tentativo di portare alle estreme conseguenze le intuizioni dei primi due lavori dei Soft
Machine. Senza preoccupazioni di carattere commerciale, in totale libertà espressiva, Wyatt
travolge Gil Evans nelle due tracce di Las Vegas tango - part 1, sfigura il jazz con uno
sfacciato, infantile, provocatorio approccio free, aiutato da un manipolo di prodi strumentisti,
tra i quali i fiatisti Elton Dean, Mark Charig e l’organista David Sinclair ; nella melodia
funestata di To Carla, Marsha and Caroline si possono percepire anticipazioni del progetto
Matching Mole.
Wyatt non perde tempo e prepara (sin dal nome scelto per la nuova formazione) una
personale, ironica, clamorosa rivincita sul vecchio gruppo. A dargli man forte sono il solito
David Sinclair (che rinuncia momentaneamente ai Caravan), il chitarrista Phil Miller (ex
Delivery) e il bassista Bill MacCormick (proveniente dai Quiet Sun di Phil Manzanera).
MATCHING MOLE
-
MATCHING MOLE
(CBS - 1972)
Il primo album omonimo, che vede la partecipazione di Dave McRae al piano, viene registrato
tra il dicembre ’71 e il gennaio ’72 e appare opera di eccellente qualità, poetica e raffinata
fusione tra rock, jazz e melodia pop. La parte iniziale del disco è trasognata e melodica ; la
voce di Wyatt colpisce per la profonda umanità del tono nella ballata pianistica di O Caroline,
le tastiere di Sinclair e dello stesso Wyatt forniscono una base armonica di gran fascino.
Instant pussy introduce batteria e chitarra, in un’eterea sospensione solcata dai vocalizzi del
leader, mentre la magnifica Signed curtain (solo piano e voce) segna il ritorno all’essenza
originaria del concetto di canzone, sin dal realismo minimale e geniale delle liriche.
La magia è infranta dagli echi psichedelici della complessa Part of the dance, che ricava spunti
dal jazz elettrico per un viaggio negli anfratti del ritmo e dell’armonia, con l’irrequieta
chitarra di Miller (autore del brano) impegnata a dialogare nervosamente con il magma
sonoro della ‘machine molle’. Instant kitten recupera la fluidità del miglior suono Caravan,
con accenti jazz più marcati ; avvincenti anche la dedica jazz rock (nella migliore accezione
del termine) a Hopper di Dedicated to Hugh, but you weren’t listening, e il contorto
impressionismo di Beer as in braindeer.
Il siderale, agghiacciante romanticismo fornito dal mellotron di Wyatt (Immediate curtain)
pare quasi voler trascinare lontano i ricordi meravigliosi di un tempo irripetibile.
Nell’estate del 1972 Matching Mole ci riprova ; non c’è più David Sinclair, impegnato
nell’atto costitutivo di Hatfield & the North, sostituito dal piano insistente e raffinato di Dave
McRae, e nel nuovo Little red record (prodotto da Robert Fripp) si registra la partecipazione
di Brian Eno ai sintetizzatori, presente sui brani Gloria Gloom e Flora fidgit. Anche se di
qualità elevatissima, Little red record non raggiunge nell’insieme il valore dell’album
precedente, scontando una pratica rivolta a soluzioni in genere più complicate e di non facile
fruibilità. E’ confermato l’originalissimo jazz rock, portato a livelli assoluti di affidabilità
strumentale e di organizzazione armonica su Marchides e sui brani che seguono nel primo lato
del disco. Restano la monumentale Gloria Gloom, la bellissima melodia cantata col consueto
trasporto da Wyatt e gli echi allarmanti dei sintetizzatori di Eno, resta la limpida trasparenza
della melodica God song e ancora il raffinato cromatismo timbrico di Smoke signal. Non è
poco, ma per i Matching Mole l’avventura si avvia rapidamente alla conclusione : Wyatt
pensa ad una nuova edizione del complesso con Miller, Gary Windo e Francis Monkman (dei
Curved Air), ma l’idea naufraga ben presto e Miller preferisce raggiungere Sinclair nei
neonati Hatfield & the North.
ROBERT WYATT
-
ROCK BOTTOM
(Virgin - 1974)
Chissà quali progetti passano per la mente di Robert Wyatt, dopo l’esperienza dei Matching
Mole. Purtroppo, nell’estate del 1973, il musicista è vittima di un grave incidente, cadendo da
un balcone e rimanendo paralizzato alle gambe ; il rock inglese perde così uno dei più validi
batteristi ma per fortuna Wyatt riesce a reagire alla sventura. I Pink Floyd tengono un
concerto il cui ricavato è devoluto al musicista e Nick Mason si presta alla produzione del
lavoro solistico che, a metà del ’74 dopo sei lunghi mesi di ospedale, segna il ritorno sulle scene
di Wyatt, il magnifico Rock bottom.
Con Wyatt sono un folto numero di amici, strumentisti di vaglia, da Richard Sinclair a Hugh
Hopper, dall’ormai celebre Mike Oldfield a Fred Frith (Henry Cow) e Laurie Allan (Gong),
fino ai fiatisti Gary Windo e Mongezi Feza, sfortunato trombettista sudafricano morto l’anno
successivo a causa di una polmonite colpevolmente (come sostiene lo stesso Wyatt) non curata
in tempo nell’ospedale dov’era ricoverato.
Gran parte del materiale utilizzato per Rock bottom risale a prima dell’incidente e Wyatt
rivede gli arrangiamenti puntando sull’impatto emotivo, su una musica passionale e
seducente. Il suono appare distante dalle esperienze con i Soft Machine, con i Matching Mole,
dal The end of an ear d’inizio decennio. Le tastiere e la voce di Wyatt sono alla base della
dolce e commovente Sea song, A last straw (con Hopper e Allan) muove con discrezione il
ritmo che s’intensifica nella coinvolgente Little red riding hood hit the road, dove fondamentale
risulta il contributo di Mongezi Feza (di notevole effetto le trombe sovrapposte nel finale). In
Alifib Wyatt dialoga col vecchio compagno Hopper (ottimo l’apporto solistico del basso), in
Alife si confronta con i gorgheggi free dei fiati di Windo. Little red Robin Hood hit the road,
con la lirica chitarra di Oldfield e la glaciale viola di Frith, chiude degnamente un lavoro di
struggente bellezza. Nulla della folta e qualitativa discografia successiva del musicista
raggiungerà risultati simili.
L’impatto sul mercato di Rock bottom è sorprendentemente buono e Wyatt consolida il
momento positivo con il singolo di I’m a believer, cover di una canzone di Neil Diamond
portata al successo dai Monkees. Sempre nel 1974 il musicista partecipa al concerto del primo
giugno con Ayers, Cale e compagnia bella, e in settembre organizza in proprio un’esibizione
al Drury Lane Theatre con l’intervento di Nick Mason, Fred Frith, Mike Oldfield, Hugh
Hopper, Dave Stewart e Julie Tippett.
Verso la metà del 1975 Wyatt pubblica il buon Ruth is stranger than Richard, che annovera il
solito straordinario nucleo di collaboratori ; il disco soffre oltremodo dell’ingeneroso
paragone con Rock bottom, muovendosi in realtà su territori ben diversi. Valide appaiono la
versione della Song for Che di Charlie Haden e la lirica struttura di 5 black notes and 1 white
note, arricchita dai sassofoni di Nisar Ahmad ‘George’ Khan (Battered Ornaments, Mike
Westbrook Brass Band), oltre alle varie parti della melodica Muddy mouse, scritta ed
interpretata assieme a Fred Frith.
Le apparizioni dal vivo si fanno sporadiche (qualche esibizione con i compagni degli Henry
Cow), ma la carriera di Robert Wyatt prosegue fino ai nostri giorni con risultati artistici più
che dignitosi.
Il buio ai margini della città - 1
eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea
Si potrebbe titolare, alla ricerca del suono perduto.
Una panoramica, veloce ma obbligatoria, sui gruppi minori (talvolta minimi) della musica
progressiva inglese, personaggi della cui esistenza le giovani generazioni non sanno, neppure
per sentito dire, e sigle che nemmeno all’epoca furono in grado di muovere le classifiche di
vendita. Accanto a complessi e musicisti di notevole popolarità, e spesso di grandi guadagni
(non sempre giustificati dalla qualità della musica proposta), è giusto e doveroso collocare,
con pari dignità e onori, nomi familiari solo agli appassionati incalliti, che meritano una
sistemazione più equa nella trattazione storica della musica rock per i propri (a volte
sorprendenti) meriti musicali.
Molti di questi gruppi hanno trovato spazio nelle pagine precedenti, a diretto confronto con
illustri e fortunati esponenti del rock inglese ; tanti altri, la cui opera contribuisce ad
accrescere e dare sostanza a tutto il movimento rock di un’epoca, sono citati qui. Le loro
illusioni e le delusioni, i dischi invenduti senza possibilità di replica, le promozioni inesistenti, i
concerti mal pagati, la musica provata per il piacere e la passione, senza compromessi.
Anonimi musicisti, gruppi durati pochi mesi, a volte giorni, stritolati insieme alle loro
aspettative da un’industria discografica illusoria e persecutrice. Le chitarre e le batterie per lo
più abbandonate, per diventare impiegati, operai, avvocati, disoccupati e chissà cos’altro,
lontano mille miglia dal mito e dal successo ; molti, purtroppo, non sono più tra noi,
scomparsi senza lasciare traccia nel ‘normale’ senso della vita. Ma (per quanto esile) resta un
filo da seguire, la loro musica che vive ancora, che si può ascoltare grazie alla perversione di
un music business che ciclicamente si adatta a riscoprire qualsiasi avvenimento del passato,
che merita di essere ascoltata e amata almeno quanto quella dei fratelli favoriti dalla buona
sorte.
Far finta di nulla, evitare di attribuire a questa gente il dovuto riconoscimento sarebbe un
errore imperdonabile. Per non dimenticare.
- 35 Tra i maggiori agitatori del panorama underground inglese, Mick Farren fa gavetta
nei Mafia sin dal 1962 ; il passo decisivo lo compie nel ’66 quando forma la strana congrega
dei Social Deviants, un nucleo aperto del quale inizialmente fanno parte il chitarrista Sid
Bishop, il bassista Cord Rees e il batterista Russel Hunter.
DEVIANTS
-
PTOOFF !
(Underground Impresarios - 1967)
Abbreviato il nome in Deviants, il gruppo acquisisce un certo seguito esibendosi all’Ufo Club e
negli altri piccoli locali della Londra alternativa. Sorprendente è l’esito di vendite del primo
album Ptooff !, considerando che la distribuzione avviene esclusivamente attraverso le due
riviste storiche dell’underground inglese, International Times e Oz : il relativo ‘successo’ del
disco (circa 8.000 copie vendute) serve da stimolo alla Decca per la pubblicazione su più larga
scala.
Con certezza, si può affermare che il disco non risponde ai requisiti di ‘bello’, nel senso
tradizionale del termine. La musica appare aggressiva e trasandata, il suono è sporco e
selvaggio ma in compenso non manca il coraggio di gettarsi a testa bassa in ardite, anche se
spesso inconcludenti, elaborazioni psychoblues. Il blues rock tirato allo spasimo di I’m coming
home sfodera un impatto a mezza via tra Animals e Hendrix, puntando tutto sulla forza
d’urto, vista la non eccelsa levatura tecnica degli strumentisti. Siamo dalle parti di un rock
iterativo, infuocato, urlato, punk per antonomasia, qualcosa di simile alle deflagrazioni del
Detroit sound (Stooges, MC5), di quasi contemporanea evoluzione.
Child of the sky sorprende con una stanca melodia acustica dalle belle maniere, mentre
Charlie è un blues roccato a bassa cadenza. Il percussionismo sgangherato e l’atmosfera
allucinata della pazzesca Nothing man determinano un esito piuttosto evanescente ; meglio
Garbage che fa il verso allo Zappa dei primi passi, senza rinunciare ad un suono deciso, a Bo
Diddley e al rock blues di base, in netto contrasto con l’aggraziata Bun.
Deviation street è devastante nell’esplosivo intreccio che contempla Zappa, rumore ed effetti
speciali, hard rock ai massimi livelli di distorsione, Diddley, tracce di calypso, Hendrix e
Oriente, un’escursione viscerale nei meandri di un rock liberato da ogni remora formale.
E’ chiaro che una proposta simile può solo aspirare ai vertici della scena alternativa ed è ciò
che puntualmente accade, dal momento che per una breve stagione i Deviants sono il gruppo
freak per eccellenza, a Londra. La conferma, ad elevato livello, viene dai due album
successivi. Disposable (nel 1968, per la piccola etichetta Stable e con il bassista Duncan
Sanderson) appare tecnicamente più maturo, registrando l’intervento di numerosi musicisti
esterni. In particolare impressionano la lucida, tirata strumentazione di Somewhere to go, con
chitarra e organo (Tony Ferguson) in evidenza, e l’asciutta poesia di Jamies song (guidata
dalle belle chitarre di Bishop) e di Guaranteed to bleed (cantata da Sanderson). Buoni pure il
rock’n’roll trascinante di You’ve got to hold on, quello demenziale di Pappa-oo-mao-mao, il
discreto R & B di Fire in the city (che prevede la partecipazione dei tenori di Dick Heckstall
Smith e George Khan e della tromba di Pete Brown) e la spettrale invocazione conclusiva di
Last man.
Il terzo ed ultimo LP, The Deviants, risulta più ‘professionale’, per merito delle prestazioni del
nuovo chitarrista Paul Rudolph, con in scaletta una stupid song d’ispirazione zappiana (Billy
the monster), il blues ficcante di Rambling back transit blues, l’ottimo rock dinamico di
Metamorphosis exploration e persino un assolo di ‘batteria a voce’ (Black George does it with
his mouth).
La formazione dei Deviants del terzo album partecipa alle registrazioni del notevole Think
pink di Twink, poco prima dello scioglimento decretato nell’ottobre del ’69 a causa
dell’abbandono di Mick Farren, nel corso di un tour canadese.
Tornato a Londra, Farren si dedica alla realizzazione di Mona ; the carnivorous circus, suo
primo album come solista, nel quale è aiutato da musicisti del calibro di Twink, John
Gustafson (Quatermass e poi Roxy Music), Steve Took (Tyrannosaurus Rex) e Paul
Buckmaster. Il disco segna il ritorno ai ritmi basilari del rock’n’roll di Bo Diddley (Mona, con
il violoncello di Buckmaster) e di Eddie Cochran (Summertime blues, non lontana dalla
versione dei Who), spaziato da un pregevole rock dai toni tipicamente underground, libero
d’evolvere senza preoccupazioni d’ordine normativo (Carnivorous circus part 1 & 2) fino alla
romantica vertigine della struggente An epitaph can point the way. Contemporaneamente
Farren dà vita a Shagrat, nuova esperienza a nucleo aperto, dal quale però si defila
rapidamente : sarà Twink a stabilizzare la formazione e a dare prosecuzione all’avventura
assieme agli altri ex Deviants (Rudolph, Sanderson, Hunter), modificando nome in Pink
Fairies.
Da parte sua, Farren negli anni Settanta diviene un quotato giornalista musicale (per il New
Musical Express) ed effettua un paio d’effimere riunioni dei Deviants (la seconda, nell’84,
frutta la realizzazione di un disco dal vivo) ; come solista pubblica nel 1978 il discreto
Vampires stole my lunch money.
Il cantante Keith Hopkins, con alle spalle un’esperienza nei Teenbeats, e il bassista John
Wood si trovano insieme nei Four Plus One (un singolo nel gennaio 1965), prima di approdare
nell’agosto del ’65 in una formazione R & B, gli In Crowd. Il complesso pubblica That’s how
strong my love is, che si piazza dignitosamente nella classifica dei singoli, e subito dopo entra
in organico Steve Howe, proveniente dai Syndicats ; con il nuovo chitarrista, gli In Crowd
danno alle stampe altri due 45 giri, Stop wait a minute (settembre ’65) e Why must they criticise
(novembre ’65).
Un ulteriore avvicendamento (nel 1966) porta nel gruppo il batterista John Alder, già con
Dane Stephens & the Deep Beats e con i Fairies (tre singoli) ; così sistemati (Hopkins, Wood,
Howe e Alder) gli In Crowd registrano i nastri per un album che non sarà mai pubblicato e
nel marzo 1967 decidono di modificare sigla in Tomorrow.
TOMORROW
-
TOMORROW
(EMI - 1968)
Hopkins diventa West, Wood si fa chiamare Junior e Alder da questo momento si propone
come Twink, personaggio tra i più carismatici di tutto l’underground inglese. Dal vivo i
Tomorrow dispongono di un impatto scenico inconsueto per i tempi. In aprile si esibiscono al
14th Hour Technicolour Dream e il 28 dello stesso mese tengono una delle tante performance
all’Ufo Club, con l’ausilio di un bassista d’eccezione, Jimi Hendrix.
L’esordio discografico avviene nel maggio del ’67 con l’eccellente singolo di My white bicycle,
una stralunata canzoncina con chitarre imbevute d’Oriente che diventa un piccolo classico
della psichedelia inglese, proiettando i Tomorrow tra le formazioni più seguite del sottobosco
rock. Nel settembre dello stesso anno il gruppo si ripete ad alto livello con il nuovo 45 giri
Revolution, che suona più duro e serrato, con la chitarra wah-wah e un’originale
orchestrazione a completamento della traccia base.
Il terreno è pronto per la realizzazione di un lavoro sulla lunga distanza, che si materializza
all’inizio del 1968 con la pubblicazione dell’album omonimo. Il disco (che comprende anche i
due singoli già pubblicati) conferma i Tomorrow padroni di uno stile che paga un evidente
tributo ai Beatles, pur dimostrando una solida originalità strumentale e creativa. In brani
quali Colonel Brown, Shy boy, The incredible journey of Timothy Chase, Auntie Mary’s dress
shop, Now your time has come (che nella parte centrale include un lungo, originale esercizio
per chitarra solista), Hallucinations, il gruppo costruisce l’impianto della propria musica su
belle melodie di derivazione Lennon / McCartney, mettendo in evidenza un uso notevolmente
personale degli strumenti, in particolare di chitarra e batteria.
Non è casuale la presenza di Strawberry fields forever, resa in una bellissima versione che
acquista in peso strumentale, senza smarrire l’afflato lisergico dell’originale. Interessanti
pure la divertente Three jolly little dwarfs, con un buon lavoro ai tamburi di Twink, e Real life
permanent dream, che ricorda vagamente l’incedere degli Stones in odor di psichedelia.
Purtroppo i Tomorrow nell’aprile del ’68 cessano d’esistere, subito dopo aver interpretato
una canzoncina per bambini (A teenage opera), ideata dal produttore Mark Wirtz. Howe e
West progettano un gruppo con Ainsley Dunbar e Ron Wood, ma poi il chitarrista forma i
Bodast (e successivamente raggiunge la fama con gli Yes) mentre West si dedica ad una
timida carriera solistica per finire, nel 1975, con i Moonriders (un album, con John Weider).
Ma torniamo a Twink. Contemporanea alla creazione dei Tomorrow è la brevissima
esperienza con i Santa Barbara Machine Head, dove il batterista si trova a confronto con
musicisti del valore di Jon Lord, Ron Wood e Kim Gardner ; la formazione non riesce a
decollare e lascia a testimonianza tre sole canzoni incise. Nel 1968 (dopo lo scioglimento dei
Tomorrow) Twink entra a far parte dei Pretty Things, con i quali registra lo splendido S.F.
Sorrow, quindi viene in contatto con l’ambiente dei Deviants e nel novembre del ’69
contribuisce con Mick Farren alla fondazione degli Shagrat The Vagrant, nucleo dal quale
derivano i Pink Fairies.
TWINK
-
THINK PINK
(Polydor - 1970)
Con la pubblicazione di Think pink, Twink dimostra il proprio valore come compositore
elaborando, con l’aiuto dell’ultima formazione dei Deviants e con la produzione di Farren, un
affascinante rock free form venato da evidenti influssi orientali (con sitar e tabla), condito con
salsa lisergica. Se l’iniziale The coming of the other one (con un pizzico di confusione di
troppo) e il mantra di Dawn of majic si posizionano sul versante orientale, le improbabili
marcette baccanali di Mexican grass war e di Three little piggies danno ampia rassicurazione
dell’incurante atteggiamento dell’autore nei confronti del music business.
Discrete appaiono le divertite Rock’n’roll the joint e The sparrow is a sign, spaziata dalla
potente chitarra di Rudolph ; Fluid è un attimo di pura lisergia e Suicide apre lo sguardo su
sognanti sospensioni, allacciate alla tensione di implacabili chitarre acustiche. Ten thousand
words in a cardboard box è un esaltante rock dal passo sicuro, con l’affilata chitarra di
Rudolph impegnata su appassionanti tonalità medio - basse ; bellissima Tiptoe on the highest
hill, limpida e fresca ballata dalle sembianze floydiane, ancora con la sei corde in grado di
alzare il tiro.
Il nucleo aperto degli Shagrat The Vagrant si dimostra estremamente instabile e
inconcludente. In tempi diversi vi prendono parte, tra gli altri, Steve Took (dei
Tyrannosaurus Rex), Larry Wallis (Entire Sioux Nation) e Dave Bidwell (Chicken Shack).
Quando gli Shagrat tengono il loro unico concerto, nel 1970, Farren e Twink sono già partiti
per altri lidi ; il batterista si unisce ai tre membri dell’ultima formazione dei Deviants
(presenti su Think pink) e forma i Pink Fairies, propendendo per un originale assetto che
prevede due percussionisti.
PINK FAIRIES
-
NEVERNEVERLAND
(Polydor - 1971)
Nella migliore tradizione underground il gruppo suona spesso gratis nei piccoli ritrovi
londinesi e si mette in luce partecipando, nell’agosto del ’70, ad un festival alternativo tenuto
fuori dei cancelli del festival di Wight. All’inizio del 1971 viene pubblicato Neverneverland,
disco che presenta un frequente alternarsi di pezzi durissimi e ariose ballate con tonalità
anche acustiche, la predominanza strumentale della chitarra di Rudolph e un corposo
sostegno ritmico. Do it è il manifesto programmatico dei Pink Fairies, un hard urlato e tirato
allo spasimo, vero e proprio pezzo forte delle esibizioni dal vivo, sorta di rituale liberatorio
caratterizzato dall’aggressiva chitarra di Rudolph che domina il rock’n’roll di base. Say you
love me poggia su un riff assassino che si ammorbidisce un poco nella parte lirica, non distante
dall’hard rock di un gruppo come i Mountain. Per contro, le ballate di Heavenly man (che
paga un tributo ai Pink Floyd più melodici), di War girl (segnata da un incedere latin - blues,
quasi sul modello del Peter Green di Albatross e dintorni), di Neverneverland (con una bella
chitarra hendrixiana) preferiscono climi pacati.
Molto coinvolgente è la sequenza della seconda facciata con Track one side two (dal titolo
particolarmente esplicito), quasi sconcertante nella sua linea placida e sommessa, spezzata
dalla grinta chitarristica di Thor ; Teenage rebel, introdotta da un inquietante rombo di
Rudolph, si sviluppa in un frenetico e divertente rock’n’roll per poi lasciare spazio alla
granitica Uncle Harry’s last freak out, che fa il paio con Do it per la devastante energia profusa
e per lo sfoggio di solide divagazioni alla chitarra, con Hendrix ben fissato in mente. La
chiusura delle ostilità è affidata alla breve e sognante The dream is just beginning.
Il 23 giugno del 1971 i Pink Fairies partecipano al Glastonbury Fayre Festival, mitica cinque
giorni che raduna il popolo dell’underground, oramai in fase di crisi d’identità e di avanzata
decadenza creativa. Eppure il triplo album che testimonia sull’avvenimento risulta fresco e
vitale, nell’epoca del decadimento barocco della musica rock ancora vi sono complessi che
urlano la propria rabbia, forse per l’ultima volta. E’ il caso dei Pink Fairies, che concedono ai
compilatori della Revelation due possenti esecuzioni delle classiche Do it e Uncle Harry’s last
freak out (in una versione lunga quasi venti minuti).
Si tratta dell’ultima apparizione di Twink con il gruppo ; l’errante musicista, all’inizio del
1972, tenta l’utopistica avventura degli Stars, con Syd Barrett e Jack Monk, destinata a fallire
subito dopo una disastrosa esibizione d’esordio. In seguito il batterista viene coinvolto nella
reunion dei Pink Fairies e, anche se defilato, si mantiene nei meandri di una sempre più
atrofizzata scena alternativa.
I Pink Fairies proseguono in formazione triangolare e nel 1972 pubblicano il buon What a
bunch of sweeties ; il forte rock chitarristico resta alla base della proposta, una sorta di hard
di qualità, meno scontato e ripetitivo rispetto ai canoni del genere ma pure lontano dagli
eccessi e dalle stonature entusiaste dei tempi migliori. Gli esempi più significativi sono le
grintose Right on fight on, Marilyn (sia pure con la presenza di un assolo di batteria un po’
troppo tirato per le lunghe), le ottime Portobello shuffle e Walk don’t run, che si aprono in
finali ricercati e melodici, senza voler dimenticare la valida versione proto punk di I saw her
standing there dei Beatles.
Il gruppo subisce l’importante defezione di Paul Rudolph, che collabora con Robert Calvert e
suona con gli Hawkwind ; il chitarrista è temporaneamente sostituito da Trevor Burton (dai
Move) e quindi da Mick Wayne (ex Junior’s Eyes), prima del definitivo ingresso in
formazione di Larry Wallis, già presente nel nucleo degli Shagrat. Così organizzati i Pink
Fairies realizzano l’ultimo Kings of oblivion (Polydor-1973) e resistono fino al marzo del ’74,
quando decidono di separarsi. Non è però una mossa definitiva ; nel luglio del ’75 il complesso
dà luogo ad un’attesa reunion che contempla la formazione originaria con Twink, rinforzata
dalla presenza di Wallis. L’occasione è quella di un concerto alla Roundhouse, registrato e
pubblicato su vinile solo nel 1982 dall’etichetta Big Beat.
Ancora qualche esibizione di Wallis, Sanderson e Hunter (negli ultimi momenti si aggrega
pure Martin Stone, altro esponente di spicco del sottobosco rock con i Mighty Baby), quindi il
definitivo addio all’inizio del 1977.
Nel panorama del rock alternativo più duro e sfrontato emerge il nome della Edgar
Broughton Band, attiva sin dal 1968 con i fratelli Edgar (ch.) e Steve (bt.) Broughton, con il
bassista Art Grant e il chitarrista Victor Unitt. Quando Unitt s’unisce ai Pretty Things per le
registrazioni dell’album Parachute, i tre rimasti realizzano a loro volta un primo progetto
discografico (Wasa wasa), pubblicato verso la metà del 1969.
EDGAR BROUGHTON BAND
-
WASA WASA
(Harvest - 1969)
Prodotto dal manager dei Pink Floyd, Peter Jenner, e accompagnato dalle note di copertina di
John Hopkins (fondatore di I.T., dell’Ufo Club e ideatore del 14th Hour Technicolour Dream le note citano il curioso episodio di un concerto del gruppo a Rieti dove, ingaggiati per le
manifestazioni del carnevale, riescono a suonare per dieci minuti, prima che il capo della
polizia decida brutalmente di porre fine all’insolita esibizione), Wasa wasa esprime un suono
privo di compromessi, duro, spietato, alternativo per eccellenza.
Death of an electric citizen (qualcuno sostiene che il brano è dedicato a Brian Jones) sputa il
blues sull’insegnamento del Captain Beefheart d’oltreoceano, con una musica rabbiosa che si
atteggia da subito ad ostinato rituale liberatorio per il corpo e la mente. Se American boy
soldier è una parodia dal gusto zappiano, Why can’t somebody love me si sviluppa su pochi
accordi, tesa e trascinante, essenziale e diretta come tutto il materiale del disco. Evil è focosa,
concisa, e ben s’intende che l’elettricità della chitarra deriva dal primo Hendrix.
Il tormento di Crying, il respiro pesante di Love in the rain e la desolazione di Dawn crept away
sigillano un lavoro forse troppo monocorde, ma che proprio nella proposta povera e
trasandata trova un fiero equilibrio d’intenti.
I soliti concerti gratis, l’energia profusa senza mezzi termini, l’approccio anarchico alla scena
musicale elevano in breve il gruppo fra i più accreditati ed immacolati alfieri
dell’underground inglese. Le registrazioni del secondo LP Sing brother sing (ancora prodotto
da Jenner) vengono effettuate tra il luglio del ’69 e il febbraio del ’70 agli studi di Abbey
Road. La musica diventa più complessa ed articolata, perde qualcosa in impatto fisico ma
regala momenti di notevole caratura ; la Edgar Broughton Band mette positivamente a frutto
ricercate tecniche di registrazione, come si può desumere dall’ascolto dell’iniziale There’s no
vibrations but wait ! e delle due mini suite The moth e soprattutto Psychopath, in bilico fra toni
drammatici, durezza espressiva e sogno meravigliato.
Non mancano brani che si collegano alle atmosfere energiche del disco precedente, come
Momma’s reward e Old Gopher, solo leggermente meglio rifiniti del solito. Ancora Beefheart
nella scansione funerea di Refugee, e l’inquietante incedere dell’obliqua It’s failing away a
nobilitare un lavoro non facile ma ricco di spunti interessanti.
Il 24 giugno del 1971 la Edgar Broughton Band chiude il festival di Glastonbury (e forse
un’epoca, un’intera concezione di fare musica), interpretando una lunga versione di Out
demons out, insistente rito collettivo che prende esempio dai Fugs di Tenderness junction.
Victor Unitt è tornato nel gruppo che, a questo punto, ha già speso le carte migliori ; i tempi
dei free festival stanno tramontando e i fratelli Broughton, coerenti con la propria
inattaccabile posizione di estremo rigore anti commerciale, scivolano lentamente
nell’anonimato, continuando a produrre album quantomeno decorosi quali Edgar Broughton
Band (Harvest-1971) e In side out (Harvest-1972).
Rispetto a Edgar Broughton Band e Pink Fairies gli Hawkwind possono vantare un piccolo
assaggio delle classifiche di vendita che contano, ai tempi del fortunato singolo di Silver
machine. L’episodio nulla toglie al sincero atteggiamento sotterraneo del quale il gruppo si è
sempre avvalso con gran coerenza.
Le origini del complesso risalgono alla fine degli anni Sessanta, quando i chitarristi Dave
Brock e Mick Slattery (entrambi dei Famous Cure) si uniscono al sassofonista Nik Turner
fondando il Group X ; con loro sono anche il bassista John Harrison, il batterista Terry Ollis
e Dik Mik, agli strumenti elettronici. Il nome del gruppo viene modificato in Hawkwind 200 e
definitivamente abbreviato, nel luglio ’69.
La formazione va in studio per le sessions del primo LP, con l'importante partecipazione del
fondatore dei Pretty Things, Dick Taylor, in qualità di chitarrista e produttore. Frutti del
lavoro svolto sono il 45 giri Hurry on sundown / Mirror of illusion e l’album Hawkwind
(Liberty-1970), che vede il gruppo impegnato nel tentativo di coniugare tematiche
fantascientifiche con un hard rock abbastanza scontato, generando risultati per la maggior
parte confusi e caotici. Accanto alla spigliata ballata dai tratti rock di Hurry on sundown
trovano spazio timide intuizioni space rock, collocate all’interno di lunghe ed ambiziose,
ancorché inconcludenti, composizioni (degna di nota Seeing it as you really are).
HAWKWIND
-
IN SEARCH OF SPACE
(United Artists - 1971)
Il caratteristico rock spaziale degli Hawkwind trova precisa e matura elaborazione su In
search of space, il loro miglior album di studio, che segna l’ingresso in organico di Del
Dettmar ai sintetizzatori e del bassista Dave Anderson, reduce dagli Amon Duul II di Phallus
Dei.
La lunga You shouldn’t do that (e anche la seguente You know you’re only dreaming) evolve in
ipnotiche spirali concentriche, sostenuta dal ritmo pulsante del basso di Anderson e collegata
idealmente ad analoghe esperienze di formazioni tedesche quali Amon Duul II e Can. Master
of the universe s’affida a decise scansioni hard, diventando (nonostante l’assenza di gran
fantasia) un piccolo classico del repertorio, importante per lo sviluppo futuro della musica
degli Hawkwind. Le buone ballate acustiche di We took the wrong step years ago e di Children
of the sun, inframmezzate dalla caotica psichedelia di Adjust me, completano un lavoro più
che dignitoso, anche se resta la sensazione complessiva di una tangibile confusione forse
determinata dall’impietoso missaggio dei suoni.
Dal vivo gli Hawkwind mettono in opera un ambizioso spettacolo, che contempla la presenza
della ballerina Stacia ; già nell’agosto del ’70 il gruppo prende parte al contro festival gratuito
dell’isola di Wight, quindi il 23 giugno del ’71 è presente nel programma del Glastonbury
Fayre Festival. Gli Hawkwind contribuiscono al triplo album della Revelation con una
versione di Silver machine, peraltro registrata qualche mese più tardi.
Con una rinnovata sezione ritmica proveniente dagli Opal Butterfly (Lemmy Willis al basso,
già con Sam Gopal’s Dream, e Simon King alla batteria) il gruppo incide Doremi fasol latido
(United Artists-1972), disco che indugia eccessivamente in soluzioni di hard space rock, con
brani in genere ben caratterizzati ma privi di novità, che tendono a ripetere gli aspetti
esteriori della musica in una sorta di saga senza inizio né fine, sconfinando nell’inevitabile
noia (l’ossessiva Brainstorm è uno dei pochi momenti da salvare).
Meglio guardare al successo di Silver machine, un potente hard & roll firmato dal cantante
Robert Calvert, nel frattempo entrato in formazione, e soffermarsi un attimo sul discreto
resoconto live di Space ritual, doppio LP ricavato da concerti tenuti a Londra e Liverpool, che
conferma l’hard spaziale del gruppo particolarmente adatto alle esibizioni dal vivo. Qui
termina il periodo migliore per gli Hawkwind che comunque insistono imperterriti ad
incidere dischi fino agli anni Ottanta, con la partecipazione più o meno continuata di musicisti
importanti quali Simon House (High Tide, Third Ear Band) e Paul Rudolph (Deviants, Pink
Fairies).
Un pensiero va speso per l’ottimo Captain Lockheed and the starfighters di Robert Calvert,
registrato tra il marzo del ’73 e il gennaio ’74 con l’intervento di una lunga lista di ospiti
comprendente Paul Rudolph, Brian Eno, Twink, Arthur Brown, Adrian Wagner e gli
Hawkwind al gran completo. Si tratta di un album concept ben congegnato, che musicalmente
si riallaccia non poco allo stile del gruppo madre, con un rock dai tratti hard, manipolato dai
sintetizzatori e dagli effetti elettronici di Eno (The right stuff, Ejection), oltre alle irrequiete
parti liriche di The song of the Gremlin e di Catch a falling starfighter (Twink alla ‘funeral
drum’). Calvert ci riprova l’anno successivo con il discreto Lucky leif and the longships
(United Artists-1975), prodotto da Eno e con il solito elenco di qualificati musicisti.
Il buio ai margini della città - 2
eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea
- 36 Ancora qualche tenue bagliore psichedelico a rischiarare il buio che nasconde
formazioni perse nella memoria degli ultimi anni Sessanta e nel riflusso creativo dei primi
Settanta. Come i Julian’s Treatment con il loro Time before this (Young Blood-1971), doppio
album concept composto ed arrangiato dal leader Julian J. Savarin, imperniato su un
accettabile space rock progressivo.
Come i discreti ma spesso sconclusionati Nirvana di Patrick Campbell-Lyons, produttore per
la Vertigo, scopritore dei Clear Blue Sky e sostenitore dei Jade Warrior (Local anaesthetic,
Vertigo-1971). E, qualche anno prima, come gli altrettanto confusionari Hapshash & the
Coloured Coat (Michael English, Nigel Waymouth e Guy Stevens gli ideatori), autori nel 1967
dell’album Featuring the human host and the heavy metal kids (Minit), forzato e pretenzioso
tentativo di mescolare psichedelia, oriente, ritmo tribale, nenie, rumori. Non si sa da dove si
parte e tanto meno dove si vuole arrivare ; rimane l’aspetto emotivo legato alla superficie del
suono, la sensazione di una musica strettamente riferita ad un preciso periodo temporale. Se
al primo LP partecipano i membri degli Art in qualità di sessionmen, sull’ultimo Western flier
(Liberty-1969, con uno stile orientato su un più tradizionale folk rock blues) è presente la
chitarra di Tony McPhee dei Groundhogs.
Il 1967 è anche l’anno dei validi Kaleidoscope (nessuna parentela con il gruppo USA di David
Lindley) e del loro Tangerine dream (Fontana-1967), bissato due anni dopo da Faintly blowing,
sempre per la Fontana. Il gruppo evolve poi in Fairfield Parlour, autori di un raffinato pop
psichedelico di non poche qualità nell’album From home to home (Vertigo-1970).
Soprattutto è l’anno dei sottovalutati, ma eccellenti, Blossom Toes che, dopo l’esordio con il 45
giri di What on earth, in novembre pubblicano il bellissimo We are ever so clean per l’etichetta
Marmalade di Giorgio Gomelsky. Brian Godding (ch.ts.v.), Jim Cregan (ch.v.), Brian Belshaw
(bs.) e Kevin Westlake (bt.) danno corpo ad una musica colorata, elaborata, ricca di spunti
interessanti, che raccoglie l’insegnamento del Sgt. Pepper dei Beatles senza rinunciare a
soluzioni estreme, vicine ai primi Pink Floyd. Solo che, mentre nel gruppo di Syd Barrett tutto
esplode in un verticale panorama di ripide costruzioni senza appigli, dai Blossom Toes viene
istituito un ricercato lavoro di montaggio orizzontale. Così le stupende melodie di base delle
varie Look at me I’m you, Telegram Tuesday, What on earth e delle altre composizioni sono
sottoposte a correzioni armoniche e ad arrangiamenti d’indubbia efficacia, e da belle e
limpide canzoni si trasformano in piccoli gioielli psichedelici.
Ancor meno conosciuti ed apprezzati sono gli Skip Bifferty, le cui origini vanno ricercate a
metà degli anni Sessanta, quando il tastierista Mickey Gallagher esordisce nella scena di
Newcastle suonando in un gruppetto chiamato significativamente Unknowns. Dopo un breve
stage negli Animals, in temporanea sostituzione del dimissionario Alan Price, Gallagher
forma i Chosen Few con il chitarrista Alan Hull, il bassista Alan Brown, il batterista Tommy
Jackman (anche lui ex Unknowns) e il cantante Rod Hood.
Il gruppo firma per la Pye e nel 1965 incide due singoli ; nell’estate del ’66 Brown e Hull sono
avvicendati da Colin Gibson (bs.) e da John Turnbull (ch.), entrambi provenienti dai
Primitives Sect (dove milita anche il tastierista Bob Sargeant, poi in Everyone, Junco Partners
e Mick Abrahams Band). Nel 1969 Hull guadagnerà notorietà e discreto successo come leader
dei Lindisfarne.
Verso la fine del ’66 entra nei Chosen Few anche il cantante Graham Bell, reduce
dall’esperienza dei Trend, e all’inizio dell’anno nuovo il gruppo cambia nome in Skip Bifferty.
La formazione tiene concerti in piccoli club ed inizia a comporre materiale originale, che
trova pubblicazione per la RCA su un singolo che comprende la grintosa On love e
l’altrettanto interessante Cover girl, con belle soluzioni vocali ed armoniche.
Il 45 giri gode di parecchi passaggi sulle radio pirata dell’epoca e permette al gruppo di
ottenere una piccola popolarità. Purtroppo il singolo successivo Happy land / Reason to live
appare decisamente meno brillante e nonostante i numerosi concerti, e un terzo singolo (con le
belle Man in black e Money man, prodotto nel luglio del ’68 da Steve Marriott e Ronnie Lane
degli Small Faces), gli Skip Bifferty non riescono ad affermarsi come meriterebbero.
Contemporanea è la pubblicazione di un album omonimo interamente registrato nel 1967,
dalla sofferta gestazione ma di ottima qualità, nel quale il complesso mostra minore coraggio
rispetto ai Blossom Toes, fermandosi ad un livello più superficiale nell’elaborazione del suono.
Questo non pregiudica affatto il valore del lavoro che si dimostra vario e piacevole, sostenuto
da belle armonie vocali e da buone prestazioni strumentali, in particolare delle tastiere di
Gallagher. Di rilievo sono la matura When she comes to stay (con una ficcante chitarra), la
tribale Guru, la delicata e sognante Orange lace, l’elaborata struttura di Clearway 51.
La totale mancanza d’interesse nei confronti del disco spinge il complesso ad una nuova
metamorfosi e, alla fine del 1968, gli Skip Bifferty cambiano nome in Heavy Jelly, incidendo
un singolo per la Island (I keep singing that some old song). Poi le forze si disperdono in mille
tentativi : Bell e Gibson formano i Griffin, dove suona anche il futuro batterista degli Yes,
Alan White. Quindi Bell entra a far parte degli Every Which Way di Brian Davison. Da parte
loro, Gallagher e Turnbull nel 1971 creano gli Arc (un album omonimo per la Decca) che in
seguito, con il ritorno di Graham Bell, diventano Bell & Arc (un altro album nel ’71 per la
Charisma). Ancora un disco come solista nel 1973 e di Bell si perde ogni traccia ; Turnbull
finisce nei Glencoe, Gallagher suona con Peter Frampton prima d’entrare a sua volta nei
Glencoe (entrambi saranno infine nella band di Ian Dury). Un cenno per Colin Gibson che,
dopo aver provato con alcuni anonimi gruppetti, collabora con i Mark-Almond di Rising e nel
luglio del ’73 va con gli Snafu, formazione che annovera altri reduci della scena minore quali
Bobby Harrison (Freedom) e Mick Moody (Juicy Lucy).
Altra discreta formazione della scena psichedelica underground, i July si formano nel 1968
su impulso del chitarrista Tony Duhig e del batterista Jon Field. I due fanno esperienze
parallele nei Second Thoughts, un complesso R & B del quale fa parte anche Patrick
Campbell-Lyons, e nei Tomcats ; con i July, Duhig e Field aderiscono al suono psichedelico
collocandosi, con la pubblicazione dell’album Dandelion seeds (1968), a breve distanza
stilistica da gruppi quali Blossom Toes, Tomorrow e Skip Bifferty. Le influenze sono
all’incirca le stesse, vale a dire i Beatles e i primi Pink Floyd, con chitarre dalle tonalità
ruvide, una buona varietà di arrangiamenti e una maggiore propensione verso l’Oriente.
Rock corposo e sfumature orientali sono alla base di belle composizioni quali My clown,
Dandelion seeds, The way ; altre canzoni (Jolly Mary, Move on sweet flower, To be free)
vengono sottoposte a trattamenti con acidi adeguati e brani come Crying is for writers e You
missed it all danno la misura dei risultati raggiunti, ma Duhig e Field passano oltre, già hanno
in mente il progetto Jade Warrior.
Su un piano sensibilmente inferiore vanno posti gli sconosciuti Apple e i più noti Idle Race.
Gli Apple, scoperti dal manager Larry Page (Kinks, Troggs), vivono una breve stagione nel
1968 pubblicando tre singoli e un album, An Apple a day... (Page One - febbraio 1969), prima
di scomparire dalla scena. La musica è un rhythm & blues grezzo e potente, colorato di
psichedelia (Let’s take a trip down the rhine, Doctor rock, Mr. Jones), piuttosto accattivante ma
certo non rivoluzionario in considerazione dell’epoca di produzione.
Gli Idle Race di Jeff Lynne pubblicano due discreti album di pop psichedelico, The birthday
party (Liberty-1968) e Idle Race (Liberty-1969), ricchi di brevi canzoni melodiche di chiaro
stampo beatlesiano (The end of the road, On with the show, The morning sunshine). Nel
novembre del ’70 Lynne accetta l’offerta da parte di Roy Wood di entrare nell’organico dei
Move : i restanti Idle Race, privi della principale fonte creativa, riescono ad incidere il terzo
Time is prima di sciogliersi nel 1971. Poi viene la Electric Light Orchestra, il gran successo e
un rock sinfonico edulcorato e commerciale.
Il buio ai margini della città - 3
eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea
- 37 La Bonzo Dog Doo/Dah Band va annoverata tra le più strane congreghe
dell’Inghilterra sotterranea degli anni Sessanta. La formazione, che in seguito accorcia la
sigla in Bonzo Dog Band, inizia a muovere i primi passi nella Londra del 1965 tenendo
esibizioni in locali come Roundhouse, Middle Earth, Pink Flamingo e, dopo la partecipazione
al carrozzone del Magical Mystery Tour dei Beatles, trova il modo d’incidere un primo long
playing per l’etichetta Liberty.
BONZO DOG DOO/DAH BAND
-
GORILLA
(Liberty - 1967)
Per associazione d'idee, il primo nome che viene in mente è quello delle Mothers Of Invention,
ma si tratta di un’impressione di comodo dovuta all’impatto disorientante della musica ; tanto
la stesura e il messaggio dello Zappa di Freak out ! e di Absolutely free sono crudi, geniali e
provocatori, quanto la proposta dei Bonzos appare bizzarra e legata alla cura esteriore del
suono, all’aspetto dei brevi episodi che compongono il disco. Pulite e spiritose canzoncine che
pagano dazio ai Beatles (The equestrian statue), che rincorrono datate ed improbabili
partiture jazz (Jazz, delicious hot, disgusting cold) frammiste ad accenni rhythm & blues e ad
un diffuso gusto per lo sberleffo, per la ‘stupid song’. Cosa dire del canto a cappella inserito
nella pazzesca I’m bored, dello swing divertito di Look out, there’s a monster coming, del
romantico pianoforte della conclusiva The sound of music, se non che l’effetto suscitato è
limitato ai due - tre minuti di transito delle singole tracce, facendo ben attenzione a non
valicare i confini delle buone maniere.
Nel 1968, con un organico ridotto (non ci sono più Spoons e Bohay-Nowell), la Bonzo Dog
Band registra il nuovo Doughnut in Granny’s greenhouse (Liberty) e in novembre ottiene
l’unico successo commerciale con il singolo I’m the urban spaceman, un brano di Innes
prodotto da Paul McCartney, successivamente incluso nell’album Tadpoles (Liberty-1969).
Il gruppo appare in difficoltà, anche se continua a tenere esibizioni fino al 1970 ; il breve
momento di popolarità è passato e non c’è più spazio per la musica levigata e umoristica dei
Bonzos. In ogni caso, Stanshall e Innes proseguono per la loro strada : il primo progetta
formazioni dai curiosi nomi quali Big Grunt, Gargantuam Chums, Sean Head Show Band,
per poi dedicarsi alla carriera solistica, l’altro nel 1970 è con i World (un album per la
Liberty, Lucky planet), quindi inizia la carriera come solista e forma i Grimms, con il
contributo di Ollie Halsall e Zoot Money (altri due LP nel 1973). Sempre Innes è responsabile
della creazione dei Rutles, ironica contraffazione dei Beatles che frutta un album per la
Warner Bros. nel 1978.
Poeta e musicista, esponente di spicco del movimento underground, Pete Brown acquisisce
notevole notorietà nella veste di paroliere per numerose canzoni di successo dei Cream (basti
pensare a classici come White room e Sunshine of your love), costituendo con Jack Bruce
un’affiatata coppia di compositori, capace di esprimersi ad alto livello in svariate
configurazioni stilistiche.
Nel 1968 Brown appronta una formazione con la quale esprimere direttamente le proprie
convinzioni creative. Coinvolti nel progetto sono l’ottimo chitarrista Chris Spedding ed altri
eccellenti strumentisti di scarsa notorietà quali Charlie Hart (or.), ‘George’ Khan (sax.),
Roger Potter (bs.), Pete Bailey (pr.) e Rob Tait (bt.). I Battered Ornaments esordiscono
registrando il valido A meal you can shake hands with in the dark, pubblicato nel 1969 dalla
Harvest ; Brown si dimostra cantante non particolarmente dotato ma capace d’imprimere
originalità all’asciutto timbro vocale, e la musica riflette alla perfezione la natura sotterranea
del complesso, basata su un ingenuo, povero quanto coinvolgente incrocio di rock, blues e
jazz. Accanto a brani lunghi e un po’ monocordi (la percussiva Sandcastle, il blues di
Travelling blues) si slancia il potente R & B di Dark lady, pungolato dal sassofono free di Nisar
Ahmad Khan, e brillano le bellissime The old man (con l’ondeggiante chitarra di Spedding) e
Station song, che coniuga folk informale ad echi d’Oriente.
I Battered Ornaments vivono un attimo d'effimera gloria quando, nel luglio del 1969,
partecipano al concerto in memoria di Brian Jones, organizzato dai Rolling Stones a Hyde
Park, ma già alla pubblicazione del secondo Mantle piece il gruppo in pratica non esiste più,
con Brown assorbito da nuove avventure. Con un pizzico di coraggio in meno (o forse di
consuetudine aggiunta) Mantle piece è comunque un 33 giri di notevole bellezza ; il rock pigro
di Sunshades e soprattutto le stupende, intense ballate di Then I must go (strepitosa la chitarra
di Spedding) e di The crosswords and the safety pins vanno oltre ogni precedente risultato.
Sono le ultime prodezze del complesso, perché Spedding si prepara al jazz rock dei Nucleus e
Brown fonda i Piblokto.
PETE BROWN & PIBLOKTO
-
THINGS MAY COME AND THINGS MAY GO
BUT...
THE ART SCHOOL DANCE GOES ON FOR EVER
(Harvest - 1970)
Una chitarra ai confini con l’hard apre la title track, dinamico ed incalzante brano che subito
sfoggia un suono meno scarno rispetto ai dischi dei Battered Ornaments. La musica appare
meglio curata e rifinita, elegante e moderna nella veste estetica per merito delle precise
tastiere di Thompson, di un apporto strumentale generalmente misurato e del migliorato stile
vocale di Brown (High flying electric bird, Someone like you). Il rock torna spedito e diretto in
I walk for charity, run for money, che riserva un imprevisto finale a tinte jazz con il sassofono
di Thompson ; la ripresa di Then I must go... non può raggiungere l’immacolata bellezza
dell’originale, ma si distingue per un arrangiamento aggressivo, mentre il recupero della
rilassata My love’s gone far away mostra un aspetto ricercato (entrambe le canzoni erano
presenti su Mantle piece).
La convincente ballata di Golden country kingdom, la lirica Firesong (con una citazione da
‘L’uccello di fuoco’ di Igor Stravinski), la soffice e jazzata Country morning suggellano
mirabilmente un lavoro di non facile assimilazione, che quasi tende a nascondere pudicamente
le virtù che gli appartengono.
I Piblokto fanno in tempo a realizzare un secondo LP, Thousands on a raft (Harvest-1970), e
Brown prosegue la sua integerrima carriera con sporadiche pubblicazioni, tra le quali va
segnalato l’album Two heads are better than one, ideato ed inciso insieme a Graham Bond.
Ospite fisso dell’Ufo Club nell’anno di grazia 1967, Arthur Brown è personaggio dal
carattere stravagante ed imprevedibile, capace per una breve stagione di imporsi
all’attenzione generale grazie ad una musica che mischia psichedelia, neoclassicismo, hard
rock, e ad esibizioni selvagge e fuori della norma. Il ricordo corre rapido al nucleo del Crazy
World, al quale partecipano l’organista Vincent Crane (suo braccio destro) e il giovanissimo
batterista Carl Palmer (destinato ai fasti commerciali di E.L.&P.), e al secondo 45 giri, quel
Fire che balza inatteso in testa alle classifiche, nell’estate del 1968. Il brano (un ossessivo R &
B arrangiato in modo originale, guidato dall’organo di Crane ed interpretato da un esplosivo
Brown, croce e delizia di un’intera carriera) è il fulcro delle performance dal vivo, spesso
sconcertanti (come al Palermo Pop Festival, dove il cantante si esibisce nudo, finisce arrestato
e rispedito in Inghilterra), e dell’album The Crazy World of Arthur Brown, prodotto da Kit
Lambert e Pete Townshend nel 1968.
L’effetto scatenato dall’ascolto dell’unico LP inciso dal Crazy World è notevole. Nella musica
di Brown non vi sono novità sconvolgenti, né trovano posto sperimentazioni di particolare
rilievo. Ciò che colpisce è l’aggressività, la secchezza del suono che s’atteggia ad embrionale
forma hard senza irrigidirsi in schemi forzati, priva com’è del supporto essenziale della
chitarra elettrica. Alcuni brani possiedono aspetti inquietanti (Nightmare, Time / Confusion)
che, di fatto, anticipano soluzioni dark, con la voce di Brown estremamente coinvolgente ;
l'ottima Come and buy contiene spunti che saranno preziosi agli Atomic Rooster di Vincent
Crane e buone sono le cover di I put a spell on you (Hawkins) e di I’ve got money (James
Brown).
Tutto si esaurisce molto rapidamente. Nel giugno del ’69 Crane e Palmer formano gli Atomic
Rooster e Brown, pochi mesi più tardi, risponde con la creazione dei Puddletown Express,
effimera formazione che annovera il batterista Drachen Theaker (già presente nella versione
d’esordio del Crazy World) e il sassofonista ‘George’ Khan, proveniente dai Battered
Ornaments. Più duratura la vita dei Kingdom Come, ennesima creatura che resiste dal
settembre 1970 al 1973 con la pubblicazione di tre album. Poi il nome di Arthur Brown finisce
nel dimenticatoio, ma è difficile non provare un sincero fremito d’emozione riascoltando Fire
e la sua inossidabile voce.
I Bystanders sono una band gallese composta da Mick Jones (ch.), Clive John (ch.ts.), Jeff
Jones (bt.) e Ray Williams (bs.), alla quale nel 1968 s’unisce il chitarrista Deke Leonard
(proveniente dai Dream). La formazione si trasforma in Man e nel marzo 1969 pubblica un
primo album, Revelation (Pye), che si rivela complessivamente discreto, con alcuni brani che
adottano soluzioni originali ed interessanti. Di rilievo il grintoso e conciso rock blues di
Sudden life, la bella linea melodica di Empty room (con chitarra e organo in evidenza), la
frenesia imprevedibile di Don’t just stand there (come in out of the rain), ma non tutto il
materiale si conferma a questi livelli. Certamente meno memorabile è Erotica, curiosa
esibizione strumentale maldestramente condita con sospiri e gridolini a luci rosse.
MAN
-
2 OZS OF PLASTIC (WITH A HOLE IN THE MIDDLE)
(Dawn - 1969)
In questa fase l’attività e la notorietà dei Man sono limitate alla scena underground, con
frequenti concerti in piccoli club e la produzione di una musica lontana da stereotipi
commerciali. 2 ozs of plastic... è la splendida conferma dello stile privo di compromessi dei
primi Man. Se Revelation mostra chiari i segni dell’inesperienza, perdendosi a più riprese
nell’ingenuità stilistica dell’esordio discografico, il nuovo album non cede di un millimetro sul
piano di un rock tirato ed essenziale.
Prelude - The storm propone scenari che si stagliano su un orizzonte cupo e minaccioso, per
poi aprirsi ad una distesa melodia dal sapore di California, mentre il coinvolgente rock blues
di It is as it must be indurisce i toni e le chitarre scaraventano furiose ondate di elettricità in
una struttura dall’assetto variabile. Spunk box rafforza la solidità del suono, facendo leva su
un riff di sicura presa e su un trattamento estremo di strumenti ed amplificazione. A tratti
s’avvertono echi di Led Zeppelin ma è solo una lontana impressione, fugata dall’originale
rock’n’roll di My name is Jesus Smith. Dopo la delicata psichedelia del clavicembalo di
Parchment and candles, il ritmo torna frenetico nella conclusiva Brother Arnold’s red and
white striped tent, dove chitarre e organo ricordano da vicino l’impeto della Allman Brothers
Band.
Con 2 ozs of plastic... termina la breve stagione dell’underground per i Man, che iniziano la
nuova decade incidendo il valido Man (Liberty-1971) ; nel frattempo è cambiata la sezione
ritmica (entrano il bassista Martin Ace e il batterista Terry Williams, entrambi ex Dream) e
nel 1972 Leonard lascia temporaneamente per andare con gli Help Yourself ed intraprendere
la carriera solistica.
Con i nuovi Phil Ryan (ts.), Will Youatt (bs.) (nel turbinio di variazioni d’organico Ace è già
partito, destinazione Help Yourself) i Man realizzano l’ottimo Be good to yourself at least once
a day (1972). Lo stile del complesso è notevolmente mutato a favore di un rock più levigato,
fortemente influenzato da inflessioni di matrice West Coast. Le quattro lunghe composizioni
dell’album risultano ben congegnate e vantano esecuzioni di prim’ordine sul piano della resa
strumentale. Nello stesso anno i Man partecipano ad iniziative live della Greasy Truckers e al
concerto del Christmas at the Patti.
Ancora cambiamenti d’organico (tra gli altri se ne va Youatt, che raggiunge i discreti
Neutrons - due LP all’attivo su United Artists, Black hole star nel ’74 e Tales from the blue
cocoons nel ’75 - e torna Deke Leonard), senza che i Man cessino di pubblicare dischi che non
raggiungono la qualità dei precedenti (da segnalare il doppio Back into the future, United
Artists-1973), pur rimanendo onesti e gradevoli, lontani da furbe tentazioni di classifica. Nel
1975 suona con loro perfino il grande John Cipollina (Quicksilver Messenger Service), per
l’album dal vivo Maximum darkness (United Artists-1975).
Formazione che presenta parecchie affinità di carattere stilistico con i Man, gli Help
Yourself nascono nel 1970 con un organico comprendente i chitarristi Malcolm Morley e
Richard Treece, il bassista Ken Whaley e il batterista Dave Charles. Così sistemato il gruppo
incide nel 1971 il primo LP omonimo, nel quale propone un rock ben eseguito, con chiare
influenze americane (country e West Coast) e la propensione ad un timido approccio
progressivo. Pare quasi che dietro gli strumenti di Your eyes are looking down e di Paper
leaves si celi Neil Young, e che tra le note di Old man respiri l’anima travagliata di David
Crosby ; ovviamente si tratta di un fenomeno d’illusione sonora. Per il resto, del buon rock
senza troppe pretese (Street songs) e le delicate melodie delle belle To Katherine they fell e
Deborah.
HELP YOURSELF
-
STRANGE AFFAIR
(Liberty - 1972)
Whaley abbandona per andare con i neonati Ducks Deluxe, dove ritrova Sean Tyla (per breve
tempo chitarrista nel nucleo embrionale di Help Yourself) ; al suo posto il bassista Paul
Burton e due nuovi chitarristi (che portano a quattro il numero totale delle sei corde
presenti). Di spicco la presenza di Ernie Graham, proveniente dagli Eire Apparent, una
discreta formazione che tra il ’68 e il ’69 gode di un breve momento di notorietà, grazie ai
numerosi concerti come spalla dell’Experience e all’interessamento di Jimi Hendrix, presente
nella doppia veste di musicista e produttore nel loro LP Sun rise (Buddah-1969).
Strange affair rappresenta un importante passo verso la produzione di una musica
creativamente autonoma, svincolata da scomodi paragoni stilistici, e nonostante la presenza di
così tante chitarre (che potrebbero indurre al pensiero di chissà quali sconquassi sonori) le
canzoni restano rilassate, capaci di emozionare senza la necessità di una forte spinta elettrica.
Accanto a brani rock scorrevoli e piacevoli quali Strange affair e Heaven road, trovano posto
le ottime ballate di Brown lady, di Many ways of meeting, di Movie star (con belle chitarre in
evidenza), oltre alla romantica e decadente Deanna call and Scotty.
The all electric fur trapper resta il progetto più ambizioso, teso a spaziare gli orizzonti creativi
di Help Yourself verso soluzioni strumentali complesse, che confermano la maturità raggiunta
dal gruppo.
Per il successivo LP Beware of the shadow (United Artists-1972) il complesso, persi i chitarristi
Glemser e Graham, torna a quartetto : così partecipa alla festa del Natale ’72 al Patti
Pavillion di Swansea, raccolta su Christmas at the Patti (United Artists-1972). Gli Help
Yourself hanno la forza di registrare un quarto album, curiosamente suddiviso in due parti
distinte : un LP intitolato Return of Ken Whaley (dove si celebra il ritorno dell’originario
bassista), e uno chiamato Happy days (con un organico allargato ad altri musicisti del giro pub
rock).
In seguito allo scioglimento del gruppo, Whaley entra nei Man (1974) e, dal maggio 1978,
nella Tyla Gang di Sean Tyla, mentre Dave Charles continua con gli Airwaves.
Sostenitori di un rock muscoloso venato di psichedelia, gli Andromeda del chitarrista John
DuCann legano il proprio nome ad un solo album (Andromeda), registrato nel giugno del 1969
e pubblicato dalla RCA.
La carriera di DuCann inizia negli Attak, formazione che vede la presenza dell’altro
chitarrista David O’List (destinato ai Nice), quindi partecipa ai Five Day Week Straw People,
complesso di matrice psichedelica dove incontra il bassista Mick Hawksworth (il gruppo
pubblica nel ’68 un album omonimo per l’etichetta Saga). DuCann e Hawksworth si uniscono
al batterista Ian Maclane e danno vita agli Andromeda ; il gruppo tenta di farsi un nome
effettuando numerose esibizioni nel circuito dei piccoli club e delle università, entrando nei
favori del noto D.J. John Peel. Peel propone a DuCann d’incidere un album per la sua
etichetta Dandelion, ma alla fine gli Andromeda firmano per la RCA. Il risultato è un disco di
discreta caratura, anche se non privo di qualche ingenuità, che propone un hard rock con lievi
accenni psichedelici e forti echi hendrixiani. Tra i brani, da segnalare la rocciosa The reason
(in bello stile Experience), le tirate When to stop, Turn to dust e l’estatica ballata di I can stop
the sun. Certo all’epoca c’è di meglio.
L’avventura dura poco perché nel 1970 DuCann accetta l’invito di Vincent Crane ad entrare
nei lanciati Atomic Rooster. Esaurita la parentesi con Crane, nel 1972 il chitarrista e il
batterista Paul Hammond formano gli Hard Stuff unendosi al bassista John Gustafson
(Quatermass).
Da parte sua, Hawksworth nel 1970 fonda i Fuzzy Duck, una discreta formazione di hard
progressivo comprendente il tastierista Roy Sharland, il chitarrista e cantante Grahame
White (poi sostituito dall’ex Greatest Show On Earth, Garth Watt Roy) e il batterista Paul
Francis (già con i Tucky Buzzard). Anche per loro un solo long playing, il buono e ignorato
Fuzzy Duck pubblicato nel 1971 dall’etichetta Mam.
Peter Dunton è batterista nell’ultima versione dei Gun, un complesso di hard rock
capitanato dai fratelli Adrian (ch.) e Paul (bs.) Gurvitz che incide un paio di album per la
CBS, sul finire degli anni Sessanta. In seguito allo scioglimento dei Gun, i fratelli Gurvitz
formano i Three Man Army (con il batterista Tony Newman - ex Jeff Beck e May Blitz) e
successivamente la Baker Gurvitz Army, con Ginger Baker.
Dunton, all’inizio del 1970, si unisce al chitarrista / tastierista Keith Cross e al bassista
Bernard Jinks (ex Bulldog Breed) in un gruppo chiamato T 2.
T 2
-
IT’LL ALL WORK OUT IN BOOMLAND
(Decca - 1970)
L’unico album, pubblicato dalla Decca, arriva quasi subito, a conferma di un marcato
interesse per il complesso. Le contrazioni che introducono In circles esplodono in vortici di
gran forza strumentale, in continue mutazioni ritmico - armoniche. Le parti vocali,
prevalentemente affidate a Dunton, non appaiono troppo originali, ma ciò che importa è
l’abilità dei musicisti nell’elaborare una musica che non permette divagazioni e rilassamenti,
che scorre senza pause e coinvolge intensamente. Persino la contenuta ballata di J.L.T.
mantiene la giusta tensione e No more white horses indurisce i toni, alternando possenti ondate
chitarristiche a frasi pacate e ad interessanti arrangiamenti ai fiati.
Gli oltre venti minuti di Morning rappresentano il culmine del loro lavoro, fantasiosa
escursione in un hard concept dagli spiccati umori underground, con arrangiamenti semplici
ed azzeccati. La sezione ritmica appare potente e malleabile, il diciassettenne Keith Cross si
dimostra musicista dotato e brillante, qualcuno trova il modo (ingiustificato) di definirlo come
‘nuovo Clapton’ e il gruppo si monta la testa. Apparizioni a TV e radio, concerti infuocati e
partecipazioni ad importanti rassegne tra cui, nell’agosto del ’70, quella dell’isola di Wight
non bastano a salvare il complesso da una rapida fine. Dei T 2 restano alcune notevoli tracce
di registrazioni in presa diretta per la BBC (l’incontenibile CD e le impressionanti sequenze
della chitarra di In circles), poco prima - ottobre ’70 - dell’abbandono di Cross, seguito a
ruota da Jinks.
Il chitarrista incide un album con Peter Ross, intitolato Bored civilians, e poi scompare dalla
circolazione. Dunton tenta di mantenere in vita il gruppo con nuovi musicisti e fino al 1972
tiene concerti e continua a sperare, ma i tempi stanno cambiando e il destino dei T 2 è
segnato, sin dal momento dell’abbandono di Cross. Una formazione interessante, distrutta
precocemente dalle troppe attenzioni e dalle eccessive pretese nei suoi confronti.
BLOSSOM TOES
-
IF ONLY FOR A MOMENT
(Marmalade - 1969)
In seguito alla pubblicazione di We are ever so clean i Blossom Toes si concedono una breve
pausa discografica, per poi tornare in studio con il nuovo batterista Barry Reeves ed incidere
un altro notevole ed ingiustamente sottovalutato album.
If only for a moment è un lavoro composto, arrangiato ed eseguito con maestria. La lucida
sovrapposizione di svariate matrici stilistiche (hard, psichedelia, pop melodico) crea un
insieme omogeneo e complesso al tempo stesso, senza abbandonare mai la strada maestra di
una gradevole esposizione strumentale. Il disco viene aperto dalle intelligenti sferzate hard di
Peace loving man ; le chitarre di Cregan e Godding si fanno dure e concrete, senza perdere le
peculiarità melodiche. Il primo lato è perfetto, con le ariose sequenze di Kiss of confusion, di
Listen to the silence (con una chitarra solista in odor di California) e di Love bomb, brani dalla
struttura articolata, capaci di stupire per la scelta d’imprevedibili soluzioni ricche di lirismo.
Il resto del lavoro, anche se d’elevata qualità, appare leggermente inferiore. Billy Boo the
gunman è un ironico brano dalle modalità ‘hard progressive’, belle risultano la ballata di
Indian summer e la conclusiva Wait a minute, che si riallaccia allo stile vario delle canzoni
della prima facciata. Un po’ sotto tono la cantilena di Just above my hobby horse’s head,
caratterizzata da qualche superficiale punteggiatura orientale.
Il rapido fallimento dell’etichetta discografica di Gomelsky porta con sé anche i Blossom
Toes, che si sciolgono tra l’indifferenza generale. Cregan ha modo di suonare la chitarra
solista negli Stud, una formazione triangolare che comprende la sezione ritmica dei disciolti
Taste, quindi entra come bassista nei Family per le registrazioni dell’ultimo LP It’s only a
movie, suona con i Cockney Rebels e diventa chitarrista di Rod Stewart.
Godding, Belshaw e il redivivo Westlake si uniscono al chitarrista Alan King (ex Mighty
Baby) e formano i B.B. Blunder (un album nel 1971). Successivamente Godding partecipa al
progetto Centipede di Keith Tippett, suona con i Solid Gold Cadillac, con i francesi Magma e
con i Mirage (che annoverano il sassofonista ‘George’ Khan e il batterista dei Ben, Dave
Sheen).
Reggie King (v.), Pete Watson (ch.), Alan King (ch.), Mike Evans (bs.) e Roger Powell (bt.)
sono i membri degli Action, una formazione che tra il 1965 e la metà del 1967 pubblica cinque
singoli che mettono in luce una musica improntata ad un beat venato di soul e di psichedelia.
Già alla fine del ’66 Watson viene sostituito dal polistrumentista Ian Whiteman, che
contribuisce a rendere più ricercato lo stile del gruppo. Nel 1968 arriva anche il chitarrista
Martin Stone, musicista di notevole esperienza con alle spalle partecipazioni a Stone’s
Masonry, Junior Blues Band, Rockhouse, Savoy Brown, e il gruppo prima cambia nome in
Azoth, quindi sceglie in via definitiva la denominazione di Mighty Baby.
MIGHTY BABY
-
MIGHTY BABY
(Head - 1969)
C’è, nella musica dei Mighty Baby, un’innata predisposizione per la forma canzone che,
abilmente spaziata da eccellenti contributi strumentali e caratterizzata da una piacevole
impressione di libertà espressiva, trova nell’album d’esordio compiuta manifestazione. La
proposta si rivela raffinata e ricca di originalità, all’interno di soluzioni strutturali che
prediligono scelte armoniche e melodiche d’indubbio fascino, complesse elaborazioni che
risultano di non difficile fruizione.
Le chitarre di Stone e King dominano il suono, sorrette da una sezione ritmica puntuale, con i
fiati e le tastiere di Whiteman e le belle parti vocali ad offrire un indispensabile contributo
all’assetto definitivo delle composizioni. Tra le canzoni migliori di un lavoro
complessivamente impeccabile sono da segnalare le stupende A friend you know but never see,
I’ve been down so long, Same way from the sun, House without windows, At a point between fate
and destiny, brani che mutano continuamente con estrema disinvoltura da ritmi sostenuti e
chitarre focose a momenti di struggente lirismo.
Per farla breve, uno dei grandi, trascurati capolavori della musica progressiva inglese.
Pubblicato nell’ottobre del ’69 (seconda emissione assoluta per la piccola etichetta Head),
Mighty Baby ottiene scarsi riscontri di vendita. A ricordarsi del gruppo è il produttore Mike
Vernon che nel 1971 mette sotto contratto i Mighty Baby per la sua etichetta Blue Horizon,
grazie anche alla conoscenza dei trascorsi blues di Martin Stone.
Il 25 giugno 1971 il complesso s’esibisce al Glastonbury Fayre Festival ed offre un contributo
all’album celebrativo con la lunga A blanket in my muesli ; dello stesso anno (luglio / agosto)
sono le registrazioni del secondo long playing A jug of love, anch’esso molto bello ma
ugualmente poco fortunato a livello commerciale. Il suono appare omogeneo, le coraggiose
escursioni d’umore del disco precedente sono più contenute ma non è difficile recuperare nei
brani, pervasi da inflessioni romantiche e decadenti, la magia e la poesia della musica dei
Mighty Baby, tra le pieghe delle belle Jug of love e Virgin spring.
Subito dopo il gruppo si scioglie, a causa dell’insuccesso persistente. Evans e Whiteman (dopo
la breve esperienza orientaleggiante come Habibiyyam) si ritrovano nel ’78, in tour con
Richard & Linda Thompson. Stone suona negli Uncle Dog di Carol Grimes (un LP nel 1972),
quindi forma i Chilli Willi and the Red Hot Peppers (due gli album incisi) assieme a Phil
Lithman, che negli anni Ottanta si agita nella scena di San Francisco con il nome d’arte di
Snakefinger. Ancora, troviamo Stone in una riedizione dei Pink Fairies, sempre ai margini del
rock business.
Alan King, dopo la parentesi con i B.B. Blunder, collabora con l’ex Action Reggie King ai Clat
Thyger, poi s’unisce a due membri dei Warm Dust (una buona band che tra il 1970 e il 1972
incide tre album, dei quali merita una segnalazione il primo And it came to pass), il bassista
Tex Comer e il tastierista Paul Carrack, formando gli Ace Flash & the Dynamos, che in
seguito abbreviano la sigla in Ace (tre LP all’attivo).
- 38 Tutti conoscono Marc Feld (in arte Bolan) per i grandi successi ottenuti negli anni
Settanta, conseguenza di una musica facile prodotta con il marchio T. Rex a partire
dall’ottobre 1970, dalla riuscita commerciale di quello scarno ed orecchiabile rock’n’roll dal
titolo Ride a white swan. Ad inizio di carriera gli interessi di Bolan sono però altri. Ad esempio
la sconclusionata psichedelia dei John’s Children, con i quali il cantante fa il suo ingresso
nella scena rock all’inizio del 1967, quando il gruppo ha già realizzato l’unico album Orgasm.
In verità Bolan vanta la precedente pubblicazione di tre singoli, ma è la breve parentesi con i
John’s Children che gli permette di cominciare a farsi un nome nell’ambito della scena
underground.
Verso la fine dell’anno Bolan fonda un proprio gruppo, i Tyrannosaurus Rex, con il
percussionista Steve Took ; il duo realizza tre LP di folk acustico, dal suono atipico ma troppo
esile e tutt’altro che esaltante. Il miglior disco del periodo è il terzo Unicorn (Regal
Zonophone-1969), la cui pubblicazione precede di poco l’abbandono di Took che entra negli
Shagrat The Vagrant (nucleo pre Pink Fairies).
A questo punto Bolan decide di modificare radicalmente il corso della propria carriera
musicale ; accorcia il nome del gruppo in T. Rex e si dedica ad un rock piuttosto commerciale,
ottenendo notevole successo fino al 1973. Morirà nel settembre ’77 in un incidente d’auto.
I Tea & Symphony, gruppo originario di Birmingham, si formano verso la metà del 1969
con James Langston (v.ch.), Jeff Daw (ch.bs.fl.) e Nigel Phillips (pr.). La proposta dei Tea &
Symphony sotto alcuni aspetti si avvicina a quella dei primi Tyrannosaurus Rex, risultando in
genere più interessante e godibile grazie ad una maggiore varietà stilistica, nell’ambito di una
notevole libertà espressiva. Il lavoro che meglio li rappresenta resta l’iniziale An asylum for
the musically insane del 1969, comprendente una serie di bizzarre composizioni tra le quali, in
particolare, piacciono Armchair theatre (tra folk, underground e Bach), Sometime e la roccata
The come on.
Il successivo Jo sago (Harvest-1970), registrato con un organico ampliato dai chitarristi Bob
Wilson, Dave Carroll e dal batterista Bob Lamb, appare più convenzionale e ugualmente di
scarso successo. All’inizio del 1971 il gruppo è già dissolto ; per Wilson, Carroll e Lamb ci
sarà posto (dalla metà dei Settanta) nella Steve Gibbons Band.
Risultati di rilievo ben superiore (almeno nella parte iniziale della carriera) sono conseguiti
dagli East Of Eden, singolare formazione che prende forma nel 1968 su impulso del violinista
/ fiatista Dave Arbus, un dottore in filosofia flippato ai piedi della Mecca. Con lui, a dar vita
ad un’originale miscela di rock, jazz, Oriente, elementi di musica classica ed etnica, sono il
sassofonista Ron Caines, il chitarrista e cantante Geoff Nicholson, il bassista Steve York e il
batterista Dave Dufont.
Il gruppo esprime il massimo della creatività tra il ’69 e il ’70, quando è sotto contratto con la
Deram. L’esordio avviene nel 1969 con l’ottimo Mercator projected, che vanta connotati
stilistici originali e composizioni di notevole bellezza, anche se alcune parti della complessa
struttura musicale non sono ancora perfettamente amalgamate. Northern hemisphere fornisce
un’introduzione al limite dell’hard rock, la seguente Isadora è una danza per flauto e sax
soprano, il violino di Arbus conduce la poetica e suggestiva Bathers ; tra i brani di maggior
impegno spiccano Waterways, Communion (ispirata alla musica per quartetto d’archi di Béla
Bartok) e la conclusiva In the stable of the sphinx.
EAST OF EDEN
-
SNAFU
(Deram - 1970)
Alla fine del 1969, con una nuova sezione ritmica composta da Andy Sneddon (bs. - al posto di
York che va a suonare con Graham Bond, Manfred Mann Chapter Three, Vinegar Joe) e da
Geoff Britton (bt.), gli East Of Eden registrano il secondo album Snafu, ottenendo i migliori
risultati artistici dell'intera carriera.
Le varie componenti dello stile del gruppo sono assemblate in modo organico, con audaci
accostamenti che evitano di generare confusione, grazie alla maturità e alla risoluzione con
cui vengono posti in opera. Leaping beauties for Rudy, ad esempio (senza voler dimenticare il
discreto rock blues iniziale di Have to whack it up), è un breve frammento free ad introduzione
della bella melodia di Marcus junior (a mezza via tra Spagna e Oriente), che s’avvale delle
prestazioni di Caines al soprano e di Arbus al tenore. La stupenda sequenza successiva inizia
con i nastri ‘rovesciati’ di Xhorkom, si apre su una libera interpretazione di un tema di John
Coltrane (Ramadhan, con il sax di Caines), per concludersi con le evoluzioni di In the snow for
a blow, sentito omaggio alla basilare influenza di Charlie Mingus.
Con Gum arabic - Confucius si torna alle tipiche ambientazioni East Of Eden (bella
soprattutto l’introduzione del brano, con il flauto e le percussioni di Arbus) ; Nymphenburger
è una bella canzone che compendia echi classici, rock e jazz, con Arbus e Nicholson impegnati
a sovraincidere rispettivamente ben sei violini e quattro chitarre. L’ennesima sequenza con
Habibi baby (quasi tutti gli strumenti riprodotti alla rovescia), Boehm constrictor e Beast of
Sweden (in primo piano il violino di Arbus), conferma l’eccellente qualità del disco che si
chiude con Traditional, vale a dire la ‘corretta’ ricostruzione di Xhorkom.
Pare persino superfluo rilevare che i primi due album degli East Of Eden restano in gran
parte invenduti negli scaffali. Il gruppo cerca d’invertire la tendenza realizzando nel 1971 il
singolo Jig a jig, una canzone basata su un motivo tradizionale irlandese che improvvisamente
li proietta nella Top Ten. Ciò non basta agli East Of Eden per evitare un precoce
scioglimento, e poco importa che Dave Arbus rifondi rapidamente il complesso con Jim Roche
(ch.), David Jacks (bs.) e Jeff Allen (bt.) : i due album del 1971 (su etichetta Harvest), East Of
Eden e New leaf, suonano deludenti rispetto alla precedente produzione.
Tramontata l’idea East Of Eden, troviamo il violino di Arbus al servizio dei Who, sull’album
Who’s next (Baba o’Riley) ; la ricostituzione del gruppo nel 1976, senza la presenza di alcun
membro originario, lascia completamente indifferenti.
Giant Sun Trolley, nel 1967, è uno dei tanti gruppetti attivi sulla scena dell’Ufo Club e nei
piccoli locali della Londra alternativa. Dapprima la formazione cambia nome in Hydrogen
Jukebox, quindi si trasforma in Third Ear Band. Con questa definitiva sigla Glen Sweeney
(pr.), Richard Coff (vi.vl.), Paul Minns (ob.) e Mel Davis (vc.) registrano l’album Alchemy,
pubblicato nel 1969 dalla Harvest con la produzione di Peter Jenner (e con la partecipazione
del D.J. John Peel).
Impossibile definire rock, almeno in senso stretto, la proposta della Third Ear Band ; il
gruppo esprime una musica acustica dallo svolgimento ipnotico, fortemente caratterizzata da
influenze orientaleggianti ed impregnata di una profonda convinzione poetica.
Particolarmente godibili sono le notevoli Ghetto raga, Stone circle, Dragon lines e Lark rise.
THIRD EAR BAND
-
THIRD EAR BAND
(Harvest - 1970)
Sostituito il violoncellista Mel Davis con Ursula Smith, e sotto la produzione di Andrew King
(sempre appartenente allo stesso management di Jenner), la Third Ear Band si ripropone con
un album che conserva intatto il fascino (e lo scarso potenziale commerciale) di Alchemy. Nel
tentativo di garantire una maggiore omogeneità alla delicata struttura della musica, Sweeney
e compagni si orientano sull’elaborazione di quattro lunghe composizioni (bellissima Earth),
che effettivamente possono essere, nell’insieme, considerate la versione definitiva del concetto
puro di espressione sonora perseguita dal gruppo.
Le vendite inconsistenti mettono in guardia la Harvest che lascia alla Third Ear Band giusto il
tempo di realizzare un ultimo lavoro, Macbeth (Harvest-1972), colonna sonora dell’omonimo
film di Roman Polansky, ispirato a Shakespeare. Ora Sweeney siede anche dietro la batteria,
c’è ancora l’oboe di Minns e si sono aggiunti il violoncello (e il basso) di Paul Buckmaster, il
violino (ma pure i sintetizzatori) di Simon House - reduce da High Tide - e perfino la chitarra
di Denim Bridges. Ovviamente, non è più la stessa filosofia ad animare le esecuzioni della
Third Ear Band, e l’esigenza di adattare la musica alle immagini cinematografiche rende
l’insieme inevitabilmente frammentario. Si tratta, in ogni caso, di un lavoro dignitoso, con
alcune parti che riportano agli antichi splendori, e dispiace veder scomparire per sempre il
nome del complesso.
Stilisticamente distanti da East Of Eden e Third Ear Band, formazioni quali Jade Warrior e
Quintessence possono vantare una comune predisposizione all’utilizzo di atmosfere a forti
tinte orientali, inserite in contesti musicali di una certa originalità.
In seguito allo scioglimento dei July, il chitarrista Tony Duhig e il batterista Jon Field
formano i Jade Warrior e il vecchio compagno Patrick Campbell-Lyons, divenuto produttore
alla Vertigo, offre al gruppo la possibilità d’incidere tre album per l’etichetta della spirale. Il
secondo Released (1972) (gli altri sono Jade Warrior - 1971 - e Last autumn’s dream - 1972) può
essere portato ad esempio della singolare proposta musicale, che contempla la fusione tra
soluzioni vicine all’hard rock ed influenze a carattere orientale (Three-horned dragon king,
dura ed aggressiva, sostenuta da un incessante tappeto percussivo ; Minnamoto’s dream, con
fiammeggianti frasi chitarristiche), senza tralasciare lunghe, a tratti un po’ tediose,
scorribande strumentali imparentate con il jazz rock in voga all’epoca (Barazinbar, in stile
Traffic, Water curtain cave). Molto belle le delicate, poetiche, Yellow eyes e Bride of summer,
che mostrano uno degli aspetti più convincenti della loro musica. Dopo l’abbandono della
Vertigo, i Jade Warrior passano alla Island pubblicando altri quattro LP e ancora nel 1984 si
concedono il lusso di una reunion.
Più che un vero e proprio complesso rock (per quello che è il normale significato di questo
termine) i Quintessence sono l’espressione musicale di una piccola comunità della zona di
Notting Hill Gate, infatuata di religione, misticismo e filosofie orientali.
Creata nel 1969 dal flautista Raja Ram, con Shiva Shankar Jones (v.ts.pr.), Allan Mostert
(ch.bs.), Maha Dave Codling (ch.), Shambu Baba (bs.ch.), Jake Milton (bt.pr.), la formazione
trova la maniera d’incidere tre buoni album per la Island (In blissfull company - 1969,
Quintessence - 1970, e il maturo Dive deep - 1970). Quella dei Quintessence è una musica dai
toni contenuti, sognante e raffinata, tesa alla ricerca di viaggi nello spazio interiore senza
bisogno di stupire con l’utilizzo d’effetti speciali, onesta e intima. I risultati sono
particolarmente convincenti nelle lunghe Epitaph for tomorrow e Dance for the one, che
portano il suono al massimo delle potenzialità del gruppo.
La formazione originaria incide ancora un LP, Self (RCA-1971), quindi Jones e Codling
abbandonano per dar vita ai Kala (un album nel 1973) ; ai Quintessence resta la forza di
registrare l’ultimo Indweller (RCA-1972) prima di far perdere ogni traccia. Grande e
piacevole è la sorpresa di ritrovare, alla fine del 1980, Jack Milton dal vivo a Berlino, dietro i
tamburi di un’oscura band di new wave, i Blurt.
Il chitarrista Mick Hutchinson esordisce in occasione del 14th Hour Technicolour Dream,
nell’aprile 1967 ; nell’ambito di quella festa il musicista si esibisce con il percussionista Sam
Gopal. Poco dopo Gopal costituisce una propria formazione, Sam Gopal’s Dream, che
comprende i chitarristi Roger D’Elia e Lemmy Willis (poi negli Hawkwind e fondatore dei
Motorhead) e il bassista Phil Duke. Il gruppo riesce a registrare (verso la fine del ’68) l’album
Escalator, pubblicato dall’etichetta Stable.
Nel frattempo, Hutchinson finisce nei Vamp, un complesso che nel ’68 registra solamente un
45 giri ; con lui sono Pete Sears (ex Fleurs De Lys), Viv Prince (primo batterista dei Pretty
Things) e il polistrumentista Andy Clark. L’anno successivo nascono i Clark Hutchinson, che
in due brevi sessioni di registrazione (maggio ’69) realizzano per l’etichetta Deram Nova
l’album A=MH2, vero e proprio disco di culto imperniato su una musica dall’approccio
originale, lontana dai classici parametri del rock. Hutchinson e Clark sovraincidono una
moltitudine di strumenti all’interno di lunghe costruzioni iterative, interessanti anche se di
fruizione piuttosto ostica (Improvisation on a modal scale, Impromptu in E minor, Textures in
¾, Improvisation on a indian scale) ; unica eccezione alla regola è il virtuoso assolo alla
chitarra di Hutchinson in Acapulco gold, che mischia (in presa diretta) influenze classiche e
flamenco.
CLARK HUTCHINSON
-
RETRIBUTION
(Nova - 1970)
Alla ricerca di un suono più duro, diretto e tipicamente rock, Clark e Hutchinson decidono di
allargare l’organico, introducendo una sezione ritmica, e progettano la realizzazione di un
ambizioso album doppio. Alla fine Retribution esce accorciato ma ugualmente non manca di
lanciare intorno, in modo efficace, i suoi strali infuocati.
L’hard informale di Free to be stoned, introdotto e sviluppato dalla devastante chitarra di
Hutchinson e con il supporto della selvaggia voce di Clark, mostra senza mezzi termini quanto
sono lontani i tempi del primo LP. Le soluzioni jazzate di After hours, con il piano di Clark e il
bell’assolo di Hutchinson, mantengono alta la tensione ; ad ammorbidire i toni ci pensa In
another way che sceglie la via della ballata elettrica, trasandata e carica di coinvolgente
lirismo. Un po’ il senso di Best suit, che nella lunga esposizione finisce però col risultare
piuttosto prolissa. Non è casuale che la chiusura del disco sia affidata alla caotica e durissima
Death, the lover, ennesima prova di forza di una proposta che abiura ogni compromesso
commerciale.
La breve avventura di Clark Hutchinson si chiude nel 1972, a poca distanza dalla
pubblicazione dell’ultimo Gestalt (Deram-1971) dove il gruppo, ridotto a trio (non c’è più
Amazing), si disimpegna con discreti risultati in belle ed equilibrate creazioni quali la
misurata Man’s best friend (con la solita gran prestazione di Hutchinson), l’acustica Love is
the light, la melodica Boat in the morning mist, fino al ritorno del rock tirato di Poison.
Hutchinson collabora con Graham Bond e Pete Brown all’album Two heads are better than
one ; Clark e Amazing nel 1975 costituiscono gli Upp, autori di due LP che vedono il
coinvolgimento di Jeff Beck. Dopo qualche mese troviamo ancora Clark impegnato nei Be
Bop Deluxe di Bill Nelson.
Tra le più singolari del panorama alternativo, la proposta dei Comus prende forma nel
tardo 1970 quando i sei membri di quella strana congrega si recano agli studi della Pye per
registrare il loro primo 33 giri.
COMUS
-
FIRST UTTERANCE
(Dawn - 1971)
L’approccio alla musica dei Comus è impegnativo, l’impatto risulta coinvolgente e non
permette fredde considerazioni di comodo ; seguire le inconsuete linee del suono che varia
repentinamente (con momenti melodici ed eterei sottoposti a forsennate, isteriche
accelerazioni) significa calarsi senza condizioni nelle avventurose creazioni degli strumenti e
delle voci. Non è certo il primo gruppo ad associare orientamenti folk con influenze orientali e
classiche, ma Comus possiede un’intima originalità di stile, un fervore espressivo proprio ai
vari elementi sonori liberi di interagire senza vincoli formali. La proposta è completamente
acustica, con largo dispiego di chitarre (anche slide), violini, flauti, tribali percussioni ‘a
mano’, con le voci imprevedibili ed inarrivabili di Wootton e della Watson.
Già l’iniziale Diana (pubblicata anche su singolo !) mette a dura prova con cadenze
ondeggianti ed insinuanti, e ancora estreme sono The Herald, suddivisa in tre parti ricche di
fascinose atmosfere per chitarra, violino ed oboe, e la stupenda Drip drip, con un folgorante
esordio di chitarra slide, che sa di sole e terra bruciata, per poi acquisire ritmo in una
stupefacente, continua evoluzione di modi e toni.
La spiritata danza dall’aspetto folk di Song to Comus, il rapido sviluppo della melodia di The
bite sono notevoli conferme delle possibilità del gruppo. L’inquietante violino della
strumentale Bitten introduce alla conclusiva The prisoner che, a tratti, è la canzone
maggiormente vicina a soluzioni rock, senza compromettere l’assetto stilistico complessivo del
lavoro.
I Comus hanno la possibilità di apparire a Radio One e di effettuare concerti, anche
apprezzati ; l’interesse per il gruppo da parte di critica e pubblico è però modesto,
sicuramente a causa di una difficile collocazione commerciale del disco. Wootton, la Watson e
Hellaby tentano di mantenere in vita il complesso e resistono fino al 1974, quando pubblicano
il secondo ed ultimo To keep from crying (Virgin), aiutati da diversi musicisti tra i quali
Lindsay Cooper (Henry Cow) e Didier Malherbe (Gong). Un attimo dopo Comus non esiste
più.
- 39 “...c’è parecchia buona musica in questo disco ; ricorda Velvett Fogg, ne sentirai
ancora parlare”.
Così il noto D.J. e produttore John Peel concludeva la redazione delle note di copertina
dell’unico album inciso dai Velvett Fogg. Se si può concordare pienamente sulla prima parte
dell’affermazione, il riferimento ad un futuro ricco di soddisfazioni resta purtroppo lettera
morta e a posteriori suona (per quanto in buona fede) come ingloriosa beffa.
VELVETT FOGG
-
VELVETT FOGG
(Pye - 1969)
Gruppo avvolto in una fitta nebbia di mistero, dei Velvett Fogg si conoscono la provenienza
(Birmingham) e l’elenco della scarna discografia che comprende, oltre all’album, il 45 giri
Telstar ’69 / Owed to the dip, pubblicato nel gennaio del 1969. Certa, inoltre, la presenza del
cantante e chitarrista Paul Eastment, animatore ed elemento di maggior spicco del complesso.
Del resto, le amorevoli note di copertina scritte da John Peel non forniscono ulteriori
chiarimenti e si sforzano di convincere della bontà del materiale presentato. Tentativo nobile
ma vano : Velvett Fogg rimane oggetto di culto, senza riuscire a suscitare il benché minimo
interesse nel pubblico inglese, grazie anche ad un vero e proprio ostracismo da parte della
critica musicale.
Eppure, in quell’unico LP c’è veramente tanta buona musica. Ad iniziare da Yellow cave
woman, che presenta una rigida struttura seriale resa corposa dalle evoluzioni dell’ottima
chitarra di Eastment e dall’organo, fluido ed essenziale, per continuare con la splendida
ballata di Once among the trees (una delle più belle di tutto l’underground inglese), che si
svolge su un’esile trama d’origine folk percorsa da efficaci linee d’organo e valorizzata dalla
prestazione di un Eastment particolarmente ispirato. E ancora la notevole versione della
Come away Melinda di Tim Rose (nettamente superiore a quella degli Uriah Heep, sul primo
LP del ’70) che, dopo un’introduzione curiosamente in stile Spencer Davis Group, sviluppa un
suono moderno ed innovativo, allo stesso tempo decadente e poetico, ricco d'insoliti effetti
elettronici.
Potrebbe bastare, ma come dimenticarsi del brillante strumentale di Owed to the dip e della
buona cover di New York mining disaster 1941 dei Bee Gees, entrambi con l’organo in primo
piano ; né si possono trascurare le originali Wizard of gobsolod e Lady Caroline, le belle
soluzioni ritmiche di Within the night e Plastic man.
E’ davvero incredibile che una formazione come Velvett Fogg, dotata d’idee originali e di
buone doti strumentali, sia potuta passare inosservata (se non per i negativi commenti alla
foto di copertina) e ancora oggi resti dimenticata nell’ambito di un recupero generalizzato di
complessi e musicisti frequentemente di qualità inferiore.
Paul Eastment è l’unico a proseguire, senza peraltro riuscire a guadagnare maggiore
notorietà. Anche la sua successiva creatura, i Ghost, naufraga in seguito alla realizzazione di
un singolo e di un long playing dal titolo emblematico, For one second.
La storia e le epiche gesta dei Misunderstood sono già note. Nel 1969 Tony Hill, che di
quella formazione è chitarrista nel periodo di maggior fulgore creativo, si unisce al violinista
Simon House, al bassista Peter Pavli e al batterista Roger Hadden per dar vita agli High Tide,
uno dei migliori complessi del rock progressivo inglese.
Gli High Tide esordiscono come gruppo d'accompagnamento in occasione delle registrazioni
per l’unico album pubblicato da Danny Gerrard (Sinister morning, Deram Nova-1970), un
musicista emerso per un attimo dagli angoli bui della metropolitana londinese. Gerrard
ricambia il favore curando la produzione del primo album del gruppo, Sea shanties,
pubblicato dalla Liberty nel 1969 con una bellissima ed apocalittica copertina di Paul
Whitehead.
La proposta degli High Tide risulta da subito ricca di fascino e di soluzioni originali ; il suono
pesante, gravido, implacabile delle chitarre di Hill (derivato in linea retta dalle nobili matrici
Misunderstood di Children of the sun e I can take you to the sun) si fonde con il virtuosismo del
violino di House, in un drammatico, impenetrabile incubo tridimensionale (sostenuto da una
compatta sezione ritmica) che non ha eguali nella storia del rock inglese. Molti li confondono
con gli adepti del cosiddetto ‘dark sound’, a quei tempi in forte fase d’espansione, ma la
musica del gruppo non si presta a facili e furbi accomodamenti stilistici, all’utilizzo di frasi
fatte di sicuro effetto. Se Futilist’s lament è un informe, incandescente magma hard che
travolge ogni ostacolo, Pushed but not forgotten mette in opera delicati equilibri tra irruenza
espressiva e dolci melodie bagnate di folk e classicismo, improbabile connubio tra Hendrix e
King Crimson, e nel lirico finale fa le prove per il futuro capolavoro di The joke. Nel bel
mezzo fungono da raccordo le vorticose spire dello stupendo strumentale Death warmed up,
sorta di giga pirotecnica supportata da chitarre al limite dell’hard più focoso e creativo, che
presenta clamorose assonanze con le strutture armoniche utilizzate qualche anno dopo dalla
Mahavishnu Orchestra di Birds of fire. Meno sconvolgenti i brani del secondo lato che, in ogni
caso, possiedono il pregio di confermare l’elevata qualità media di Sea shanties (con una nota
di merito per la conclusiva Nowhere).
HIGH TIDE
-
HIGH TIDE
(Liberty - 1970)
Purtroppo una musica simile non vende e quando esce il secondo High Tide critica e pubblico,
occupati ad incensare ben altre prodezze, nemmeno s’accorgono di quel capolavoro (solo
tardivamente e parzialmente recuperato), album incompreso che scivola rapidamente tra le
rimanenze invendute dei negozi di dischi. L’opera si compone di tre sole, lunghe composizioni
che riassumono con maturità e grande splendore creativo le caratteristiche dello stile del
gruppo.
Apre Blankman cries again, brano strutturato su una monolitica stratificazione per chitarre e
violino dalla quale si sviluppa una corposa jam, con gli strumenti solisti che disegnano belle
linee melodiche contorcendosi sotto l'azione dell’implacabile sezione ritmica. L’incedere
epico, teso e drammatico di The joke è l’intuizione più folgorante, con la chitarra di Hill
capace di escursioni mozzafiato, prima che il violino liberi la tensione nella melodica frase
conclusiva, in un rincorrersi d’indimenticabili emozioni.
L’intera seconda facciata del disco è occupata da Saneonymous, brano dalla singolare
struttura circolare composto da due parti sostanzialmente identiche che, per l’approccio
strumentale, ricordano vagamente le acide improvvisazioni dei Grateful Dead.
Gli High Tide confermano la rigorosa natura della musica, rinunciando a tentazioni
commerciali e, di fatto, firmano la propria condanna all’oblio ; la Liberty non concede
ulteriori chance e per il gruppo, che ha già iniziato le registrazioni del terzo LP, è la fine.
Alcune incisioni sono recuperate dall’italiana Cobra Records e costituiscono la base del 33 giri
di Precious cargo (1989). Un paio di anni prima, sempre per la Cobra, Hill e House firmano il
ritorno alla vecchia sigla con l’album Interesting times, ben inferiore ai lavori originali ma
sufficiente per colmare il vuoto lasciato ai loro pochi ed irriducibili estimatori.
Dei quattro musicisti l’unico ad affrontare una regolare carriera è Simon House, che mette il
violino a disposizione dell’ultima Third Ear Band, degli Hawkwind (quattro album tra il ’74 e
il ’77), della band di David Bowie (per il tour mondiale del ’78 dal quale è tratto il doppio
Stage). Hill dà vita alla Ronnie Paisley Band (con il bassista Pavli), pubblicando un disco nel
1979.
L’organista Vincent Crane è il principale collaboratore di Arthur Brown, anche a livello
compositivo, ai tempi del Crazy World (’67-’68) ; dopo la realizzazione dell’unico album della
formazione e il raggiungimento del gran successo con Fire, Crane decide di mettersi in
proprio costituendo nel giugno del 1969 gli Atomic Rooster. Nell’avventura sono coinvolti il
giovane, promettente batterista del Crazy World, Carl Palmer, e il bassista Nick Graham, a
stretta somiglianza con il classico triangolo in stile Nice.
L’esordio discografico (Atomic Rooster, B&C-1970) appare sicuramente confortante ; la
struttura dinamica della musica del gruppo si evidenzia sin dalle prime note di Friday the
thirteenth, con le evoluzioni del fluido organo di Crane supportate da un robusto tappeto
ritmico, nel quale spicca il preciso e potente contributo percussivo di Carl Palmer. Sulla stessa
falsariga s’accodano le buone And so to bed, S.L.Y. e Decline & fall, che contiene un assolo di
Palmer. Tra gli spunti migliori vanno segnalati l’interessante arrangiamento di Broken wings
(un brano di John Mayall), con misurati interventi fiatistici, il focoso strumentale di Before
tomorrow, le linee classiche di Banstead (dalla quale attingono a piene mani i celebri E.L.&P.)
e la melodica Winter (con il flauto di Graham), che recupera un’idea del Crazy World di
Arthur Brown.
ATOMIC ROOSTER
-
DEATH WALKS BEHIND YOU
(B & C - 1970)
Nel 1970 il nucleo originario degli Atomic Rooster si dissolve a causa delle dimissioni di
Palmer che, all’inizio dell’anno, si unisce a Keith Emerson e Greg Lake dando vita al
supergruppo di E.L.&P. ; poco dopo è la volta di Nick Graham, che lascia per entrare negli
interessanti Skin Alley.
Crane riorganizza il complesso assumendo il valido batterista Paul Hammond ed associando il
chitarrista e cantante John DuCann, reduce dalle esperienze di Attak, Five Day Week Straw
People e Andromeda. L’assenza di un vero bassista viene compensata dallo stesso Crane, che
si fa carico di questa parte strumentale mediante l’uso di un’appropriata tecnica all’organo
Hammond. L’inserimento di un chitarrista duro e spigoloso come Cann rende la musica degli
Atomic Rooster ancora più serrata e graffiante, con chiari accenti hard ; inoltre, l’atmosfera
generale del lavoro risente di una forte componente ‘oscura’, che dona alle canzoni un aspetto
gotico e a tratti denso d’inquietudine.
Le note spettrali del piano di Crane introducono la cupa Death walks behind you, che è solo la
prima di alcune eccellenti composizioni caratterizzate da evidenti tratti dark. Di elevato
impatto sono le soluzioni chitarristiche delle grintose Streets (che passa con estrema
disinvoltura da un hard rock variegato ad atmosfere di stampo classico) e Sleeping for years
(forse il brano più duro mai inciso dagli Atomic Rooster, con una notevole prestazione di
Cann). Se I can’t take no more appare indecisa sulla direzione da intraprendere, pur
confermando la strada del rock pesante, in Nobody Else Crane si ricorda di essere in grado di
firmare buone ballate dal tono decadente. Anche l’ottima Tomorrow night (discreto successo a
45 giri) è strutturata su una nitida e piacevole cadenza rock, mentre le strumentali Vug e
Gershatzer recuperano lo stile disinvolto e dinamico del primo album, con in aggiunta la solida
chitarra di Cann.
E’ il momento di maggiore notorietà e successo per gli Atomic Rooster, che nel 1971 ampliano
l’organico con l’ingresso del bravo cantante Pete French, già con Brunning Sunflower Blues
Band, Black Cat Bones e Leaf Hound. Questa edizione del complesso incide il valido In
hearing of (B&C-1971), che non presenta grosse novità ma pure comprende brillanti e tipiche
composizioni come Breakthrough, Break the ice, Decision / Indecision, The price e vanta una
discreta qualità media del restante materiale.
Contemporanea è la pubblicazione del singolo Devil’s answer (un po’ più commerciale del
solito), che bissa i buoni risultati di vendita del precedente Tomorrow night. Tutto sembra
funzionare al meglio delle loro possibilità, ma all’improvviso gli Atomic Rooster si
disintegrano : Cann e Hammond se ne vanno per formare gli Hard Stuff (con il bassista John
Gustafson) e French raggiunge i Cactus di Tim Bogert e Carmine Appice.
Alla fine del 1971 Crane si ritrova da solo, costretto a ricostruire il complesso. Lo aiutano il
chitarrista Steve Bolton, il batterista Rick Parnell (proveniente dagli Horse - un album nel
1970 - e curiosamente destinato a finire nei nostrani Ibis - 1974 - e Nova -1976), oltre al
prestigioso cantante Chris Farlowe, reduce dai disciolti Colosseum. Un nuovo contratto
stipulato con l’etichetta Dawn permette al gruppo d’incidere i discreti Made in England
(Dawn-1972) e Nice’n’greasy (Dawn-1973, con il chitarrista Johnny Mandala al posto di
Bolton) che, nonostante le buone intenzioni, non vanno oltre una dignitosa routine
insufficiente a rilanciare le quotazioni in netto ribasso.
Il gruppo sbanda definitivamente, Crane perde la testa e scappa con l’incasso dopo i primi
due concerti di un tour italiano ; più avanti tenta inutilmente di rinverdire i fasti dei tempi
migliori con sporadiche e ben poco convincenti riunioni del complesso, pensa ad un nuovo
organico che contempli il ritorno di Cann, ma lo ferma la morte, nel 1989.
I Black Widow nascono nel 1970 a Leicester, in un momento particolarmente propizio allo
sviluppo di tematiche dark nell’ambito del rock inglese. Per via di una spiccata
predisposizione al culto dell’oscuro, o forse solo a causa del nome scelto, il gruppo è
immediatamente (prima di essere ascoltato) collegato ai Black Sabbath, ma i connotati
musicali sono evidentemente molto diversi.
Con un organico a sei che prevede Jim Gannon (ch.), Zoot Taylor (ts.), Kip Trevor (v.), Clive
Jones (sf.), Bob Bond (bs.) e Clive Box (bt.pr.), i Black Widow registrano il primo LP
Sacrifice, pubblicato dalla CBS nel 1970. La proposta del gruppo appare un po’ troppo carica
d’effetto (l’ossessiva Come to the sabbat, piccolo successo a 45 giri), anche se non mancano
attimi di sincera tensione, come l’agghiacciante introduzione d’organo che inaugura il disco
(In ancient days), e interessanti arrangiamenti (Conjuration, dal passo di Bolero, la melodica
Seduction). Per il resto, la musica si presta ad un approccio rock semplice e diretto (Sacrifice),
impreziosito dai fiati di Jones.
Purtroppo le discrete intuizioni affiorate sull’album d’esordio non vengono adeguatamente
sviluppate nei lavori successivi. Black Widow (1971, con una rinnovata sezione ritmica - Jeff
Griffith al basso e Romeo Challenger alla batteria) è disco di minor interesse, che trova
qualche spunto discreto nelle linee ‘hard progressive’ di Tears and wine, di Wait until
tomorrow e di altri occasionali episodi, ma il risultato complessivo appare modesto. L’ultimo
Black Widow III (1972) segna un ulteriore scadimento del livello qualitativo.
Autori di un unico album omonimo, edito dalla Vertigo all’inizio del 1971, gli Still Life
sono una misteriosa formazione, della quale le scarne note di presentazione al disco non
consentono di venire a conoscenza dei nomi dei musicisti coinvolti. L’impostazione
strumentale del complesso è quella tipicamente post Nice, basata sulle tastiere che dominano
un suono contrassegnato da una forte componente melodica e decadente, senza che manchino
espliciti riferimenti ad atmosfere dark (sin dalla lugubre immagine della copertina). I risultati
sono accettabili, a tratti discreti, in canzoni che sviluppano una buona tensione emotiva
(People in black, October witches, Love song no. 6), in ogni caso superiori a quelli ottenuti da
analoghe formazioni di scarsa popolarità come (ad esempio) i tremanti, ingenui, ma pure
intriganti Raw Material di Time and illusion (dal primo LP omonimo del 1970), o come i
modesti Dr. Z di Three parts to my soul (Vertigo-1971).
Di buon interesse la vicenda degli Skin Alley, complesso nato nel 1969 dall’unione del
chitarrista e fiatista Bob James con Krzysztof Juszkiewicz (ts.), Thomas Crimble (bs.ar.v.) e
Alvin Pope (bt.). Il quartetto esordisce con un discreto album omonimo (CBS-1969) che mette
in luce i vari aspetti rock, jazz e blues di uno stile non ancora perfettamente definito. Crimble
lascia quasi subito e viene sostituito da Nick Graham (bs.v.fl.pn.), proveniente dal nucleo
originale degli Atomic Rooster ; con il nuovo assetto gli Skin Alley registrano To pagham &
beyond (1970), lavoro maturo e di elevata qualità, imperniato su un jazz rock vario e
scorrevole.
L’insuccesso è totale, la CBS scarica il gruppo e il disco dopo pochi mesi è già fuori catalogo.
Il complesso comunque non molla e, con il nuovo batterista Tony Knight, nel giugno del ’71
prende parte al Glastonbury Fayre Festival, apparendo sul triplo album della Revelation con
la modesta Sun music. Gli attimi di maggior creatività sono esauriti, anche se il sottovalutato
Two quid deal (Transatlantic-1972) dimostra di possedere qualche spunto pregevole, e
dispiace veder finire Skin Alley nel rock’n’roll facile e leggero di Skin tight.
Una breve parentesi per due complessi minori, impegnati nell’effimero tentativo di dar
sostanza alle argomentazioni delle personali proposte jazz rock.
I Catapilla si presentano alla fine del 1970 con un folto organico comprendente Jo Meek (v.),
Graham Wilson (ch.), Malcolm Frith (bt.), Dave Taylor (bs.), Hugh Eaglestone (sax.), Robert
Calvert (sax.), Thiery Rheinhart (sf.). Sotto la produzione di Patrick Meehan (manager dei
Black Sabbath) il gruppo realizza il primo album omonimo, pubblicato dalla Vertigo nel
tardo 1971 ; sul disco non appare la voce di Jo Meek, sostituita all’ultimo momento dalla
sorella Anna. I Catapilla non convincono pienamente con un jazz rock poco stimolante, che si
salva per i toni raffinati ed insoliti del suono.
Con un organico largamente modificato (presenti i soli Meek, Wilson e Calvert) il gruppo
incide un secondo LP, Changes (Vertigo-1972), subito prima di giungere allo scioglimento.
Indubbiamente più orientato verso un suono tipicamente jazz rock (che mischia Keith Jarrett
a materiale proprio), brillante dal punto di vista strumentale, ben congegnato sotto l’aspetto
strutturale ma non eccessivamente originale, risulta l’unico album inciso dai Ben (Ben,
Vertigo-1971). Della proposta di Peter Davey (sf.), Alex Macleery (ts.), Gerry Reid (ch.), Len
Surtees (bs.) e David Sheen (bt.pr.v.) piacciono in particolare le improvvise aperture
melodiche, che possiedono il merito di rendere i brani un po’ più vari e certamente gradevoli.
Originari di Manchester, i Gravy Train si formano nel marzo del 1969 attorno alla figura
di Norman Barrett, chitarrista che agguanta un piccolo momento di notorietà quando è
chiamato da Screaming Lord Sutch a sostituire Jimmy Page, in occasione dell’esibizione
all’Hollywood Festival. Oltre a Barrett, nei Gravy Train sono coinvolti il fiatista J.D. Hughes,
il bassista Les Williams e il batterista Barry Davenport.
Registrato quasi interamente in presa diretta, il primo Gravy Train (Vertigo - fine 1970)
evidenzia l’assenza di uno stile ben definito e lascia trasparire qualche ingenuità, ma allo
stesso tempo convince per il suono assestato su un hard rock abbastanza vario, dominato dalla
chitarra e dalla voce di Barrett e caratterizzato da un marcato utilizzo del flauto da parte di
Hughes. Più che discrete sono l’elaborata The new one, le aspre cadenze rock blues di Coast
road, le dure frasi chitarristiche di Think of life (Black Sabbath ?) e alcune parti della lunga
jam strumentale di Earl of pocket nook.
GRAVY TRAIN
-
(A BALLAD OF) A PEACEFUL MAN
(Vertigo - 1971)
Il secondo album (A ballad of) a peaceful man rappresenta un notevole salto di qualità sotto
l’aspetto creativo e in fatto di definizione ed eleganza dei suoni, sicuramente meno crudi e
spigolosi rispetto al disco precedente. La sequenza iniziale è di alto livello, con belle ed
armoniose ballate quali Alone in Georgia, (A ballad of) a peaceful man (eccellente il lavoro alle
chitarre e di gran fascino la melodia), Jule’s delight (con il flauto di Hughes in risalto), tutte
condotte dalla sicura voce di Barrett e valorizzate da azzeccati arrangiamenti orchestrali.
Messenger accosta la melodia di base ad un’incandescente fuga solista della chitarra ; Can
anybody hear me e Won’t talk about it recuperano i ritmi decisi del primo LP, presentando una
migliore cura del suono e una scrittura matura. Buone, anche se non troppo appariscenti, le
restanti Old tin box e Home again.
L’intrinseca bellezza del lavoro non basta ai Gravy Train per evitare la risoluzione del
contratto discografico con la Vertigo ; le scarse vendite mettono a rischio l’esistenza stessa del
complesso, che trova asilo presso la Dawn. Second birth nel 1973 conferma il gruppo su livelli
dignitosi, senza esaltare ma neppure deludendo, con un hard melodico di discreta fattura.
Ancora un album nel 1974 (Staircase to the day, con la presenza di George Lynon - ch. - Pete
Solley e Mary Zinovieff) e Gravy Train cessa d’esistere. Tracce successive di Barrett sono
riscontrabili in complessi di scarsa fortuna come Mandalaband e Alwyn Wall Band.
I Titus Groan iniziano a far circolare il proprio nome in occasione dell’Hollywood Festival,
tenuto nel maggio del 1970 nei pressi di Newcastle Under Lyme (in programma formazioni
quali Airforce, Family e Grateful Dead, al loro debutto inglese). Nello stesso anno il gruppo,
sotto contratto per la Dawn, esordisce con un maxi - singolo contenente tre brani, tra i quali
spicca il dinamico e moderno R & B di Liverpool ; discrete anche la versione di Open the door,
homer (una canzone di Bob Dylan dal bootleg Great white wonder) e la ballata di Woman of the
world.
Pochi giorni più tardi è la volta dell’album Titus Groan, che sviluppa considerevolmente gli
aspetti della musica del gruppo mediante l’elaborazione di un rock solido e raffinato, nel
quale il lavoro alla chitarra e alle tastiere di Stuart Cowell (ex Rockhouse Band e Sweet Pain)
si combina abilmente con gli strumenti a fiato (sax, flauto, oboe) di Tony Priestland, il tutto
sostenuto in modo adeguato dal basso di John Lee e dalla batteria di Jim Toomey. La lunga
Hall of bright carvings è la composizione più ambiziosa ; articolata in quattro sezioni, offre
ampio sfoggio di una brillante vena strumentale che dona unità alle varie influenze stilistiche
(rock, folk e in misura meno evidente blues e jazz), senza oltrepassare mai i confini di una
godibile semplicità espositiva.
L’album riceve recensioni confortanti e la Dawn cerca di risolvere il problema promozionale
delle pubblicazioni del proprio recente catalogo con l’organizzazione, nel novembre del ’70, di
un singolare tour denominato ‘A Penny Concert’, al quale aderiscono piccole formazioni
come Heron, Comus, Demon Fuzz e, ovviamente, Titus Groan, che s’esibiscono per la favolosa
somma di...un penny. L’iniziativa termina nel gennaio del 1971 con un concerto per Radio
One, senza riuscire ad affermare le potenzialità dei complessi partecipanti. Dopo lo
scioglimento dei Titus Groan, Stuart Cowell suona con Paul Brett Sage e con Al Stewart,
mentre Jim Toomey entra (verso la fine del decennio) nella Ronnie Paisley Band e nei
Tourists.
Il nome dei Second Hand resta legato agli anfratti più remoti dell’underground inglese e a
quell’oscuro lavoro (Death may be your Santa Claus) pubblicato nel 1972 dalla Mushroom,
esemplare etichetta alternativa che fallisce dopo un breve periodo di autogestione.
Rob Elliott (v.), Ken Elliott (ts.v.), George Hart (bs.vi.v.) e Kieran O’Connor (bt.pr.v.)
realizzano l’album avvalendosi di ottime idee di base, condite con una buona dose di coraggio.
Sfortunatamente, tanto impegno è tradito da una produzione insufficiente che rende l’aspetto
delle composizioni parzialmente indefinito e confuso. Questo non esclude la presenza di alcuni
eccellenti brani, come il rhythm & blues orchestrato di Funeral e quello conciso e depravato
di Somethin’ you got ; la notevole Lucifer and the egg rispolvera echi di Arthur Brown e
spazza via con decisione tanti finti cultori di ‘dark music’, regalando brividi e sospensioni
allucinate. Il secondo lato presenta soluzioni a tratti vagamente avvicinabili a sperimentazioni
floydiane, contrapposte ad attimi di forte lirismo e ad ambientazioni romantico - sinfoniche
tutt’altro che rassicuranti.
E’ proprio la forte tensione che s’incrocia in ogni angolo di Death may be your Santa Claus,
l’inquietudine che permea l’intero lavoro a rendere il suono intenso e meritevole d’attenzione.
Solo da parte di pochissimi, però, e ai Second Hand nessuno offre una nuova opportunità.
Alla fine del gioco
le ultime propaggini del pop progressivo
- 40 Dal 1972 l'azione progressiva del rock inglese inizia sensibilmente ad affievolirsi. Si
assiste così al consolidamento di una fase d’evidente stasi creativa, determinata
dall’involuzione stilistica propria alla maggior parte dei gruppi storici, senza che avvenga il
necessario ricambio generazionale di qualità.
In quegli anni poco esaltanti non tutto, però, è da dimenticare. Tra i nuovi nati si mettono in
luce gli interessanti Roxy Music, che già nel novembre del 1970 muovono i primi passi sotto la
guida del cantante Bryan Ferry, in precedenza scartato in un provino per i King Crimson.
Con lui sono Roger Bunn (ch.), Dexter Lloyd (bt.), Graham Simpson (bs. - ex Gas Board,
come lo stesso Ferry), Andy Mackay (sf. - formatosi su studi classici) e Brian Eno (sn.). Nel
giugno del ’71 la formazione subisce una temporanea mutazione d’organico con l’ingresso del
batterista Paul Thompson (proveniente dagli Smokestack) e con la breve apparizione alla
chitarra di David O’List, uscito dai Nice, per poi stabilizzarsi all’inizio del nuovo anno grazie
all’arrivo del chitarrista Phil Manzanera, titolare dei Quiet Sun che sin dal 1970 tentano
inutilmente di ottenere un aggancio discografico con qualche etichetta.
ROXY MUSIC
-
ROXY MUSIC
(Island - 1972)
Nel marzo del 1972 i Roxy Music si recano in studio per registrare il primo LP omonimo,
sotto la produzione dell’ex paroliere dei King Crimson, Pete Sinfield. L’attacco aggressivo di
Re-make/Re-model stordisce, nell’illustrazione dettagliata della proposta musicale del gruppo
che contempla dure strutture iterative (con la chitarra quasi hard, lanciata in un assolo
perenne), il sax insolente di Mackay, una sezione ritmica incessante e metronomica, i
sintetizzatori del ‘non musicista’ Eno che deformano le nitide linee strumentali, la voce di
Ferry sicura e sfrontata, lontana dai tipici connotati dei grandi urlatori rock, in anticipo di
dieci anni (o quasi) sulle modalità del cantante new wave. La ballata di Ladytron presenta
trovate originali, belle soluzioni timbriche e una chitarra che echeggia Hendrix ; If there is
something fa ancora meglio con una cadenza spensierata che all’improvviso diventa tesa e
decadente, nobilitata da una notevole prestazione di Ferry. Tra i brani più ricercati ed
elaborati convincono l’interessante 2 H.B. dove il piano di Ferry pare allacciarsi
all’esperienza di Terry Riley, fondendosi ai sassofoni di Mackay in una soffusa girandola
strumentale, il viaggio allucinante di The Bob, introdotto dall’irreale atmosfera dei
sintetizzatori di Eno e spezzato in continuazione da impulsi hard, inquietanti rumori di
battaglie elettroniche, sax, oboe, rock’n’roll, aperture e citazioni classiche, e ancora l’estatica
Chance meeting, condotta dal piano e solcata dalla chitarra trattata di Manzanera.
Il lineare sviluppo delle piacevoli Would you believe ? e Bitters end (in odor di fifties) è
intervallato dall’ottima Sea breezes, che si divide tra atmosfere cameristiche (con l’oboe di
Mackay che sorge da recondite profondità marine) e un’atipica parte centrale con gli
strumenti (in particolare la chitarra) sfigurati dagli interventi di Eno. Brano trainante sotto
l’aspetto commerciale è la bella Virginia plain, uno spedito e suadente rock’n’roll trascritto
nella particolare ottica futurista del gruppo ; pubblicata a 45 giri la canzone raggiunge la
parte alta delle classifiche, trascinando l’album ad un buon successo.
I Roxy Music s’impongono all’attenzione generale anche dal vivo, suonando in tour con David
Bowie e Alice Cooper e sfoggiando un’immagine ambigua, aggressiva ed originale che
accompagna una proposta musicale di alto livello.
Simpson esce di scena e per il secondo album For your pleasure, inciso nel febbraio del ’73, le
parti di basso sono affidate a John Porter, considerato solo come ospite. For your pleasure, che
si presenta con l’avvenente Amanda Lear in copertina e all’interno propone i cinque Roxy
Music in un improbabile look (si noti Brian Eno, della serie...come si cambia...), non possiede
la portata innovativa del disco d’esordio, lo stile ricalca sostanzialmente quello del primo
album, gli ingredienti di base sono gli stessi. Il lavoro vanta però una coesione ammirevole,
l’elaborata combinazione strutturale della musica del gruppo appare intensa e solida, al
massimo delle possibilità espressive dei musicisti. C’è spazio per belle e tipiche ballate
melodiche, con grande attenzione per il timbro e le sfumature (Beauty queen, For your
pleasure e la sua fantastica coda finale, degna delle migliori intuizioni di una Laurie
Anderson), per lo stupendo rock’n’roll evoluto di Grey lagoons, per le supersoniche danze di
Do the strand e di Editions of you.
L’oboe di Mackay guida la melodia della raffinata Strictly confidential, che alterna un clima
rarefatto a ficcanti frasi chitarristiche; la chitarra ubriaca di phasing dell’ottima In every
dream home a heartache non costituisce proprio una novità (Hendrix, su Bold as love, gioca in
netto anticipo), ma scatena lo stesso un bell’effetto. L’iterazione insistita della lunga The
bogus man conquista vertici assoluti nell’ambito di un disco dai toni moderni, che precorre i
modi a venire delle nuove ondate del rock.
Nell’estate del ’73 Ferry, preoccupato di mantenere salda la leadership all’interno del
complesso, costringe Eno ad abbandonare la formazione. Il posto del ‘non musicista’, che
inizia un’infinita carriera solistica, è rilevato dal violinista / tastierista Eddie Jobson (dai
Curved Air) e per il vacante ruolo di bassista la scelta ricade su John Gustafson (ex
Quatermass e Hard Stuff). Così i Roxy Music nel settembre 1973 registrano Stranded (Island)
che, pur essendo un buon disco, non ripete i notevoli risultati dei precedenti lavori. La musica
è ora legata agli elementi più diretti e decadenti (Amazona, Just like you, la bella A song for
Europe), con Street life prosegue la tradizione dei gradevoli scioglilingua di Ferry, ma si tratta
quasi sempre degli aspetti esteriori di uno stile consolidato e svuotato dei contenuti
sperimentali.
Gli album successivi si muovono spediti in questa direzione, con un livello qualitativo
decrescente. Country life (Island-1974) e Siren (Island-1975) sono gli ultimi fuocherelli, poi i
Roxy Music tornano di tanto in tanto in sala d’incisione, compatibilmente con le esigenze delle
carriere solistiche di Ferry e Manzanera. Il chitarrista, in particolare, nel 1974 rifonda i Quiet
Sun che pubblicano un album dove appare Brian Eno, nel ’75 inizia ad incidere come solista
(Diamond head, Island) e l’anno successivo costituisce gli 801, con l’aiuto di personaggi
importanti quali Eno, Bill MacCormick (Quiet Sun e Matching Mole), Francis Monkman
(Curved Air). Il gruppo dura pochissimo e nell’ultimo dei suoi tre concerti registra il valido
801 live (Island-1976).
Brian Peter George St. John Le Baptiste De La Salle Eno consuma i primi approcci con la
scena musicale all’interno di due formazioni, i Merchant Taylor’s Simultaneous Cabinet
(orientati verso proposte d’avanguardia) e i Maxwell Demon (più tipicamente rock). Alla fine
del 1970 è tra i membri fondatori dei Roxy Music dove, più che il ruolo di tastierista e
musicista in genere, ricopre la figura di alchimista e guastatore del suono. Proprio nei Roxy
Music, Eno inizia ad esplicitare la teoria del ‘non musicista’, di colui che non crea in prima
persona il suono in modo virtuosistico ma piuttosto interviene sul lavoro degli altri musicisti,
stravolgendone la forma e spesso il significato tramite l’utilizzo di artifizi elettronici. Il gioco
dura per i primi due eccellenti 33 giri del complesso, fino all’estate del ’73 quando Eno lascia i
compagni, in contrasto con la linea musicale più morbida e romantica di Brian Ferry.
ENO
-
HERE COME THE WARM JETS
(Island - 1973)
Sempre nel 1973 Eno collabora con Robert Fripp alla stesura di No pussyfooting, un disco per
chitarra trattata elettronicamente, e in novembre (aiutato da un imponente stuolo d’illustri
musicisti) registra il primo album come solista, Here come the warm jets. Il lavoro è basato su
canzoni piuttosto orecchiabili, di concezione (in apparenza) semplice, sulle quali Eno inserisce
le parti vocali ed effettua un profondo trattamento del suono, con l’ausilio di ogni possibile
alchimia elettronica. Ne consegue una musica futuribile, moderna e ricca di originalità,
capace di coinvolgere per le belle melodie e per l’accesa struttura ritmica, che servirà da
esempio ai paladini della new wave ‘intelligente’ (Talking Heads, Devo).
Tra i brani (tutti d’elevata qualità) spiccano l’eccezionale Baby’s on fire, lanciata in orbita da
una memorabile prestazione alle chitarre di Robert Fripp, la cadenza decadente
dell’agghiacciante Driving me backwards, la compatta massa chitarristica (Manzanera e
Spedding) e la ritmica serrata della bella Needles in the camel’s eye, il rock stravolto di Blank
Frank (un geniale mix tra Bo Diddley e i King Crimson della seconda generazione), con un
altro importante intervento di Fripp.
Contemporanea è la fondazione della Portsmouth Sinfonia, formazione pseudo sinfonica
dedita al rifacimento, non proprio ortodosso, di celebri composizioni classiche. Il primo
giugno 1974 Eno appare tra i principali animatori del concerto al Rainbow con Kevin Ayers,
John Cale e Nico. In settembre vengono effettuate le registrazioni per il secondo LP Taking
tiger mountain (by strategy) (Island-1974), ottimo disco che in sostanza ricalca le posizioni
acquisite dal precedente lavoro (da segnalare la notevole Third uncle) e che vanta la
partecipazione, tra gli altri, di Robert Wyatt e di Phil Collins.
Del 1976 è la breve collaborazione dal vivo con gli 801 di Phil Manzanera ; dalla metà dei
Settanta e fino ai giorni nostri la produzione discografica di Brian Eno prosegue incessante in
svariate direzioni musicali, passando da una marcata impronta pop rock (gli ottimi Another
green world, Island-1975 e Before and after science, Island-1977, oltre alla pregevole
partecipazione a Low e Heroes di David Bowie) alla musica elettronica e a quella ‘ambientale’.
Divenuto oramai a tutti gli effetti un ‘musicista’, sia pure un po’ particolare, teorizza la
‘musica per non musicisti’ e le ‘strategie oblique’ in due libri, organizza un’etichetta dedita a
progetti d’avanguardia (la Obscure) e s’impone come produttore dalle ampie vedute (e
fortune) con complessi quali Talking Heads, Devo, Ultravox e i planetari U2.
La prima metà degli anni Settanta porta buoni risultati artistici anche al gallese John Cale,
membro fondatore dei leggendari Velvet Underground. Cale si forma a Londra su studi
classici e ben presto inizia ad interessarsi alla musica elettronica e d’avanguardia ; è il
compositore americano Aaron Copland a metterlo in contatto con il musicista d’avanguardia
La Monte Young, con il quale nel 1963 crea il nucleo dei Dream Syndicate, che realizza un
album. Stabilitosi negli Stati Uniti, nel ’64 conosce Lou Reed e con lui dà vita ai Velvet
Underground, risultando decisivo (con l’apporto di tastiere e viola) nella messa a punto
dell’originale proposta musicale del gruppo contenuta nei primi due LP.
Lasciati i Velvet verso la fine del ’68, Cale si dedica alla produzione (dischi di Earth Opera e
Stooges), collabora alle prime incisioni soliste di Nico e con Terry Riley, con il quale incide il
controverso Church of Anthrax. Al 1970 risale la pubblicazione del suo esordio a 33 giri come
solista, il non eccelso Vintage violence, seguito a distanza di due anni dal più convincente The
academy in peril (Reprise), lavoro denso di forti e diretti riferimenti alla cultura classica.
I risultati migliori del periodo sono colti nel 1973 con la realizzazione di Paris 1919 che, sia
pur inciso a Los Angeles, è disco dagli espliciti umori europei, composto da gradevoli canzoni
permeate da un afflato decadente ed intimista. Il suono è tranquillo, con arrangiamenti
complessi, curati e di grand'equilibrio, dai quali traspare (anche se con connotati ben diversi
rispetto all’album precedente) la formazione classica di Cale (Child’s Christmas in Wales).
Bellissima appare The endless plain of fortune, una soffice aria decadente sfiorata da
sfumature orchestrali da brivido, che nascondono l’essenza intima della canzone in
un’atmosfera nebbiosa e quasi irreale. Di rilievo anche la cameristica Paris 1919, la sognante
Half past France e l’originale rock’n’roll di Macbeth.
Dopo la partecipazione al famoso concerto del Rainbow, Cale pubblica altri due buoni LP,
Fear (Island-1974) e Slow dazzle (Island-1975), nei quali è aiutato da musicisti di vaglia come
Phil Manzanera, Chris Spedding e Brian Eno, e la produzione discografica continua sino ad
oggi con risultati altalenanti e sintassi musicali di varia natura ed ispirazione. Tra gli
interventi esterni è da rimarcare la produzione del primo album di Patti Smith, Horses.
- 41 La seconda generazione dei King Crimson si evolve nell’arco di un paio d’anni, a
partire dal 1973, quando Robert Fripp rifonda per l’ennesima volta il complesso con
l’apporto del violinista David Cross, del bassista John Wetton (ex Family), del percussionista
Jamie Muir (proveniente dagli Assagai, un album omonimo all’attivo) e del batterista Bill
Bruford (che preferisce Fripp ai facili guadagni con gli Yes).
KING CRIMSON
-
LARKS’ TONGUES IN ASPIC
(Island - 1973)
Registrato all’inizio del 1973, Larks’ tongues in aspic è, senza mezzi termini, uno dei grandi
capolavori della musica progressiva inglese.
Le percussioni policrome di Muir introducono la prima parte di Larks’ tongues in aspic, che si
apre con il serrato fraseggio del violino sorvolato dalla tesa chitarra di Fripp ; reminiscenze
classiche ed impronte d’avanguardia travolte da un’intermittente esplosione hard, che evolve
in una spigolosa, moderna cadenza jazz rock in continua mutazione genetica. Una musica che
deriva forze e virtù dalla sua stessa essenza, capace di calarsi nelle impervie voragini del
ritmo e d’aprirsi in melodiche frasi di sconcertante consistenza emotiva. Se le eccellenti Book
of Saturday e Exiles riportano a dolci e romantiche atmosfere già conosciute ed apprezzate nei
primi momenti del complesso, il fraseggio spezzato di Easy money e la dinamica progressione
di The talking drum s’inventano inedite prospettive di sviluppo e mostrano il compiuto aspetto
strumentale dei nuovi King Crimson. La conclusiva seconda parte di Larks’ tongues in aspic,
annunciata dal selvaggio stridere degli strumenti, trova il modo di accarezzare la materia per
poi sbranarla e vivisezionarla senza ritegno, in una danza che stordisce e lascia senza fiato.
Jamie Muir esce dal gruppo e sparisce senza lasciare tracce (c’è chi lo crede in Tibet, in un
monastero buddista), ma nonostante la dipartita del percussionista, e al contrario del solito, i
King Crimson dimostrano di poter contare su un organico stabile. I restanti quattro musicisti
tornano in studio, nel gennaio del ’74, per registrare le composizioni che vanno a sommarsi
sull’ottimo Starless and Bible Black. Le folate dell’ossessiva e (volutamente) frammentaria The
great deceiver (quasi una suite in miniatura) mostrano il gruppo in piena forma, sicuro e
compatto anche nelle parti esecutive più intricate. Il sintomo è confermato dalla nervosa
Lament (che a tratti pare rivolgersi su se stessa), dall’aggraziata e commovente The night
watch (con un grande Fripp alla chitarra), dal pacato classicismo di Trio. Sul secondo lato
trovano posto le pregevoli Starless and Bible Black (di non semplice fruizione) e Fracture (che
in parte anticipa le soluzioni tese e violente del successivo LP Red).
All’inizio del ’74, poco dopo l’incisione di Starless and Bible Black, lascia anche David Cross
ma i King Crimson resistono e, ridotti a trio, nell’estate dello stesso anno realizzano un altro
notevole album. In realtà, alla lavorazione di Red partecipano alcuni ospiti esterni, tra i quali
spiccano i nomi delle vecchie conoscenze Mel Collins e Ian McDonald (ai sax soprano e alto) e
dello stesso David Cross al violino.
La musica dei King Crimson è giunta ad un nuovo capolinea, splendida nell’esasperante
potenza di un suono distorto e sovraccarico d’energia. Red, con le sue masse chitarristiche
contrapposte, è una perfetta introduzione al disco e la successiva Fallen angel unisce la bella
melodia (guidata dall’oboe di Robin Miller) alle energiche spirali senza fine di One more red
nightmare. Providence, con il violino di Cross, si lancia in una difficile improvvisazione ai
limiti del rumore ; la stupenda Starless rappresenta la fine di un ciclo, significa ritrovare il
romantico sinfonismo della Corte del Re Cremisi, sotto una veste riveduta ed aggiornata.
I King Crimson cessano d’esistere nell’ottobre del 1974 (al tempo della pubblicazione di
Red) ; non si tratta però di una decisione definitiva perché Fripp, all’inizio degli anni Ottanta,
recupera la vecchia sigla per pubblicare, a più riprese, una serie di dischi di buon pregio. Nel
frattempo il chitarrista produce diversi lavori come solista, ad iniziare da Exposure (EG1979), e collabora frequentemente con musicisti quali David Bowie, Peter Gabriel e Brian
Eno.
Per quanto riguarda gli altri due membri ufficiali dell’ultimo organico dei King Crimson,
Wetton suona con Uriah Heep, Roxy Music, Bryan Ferry e, nel 1978, ritrova Bruford nel
supergruppo degli U.K. (con Eddie Jobson e Allan Holdsworth). Da parte sua Bruford, prima
di finire negli U.K., collabora con Roy Harper, Pavlov’s Dog, Gong, National Health, Genesis,
e nel 1980 figura tra i partecipanti alla nuova edizione del gruppo di Fripp.
Mi piace ricordarli così, seduti attorno ad uno spoglio tavolo di una festa dell’ultra sinistra,
a mangiare pane e poco altro, accanto alle persone che poco più tardi avrebbero costituito il
loro sparuto pubblico. Voglio terminare con gli Henry Cow, fiera unione di uomini e donne a
sostegno di un approccio alla vita della musica completamente estraneo all’equazione
concerti : successo = dischi : soldi, una scelta che comporta necessariamente la povertà.
HENRY COW
-
THE HENRY COW LEGEND
(Virgin - 1973)
I polistrumentisti Fred Frith e Tim Hodgkinson progettano Henry Cow già alla fine del 1968 e
il gruppo assume un’identità precisa nel 1971 quando, a seguito di vari cambiamenti
d’organico, si associano il fiatista Geoff Leigh, il bassista John Greaves e il batterista Chris
Cutler. Gli Henry Cow iniziano a farsi conoscere suonando gratis o a prezzo politico un po’
ovunque, abbracciando la causa di una musica e di un’ideologia radicali.
Della primavera del ’73 sono le registrazioni dell’album d’esordio The Henry Cow Legend,
disco di gran bellezza che materializza l’originale formula stilistica del complesso, in
equilibrio tra rock e rumore, free jazz e avanguardia, umori classici e bandismo zappiano.
Concepito come una complessa suite a carattere prevalentemente strumentale, Legend
propone un suono ‘leggero’ ed inafferrabile nel continuo mutare di toni e sfumature, ora
contorto ed intricato, subito dopo lirico e disteso. I musicisti dimostrano notevoli capacità
tecniche e una ancor maggiore personalità esecutiva, rendendo la musica raffinata ed
immediatamente riconoscibile.
Il disco piace alla critica musicale ma il seguito di pubblico non può che essere modesto, visto
il carattere impegnativo della proposta. Dal vivo il complesso esibisce un atteggiamento
provocatorio ed estremo sotto l’aspetto prettamente musicale, elaborando composizioni che
spesso sfociano in improvvisazioni totali, ai confini con il rumore e il caos. Una buona
dimostrazione è offerta dai brani incisi nell’ottobre del 1973 in occasione del concerto alla
Dingwall’s Dance Hall, compresi nel doppio LP della Greasy Truckers al fianco di Camel,
Global Village e Gong.
Lindsay Cooper (fagotto e oboe) subentra a Geoff Leigh e all’inizio del 1974 gli Henry Cow
registrano Unrest, disco che presenta parti piuttosto ostiche rispetto alle raffinate atmosfere di
Legend. Tra le composizioni di più ‘facile’ fruibilità vanno segnalate le ottime Bittern storm
over Ulm e Half asleep ;half awake, che sfodera un personalissimo jazz rock. Di maggior
impegno, ma imprescindibile, il confronto con le impietose scansioni ritmiche della stupenda
Ruins (ricettacolo delle influenze e delle esperienze di Henry Cow), con il feroce free jazz di
Upon entering the Hotel Adlon, con le desolate distese armoniche di Deluge, mentre
Linguaphonie rischia l’incomunicabilità.
Del ’75 è la collaborazione con gli Slapp Happy (Anthony Moore - ts. - Peter Blegvad - ch. Dagmar Krause - v.) : assieme i due organici realizzano Desperate straight (Virgin-1975) e In
praise of learning (Virgin-1975), discreti ma non essenziali.
Gli Henry Cow svolgono costantemente un’intensa attività live e sempre nel 1975 effettuano
alcune esibizioni con la formazione allargata a Dagmar e con la presenza di Robert Wyatt. Su
tre lati del doppio Concerts trovano spazio le registrazioni ricavate da concerti tenuti tra
maggio e novembre, con particolare interesse per le belle versioni di Little red riding Hood hits
the road (con Wyatt) e di Ruins (registrata a Udine). La prima facciata del disco è occupata da
uno stupefacente medley che illustra adeguatamente gli eccellenti risultati e l’equilibrio
formale raggiunti dalla formazione (tra le altre Beautiful as the moon, Nirvana for mice e una
struggente versione di Gloria Gloom dei Matching Mole, il tutto messo su nastro in agosto per
la BBC).
Prima di disperdere le forze in mille direzioni (carriere soliste, Art Bears, Aqsak Maboul,
Work...) Henry Cow resiste fino al 1978, in tempo per la pubblicazione dell’ultimo, e ancora
rilevante, Western culture (Broadcast), registrato senza l’apporto di John Greaves (impegnato
con i National Health), che chiude degnamente la storia di questo mai sufficientemente
considerato gruppo.
“Il futuro degli Henry Cow è molto semplice. Abbiamo questo concerto stasera, poi ne avremo
due consecutivamente nei prossimi giorni, quindi andremo in studio per registrare un nuovo
disco e poi ci scioglieremo.”
Tim Hodgkinson (23.7.78)
Sommario...per una discografia progressiva
A NEW DAY RISING...dal beat alla musica progressiva
-1Beatles - Revolver (Parlophone-1966)
-2Rolling Stones - Aftermath (Decca-1966)
Rolling Stones - Big hits (high tide and green grass) (Decca-1966) ant. ‘63 - ‘66
Animals - House of the rising sun (Emi-1970) ant. ‘64 - ‘65
Them - The collection / featuring Van Morrison (2 LP Castle Comm.-1986) ant. ‘64 - ‘66
Yardbirds - On air (2 LP Band of Joy-1991) reg. BBC ‘65 - ‘68
John Mayall and the Bluesbreakers - A hard road (Decca-1967)
Graham Bond Organization - The sound of 65 (Columbia-1965)
Spencer Davis Group - The best of ... featuring Stevie Winwood (Island-1967) ant. ‘65 - ‘67
-3Kinks - Golden hour of the Kinks (Pye-1977) ant. ‘64 - ‘69
Who - My generation (Brunswick-1965)
Pretty Things - The vintage years (2 LP Sire-1976) ant. ‘64 - ‘66
Small Faces - The autumn stone (2 LP Immediate-1969) ant. ‘66 - ‘68 in parte dal vivo
-4Creation - How does it feel to feel (CD Edsel-1990) ant. ‘66 - ‘68
Misunderstood - Before the dream faded (Cherry Red-1982) ant. ‘66
THE TURNING POINT...diario fantastico dell’esperienza interstellare di Pepper il sergente
-5Jimi Hendrix Experience - Are you experienced ? (Track-1967)
Jimi Hendrix Experience - Jimi plays Monterey (Polydor-1986) dal vivo 18.6.67
Jimi Hendrix Experience - Smash hits (Track-1968) ant. ‘66 - ‘67
Jimi Hendrix Experience - Axis : bold as love (Track-1967)
Jimi Hendrix Experience - Radio one (2 LP Rykodisc-1988) reg. BBC ‘67
-6Beatles - Sgt. Pepper’s lonely hearts club band (Parlophone-1967)
Beatles - Magical mystery tour (Capitol-1967) ant. ‘67
Beatles - The Beatles (2 LP Apple-1968)
Beatles - Past masters, vol. one & two (2LP Parlophone - 1988) ant. '62 - '70
-7Pink Floyd - The piper at the gates of dawn (Columbia-1967)
Pink Floyd - Masters of rock (Harvest-1974) ant. ‘67
Pink Floyd - A saucerful of secrets (Columbia-1968)
-8Traffic - Mr. Fantasy (Island-1967)
Traffic - Traffic (Island-1968)
IL FUOCO E L’ACQUA...un ricordo di British blues
-9Cream - Fresh Cream (Reaction-1966)
Cream - Disraeli gears (Reaction-1967)
Cream - Wheels of fire (2 LP Polydor-1968) in parte dal vivo
Blind Faith - Blind Faith (Polydor-1969)
- 10 Jimi Hendrix Experience - Electric ladyland (2 LP Track-1968)
Jimi Hendrix Experience - Live at Winterland (2 LP Polydor-1987) dal vivo ottobre 1968
- 11 John Mayall’s Bluesbreakers - Bare wires (Decca-1968)
John Mayall - Blues from Laurel Canyon (Decca-1969)
Fleetwood Mac - Then play on (Reprise-1969)
Chicken Shack - 40 blue fingers freshly packed & ready to serve (Blue Horizon-1968)
Peter Green - The end of the game (Reprise-1970)
Aynsley Dunbar Retaliation - To mum, from Ainsley and the boys (Liberty-1969)
Keef Hartley Band - Halfbreed (Deram-1969)
Mark Almond - Mark Almond (Harvest-1971)
- 12 Jeff Beck - Truth (Columbia-1968)
Jeff Beck Group - Beck Ola (Columbia-1969)
Free - Tons of sobs (Island-1968)
Free - Free (Island-1969)
Free - Fire and water (Island-1970)
Led Zeppelin - Led Zeppelin (Atlantic-1969)
- 13 Ten Years After - Ten Years After (Deram-1967)
Ten Years After - Undead (Deram-1968) dal vivo
Ten Years After - Stonedhenge (Deram-1969)
Ten Years After - Ssssh. (Deram-1969)
Groundhogs - Blues obituary (Liberty-1969)
Groundhogs - Thank Christ for the bomb (Liberty-1970)
Groundhogs - Split (Liberty-1971)
Patto - Patto (Vertigo-1970)
Patto - Hold your fire (Vertigo-1971)
Taste - Pop history vol. 7 (2 LP Polydor-1972) ant. ‘69 - ‘70 in parte dal vivo
Savoy Brown - Blue matter (Decca-1969) in parte dal vivo
Joe Cocker - With a little help from my friends (Regal Zonophone-1969)
AA.VV. - Woodstock (3 LP Cotillon-1970) dal vivo
- 14 Blodwyn Pig - Ahead rings out (Island-1969)
Steamhammer - Steamhammer (Reflection-1969)
Steamhammer - MK II (Reflection-1969)
Steamhammer - Mountains (Brain-1970) in parte dal vivo
Bakerloo - Bakerloo (Harvest-1969)
Black Cat Bones - Barbed wire sandwich (Nova-1969)
Killing Floor - Killing Floor (Spark-1970)
Juicy Lucy - Lie back and enjoy it (Vertigo-1970)
N.S.U. - Turn on, or turn me down (Stable-1969)
May Blitz - May Blitz (Vertigo-1970)
May Blitz - The 2nd of May (Vertigo-1971)
Sharks - First water (Island-1973)
Back Door - Back Door (Blakey-1972)
A ROCK’N’ROLL DAMNATION...ovvero il diavolo, probabilmente
- 15 Rolling Stones - Their satanic majesties request (Decca-1967)
Rolling Stones - Beggar’s banquet (Decca-1968)
Rolling Stones - Through the past darkly (Decca-1969) ant. ‘66 - ‘69
Eric Burdon & the Animals - Winds of change (Mgm-1967)
Eric Burdon & the Animals - The twain shall meet (Mgm-1968)
Eric Burdon & the Animals - Every one of us (Mgm-1968)
Eric Burdon & the Animals - Love is (2 LP Mgm-1968)
Eric Burdon Band - Sun secrets (Capitol-1974)
- 16 Small Faces - Ogdens’ nut gone flake (Immediate-1968)
Pretty Things - S.F. Sorrow (Columbia-1968)
Pretty Things - Parachute (Harvest-1970)
Kinks - Arthur or the decline and fall of the British empire (Pye-1969)
Kinks - Lola versus the powerman and the moneygoround (Pye-1970)
Who - The Who sell out (Track-1967)
Who - Tommy (2 LP Track-1969)
Who - Live at Leeds (Track-1970) dal vivo
Who - Who’s next (Track-1971)
Who - Quadrophenia (2 LP Track-1973)
Fire - The magic shoemaker (Pye-1970)
- 17 Terry Reid - Bang, bang you’re Terry Reid (Epic-1968)
Spooky Tooth - Spooky two (Island-1969)
Thunderclap Newman - Hollywood dream (Track-1969)
David Bowie - The man who sold the world (Mercury-1970)
Mott the Hoople - Mott the Hoople (Island-1969)
PIU’ DURO DI TUO MARITO...i miti e le illusioni dell’hard rock inglese
- 18 Led Zeppelin - Led Zeppelin II (Atlantic-1969)
Led Zeppelin - Led Zeppelin III (Atlantic-1970)
Led Zeppelin - Led Zeppelin IV (Atlantic-1971)
Led Zeppelin - Physical graffiti (2 LP Swan Song-1975)
Deep Purple - In rock (Harvest-1970)
Deep Purple - Made in Japan (2 LP Purple-1972) dal vivo
Black Sabbath - Black Sabbath (Vertigo-1970)
Black Sabbath - Paranoid (Vertigo-1970)
Black Sabbath - Vol. IV (Vertigo-1972)
Gods - Genesis (Columbia-1968)
Toe Fat - Toe Fat (Parlophone-1970)
Uriah Heep - Live (2 LP Bronze-1973) dal vivo
Humble Pie - Greatest hits (Immediate-1978) ant. ‘69
Wishbone Ash - Pilgrimage (Mca-1971) un brano dal vivo
Wishbone Ash - Argus (Mca-1972)
Wishbone Ash - Live dates (2 LP Mca-1973) dal vivo
- 19 Clear Blue Sky - Clear Blue Sky (Vertigo-1970)
Leaf Hound - Growers of mushroom (Decca-1971)
Warhorse - Warhorse (Vertigo-1970)
Third World War - Third World War (Fly-1971)
SEASONS THEY CHANGE...le contaminazioni del folk inglese
- 20 Fairport Convention - Unhalfbricking (Island-1969)
Fairport Convention - Liege & lief (Island-1969)
Fairport Convention - Full house (Island-1970)
Pentangle - Sweet child (2 LP Transatlantic-1968) in parte dal vivo
Pentangle - Cruel sister (Transatlantic-1970)
Incredible String Band - The hangman’s beautiful daughter (Elektra-1968)
Incredible String Band - Seasons they change (2 LP Island-1976) ant. ‘66 - ‘74
- 21 Strawbs - From the witchwood (A & M-1971)
Strawbs - Grave new world (A & M-1972)
Fotheringay - Fotheringay (Island-1970)
Sandy Denny - The north star grassman and the ravens (Island-1971)
Steeleye Span - Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again (Pegasus-1971)
Steeleye Span - Below the salt (Chrysalis-1972)
Horslips - Happy to meet sorry to part (Oats-1973)
- 22 Forest - Forest (Harvest-1969)
Forest - Full circle (Harvest-1970)
Trees - The garden of Jane Delawney (Cbs-1970)
Trees - On the shore (Cbs-1970)
Dr. Strangely Strange - Heavy petting (Vertigo-1970)
Dando Shaft - Dando Shaft (Neon-1971)
Mellow Candle - Swaddling songs (Deram-1972)
Gryphon - Gryphon (Transatlantic-1973)
Gryphon - Red queen to Gryphon three (Transatlantic-1974)
LE SETTIMANE ASTRALI E I GIORNI DELLA LUNA ROSA
- 23 Van Morrison - Astral weeks (Warner Bros.-1968)
Van Morrison - Moondance (Warner Bros.-1970)
Donovan - Sunshine superman (Pye-1967)
Donovan - A gift from a flower to a garden (2 LP Pye-1968)
Donovan - Donovan in concert (Pye-1968) dal vivo
Cat Stevens - Mona bone jakon (Island-1970)
- 24 Syd Barrett - The madcap laughs (Harvest-1970)
Syd Barrett - Barrett (Harvest-1970)
- 25 Jack Bruce - Harmony row (Polydor-1971)
Jack Bruce - Out of the storm (Polydor-1974)
Roy Harper - Stormcock (Harvest-1971)
Roy Harper - Lifemask (Harvest-1973)
Michael Chapman - Lived here (Cube-1977) ant. ‘68 - ‘71
Shawn Phillips - Second contribution (A & M-1971)
Kevin Coyne - Marjory razor blade (2 LP Virgin-1973)
- 26 John Martyn - Solid air (Island-1973)
John Martyn - Inside out (Island-1973)
Nick Drake - Five leaves left (Island-1969)
Nick Drake - Bryter layter (Island-1970)
Nick Drake - Pink moon (Island-1972)
ARS LONGA VITA BREVIS...la musica della casa delle bambole
- 27 Traffic - John Barleycorn must die (Island-1971)
Traffic - The low spark of high heeled boys (Island-1971)
Family - Music in a doll’s house (Reprise-1968)
Family - Family entertainment (Reprise-1969)
Family - A song for me (Reprise-1970)
Family - Anyway... (Reprise-1970) in parte dal vivo
Family - Fearless (Reprise-1971)
Jethro Tull - This was (Island-1968)
Jethro Tull - Stand up (Island-1969)
Jethro Tull - Benefit (Island-1970)
Jethro Tull - Aqualung (Chrysalis-1971)
Jethro Tull - Living in the past (2 LP Island-1972) ant. ‘68 - ‘71 in parte dal vivo
Jethro Tull - Thick as a brick (Chrysalis-1972)
- 28 Nice - The thoughts of emerlist davjack (Immediate-1968)
Nice - Ars longa vita brevis (Immediate-1968)
Nice - Nice (Immediate-1969) in parte dal vivo
Procol Harum - Procol Harum (Regal Zonophone-1968)
Moody Blues - Days of future passed (Deram-1967)
Julie Driscoll, Brian Auger & the Trinity - Streetnoise (2 LP Marmalade-1969)
Colosseum - Those who are about to die salute you (Fontana-1969)
Colosseum - Valentyne suite (Vertigo-1969)
Colosseum - Colosseum live (2 LP Bronze-1971) dal vivo
Tempest - Tempest (Bronze-1973)
Pink Floyd - Ummagumma (2 LP Harvest-1969) in parte dal vivo
Pink Floyd - Atom heart mother (Harvest-1970)
Pink Floyd - Meddle (Harvest-1971)
Pink Floyd - The dark side of the moon (Harvest-1973)
King Crimson - In the court of the Crimson King (Island-1969)
King Crimson - In the wake of Poseidon (Island-1970)
King Crimson - Lizard (Island-1970)
King Crimson - Islands (Island-1971)
- 29 Emerson, Lake & Palmer - Emerson, Lake & Palmer (Island-1970)
Emerson, Lake & Palmer - Tarkus (Island-1971)
Quatermass - Quatermass (Harvest-1970)
Rare Bird - Rare Bird (Charisma-1969)
Renaissance - Renaissance (Island-1969)
Renaissance - Live at Carnegie Hall (2 LP Btm-1976) dal vivo giugno ‘75
Yes - The Yes album (Atlantic-1971) un brano dal vivo
Yes - Fragile (Atlantic-1971)
Yes - Close to the edge (Atlantic-1972)
Gentle Giant - Gentle Giant (Vertigo-1970)
Gentle Giant - Acquiring the taste (Vertigo-1971)
Gentle Giant - Three friends (Vertigo-1972)
Genesis - Nursery cryme (Charisma-1971)
Genesis - Foxtrot (Charisma-1972)
Barclay James Harvest - Once again (Harvest-1971)
Beggar’s Opera - Pathfinder (Vertigo-1972)
Curved Air - Air conditioning (Warner Bros.-1970)
- 30 Cressida - Asylum (Vertigo-1971)
Gracious - Gracious ! (Vertigo-1970)
Czar - Czar (Fontana-1970)
Spring - Spring (Neon-1971)
- 31 Van Der Graaf Generator - The least we can do is wave to each other (Charisma-1970)
Van Der Graaf Generator - H to he, who am the only one (Charisma-1970)
Van Der Graaf Generator - Pawn hearts (Charisma-1971)
Peter Hammill - Chameleon in the shadow of the night (Charisma-1973)
Audience - The house on the hill (Charisma-1971)
Argent - Ring of hands (Cbs-1971)
Ashton, Gardner & Dyke - Ashton, Gardner & Dyke (Polydor-1969)
Hardin & York - Tomorrow today (Bell-1969)
Affinity - Affinity (Vertigo-1970)
Camel - Camel (Mca-1973)
AA.VV. - Live at Dingwall’s Dance Hall (2 LP Greasy Truckers-1973) dal vivo
Camel - Mirage (Deram-1974)
- 32 Nucleus - We’ll talk about it later (Vertigo-1971)
Mahavishnu Orchestra - Birds of fire (Cbs-1973)
Mahavishnu Orchestra - Between nothingness & eternity (Cbs-1973) dal vivo
If - If 2 (Island-1970)
LA LUNA IN GIUGNO...nella terra del grigio e del rosa
- 33 Soft Machine - Soft Machine (Probe-1968)
Soft Machine - Soft Machine volume two (Probe-1969)
Soft Machine - Third (2 LP Cbs-1970) in parte dal vivo
Soft Machine - Fourth (Cbs-1971)
Soft Machine - Fifth (Cbs-1972)
Caravan - If I could do it all over again, I’d do it all over you (Decca-1970)
Caravan - In the land of grey and pink (Deram-1971)
Caravan - Waterloo Lily (Deram-1972)
Egg - Egg (Deram-1970)
Egg - The polite force (Deram-1970)
Khan - Space shanty (Deram-1972)
Steve Hillage - Fish rising (Virgin-1975)
Hatfield and the North - Hatfield and the North (Virgin-1973)
Hatfield and the North - The rotter’s club (Virgin-1975)
- 34 Kevin Ayers - Joy of a toy (Harvest-1969)
Kevin Ayers and the Whole World - Shooting at the moon (Harvest-1970)
Kevin Ayers - Whatevershebringswesing (Harvest-1972)
Kevin Ayers, John Cale, Eno, Nico - June 1, 1974 (Island-1974) dal vivo
Daevid Allen - Banana moon (Byg-1971)
Gong - Camembert electrique (Byg-1971)
Gong - Radio Gnome invisible part 1 : Flying teapot (Virgin-1973)
Gong - Angel’s egg (Virgin-1973)
Robert Wyatt - The end of an ear (Cbs-1970)
Matching Mole - Matching Mole (Cbs-1972)
Matching Mole - Little red record (Cbs-1972)
Robert Wyatt - Rock bottom (Virgin-1974)
IL BUIO AI MARGINI DELLA CITTA’...eroi e dannati dell’Inghilterra sotterranea
- 35 Deviants - Ptooff ! (Underground Impresarios-1967)
Deviants - Disposable (Stable-1968)
Deviants - The Deviants (Transatlantic-1969)
Mick Farren - Mona ; the carnivorous circus (Transatlantic-1970)
Tomorrow - Tomorrow (Emi-1968)
Twink - Think pink (Polydor-1970)
Pink Fairies - Neverneverland (Polydor-1971)
AA.VV. - Glastonbury Fayre Festival (3 LP Revelation-1972) in parte dal vivo
Pink Fairies - What a bunch of sweeties (Polydor-1972)
Edgar Broughton Band - Wasa wasa (Harvest-1969)
Edgar Broughton Band - Sing brother sing (Harvest-1970)
Hawkwind - In search of space (United Artists-1971)
Hawkwind - Space ritual (2 LP United Artists-1973) dal vivo
Robert Calvert - Captain Lockheed and the starfighters (United Artists-1974)
- 36 Blossom Toes - We are ever so clean (Marmalade-1967)
Skip Bifferty - Skip Bifferty (Rca-1968)
July - Dandelion seeds (Major Minor-1968)
- 37 Bonzo Dog Doo/Dah Band - Gorilla (Liberty-1967)
Pete Brown & his Battered Ornaments - A meal you can shake hands with in the dark (Harvest-1969)
Battered Ornaments - Mantle piece (Harvest-1969)
Pete Brown & Piblokto - Things may come and things may go but...the art school dance goes on for ever
(Harvest-1970)
Arthur Brown - The Crazy World of Arthur Brown (Track-1968)
Man - 2 ozs of plastic (with a hole in the middle) (Dawn-1969)
Man - Be good to yourself at least once a day (United Artists-1972)
Help Yourself - Strange affair (Liberty-1972)
Andromeda - Andromeda (Rca-1969)
T2 - It’ll all work out in boomland (Decca-1970)
Blossom Toes - If only for a moment (Marmalade-1969)
Mighty Baby - Mighty Baby (Head-1969)
Mighty Baby - A jug of love (Blue Horizon-1971)
- 38 Tea & Symphony - An asylum for the musically insane (Harvest-1969)
East of Eden - Mercator projected (Deram-1969)
East of Eden - Snafu (Deram-1970)
Third Ear Band - Alchemy (Harvest-1969)
Third Ear Band - Third Ear Band
(Harvest-1970)
Jade Warrior - Released (Vertigo-1972)
Quintessence - Dive deep (Island-1970)
Clark Hutchinson - A=MH2 (Nova-1969)
Clark Hutchinson - Retribution (Nova-1970)
Comus - First utterance (Dawn-1971)
- 39 -
Velvett Fogg - Velvett Fogg (Pye-1969)
High Tide - Sea shanties (Liberty-1969)
High Tide - High Tide (Liberty-1970)
Atomic Rooster - Atomic Rooster (B & C-1970)
Atomic Rooster - Death walks behind you (B & C-1970)
Black Widow - Sacrifice (Cbs-1970)
Still Life - Still Life (Vertigo-1971)
Skin Alley - To pagham & beyond (Cbs-1970)
Gravy Train - (A ballad of) a peaceful man (Vertigo-1971)
Titus Groan - Titus Groan (Dawn-1970)
Second Hand - Death may be your Santa Claus (Mushroom-1972)
ALLA FINE DEL GIOCO...le ultime propaggini del pop progressivo
- 40 Roxy Music - Roxy Music (Island-1972)
Roxy Music - For your pleasure (Island-1973)
Eno - Here come the warm jets (Island-1973)
Eno - Taking tiger mountain (by strategy) (Island-1974)
John Cale - Paris 1919 (Reprise-1973)
- 41 King Crimson - Larks’ tongues in aspic (Island-1973)
King Crimson - Starless and Bible Black (Island-1974)
King Crimson - Red (Island-1974)
Henry Cow - The Henry Cow Legend (Virgin-1973)
Henry Cow - Unrest (Virgin-1974)
Henry Cow - Concerts (2 LP Compendium-1976) dal vivo e reg. BBC ‘75
Starring...
...Affinity / Daevid Allen / Andromeda / Animals / Argent / Ashton, Gardner & Dyke /
Atomic Rooster / Audience / Brian Auger & Trinity / Kevin Ayers / Back Door /
Bakerloo / Barclay James Harvest / Syd Barrett / Battered Ornaments / Beatles / Jeff
Beck Group / Beggar’s Opera / Black Cat Bones / Black Sabbath / Black Widow / Blind
Faith / Blodwyn Pig / Blossom Toes / Graham Bond Organization / Bonzo Dog Doo Dah
Band / David Bowie / Edgar Broughton Band / Arthur Brown / Jack Bruce / Eric
Burdon & the Animals / Eric Burdon Band / John Cale / Robert Calvert / Camel /
Caravan / Michael Chapman / Chicken Shack / Clark Hutchinson / Clear Blue Sky / Joe
Cocker / Colosseum / Comus / Kevin Coyne / Cream / Creation / Cressida / Curved
Air / Czar / Dando Shaft / Spencer Davis Group / Deep Purple / Sandy Denny /
Deviants / Donovan / Dr. Strangely Strange / Nick Drake / Aynsley Dunbar Retaliation
/ East Of Eden / Egg / Emerson, Lake & Palmer / Brian Eno / Fairport Convention /
Family / Mick Farren / Fire / Fleetwood Mac / Forest / Fotheringay / Free / Genesis
/ Gentle Giant / Gods / Gong / Gracious / Gravy Train / Peter Green / Groundhogs /
Gryphon / Peter Hammill / Hardin & York / Roy Harper / Keef Hartley Band /
Hatfield and the North / Hawkwind / Help Yourself / Jimi Hendrix Experience / Henry
Cow / High Tide / Steve Hillage / Horslips / Humble Pie / If / Incredible String Band
/ Jade Warrior / Jethro Tull / Juicy Lucy / July / Khan / Killing Floor / King Crimson
/ Kinks / Leaf Hound / Led Zeppelin / Man / Mahavishnu Orchestra / Mark Almond /
John Martyn / Matching Mole / May Blitz / John Mayall and the Bluesbreakers / Mellow
Candle / Mighty Baby / Misunderstood / Moody Blues / Van Morrison / Mott The
Hoople / N.S.U. / Nice / Nucleus / Patto / Pentangle / Shawn Phillips / Piblokto /
Pink Fairies / Pink Floyd / Pretty Things / Procol Harum / Quatermass / Quintessence
/ Rare Bird / Terry Reid / Renaissance / Rolling Stones / Roxy Music / Savoy Brown /
Second Hand / Sharks / Skin Alley / Skip Bifferty / Small Faces / Soft Machine /
Spooky Tooth / Spring / Steamhammer / Steeleye Span / Cat Stevens / Still Life /
Strawbs / T 2 / Taste / Tea & Symphony / Tempest / Ten Years After / Them / Third
Ear Band / Third World War / Thunderclap Newman / Titus Groan / Toe Fat /
Tomorrow / Traffic / Trees / Twink / Uriah Heep / Van Der Graaf Generator / Velvett
Fogg / Warhorse / Who / Wishbone Ash / Robert Wyatt / Yardbirds / Yes....
Elenco delle abbreviazioni
Ant.
(Antologia)
Ar.
(Armonica)
Bj.
(Banjo)
Bs.
(Basso)
Bt.
(Batteria)
Cb.
(Contrabbasso)
Ch.
(Chitarra)
Cl. (Clarinetto)
Cv.
(Clavicembalo)
Du.
(Dulcimer)
Fl.
(Flauto)
Me.
(Mellotron)
Mn.
(Mandolino)
Ob.
(Oboe)
Or.
(Organo)
Pn.
(Piano)
Pr.
(Percussioni)
Prod.
(Produzione)
Reg.
(Registrazione)
Sax.
(Sassofono)
Se.
(Strumenti elettronici)
Sf.
(Strumenti a fiato)
Si.
(Sitar)
Sn.
(Sintetizzatore)
Tm.
(Trombone)
Tr.
(Tromba)
Ts.
(Tastiere)
V.
(Voce)
Vb.
(Vibrafono)
Vc.
(Violoncello)
Vi.
(Violino)
Vl.
(Viola)