ALLA FINE DEL GIOCO Introduzione all’ascolto della musica progressiva inglese (1965 - 1974) Introduzione Polvere nidi di rondine e arbusti strappati sta soffiando un gelido vento dal nord questa notte copre le grida disperate di bocche impastate di terra scalfisce le guance entra dal collo e dagli occhi e non esce più per Nick Drake (19.6.1948 / 25.11.1974) AT LAST I’M FREE Ad un certo punto pensavo di non riuscire più a finirlo. Quello che all’inizio sembrava un gioco divertente, un passatempo inebriante, giorno dopo giorno diventava sempre più un’ossessione, un lavoro, un obbligo (verso me stesso). Tanto da non riuscire a capire il perché, in quel preciso momento, di dover ascoltare due o tre volte di fila In the court of the Crimson King o Third dei Soft Machine quando il pensiero e la voglia correvano frenetici sui Doors o, che so, su La mela di Odessa degli Area. E mia figlia a supplicare di ascoltare la Tina, Edoardo e Foxy lady con sul piatto Sysyphus da Ummagumma. Alla fine l'ho fatto. Dopo oltre un anno di errori e ripensamenti, dopo una ricerca infinita (e ancora incompleta) una cosa mi è parsa chiara : è impossibile scrivere di musica, o meglio, è tremendamente difficile spiegare con il “ruvido” materialismo dei vocaboli le mille sensazioni, le emozioni a 360 gradi che la musica è capace di generare. Mi tornano in mente le considerazioni di Glen Sweeney incluse nelle note di copertina di Alchemy, il primo album della Third Ear Band, che ammoniscono sull’inadeguatezza delle parole nel descrivere gli elementi portanti della musica del gruppo. Comunque, scrivere di musica è necessario, comunicare agli altri la propria esperienza d'ascoltatore (attivo ?), e se solo fossi riuscito a riversare nelle mie considerazioni il 10 % di ciò che provo quando ascolto, allora potrei considerare riuscito il lavoro svolto. E il bello è che nessuno lo può dimostrare, perché la musica non solo “vibra nelle ossa ed entra nella pelle” ma s'insinua, spesso in modo subdolo, nei reconditi e impenetrabili ingranaggi che regolano il funzionamento del sentimento e dell’emozione. Non è certo un capolavoro questo libro, ma mi piacerebbe fosse considerato un lavoro onesto, come l’opera della media dei musicisti che vi sono citati e dal momento che sono testardo credo che ci riproverò, ancora tenterò di dar forma a qualche progetto che mi passa in zucca perché la musica è vita e la vita, tutto sommato, è bella. Un grazie di cuore, per la sopportazione, a Maura e Alice. Nota introduttiva Intanto è utile trovarsi d’accordo sul significato del termine “musica progressiva”, oppure può anche non verificarsi conformità di opinioni ma una definizione a rigor di termine musicale appare necessaria. Di norma si tende a considerare “progressivi” complessi o singoli musicisti (e le loro proposte sonore) appartenenti al fenomeno del rock romantico e sinfonico, quello che prende le mosse dal neoclassicismo dei Beatles per giungere (attraverso una precisa fase evolutiva) a formazioni quali Genesis, Yes, E L & P e simili. “L’arte non è uno specchio - è un martello”, è il principio generale sentenziato da John Grierson sulla copertina di In praise of learning degli Henry Cow. Facendo interagire queste parole con il concetto di “musica progressiva”, potremmo considerare lo specchio come edonistica e immobile riflessione di un’immagine sonora prestabilita mentre il martello, in quanto umile strumento di lavoro, risulterebbe utile per l’esecuzione di piccole modifiche strutturali, necessario al divenire faticoso delle note sul pentagramma. Se il significato del termine “progressivo” sta per qualcosa che tende a progredire, che procede lentamente e continuamente in senso evolutivo, allora qualcuno deve spiegare perché (a puro e semplice esempio) vanno considerati progressivi i Genesis e non gruppi quali Who o Led Zeppelin, sicuramente più importanti e decisivi sotto questo aspetto. Si tratta, chiaramente, di uno dei tanti luoghi comuni del rock, dell’esigenza di etichettare, catalogare, di rendere commerciabile un prodotto musicale. Credo che gli artisti che hanno contribuito allo sviluppo della musica inglese, che hanno lavorato “in progressione”, rappresentino una ben più vasta platea d’interesse. Non tutti (anzi, quasi nessuno) hanno sviluppato interamente la carriera alla continua ricerca di un accrescimento creativo della forma musicale (e l’esempio eclatante viene proprio dall’ambito romantico-sinfonico) ; l’attitudine progressiva di molti va rintracciata in una parte dell’attività, a volte in un singolo episodio. E’ quindi obbligatorio calarsi nella complessità della musica rock inglese (o meglio britannica, perché di questa si disquisisce) e non tragga in inganno la grande quantità di nomi citati : questa non vuole essere, e non è, una storia del rock inglese, ma solo il resoconto del suo aspetto progressivo. Non c’è tutto, non è un’enciclopedia. Nemmeno mi piace chiamarla guida, sa troppo di itinerari predisposti e comandati. Una “traccia introduttiva all’ascolto della musica progressiva inglese” mi pare possa cogliere il senso di queste righe, sufficientemente articolata, strumento utile a stimolare l’approccio (o un sempre vantaggioso ricordo) verso un mondo musicale estinto ma ancora in grado di trasmettere emozioni, di offrire input basilari alle nuove generazioni di appassionati. Come già accennato, qui si parla di musica britannica e non mancano le inevitabili eccezioni. Lo sappiamo tutti, ad esempio, che Jimi Hendrix è nato a Seattle e ha girato gli Stati Uniti in lungo e in largo per anni prima di essere casualmente “scoperto” da Chas Chandler. Non si può però dissentire sul fatto che l’Experience vada considerata una formazione inglese, non tanto per la presenza di Redding e Mitchell (che da soli...), quanto per la precisa collocazione storico - musicale e geografica che interessa il complesso nella parte iniziale della carriera. Chi può ragionevolmente affermare che Hendrix sarebbe divenuto lo stesso musicista di successo mondiale, punto di riferimento essenziale per lo sviluppo della chitarra rock, che avrebbe suonato la stessa musica e pubblicato un disco come Are you experienced ? se non avesse seguito il consiglio di Chandler di recarsi in quella Londra piena di fermento, nel settembre del 1966 ? Si tratta di un preciso periodo storico : 1965 / 1974. Ovviamente tale lasso di tempo non deve essere considerato come una sorta di esercizio provvisorio del rock, che inizia al primo di gennaio del ’65 e termina il 31 dicembre 1974. Più semplicemente si intende il 1965 come l’anno nel quale si vengono a concretizzare in modo compiuto le prime forme complesse di musica rock e il 1974 rappresenta una possibile, ideale chiusura di un decennio musicale irripetibile, la fine di un movimento che arranca in preda ad una irreversibile decadenza creativa, del quale l’avvento del punk rock farà sommaria giustizia. All’ordine alfabetico dei nomi ho preferito una trattazione per capitoli e (per quanto possibile) per “categorie omogenee”, con la presenza di un sommario discografico che non vuole arrogarsi la pretesa dell’infallibilità ma certamente costituisce una corposa base di partenza (con gli oltre 300 titoli consigliati) per chi vuole entrare in contatto con la parte migliore del rock britannico. Molti degli album citati sono oggi delle vere e proprie rarità reperibili, nell’originale versione in vinile, esclusivamente nei vari mercatini dell’usato e dei dischi da collezione, a prezzi spesso proibitivi. E’ in ogni caso possibile, con un po’ di ricerca (e di fortuna, elemento sempre necessario per fruire di musica in Italia), riuscire ad ascoltare il prezioso contenuto di questi lavori rivolgendosi al settore delle ristampe. Tra le principali etichette specializzate in riedizioni di vecchio e, a volte, dimenticato materiale si possono segnalare Edsel, B.G.O., See for Miles, Repertoire che da qualche anno a questa parte pubblicano quasi esclusivamente nel formato CD. Certo, gli originali odorano (o puzzano) di storia ma ciò che veramente importa, alla fine, è l’approccio alla bellezza, alla poesia, alla vitalità, alle emozioni che questa musica è ancora capace di comunicare. A New Day Rising dal beat alla musica progressiva Nella storia della musica, in realtà, una nuova alba non è mai esistita. Il concetto di invenzione, di creazione dal nulla in questa materia appare fuori luogo ; dopo tanti eventi a sensazione dobbiamo allenarci a ragionare nell’ottica del divenire, ad esaminare i piccoli e grandi cambiamenti progressivi che traggono il loro valore aggiunto dal preesistente con l’ausilio di figure di rilievo e di oscuri praticanti, di luminari e di imbonitori, tra grandi gioie e sconfinate delusioni. E non può essere altrimenti se è esatto, come sosteneva Jacques Attali, che “il mondo non si guarda, si ode - non si legge, si ascolta”, se è vero che la musica non è la colonna sonora della nostra vita ma è il fluire dell’esistenza stessa. A maggior ragione l’opinione pare valida per la musica rock, tipica espressione di sintesi sonora, di fusione tra stili diversi riannodati su nuove metriche : a volte si tratta di prospettive inedite, in altri casi di sfumature. Verso la metà degli anni Cinquanta i maggiori musicisti americani di rock’n’roll (Elvis Presley, Bill Haley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Little Richard, Chuck Berry ...) iniziano ad ottenere grande successo nelle classifiche di vendita inglesi e di riflesso nascono i primi cantanti indigeni del genere. I vari Cliff Richard, che si fa accompagnare da un gruppo chiamato Shadows, Lonnie Donegan e simili non fanno comunque molto per tentare di mascherare quella che si configura come una fase di chiara importazione culturale per la musica inglese. Il loro successo commerciale risulta oltremodo importante per convincere una moltitudine di aspiranti giovani musicisti a prendere in mano gli strumenti e confrontarsi con i suoni che provengono da oltre oceano. Lo sviluppo dal rock’n’roll alle prime forme compiute di linguaggio rock avviene nella parte iniziale degli anni Sessanta seguendo due principali direttrici : il beat melodico e il blues revival. -1Il beat è una forma musicale direttamente derivata dal rock’n’roll degli anni ’50, con una forte componente ritmico - melodica e un approccio piuttosto commerciale, anche come genere da ballo. Nei primi tempi, il fulcro della musica beat si localizza nella zona del Lancashire, in particolare nelle città di Liverpool e di Manchester, dove assume la denominazione di Mersey Sound. Da Manchester provengono gli Hollies di Graham Nash, dalla rigogliosa scena di Liverpool gruppi quali Searchers, Gerry and the Peacemakers, Merseybeats, Big Three. In questo contesto l’unica formazione che nel tempo riesce a sviluppare in modo significativo, e con clamore irripetibile, le coordinate sonore di base della propria musica è quella dei Beatles. John Lennon, Paul McCartney e George Harrison iniziano nel 1956 in una formazione denominata Quarrymen e agli albori del nuovo decennio sono ancora insieme nei Silver Beatles, che comprendono anche Stuart Suttcliffe (morirà nell’aprile ’62 a causa di un’emorragia cerebrale) e il batterista Pete Best. Nell’autunno 1961 incontrano Brian Epstein, che si propone come manager e riesce a procurare al gruppo l’occasione di un provino per la Decca, effettuato il primo gennaio del 1962. I responsabili della casa discografica commettono il grave errore di non credere alle potenzialità del quartetto di Liverpool, che riscuote maggior fortuna presso l’etichetta Parlophone (del gruppo Emi) : qui lavora George Martin che diventa il produttore dei Beatles. L’ultimo avvicendamento in formazione riguarda il ruolo di batterista coperto da Ringo Starr, a seguito dell’allontanamento di Best. Il 5 ottobre 1962 viene pubblicato il primo 45 giri Love me do che ottiene un buon successo entrando nei top 20 e i singoli del 1963 impongono i Beatles ai vertici delle classifiche inglesi. In questa fase, la loro musica si basa su un serrato incrocio ritmico di rock’n’roll e twist, con arrangiamenti semplici ed esaltanti armonie vocali tesi a generare un impatto estremamente coinvolgente. Fondamentale è l’affermazione come compositori della coppia Lennon / McCartney, che sin dalle prime uscite impone pezzi di propria produzione in un periodo nel quale è prassi diffusa affidarsi alla rielaborazione di brani importati dagli Stati Uniti. Canzoni come She loves you e I want to hold your hand marchiano indelebilmente lo stile dei Beatles, che all’inizio del 1964 conquistano anche il mercato americano piazzando la bellezza di cinque singoli e due album ai primi posti delle relative classifiche. Questo straordinario risultato commerciale rappresenta il primo passo verso una decisa inversione di tendenza nel rapporto tra musica rock inglese e americana : ora l’Inghilterra, sullo stimolo del fenomeno Beatles, esporta la propria musica negli States (e nel resto del mondo) e di conseguenza i musicisti americani devono iniziare a tenere conto di ciò che accade in terra inglese. Nonostante tutto non si può certo affermare che i Beatles, fino a questo momento, abbiano inventato chissà quali sconvolgenti novità in ambito musicale ; il loro sconfinato successo è in gran parte determinato dall’abilità nel sapersi proporre ed atteggiare in modo nuovo e anticonformista nei confronti dell’industria discografica e del music business. Questo è il periodo delle grandi tournée in giro per il mondo che contribuiscono a rafforzare ulteriormente la loro popolarità (nel giugno del 1965 visitano anche l’Italia, tenendo una serie di concerti a Milano, Genova e Roma). Nell’ottobre 1964 i Beatles registrano I feel fine, il singolo natalizio di quell’anno, che presenta alcune novità rispetto alla precedente produzione. Si tratta ancora di particolari, in ogni caso nell’introduzione del brano viene volutamente inserito un feedback di chitarra (prendendo spunto dagli Yardbirds che per primi sperimentano questa possibilità) e la canzone possiede un incedere caracollante che ricorda certe cose dei “rivali” Rolling Stones, con un lavoro di chitarra un po’ più complesso del solito. Anche sul fronte degli album si assiste ad un'evoluzione che offre i primi frutti importanti con il sesto disco a 33 giri Rubber soul (Parlophone), pubblicato alla fine del 1965. Nella ballata di Norwegian wood George Harrison introduce il sitar per la prima volta in un pezzo pop, relegandolo però ad un ruolo di caratterizzazione timbrica (meglio sapranno fare gli Stones con Paint it, black l’anno successivo). The word appare come uno dei brani più originali prodotti dai Beatles fino a questo momento, con superbe armonie vocali che presentano vaghi accenti jazz e gospel, mentre In my life è una raffinata ballata che sorprende per un inatteso intermezzo neoclassico di George Martin al piano. In contemporanea con la pubblicazione di Rubber soul viene immesso sul mercato un singolo con Day tripper, un ordinato rhythm & blues avvalorato da un classico riff di chitarra, e con We can work it out, dalla bella linea melodica decadente. Con il nuovo anno inizia per i Beatles una seconda fase della propria carriera ; il gruppo avverte l’esigenza di proporsi in modo più ambizioso rispetto ai contenuti musicali e preferisce dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla ricerca sulle tecniche di registrazione, abbandonando definitivamente l’incessante attività concertistica nell’agosto ’66. Nonostante lo sforzo profuso e la pubblicazione tra il ’66 e il ’67 dei loro lavori maggiormente significativi Lennon, McCartney e compagni perdono gradualmente l’unità d’intenti e paradossalmente si vedono sfuggire di mano la leadership della scena rock, oramai in grado di evolvere autonomamente verso obiettivi di notevole creatività. BEATLES - REVOLVER (Parlophone - 1966) Nel giugno 1966 viene commercializzato il 45 giri Paperback writer, e ancor più dell’ottimo rock scorrevole ed immediato del lato A colpisce il retro Rain che anticipa le atmosfere del successivo album Revolver, facendo largo uso di nastri manipolati. Revolver, pubblicato nell’agosto ’66, è il disco più innovativo dell’intera produzione dei Beatles ; l’album rappresenta una decisa svolta verso un approccio creativo radicale e l’acquisita confidenza con le tecniche di registrazione permette, in particolare a Lennon, di sperimentare sonorità originali ed in parte inedite. L’apertura è riservata ad una sequenza di tre brani disposti in netto contrasto stilistico, quasi a voler affermare in modo provocatorio le capacità dei musicisti nell’affrontare generi musicali all’apparenza antitetici tra loro. Così Taxman è un rock spigoloso che evidenzia dure linee di chitarra, Eleanor rigby propone un’atmosfera di musica da camera (per ottetto d’archi e voce solista di McCartney), Love you to possiede un intenso sapore orientale con Harrison che al sitar mostra progressi rispetto all’esperienza di Norwegian wood. Molto coinvolgente è il rock melodico di She said - she said, sostenuto da un mix di chitarre multicolori; interessanti anche l’atipica ballata di For no one e I want to tell you, condotta dalla nitida e suadente sei corde di Harrison in contrasto con un obliquo trattamento pianistico. Il resto del disco si conferma su buoni livelli, e persino una canzoncina come Yellow submarine viene contornata di rumori ed effetti di ogni tipo. Il capolavoro dell’album è la conclusiva Tomorrow never knows, primo convinto tributo di Lennon e McCartney alla montante cultura psichedelica. Dopo una breve introduzione di sitar il brano decolla improvvisamente pervaso da strane sensazioni, con suoni che schizzano in ogni direzione sospinti da un’oscura forza centrifuga, aggrappati al ritmo martellante ed ipnotico della batteria, all’indifferenza della litania intonata da John Lennon, il tutto a creare uno stordente effetto di stratificazione sonora. Tomorrow never knows rappresenta uno dei vertici della creatività dei Beatles e prepara il terreno per la realizzazione, nei mesi successivi, della notevole Strawberry fields forever e del celebrato Sgt. Pepper. -2Se il genere del beat melodico trova i principali punti di riferimento geografici nell’ambito della provincia inglese, il fenomeno del blues revival si sviluppa essenzialmente a Londra. Tra i personaggi più influenti, vero promotore della diffusione del blues e del rhythm & blues in Inghilterra, va annoverato Alexis Korner che già a metà degli anni ’50 apre il London Blues and Barrelhouse Club e all’inizio dei Sessanta l’Ealing Club, aiutato da Cyril Davies, altra significativa figura dell’epoca. Nel 1961 Korner crea la sua prima formazione, Blues Incorporated, una sorta di nucleo aperto alla generazione di giovani musicisti inglesi, vogliosi di confrontarsi con il suono proveniente dall’America. In questa formazione muovono i primi passi personaggi del calibro di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richard, Charlie Watts (i Rolling Stones !), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Dave Holland e Mike Westbrook. I Blues Incorporated continuano nella loro meritoria opera divulgatrice fino al 1967, quindi Korner prosegue una rigorosa e poco remunerativa carriera con altre creature come Free at Last, New Church, Collective Consciousness Society, Snape, collaborando spesso con musicisti di prestigio fino alla morte nel 1985. All’inizio degli anni Sessanta Mick Jagger e Keith Richard muovono i primi passi nell’ambiente musicale suonando in un gruppetto studentesco chiamato Little Boy Blue & the Blue Boys nel quale è presente anche Dick Taylor, futuro fondatore dei Pretty Things. I Blue Boys entrano nel giro dell’Ealing Club di Alexis Korner dove conoscono il chitarrista Brian Jones e il pianista Ian Stewart ; dal luglio 1962 il gruppo inizia ad esibirsi con regolarità e nel gennaio successivo cambia nome in Rolling Stones, dopo l’ingresso in organico di Charlie Watts (dai Blues Incorporated) e di Bill Wyman (dai Cliftons). Il primo ad accorgersi del potenziale della nuova formazione è Giorgio Gomelsky, ma dopo pochi mesi gli subentra come manager Andrew Loog-Oldham che decide di orientare la carriera dei Rolling Stones ad un antagonismo musicale e d’immagine nei confronti dei Beatles. A farne le spese è Ian Stewart, ritenuto non consono all’aspetto trasandato ed aggressivo del complesso, che viene estromesso dalla formazione pur rimanendo in qualità di collaboratore esterno. Nel giugno del ’63 i Rolling Stones pubblicano il primo singolo Come on, un brano scritto da Chuck Berry, e proprio l’utilizzo sistematico di canzoni rock’n’roll e blues importate dagli U.S.A. caratterizza tutte le uscite discografiche iniziali. Così è per Not fade away (un brano di Buddy Holly), per It’s all over now (di Bobby Womack, che nel giugno 1964 li porta per la prima volta in testa alla classifica di vendita inglese), per Little red rooster (di Willie Dixon), per la quasi totalità dei brani inclusi nei tre album di inizio carriera. Nonostante l’assenza di materiale originale, a differenza dei Beatles che da subito interpretano prevalentemente canzoni proprie, il successo è notevole e i Rolling Stones s’impongono rapidamente come il gruppo inglese di maggior fortuna tra quelli dediti ad una musica che trae le radici dal rock’n’roll e dal blues più robusto ed immediato. Con i successivi singoli, la bella The last time e soprattutto la potente Get off of my cloud, la coppia Jagger / Richard inizia a comporre canzoni originali e sempre più personali. Nel 1965, con (I can’t get no) Satisfaction gli Stones s’impongono anche sul mercato americano : Satisfaction è sostanzialmente un R & B ritmato e ossessivo, caratterizzato da un memorabile riff ipnotico di chitarra, che tormenta per tutta la durata del brano, e da un Mick Jagger più ruffiano e arrogante che mai. Nell’aprile 1966 Paint it, black fa ancora meglio : pur non essendo in grado di tentare un approccio tradizionale allo strumento, Brian Jones riesce a disegnare con il sitar un’originale cadenza di danza orientale, sostenuta da una ritmica serrata e contrapposta ripetutamente al rock’n’roll del ritornello. La voce di Jagger appare tenebrosa e contribuisce ad accrescere il senso di mistero che aleggia sul brano. La pubblicazione di Paint it, black è contemporanea a quella del quarto LP Aftermath, ma la canzone non viene compresa nell’edizione inglese dell’album, bensì in quella americana del giugno dello stesso anno. ROLLING STONES - AFTERMATH (Decca - 1966) Quando nella primavera del 1966 viene edito Aftermath i Rolling Stones sono ai vertici della popolarità e il disco rappresenta un importante punto di arrivo. Il materiale è interamente composto da Jagger e Richard e la musica fissa in modo irreversibile le coordinate del suono del complesso. Il momento di maggior emozione del disco è la sequenza Lady Jane - Under my thumb. La dolce Lady Jane si mostra con una delicata melodia, impreziosita dalle rifiniture barocche operate da Brian Jones che inserisce dulcimer e clavicembalo. Under my thumb appare come la logica evoluzione di Satisfaction proponendo un moderno rhythm & blues, più moderato sotto l’aspetto ritmico, con un azzeccato contrasto tra la spigolosa chitarra di Richard e le marimbas di Jones che formano un sinuoso tappeto sonoro, ideale per le evoluzioni di Jagger. Tutto l’album si conferma ad alto livello con una bella varietà di temi che spaziano dall’iniziale, scarna e sarcastica, ballata di Mothers little helper alle aggressive ed accattivanti Stupid girl e Think, dalla celebre Out of time (nello stesso anno grande successo per Chris Farlowe) ai tipici esempi di Stones sound nelle sguaiate Flight 505 e It’s not easy. Non mancano brani d’impostazione blues quali Doncha bother me, la stuzzicante High and dry e l’estenuante Goin’ home, che con i suoi undici minuti di improvvisazione blues ha il merito di uscire dai collaudati e oramai costringenti schemi del classico pezzo da classifica. Gli Animals presentano notevoli affinità con i Rolling Stones ; anche loro si riferiscono sostanzialmente alle stesse matrici R’n’R e blues e, come nei primi tempi per Jagger e compagni, fanno largo uso di cover di autori americani, evidenziando una modesta attività di scrittura originale. Riescono ad emergere grazie alle doti vocali di Eric Burdon e alla presenza dell’organo di Alan Price che personalizza brillantemente i loro brani. Il gruppo, nato nel 1962 a Newcastle come Alan Price Combo e poi trasformatosi in Animals, è guidato da Eric Burdon (v.) e, oltre a Price (ts.), comprende Hilton Valentine (ch.), Chas Chandler (bs.) e John Steele (bt.) ; l’esordio discografico, sotto la produzione di Mickie Most, avviene con la pubblicazione del singolo Baby let me take you home nel maggio 1964. Il disco riscuote discreto successo ma è con il successivo 45 giri che gli Animals raggiungono la vetta delle classifiche sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. House of the rising sun (giugno ’64) è un brano tradizionale che Bob Dylan aveva inciso per il suo album d’esordio un paio di anni prima e gli Animals ne ricavano un arrangiamento classico, denso di drammaticità, al quale contribuiscono in modo decisivo il lirico organo di Price, l’efficace arpeggio di chitarra di Valentine e il tono grave della voce di Burdon, realizzando di fatto uno dei primissimi esempi di folk rock. La produzione degli Animals è intensa: entro la fine dell’anno il gruppo pubblica altri due singoli, il primo dei quali (la dinamica I’m crying) porta la firma di Burdon e Price, e nel 1965 infila una serie di brani di successo improntati al rhythm & blues. Don’t let me be misunderstood ( un brano di Nina Simone) e Bring it on home to me (di Sam Cooke) sono due buone versioni, mentre le successive We’ve gotta get out of this place (luglio ’65) e It’s my life (ottobre ’65) vanno annoverate tra le più belle canzoni del periodo, esaltate da un superlativo Eric Burdon che esprime performance vocali originali e coinvolgenti, dimostrando di essere uno dei migliori cantanti dell’epoca. Gli album Animals (Columbia-1964) e Animals tracks (Columbia-1965) si basano principalmente sui brani già editi a 45 giri e presentano, in ossequio ad una deprecabile moda in auge a quei tempi, selezioni diverse tra le edizioni inglesi e americane. I primi segni di cedimento del gruppo si avvertono quando Alan Price abbandona per intraprendere la carriera solista, seguito a breve distanza da John Steele : i sostituti sono Dave Rowberry, proveniente dai Mike Cotton Sound, e Barry Jenkins che aveva suonato con i Nashville Teens. Dopo la pubblicazione dell’album Animalisms (Decca-1966) Eric Burdon decide di lasciare gli Animals, decretandone, di fatto, lo scioglimento nell’estate 1966. Tornerà alla fine dell’anno con una nuova versione del gruppo su basi sonore decisamente diverse. Per quanto riguarda gli altri componenti curioso è il destino di Chas Chandler che nel luglio ’66, in occasione dell’ultimo tour americano degli Animals, “scopre” Jimi Hendrix e ne diventa manager e produttore : in seguito sarà anche il produttore dei controversi Slade. Nonostante il buon riscontro di vendite e l’indiscutibile qualità delle loro canzoni, i Them risultano meno decisivi per l’evoluzione del blues revival inglese rispetto a gruppi come Rolling Stones, Animals e Yardbirds. L’irlandese Van Morrison agli albori dei Sessanta canta e suona il sassofono nei Monarchs, un piccolo complesso di Belfast che riesce a pubblicare un solo 45 giri. Verso la fine del 1963 il cantante decide di approntare un gruppo più ambizioso che comprende alcuni strumentisti locali ; in realtà la formazione si mostra estremamente instabile e subisce nel tempo un continuo ricambio di musicisti, tra i quali vanno ricordati i fratelli Jackie (ts.) e Patrick (bt.) McAuley, Alan Henderson (bs.), Jim Armstrong (ch.), Ray Elliott (ts.), David Harvey (bt.) e Peter Bardens (ts. - nel 1965 solo per breve tempo). Inoltre, il fatto che in molte registrazioni i musicisti ufficiali sono sostituiti da vari sessionmen contribuisce a rendere maggiore la confusione e a rischio l’esistenza stessa del complesso. L’esordio su vinile avviene nel settembre ’64 con Don’t start crying now, ma solo alla fine dello stesso anno i Them s'impongono all’attenzione del grande pubblico con un notevole singolo che presenta sul lato principale una focosa versione del blues di Joe Williams Baby please don’t go. Sul retro viene inserita Gloria, una composizione di Morrison costruita su un’insistente trama ritmica (in teoria senza inizio né fine) pilotata dalla voce grintosa del cantante, che con il procedere dell’esecuzione determina una sorta di trance ipnotica. La canzone diventerà un classico del rock e sarà reinterpretata in innumerevoli versioni, tra le quali vanno ricordate quelle di Jimi Hendrix, dei Doors e di Patti Smith. L’ottimo risultato di vendite porta il gruppo all’inevitabile trasferimento a Londra e alla collaborazione con il produttore americano Bert Berns (famoso per essere il compositore della celeberrima Twist and shout, portata alla notorietà dagli Isley Brothers e ripresa anche dai Beatles) ; proprio una composizione di Berns (Here comes the night) procura un nuovo successo ai Them. In questo singolo e nei due LP incisi dal gruppo sono presenti numerosi sessionmen tra i quali spiccano i nomi dei futuri Led Zeppelin, Jimmy Page e John Paul Jones. Nonostante l’avversione di Morrison verso questa situazione gli album risultano interessanti. Sul primo, The angry young Them (Decca-1965), oltre a Gloria meritano di essere segnalati un altro grintoso originale di Van Morrison, Mystic eyes, e l’ottima versione di Bright lights, big city che evidenzia le peculiarità del suono essenziale e pungente del complesso. Nel successivo Them again (Decca-1966) spiccano le buone cover di I put a spell on you e di I got a woman, l’eccellente resa del R & B con accenti gospel di Turn on your love light (in U.S.A. un classico per i Grateful Dead) e soprattutto una magica rilettura di It’s all over now, baby blue di Bob Dylan, arrangiata alla maniera dei migliori Rolling Stones e valorizzata da una sofferta interpretazione di Van Morrison. Ad ogni modo la fine dei Them è prossima e viene sancita nel maggio del 1966, al termine di una sfortunata serie di concerti negli Stati Uniti. Morrison segue Berns a New York dove intraprende una proficua carriera da solista. I restanti componenti del gruppo, con il cantante Ken McDowell, si trasferiscono a loro volta in Texas dove, tra il ’68 e il ’71, pubblicano quattro album sotto la sigla Them II. Una menzione anche per i fratelli McAuley che nel 1966 formano i Belfast Gypsies, capaci di realizzare un paio di singoli e un LP prima di un rapido scioglimento. In seguito Jackie McAuley si unisce a Judy Dyble, la prima cantante dei Fairport Convention, per costituire il duo folk dei Trader Horne (discreto l’unico album Morning way, Dawn-1970). Eric Clapton è un chitarrista diciottenne innamorato del blues elettrico di Chicago quando, nel marzo 1963, inizia la sua fortunata carriera in un piccolo complesso rhythm & blues chiamato Roosters. Dopo una fugace apparizione in un’altra formazione di poche pretese (Casey Jones & the Engineers), nell’ottobre dello stesso anno Clapton entra a far parte degli emergenti Yardbirds, in sostituzione di Top Topham. Il gruppo si era costituito pochi mesi prima, per via della fusione tra Chris Dreja (ch.), Jim McCarty (bt.) e Top Topham (ch.) (provenienti dai Suburbiton R&B) con Keith Relf (v.ar.) e Paul Samwell Smith (bs.) dei Metropolis Blues Quartet. Gli Yardbirds si esibiscono regolarmente al Crawdaddy e il gestore del locale Giorgio Gomelsky diventa loro manager e produttore. Nei primi tempi la musica del gruppo è fortemente influenzata dal blues elettrico e dal R’n’R di Chuck Berry e di Bo Diddley, con la peculiarità della brillante tecnica alla chitarra di Clapton, già all’epoca considerato uno dei migliori strumentisti della scena rock. Un interessante resoconto di questo periodo è documentato dall’album Five live (Columbia-1965), registrato (in modo non proprio impeccabile) dal vivo al Marquee nel marzo 1964. Nello stesso anno vengono editi un paio di singoli, I wish you would e Goodmorning little school girl, che rimangono distanti dalle infuocate esibizioni live e vendono poco. La svolta decisiva è del marzo 1965 : gli Yardbirds sono in studio per la realizzazione del nuovo 45 giri For your love, una canzone di Graham Gouldman, un giovane compositore proveniente da Manchester (negli anni settanta sarà membro fondatore dei 10 CC). L’introduzione è affidata al clavicembalo suonato da Brian Auger e il brano possiede un originale gioco vocale, abilmente incastrato su un tappeto di liquide percussioni, con il rock’n’roll della parte centrale che si staglia prepotentemente su tutto il resto. Non c’è traccia di chitarra solista o di blues, Clapton giudica il brano troppo commerciale e addirittura preferisce abbandonare il gruppo per raggiungere i Bluesbreakers di John Mayall. In realtà For your love, oltre ad essere il primo grande successo della formazione, rappresenta un abile tentativo di ricorso alle nuove tecniche di registrazione, con l’utilizzo di strumenti e sonorità estranei alla tradizione del blues e del R’n’R ; in questo modo, gli Yardbirds si pongono in linea con i primordiali tentativi di musica progressiva che nel 1965 incominciano a manifestarsi. Eric Clapton viene ben sostituito da Jeff Beck, proveniente dai Tridents, e il gruppo insiste nella direzione intrapresa con altri due singoli composti da Gouldman, Heart full of soul e Evil hearted you, che confermano il successo di vendita anche se risultano inferiori all’illustre predecessore. Un nuovo balzo in avanti è costituito dalla bellissima Shapes of things (marzo 1966) dove il lavoro di Beck risalta in modo deciso ; l’incedere ritmico della canzone paga un evidente tributo al Bolero di Ravel e il pezzo apre la strada ad una nuova forma di blues, svincolata dalla tradizione e aperta a contaminazioni con altri stili e a soluzioni melodiche più marcate. Altri gustosi frutti della creatività del gruppo si possono rintracciare nel blues sepolcrale di Still I’m sad e nella bizzarra Over under sideways down, un rock’n’roll anfetaminico dall’atipica struttura. Nel giugno 1966 Paul Samwell Smith lascia vacante il posto di bassista che viene rilevato da Jimmy Page, un chitarrista conosciuto per il lavoro di turnista in dischi di svariati artisti. Per qualche tempo gli Yardbirds provano la formula con due chitarre soliste, ma alla fine dell’anno Beck decide di formare un proprio gruppo ; ridotti a quartetto, e con il nuovo produttore Mickie Most, affrontano la parte terminale della loro storia senza riuscire a rinverdire i fasti passati. Di fatto, nell’estate del ’68 gli Yardbirds non esistono più e, dopo un breve tour in Scandinavia con una nuova formazione denominata New Yardbirds, Jimmy Page decide decisamente di cambiare rotta mutando sigla in Led Zeppelin. Keith Relf e Jim McCarty proseguono come Together per poi fondare, nel giugno 1969, i Renaissance. Se esiste una formazione che nella parte centrale degli anni Sessanta serve da punto di riferimento per il movimento del blues revival e da trampolino di lancio per numerosi giovani musicisti, destinati ad ottenere grande fama nel firmamento del rock, questa è identificabile nei Bluesbreakers di John Mayall. E’ Alexis Korner a notare Mayall in un’oscura formazione di Manchester e a convincerlo al trasferimento a Londra. Mayall non perde tempo e all’inizio del 1963 progetta i Bluesbreakers con i quali pubblica un singolo (aprile ’64) e un LP registrato dal vivo al Klooks Kleek, Plays John Mayall (Decca-1965). Nella primavera del 1965 Mayall si può permettere il lusso di presentare una formazione comprendente l’ormai celebre Eric Clapton, appena uscito dagli Yardbirds, e completata da John McVie (bs.) e da Hughie Flint (bt.). Il quartetto resiste fino al luglio 1966, quando Clapton lascia per fondare i Cream con Jack Bruce e Ginger Baker, facendo in tempo a registrare l’album Bluesbreakers, John Mayall with Eric Clapton (Decca) con l’ausilio di una sezione fiati composta da Alan Skidmore, Johnny Almond e Dennis Healy. Si tratta di un lavoro piuttosto ortodosso, con versioni di classici blues tirati a lucido che mettono in risalto la chitarra di Clapton, lirica e potente al tempo stesso ; particolarmente brillanti risultano All your love e Steppin’ out ed è da sottolineare la presenza di alcuni pezzi di discreta fattura composti da Mayall. Alla partenza di Clapton si somma quella di Hughie Flint, che prima suona con i Free At Last di Alexis Korner e poi, alla fine del ’69, forma con Tom McGuinness i McGuinness - Flint. Mayall rifonda il gruppo con l’inserimento dell’emergente Peter Green (ch.), proveniente dagli Shotgun Express, e dell’ottimo batterista Aynsley Dunbar, ex componente dei Mojos, mentre al basso resta il fido McVie. Alla fine del 1966 i Bluesbreakers registrano A hard road, che propone un suono più moderno e grintoso : Peter Green si lascia trasportare dal fervore di The stumble ed è eccitante nella rilettura di Dust my blues, ma soprattutto offre un fondamentale contributo creativo con le notevoli The same way e The supernatural, un brano strumentale giocato sulla riuscita fusione tra la sezione ritmica piuttosto informale e la chitarra che disegna linee profonde e suggestive. Tra le composizioni di Mayall, più numerose e qualitative del solito, spiccano la title track e Another kinda love. Anche questa edizione del complesso dura pochi mesi in quanto Green, nell’estate 1967, forma i Fleetwood Mac ; Mayall ne approfitta per realizzare l’album Blues alone (Ace of Clubs1967), registrato quasi in solitudine con lo sporadico apporto di Keef Hartley (bt.). Hartley, già membro degli Artwoods, entra nei Bluesbreakers al posto del defezionario Dunbar (che nel ’68 costituisce la Retaliation) e Mayall ripone la propria fiducia nel diciottenne Mick Taylor per il ruolo di chitarrista. I brani che compongono Crusade (Decca-1967) segnano il ritorno ad un convinto rigore stilistico, dopo le sperimentazioni di A hard road. Taylor si dimostra musicista tecnicamente dotato, stilisticamente privo di sbavature e le versioni di Oh, pretty woman, My time after awhile, I can quit you baby sono di grande livello ; Crusade può essere considerato il momento di maggior fulgore del John Mayall legato alla tradizione blues. Gruppo di modesto successo ma di notevole importanza per l’originalità delle soluzioni sonore adottate, la Graham Bond Organization nasce alla fine del 1963 sulle ceneri del Graham Bond Quartet. Il leader inizia la carriera suonando il sassofono nel quintetto jazz di Don Rendell e passa all’organo nel novembre del ’62, quando entra a far parte dei Blues Incorporated. Nel 1963 Bond crea un trio con altri musicisti provenienti dal gruppo di Korner, Jack Bruce (bs.ar.v.) e Ginger Baker (bt.), che poi diventa un quartetto con il chitarrista John McLaughlin. Con l’ingresso in organico del sassofonista Dick Heckstall Smith (al posto di McLaughlin) la Graham Bond Organization s’inserisce tra i complessi più creativi ed innovativi della metà degli anni Sessanta. Il sax di Heckstall Smith, che sostituisce la chitarra elettrica nell’economia del suono, rende il blues dell’Organization diverso da quello dei gruppi maggiormente in voga all’epoca, mentre Graham Bond si afferma come uno dei capiscuola dell’organo Hammond ed è il primo ad introdurre il mellotron in ambito rock ; tra i musicisti che attingono in qualche misura al suo stile vanno ricordati Brian Auger, Keith Emerson, Vincent Crane e Dave Greenslade. A supporto dei due solisti la sezione ritmica di Bruce e Baker si propone brillante e poliedrica, nell'attesa di spiccare il volo con l’avventura Cream. Il gruppo registra in un solo giorno l’album The sound of 65 che, pur presentando qualche inevitabile imperfezione, poggia su solide basi blues e rhythm & blues con evidenti influenze jazz ed è una miniera di spunti per il nascente suono progressivo inglese. Nel 33 giri trovano spazio belle riletture (Hoochie Coochie di Willie Dixon e Got my mojo working di Muddy Waters), raffinati arrangiamenti (Baby make love to me e Spanish blues), uno scintillante esercizio per armonica (Train time che Bruce riproporrà nel repertorio dei Cream) e una notevole prestazione ai tamburi di Ginger Baker (Oh baby), da sempre affascinato dai ritmi africani e da Elvin Jones. Il brano più interessante dell’album è Wade in the water dove per la prima volta si mostra un suono d’organo in bilico tra jazz e “classica” che nel tempo farà non pochi proseliti, a cominciare dai Colosseum che terranno ben presenti le cadenze della musica dell’Organization. Sempre nel 1965 la Graham Bond Organization pubblica il secondo There’s a Bond between us (Columbia), disco che conferma gli elementi del suono del gruppo senza aggiungere novità significative. Da segnalare le belle versioni di Who’s afraid of Virginia Woolf ?, di Don’t let go e di What’d I say (Ray Charles), le valide Hear me calling your name di Bruce e Camels and elephants di Baker oltre a Walkin’ in the park, un pezzo di Bond che sarà ripreso dai Colosseum in apertura del loro disco d’esordio. Dopo la registrazione del secondo long playing Bruce e Baker abbandonano la formazione. Bruce suona con Manfred Mann e con John Mayall prima di formare i Cream (assieme a Baker e Eric Clapton), nell’estate 1966. Heckstall Smith rimane nella seconda edizione dell’Organization dove incontra il batterista Jon Hiseman ; entrambi finiscono nei Bluesbreakers di John Mayall con i quali incidono l’album Bare wires e in seguito fondano i Colosseum. Dopo il definitivo scioglimento dell’Organization, Graham Bond si trasferisce negli Stati Uniti dove collabora con musicisti come Jefferson Airplane, Buddy Miles, Dr. John e pubblica due LP nel 1968. Tornato a Londra suona con gli Airforce di Ginger Baker e progetta nuove formazioni (Initiation / Holy Magick / Magus) con altre uscite discografiche, tra cui l’album Two heads are better than one (Chapter One-1972) realizzato insieme a Pete Brown, uno dei personaggi più importanti della scena underground londinese. La parabola artistica di Bond si esaurisce tragicamente l’otto maggio 1974 alla stazione di Finsbury Park, travolto da un treno della metropolitana. Lo Spencer Davis Group è una delle tante formazioni inglesi che nei primi anni Sessanta si dedicano alla proposta di una musica fortemente derivata dal R & B ; se il gruppo riesce ad emergere dalla media il merito va attribuito in modo sostanziale alla presenza di un talento del calibro di Stevie Winwood. Il complesso nasce nell’agosto 1963 con Spencer Davis (ch.v.), Stevie Winwood (al tempo quindicenne, ts.ch.v.), suo fratello Muff (bs.), Pete York (bt.) e nei primi mesi non ottiene riscontri particolarmente favorevoli. La situazione cambia radicalmente nel novembre ’65 quando il gruppo registra Keep on running, un brano composto dal giamaicano Jackie Edwards, basato su un rhythm & blues ossessivo e maniacale, che li proietta al primo posto in classifica. Il successo viene bissato nel marzo del ’66 con un’altra composizione di Edwards (Somebody help me) costruita sulla falsariga della precedente. La musica del gruppo, in questo periodo, risulta piacevole, curata e di buon impatto, ma manca d'originalità. Ben presto Winwood comincia a dimostrare il proprio talento come strumentista, cantante e compositore, con la realizzazione di due classici del calibro di Gimme some lovin’ (novembre 1966) e I’m a man (gennaio ’67, ripresa con fortuna oltreoceano dai Chicago, sul loro LP d’esordio). Si tratta di R & B con echi gospel, dinamici ed appassionanti, che tengono conto delle nuove istanze progressive e possiedono segni distintivi in un suono d’organo particolarmente brillante e fluido e nel timbro vocale, stentoreo ma suggestivo, di Winwood. Degni di menzione anche due strumentali meno noti, quali il divertente Trampoline, con piano ed organo in evidenza, e il sorprendente Waltz for Lumumba, costruito su un folto tappeto percussivo a sostegno delle improvvisazioni all’organo di Winwood. Il gruppo pubblica tre album per l’etichetta Fontana, ma nonostante il successo e il seguito acquisiti Winwood matura l’esigenza di un salto di qualità ed abbandona nella primavera del 1967, alla ricerca di nuove, stimolanti esperienze con i Traffic. Privato della sua colonna portante lo Spencer Davis Group si disgrega : Muff Winwood diventa produttore per l’etichetta Island, mentre Davis e York reclutano l’organista Eddie Hardin e il chitarrista Ray Fenwick, proseguendo senza ottenere grandi consensi fino all’ottobre ’68 quando anche Hardin e York decidono di unire le forze in un sodalizio che frutterà alcuni interessanti lavori, tra il ’69 e il ’71. Nel 1969 Spencer Davis decreta il definitivo scioglimento della formazione. -3La metà degli anni Sessanta vede emergere i primi complessi che fanno della durezza espressiva la loro bandiera ; si tratta di formazioni che hanno caratteristiche differenti ma possiedono una comune urgenza espositiva, resa nei termini di un suono asciutto ed essenziale che in parte precorre le tematiche dell’hard rock. Kinks, Who, Pretty Things, Small Faces sono i nomi capaci d’imporsi all’attenzione di una crescente frangia di pubblico che non si accontenta più dei suoni puliti e educati del beat. La lezione dei Rolling Stones, degli Animals viene radicalizzata, il rock’n’roll e il rhythm & blues delle radici sono interiorizzati ed espulsi all’esterno, sotto forma di sintesi povera, scheletrica ed originale, dalla quale partire per nuove, imprevedibili e appassionanti avventure. I Kinks nascono alla fine del 1963, con i fratelli Ray e Dave Davies (ch.v.), Pete Quaife (bs.) e Mick Avory (bt.) e s'avvalgono della produzione di Shel Talmy, un personaggio molto noto all’epoca che lavorerà anche con Who e Creation. I primi due singoli, all’inizio del ’64, riscuotono vendite fallimentari ma nell’agosto dello stesso anno You really got me (con la presenza di Jimmy Page alla chitarra) proietta il gruppo al primo posto in Inghilterra e nella top ten U.S.A. : il suono esplode dal nulla con un durissimo riff di chitarra, ripetuto senza soluzione di continuità in un crescendo estremamente coinvolgente. In autunno, in contemporanea dell'uscita del primo LP Kinks (Pye-1964, vi partecipano Page, Jon Lord e Nicky Hopkins, in qualità di sessionmen), All day and all of the night consolida i risultati di vendita e la formula stilistica, mostrando un pizzico d’attenzione in più all’arrangiamento. Sin dall’inizio appare chiara la leadership di Ray Davies che compone tutto il materiale e rappresenta l’immagine pubblica del gruppo. Il musicista decide di allentare la tensione con Tired of waiting for you (inizio ’65), senza rinunciare ad un suono asciutto e privo di fronzoli ; anche quest'aspetto melodico della musica dei Kinks piace al pubblico e così è per altri singoli di buon successo, tra i quali va segnalato See my friends (agosto ’65), una bella composizione che tenta un timido approccio con la psichedelia più morbida. Nel confuso dedalo di pubblicazioni discografiche (singoli, EP, album originali inglesi, compilazioni per il mercato americano) spicca nell’autunno ’65 l’EP Kwyet Kinks che contiene il brano A well respected man, una ballata disincantata che introduce nel repertorio del gruppo temi ironici sui luoghi comuni e sul perbenismo della società inglese, soggetti che saranno alla base di molta della futura produzione di Ray Davies. Sul finire dell’anno il 45 giri Till the end of the day / Where have all the good times gone segna un ritorno al rock degli inizi e in particolare convince il retro, una corposa canzone dalle piacevoli linee melodiche che influenzerà certa musica “glamour” dei primi anni settanta (David Bowie). Dal vivo i Kinks si costruiscono una fama poco rassicurante, dando vita ad esibizioni infuocate che a volte sfociano in vere e proprie risse, come nel concerto al Tivoli Garden di Copenaghen. Verso la fine del ’65, Davies e compagni effettuano due tournée americane e durante la registrazione di una trasmissione televisiva causano una rissa ; per questo motivo vengono banditi dagli Stati Uniti per un periodo di quattro anni. L’episodio complica parecchio le strategie commerciali del complesso, che in ogni caso prosegue imperterrito a sfornare singoli di successo e di buon livello qualitativo. Tra i migliori 45 giri del 1966 risultano canzoni atipiche come Dedicated follower of fashion, Dead end street e Sunny afternoon, senza dimenticare l’ottimo album Face to face (Pye-1966). La musica dei Kinks evolve verso soluzioni ricercate e Ray Davies comincia a lavorare su forme complesse ed ambiziose, che troveranno realizzazione nell’ultima parte del decennio. Il nucleo dei Who inizia a configurarsi nel 1962, quando Pete Townshend e John Entwistle costituiscono i Detours ; a loro si uniscono Roger Daltrey e più avanti Keith Moon, al posto del batterista originario Doug Sanden. Nel 1964 il gruppo permuta nome in High Numbers e riesce ad incidere un singolo che non ottiene alcun riscontro. Le cose cambiano al termine dell’anno, per via dell’interessamento dei manager Kit Lambert e Chris Stamp ; la formazione si ribattezza come Who e i primi singoli, I can’t explain (gennaio ’65) e Anyway anyhow anywhere (marzo ’65, entrambi prodotti da Shel Talmy), muovono le acque anche se occorre attendere la pubblicazione di My generation, nel novembre dello stesso anno, per apprezzare in pieno lo stile esuberante e selvaggio di Townshend e compagni. WHO - MY GENERATION (Brunswick - 1965) My generation, che sale fino al secondo posto della classifica di vendita inglese, è una canzone di straordinario impatto ; mai, prima di allora, s’era ascoltato un brano così sfrontato nel suo furore strumentale. Pete Townshend esegue una rielaborazione di un pezzo di Jimmy Reed dove la chitarra tagliente, il basso martellante di Entwistle e la batteria disordinata di Moon forniscono una base ritmica ossessiva, sulla quale Daltrey espone i suoi problemi generazionali producendosi in una performance classica, imprecando e simulando una rabbiosa balbuzie. Nella parte centrale il gruppo sorprende, riservando l’abituale spazio dell’assolo di chitarra ad una vorticosa ed eccitante evoluzione del basso, mentre il convulso finale richiama il caos tipico delle esibizioni dal vivo, con gli strumenti che prendono la mano, muri di feedback e svisate tumultuose, fino all’inevitabile distruzione al termine della folle corsa. In My generation si possono riscontrare tutte le principali caratteristiche del suono dei primi Who : una sezione ritmica travolgente con la potenza e la precisione di Entwistle, con la rabbia di Keith Moon che sovverte i tradizionali canoni sull’uso della batteria nel rock - fino a quel momento anonimo strumento ritmico - scatenando sui tamburi veri e propri temporali percussivi che rendono il fraseggio immediatamente riconoscibile, e ancora l’abilità di Townshend nell’approntare un originale stile alla chitarra, sperimentando un uso sistematico del feedback. Solo un cantante dotato e sfacciato come Daltrey può riuscire a confrontarsi con siffatti compagni senza essere travolto dal suono. L’album d’esordio, che eredita il titolo dallo storico 45 giri, non è certo la classica compilation di singoli (come spesso accade all’epoca), bensì un lavoro ricco di episodi brillanti in perfetta coesione di stile, che anticipa di qualche mese i primi LP di rilievo dei Beatles (Revolver) e dei Rolling Stones (Aftermath). Registrato in poche ore di studio con l’aiuto di Nicky Hopkins al piano, il long playing comprende brani per la maggior parte composti da Townshend, oltre ad alcune cover e alla strumentale The ox, firmata a più mani. Il suono è compatto e grintoso, mantiene un compromesso tra il R & B delle origini e i canoni delle belle armonie beat (La la la lies, Much too much, A legal matter) attingendo ad alcuni classici quali I don’t mind, Please, please, please (entrambi di James Brown) e I’m a man (Bo Diddley). I frutti migliori (a parte la celebrata title track) sono il ruvido rhythm & blues iniziale di Out in the street con un deciso Daltrey, la tipica e variegata The good’s gone costruita su un’interessante struttura a sezioni, la classica armonia di The kids are alright e la conclusiva The ox, un vortice ritmico costituito da una micidiale sequenza di rullate (eseguita da Moon), sulla quale si contorce il piano di un tarantolato Hopkins e imperversa la tuonante chitarra di Townshend. Il 1966 è un anno di transizione per i Who, che terminano la collaborazione con il produttore Shel Talmy subito dopo la pubblicazione del buon singolo di Substitute. Il gruppo appare irresistibile dal vivo, con spettacoli infuocati che culminano nella parossistica distruzione degli strumenti, ma in studio non riesce a produrre canzoni memorabili, indeciso sulla direzione da intraprendere. Così, il secondo album A quick one (Reaction-1966) suona deludente, palesando una notevole frammentarietà d’intenti : il disco porta le novità di alcune composizioni di John Entwistle (la truce Boris the spider e Whiskey man), di Keith Moon (la bizzarra Cobwebs and strange e la graziosa I need you, che più d’altro evidenzia lo stile del batterista) e di Roger Daltrey (un’anonima See my way). Anche i brani di Townshend risultano meno brillanti del solito ; le eccezioni sono la potente Run run run, che riporta alle atmosfere del precedente album (come Heat wave, unica cover presente) e, solo in parte, A quick one while he’s away, embrionale tentativo del chitarrista nell’ambito dei soggetti a tema che saranno alla base dei lavori successivi. Il chitarrista Dick Taylor suona in una formazione studentesca dei primi anni sessanta chiamata Little Boy Blue & the Blue Boys : i suoi compagni sono il cantante Mick Jagger e il chitarrista Keith Richard. I Blue Boys, poco più avanti, cambiano sigla in Rolling Stones ma Taylor è già uscito e nel 1963 idea un proprio complesso, i Pretty Things, prendendo a prestito il nome da un brano di Bo Diddley. Con lui sono Phil May (v.), Brian Pendleton (ch.), John Stax (bs.), Viv Prince (bt.) e il gruppo si pone in diretto antagonismo con gli Stones, interpretando una musica ancora più sporca ed aggressiva su basi R & B e R’n’R. La struttura magra ed ossessiva delle canzoni ricorda certi aspetti delle primissime composizioni dei Kinks, ma mentre il gruppo di Ray Davies vira ben presto verso formule sonore maggiormente ricercate i Pretty Things trovano nell’immediatezza e nella semplicità espositiva la loro tipicità. Il luglio 1964 vede la pubblicazione del primo singolo Rosalyn, un pezzo grezzo e tirato che rimanda direttamente allo stile di Bo Diddley e sulla stessa impronta si assestano il successivo Don’t bring me down (ottobre ’64) e il materiale del primo album omonimo, edito alla fine dell’anno (Pretty Things, Fontana-1964). Tra le canzoni inserite sul long playing spiccano la versione di Road runner (Diddley), i blues & roll ispidi ed incalzanti di Judgement day e 13 Chester street, oltre ai rock’n’roll minimali di Big city e Pretty Things (composta da Willie Dixon e portata al successo da Bo Diddley). Meno riusciti sono i 45 giri del 1965, Honey I need e Cry to me, e nello stesso anno Viv Prince lascia il gruppo (nel 1968 suonerà con i Vamp, assieme a Mick Hutchinson e Andy Clark). Tra i batteristi che provano per ottenere il posto spicca il nome di Mitch Mitchell e per le sessions del secondo album i Pretty Things scelgono Skip Alan. Alla fine del ’65 esce Get the picture ? (Fontana) che contiene You don’t believe me, firmata da Jimmy Page, e le graffianti Buzz the jerk e Gonna find a substitute. In contemporanea con l’album viene edito uno dei loro migliori singoli, Midnight to six man, un dinamico R & B guidato da una bella melodia, brano che vede la probabile partecipazione di Nicky Hopkins al piano. Di rilievo anche il retro del singolo, Can’t stand the pain, in bilico tra il classico suono del gruppo e pacate atmosfere che accusano i primi sintomi psichedelici. Il gruppo si ripete nella primavera del 1966 con un altro 45 giri di notevole spessore : la prepotente sezione ritmica di Come see me ricorda da vicino i migliori Who e il titolo del secondo lato, L.S.D., è tra i pezzi più scarni e pungenti dell’intero repertorio. La formazione si dimostra alquanto instabile : prima della realizzazione del terzo LP Emotions (Fontana-1966) Brian Pendleton viene avvicendato da John Povey (ts.) e in seguito abbandona anche John Stax, sostituito da Wally Allen (bs.). A complicare ulteriormente la situazione arriva lo scioglimento del contratto da parte della Fontana, delusa dalla qualità non esaltante di Emotions che introduce nella musica del gruppo alcune novità poco convincenti. I Pretty Things torneranno sulla scena alla fine del 1967, con una nuova, smagliante veste di stampo psichedelico, per produrre un paio di lavori di notevole rilievo. Gli Small Faces nascono nel 1965, anno nel quale la scena musicale inglese attraversa un momento d'importante crescita che determina una sempre più convinta autonomia creativa. Il gruppo s’inserisce in questo panorama senza apportare un contributo particolarmente innovativo, cercando anzi di sfruttare formule musicali già abbondantemente affermate per ottenere importanti risultati commerciali. Quando viene pubblicato il primo singolo Watcha gonna do about it la formazione è composta da Steve Marriott (ch.v.), già con Frantics e Moments, Jimmy Winston (or., anch’egli ex Moments), Ronnie Lane (bs.v.) e Kenny Jones (bt.) ; il brano, un rhythm & blues metronomico che presenta un interessante inserto di chitarra satura di distorsione e feedback, ottiene buon successo e consente agli Small Faces di acquisire credibilità come gruppo alternativo ai Who nella scena mod londinese. Winston è già sul piede di partenza e il complesso si assesta definitivamente con il tastierista dei Boz & the Boz People, Ian McLagan. A questo punto inizia la scalata verso il successo con una lunga serie di singoli che conseguono notevoli consensi di vendita : le divertenti, ma certo non straordinarie, Sha la la la lee e Hey girl preludono ai grandi risultati commerciali di All or nothing, che mostra qualche indizio di originalità e vola in testa alla classifica di vendita. La coppia Marriott / Lane, responsabile delle composizioni, comincia ad affinare le proprie capacità ed ottiene buoni risultati con la bella melodia di Here comes the nice e soprattutto con la splendida ballata di Itchycoo park (1967), avvolta da un morbido afflato psichedelico e caratterizzata dalla sperimentazione dell’effetto phasing sulla batteria (poi ripreso da Jimi Hendrix nell’ottobre dello stesso anno per la spettacolare Bold as love). Con Tin soldier Marriott sposta l’accento su un hard melodico che sarà alla base della sua futura avventura con gli Humble Pie ; bisogna attendere sino all’estate ’68 per la realizzazione di un lavoro organico e complesso sulla distanza del long playing (Ogdens’ nut gone flake), dopo che i primi album si rivelano semplici raccolte di brani di successo, ad ulteriore conferma che gli Small Faces vanno considerati gruppo di buone qualità ma irrimediabilmente post datato, con la luminosa eccezione di Itchycoo park. -4Il 1965 è l’anno zero per la musica progressiva inglese. In quell’anno si assiste ai primi decisi tentativi di superamento dell’essenza del suono beat grazie alla pubblicazione di canzoni come (I can’t get no) Satisfaction, We’ve gotta get out of this place, It’s my life, For your love, My generation e un importante contributo alla maturazione della musica rock inglese è dato della neonata cultura psichedelica, in via di rapido sviluppo sull’impulso di un analogo fenomeno proveniente da San Francisco, California. In particolare, dal 1966 s’assiste al fiorire di numerose formazioni che si esibiscono in piccoli locali fumosi della Londra sotterranea, proponendo una musica dai toni sgargianti, con soluzioni armoniche a volte sorprendenti, assolutamente al di fuori della logica di un facile successo commerciale. I Beatles istituzionalizzano il fenomeno con quel colpo di genio che è Tomorrow never knows, mentre fra i più intriganti pionieri del nuovo verbo vanno annoverati i Creation e i Misunderstood. I Creation esordiscono nel giugno 1966, autori di una musica velata di psichedelia ed estremamente policroma, tanto che il chitarrista Eddie Phillips ha modo di affermare che il loro suono è “rosso con bagliori porpora”. Tutto inizia nel 1964 quando Kenny Pickett (v.), Eddie Phillips (ch.v.), Mike Thompson (ch.), John Dalton (bs.) e Jack Jones (bt.) formano i Mark Four : il gruppo produce quattro singoli, il terzo dei quali (Hurt me if you will, agosto ’65) inaugura il lavoro di composizione della coppia Pickett / Phillips. Dopo la dipartita di Thompson anche Dalton lascia il gruppo (per sostituire Pete Quaife nei Kinks) e le sorti del complesso passano nelle mani del manager Tony Stratton-Smith, che reperisce il nuovo bassista nella persona di Bob Garner e procura un produttore affermato come Shel Talmy (Kinks, Who). I tempi sono maturi per un deciso cambiamento di rotta : il gruppo modifica la sigla in Creation e nell’estate 1966 esce con il primo 45 giri, Making time / Try and stop me, per la Planet, l’etichetta personale di Talmy. Making time è un esordio importante, marcato da un riff aggressivo di chitarra e con una linea melodica post beat ripetutamente disturbata dalle sperimentazioni di Phillips, che ricava sonorità convulse suonando il suo strumento con l’archetto del violino (ben prima di Jimmy Page). Il retro è un brano più convenzionale, in qualche misura influenzato dallo stile dei Who. Le vendite del disco non sono eccezionali (n. 49 in classifica) ma ugualmente sufficienti a garantire un’apparizione al programma Ready Steady Go e l’interesse per i Creation aumenta, anche per merito di concerti ben congegnati, basati sull’utilizzo di spettacolari trucchi scenici. L’ottobre ’66 vede la pubblicazione di Painter man, il loro singolo più celebre, che in sostanza ricalca lo stile di Making time proponendo armonie vocali maggiormente curate ed orecchiabili, in grado di conferire alla canzone una forma meglio commerciabile nonostante la chitarra di Phillips che suona come un violoncello scordato. Sul retro trova posto Biff bang pow (con il piano di Nicky Hopkins), un brano accattivante, curiosamente situato a metà strada tra My generation e Run run run dei Who, senza possedere l’arrembante urgenza delle composizioni di Townshend. Eddie Phillips è all’apice della notorietà nel circuito rock, tanto che lo stesso Townshend gli offre un posto da secondo chitarrista nei Who. Incredibilmente Phillips rifiuta, forse illudendosi di poter emergere con il suo gruppo ma per i Creation, che sfiorano il successo senza raggiungerlo pienamente (Painter man si ferma al n. 36 della classifica), il periodo migliore è già terminato. Il complesso perde il cantante Kenny Pickett, che viene sostituito come front man da Bob Garner, e recluta il nuovo bassista Kim Gardner, proveniente dai Birds, un buon gruppo autore di quattro singoli tra il ’64 e il ’66. La rinnovata formazione pubblica, nel giugno 1967, il terzo singolo If I stay too long, una ballata piuttosto scialba, accompagnato da Nightmares che, pur essendo distante dai pezzi migliori dei Creation, risulta quantomeno gradevole. Neppure giova l’incisione di una canzone valida come How does it feel to feel, caratterizzata da un gravido e distorto suono di chitarra, e i Creation sono sempre più ignorati dal grande pubblico, ottenendo buoni riscontri esclusivamente in continente (in particolare in Germania dove vengono pubblicati due album) ; Garner lascia e anche Phillips decide di porre fine alla sua brillante e, purtroppo, anonima carriera. A ben poco valgono il ritorno di Pickett e l’arrivo alla chitarra di Ron Wood, ex compagno di Gardner nei Birds : il gruppo si scioglie definitivamente dopo un concerto londinese nel giugno 1968. Gli unici musicisti ad avere un’importante prosecuzione di carriera sono Gardner e Wood. Entrambi partecipano all’effimera formazione dei Santa Barbara Machine Head (con Jon Lord e Twink) ; quindi Gardner nel 1969 forma un trio con il tastierista Tony Ashton e il batterista Roy Dyke, mentre Wood diventa bassista nel gruppo di Jeff Beck. Se i Creation non possono essere considerati gruppo fondamentale per l’evoluzione del rock inglese, limitandosi a colorare con tinte psichedeliche concetti sonori già espressi da altri prima di loro, i Misunderstood entrano nel merito della questione, superando d’istinto i canoni consolidati del blues revival, allargando gli orizzonti ritmici e melodici delle canzoni, acrobaticamente proiettate verso inediti scenari creativi. I Misunderstood giungono a Londra nel giugno 1966, provenienti non dalla provincia inglese ma da Riverside, una piccola cittadina californiana ; curiosamente il gruppo anticipa quello che accade a Jimi Hendrix pochi mesi più tardi (con ben diverso impatto sulla scena musicale). All’inizio del 1966 il complesso viene notato da John Ravenscroft, un disc jockey inglese di passaggio da quelle parti, in occasione di un’esibizione resa per l’inaugurazione di un centro commerciale. La loro musica è un rhythm & blues duro e selvaggio, influenzato dai gruppi inglesi in voga a quei tempi e Ravenscroft, convinto dalle potenzialità dei musicisti, si offre come manager. All’epoca i Misunderstood hanno già all’attivo alcuni provini di studio e un singolo costituito da due brani blues, You don’t have to go out (Reed) e Who’s been talking (Howlin’ Wolf), per una formazione comprendente Greg Treadway (ch.), Rick Brown (v.ar.), Steve Whiting (bs.), Rick Moe (bt.) e Glenn Ross Campbell (un abile strumentista di steel guitar con precedenti esperienze in un gruppo surf). Ravenscroft riporta il gruppo in studio di registrazione e le sedute fruttano un acetato, nel quale spicca un’originale versione di I’m not talking (già nel repertorio degli Yardbirds) che lascia trasparire alcune importanti novità nello stile. Comprendendo che a Riverside il complesso non ha possibilità d’emergere, Ravenscroft riesce a convincere i musicisti a varcare l’oceano per cercare un’adeguata collocazione nell’ambito dei nuovi fermenti underground londinesi. Treadway preferisce arruolarsi in marina e viene sostituito dal giovane chitarrista inglese Tony Hill, che apporta un decisivo contributo strumentale e creativo. Fra mille difficoltà i Misunderstood riescono a registrare, per l’etichetta Fontana, sei brani (all’epoca sconvolgenti) che costituiscono l’essenza della loro concezione musicale. Children of the sun rappresenta bene l’impianto sonoro del gruppo, dominato dalle chitarre distorte, taglienti, ammalate di feedback di Hill e Campbell che producono sonorità fiammeggianti, scatti convulsi, sospensioni emozionanti. My mind presenta un incedere ritmico tribale e possente, alternato a momenti più rilassati, con le chitarre che solcano lo spazio come meteore impazzite. Una sezione ritmica senza respiro è alla base di Find a hidden door, spezzata da interventi vocali di grand'effetto, mentre I unseen è un bel blues rock ben poco ortodosso, segnato dalla steel guitar di Campbell e dall’armonica di Brown. Due brani vedono la luce sotto forma di singolo, nel dicembre 1966 : un’atipica, notevole versione della Who do you love di Bo Diddley, caratterizzata da un’originale introduzione e sostenuta da chitarre deraglianti che magicamente si stemperano in atmosfere fluttuanti ed impalpabili, e la bellissima I can take you to the sun, un’eterea canzone psichedelica che a sorpresa si chiude con il passo della ballata folk. Le cronache del tempo raccontano di poche ma memorabili esibizioni nelle quali i Misunderstood sperimentano una sorta di musica per il corpo e per la mente, basata su un approccio “spaziale” e qualcosa di quei coraggiosi propositi rimane nelle idee di giovani formazioni emergenti dall’underground (Pink Floyd ?). Nonostante un crescente, seppur modesto, interesse il gruppo è allo sbando : Rick Brown è costretto a rientrare negli Stati Uniti mentre agli altri viene revocato il permesso di soggiorno, e così termina la breve avventura di uno dei complessi più importanti per l’influenza esercitata sulla nascente scena psichedelica e progressiva inglese. Campbell torna in Inghilterra nel 1969 per portare la sua steel guitar al servizio dei discreti Juicy Lucy ; nello stesso anno, Tony Hill forma gli High Tide, una delle migliori formazioni della musica progressiva inglese. John Ravenscroft, dopo l’esperienza come manager dei Misunderstood, si ribattezza con il nome di John Peel e diviene il più apprezzato ed influente D.J. inglese, prima con trasmissioni dalle frequenze della pirata Radio London, poi come affermato conduttore a Radio One dove lancia il programma Top Gear, passaggio obbligato per i gruppi emergenti della scena progressiva. Sarà anche produttore, discografico (con l’etichetta Dandelion, dalla durata piuttosto breve) e giornalista per International Times e Sounds, proponendosi a modo suo come personaggio centrale della vita musicale inglese, ancora fino ai nostri giorni. The Turning Point diario fantastico dell'esperienza interstellare di Pepper il sergente Lo sviluppo dell’albero genealogico della musica progressiva inglese attraversa tre principali fasi evolutive. Nella prima fase assistiamo alla presa di coscienza delle proprie capacità creative da parte dei musicisti del beat e del blues revival, fino al raggiungimento, nel biennio ’65 - ’66, di un originale linguaggio espressivo che possiamo definire compiutamente rock. Una seconda fase, storicamente collocabile tra il 1967 e il 1970 - ’71, vede una massiccia proliferazione di musicisti e complessi con la conseguente ramificazione degli stili che, pur derivando per la maggior parte dalle medesime radici, si allontanano sempre più tra loro come sospinti da un’invisibile forza centrifuga. Nei Settanta, la terza fase crea l’ordine costituito della musica progressiva che lentamente, ma inesorabilmente, perde buona parte dei contenuti innovativi, propugnati negli anni precedenti da minoranze creative di musicisti. Restano il commercio fine a se stesso, gli spettacoli ricchi ed opulenti sovraccarichi di retorica, suoni pesantemente arrangiati che trovano nell’eccesso dell’elaborazione e della ricercatezza la loro povertà tematica. Restano sino a quando una nuova minoranza creativa, facendo leva su una ritrovata semplicità espressiva, ne determina bruscamente la fine nel tardo 1976, con l’esplosione del fenomeno punk. L’industria discografica, ovviamente, si adegua a queste fasi evolutive, creando al suo interno gli strumenti per esercitare il controllo delle mutevoli esigenze espresse dal mercato. Negli anni Cinquanta il mercato era sostanzialmente dominato da poche grandi case discografiche, preponderanti anche all'inizio dei Sessanta. Decca, Pye, Emi e Philips (le ultime due attive ai tempi del beat con le etichette Parlophone e Fontana) si spartivano senza troppa fatica la ricchezza esistente, in un regime di solo apparente concorrenza. La crescente diffusione di musicisti pronti ad intraprendere nuove direzioni musicali mette in difficoltà la pachidermica organizzazione delle grandi case discografiche, e così nascono le prime etichette indipendenti (la Island nel 1962, la Immediate nel 1965, la Blue Horizon nel 1967) pronte ad appropriarsi di piccole o grandi fette di mercato. Lo sviluppo di un fenomeno sociale e culturale di stampo underground determina, poi, la creazione di ulteriori strumenti alternativi per la diffusione delle proposte musicali più lontane dal concetto di “normalità”. Numerose sono le etichette che vedono la luce verso la fine degli anni Sessanta, per la maggior parte ideate da manager e produttori, spesso destinate a precoci fallimenti ; tra queste vanno ricordate la Marmalade di Giorgio Gomelsky, la Dandelion di John Peel, la Young Blood di Miki Dallon, la Nephenta di Larry Page, la minuscola e quasi mitica Stable. La reazione delle grandi compagnie non si fa attendere e si materializza nella fondazione di etichette specializzate che adottano una struttura elastica, capace di sfruttare commercialmente anche il mercato della musica progressiva. Così nascono la Harvest (Emi), la Deram (Decca), la Vertigo (Philips - Polydor), la Dawn (Pye), la Neon (della filiale inglese RCA), marchi che ben presto riportano le major alla supremazia totale, ma che quanto meno hanno il pregio di consentire a sconosciuti musicisti privi di successo l’approdo all’incisione discografica. Il 1967 è l’anno dei grandi rivolgimenti del rock inglese, marcato a fuoco dall’uragano psychoblues di Jimi Hendrix, dai ricercati equilibrismi stilistici dei Beatles, dalle vertigini allucinate dei Pink Floyd, dalla soffice e raffinata psichedelia soul folk dei Traffic. Gran parte della musica prodotta in Inghilterra negli anni successivi dovrà inevitabilmente confrontarsi con questi fondamentali insegnamenti. -5E’ il luglio 1966 quando gli Animals iniziano una serie di concerti negli Stati Uniti. Appena arrivato a New York il bassista del gruppo Chas Chandler ha modo d’assistere al Café Wha ?, un piccolo locale del Greenwich Village, all’esibizione di una sconosciuta formazione chiamata Jimmy James and the Blue Flames. Sul palco s’incrociano le chitarre del giovanissimo Randy California (poi fondatore degli Spirit) e del leader del gruppo, tale James Marshall Hendrix da Seattle che, suonando il proprio strumento in modo inconsueto ed utilizzando alcuni strani trucchi scenici, colpisce immediatamente l’attenzione di Chandler, il quale si convince che nel panorama del dopo beat inglese un siffatto personaggio può avere qualche possibilità d’emergere. Sicuramente, nemmeno lo stesso Chandler immagina quale sconvolgente impatto Hendrix sarà in grado di produrre nell’ambito della musica rock. In quel volo del 23 settembre che lo porta in Inghilterra, convinto da Chandler che si propone come manager e produttore, Hendrix porta con sé la chitarra e la speranza di successo, fino allora sempre vanificata nei tanti complessi giovanili e nelle castranti collaborazioni con i vari Little Richard, Jackie Wilson, Sam Cooke, Isley Brothers. Il primo di ottobre è già sul palco del Polytechnic di Londra, ospite dei Cream di Eric Clapton, e nel giro di pochi giorni gli vengono presentati Noel Redding (un oscuro chitarrista reduce da piccole formazioni, che pur di suonare con Hendrix s’adatta al ruolo di bassista) e Mitch Mitchell (batterista di buone qualità, già con Screaming Lord Sutch, Johnny Kidd & the Pirates, Georgie Fame & Blue Flames e, per brevissimo tempo, con i Pretty Things). La Jimi Hendrix Experience è pronta per le prime esibizioni francesi e tedesche : il musicista inizia a suscitare interesse dal vivo affidandosi ad una musica che deriva in linea retta dal blues, rivisto in chiave psichedelica tramite uno stile chitarristico innovativo, e grazie alla selvaggia presenza scenica che riflette l’emozione del suono. L’esordio discografico avviene il 16 dicembre con Hey Joe, un brano molto eseguito negli Stati Uniti (tra gli altri l’interpretano i Byrds, i Love, i Leaves e Frank Zappa - l’ironica controcover di Flower punk). La versione dell’Experience, introdotta da una semplice ma memorabile frase di chitarra che cattura l’attenzione dell’ascoltatore, acquista un aspetto drammatico a causa dell’utilizzo di un tempo fortemente rallentato, scandito da una lirica e controllata parte strumentale e dalla severa voce narratrice di Hendrix. Al pezzo viene associata Stone free, prima composizione originale di Jimi (almeno per quanto riguarda la nuova carriera inglese), una bella canzone con chiari accenti soul, dallo stile sufficientemente definito. Ben più impressionante è il secondo singolo Purple haze (marzo ’67), una sorta di precoce hard blues carico di tensione visionaria, che entra di diritto nel novero delle migliori produzioni hendrixiane, con la chitarra che soffre, geme, s’impenna in un concentrato di riff micidiali. Il disco arriva fino al terzo posto in classifica e l’Experience consolida rapidamente una notevole popolarità in Inghilterra grazie all’intensa attività live (nell’aprile ’67 Hendrix compie la prima organica tournée inglese). Un ulteriore 45 giri, con l’eterea The wind cries Mary, precede di pochi giorni la pubblicazione del primo album che avviene il 12 maggio 1967. JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ARE YOU EXPERIENCED ? (Track - 1967) Are you experienced ? scuote dalle fondamenta il panorama musicale inglese, proponendo uno strepitoso rock blues psichedelico ; i tempi del beat, delle ordinate linee melodiche, delle pulite armonie vocali, degli strumenti ben controllati ed allineati sembrano lontani un secolo. Qui la musica eccita, punta diritta allo sballo fisico e psichico, trasmette elettricità allo stato puro, assimila la tradizione del blues per ridisegnarne la forma. L’Experience si rivela il gruppo perfetto per le esigenze di Hendrix : Mitchell, con il suo stile in apparenza disordinato, offre un ottimale contributo poliritmico e Redding suona il basso con un’originale tecnica, direttamente derivata dalla sei corde, che rende ancor più movimentata e imprevedibile la base ritmica. Da parte sua, il leader definisce nuovi parametri di confronto e non è esagerato parlare di tecnica della chitarra rock prima e dopo Hendrix, mentre lo stile vocale declamatorio di Jimi s’adatta molto bene a una musica di gran peso specifico. Alcune canzoni stordiscono per il furore ritmico e creativo : la danza tribale di I don’t live today, guidata da un secco riff sospeso su un mare di feedback (qui appare per la prima volta l’effetto wah-wah , del quale Hendrix resta insuperato maestro), le affascinanti sezioni sovrapposte di Love or confusion, con le chitarre impalpabili, liquide, che improvvisamente raggrumano per dettare il ritmo sostenuto da un Mitchell libero di qualsiasi preoccupazione formale, la dimenticata Manic depression, basata su un insolito tempo di valzer, dove ancora Mitch fornisce una propulsione ritmica circolare, ideale rampa di lancio per uno degli assolo di chitarra più selvaggi di tutto il rock. I brani più sperimentali sono 3rd stone from the sun, un’allucinata jam spaziale caratterizzata da una melodia senza tempo e dall’uso di nastri manipolati a diverse velocità per i dialoghi delle voci, che risultano fortemente rallentati, e la conclusiva Are you experienced ?, che presenta parti con tutti gli strumenti registrati alla rovescia, in un coinvolgente e fascinoso rituale asimmetrico. Foxy lady, Fire, Can you see me, graffianti e dinamici, sono classici del repertorio hendrixiano, particolarmente adatti all’atmosfera dei concerti, così come il nitido blues di Red house, né si possono dimenticare le linee fluttuanti di May this be love. Il roccioso rhythm & blues di Remember appare l’unico episodio leggermente sotto tono, ma forse la sua colpa è solo quella di venire inserito in uno dei grandi capolavori della storia del rock. Dopo la pubblicazione dell’album d’esordio Hendrix è già personaggio d’enorme fama e successo ; i dischi navigano nelle posizioni alte delle classifiche inglese e americana e l’Experience, per tutto il 1967, si dimostra un’instancabile macchina da concerti (nella sua breve esistenza, prima dello scioglimento nel giugno 1969, il gruppo effettua ben 480 esibizioni ufficiali !). In maggio l’Experience fa un giro di concerti nel vecchio continente e quindi vola negli Stati Uniti dove, il 18 giugno, esordisce in occasione del Monterey International Pop Festival, uno dei più importanti avvenimenti dell’estate californiana. Nella scaletta del concerto, Hendrix propone versioni solide e precise di alcuni brani di successo e, a sorpresa, inserisce una brillante, personale rilettura del classico di Bob Dylan Like a rolling stone. La performance è di altissimo livello, ma ciò che la rende unica è il gran finale dedicato a Wild thing, un brano scritto da Chip Taylor e portato alla notorietà dai Troggs, nell’aprile 1966. Qualcosa di veramente selvaggio s’abbatte sullo sbigottito pubblico californiano. Gli altoparlanti al massimo del volume sembrano sul punto di scoppiare sotto la spasmodica azione della chitarra di Jimi, che si fionda in devastanti sequenze dissonanti, al limite del caos e del rumore puro. Anche l’ingenuo trucco scenico finale, con il rito della chitarra arsa viva, assume contorni inquietanti, con lo strumento abbandonato, agonizzante, che continua a gemere impietosamente. L’Experience resta negli States fino ad agosto per una serie di concerti, alcuni dei quali inseriti di supporto ad un tour dei Monkees ; l’esperienza dura poco in quanto, dopo un’esibizione nello stadio di Forest Hills a New York, il gruppo viene ripudiato per incompatibilità stilistica. Tra le incessanti tournée e le sessioni di studio, la Jimi Hendrix Experience trova il tempo per realizzare alcune eccellenti registrazioni per le trasmissioni radiofoniche Saturday Club, Top Gear e Alexis Korner’s R & B Show (prodotte dalla BBC), nastri che per anni costituiscono la base di numerose pubblicazioni discografiche illegali e nel 1988 vengono raccolti nell’ottimo doppio Radio One. Verso la fine dell’anno Hendrix è nuovamente on the road con il secondo tour inglese che si svolge in contemporanea della pubblicazione (il primo di dicembre) del nuovo LP, Axis : bold as love. E’ l’ultimo lavoro prodotto da Chandler che poco dopo si defila dal management di Hendrix e il disco, pur accusando inevitabilmente l’assenza del fattore novità, conferma l’eccellente momento del chitarrista. I brani memorabili sono la granitica Spanish Castle magic, dotata di un impatto poderoso, le delicate e poetiche Little wing e Castles made of sand, l’avvolgente Bold as love (basata sul largo uso dell’effetto phasing) e la concisa If six was nine, con le dure contrazioni della scorza blues. “... cadete montagne, ma non su di me ...”, purtroppo non sarà così. -6Il 1967 inizia per i Beatles con la pubblicazione (in febbraio) del singolo Penny Lane / Strawberry fields forever. Se Penny Lane presenta un incedere classico, valorizzato da arrangiamenti raffinati, Strawberry fields forever prosegue il lavoro iniziato con l’album Revolver, alla ricerca di una viva sperimentazione sonora. Il brano, caratterizzato da un’introduzione pastorale che sfocia in un dolce capogiro psichedelico, è uno dei capolavori dei Beatles, sia per quanto concerne le imprevedibili soluzioni timbriche adottate che per ciò che riguarda la tecnica di produzione, basata sulla manipolazione di nastri ottenuti da due diverse registrazioni che convergono miracolosamente sulla stessa tonalità e si fondono perfettamente tra loro. BEATLES - SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND (Parlophone - 1967) Il primo giugno 1967 viene commercializzato, in unica versione mondiale e senza estratti a 45 giri, Sgt. Pepper’s lonely hearts club band, un album considerato come lo storico momento di trapasso dalla cultura beat alle nuove proposte progressive della musica giovanile. Se da un punto di vista formale, d’immagine e d’impatto sulla scena musicale dell’epoca, l’affermazione è condivisibile, sotto l’aspetto dei contenuti appare doveroso riconoscere che altri, e più radicali innovatori, negli stessi giorni definiscono le linee portanti del suono progressivo, ottenendo risultati formidabili. Lennon e McCartney (autori di tutti i brani ad eccezione di Within you without you, composta da Harrison) scelgono di produrre un flusso musicale senza soluzione di continuità, determinando, di fatto, l’inizio della moda degli album a tema specifico (concept) ; inoltre, il puntiglioso lavoro d’ingegneria sonora già sperimentato con eccellenti risultati viene perfezionato e posto alla base di ogni creazione. Ugualmente, il gruppo è indotto a seguire tracce melodiche raffinate ed arrangiate in modo invidiabile, ma anche troppo usuali e costringenti : è il caso della bella ma innocua marcetta di A little help from my friends (Joe Cocker riuscirà a cavar fuori da queste stesse note ben altre suggestioni), delle graziose Getting better e Lovely Rita, dell’iniziale title track (che non va oltre ad un pulito R’n’R di base), persino dell’ottima Fixing a hole, il cui lirico contenuto meriterebbe un arrangiamento con un pizzico di coraggio in più. Le intuizioni migliori sono sparse in Lucy in the Sky with Diamonds, una nenia allucinata da carillon psichedelico, e nello stralunato valzer di Being for the benefit of mr. Kite !. Convincono pure le abituali movenze orientali di Within you without you e diverte il bestiario di Good morning, good morning, un R & B decisamente inconsueto. A day in the life chiude simbolicamente l’era psichedelica dei Beatles, formando con Tomorrow never knows e Strawberry fields forever un indimenticabile trittico denso di emozioni ; l’introduttiva, tremante melodia viene risucchiata in una spaventevole spirale da incubo che porta all’immaginario risveglio, forse solo un’illusione di poter fuggire dal tormento dei propri sogni, definitivamente inghiottiti dalla voragine orchestrale che chiude il brano con un’affermazione drammatica. La morte improvvisa del manager Brian Epstein mette in crisi i complessi equilibri dei Beatles, che da questo momento cominciano a perdere la propria unità d’intenti e s’imbarcano in progetti disastrosi, come nel caso dell’inaugurazione della Apple, un’ambiziosa etichetta discografica (ma anche una stravagante boutique, una divisione cinematografica e una “foundation for arts” rimasta sulla carta delle buone intenzioni) che finirà con il fallire dopo aver inghiottito notevoli risorse finanziarie. La successiva mossa del complesso è la realizzazione, alla fine del 1967, del film per la BBC Magical Mystery Tour, supportato da un doppio extended play che convince solo a tratti (la valida orchestrazione di I am the walrus e la frizzante sigletta della title track). Negli U.S.A. i sei brani sono raccolti su un album che, in aggiunta, comprende alcune canzoni tratte da singoli, tra cui Strawberry fields forever. Nell’estate 1968 il gruppo coglie un nuovo, grande successo con il 45 giri Hey Jude, caratterizzato dalla celebre coda corale, canzone che paga un evidente e forse volontario tributo a Dear mr. Fantasy dei Traffic (istruttiva in tal senso la bella versione in medley fornita da Al Kooper e Mike Bloomfield nel loro Live adventures - Columbia 1969 - dove i due brani si compenetrano alla perfezione, apparendo come un’unica entità). Il doppio album omonimo, pubblicato nel novembre successivo, è l’ultimo disco importante dei Beatles, in netto contrasto con i colori e le atmosfere del Sgt. Pepper sin dalla copertina completamente bianca. Il “white album” s’affida ad un duro realismo sonoro, ben rappresentato dai rock’n’roll scarni ed essenziali di Back in the U.S.S.R.. e di Birthday, dal blues rock tirato ed urlato di Yer blues e soprattutto dalla stravolta Helter Skelter, costruita su un muro di chitarre informi e strazianti. In generale, il lavoro presenta un’ampia molteplicità di stili, passando con disinvoltura dal rock duro e graffiante a raffinate e suadenti ballate (Dear prudence, While my guitar gently weeps con Eric Clapton), dall’ironica e neoclassica Piggies (con tanto di grugniti finali) al country western di Rocky Raccoon, dal blues impertinente di Why don’t we do it in the road ? all’enfatica tessitura ritmica di Everybody’s got something to hide except me and my monkey, per finire con le caotiche ed inquietanti sperimentazioni di Revolution 9. Le spinte disgreganti all’interno del gruppo aumentano, l’accordo tra Lennon e McCartney s’incrina sempre più, Harrison chiede una maggiore considerazione come compositore e i Beatles si avviano al termine della loro colossale carriera, con la residua forza per realizzare altri due album onesti quali Abbey road (Apple - 1969) e Let it be (Apple - 1970), a tratti molto belli ma inesorabilmente avulsi dal contenuto musicale più avanzato della fine del decennio. Dopo lo scioglimento ufficiale, avvenuto nell’aprile 1970, i quattro intraprendono separate carriere, commercialmente molto produttive (in particolare McCartney) ma spesso eccepibili sotto l’aspetto qualitativo. John Lennon viene tragicamente ucciso da uno squilibrato alla fine del 1980. -7Tra le decine di piccoli locali che hanno costituito la rete di sviluppo delle tendenze underground e progressive nella zona di Londra (Middle Earth, Marquee, Pink Flamingo, Roundhouse, Speakeasy ecc.), uno dei più mitici è sicuramente l’Ufo Club, con base a Tottenham Court Road. Il ritrovo viene allestito da John Hopkins alla fine del 1966, allo scopo di raccogliere fondi per la neonata rivista underground I.T. - International Times. In breve tempo, l’Ufo diventa il rifugio dei musicisti alternativi, dediti a pratiche sperimentali e alla ricerca di sintesi innovative ; qui vengono sperimentati i primi light show psichedelici, sottolineati dalla musica di complessi agli esordi quali Soft Machine, Tomorrow, Crazy World of Arthur Brown, Giant Sun Trolley (poi Third Ear Band) e, tra i più assidui frequentatori, Pink Floyd. Originario di Cambridge, Syd Barrett è un bizzarro chitarrista in perenne ed affannosa ricerca, che sperimenta rumori assurdi fino alle prime ore del mattino rischiando il linciaggio da parte dei vicini di casa. Le prime esperienze del musicista sono consumate all’inizio degli anni Sessanta, in formazioni casalinghe dedite al R’n’R di Cliff Richard, degli Shadows, di Chuck Berry. Nel settembre 1964 Barrett si trasferisce a Londra dove incontra Roger Waters che l’invita ad unirsi al suo gruppo, gli Abdabs, nel quale suonano pure Richard Wright e Nick Mason ; prima della fine dell’anno nascono i Pink Floyd (la sigla deriva da un’idea di Barrett, che accosta i nomi di due bluesmen della Georgia, Pink Anderson e Floyd Council). All’inizio la formazione è composta da sei elementi, ma ben presto il chitarrista Bob Close e il cantante Chris Dennis abbandonano e i Pink Floyd s’assestano con Barrett, Waters, Wright e Mason. Il complesso cerca di darsi uno stile originale e di crearsi un piccolo seguito, a partire dal febbraio 1966 quando ottiene la possibilità d’esibirsi con regolarità al Marquee. In estate i quattro conoscono Peter Jenner e Andrew King, che diventano i loro manager ; gli ultimi mesi del ’66 sono decisivi per lo sviluppo della scena underground londinese e i Floyd non perdono occasione per partecipare a tutti gli appuntamenti importanti, dagli spettacoli alla Roundhouse del 15 ottobre (per il lancio di I.T.) e del 3 dicembre (per il primo grande ritrovo psichedelico, Psycodelphia versus Ian Smith), fino all’inaugurazione dell’Ufo Club (23 dicembre). L’inizio del nuovo anno vede il gruppo in studio di registrazione, sotto la produzione di Joe Boyd, per la realizzazione di alcune sessioni che fruttano quattro brani ; due di questi sono scelti per il singolo d’esordio, Arnold Layne e Candy and a current bun, edito l’undici marzo. Arnold Layne presenta un testo audace ed ambiguo, che procura difficoltà per la radiodiffusione ma, al tempo stesso, permette ai Pink Floyd di diventare una delle formazioni più rispettate nell’ambiente underground. La canzone, costruita su un impianto di ballata folk, lascia trasparire solo a tratti alcuni degli elementi timbrici che renderanno tipica la musica del gruppo, soprattutto per ciò che riguarda l’uso dell’organo da parte di Wright. Di maggior efficacia appare il secondo singolo See Emily play, registrato in maggio con il nuovo produttore Norman Smith (un ex tecnico dei Beatles) e originariamente intitolato Games for May, che è pubblicato il 16 giugno ed ottiene un lusinghiero piazzamento in classifica (n. 5). La musica è calata alla perfezione nella fervida scena psichedelica, con la proposta di soluzioni fantasiose ed un gustoso assaggio della chitarra siderale di Syd Barrett. Nel bel mezzo della pubblicazione dei due dischi, il complesso partecipa al 14th Hour Technicolour Dream - Free Speech Benefit, una manifestazione organizzata dal solito John Hopkins all’Alexandra Palace di Londra, tra la notte del 29 e il mattino del 30 aprile 1967, per finanziare International Times. Il grande concerto si trasforma nell’evento più ricordato di tutta la psichedelia inglese, al quale assistono diverse migliaia di persone ; tra le numerose formazioni che vi prendono parte, spiccano i nomi dei primi Soft Machine, di Arthur Brown, Pretty Things, Social Deviants, Tomorrow, Sam Gopal e Mick Hutchinson. I Pink Floyd suonano poco prima dell’alba, in un’atmosfera surreale, e l’esibizione li consacra ai vertici della scena underground. PINK FLOYD - THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (Columbia - 1967) Le sedute di registrazione del primo LP, agli studi di Abbey Road della Emi, si protraggono per circa sei mesi e sono rese difficili dal comportamento imprevedibile di Barrett, che a quei tempi è il leader e il maggior compositore del gruppo. Finalmente, il 5 agosto 1967 vede la luce The piper at the gates of dawn che rapidamente ottiene ottimi risultati di vendita. Il disco lancia i Pink Floyd in orbita stellare e conferma le qualità come autore di Barrett ; il suono spiazza l’ascoltatore, ancora abituato a confrontarsi con stili derivati dal blues e dal rock’n’roll, presentando una latente matrice folk, oltre a tematiche ereditate dalla cultura musicale europea (in particolare classica), introdotte per la prima volta in un contesto rock dai Beatles. Anche l’aspetto psichedelico della loro musica e la propensione alla ricerca sulle tecniche di registrazione hanno un debito da saldare nei confronti del quartetto di Liverpool (che, per uno strano gioco del destino, in quei giorni completa la produzione del Sgt. Pepper proprio a Abbey Road, in uno studio attiguo a quello dei Floyd). L’approccio dei Pink Floyd è comunque irriverente e proiettato verso ardite soluzioni psichedeliche, ben lontano da quanto proposto nello stesso periodo da altri gruppi neoclassici, quali i Procol Harum di A whiter shade of pale. Alla pulizia formale il complesso preferisce un impegno in bilico fra sperimentazione e semplici melodie di base. Barrett non insegue virtuosismi solistici ma si concentra sul rumore e sul fascino del timbro del suono, confermandosi uno tra i più decisi innovatori dello stile del proprio strumento. Canzoni come Lucifer Sam e Take up thy stethoscope and walk (con un memorabile trattamento nevrotico della sei corde) sono deviate dalle originarie linee melodiche ; da parte sua, Wright disegna all’organo inconsueti arabeschi nelle ballate psichedeliche di Matilda mother e The scarecrow, emoziona nelle atmosfere classiche di Flaming, nella rumorista e suggestiva Pow R. Toc. H. e nell’enigmatica Chapter 24. I brani più significativi e futuribili sono le magistrali Astronomy domine, sospinta in volo dalle pulsazioni vitali della chitarra di Barrett e delle percussioni di Mason, e l’inarrivabile Interstellar overdrive, valvola di sfogo delle ulcere sonore barrettiane risucchiate dai gorghi cosmici dell’organo di Wright. Bike è pazzesca, con quella voce sfuggente e con l’orgiastico caos finale, quasi un prematuro epitaffio di Barrett che poco dopo perde la misura, manifesta segni di squilibrio mentale ed entra in una sorta di trance impenetrabile, costringendo i suoi compagni di viaggio a scaricarlo, per non smarrire la strada del successo. Syd alterna momenti di lucidità ad altri nei quali risulta assente, incapace di suonare in gruppo ; ad acuire le sue preoccupazioni arriva l’insuccesso del nuovo singolo Apples and oranges. Verso la fine del ’67 i Pink Floyd partecipano al Jimi Hendrix Package Tour (con Experience, Move, Amen Corner, Nice e Eire Apparent) che vede un Barrett ulteriormente peggiorato, spesso sul palco con lo sguardo perso nel vuoto e, a volte, addirittura sostituito per irreperibilità dal chitarrista dei Nice, David O’List. Ben presto si arriva al punto in cui la comunicazione tra Barrett e il resto del gruppo diviene impossibile, con il chitarrista proteso verso qualcosa di troppo nuovo, di troppo diverso, e con i compagni incapaci di seguirlo convenientemente. Viene contattato David Gilmour, amico di vecchia data dello stesso Barrett, e per breve tempo i Floyd tentano di tenere a galla una formazione a cinque, ma nel marzo 1968 Syd Barrett esce dal gruppo. Il secondo album, A saucerful of secrets (giugno 1968), segna il trapasso dalla dolce, allucinata follia dei primi lavori alle regole che fissano il classico stile dei Pink Floyd. Se The piper at the gates of dawn è il capolavoro dell’era psichedelica inglese, il nuovo disco acquista in peso strumentale, scandagliando immani profondità astrali in brani di gran fascino, come l’ipnotico Set the controls for the heart of the sun (dove, probabilmente, suona ancora Barrett) e Let there be more light, due composizioni di Roger Waters che diventa il nuovo punto di riferimento creativo della formazione. Il vertice del disco è la lunga ed ambiziosa title track, un’ardita mini suite in tre movimenti quasi a carattere sinfonico, che riveste notevole importanza nell’evoluzione futura della musica dei Pink Floyd. Barrett è presente in due registrazioni del 1967, Remember a day e la deliziosa Jugband blues, che significativamente chiude in modo sarcastico la collaborazione del musicista con il suo gruppo. -8L’impatto dei Traffic sulla scena musicale del 1967 è meno sconvolgente rispetto a quello generato da Jimi Hendrix e dai Pink Floyd, né la formazione è in grado di fare affidamento, come nel caso dei Beatles, su un’autorevolezza conseguita negli anni del beat. Eppure, la loro musica (forse proprio per il fatto che evita clamori sperimentali, preferendo attingere a svariate e tradizionali fonti d’ispirazione) è un importante momento propositivo destinato a far scuola, e va considerata come la prima riuscita sintesi nel campo del rock progressivo. Dopo il successo commerciale con lo Spencer Davis Group ed esaurita la breve parentesi di studio con i Powerhouse di Eric Clapton (1966), Stevie Winwood organizza un nuovo nucleo di musicisti nella primavera del 1967, con l’intento di dedicarsi ad una musica ambiziosa. I componenti dei Traffic provengono da due formazioni della zona di Birmingham : Dave Mason e Jim Capaldi hanno fatto gavetta nei Deep Feeling, mentre Chris Wood è reduce dai Locomotive. Il nuovo gruppo mette a punto la propria formula musicale provando per alcuni mesi in una fattoria del Berkshire e i singoli Paper sun (giugno ’67) e Hole in my shoe (settembre ’67) raggiungono le zone alte della classifica di vendita. TRAFFIC - MR. FANTASY (Island - 1967) Nel dicembre 1967 Mr. Fantasy dà forma ad una brillante fusione di folk, blues, jazz e soul, venata da una morbida psichedelia. Il disco si apre con l’emozionante Heaven is in your mind, una ballata folk sorretta dall’anima soul del piano di Winwood e della scarna batteria di Capaldi. Chris Wood colora la musica con i fiati in modo naturale e discreto, senza forzature, raggiungendo vertici assoluti in No face no name no number, una struggente canzone autunnale di cristallina bellezza, accarezzata dalla melodia del flauto che evoca ricordi densi di nostalgia ; con la sua impostazione classica (organo, mellotron e clavicembalo) il brano è un vero e proprio preludio al rock romantico degli anni Settanta. Coloured rain, marcata dall’incalzante organo di Winwood e nobilitata dall’elegante lavoro al sax di Wood, e Dear mr. Fantasy (brano dal quale trae ispirazione Hey Jude dei Beatles), che si fonda su una felice intuizione melodica risolta da un’infuocata jam chitarristica, sono i manifesti psichedelici dei Traffic. Mason è responsabile dell’orientaleggiante Utterly simple, valida, ma troppo legata ad analoghe esperienze dei Beatles, e della discreta Hope I never find me there ; degne d’interesse anche Dealer (un brano di Capaldi) e il conclusivo strumentale blues jazz di Giving to you. Dopo appena pochi mesi, il gruppo diviene instabile a causa delle divergenze sulla conduzione artistica, esistenti tra Winwood e Mason ; quest’ultimo abbandona per dedicarsi ad alcune collaborazioni con grossi nomi del circuito rock (Rolling Stones, Jimi Hendrix) e alla produzione degli emergenti Family. Da parte loro, nella primavera ‘68 Winwood e Wood partecipano alle registrazioni di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, apportando un importante contributo al lavoro del chitarrista di Seattle. I Traffic si riuniscono per le sessioni che danno vita al secondo album omonimo, pubblicato nell’ottobre 1968 ; nonostante contenga materiale di ottima qualità, il disco risente della difficile situazione interna e mostra i musicisti divisi sugli obiettivi da raggiungere. Da un lato Mason progetta una musica lineare e tradizionalmente rock, come dimostrano il country di You can all join in e le belle ballate di Feelin’ alright ? e Don’t be sad, dall’altro Winwood e Capaldi recuperano sonorità tipiche dei primi Traffic nelle ottime Forty thousand headmen e No time to live. Notevoli sono Pearly queen, dall’accattivante cadenza rock blues, e Cryin’ to be heard, un brano di Mason che Winwood fa suo con un poderoso suono d’organo. Il gruppo trova la forza per incidere un terzo album, Last exit (Island - maggio 1969), discreto anche se inferiore ai lavori precedenti. Il disco è suddiviso in una parte registrata in studio, nella quale risaltano la raffinata Shanghai noodle factory, il cadenzato valzer di Withering tree, la spigliata Medicated goo, e in una ricavata da un’esibizione al Fillmore West di San Francisco, che comprende una buona Feelin’ good. Quando il lavoro viene pubblicato Mason ha di nuovo abbandonato e Winwood, nel febbraio del ’69, decide di sciogliere il gruppo per entrare nell’effimero nucleo dei Blind Faith, con Eric Clapton, Ginger Baker e Ric Grech. Capaldi e Wood recuperano Mason e, con l’aiuto di Mick Weaver, s’impegnano nei Wooden Frog, una formazione dalla vita breve. Mason si trasferisce poi negli Stati Uniti dove collabora con Gram Parsons, con Delaney & Bonnie e pubblica svariati album come solista. Il Fuoco e l'Acqua un ricordo di British blues -9Sin dai primi mesi del 1966 nella scena del blues revival inglese inizia ad affermarsi un nuovo atteggiamento, teso alla ricerca di una sistemazione dell’originario linguaggio di recupero delle matrici blues all’interno di un contesto espressivo progressivo. Tra i pionieri del genere, un posto di rilievo spetta agli Yardbirds che per primi escono dagli schemi consolidati del blues revival e del rock’n’roll, introducendo (già nel 1965) decisivi elementi di novità e giungendo ad un'ottimale sintesi nella seminale Shapes of things, primo compiuto esempio di rock blues. Neppure va dimenticata l’appartenenza a questa formazione di tre chitarristi di primaria importanza, quali Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, che con i rispettivi gruppi saranno tra i più significativi esponenti del blues duro e progressivo Dopo le esperienze con Yardbirds e John Mayall’s Bluesbreakers, nel 1966 Eric Clapton raccoglie sotto la sigla Powerhouse alcuni noti musicisti dell’epoca, tra i quali Stevie Winwood e Pete York (entrambi dello Spencer Davis Group) e il cantante Paul Jones (già con Manfred Mann) ; l’effimera associazione incide solo tre brani che sono raccolti sull’antologia What’s shakin’ (Elektra-1966). Proprio nei Powerhouse (e altrettanto brevemente nei Bluesbreakers) Clapton ha modo di suonare con Jack Bruce, con il quale matura l’idea di costituire una formazione che mostri un atteggiamento originale nei confronti del blues elettrico. Nel luglio del ’66 è il produttore Robert Stigwood a realizzare operativamente il progetto di un vero e proprio supergruppo con Clapton, Bruce e il batterista Ginger Baker (la sezione ritmica si conosce sin dai tempi della Blues Incorporated di Korner e della Graham Bond Organization). I Cream sono, di fatto, il primo complesso triangolare della storia del rock, configurazione che sottintende una diversa organizzazione del suono e dei compiti, nella quale ogni strumento acquisisce (in particolare dal vivo) una valenza ritmica e solistica di reciproco stimolo. Il gruppo esordisce in occasione del festival di Windsor ed effettua una serie di concerti al Marquee, prima di pubblicare il singolo Wrapping paper, nell’ottobre ’66. Il successivo I feel free segna l’ingresso nelle classifiche di vendita e i Cream si affermano con una fitta serie di spettacoli dal vivo. E’ l’epoca dell’immigrazione londinese di Jimi Hendrix, che il primo di ottobre è ospite del trio sul palco del Polytechnic ; Hendrix diventa grande ammiratore ed amico di Clapton e tiene in debita considerazione l’insegnamento dei Cream, la potenza e la tensione emotiva del loro blues, la propensione per una musica liberata dagli schemi del successo di classifica e spinta verso modalità d’improvvisazione ancora sconosciute in ambito rock. Come accade a mille altri gruppi, anche Hendrix crea la propria formazione sull’esempio triangolare dei Cream e, di certo, trae giovamento dalla crescente popolarità di Clapton e soci e dall’affermazione dei principi della loro musica. Appena un attimo dopo la situazione si ribalta : saranno i Cream, e tutti gli altri musicisti inglesi del periodo, ad inseguire le teorie evolutive hendrixiane. Nel dicembre 1966 viene dato alle stampe il primo album Fresh Cream che, pur non essendo esente da pecche, ha il merito di mostrare gli elementi portanti dello stile del gruppo. Il disco contiene numerose versioni di classici blues, reinterpretati con grande potenza e dinamismo : nelle varie Spoonful (Dixon), Rollin’ and tumblin’ (Waters) e Cat’s squirrel la chitarra di Clapton, pur mantenendo una lirica classicità, indurisce notevolmente il suono, sostenuta da un’eccellente sezione ritmica capace di andare ben oltre ad un mero ruolo d’accompagnamento. La produzione originale dei Cream appare ancora piuttosto incerta, anche se i timidi frammenti di N.S.U. e Sweet wine diventano dal vivo solide basi per lunghe, incandescenti improvvisazioni strumentali, e il micidiale riff di Toad introduce un gustoso saggio dello sciolto ed originale stile percussivo di Ginger Baker, che si conferma uno tra i più preparati e qualitativi batteristi rock. Come altre importanti formazioni del tempo (Beatles, Rolling Stones, Animals), i Cream nel 1967 aderiscono all'imperante cultura psichedelica con la realizzazione del secondo album Disraeli gears, che in parte ripropone il caratteristico power blues e in parte si espone al contagio del morbo lisergico. Il disco segna il passaggio della produzione da Robert Stigwood a Felix Pappalardi (futuro bassista dei Mountain), capace d’offrire anche un valido contributo come sessionman, e determina il consolidamento della proficua collaborazione tra Jack Bruce e il paroliere Pete Brown, che proseguirà nei successivi lavori dei Cream e dello stesso bassista. Tra i brani spicca prepotente la sagoma di Sunshine of your love, un rock blues scolpito nella roccia con un riff epocale di chitarra ; è il pezzo più ricordato dell’intero repertorio (si dice, dedicato a Hendrix) e fissa definitivamente i tratti salienti della musica del gruppo. L’ottima Tales of Brave Ulysses si ricollega al suono tradizionale del complesso, come pure l’aggressiva Swlabr e le meno appariscenti Outside woman blues e Take it back. Al versante flower power appartiene l’iniziale Strange brew, che propone cadenze meno ruvide e un suono più colorito ; in questo contesto sono da segnalare le melodiche e sognanti World of pain (un bel brano di Pappalardi) dove appare l’effetto wah-wah alla chitarra, Dance the night away con graziose soluzioni armoniche e la rarefatta We’re going wrong. Disraeli gears va, in ogni caso, considerato un lavoro di transizione, con il gruppo ancora alla ricerca di una piena maturità espressiva che, in parte, giunge con il seguente Wheels of fire. CREAM - WHEELS OF FIRE (2 LP Polydor - 1968) Il doppio album si compone di un disco registrato in studio, con l’aiuto del produttore Pappalardi in qualità di musicista aggiunto, e di una parte dedicata al resoconto di un concerto tenuto nel marzo 1968 al Fillmore West. I brani più significativi del disco di studio sono due composizioni di Jack Bruce (sempre coadiuvato dal fido Pete Brown), la stupenda White room, caratterizzata dalla lirica frase introduttiva, vero miracolo d’equilibrio tra il ruvido rock blues di base e la formidabile linea melodica vocale, e la cadenzata Deserted cities of the heart, che s’avvale di ricercati arrangiamenti per viola e violoncello. Il blues emerge prepotente nelle notevoli interpretazioni di Sitting on top of the world (Howlin’ Wolf), Born under a bad sign e Politician, un originale brano composto da Bruce / Brown. La sognante Passing the time, la bella Those were the days e l’atipica Pressed rat and warthog, tutte di Ginger Baker, sono valorizzate dagli interventi con viola, tromba e percussioni di Pappalardi, e ancora va ricordata l’obliqua melodia di As you said, che anticipa atmosfere care alla futura produzione solistica di Jack Bruce. In sintesi, le registrazioni di studio di Wheels of fire appaiono tanto brillanti ed originali, quanto espressione di tre musicisti divisi sulla direzione artistica da intraprendere e con Clapton totalmente escluso in fase compositiva. Il disco dal vivo si apre con l’energica versione del blues di Robert Johnson Crossroads, completamente riscritta per l’occasione ; la seguente Spoonful (Dixon) mostra il virtuosismo dei musicisti e risulta un po’ prolissa, pur appassionando a tratti per la volontà di tirare al massimo gli strumenti, in perenne rincorsa tra loro. Traintime (un brano di Bruce, già nel repertorio della Graham Bond Organization) è una performance per armonica che sfocia nella durissima Toad, introduzione ad un ottimo ma interminabile assolo di Baker. Dopo appena due anni dalla nascita, la popolarità e il successo dei Cream sono diffusi in tutto il mondo, ma il gruppo risente di forti tensioni interne determinate dalla spiccata personalità dei musicisti, che decidono di porre termine all’avventura con uno spettacolare concerto d’addio (che diventa anche un film musicale) tenuto il 26 novembre 1968 alla Royal Albert Hall di Londra. Ciò che resta viene pubblicato l’anno successivo, nel postumo Goodbye (Polydor-1969) che contiene buone versioni dal vivo di I’m so glad, Politician, Sitting on top of the world, e una manciata di brani di studio tra i quali emerge la bella melodia di Badge, una canzone di chiaro stampo beatlesiano, composta da Clapton assieme a George Harrison, che vede la presenza dell’ex Beatles alla seconda chitarra e del solito Pappalardi alle tastiere. Nei primi anni settanta vengono pubblicati altri due dischi quasi interamente registrati dal vivo, Live Cream (Polydor-1970) e Live Cream vol. II (Polydor-1972), di discreto valore, ma rimane il rammarico dell’assenza di un lavoro organico che rappresenti degnamente l’attività concertistica del gruppo. Allo scioglimento dei Cream, Jack Bruce decide di percorrere la strada solistica, ottenendo interessanti risultati artistici ; Clapton e Baker, invece, restano insieme per la controversa ed effimera esperienza dei Blind Faith. La nuova formazione si atteggia, ancor più dei Cream, a supergruppo, per via della presenza dell’affermato Stevie Winwood (v.ts.ch., reduce dai Traffic) e del bassista / violinista Ric Grech (proveniente dai Family). Sull’operazione aleggia il sospetto di precisi calcoli commerciali e la musica del gruppo non risulta così incisiva come avrebbe dovuto, viste le capacità dei musicisti coinvolti nel progetto. I Blind Faith nascono nel febbraio 1969 e il debutto ufficiale avviene il 7 di giugno, in occasione di un concerto tenuto a Hyde Park di fronte a 100.000 persone. Il materiale del loro unico disco pubblicato (Blind Faith, Polydor-1969) è valido, ma il gruppo non osa, il suono estremamente misurato resta ancorato a reminiscenze Cream e Traffic, privo di sbavature ma anche di particolari sussulti, con un'equa divisione dei ruoli tra i musicisti. L’iniziale Had to cry today è un perfetto esempio del loro stile, con la chitarra di Clapton a sciorinare un piacevole hard blues senza uscire dalle righe e la stentorea voce di Winwood (autore del brano) che non è certo la più adatta alle atmosfere forti del rock blues. Nonostante il buon assolo centrale e quello finale (notevole, con due chitarre soliste sovraincise) Clapton non riesce a ripristinare il tipico clima da jam dei Cream e, alla lunga, il brano suona ripetitivo. Can’t find my way home e, soprattutto, Sea of joy, una canzone vicina ai Family più intimisti valorizzata dal violino di Grech, godono della scrittura e dell’interpretazione di Winwood risultando tra gli episodi migliori, così come l’unico brano di Clapton, il classico Presence of the Lord, giocato sul contrasto tra il sofferto preludio dai toni gospel e l’improvvisa eruzione centrale della chitarra. Well all right è piacevole e serve ad evidenziare le capacità di Winwood alle tastiere, mentre la conclusiva Do what you like è pensata da Baker come indolente base di partenza per l’ennesima, eccellente, esibizione ai tamburi. A promozione dell’album il gruppo s’imbarca in una tournée americana, al termine della quale (nel gennaio 1970) Clapton e compagni decidono di separarsi, lasciandosi alle spalle il dubbio di una grande occasione persa. Ginger Baker organizza gli Airforce, un’ampia formazione dove, all’inizio del ’70, si ritrovano Winwood e Grech, oltre a Chris Wood, Graham Bond e Harold McNair. Il gruppo, che predilige una matrice musicale essenzialmente ritmica (con la presenza di ben tre batteristi !), pubblica due album nel 1970, il primo (Airforce -2 LP, Polydor) registrato dal vivo alla Royal Albert Hall e il secondo (Airforce 2 - 2 LP, Polydor) realizzato in studio. Il batterista forma poi i Salt, senza ottenere particolari riscontri, quindi si trasferisce in Nigeria dove per tre anni suona con musicisti locali e studia le radici africane del ritmo. Nel 1974 è di nuovo in Inghilterra con la Baker Gurvitz Army, assieme ai fratelli Adrian e Paul Gurvitz (titolari, alla fine dei sessanta, di due LP con i Gun e in seguito di tre dischi con i Three Man Army) ; con questo complesso incide tre lavori, tra i quali il migliore appare il primo omonimo (Vertigo-1974) che presenta un discreto hard variegato da frequenti aperture melodiche. Subito dopo la collaborazione con gli Airforce, Stevie Winwood riunisce i Traffic dove finisce anche Ric Grech. Clapton insiste con la teoria dei supergruppi (questa volta negli Stati Uniti) con Derek & the Dominos, al fianco di Duane Allman nel doppio Layla e contemporaneamente inizia la carriera da solista, prolifica dal punto di vista commerciale ma non sempre all’altezza del suo nome. - 10 Il 1968 è per Jimi Hendrix l’anno della consacrazione ai vertici della scena rock mondiale. Il baricentro della sua attività si sposta decisamente negli U.S.A., dove tiene la maggior parte dei concerti (sempre affiancato dall’Experience) ed effettua, agli studi Record Plant di New York, la quasi totalità delle registrazioni che formano l’ossatura del nuovo ambizioso album. JIMI HENDRIX EXPERIENCE - ELECTRIC LADYLAND (2LP Track - 1968) Electric Ladyland, pubblicato nell’ottobre 1968 (n. 1 nella classifica americana dei long playing), nonostante sia accreditato alla Jimi Hendrix Experience può essere considerato come un disco solista del chitarrista, che per la prima volta si avvale di numerosi collaboratori esterni ; in particolare l’apporto di Noel Redding è molto ridotto (è titolare della decorosa Little miss strange ma in circa metà dei brani viene sostituito al basso da Jimi) mentre Mitchell, batterista ideale per Hendrix, è saldamente al suo posto, a parte un paio di pezzi nei quali dietro ai tamburi siede Buddy Miles. Hendrix produce autonomamente quasi tutto il materiale e il suono risulta più curato, senza perdere in aggressività ed espressività. C’è un ampio uso di ricercate tecniche di registrazione e molte canzoni sono realizzate attraverso fasi di lavorazione più lunghe e complesse del solito. I nastri manipolati di ...and the gods made love, la raffinata melodia di Have you ever been (to electric ladyland) e la ritmata Crosstown traffic (con Dave Mason ai cori) servono da introduzione al primo capolavoro dell’album, Voodoo chile. Il brano è un lungo blues originale che vede la presenza del bassista Jack Casady (Jefferson Airplane / Hot Tuna) al posto di Redding e con Stevie Winwood all’organo. Hendrix disegna linee di chitarra nitide e profonde, creando un’atmosfera impregnata di tensione che rende unico l’incedere del pezzo, valorizzato da una sezione ritmica potente e dall’ottimo lavoro di Winwood. Come on - Let the good times roll, un ottimo blues & roll senza peli sulla lingua (opera di Earl King) e Gypsy eyes, un soul rock dominato da chitarre graffianti, riportano ad un rock immediato e serrato. Burning of the midnight lamp, registrata nel luglio ’67 e prodotta da Chandler come singolo nel settembre dello stesso anno, è una delle più elaborate canzoni di Jimi, dotata di una bella melodia epica e decadente e caratterizzata dall’uso di clavicembalo e mellotron (per le armonie vocali). Rainy day, dream away, che ha una singolare ‘reprise’ in Still raining, still dreaming, è un raffinato blues jazz dove Hendrix esibisce magistralmente l’effetto wah-wah della chitarra ; nell’occasione sono presenti Freddie Smith al sassofono, Mark Finnigan all’organo e Buddy Miles alla batteria, coadiuvato da Larry Faucette alle congas. Il brano sfocia nella stupenda 1983...(a merman I should turn to be), un affresco sonoro maestoso e di grande suggestione. Nel viaggio Hendrix è accompagnato da un Mitchell ispirato e dal flauto di Chris Wood ; la sua produzione è a tratti eccessivamente d’effetto ma il lirismo poetico della canzone inebria il suono, che ondeggia fino a sprofondare in gelidi abissi marini e si dissolve nella coda rumorista di Moon, turn the tides... House burning down, con la fiammeggiante chitarra trattata dall’effetto phasing, crea la giusta tensione per il travolgente finale del disco. All along the watchtower (una canzone di Dylan, dall’album John Wesley Harding) è completamente riscritta da Hendrix che ne modifica il significato sostanziale ; tanto l’originale di Dylan è un timido folk rock scarno ed essenziale, quanto l’edizione di Jimi si fregia di soluzioni fantasiose, affidandosi ad una ritmica serrata e alla magia delle chitarre che si librano in volo verso orizzonti di straordinaria bellezza. Il contrasto con la conclusiva Voodoo child è aspro, torna a trionfare il magnifico marasma sonoro dell’Experience in un rituale selvaggio, sconvolto da chitarre che sputano fulmini, che provocano scosse telluriche, che graffiano come artigli la corteccia stagionata del blues. Electric Ladyland è l’apice della creatività hendrixiana ed è anche l’inizio della fine dell’Experience, con il leader desideroso di provare nuove esperienze e con Redding che si sente trascurato, smanioso di affermare le proprie capacità come propulsore del suo gruppo, i Fat Mattress. Dal vivo il trio si conferma convincente, come dimostrano i concerti dell’ottobre 1968 al Winterland di San Francisco, quelli europei d’inizio 1969 (in particolare Stoccolma) e il famoso spettacolo del 24 febbraio tenuto alla Royal Albert Hall di Londra con la partecipazione di Dave Mason, Chris Wood e del percussionista ‘Rocky’ Dzidzournu. In aprile l’Experience è nuovamente negli U.S.A. per un’ulteriore serie di spettacoli che si conclude il 29 giugno quando, al termine del concerto del Denver Pop Festival, Noel Redding abbandona il gruppo per dedicarsi come chitarrista ai Fat Mattress. Questa formazione, completata da Eric Dillon (bt.), Jimmy Leverton (bs.ts.) e Neil Landon (v.), riesce a pubblicare due discreti LP prima di terminare la propria breve esistenza. Sciolta l’Experience, Hendrix sospende la stressante attività live per predisporre un’ampia formazione che gli permetta di esprimere una musica più articolata. L’esperimento dei Gypsy Sun and Rainbows (con Billy Cox - bs. -, Mitch Mitchell - bt. -, Larry Lee - ch. -, Juma Sultan e Jerry Velez - pr.) dura soltanto il tempo dell’importante esibizione che segna la chiusura del festival di Woodstock, la mattina del 18 agosto 1969. In seguito Hendrix matura l’idea di un nuovo ristretto nucleo composto da soli musicisti di colore, che si concretizza in ottobre con la fondazione della Band of Gypsys ; lo accompagnano nella breve avventura, che culmina con i concerti di capodanno al Fillmore East di New York, il metronomico batterista Buddy Miles e il vecchio amico Billy Cox al basso. Il suono della formazione è meno fantasioso ed aggressivo rispetto alla gloriosa Experience, imperniato su un accattivante soul blues che solo a tratti (Machine gun) permette a Jimi di esprimersi liberamente all’interno di una struttura troppo rigida e calcolata. Il chitarrista ben presto richiama Mitchell e con il confermato Cox inizia, nell’aprile ’70, una nuova tournée americana, che si protrae fino al primo di agosto e culmina nelle esibizioni di fine luglio tenute all’isola di Maui (Hawaii). Qui Hendrix presenta l’ambizioso progetto del Rainbow Bridge Vibratory Color Sound Experiment, risoltosi con esito deludente. Dopo aver inaugurato a New York lo studio privato di registrazione Electric Lady, Hendrix torna in Inghilterra per partecipare al festival dell’isola di Wight dove suona (all’alba del 30 agosto) una controversa e sofferta esibizione, mai giustamente apprezzata per il suo effettivo valore musicale e storico. Hendrix è allo stremo delle forze ; nei giorni successivi effettua alcune date nel nord Europa (in Danimarca abbandona il palco dopo due soli brani) e il 6 settembre tiene il suo ultimo concerto nell’allucinante atmosfera del Love and Peace Festival, tenuto in Germania nell’isola di Fehmarn. Il 18 settembre 1970 muore a Londra, in circostanze mai definitivamente chiarite ; con Jimi Hendrix scompare il più importante ed influente chitarrista di tutto il rock. “...e allora i castelli di sabbia scivolano nel mare, alla fine”. - 11 La splendida trilogia blues elaborata da John Mayall tra il 1966 e il 1967 (Bluesbreakers - John Mayall with Eric Clapton, A hard road e Crusade) vanta l’indiscutibile merito di lanciare diversi giovani musicisti che affermano, negli anni immediatamente successivi, le loro doti in proprie formazioni di blues progressivo. Da quelle edizioni dei Bluesbreakers provengono Eric Clapton, fondatore dei Cream, Peter Green e John McVie, poi nei Fleetwood Mac, il chitarrista Mick Taylor (che nel luglio ’69 sostituisce Brian Jones nei Rolling Stones) e i batteristi Aynsley Dunbar e Keef Hartley, in seguito titolari di complessi di buon valore. JOHN MAYALL’S BLUESBREAKERS - BARE WIRES (Decca - 1968) A seguito della pubblicazione di Crusade John Mayall realizza due album dal vivo (Diary of a band vol. 1 e 2, Decca-1968), registrati in occasione dei concerti europei e inglesi di fine 1967. John McVie ha già abbandonato per raggiungere i Fleetwood Mac e poco dopo se ne va pure Keef Hartley, in cerca di gloria solista. Così Mayall deve riorganizzare i Bluesbreakers per l’ennesima volta e la scelta si rivolge ad un gruppo orientato verso un blues meno canonico, con accenti jazzati e uno stile progressivo. Ne esce un’ambiziosa formazione a sette che, oltre al leader e a Mick Taylor, presenta Dick Heckstall Smith e Jon Hiseman (provenienti dalla Graham Bond Organization), l’ottimo bassista Tony Reeves e una corposa sezione fiati con Chris Mercer e Henry Lowther (che si esibisce anche al violino). Bare wires è idealmente suddiviso tra una prima sezione costituita da una singolare suite blues che titola l’intero lavoro e una seconda parte più in linea con la precedente produzione di Mayall. Gli aspetti moderatamente innovativi e sperimentali della suite di Bare wires, interamente composta da Mayall, creano un affascinante contrasto con il blues sempre rigoroso della struttura complessiva dell’opera, sostenuta da una sezione ritmica che si affida alla colorita poliritmia di Hiseman e alle capacità tecniche di Reeves, e valorizzata dall’inserimento dei fiati che dettano gli arrangiamenti con originalità. La litania di Bare wires introduce Where did I belong, un quieto brano sottolineato dal violino di Lowther. La successiva Start walking accende improvvisamente il ritmo, con belle cadenze blues jazz e la brillante chitarra di Taylor, notevolmente irrobustita rispetto a Crusade. Open a new door offre interessanti arrangiamenti dei fiati che modellano il dinamico blues di base ; in Fire il suono del complesso presenta parti improvvisate che allontanano dal classico approccio stilistico dei Bluesbreakers, riproposto su I know you, un sofferto blues con inserti di clavicembalo. Chiude la suite l’incalzante Look in the mirror, con gli strumenti che s’incrociano in un’elastica jam e la prestazione di Heckstall Smith ai sax tenore e soprano, soffiati all’unisono. Nella seconda parte del disco spiccano i fiati blues di I’m a stranger, il moderato gusto soul di No reply, il brioso strumentale Hartley quits (un brano di Taylor) e il magro folk blues di Sandy. Come al solito il gruppo dura lo spazio di un LP in quanto Hiseman, Reeves e Heckstall Smith nello stesso anno elaborano il progetto Colosseum. Nel 1969 Mayall abbandona la gloriosa sigla dei Bluesbreakers e torna alla vecchia formula del quartetto ; con lui sono il solito Taylor e una nuova sezione ritmica costituita dal bassista Stephen Thompson e dal batterista Colin Allen. Blues from Laurel Canyon è un disco estremamente godibile, che s’affida all’alternanza di pezzi soffusi (First time alone) con brani quasi hard (Vacation, 2401) condotti a chitarra sguainata da Mick Taylor. Ottima è The bear (dedicata a Bob Hite dei Canned Heat), con un’introduzione coinvolgente dominata dal suono metallico della chitarra. La musica risulta più roccata del solito, il gruppo appare solido ed affiatato ma, di nuovo, è destinato ad un precoce scioglimento. Taylor entra nei Rolling Stones, Allen nel 1970 è uno dei membri fondatori degli Stone the Crows, gruppo nel quale sarà raggiunto (nel ’71) anche da Thompson. Sempre nel 1969, Mayall dimostra un notevole eclettismo approntando un nuovo quartetto con il confermato Thompson al basso, il chitarrista Jon Mark e il fiatista Johnny Almond, che aveva già avuto un approccio nel 1966 per il disco dei Bluesbreakers con Clapton. La novità risiede in una proposta completamente acustica di un folk blues jazz divertente e raffinato, che trova buona espressione nella dimensione live dell’album The turning point (Polydor-1969), registrato nel luglio ’69 al Fillmore East di New York ; da queste basi acustiche Mark e Almond traggono lo spunto per la costituzione di una propria formazione attiva nei primi anni Settanta. Da questo momento la produzione discografica di John Mayall prosegue copiosa ma spesso priva dell’elevata qualità che contraddistingue gli album degli anni Sessanta. Una piacevole eccezione è il doppio Back to the roots (Polydor-1970) che registra la partecipazione di Clapton, Green e Taylor, momentaneamente tornati a dare una mano al loro vecchio datore di lavoro. Le origini dei Fleetwood Mac risalgono al 1966 quando il batterista Mick Fleetwood, dopo le prime esperienze con i Cheynes e i Bo Street Runners, entra nei Peter Barden’s Looners. Il complesso dura appena pochi mesi (dal febbraio al maggio ’66) e comprende, oltre a Bardens e Fleetwood, il bassista Dave Ambrose (poi con Brian Auger) e il giovane chitarrista Peter Green. La formazione pubblica un solo 45 giri e quindi si amplia con l’inserimento dei cantanti Rod Stewart e Beryl Marsden, modificando nome in Shotgun Express. Contemporaneamente Green partecipa, con i Bluesbreakers, alle sedute di registrazione (ottobre/novembre ’66) dalle quali viene ricavato il classico A hard road, e qui il musicista ha occasione di conoscere John McVie, sin dal 1964 fido bassista di John Mayall. A discapito di un organico dal notevole potenziale gli Shotgun Express hanno vita breve (due singoli all’attivo) ed esaurita la parentesi con Mayall, nel luglio ‘67 Green decide di riunire assieme a Fleetwood un nuovo gruppo, i Fleetwood Mac. Il primo nucleo del complesso è completato dal chitarrista Jeremy Spencer (proveniente dai Levi Set) e dal bassista Bob Brunning, che poco dopo l’esordio del gruppo (nell’agosto ’67, in occasione del Windsor Jazz & Blues Festival) abbandona per dedicarsi alla propria Sunflower Band ; al suo posto entra McVie che pone termine alla collaborazione con Mayall. E’ il produttore Mike Vernon ad offrire al complesso un contratto con la sua etichetta appena costituita, la Blue Horizon. Sono così pubblicati il primo album omonimo (Blue Horizon-1967) e il secondo Mr. Wonderful (Blue Horizon-1968), con i quali i Fleetwood Mac si affermano in modo autorevole nel panorama del blues inglese, facendo leva su uno stile piuttosto classico. La presenza di un talento del calibro di Green, naturalmente portato ad affrontare la materia blues con spirito innovativo, spinge il gruppo ad elaborare la musica in senso progressivo e l’ingresso in organico di un terzo chitarrista (Danny Kirwan) accentua ancor più questo processo evolutivo. Nel novembre ’68 esce il singolo Albatross, un brano melodico che differisce in modo evidente dalla produzione precedente ma la mossa successiva appare ancora saldamente legata alla tradizione e vede i Fleetwood Mac registrare, nel gennaio 1969, i nastri per un doppio LP nei mitici studi Chess di Chicago, a diretto confronto con musicisti quali Shakey Horton, Willie Dixon e Otis Spann. La musica contenuta in Blues jam at Chess (1969) è sanguigna ed appassionante, ma i tempi sono pronti per un deciso cambiamento di rotta ; purtroppo questo avviene solamente per il materiale inserito nell’album Then play on (1969), un disco di valore anche se non privo di sbavature. L’album viene commercializzato in modo caotico, con svariate differenti versioni sia per il mercato inglese sia per quello americano. Tra i brani sparsi sono da sottolineare i notevoli contributi di Green in Show-biz blues, che calca la mano sul folk blues più coinvolgente, in Underway, dotata di una melodia avvolgente che si collega a certo suono ‘acquatico’ alla Hendrix, nella pacata Before the beginning, che mostra il suo fluido stile caldo e passionale. Due composizioni si collocano ai vertici dell’album : la mutevole Oh well, che passa dal torrido clima hard blues dell’ouverture agli sprazzi classicheggianti della lunga e suggestiva coda acustica, e l’elettrizzante Rattlesnake shake, caratteristica nell’incedere pesante e caracollante, poggiata su una serie di marmorei riff delle chitarre che rendono il brano un vero manuale del rock blues. Buone anche Coming your way (di Kirwan) e Searching for Madge (di McVie), quest’ultima strutturata a livello di jam informale, a tratti spezzata da inserti forzati e non del tutto convincenti. Gli ultimi frutti del lavoro di Peter Green sono raccolti nei 45 giri di Man of the world e Green Manalishi, subito prima dell’improvviso abbandono da parte del chitarrista all’inizio del 1970. I Fleetwood Mac accusano il colpo, con la dipartita di Green il gruppo perde buona parte della fantasia creativa e strumentale, e l’uscita di scena, nel 1971, dell’altro membro fondatore Jeremy Spencer provoca un ulteriore, deciso allontanamento dallo stile della decade precedente. Numerosi musicisti si alternano all’interno del complesso e dopo una serie di dischi interlocutori, nel 1975, i Fleetwood Mac scelgono la strada dell’easy listening, ottenendo un successo di portata mondiale con la produzione di musica commerciale che nulla ha da spartire con i fasti blues degli anni Sessanta. Tra i musicisti che entrano a far parte dei Fleetwood Mac negli anni Settanta è da sottolineare la presenza della moglie di John McVie, Christine Perfect, cantante e tastierista con alle spalle un’interessante avventura nei Chicken Shack. Ideatore e animatore della formazione è il chitarrista Stan Webb ; originario di Birmingham, nel 1966 si trasferisce a Londra dove incontra la Perfect e il bassista Andy Sylvester (che sin dal ’64 suonano assieme nei Sounds of Blue, lo stesso complesso del futuro Traffic Chris Wood). Il gruppo viene completato con l’inserimento del batterista Dave Bidwell e, come accade ai Fleetwood Mac, guadagna un contratto discografico con la Blue Horizon. Nel 1968 i Chicken Shack pubblicano l’album d'esordio, 40 blue fingers freshly packed & ready to serve (prodotto da Mike Vernon), al quale collaborano Dick Heckstall Smith e Johnny Almond ai sassofoni. La musica ha dei solidi punti di riferimento nel blues revival dei primi anni Sessanta e nei Bluesbreakers di Mayall, accostando alla matrice tradizionale l’attitudine ad un suono non eccessivamente curato ed elaborato, che fa della semplicità espressiva il suo punto di forza. Lo stile alla chitarra di Webb non è formalmente perfetto né particolarmente innovativo, ma risulta tirato e godibile, la Perfect svolge un prezioso lavoro all’organo e soprattutto al piano, mentre la sezione ritmica è solida e precisa. Numerose le cover presenti, tra le quali risalta King of the world di John Lee Hooker, discreti sono i brani scritti da Webb, la strumentale Webbed feet e What you did last night che esibisce una buona prestazione del chitarrista, ottime l’originale You ain’t no good con il piano in evidenza e When the train comes back, entrambe composte dalla Perfect che si disimpegna anche come cantante solista. Sempre sotto la produzione di Vernon, nello stesso anno vengono effettuate le brevi sessions che generano il secondo LP O.K. Ken ?, lavoro che non aggiunge novità alla loro proposta musicale ed appare leggermente inferiore al precedente. Nel 1969 i Chicken Shack ottengono un buon successo con il singolo I’d rather go blind, una canzone del repertorio di Etta James che raggiunge le parti alte della classifica di vendita, poco prima che la Perfect abbandoni per entrare nei Fleetwood Mac. Al suo posto entra il tastierista Paul Raymond con il quale il gruppo realizza altri due album, 100 ton chicken (Blue Horizon-1969) e Accept (Blue Horizon-1970). Subito dopo i Chicken Shack si sfaldano : all’inizio del 1971 Sylvester, Bidwell e Raymond emigrano nei Savoy Brown e il solo Webb tenta di ripristinare la vecchia sigla, riuscendovi nel ’72 con l’aiuto tra gli altri dell’ex bassista dei Gods e dei Toe Fat, John Glascock. Esce ancora un disco accettabile (Imagination lady, Deram-1972), quindi la vicenda si trascina senza particolari sussulti, fra scioglimenti ed estemporanee riunioni. Quando all’inizio del 1970 Peter Green decide di lasciare i Fleetwood Mac il musicista è all’apice della popolarità, leader di uno dei più rispettati gruppi dell’epoca e chitarrista tra i migliori della scena rock. In realtà l’imprevedibile dipartita di Green evidenzia una grave crisi esistenziale, acuita da problemi legati all’assunzione di notevoli quantità di alcool e droghe. Da qui la necessità di chiudere il conto con l’assillante stile di vita proprio dello star system, senza ripensamenti, con il musicista che arriva addirittura a devolvere in beneficenza i diritti e i guadagni derivanti dalla vendita dei suoi dischi, quasi a volersi spogliare di ogni superfluo fardello di notorietà. PETER GREEN - THE END OF THE GAME (Reprise - 1970) In una situazione di così profonda instabilità psichica, Green riesce a trovare la lucidità per registrare un disco solistico di straordinaria bellezza, che con amara ironia viene intitolato The end of the game. Registrato nel maggio 1970 con l’aiuto di musicisti di notevoli capacità quali il pianista Zoot Money e il bassista Alex Dmochowsky (membro della Retaliation di Aynsley Dunbar), senza l’ausilio di produzioni esterne, il disco vede la luce in settembre generando costernazione tra gli appassionati, che si aspettano qualcosa di simile a Bluesbreakers e Fleetwood Mac, e spiazzando gli stessi addetti ai lavori, portati a reagire per lo più negativamente di fronte ad una musica senza inizio né fine, ben lontana dal consolidato concetto di canzone blues e rock’n’roll. In effetti, più che un disco tradizionalmente rock The end of the game appare come un estremo tentativo, privo di compromessi, di rendere comprensibile la grande passionalità dell’anima di Green, di cogliere l’attimo fuggente della propria arte tramite una musica in libertà, disinibita, aperta a contaminazioni di ogni genere, dotata di estatiche vibrazioni e d'improvvisi cambi d’umore. La materia trattata è completamente strumentale e le parti liriche spettano di diritto alla chitarra che canta d'amore e sofferenza, di splendori e di disillusione. Naturalmente un’opera siffatta non vende, ma questa è di certo l’ultima preoccupazione di Peter Green, ormai destinato ad una dolorosa, autonoma emarginazione dal music business. L’apertura spetta al vortice senza vie d’uscita di Bottoms up, un’informale jam funky blues dove Green mette a frutto la lezione hendrixiana, cavalcando con autorità le potenti ondate ritmiche (notevole il lavoro al basso di Dmochowsky) e insinuandosi tra le pieghe del suono, quando la cadenza rallenta e prende respiro. L’introduzione di Descending scale mette in luce il piano di Zoot Money, fino all’impatto con la chitarra che geme disperatamente trasformando il brano in un’ostica improvvisazione a forma libera. Burnt foot si affida a modi jazzati che evolvono in un’enfasi ritmica liberatoria ; Hidden depth è rarefatta e rilassata (come pure il breve frammento di Timeless time), illuminata dalla chitarra languida ed espressiva. La conclusiva The end of the game esplode nel turbine impetuoso dello strumento di Green, per poi navigare verso l’ignoto in una sensazione di pace irreale. Nel 1971 Green prova a tornare sulla scena, aiutando i Fleetwood Mac a completare un tour americano (quando Jeremy Spencer lascia la formazione in preda ad una crisi religiosa), ma il tentativo si rivela infruttuoso. L’anno successivo è la cantante Maggie Bell degli Stone the Crows a tentare di portarlo nel suo gruppo, in sostituzione del chitarrista Les Harvey (rimasto folgorato da un corto circuito durante un concerto). La leggenda vuole che Green, negli anni Settanta, entri un paio di volte in manicomio e, per sopravvivere, si dedichi ad umili attività (becchino, infermiere ecc.) : la dura realtà ci riconsegna, nel 1979, un musicista ben diverso, impegnato con uno stuolo di onesti mestieranti (si confondono nel mucchio anche il vecchio amico Peter Bardens e, in un solo brano, il batterista Godfrey Maclean) nella realizzazione dell’album In the skies, lavoro stanco e di modesti contenuti. Una storia finita male, ma non troppo, con la passione e l’amore per la musica, con fasti e disgrazie, e perciò ancor più vera. In ogni caso, alla fine del gioco, restano la musica e lo stile di grande strumentista di Peter Green, tra i maggiori innovatori del rock progressivo inglese. Tra i gruppi derivati in linea retta dai Bluesbreakers, meritano di essere ricordate almeno altre tre formazioni in grado di proporre una musica di buon livello nel panorama del British blues, sia pure partendo da presupposti e con stili diversi. Si parla di Aynsley Dunbar Retaliation, di Keef Hartley Band, di Mark-Almond. Prima d’entrare a far parte dei Bluesbreakers, il batterista Aynsley Dunbar suona con i Mojos, una piccola formazione di Liverpool che riesce a pubblicare un paio di 45 giri. Nell’estate 1966 Dunbar entra in una delle più importanti edizioni del gruppo di John Mayall, quella con Peter Green e John McVie che alla fine dello stesso anno registra A hard road. La decisione di costituire un proprio gruppo matura dopo una breve permanenza nell’appena nato Jeff Beck Group, con il quale il batterista non ha occasione d’incidere. Per la sua Aynsley Dunbar Retaliation, nel 1968, il neo leader s’avvale della collaborazione del cantante Victor Brox (già con Alexis Korner), del chitarrista John Moorshead e del bassista Keith Tillman, presto sostituito da Alex Dmochowsky. Così sistemato, il gruppo registra i primi due album, Aynsley Dunbar Retaliation (Liberty1968) e Dr. Dunbar prescription (Liberty-1969), validi anche se legati ai collaudati schemi del blues revival e privi di riscontro commerciale. AYNSLEY DUNBAR RETALIATION - TO MUM, FROM AYNSLEY AND THE BOYS L’avvento in organico di Tommy Eyre, tastierista della Grease Band (il gruppo di Joe Cocker, suo l’indimenticabile organo di With a little help from my friends), apporta sostanziali novità nella musica del complesso. Pur mantenendo una chiara impostazione blues (c’è la produzione di John Mayall) il suono acquisisce un approccio decisamente moderno, con una tendenza vagamente jazz sotto l’aspetto timbrico ; l’equilibrio e il buon gusto dei musicisti fanno il resto, rendendo la proposta raffinata e, al tempo stesso, dotata di notevole dinamismo. L’apertura del terzo album è riservata alla sepolcrale Don’t take the power away, seguita dalle movimentate Run you off the hill e Let it ride che esibiscono le indubbie capacità tecniche dei Retaliation : il drumming variegato e preciso del leader confortato dalle linee di basso del buon Dmochowsky, il timbro caldo dell’organo di Eyre, la chitarra mai invadente di Moorshead e il burbero canto melodico di Victor Brox. Journey’s end è introdotta da un imprevedibile, classico, organo da chiesa, preludio ad un lento blues strumentale. Down, down, down e Sugar on the line s’affidano ad interessanti soluzioni ritmiche, Unheard esplicita le doti percussive di Dunbar e quelle al piano di Eyre, in un insolito duetto (almeno in territori rock), mentre Leaving right away chiude degnamente un lavoro di qualità, lontano dai facili entusiasmi del disco da classifica. La mancanza di successo rende difficile la vita della Retaliation che, nel 1970, attraversa una crisi piuttosto profonda, con lo stesso Dunbar che si defila momentaneamente. Il gruppo, guidato da Brox, pubblica un disco raffazzonato anche se non del tutto deludente (Remains to be heard, Liberty-1970), al quale Dunbar partecipa solo in alcuni brani. Poco dopo il batterista rifonda il complesso e registra Blue whale (Warner Bros.-1970), un buon lavoro che presenta uno stile atipico rispetto al resto della produzione. Dmochowsky nel maggio 1970 partecipa alle registrazioni del capolavoro di Peter Green The end of the game, Eyre raccoglie il posto di tastierista nei Mark-Almond e Dunbar trova il modo di collaborare a diverse registrazioni di Frank Zappa (tra il ’70 e il ’72), nel ’74 è presente su Diamond dogs di David Bowie, quindi raccoglie i frutti di una gloriosa carriera partecipando alle fortune commerciali dei Journey e degli stracotti Jefferson Starship. Certamente meno rigorosa ed interessante risulta la proposta della band di Keef Hartley. Il musicista inizia ai tamburi degli Artwoods, un gruppo R & B formato nel 1964 dal cantante Art Wood (già con i Blues Incorporated e fratello del noto chitarrista Ron Wood) che vede la presenza del tastierista Jon Lord, poi fondatore dei Deep Purple. Hartley rimane negli Artwoods fino all’aprile 1967, quando entra a far parte dei Bluesbreakers con i quali incide il notevole Crusade. Nel 1968 nasce la Keef Hartley Band che inizialmente comprende i chitarristi Miller Anderson e Spit James, il tastierista Peter Dines e il bassista Gary Thain ; il suono parte, ovviamente, da presupposti blues ma la proposta manca del rigore stilistico della Retaliation, né riesce a colmare le lacune con un impatto forte degli strumenti. L’aspetto più originale va ricercato nell’afflato melodico di gran parte del materiale presente sul primo album, registrato sul finire del 1968. Halfbreed (Decca-1969) vede la partecipazione del solito Mayall e di una corposa sezione fiati dove spiccano i nomi di alcune vecchie conoscenze del giro Bluesbreakers, quali Henry Lowther (tr.vi.) e Chris Mercer (sax.). Il disco è un lavoro di buon livello, il migliore della produzione di Hartley e presenta i momenti più convincenti nella sequenza iniziale di The halfbreed, nel lungo blues melodico Born to die, nelle agili soluzioni ritmiche di Sinnin’ for you, impreziosita da una buona prestazione dei fiati. Le chitarre accennano a qualche rudezza nella solida Leavin’ trunk, che in alcune parti s’avvale di un’andatura alla Free, e nella cover di Think it over che imposta il riff alla maniera soul rock della Band of Gypsys. I successivi The battle of north west 6 (Deram-1969), che vede la partecipazione di Mick Taylor, e The time is near (Deram-1970) sono dischi dignitosi che non aggiungono granché a quanto espresso nell’album d’esordio. Nella prima metà dei Settanta Hartley continua ad incidere come solista, collabora con Mayall all’album Back to the roots del 1970, suona come accompagnatore di Michael Chapman, quindi ritrova Miller Anderson (reduce da un disco sotto proprio nome e dall’esperienza Hemlock, nel 1973 con due ex Fat Mattress) nei Dog Soldier che pubblicano un album nel 1975. Il chitarrista Jon Mark e il sassofonista Johnny Almond costituiscono l’ossatura del complesso di John Mayall che nel 1969 registra il long playing di The turning point. In precedenza, Mark partecipa all’effimero progetto dei Sweet Thursday, dove tra gli altri sono presenti Nicky Hopkins e Alun Davies (stretto collaboratore di Cat Stevens, nel periodo d’oro del cantante), mentre Almond vanta esperienze con i gruppi di Zoot Money, di Alan Price e collabora con i Bluesbreakers all’epoca di Eric Clapton. Ai due si uniscono Tommy Eyre (ts.), al termine dell’avventura con i Retaliation, e Roger Sutton (v.ch.bs.pr.vc.) proveniente dai Jody Grind. I Mark-Almond rappresentano l’espressione soft della scena del blues progressivo inglese, con la particolarità di una musica completamente acustica che associa rarefatte atmosfere folk blues a raffinati toni di derivazione jazzistica. Il limite della loro proposta risiede nella natura stessa dello stile, indolente ed esasperatamente ricercato, che affascina ma, pure, congela le emozioni in fragili cristalli sonori. L’omonimo album d’esordio del 1971 sintetizza al meglio i concetti creativi del gruppo, ad iniziare dall’estatica pace gospel di The ghetto che funge da suggestiva introduzione al lavoro. La delicata chitarra di Mark ricama movenze eleganti nella calda The city, prima di un repentino ritorno al minimalismo timbrico, quasi cameristico, di Tramp and the young girl, caratterizzata da vibrafono (Almond), flauti e violoncello. La ‘minisuite’ di Love è il brano più ambizioso del disco, dove il ritmo s’accende all’improvviso creando un concreto punto di riferimento per gli spunti solistici di una moltitudine di strumenti ; la chiusura è riservata ai bagliori rifratti delle sensazioni jazz di Song for you. Il secondo LP Mark-Almond II (Blue Thumb-1972) prosegue sulla stessa via, mostrando una maggiore propensione ritmica a causa della presenza di Danny Richmond (batterista con Charles Mingus), ma anche una minore varietà di temi, affidandosi in prevalenza ad una forma canzone classica e risultando meno brillante nelle sonorità. Poi la formazione si allarga a nuovi musicisti, Eyre e Sutton vengono sostituiti e le opere seguenti sono di qualità inferiore. - 12 Jeff Beck entra negli Yardbirds in sostituzione del dimissionario Eric Clapton nel marzo 1965, dopo una breve gavetta con i Tridents, e vi resta sino al novembre 1966, quando abbozza l’idea di una propria formazione che s'inserisca con autorità nella nascente era del rock blues, inaugurata dai bollenti eccessi sonori di Jimi Hendrix e dal power blues dei Cream. La prima versione del complesso si concretizza nel 1967 e s’avvale dell’apporto di Rod Stewart, di Ron Wood e di Aynsley Dunbar ; il batterista, appena uscito dai Bluesbreakers di A hard road, preferisce continuare per la sua strada formando nel ’68 la Retaliation e il posto ai tamburi viene rilevato da Mick Waller, ex membro degli Steampacket. Stewart nei primi anni sessanta canta e suona l’armonica in oscure formazioni e arriva all’incisione discografica con gli Hoochie Coochie Men di Long John Baldry (il 45 giri Good morning little schoolgirl). Tra la fine del ’65 e l’autunno ’66 è nel supergruppo degli Steampacket (forse il primo della storia del rock), una formazione ideata dal produttore Giorgio Gomelsky comprendente Baldry, l’organista Brian Auger, la cantante Julie Driscoll e Mick Waller alla batteria. Nella breve e travagliata esistenza il nucleo riesce a registrare solo alcuni nastri di prova che vedono la luce qualche anno più tardi. Subito prima d’entrare nel Jeff Beck Group, Stewart suona con i Shotgun Express, altra formazione sulla carta molto promettente che annovera la cantante Beryl Marsden, Peter Bardens (ts., poi nei Camel), Dave Ambrose (bs.) e i futuri Fleetwood Mac, Peter Green e Mick Fleetwood ; dopo due soli singoli, nel febbraio 1967, il gruppo cessa d’esistere. Ron Wood esordisce alla chitarra nel complesso dei Birds e giunge alla corte di Beck dopo due brevi parentesi con i Santa Barbara Machine Head, al fianco di musicisti quali Jon Lord, Twink e Kim Gardner, e con gli ultimi Creation (marzo - giugno ’68). Pur essendo un chitarrista già sufficientemente considerato, Wood entra nel Jeff Beck Group come bassista per mettere in condizione il leader d’usufruire del massimo spazio possibile per le sue evoluzioni. JEFF BECK - TRUTH (Columbia - 1968) Attribuito al solo Jeff Beck, Truth fissa con determinazione i punti fermi di un rock blues conciso e muscoloso, che mostra chiaramente la via da seguire per giungere all’hard più creativo. Se i Cream dirigono la loro musica verso l’improvvisazione radicale, espandendo all’inverosimile la struttura delle canzoni in particolare nelle esibizioni dal vivo, Jeff Beck preferisce seguire l’insegnamento del primo Hendrix, proponendo creazioni stringate, mirate ad un diretto coinvolgimento fisico dell’ascoltatore. E’ fuori di dubbio che da queste solide basi attingono a piene mani gruppi come Free e, soprattutto, Led Zeppelin, per la messa a punto di uno stile hard blues di grande impatto emotivo e commerciale. Certo non è casuale la scelta d’aprire il disco con Shapes of things (dal repertorio degli Yardbirds), brano che segna un fondamentale momento evolutivo del British blues che si rivolge verso nuovi orizzonti. Beck riscrive la canzone sotto l’aspetto ritmico e melodico, con l’apporto decisivo del fraseggio agile ed insistente del basso di Wood e del caldo timbro vocale di Stewart, tra i cantanti più adatti al genere. Il suono è indurito da un eccellente lavoro di Beck, che sovrappone diverse parti di chitarra riuscendo a donare al brano una consistenza inedita. Rod Stewart si propone come compositore di alcune ottime canzoni, tra le quali risalta la possente Let me love you, dominata da un pregevole assolo di chitarra che conferma Beck grande strumentista ed innovatore ; valide anche Rock my plimsoul, che segue le medesime coordinate sonore, e Blues de luxe, un blues ordinato che permette di apprezzare l’operato al piano di Nicky Hopkins, in una finta atmosfera live. Tra le versioni di classici del blues spiccano due composizioni di Willie Dixon, You shook me, della quale terranno debito conto i Led Zeppelin sul loro album d’esordio, e I ain’t superstitious, con Beck che si supera all’effetto wah-wah. Beck’s bolero è un breve e gustoso omaggio ai modi di Ravel, con le chitarre che ondeggiano sfuggenti sul ritmo ossessivo spezzato, nella parte centrale, da una poderosa esplosione hard. La session, che risale al 1966, è realizzata da una formazione di gran prestigio, con Beck e Jimmy Page (autore del brano) alle chitarre, Nicky Hopkins al piano, John Paul Jones al basso e Keith Moon alla batteria ; proprio in quest’occasione inizia a circolare il nome Led Zeppelin, suggerito da Moon per un’eventuale collaborazione con Page. Non tutto l’album è su livelli così elevati, ma qualche piccola caduta di tono non toglie a Truth il rilievo storico che merita nell’ambito della nascente scena rock blues. Dello stesso anno sono alcune valide registrazioni di Stewart con i Python Lee Jackson, tra le quali va ricordata In a broken dream, pubblicata come singolo di buon successo solo nel 1972. Nel 1969 il Jeff Beck Group si ripropone con l’ingresso a pieno titolo di Nicky Hopkins, mentre Waller viene sostituito dall’ottimo Tony Newman, proveniente dai Sounds Incorporated. Sempre sotto la produzione di Most, il gruppo concede il bis con l’album BeckOla (Columbia-1969) che conferma le qualità della musica senza aggiungere grandi novità, risultando disco compatto e privo di sbavature. Anche in Beck-Ola trovano posto belle versioni di classici quali All shook up e Jailhouse rock, ma l’apporto creativo dei membri del gruppo è accresciuto come dimostrano Plynth (water down the drain) e Hangman’s knee. Di rilievo la conclusiva Rice pudding, una ruvida jam caratterizzata da una delicata parentesi centrale, dove Beck e Hopkins tolgono il respiro approntando un fraseggio d’incantata bellezza che anticipa le atmosfere esportate in California dallo stesso Hopkins, sull’album Volunteers dei Jefferson Airplane. L’improvviso scioglimento della formazione, nel luglio 1969, porta Stewart e Wood (tornato alla sei corde) all’unione con gli ex Small Faces Ronnie Lane, Ian McLagan e Kenny Jones per la nascita dei Faces, onesto gruppo rock blues di buon successo con diversi album all’attivo. Ben presto i Faces sono oscurati dalla maggiore consistenza di vendite dei dischi solisti di Stewart, tra i quali s’evidenzia l’ottimo Gasoline Alley (Vertigo-1970). Nell’occasione il cantante è accompagnato dai Faces quasi al completo e produce una sorta di manuale pratico della ballata rock blues, proponendo materiale equilibrato ed uniforme, senza particolari picchi o scadimenti creativi. La sua musica ha ormai abbandonato ogni velleità progressiva, risultando legata a canoni tradizionali di fare rock e la qualità delle uscite discografiche, inizialmente buona, appare inversamente proporzionale al successo ottenuto, già dai primi anni Settanta. Sciolta la congrega dei Faces nel 1975, in seguito all’abbandono di Stewart, Ron Wood pesca il jolly dell’intera carriera rilevando il posto di Mick Taylor nei Rolling Stones. Da parte sua, Beck progetta una formazione triangolare con la sezione ritmica degli americani Vanilla Fudge (Tim Bogert - bs. - e Carmine Appice - bt.) quando un serio incidente d’auto lo costringe lontano dalla scena musicale per diversi mesi ; il trio ha modo di unirsi qualche anno più avanti, nel 1973, per l’incisione di due album di non eccelsa qualità. Una nuova edizione del Jeff Beck Group nasce nel 1971, con Bob Tench (v.), Clive Chaman (bs.), Max Middleton (ts.) e Cozy Powell (bt.), e nell’arco di un paio d'anni pubblica Rough and ready (Epic-1971) e Jeff Beck Group (Epic-1972), due dischi di simile livello qualitativo caratterizzati da un hard melodico con venature soul e qualche vaga sfumatura jazz. Si tratta degli ultimi fuochi creativi di Jeff Beck, che dal ’75 prosegue la carriera con pubblicazioni di valore alterno. I Black Cat Bones sono un’oscura formazione del primo rock blues inglese, nella quale militano il chitarrista Paul Kossoff e il batterista Simon Kirke. I due non riescono ad incidere con il gruppo e all’inizio del 1968 provano a cercare maggior fortuna nei Free, assieme al cantante Paul Rodgers (ex membro dei Roadrunners e dei Brown Sugar) e al bassista sedicenne Andy Fraser (al suo attivo un breve ‘stage’ di due mesi con John Mayall). Nello stesso anno il gruppo esordisce brillantemente con l’album Tons of sobs, che mette subito in chiaro gli elementi basilari del loro rock blues, tirato e sudato, in brani di notevole spessore quali Worry, Goin’ down slow, Moonshine, I’m a mover. Rodgers s’impone come uno dei migliori interpreti del genere, dotato di un timbro vocale caratteristico e di un approccio personale, bilanciando sapientemente una trasandata aggressività con l’ottima predisposizione melodica. Kossoff è un chitarrista piuttosto originale, in grado di fornire un buon impatto ritmico e un apporto solistico asciutto ed essenziale, sostenuto dal basso irrefrenabile di Fraser e dalla metronomica batteria di Kirke. FREE - FREE (Island - 1969) Il secondo long playing, pubblicato nell’autunno del 1969 e prodotto da Chris Blackwell (fondatore della Island Records), raggiunge l’apice delle possibilità espressive dei Free. Così come Tons of sobs mostra, sin dall’apertura, la potenza e la vitale aggressività del suono con il blues roccato e urlato di Worry, Free propone subito, con I’ll be creepin’, arrangiamenti curati ed eleganti mediante l’uso di tempi rallentati e di frequenti aperture melodiche. Rodgers domina la situazione con eccellenti prestazioni vocali, che lo confermano tra i cantanti di maggior interesse del tempo, spalleggiato da un Kossoff ispirato e teso a soppesare attentamente le note che scaturiscono dal suo strumento, evitando di prodursi in inutili sproloqui solistici. Fraser e Rodgers, autori di quasi tutte le composizioni, propongono un’alternanza tra brani lenti, melodici e canzoni di maggior spessore ritmico, senza mai scadere in sonorità scontate o banali. Songs of yesterday marca il tempo in modo deciso, con il sostegno fantasioso del basso di Fraser e della possente batteria di Kirke. Se la raffinata Lying in the sunshine non convince del tutto, notevoli sono invece la rarefatta Mouthfull of grass (uno strumentale illuminato dalla lirica chitarra di Kossoff, che accarezza le note con disarmante semplicità) e la sofferta ballata blues di Free me. Trouble on double time s’affida ad un accattivante rhythm & blues dotato di un’originale coda finale a tempo di valzer, mentre Woman mostra il gruppo compatto ed aggressivo. Broad daylight e Mourning sad morning sono belle ballate, elettrica ed indolente la prima, acustica e malinconica l’altra, a conclusione di un disco originale e ricco di fascino. La serie di concerti negli Stati Uniti come gruppo di spalla ai Blind Faith contribuisce ad accrescere ulteriormente la popolarità dei Free che poco dopo ottengono grande successo con il singolo All right now, un hard’n’roll che si piazza ai primi posti delle classifiche inglese ed americana. I Free sono all’apice della notorietà quando, nel 1970, incidono il terzo LP Fire and water, che li conferma ancora ad alto livello. Il disco contiene una ‘long version’ di All right now, sicuramente ben costruita anche se non troppo fantasiosa e alcune canzoni mostrano un suono piuttosto rilassato, in qualche caso convincente (Oh I wept, Heavy load), in altri momenti con evidenti segni di stanchezza (Remember, Don’t say you love me). Ad elevare notevolmente la media qualitativa dell’album contribuisce la stupenda Fire and water, un rock blues tra i più classici del repertorio dei Free che presenta un’epica e concisa introduzione, cadenze dure e un memorabile, ficcante assolo minimale di Paul Kossoff. La vitalità residua viene spesa nell’entusiasta jam di Mr. Big che si apre sofferta e strascicata, nella migliore tradizione del gruppo, per poi evolvere in un concentrico ed ipnotico effetto armonico realizzato dalla chitarra di Kossoff, a sostegno dell’incontenibile basso solista di Fraser. Sull’onda del successo i Free si esibiscono nell’agosto 1970 al festival dell’isola di Wight e pubblicano un nuovo microsolco, che segna l’inizio della decadenza creativa del complesso. Highway (Island-1970) non possiede la forza propulsiva dei primi tempi, né le raffinate intuizioni e l’equilibrio stilistico del secondo album e nella musica dei Free si fa strada un manierismo che provoca alcune nette cadute di tono, intaccando la qualità delle pur discrete The highway song, The stealer, Be my friend, che in ogni caso s’ascoltano più volentieri di decine di modesti epigoni. Ancora esce il discreto Free live (Island-1971), quasi interamente registrato dal vivo, e il gruppo si scioglie nel maggio del ’71. Kossoff e Kirke registrano un disco con il giapponese Tetsu Yamauchi (bs.) e il texano John ‘rabbit’ Bundrick (ts.), Fraser suona con i Toby senza ottenere alcun riscontro e Rodgers costituisce i Peace, un trio teoricamente interessante che annovera Stuart McDonald (bs., ex Killing Floor) e Mick Underwood (bt., dai Quatermass). I Peace falliscono miseramente dopo aver effettuato una manciata di registrazioni in studio e alcuni concerti di spalla ai Mott the Hoople. Visto l’insuccesso dei vari progetti, i Free tornano insieme all’inizio del 1972 per dare alle stampe il non esaltante Free at last (Island-1972). Alla fine dell’anno Fraser abbandona definitivamente i compagni ed entra negli Sharks, la nuova band del chitarrista Chris Spedding (Battered Ornaments, Nucleus), con i quali incide l’album First water (1973) ; in seguito forma la Andy Fraser Band. Per l’ultimo, deludente, Heartbreaker (Island-1973) i Free s’avvalgono della collaborazione di Yamauchi e Bundrick ; durante le registrazioni del disco Kossoff entra in crisi a causa di gravi problemi di droga e il suo abbandono è il colpo di grazia alle residue velleità del complesso, che si disgrega per sempre alla fine del 1973. Poi viene la Bad Company, gran successo commerciale per Rodgers e Kirke con Mike Ralphs (ch., Mott the Hoople) e Boz Burrell (bs., King Crimson), sotto il patrocinio del manager dei Led Zeppelin, Peter Grant, e ancora si ascolta l’onesto rock blues dei Back Street Crawler, la nuova formazione di Kossoff che quando sembra aver superato i momenti critici della tossicodipendenza muore improvvisamente, colpito da un attacco cardiaco nel marzo 1976. Sin dal 1963 Jimmy Page è un apprezzato sessionman della scena rock (la sua chitarra appare in registrazioni di Them, Kinks, Donovan, Chris Farlowe, Jeff Beck, Joe Cocker e mille altri) e nel giugno 1966 trova un posto fisso (come bassista) negli Yardbirds, in sostituzione del dimissionario Paul Samwell Smith. Pochi mesi più tardi, quando abbandona anche Jeff Beck, Page torna ad esibirsi alla chitarra solista e gestisce l’ultima fase della carriera del complesso ; nel settembre del ’68 è senza gruppo, con il problema di dover ottemperare ad impegni presi per un tour in Scandinavia e, per far fronte alla situazione, decide di allestire una formazione provvisoria chiamata New Yardbirds. Il chitarrista si ricorda di John Paul Jones (bs.or.), un sessionman con il quale ha ripetutamente avuto modo di lavorare, e per i ruoli di cantante e batterista contatta il già famoso Terry Reid e B. J. Wilson dei Procol Harum. I due, però, non si rendono disponibili e Page è costretto a ripiegare su sconosciuti musicisti che tra il ’67 e il ’68 suonano con la Band of Joy, Robert Plant e John Bonham. Stanco di suonare in dischi di altri, Page insiste nell’ipotesi di un suo gruppo e in ottobre i New Yardbirds cambiano sigla in Led Zeppelin, prendendo spunto da un vecchio suggerimento di Keith Moon allo stesso Page. In quel mese il gruppo si reca negli studi Olympic dove registra, in una trentina di ore, i pezzi da includere in un eventuale album ed inizia ad esibirsi in piccoli club e nel circuito dei college e delle università. LED ZEPPELIN - LED ZEPPELIN (Atlantic - 1969) Le potenzialità dei Led Zeppelin sono eccezionali e le poche ore di lavoro in studio risultano sufficienti a partorire un album eccellente e travolgente, che si colloca al vertice dell’espressione più dura ed intransigente del blues inglese. Le intuizioni della loro proposta derivano in linea retta da Truth di Jeff Beck ma il gruppo di Page va ben oltre, sintetizzando al massimo l’ispirazione blues delle canzoni in una musica ruvida e coinvolgente che rappresenta l’anticamera dell’hard rock. Page sfrutta la notevole esperienza maturata in anni di sessioni di registrazione dimostrando una padronanza tecnica invidiabile, sempre puntuale nella propulsione ritmica, incontenibile e al tempo stesso misurato nel solismo, arricchendo nel corso degli anni uno stile che rimane costante punto di riferimento per i chitarristi del genere. Robert Plant non dispone degli straordinari mezzi vocali di un Rod Stewart ma grazie ad una grande personalità, nel tentativo di adattarlo perfettamente alla musica del gruppo, modella il canto rendendolo immediatamente riconoscibile. La sezione ritmica è solida e precisa come poche, non solo per merito di Page ma anche per il suono profondo e spettrale del basso di Jones e per i poderosi colpi inferti ai tamburi da Bonham. Good times bad times mette subito le cose in chiaro : mai si era ascoltato un approccio così duro e schematico, se si eccettuano alcune invenzioni del primo Hendrix (Fire, If six was nine, Spanish Castle magic). Qui però il suono è puro metallo fuso, privo d’implicazioni psichedeliche, crudo e diretto ad un impatto fisico meno selvaggio ma ancor più pesante e senza vie di fuga. Babe I’m gonna leave you, un traditional arrangiato da Page, è giocata sul continuo contrasto tra un clima acustico stemperato e improvvise accelerazioni ritmiche, con una sofferta interpretazione di Plant. Due sono gli omaggi a Willie Dixon, sicuramente uno dei compositori più apprezzati dai musicisti inglesi nell’ambito del blues di Chicago : You shook me, già proposta da Jeff Beck su Truth, è resa con un arrangiamento originale che annovera interventi di organo, armonica e un pirotecnico assolo di chitarra con eco, mentre I can’t quit you baby appare classica e controllata ma non per questo meno brillante, a dimostrazione che gli Zeppelin sanno calarsi nel blues anche a stretto confronto con la tradizione. Dazed and confused è un blues da girone infernale, condotto dalla sicura voce di Plant e da un inquietante giro di chitarra ; il suono si placa e Page accarezza le corde con l’archetto del violino (seguendo l’esempio di Eddie Phillips dei Creation) sino alla micidiale ripresa che spezza bruscamente l’irreale atmosfera del brano. La ballata di Your time is gonna come si apre con l’organo di Jones che allenta la tensione, mentre la seguente Black mountain side, uno strumentale acustico di Page con il sapore della canzone folk, si avvale dell’accompagnamento di Viram Jasani alle tabla. Il brano è interrotto dall’improvvisa eruzione della chitarra elettrica che con un riff mozzafiato spiana la strada a Communication breakdown, il primo grande pezzo hard del gruppo, dove Plant riesce a dominare l’alta tensione generata con una prestazione estremamente aggressiva. Chiude il disco la spigliata How many more times che prende spunto da un giro di blues velocizzato, rendendo quasi l’impressione della prova da sound check nel suo incedere privo di precisi punti di riferimento (una citazione di The hunter, classico soul ripreso anche dai Free sul loro primo LP), con frequenti stacchi solistici e repentini cambi d’umore. Il dirigibile s’è levato in volo e non precipiterà tanto presto. - 13 L’espressione più calda e creativa del rock blues inglese si afferma nel biennio 1969 / 1970, nel quale si assiste ad un’ampia proliferazione di gruppi e musicisti dediti, con diversi approcci e caratteristiche, allo sviluppo di questo genere musicale. In tale momento storico molti iniziano (e a volte terminano pure) la loro carriera, altri raggiungono la piena maturità ; alcuni conquistano un consistente successo commerciale, i più si devono accontentare della gloria e a volte nemmeno di quella. Tra le formazioni longeve va segnalata quella dei Ten Years After del chitarrista Alvin Lee, attiva sin dal 1966 ; oltre a Lee, il quartetto comprende l’organista Chick Churchill, il bassista Leo Lyons e il batterista Ric Lee. I Ten Years After si mettono in mostra con una serie di esibizioni al Marquee e riscuotono gran successo nell’edizione 1967 del festival di Windsor. Sotto la produzione del solito Mike Vernon, nell’ottobre ’67 esce il primo omonimo LP che evidenzia un gruppo alle prese con una musica piuttosto rigorosa ed illustra lo stile virtuoso di Alvin Lee. I risultati sono buoni nel blues’n’roll di I want to know, nel lento d’atmosfera I can’t keep from crying, sometimes valorizzato da un'accattivante chitarra a tinte jazz, in Love until I die che (pur con un arrangiamento diverso) presenta curiose assonanze con la versione di Crossroads dei Cream. Anche le immancabili versioni di brani composti da Willie Dixon sono riuscite : Spoonful, meno potente rispetto all’interpretazione dei Cream, e Help me si basano essenzialmente sullo stile veloce e tecnico di Alvin Lee, che a volte esagera tirando le esecuzioni troppo per le lunghe con il rischio d’annoiare. La dimensione live è quella maggiormente congeniale al complesso che nel 1968 effettua la prima di una lunga serie di tournée in U.S.A., suonando in jam addirittura con Janis Joplin e Jimi Hendrix. Nell’agosto dello stesso anno esce il secondo album Undead, registrato dal vivo al Klooks Kleek di Londra, che presenta un effervescente blues jazz elettrico e roccato di buona fattura e contiene uno dei classici del repertorio del gruppo, I’m going home. TEN YEARS AFTER - STONEDHENGE (Deram - 1969) Album di transizione nella discografia dei Ten Years After, Stonedhenge è stato fin troppo sottovalutato dalla critica che lo ha sempre posto in secondo piano rispetto ad altri lavori del gruppo. Registrato nel settembre ’68 e pubblicato all’inizio del 1969 ancora con la produzione di Vernon, l’album, in effetti, risulta vario e poliedrico, apprezzabile tentativo da parte di Alvin Lee e compagni di confrontarsi con materiale più elaborato e, in parte, distante dalla classica matrice blues che contraddistingue i primi due dischi. Emblematico è l’esempio della complessa (e un poco frammentaria) Going to try, che passa con gran disinvoltura dal rock’n’roll a certo ‘Oriental space rock’ d’impostazione floydiana. Churchill è responsabile del breve frammento pianistico (...Monk ?...) di I can’t live without Lydia, che anticipa la godibile Woman trouble, un blues jazz dall’impronta simile alle atmosfere di Undead. Skoobly-oobly-doobob è un divertente scioglilingua chitarristico, introduzione al trascinante boogie di Hear me calling. I due blues sepolcrali A sad song e No title sono collegati tra loro dalla sarabanda percussiva di Three blind mice ; in particolare piace No title, che si dipana sonnecchiante per rivolgersi all’improvviso verso profili rock blues, grazie alle contorsioni della graffiante chitarra di Lee. C’è spazio anche per un intervento solistico del bassista Lyons (Faro) e per la buona chiusura del blues velocizzato di Speed kills. I Ten Years After ottengono un crescente successo commerciale e Alvin Lee è uno degli strumentisti più apprezzati quando partecipano al festival di Woodstock, nell’agosto 1969. In quell’occasione il gruppo fornisce una brillante prestazione che culmina nell’esecuzione al fulmicotone di I’m going home. Sono lontani i tempi delle raffinatezze di Undead e la musica, nella sua coinvolgente enfasi, appare decisamente orientata verso sonorità hard che trovano puntuale riscontro su Ssssh., il nuovo album pubblicato in settembre. Lo stile del complesso è sostanzialmente lo stesso ma l’approccio appare convenzionale, legato alle esigenze del successo di classifica : da un lato il suono indurisce, conservando qualche appiglio con le origini blues (Good morning little schoolgirl e I woke up this morning), dall’altro si perde in mollezze insipide, come dimostra la debole e leggera If you should love me che non si sa bene se vuol fare il verso a Hey Jude dei Beatles, o che altro. Ssssh. non è certo un brutto disco ma, di fatto, rappresenta l’avvio verso un lento ed inesorabile declino della fantasia creativa di Alvin Lee. Il successivo Cricklewood green (Deram-1970) conferma la tendenza ad un progressivo alleggerimento del suono. La resa definitiva avviene con Love like a man (ma nel disco c’è di peggio), uno dei maggiori successi commerciali della formazione, dove l’accento rock blues suona a semplice giustificazione per una musica esile, aggraziata ed innocua, che neppure riesce ad aggrapparsi a qualche sana sferzata hard. Ancora le solite ovazioni a Wight, nell’agosto ’70, ma per i Ten Years After l’avventura si fa sempre più deludente, sino allo scioglimento nella primavera del 1974. Più duratura, rispetto ai Ten Years After, ma meno produttiva ai fini del successo conseguito è la storia dei Groundhogs, un gruppo le cui origini risalgono addirittura al 1962. In pieno fenomeno blues revival il chitarrista Tony McPhee allestisce una formazione che spesso funge da sostegno per i bluesmen americani in tour nel vecchio continente ; tra questi il grande John Lee Hooker, con il quale i Groundhogs incidono un LP (And seven nights - 1966). Nel 1966 McPhee scioglie il gruppo e si dedica a svariate collaborazioni, suonando tra l’altro con gli Hapshash & Coloured Coat e con la John Dummer Blues Band, ma l’esigenza d’esprimere autonomamente la propria creatività porta il chitarrista a rispolverare il vecchio marchio. I Groundhogs del 1968, oltre a McPhee, comprendono Pete Cruickshank (bs., già presente nella primissima formazione), Ken Pustelnik (bt.), Steve Rye (v.ar.) e in ottobre sono autori dell’album Scratching the surface (Liberty-1968), disco dai toni ancora legati al blues revival. GROUNDHOGS - BLUES OBITUARY (Liberty - 1969) Perso per strada Rye, il gruppo s’assesta in un’asciutta configurazione triangolare che evolve la propria musica verso un’espressione moderna, tenendo in debito conto la lezione della Jimi Hendrix Experience. Con alla base un suono scarno ed essenziale, dalle profonde convinzioni blues, si fa largo l’impetuoso ed originale stile alla chitarra di McPhee che sicuramente deve molto a Hendrix, soprattutto per la predisposizione a saltare a piedi pari i vincoli precostituiti. Tra i tanti campioni della chitarra elettrica, McPhee è penalizzato dalla mancanza di un adeguato riscontro commerciale che gli consenta di elevarsi alla notorietà dei grandi dello strumento, come meriterebbe ; per contro, lo status di musicista underground è ciò che gli consente di rimanere per lungo tempo rigoroso nelle proposte, estraneo alle tentazioni di facili accomodamenti e compromessi. Come lo stile del chitarrista, anche la musica dei Groundhogs trova l’originalità della propria essenza non tanto in ambiti innovativi o sperimentali, quanto nel singolare contrasto tra una scrupolosa, e quasi testarda, ricerca timbrico - melodica e la propensione a liberare il suono in modo spregiudicato. Da parte loro, Cruickshank e Pustelnik forniscono un adeguato sostegno ritmico, all’apparenza disordinato ma pure solido ed efficace. Nel giugno 1969 i Groundhogs registrano il materiale (composto ed arrangiato da McPhee) che viene incluso nel secondo LP Blues obituary, lavoro dove si concretizzano i notevoli progressi conseguiti dal trio (impegnato in un eccellente blues progressivo dai caratteri molto informali), realizzato senza bisogno di complicati accorgimenti tecnici e privo di qualsiasi concessione alla canzone di facile consumo. Accanto a brani che mantengono una fisionomia tradizionale, come le ottime Express man e Natchez burning, trovano posto composizioni personali quali B.D.D., in grado di passare da un clima pacato a sfuriate al limite dell’hard rock, Times e Mistreated, blues ad alta velocità che adottano interessanti ed atipiche soluzioni timbriche. La creatività cruda e disorientante di McPhee si esplica nella stupenda Daze of the weak, introdotta da movenze hendrixiane e sviluppata attorno ad un'altalenante sequenza di suoni deraglianti, sostenuti dall’informale sezione ritmica. Altro vertice del disco è la conclusiva Light was the day, una cupa e frenetica cavalcata strumentale condotta da una chitarra da incubo, che modifica continuamente la cadenza in una sorta di rituale ossessivo di gran presa. Blues obituary chiude il lungo periodo marcatamente blues dei Groundhogs, risultando tra le migliori espressioni del genere in ambito progressivo. Il successivo Thank Christ for the bomb, registrato nel febbraio 1970 con l’assistenza di Martin Birch (poi fedele ingegnere del suono dei Deep Purple ‘Mark II’ e di altri gruppi hard), stabilisce in modo irreversibile le basi dello stile dei Groundhogs per i dischi degli anni Settanta. Il suono è ora orientato verso un rock più schematizzato, che mantiene connotati blues privilegiando aspetti vicini all’hard, mitigato da improvvise aperture melodiche. Strange town è uno degli esempi più vividi del nuovo corso, un ostinato e stridente hard blues capace di ritagliarsi impensabili spazi melodici di notevole fascino. Molto belle sono Garden, giocata sul contrasto tra l’armonia precisa e curata e il riff predatore della chitarra, la title track, che parte da sostenute linee folk blues per approdare all’ennesima anfetaminica e incontenibile jam, le spedite ballate di Soldier e di Ship on the ocean e la tirata Eccentric man. I Groundhogs si esibiscono al festival di Wight, ma il successo resta scarso e McPhee non scende a compromessi nemmeno nel seguente LP Split, realizzato nel novembre del ’70 sempre con la presenza di Birch. La suite suddivisa in quattro parti che titola l’album è la migliore sintesi dell’originale hard rock del complesso ; in alternativa, McPhee propone la bellissima ballata decadente di A year in the life, con una chitarra glaciale, e il gradito ritorno al blues della brillante Groundhog. Nel 1971 viene dato alle stampe un disco dal vivo a tiratura limitata, Live at Leeds (Liberty), e nel gennaio del ’72 il trio si ritrova in studio per le registrazioni del nuovo Who will save the world ? The mighty Groundhogs ! (United Artists-1972), che introduce sostanziali innovazioni nella loro musica. McPhee inserisce alcuni strumenti a tastiera (in particolare il mellotron) che donano al suono un aspetto più ricercato ; viene a mancare l’ardore tipico dei lavori precedenti ed affiora qualche mollezza di troppo, ma in fin dei conti l’operazione regge e dà buoni frutti, almeno nella sostanziosa The grey maze e nelle più formali Earth is not room enough e Wages of peace. Ken Pustelnik lascia il gruppo per tentare una carriera solistica che mai si concretizzerà, sostituito dall’ex batterista degli Egg, Clive Brooks. Il nuovo triangolo è responsabile di due album, Hogwash (United Artists-1972) e Solid (WWA-1974), che possiedono il merito di mantenere a livelli accettabili la produzione dei Groundhogs. In particolare Hogwash recupera parte dell’originaria aggressività, e anche se le novità sono oramai esaurite il suono appare vivo e pulsante : 3744 James road, il gioco funziona ancora ed è davvero difficile chiedere di più ad un personaggio semplice ed onesto come Tony McPhee. Di minor interesse appaiono le successive riedizioni del complesso, con le quali il chitarrista cerca di tenersi attivo sulla scena rock. Non meno intrigante ed ugualmente di scarso successo commerciale è la musica proposta dai Patto. Mike Patto (v.), Ollie Halsall (ch.), Clive Griffiths (bs.), John Halsey (bt.) e Chris Holmes (ts.) sono i Timebox, un complesso che tra il ’67 e il ’69 incide una numerosa serie di 45 giri ; con l’uscita dal gruppo di Holmes (che finirà nei Babe Ruth) i quattro rimasti cambiano nome in Patto ed iniziano a farsi conoscere per merito di alcuni riusciti spettacoli dal vivo, nei quali i musicisti dimostrano di possedere notevoli capacità tecniche. PATTO - PATTO (Vertigo - 1970) Con il sostegno di Muff Winwood (produttore della Island), verso la metà del 1970 i Patto firmano un contratto per l’etichetta progressiva Vertigo e realizzano un primo album omonimo che ottiene giudizi lusinghieri da parte degli addetti ai lavori, ma vende decisamente poco. Certo, la proposta del gruppo non è tra le più immediatamente digeribili ma, lo stesso, si fatica a capire come musicisti tanto preparati, autori di una musica originale, non facile ma pure di buon impatto fisico, vadano incontro ad un così netto insuccesso commerciale. Halsall, un chitarrista molto considerato nell’ambiente, è titolare di uno stile atipico, che scorre velocemente da entusiasmi hard a sfumature jazz, eppure resta in sostanza un emerito sconosciuto dovendosi accontentare in carriera di ruoli interessanti ma, in ogni caso, marginali. Griffiths e Halsey rendono la base ritmica imprevedibile ed imprendibile, eccellenti strumentisti che finiscono ben presto nel dimenticatoio. L’unico ad ottenere una meritata (e non esagerata) notorietà è Mike Patto, capace d’esprimere una delle più belle voci rock dei primi anni Settanta. I Patto dimostrano una buona dose di coraggio aprendo l’album con un brano quale The man che punta su fascinose e raffinate sonorità, in un’ideale sintesi di rock, blues e jazz. E’ una musica dai toni pacati, ben caratterizzata sotto l’aspetto timbrico (eccellente il tocco di vibrafono di Halsall), dove il blues è presente a livello di citazione embrionale nelle cellule che compongono i tessuti di un’espressione complessa, autonomamente svincolata dai modi classici del British blues. Gli stessi elementi sono alla base della bella Government man, gestita con una maggiore attenzione verso la forma canzone tipicamente rock, mentre l’impervia introduzione strumentale di Money bag riflette un’insolita predisposizione ad un approccio vicino al free jazz, mascherando qualche giustificabile incertezza con il brillante solismo di Halsall. Hold me back evolve in efficaci scansioni contrapposte, schizzi rock’n’roll, minimali riff hard blues e, come le più tradizionali Time to die e San Antone, mantiene un’elevata libertà espressiva. La rocciosa Red glow e il moto circolare dell’hendrixiana Sittin’ back easy completano l’ampio spettro sonoro dell’album, fissando i momenti di maggior solidità, affidandosi ad impetuose ondate chitarristiche imparentate con il grintoso rock blues del tempo, senza perdere un grammo dell’originale propensione creativa. Dal vivo i Patto ottengono buoni consensi, ma le vendite discografiche sono modeste anche in occasione del secondo LP Hold your fire (1971) che propone un suono levigato ed equilibrato, smussando gli estremismi presenti sul lavoro precedente. I riferimenti stilistici restano gli stessi ma la loro moderna sintesi strumentale si fa più complessa e personale, priva di definiti punti di riferimento e, forse proprio per questo motivo, difficile da collocare sul mercato. In ogni caso il disco è di ottima qualità, anche se inferiore al Patto d’esordio, e tra i brani vanno ricordati la bella Hold your fire, che si riallaccia a schemi già sperimentati, l’ottima polemica ballata di You, you point your finger, il rock’n’roll dai mille sviluppi di See you at the dance tonight e la rilassata Magic door. Mike Patto, sempre nel 1971, partecipa ai Centipede, ambiziosa creatura del jazzista Keith Tippett, apparendo sull’album Septober energy ; poco più avanti (inizio ’72) è Halsall a mettere in cantiere un progetto solista, che prevede l’interessamento di Robert Fripp, senza riuscire mai a renderlo definitivo. La Vertigo non rinnova il contratto al gruppo e un’ulteriore possibilità è offerta dalla Island per la quale esce un terzo album, l’ancora valido Roll’em smoke’em put another line out (Island-1972), ma tutti i tentativi per emergere sono vani. Dopo un concerto di addio tenuto a Sheffield nell’aprile del 1973, i Patto si sciolgono e la quarta fatica a 33 giri (Monkey’s bum) resta inedita per lunghi anni. Griffiths esce completamente dalla scena musicale, mentre Halsey suona con i Decameron. Halsall, fino al giugno ’74, si sistema con i Tempest di Jon Hiseman, con i quali registra l’album Living in fear, quindi collabora con Kevin Ayers ed è parte del cast del celebrato concerto evento al Rainbow del primo giugno 1974. Nel ’75 ritrova Mike Patto (che nel frattempo ha avuto un breve flirt con gli ultimi Spooky Tooth per l’album The mirror) nei Boxer, una formazione completata da altri due musicisti d’esperienza quali Keith Ellis (bs., Van Der Graaf Generator e Juicy Lucy) e Tony Newman (bt., Jeff Beck Group e May Blitz). L’epilogo della storia, purtroppo, è triste : Patto muore nel marzo del ’79 per un tumore alla gola e recentemente scompare anche Halsall. I Taste vivono un’importante, quanto breve, stagione tra il 1969 e il 1970, durante la quale il complesso guidato da Rory Gallagher sfiora il grande successo e viene additato da molti critici del tempo come la possibile reincarnazione del mito dei Cream. Il chitarrista irlandese forma il primo nucleo del gruppo nel 1966, con due membri provenienti dall’oscura band degli Axels, Eric Kitteringham (bs.) e Norman Damery (bt.). La svolta che porta alla nascita della formazione più nota avviene nel maggio del ’68, quando entrano nel gruppo due ottimi strumentisti quali il bassista Charlie McCracken e il batterista John Wilson, anche loro irlandesi. Le prime uscite discografiche, l’album Taste (Polydor-1969) e il singolo Born on the wrong side of time, propongono un triangolo compatto ed aggressivo che recupera la tradizione del blues elettrico con piglio duro e sfrontato, senza curarsi troppo della forma estetica dei brani. Il paragone con i Cream è giustificabile, ma pure forzato ed ingrato per i Taste che non possiedono l’eccelsa levatura tecnica del gruppo di Clapton, né la facilità di scrittura della coppia Bruce / Brown ; dal vivo poi Gallagher e compagni appaiono un poco velleitari, impostando il repertorio su lunghe improvvisazioni impetuose, coinvolgenti ma prive di quell’interscambio solistico che caratterizza le migliori rappresentazioni live dei Cream. Ovviamente questo non impedisce ai Taste di guadagnare la posizione di gruppo onesto e preparato, che convince per la grinta e l’esuberanza dello stile in pezzi quali Sugar mama (una delle esercitazioni preferite da Gallagher), Dual carriageway pain, Blister on the moon, Leaving blues. Il gruppo partecipa a supporto (così come i Free) del tour americano dei Blind Faith, nell’agosto del ’70 suona al festival di Wight e Gallagher viene votato miglior chitarrista dai lettori del Melody Maker. Il secondo LP On the boards (Polydor-1970) riscuote buon successo e lascia trasparire sprazzi di sonorità insolitamente eleganti, anche se il rock duro e spigoloso è subito dietro l’angolo come dimostra What’s going on (edita pure come singolo). Nel momento in cui i Taste sono sul punto di acquisire un ruolo di primo piano nell’ambito della scena rock inglese Gallagher, spinto da ambizioni solistiche, decide d’abbandonare i compagni, decretando la fine del gruppo all’inizio del 1971. Dopo lo scioglimento viene dato alle stampe il postumo Live Taste (Polydor-1971), con inserti del concerto al festival di Montreaux e successivamente esce Live at Isle of Wight (Polydor-1972). McCracken e Wilson proseguono in trio con il chitarrista Jim Cregan (proveniente dai Blossom Toes) sotto la sigla Stud, pubblicando tre onesti LP ; McCracken diventa in seguito un richiesto sessionman, mentre Wilson abbandona la scena musicale. Gallagher si getta a capofitto in una lunga serie d’incisioni sotto proprio nome, confermando il ruvido rock blues degli esordi ma, alla lunga, perdendo lo smalto dei tempi migliori. Del resto, la testarda perseveranza del chitarrista nel proporre la stessa formula (incurante delle mode e dei cambiamenti) è la virtù che lo rende immacolato agli occhi dei fedeli fans di sempre, fino alla morte nel 1995. Tra i numerosi complessi minori dediti ad una proposta saldamente legata alla tradizione meritano una citazione la Climax Chicago Blues Band, titolare di una lunga e non sempre felice serie d’incisioni, i Jellybread del tastierista Pete Wingfield (poi con la Keef Hartley Band), che sotto l’impulso di Mike Vernon pubblicano tre LP per la Blue Horizon, e i Love Sculpture. Guidato dal chitarrista Dave Edmunds, il gruppo è capace d’offrire un lavoro d’esordio più che dignitoso (Blues helping, Parlophone-1968) prima di optare, nel febbraio del ’70, per uno stile compromesso da tendenze neoclassiche, espresso nel secondo album Forms and feelings (presente perfino una controversa rilettura - Sabre dance - della Danza delle sciabole del compositore sovietico Aram Khaciaturian). Tutte formazioni che, per varie ragioni, risultano inferiori a quella dei Savoy Brown. La Savoy Brown Blues Band nasce nel 1966 da un’idea del chitarrista Kim Simmonds, che s’avvale della collaborazione del bravo pianista Bob Hall, del cantante Bruce Portius, della sezione ritmica composta da Ray Chappell (bs.) e Leo Mannings (bt.), oltre che del secondo chitarrista Martin Stone. Il gruppo, accorciato il nome in Savoy Brown, entra nell’orbita del produttore Mike Vernon e nel settembre ’67 realizza l’album Shakedown (Decca-1967), strettamente legato a canoni blues. Subito dopo i Savoy Brown subiscono una profonda trasformazione : rimangono i soli Simmonds e Hall, Mannings va con la Sunflower Blues Band, Stone entra negli ottimi Mighty Baby, mentre arrivano il cantante Chris Youlden e tre nuovi strumentisti dallo stile robusto, Dave Peverett (ch.), Rivers Jobe (bs.) e Roger Earl (bt.). Il primo frutto della nuova compagine è Getting to the point (Decca), che nell’estate del ’68 conferma la musica dei Savoy Brown molto vicina al blues revival di scuola Bluesbreakers. Il repertorio è diviso tra un buon numero di pezzi originali e alcune belle versioni di brani di Muddy Waters (Honey bee) e di Willie Dixon (You need love). SAVOY BROWN - BLUE MATTER (Decca - 1969) Nel maggio 1969 Blue Matter raggiunge l’apice delle possibilità dei Savoy Brown, mediando il rigoroso idioma tradizionale dei primi tempi con un suono forte e deciso, convincente e ancora lontano da superflui esibizionismi. Il lavoro si compone di una parte registrata in studio ed una che fissa l’esibizione dal vivo del dicembre ’68 al Leicester College of Education. In studio il gruppo appare elegante e creativo nel sostenere originali forme di blues progressivo, come nell’iniziale Train to nowhere che s’avvale del decisivo apporto di un’inconsueta sezione di cinque tromboni. Nel brano è ancora presente il bassista Rivers Jobe, come pure nella seguente Tolling bells, un raffinato blues d’atmosfera caratterizzato dalla presenza del piano ritmico suonato da Simmonds che accompagna quello solista di Hall. Ancora il piano di Hall è protagonista assoluto in Vicksburg blues, a sostegno della potente e personale voce di Youlden. She’s got a ring in his nose and a ring on her hand è mossa e gradevole, mentre la cover di Don’t turn me from your door (John Lee Hooker) scuote alla base la musica dei Savoy Brown, affidandosi ad un inedito clima torrido. Dal vivo l’organico presenta la defezione di Youlden, con un assetto a cinque dal quale emergono le qualità di Peverett come chitarrista e cantante ; May be wrong (composta dallo stesso musicista) illustra il suo tagliente stile alla chitarra, mentre la voce appare meno convincente rispetto a quella di Youlden. L’energica e coinvolgente versione di Louisiana blues (Waters) e la classica It hurts me too concludono l’album nel migliore dei modi. La produzione discografica si conferma di valore più che discreto con A step further (Decca1969), ultimo disco al quale partecipa il brillante pianista Bob Hall, poi i toni della musica dei Savoy Brown si fanno tesi e meno interessanti. Dopo Raw Sienna (Decca-1970) lascia anche Youlden, che tenta una poco proficua carriera solista, e in seguito a Looking in (Decca-1970) il gruppo si sfalda per via dell’abbandono di Peverett, Stevens e Earl. I tre si uniscono a Rod Price (ex chitarrista dei Black Cat Bones) per dar vita ai Foghat, formazione che conseguirà notevole successo soprattutto in U.S.A. proponendo un hard rock che muta progressivamente da un apprezzabile hard blues iniziale (Foghat, Bearsville-1972, con una potente versione della I just want to make love to you di Willie Dixon) verso forme sempre meno fantasiose. All’inizio del 1971 Simmonds riorganizza i Savoy Brown facendo leva sugli ex Chicken Shack Paul Raymond (ts.), Andy Sylvester (bs.), Dave Bidwell (bt.) e sul cantante Dave Walker. Con quest'assetto il gruppo pubblica i discreti Street corner talking (Decca-1971) e Hellbound train (Decca-1972) ; più avanti entrano altri musicisti di notevole esperienza quali Andy Pyle (bs., Blodwyn Pig), Stan Webb (ch., Chicken Shack) e Miller Anderson (ch., Keef Hartley Band), ma nulla permette ai Savoy Brown di rinverdire la qualità e l’autorevolezza delle prime opere. Personaggio di notevole fama (anche ai giorni nostri), Joe Cocker non può essere considerato figura fondamentale del British blues, in virtù dell’assenza da buona parte della sua produzione di connotati particolarmente originali e di un’attitudine realmente progressiva. Dopo alcune esperienze marginali in campo musicale, Cocker decide di abbandonare il lavoro fisso da benzinaio per costituire un proprio gruppo, la Grease Band. Il nucleo si compone di Chris Stainton (bs.), Tommy Eyre (ts.), Henry McCullough e Alan Spenner (ch.), Kenny Slade (bt.) e lo stile fissa il raggio d’azione su rhythm & blues e soul. L’anno decisivo per il cantante di Sheffield è il 1968, quando pubblica a 45 giri la discreta Marjorine, effettua un'applaudita esibizione al festival di Windsor e giunge al successo con il secondo singolo, la versione di With a little help from my friends dei Beatles, che raggiunge la prima posizione della classifica inglese e vende bene anche negli States. Per l’incisione del brano Cocker si avvale di una formazione prestigiosa, con Jimmy Page (ch., poco dopo fondatore dei Led Zeppelin), Chris Stainton (bs.), Tommy Eyre (or., poi con Aynsley Dunbar Retaliation e Mark-Almond) e B.J. Wilson (batterista dei Procol Harum) ; il pezzo è completamente ridisegnato su schemi R & B e gospel, con la calda e grintosa voce del cantante, la fulminante chitarra di Page e il fluido, drammatico timbro dell’organo di Eyre. All’inizio del 1969 il primo LP With a little help from my friends sfrutta sin dal titolo l’enorme popolarità del pezzo guida e risulta un lavoro valido, anche se non del tutto convincente. Accompagnato da un favoloso cast di musicisti, Cocker si dimostra ottimo interprete quanto poco prolifico ed efficace compositore. Tre soli i brani originali (di discreta qualità) che portano la sua firma, associata a quella del fido Stainton, e le cose migliori sono (oltre alla celebre title track) una bella e annerita versione di Feelin’ alright ?, dal repertorio dei Traffic, l’azzeccato arrangiamento romantico della Just like a woman di Bob Dylan e la bella Do I still figure in your life ? con l’organo di Stevie Winwood. Di minor rilievo appaiono le riletture di I shall be released (ancora Dylan) e di Don’t let me be misunderstood, che fa rimpiangere il clima infuocato dell’originale di Eric Burdon con gli Animals. Nel ’69 il cantante compie un primo giro di concerti negli Stati Uniti dove conosce il pianista, chitarrista e compositore Leon Russell, che scrive per lui il successo di Delta lady, ed organizza le basi per l’ampia formazione del Mad Dogs & Englishmen con la quale l’anno seguente sostiene un secondo importante tour americano. La gloria definitiva arriva nell’agosto 1969, quando Cocker consegna alla storia del rock una esaltante performance di fronte all’infinito pubblico del festival di Woodstock. Il cantante si supera in una memorabile interpretazione di With a little help from my friends, resa con eccezionale trasporto emotivo in un’elettrizzante condizione di trance epilettica (caldamente consigliata la visione del film di Michael Wadleigh sul famoso avvenimento). Woodstock rimane per Cocker il momento più fulgido di una parabola artistica che tende ad un rapido deterioramento, anche se il secondo LP Joe Cocker ! (Regal Zonophone-1970) è una dignitosa conferma dei pregi e dei difetti del suo stile, con alcune frizzanti cover (Lawdy miss clawdy, She came in through the bathroom window, Hitchcock railway) e la fortunata Delta lady. Gli ultimi fuochi veramente interessanti bruciano nella passione live del doppio Mad dogs & englishmen (A&M-1970), registrato nel marzo ’70 in occasione dei concerti al Fillmore East di New York, album denso di classici del rock’n’roll, del soul e del rhythm & blues proposti con un’attitudine ancora coinvolgente. Nel momento di maggior successo Cocker è costretto ad un forzato ritiro dalle scene per via di gravi problemi di droga ; il ritorno avviene nel 1972 ma il cantante appare stanco e privo d’ispirazione, accusando la scarsa propensione creativa che lo rende oltremodo vulnerabile, per cui i dischi successivi mostrano una qualità modesta. Che poi il vecchio leone colga qualche corroborante risultato commerciale negli anni Ottanta fa sicuramente piacere, ma al tempo stesso intristisce l’animo al pensiero dell’antica grinta. - 14 Un importante contributo creativo alla scena del British blues è offerto da complessi che agiscono essenzialmente in ambito underground, privi di grande notorietà (a volte quasi sconosciuti), che proprio per la mancanza di un rapporto diretto con le classifiche discografiche riescono a mantenere un’identità immune da compromessi sulle scelte stilistiche. Tra i nomi relativamente più noti emerge quello dei Blodwyn Pig, valvola di sfogo per le evoluzioni del chitarrista Mick Abrahams costretto, alla fine del ’68, ad abbandonare i Jethro Tull, a causa dei notevoli contrasti con Ian Anderson riguardo alla direzione musicale da seguire. BLODWYN PIG - AHEAD RINGS OUT (Island - 1969) Sulla carta Blodwyn Pig è una buona occasione per l’ex Jethro Tull, potendo liberamente attingere a matrici blues e jazz che confluiscono in una sorta di hard progressivo, buon punto di mediazione tra la pregevole chitarra di Abrahams (tecnicamente ineccepibile, limpida e pure impetuosa) e le interessanti soluzioni ai fiati di marca jazz adottate da Jack Lancaster, che rendono il suono prezioso ed elegante, il tutto sostenuto dalla solida sezione ritmica dotata di una sufficiente varietà di schemi. Si passa da R & B dinamici e grintosi quali It’s only love e Summer day ad orientamenti jazz, come nella strumentale The modern alchemist, e a blues di squisita fattura acustica in Dear Jill e in The change song (con il violino di Lancaster). Tra i pezzi migliori sono da annoverare anche le robuste Walk on the water, Ain’t ya coming home ? e See my way, che prediligono una vigoria metallica non strettamente in linea con l’orientamento generale del lavoro. In particolare See my way è l’esercizio più diretto, un brano dal piglio fiero e di facile assimilazione, che fa leva su una felice combinazione armonica caratterizzata nella parte centrale da chiari riferimenti a Ravel (anche se Abrahams affermò di non aver ascoltato prima di allora le opere del compositore francese). Ahead rings out non ottiene gran riscontro di vendite ma il gruppo insiste ed incide un secondo album, Getting to this (Island-1970), che non presenta grandi novità e perde qualcosa in equilibrio e freschezza. Nel disco risalta la mini suite San Francisco sketches, forse troppo pretenziosa, e trova posto un’inspiegabile ripresa di See my way. Visti gli scarsi risultati commerciali Abrahams abbandona il gruppo, che per breve tempo prosegue con Peter Banks (dagli Yes) prima di giungere allo scioglimento. La sezione ritmica (Andy Pyle e Ron Berg) si sposta nei Juicy Lucy e poi nei Savoy Brown, mentre Lancaster prova a lanciare gli Aviator (con il batterista Clive Bunker, pure lui proveniente dai Jethro Tull), senza risultati apprezzabili. Nel frattempo Abrahams fonda i Womat, che in seguito diventano più semplicemente la Mick Abrahams Band : con lui sono Bob Sargeant (ts.), Walt Monaghan (bs.), Ritchie Dharma (bt.) e il primo album omonimo, pubblicato nel 1971 su etichetta Chrysalis, appare più che discreto (ottima la lunga Seasons), facendo perno su un rock progressivo distante dalle originarie matrici blues ma lo stesso ben organizzato e piacevole. Ancora un disco nel ’72 (At last, Chrysalis), al quale partecipa Lancaster, e il gruppo già non esiste più. Abrahams effettua un paio di velleitari tentativi per resuscitare i suoi complessi, nel ’74 con i Blodwyn Pig (presenti Lancaster, Pyle e Bunker) e nel ’78 con la Mick Abrahams Band, ma la fortuna non l’assiste ; la scelta finale consiste nel definitivo abbandono della scena musicale da parte di un chitarrista di grandi potenzialità, che avrebbe meritato una carriera più densa di risultati concreti. In assoluto tra le migliori formazioni del blues progressivo inglese, gli Steamhammer nascono alla fine del 1968 appoggiandosi sulle solite basi tradizionali, senza nascondere però fin dai primi momenti una moderna impostazione destinata a sviluppare un discorso originale ed ambizioso. Dal circuito folk provengono Martin Quittenton (ch.) e Kieran White (v.ch.ar.), ai quali s’uniscono Martin Pugh (ch.), Steve Davy (bs.) e Michael Rushton (bt.), tutti musicisti con alle spalle esperienze in gruppi rhythm & blues. Il complesso gira in Inghilterra, spesso come formazione d'accompagnamento del bluesman Freddie King, e nella primavera del ’69 ottiene un contratto discografico con la CBS. Il risultato è la pubblicazione dell’omonimo album d’esordio (Reflection-1969) al quale partecipa, in qualità di ospite, il flautista Harold McNair ; il disco pone in risalto un rock blues spedito e piacevole, caratterizzato da soluzioni melodiche e timbriche piuttosto personali, con largo uso di brani di propria composizione (Quittenton, White, Pugh). Tra i più significativi vanno ricordati Junior’s wailing (pubblicata anche a 45 giri), She is the fire, When all your friends are gone e la buona e potente rilettura di You’ll never know (B.B. King). Dal vivo gli Steamhammer si mettono in luce partecipando ai maggiori festival europei, con concerti che spesso superano le due ore di durata e con una musica che trae ispirazione da ampie parti improvvisate. Nell’estate del ’69 il gruppo subisce un’importante ristrutturazione interna causata dall’abbandono di Michael Rushton e soprattutto di Martin Quittenton, a quei tempi uno dei maggiori responsabili dell’orientamento musicale. Il chitarrista diventa collaboratore di Rod Stewart, regalando al cantante il successo di Maggie May (’71), ed in seguito entra nei Pilot con cui incide un album nel 1972. STEAMHAMMER - M K II (Reflection - 1969) Al posto della chitarra di Quittenton arrivano i fiati del pluristrumentista Steve Jollife, avvenimento che modifica sostanzialmente gli equilibri creativi del complesso ; M K II è un deciso salto in avanti che pone gli Steamhammer tra i migliori esponenti della ricerca progressiva, e non solo in ambito blues. Sin dall’iniziale, stupenda, Supposed to be free si fa strada un nuovo metodo, completamente svincolato dagli aspetti tradizionali del genere, uno stile lirico, raffinato, aperto ad importanti contaminazioni jazz introdotte con gusto e moderazione dai fiati di Jollife. La chitarra di Pugh esprime una sorprendente libertà melodica e il nuovo Mick Bradley si dimostra percussionista poliedrico ed elegante. Il peso creativo, dopo la dipartita di Quittenton, passa essenzialmente sulle spalle di Kieran White, con contributi di Jollife e Pugh che in molti arrangiamenti svolgono una duplice funzione propositiva e di rifinitura strumentale. L’originale Johnny Carl Morton introduce il clavicembalo suonato da Jollife, Pugh sposta a sorpresa l’accento sull’ambientazione folk della breve ed intensa Sunset chase, Contemporary chick con song si riallaccia al blues più roccato e moderno ed è l’unico brano a portare la firma di tutti i membri del complesso. Turn around è un altro parto di Jollife, composizione di sobria bellezza con clavicembalo, flauto e un suono che mirabilmente resta in equilibrio tra il neoclassicismo di marca beatlesiana e tenui sfumature jazz. 6/8 for Amiran sceglie la strada dei ritmi complessi con profonde convinzioni blues, mentre White preferisce affidarsi a soluzioni (a lui care) da lirica e trasognata ballata folk nella bella Passing through, valorizzata da un ottimo lavoro alla chitarra di Pugh. Il brano più ambizioso è Another travelling tune che nella lunghissima stesura mai perde in lucidità, evolvendo con passione in calde e premurose atmosfere blues jazz, esempio insuperato di un concetto di fare musica romantico e libero da costringenti punti di riferimento, sulla falsariga di ciò che nello stesso periodo viene proposto oltreoceano dai Grateful Dead, sentimento condiviso dalla strumentale e sfuggente coda finale di Fran and Dee take a ride. Come sovente accade, a tanto impegno ed amore non corrisponde necessariamente un ritorno concreto in termini d’interesse e gli Steamhammer si devono accontentare della buona popolarità ottenuta in alcuni paesi europei (Scandinavia, Olanda, Germania) che certo non è sufficiente alla CBS per rinnovare il contratto. Jollife preferisce lasciare (più avanti sarà, brevemente, con i Tangerine Dream e pubblicherà un LP solista) e il gruppo prosegue come quartetto, ripiegando in Germania per riuscire a trovare nella Brain una nuova controparte discografica. Nell’estate del ’70 gli Steamhammer registrano il terzo album Mountains ; l’assenza dell’apporto creativo e strumentale di Jollife rende la musica meno varia e priva dell’originale impronta jazz, ma quest'aspetto non pregiudica la qualità sempre elevata del disco. La prima facciata muove in territori vicini a certo hard progressivo con la bellissima I wouldn’t have thought, dominata da un Pugh ispirato alla chitarra solista, e con l’ottima performance dal vivo fissata su nastro in occasione di un concerto al Lyceum di Londra (Riding on the L&M / Hold that train), sempre con i Dead ben fissi in mente anche se il tenore è più duro ed esplicito. La seconda parte del disco, interamente composta da White, è imperniata su alcune buone canzoni dallo stile dolce ed estatico, tipico del cantante, quali Levinia e Mountains. Nulla riesce a scalfire l’indifferenza del grande pubblico e White, nell’autunno 1970, decide di abbandonare il progetto (pubblicherà un disco da solo nel ’75), seguito da Davy ; Pugh e Bradley mantengono in vita il complesso ingaggiando il bassista Louis Cennamo (già con i Jody Grind e i primi Renaissance) e a distanza di un anno registrano l’ultimo LP Speech (Brain-1972), che vede la luce quando gli Steamhammer non esistono più. Pugh e Cennamo restano insieme negli Axis e quindi negli Armageddon, con la partecipazione del cantante Keith Relf (Yardbirds, Renaissance). Per Bradley il destino è amaro : il batterista muore di leucemia nel 1972. I Bakerloo, formazione underground originaria di Birmingham inizialmente denominata Bakerloo Blues Line, cominciano a farsi conoscere verso la fine del 1968 quando hanno l’occasione d'esibirsi al Marquee come spalla dei Led Zeppelin, in uno dei primi concerti del gruppo di Jimmy Page. Sono notati dalla Harvest che li mette sotto contratto e nel luglio ’69 pubblicano a sorpresa un atipico singolo, Drivin’ Bachwards, che recupera Bach per gruppo rock, clavicembalo, tromba (Jerry Salisbury), proponendo soluzioni lontane dalla naturale ispirazione del trio. Curiosa la sovrapposizione temporale con la ben più celebre Bourée dei Jethro Tull, pubblicata sull’album Stand up proprio in quei giorni. BAKERLOO - BAKERLOO (Harvest - 1969) Ben diversa è l’impressione generata dall’ascolto del loro unico album pubblicato alla fine del 1969 ; il gruppo suona forte, vicino all’approccio dei primi Led Zeppelin, anche se manca l’esuberante personalità della formazione di Page e Plant e le composizioni appaiono più orientate verso una sensibilità di stampo underground. I Bakerloo sopperiscono alle lacune grazie ad una notevole forza d’urto e alle indubbie capacità strumentali dei singoli musicisti. Apre il disco la divertente Big bear ffolly che, per trovare un raffronto a tutti i costi, si avvicina ai primi Ten Years After ; Bring it on home è un buon rifacimento del classico di Willie Dixon (utilizzato anche dai Led Zeppelin sul loro secondo album), e in stretto ambito blues si calano pure l’ottima This worried feeling e Last blues, dal passo lento e cupo che lascia spazio, nella parte centrale, ad una torrida improvvisazione di Clempson. E’ il chitarrista a guidare le danze nell’immediata Gang bang, veloce e sicuro, prima di lasciare la scena a Keith Baker, autore di un pregevole spunto solistico. La grande opportunità per confrontarsi con una musica libera da impegni formali e satura di grinta ed elettricità viene impegnata nel quarto d’ora della devastante Son of moonshine, ma si rivela un’occasione perduta in quanto Bakerloo già all’uscita dell’album non esiste più. In ottobre Clempson accetta l’offerta di entrare nei Colosseum, in sostituzione di James Litherland, e così i Bakerloo chiudono la loro breve avventura. Clempson rimane nei Colosseum sino allo scioglimento del gruppo (autunno ’71) per poi entrare l’anno successivo negli Humble Pie, al posto del dimissionario Peter Frampton. Tra le altre sue esperienze sono da ricordare una breve collaborazione con i Greenslade e i complessi dei Strange Brew e Rough Diamond (con l’ex cantante degli Uriah Heep, David Byron). Baker e Poole s’impegnano nell’ideazione dei May Blitz (con i quali non riescono ad incidere) e in seguito Baker accetta il ruolo temporaneo di batterista per le registrazioni del secondo LP degli Uriah Heep (Salisbury), mentre Poole va a suonare con Graham Bond. Gruppo conosciuto esclusivamente per aver annoverato nei primi tempi musicisti destinati alla notorietà, quali Paul Kossoff, Simon Kirke (entrambi nei Free) e Rod Price (con i Foghat), i Black Cat Bones meritano qualcosa di più di una fredda citazione. Sin dalle prime sessioni di studio, dove accompagnano Champion Jack Dupree, il gruppo s’affida all’esperienza del produttore Mike Vernon. Nel ’68 Kossoff e Kirke cambiano aria, unendosi al cantante dei Brown Sugar, Paul Rodgers, per la costituzione dei Free ; ai superstiti (i fratelli Derek e Stuart Brooks - ch. e bs. - e il cantante Brian Short) si uniscono l’ottimo chitarrista Rod Price e il batterista Phil Lenoir, e con questo assetto i Black Cat Bones registrano il materiale che, nel novembre 1969, viene inserito nel loro unico album Barbed wire sandwich (Nova-1969), prodotto da David Hitchcock. La musica è onesta, priva di fronzoli, diretta ed aggressiva, con lo stile basato su un blues duro e sfrontato che presenta più di qualche punto di contatto con i Free dell’esordio. Così è per la grintosa Chauffeur e per i trascinanti hard blues di Save my love e Good lookin’ woman, mentre Death valley blues è un ottimo blues nobilitato da un bell’assolo di chitarra di Rod Price. Il disco passa pressoché inosservato e la formazione si avvia ben presto al fallimento con l’abbandono di Price, destinato ai Foghat assieme a tre ex Savoy Brown. Rimangono solo i fratelli Brooks, che tentano di sostenere la causa invitando nel gruppo due musicisti provenienti dalla Brunning Sunflower Blues Band, il cantante Pete French e il chitarrista Mike Halls : con un nuovo batterista, i Black Cat Bones si trasformano in Leaf Hound dedicandosi ad un vigoroso hard rock, di pregevole fattura ma purtroppo di nessun successo. Di esito poco diverso è la carriera dei Killing Floor, formazione di base nel South London verso la fine del 1968, composta da Michael Clarke (ch.), Bill Thorndycraft (v.ar.), Stuart McDonald (bs.), Bas Smith (bt.) e Lou Martin (pn.). I Killing Floor s’inseriscono nell’ormai affermato panorama del rock blues inglese di fine decennio e, grazie ad un contratto discografico con l’etichetta Spark, nel 1970 pubblicano il primo LP omonimo, registrato di getto con l’ausilio della produzione di John Edward, un ex D.J. di Radio Caroline. La musica proposta è un frizzante rock blues di ottima qualità strumentale, che non prevede importanti novità concettuali ma si distingue per la scioltezza delle esecuzioni e per l’energico divertimento profuso. Il disco mostra un livello molto omogeneo, anche se vale la pena sottolineare la bella cover di Woman you need love (Willie Dixon, ma guarda...ancora lui) e le dure sciabolate di Forget it ! e People change your mind. Nonostante le doti espresse sull’album e la buona reputazione conseguita nei concerti dal vivo, i Killing Floor non riescono a sfondare sul piano commerciale e il pianista Lou Martin preferisce trasferirsi, dal 1972, alla corte dell’ex leader dei Taste, Rory Gallagher. I quattro rimasti firmano un nuovo contratto con l’etichetta Penny Farthing, preludio alla realizzazione del secondo LP Out of Uranus (1971), ancora prodotto da Edward con la supervisione di Larry Page (manager dei Troggs). Il suono diviene schematico e vicino all’hard rock, manca il brillante contrasto tra la chitarra di Clarke e il piano di Martin, resta in ogni caso una sufficiente freschezza esecutiva e, pur con qualche caduta di tono, il materiale appare più che dignitoso ; degne di menzione sono la scattante Acid bean (edita anche a 45 giri), la convinzione blues di Where nobody ever goes, le ruvide contrazioni di Fido Castrol (non distante da certe cose dei Groundhogs) e di Lost alone. La breve parabola dei Killing Floor giunge al termine, nonostante l’ingresso negli ultimi tempi del cantante Ray Owen (dai Juicy Lucy), del bassista Mick Hawksworth (già con Five Day Week Straw People, Andromeda e Fuzzy Duck) e del batterista Rod De’Ath (successivamente con Rory Gallagher) : il gruppo cessa d’esistere a metà del 1972. Stuart McDonald viene coinvolto da Paul Rodgers nei Peace, un'effimera formazione triangolare priva di fortuna (alla batteria Mick Underwood dei Quatermass). Il solo Michael Clarke trova la forza per continuare con la sua band personale, pubblicando alcuni dischi negli anni Ottanta. Gruppo di notorietà leggermente superiore e di maggior durata nel tempo i Juicy Lucy perdono progressivamente lucidità ed urgenza espressiva, risultando nel complesso meno efficaci rispetto ad altre formazioni del sottobosco rock blues. Il chitarrista americano Glenn Campbell, reduce dalla gloriosa ma povera avventura dei Misunderstood, è tra i principali promotori della nascita del gruppo ; al suo fianco sono il cantante Ray Owen, l’altro chitarrista Neil Hubbard (proveniente dai Bluesology, dove milita anche un imberbe Elton John), il sassofonista Chris Mercer (con alle spalle importanti collaborazioni a dischi storici quali Crusade e Bare wires di John Mayall), il bassista Keith Ellis (presente nei primi Van Der Graaf Generator) e il batterista Pete Dobson. Quest’organico è responsabile di Juicy Lucy (Vertigo-1969), buon album dal quale è tratto un 45 giri di discreto successo contenente una versione di Who do you love (Diddley) che si piazza nei top twenty. I Juicy Lucy mostrano da subito un’estrema instabilità d’organico : Ray Owen preferisce dedicarsi ad una propria band (Ray Owen’s Moon, un LP nel 1971) e se ne vanno pure Hubbard e Dobson, sostituiti dal cantante Paul Williams (che vanta esperienze con Zoot Money, Alan Price e John Mayall), dal chitarrista Mick Moody (ex Tramline) e dal batterista Rod Coombes. Alla fine del 1970 esce il secondo album Lie back and enjoy it (Vertigo), aperto dal rhythm & blues disinvolto di Thinking of my life e con le discrete cover di Built for comfort (Dixon, naturalmente !) e dell’inattesa Willie the pimp di Frank Zappa. Subito dopo abbandona anche Keith Ellis (nel ’75 è con i Boxer di Mike Patto e Ollie Halsall), rimpiazzato dall’ex Fat Mattress Jim Leverton e il gruppo pubblica il nuovo Get a whiff at this (Bronze-1971), forse senza gran convinzione. La breve parentesi di Leverton (nel ’73 suona con gli Hemlock di Miller Anderson) e la partenza di Coombes (destinato agli Stealers Wheel e agli Strawbs) porta nei Juicy Lucy la vecchia sezione ritmica dei Blodwyn Pig (Andy Pyle e Ron Berg). Assente anche Campbell, Pieces (Polydor-1972) è l’ultima fatica del gruppo che giunge inesorabilmente allo scioglimento. Moody riscuote buon successo in formazioni heavy quali Snafu e Whitesnake, mentre Williams nel giugno ’72 raggiunge i Tempest di Jon Hiseman e l’anno successivo realizza un disco solista dedicato alla memoria di Robert Johnson. Come per i Juicy Lucy, anche la carriera dei Freedom si sviluppa nello stesso periodo temporale e nell’arco di quattro pubblicazioni a 33 giri ; la musica proposta è improntata ad un blues roccato con stimoli hard, realizzato con buona cura strumentale, privo di sbavature ma pure di impennate geniali. Non manca qualche valido spunto ritmico e melodico, anche se prevale una certa linearità esecutiva che lega il suono ai luoghi comuni del genere. Ideatore del gruppo è il batterista Bobby Harrison, un elemento della formazione originaria dei Procol Harum uscito da quel complesso all’epoca del grande successo di A whiter shade of pale (forse irritato dal fatto che per la registrazione del brano gli viene preferito un sessionman) ; con lui sono Roger Saunders (ch.ts.), Peter Dennis (bs.) e, nei primi tempi, Steve Jolly (ch.). Nell’ambito della selezione discografica dei Freedom, il terzo LP Through the years (Vertigo-1971) costituisce un buon rendiconto dei pregi e dei difetti della loro musica. Fra le tante formazioni delle quali con il passare del tempo s’è persa ogni memoria, gli N.S.U. meritano di essere ricordati se non altro per l’onestà di fondo che permea la loro proposta musicale. Impostati a quartetto con Ernest Rea (ch.), John Pettigrew (v.), Peter Nagle (bs.) e William Brown (bt.) gli N.S.U. giungono alla prova discografica grazie alla Stable, piccola e mitica etichetta underground che annovera tra le sue fila anche Deviants e Sam Gopal, tra gli altri. In soli tre giorni del febbraio 1969 il gruppo registra (agli studi De Lane Lea) il materiale utile al loro unico album Turn on, or turn me down, prima di essere travolto dal fallimento della stessa casa discografica. Il disco presenta evidenti difetti dovuti, presumibilmente, al poco tempo a disposizione per le registrazioni e mostra gli N.S.U. un poco indecisi sulla via da seguire, ma ugualmente è godibile per l’utilizzo insistito di linee melodiche abbastanza insolite (come nel brano che titola il long playing) e buone intenzioni sono sparse nei pezzi più densi e tirati (His Town, You can’t take it from my heart, The game). Originali, anche se deboli, le parti vocali. Una delle cose più difficili nel trattare dei May Blitz è riuscire ad inquadrare il gruppo di Tony Newman in un genere ben definito. Questa, probabilmente, è la forza relativa del complesso, relativa perché se la promiscuità tra blues, hard rock e suono progressivo rende la musica dei May Blitz appassionante e moderna, la sua stessa natura poco incline a facili accomodamenti commerciali relega Newman e compagni ai margini del mercato, costringendoli ad una rapida ritirata. Purtroppo, proprio l’ingarbugliata relazione fra creatività e music business è uno degli elementi deboli dell’espressione rock, sia che ciò si rifletta in grandi tragedie umane o più semplicemente nell’incapacità di realizzare i propri sogni e progetti. Ancor più insolita è la vicenda che porta alla costituzione della band. L’idea originale risale alla fine del 1969 quando, dopo la dipartita di Clem Clempson (destinazione Colosseum), Keith Baker e Terry Poole dei Bakerloo decidono di proseguire insieme progettando una nuova formazione triangolare chiamata May Blitz. In realtà il gruppo non decolla perché Baker collabora con gli Uriah Heep per le registrazioni del loro secondo album Salisbury (e solo per quell’occasione), mentre Poole, di conseguenza, va a suonare con Graham Bond. MAY BLITZ - MAY BLITZ (Vertigo - 1970) Tony Newman è un veterano della scena beat con i Sounds Incorporated, quindi suona (agli albori del blues progressivo) con il Jeff Beck Group dell’album Beck-Ola. Il batterista rifonda completamente il complesso, chiamando due ottimi strumentisti quali James Black e Reid Hudson, e il nuovo gruppo ottiene un contratto discografico per la Vertigo. L’omonimo esordio su vinile convince per la ricercata elaborazione di una sintesi hard blues permeata da una spiccata attitudine progressiva. Smoking the day away enuncia le coordinate della musica del trio : padronanza strumentale, equilibrio formale, agili strutture in continua evoluzione. Tra i tanti gruppi del dopo Cream, i May Blitz sono tra i meno indiziati di plagio e forse tra i più limpidi estensori del verbo rock blues. Newman si trova benissimo in tale contesto e mette in mostra le sue migliori qualità poliritmiche, Black e Hudson suonano convinti e concisi, evitando di perdere il fiato dietro ad evanescenti elucubrazioni solistiche. I don’t know ? parte da climi contenuti per aprirsi in una stringata jam memore di free festival e concerti in piccoli club. Dreaming attenua notevolmente il ritmo, preferendo atmosfere soffuse, suoni rilassati che deragliano all’improvviso nella parte centrale della canzone. La frastagliata Squeet e soprattutto la pirotecnica Fire queen affrontano il suono sul lato di maggior tensione, divise dalla bellissima e raffinata Tomorrow May come, cullata dagli asciutti colori del vibrafono di Newman. L’epica Virgin waters chiude il disco, a metà tra il sogno e la consapevolezza, con parti di grande fascino. La Vertigo concede al gruppo una seconda possibilità, con la pubblicazione (il due di maggio 1971) di un nuovo lavoro, appunto The 2nd of May. La via si fa più stretta, forse per trovare una maggiore concretezza commerciale ; For mad men only è hard al fulmicotone, aggressivo, coinvolgente, ma perde in varietà tematica, e Snakes and ladders presenta frammenti di chiara derivazione Black Sabbath. C’è qualche contraddizione di troppo, come nel caso del pur ottimo solo percussivo di Newman su In part (impensabile sull’album precedente). Siamo comunque su livelli qualitativi di rilievo, in presenza di musica esente da clamorosi compromessi che trova nella ballata di High beech, nella quasi psichedelica Just thinking e nell’esposizione tesa e sincera ragioni sufficienti a giustificare la propria esistenza. Le vendite, naturalmente, sono scarse e il gruppo (privo di contratto discografico) non ha più motivi per continuare. L’unico a rimanere nella scena musicale è Newman, che partecipa ai Three Man Army dei fratelli Adrian e Paul Gurvitz e vanta collaborazioni con Marc Bolan, David Bowie, Chris Spedding e David Coverdale (Whitesnake). Due brevi citazioni, infine, per Sharks e Back Door, formazioni molto diverse tra loro ma entrambe appartenenti agli anni del riflusso del British blues, ormai in fase creativa decisamente calante. Gli Sharks si formano nell’autunno del 1972 su impulso del chitarrista Chris Spedding, desideroso d’allestire un complesso stabile nel bel mezzo di una lunga carriera densa di soddisfazioni sul piano della qualità della musica proposta (Battered Ornaments, Nucleus e un paio di dischi come solista), ma priva d’importanti riscontri commerciali. Lo accompagnano il prestigioso bassista Andy Fraser, appena uscito dai Free, il batterista Marty Simon e il cantante Snips. Così sistemato il gruppo pubblica nel 1973 l’album First water, essenzialmente basato su un rock blues classico e datato, anche se piacevole, caratterizzato da una bella vena melodica, da un impatto abbastanza grintoso e da buone virtù tecnico strumentali. Il disco però non vende, è un mezzo fiasco e Fraser lascia subito i compagni, sostituito da Busta Cherry Jones ; si aggrega inoltre il tastierista Nick Judd e il gruppo registra un secondo 33 giri, Jab it in yore eye (Island-1974), che non apporta novità ed appare leggermente inferiore al precedente. Gli Sharks svaniscono nel nulla quando Simon e Judd abbandonano, alla fine del ’74. Judd va a suonare con la Andy Fraser Band, Snips entra nella Baker Gurvitz Army, Spedding prosegue la carriera alternando l’attività solistica a collaborazioni con artisti del calibro di John Cale, Brian Eno, Donovan, Roy Harper, fino all’incredibile rinuncia al bonus da miliardario per la mancata sostituzione di Mick Taylor nei Rolling Stones. Un personaggio vero, meritevole di rispetto. Di poco antecedente è la nascita dei Back Door, all’inizio degli anni Settanta. Il bassista Colin Hodgkinson proviene dall’esperienza dei New Church, una delle tante creature blues di Alexis Korner, dei quali avrebbe dovuto far parte addirittura Brian Jones, di fatto in uscita dagli Stones, se non fosse che il 3 luglio del 1969 il chitarrista viene trovato annegato nella sua piscina. Per ironia della sorte i New Church esordiscono il 5 luglio successivo, proprio in occasione del free concert di Hyde Park organizzato dai Rolling Stones per commemorare il compagno scomparso. Hodgkinson s’associa a Ron Aspery (sf.) e a Tony Hicks (bt.), in un’insolita formazione triangolare che non prevede la presenza della chitarra elettrica né delle tastiere. Le parti solistiche sono riservate ai fiati di Aspery e soprattutto al basso di Hodgkinson, titolare di una tecnica strumentale d’indubbio interesse. All’epoca qualcuno arriva a sostenere che Hodgkinson è tanto importante per il suo strumento quanto Hendrix per la chitarra ; decisamente troppo. Altri, dimostrando notevole fantasia, sentenziano che i Back Door si avviano a diventare i nuovi Cream. La loro musica viene definita un incontro tra Ornette Coleman e Robert Johnson, e il gruppo è propagandato come la rivelazione inglese dell’anno. Paradossalmente, il primo album Back Door, registrato in due soli giorni nel giugno 1972, è un buon disco, semplice, diretto, portatore di un frizzante jazz blues che contrasta non poco con l’esagerata azione pubblicitaria profusa. Per il secondo 8th street nites (Warner Bros.-1974) viene chiamato alla produzione Felix Pappalardi (guarda caso !) ma il gruppo soffre di una certa carenza a livello creativo, la sorpresa dell’esordio lascia il posto ad una rapida decadenza d’interesse nei confronti dei Back Door, che riescono a pubblicare altri due dischi trascurabili prima di sciogliere le fila nel 1976. A Rock'n'Roll Damnation ...ovvero il diavolo, probabilmente - 15 Può apparire argomento strano, addirittura presuntuoso e fuori luogo, trattare di musica progressiva riferendosi ai Rolling Stones, il gruppo che più di ogni altro ha definito in modo netto ed immediatamente riconoscibile il proprio stile musicale. La più grande band di rock’n’roll al mondo, tutto vero, ma almeno fino a quando nei Rolling Stones è stata presente la creatività sregolata di Brian Jones, la musica del gruppo ha subito una costante evoluzione, se non nella sostanza quantomeno nella forma. Basta ricordare singoli epocali quali (I can’t get no) Satisfaction, Paint it, black e un album dal valore assoluto come Aftermath. Alla fine del 1967 anche gli Stones, al pari di tanti altri, si fanno coinvolgere nell’ondata psichedelica producendo l’album Their satanic majesties request, un lavoro complesso, reso in modo piuttosto frammentario, che appare pretenzioso e di molto inferiore ai grandi parti discografici di quel magico anno. In ogni caso, non si può far finta di nulla di fronte alla cialtroneria di Sing this all together, che sfocia nella stupenda Citadel, un corposo brano psichedelico sospinto da pesanti chitarre e impregnato di variopinti arcobaleni lisergici. In another land sfodera il clavicembalo di Jones e un incedere tra sogno e realtà, mentre Gomper fa il verso ai Beatles d’oriente perdendosi in qualche sproloquio di troppo. 2000 man e la bella She’s a rainbow (con l’originale arrangiamento d’archi di John Paul Jones e il piano di Nicky Hopkins) scelgono la strada del suono Stones più riconoscibile. ROLLING STONES - BEGGAR’S BANQUET (Decca - 1968) Licenziato il vecchio manager Loog-Oldham e visti gli scarsi risultati ottenuti con la breve svolta psichedelica, i Rolling Stones decidono di virare verso schemi a loro più congeniali. Già il singolo di Jumping Jack Flash, con quel riff assassino, preferisce climi sporchi e grintosi. La conferma, eclatante, arriva nel dicembre 1968, giusto un anno dopo il ‘satanic’, con la pubblicazione di Beggar’s banquet. La musica pare sorgere dal nulla nella grandiosa Sympathy for the devil, cresce in progressione, sorretta da un fitto tappeto percussivo e dal prezioso lavoro al piano di Hopkins (perfetto su tutto il long playing). Strani fremiti pervadono il brano, chitarre taglienti, e Jagger esibisce una delle performance più calde ed incisive del suo ricco repertorio. Nel disco trovano posto diversi brani direttamente collegati alla tradizione country blues rivista con spirito moderno : No expectations si crogiola nel tiepido torpore della chitarra slide, Dear doctor muove con passo di valzer zoppicante, Prodigal son è spigliata e priva di remore. Parachute woman rivitalizza dure cadenze blues, sintetizzando al massimo il ritmo. Piacciono pure Jig-saw puzzle, che recupera il movimento ritmico di Sympathy for the devil preferendo climi più rilassati, e la contenuta Factory girl. Street fighting man è dura, monolitica, incisiva più per la forma e le maniere che per il suono ; la graffiante, torrida Stray cat blues è immersa in un quattro quarti tipicamente rock blues, un grimaldello capace di forzare il coperchio della coscienza pulita del pop psichedelico in declino, negazione convinta del ‘satanic’, trionfo del rock tirato per i capelli. Salt of the earth è una ballatona dalle sfumature decadenti e accento gospel, che chiude il cerchio di un lavoro irripetibile per il gruppo di Jagger e Richard. Rock’n’roll è un termine nobile ma riduttivo per musica di questo livello. Che il diavolo ci abbia davvero messo lo zampino ? Ai tanti esorcisti del rock l’ardua sentenza... Jones forse non era un gran compositore, come a più riprese hanno rilevato gli stessi Jagger e Richard, ma di sicuro era un ottimo ‘inventore’ di suoni, donava colori imprevedibili alla musica degli Stones mediante il frequente utilizzo di strumenti estranei alla tradizione rock, era il guastatore che contribuiva in modo decisivo a rendere straordinario ciò che a volte appariva solo consueto. Nel giugno 1969 Brian Jones esce dal gruppo e il 3 di luglio viene trovato morto nella sua piscina. Due giorni dopo i Rolling Stones celebrano la tragica scomparsa del vecchio compagno con un free concert a Hyde Park, davanti ad una folla di 300.000 persone. Nell’occasione presentano il nuovo chitarrista, l’ottimo Mick Taylor proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall. Con Taylor gli Stones acquisiscono in tecnica e potenza, divenendo una perfetta macchina da rock’n’roll come dimostrano gli LP successivi : Let it bleed (Decca - dicembre 1969), il live Get yer ya-ya’s out ! (Decca-1970, registrato nel novembre ’69 al Madison Square Garden di New York), Sticky fingers (Rolling Stones Rec. aprile 1971) e il doppio Exile on main street (Rolling Stones Rec. - maggio 1972), tutti dischi di notevole livello che confermano la statura di Jagger e Richard come autori ed esecutori. Nel momento in cui (dicembre 1974) uno sfiancato Taylor lascia il posto a Ron Wood, il gruppo ha da tempo focalizzato il proprio stile. Rimane il rammarico (o forse l’onore ?) che sia il loro nome a chiudere definitivamente l’epoca dei sogni, del flower power, degli ideali di libertà, pace, amore della Woodstock nation, il 6 dicembre 1969 ad Altamont, California, quando davanti a 400.000 persone gli Hells Angels del servizio di sicurezza uccidono nei pressi del palco un giovane di colore, durante l’esibizione dei Rolling Stones. E’ solo rock’n’roll ? Dopo essere diventato uno dei cantanti più rappresentativi del blues revival inglese, Eric Burdon pone termine all’avventura degli Animals nell’estate del 1966 quando s’infatua del movimento flower power di cui, dalla lontana California, giungono notizie inebrianti anche nel cuore della ‘riservata’ Inghilterra. Burdon segue una rotta inversa rispetto a quella intrapresa al tempo da Jimi Hendrix, trasferendosi a San Francisco per toccare con mano i fermenti della scena musicale locale. Là decide di dar vita ad una nuova formazione sotto il nome di Eric Burdon & the Animals, conosciuta anche come New Animals, con la quale approntare progetti inediti e sfogare le proprie capacità come compositore, sempre represse nell’economia creativa del vecchio complesso. Con lui resta il batterista Barry Jenkins, già presente negli ultimi dischi degli Animals, e si aggiungono il chitarrista / violinista John Weider, il chitarrista Vic Briggs e il bassista Danny McCulloch. Nel giugno del 1967 la formazione partecipa al Monterey International Pop Festival, avvenimento fondamentale e momento di maggior fulgore della California musicale dei Sessanta, o forse solo evento che sancisce la prematura fine di un breve ma splendido ciclo creativo, a puro scopo commemorativo. Burdon comunque gioca al rialzo. Il sitar che introduce Winds of change, il suo nuovo album del 1967, mette in chiaro la nuova impostazione stilistica del cantante ; la musica è rarefatta, colorata, intrisa di psichedelia, le chitarre più che aggredire accarezzano il suono e il violino di Weider scompagina ulteriormente ciò che resta del rhythm & blues originario. Poem by the sea soffre di una strana tensione occulta, che solo a tratti affiora dalle linee lievi e melodiche del brano; la canzone si spegne con il violino di Weider, che sottolinea anche l’ottima versione psichedelica della classica Paint it, black. Le atmosfere enigmatiche di The black plague sostengono la recitazione di Burdon in uno statico sentimento dai toni drammatici, rotto dalla hendrixiana risposta a Hendrix di Yes I am experienced. San Franciscan nights è l’inno del nuovo corso dove Burdon esprime, con sconfinata dolcezza e qualche tratto nostalgico, tutto l’amore per quei giorni unici. Man - Woman torna alle origini del ritmo, con un insistente rituale in crescendo che trova sfogo solo nella sua antica essenza. Hotel hell è struggente ed ipotizza la nostalgia selvaggia di scenari da vecchio west, Good times e la romantica Anything recuperano la forma canzone tradizionale, utilizzando arrangiamenti melodici di notevole pregio. Il finale con It’s all meat propone l’unico pezzo con caratteri duri e tirati, quasi ai confini dell’hard più creativo. La proposta di Burdon è, in ogni caso, lontana dalla spensieratezza di certo flower power e sull’opera persiste un’impressione d’angoscia, di drammaticità, di pesante inquietudine, quasi a contraddire lo spirito apparente di quei tempi. ERIC BURDON & THE ANIMALS - THE TWAIN SHALL MEET (MGM - 1968) The twain shall meet inaugura un 1968 di grande intensità per Burdon (tre album, di cui uno doppio, in quell’anno) e rappresenta un ulteriore salto in avanti. Se Winds of change annusava i sintomi del cambiamento e si predisponeva a seguirne le coordinate, Monterey è già celebrazione per il mito californiano. Non c’è molto altro da aggiungere, si può solo confermare la tesi, decadere lentamente, con gioia meravigliata che presto si trasforma in nostalgia. Just the thought s’insinua improvvisa nei meandri della psichedelia soffice, cullata dai violini di Weider. Closer to the truth pare scaturire dai residui della memoria di Burdon e si rammenta degli entusiasmi giovanili per il blues. No self pity vive sul contrasto tra un timido clavicembalo e l’ossessione percussiva di Jenkins, con il sitar a guidare la melodia. La decadente e trasognata Orange and red beams riassume gli elementi armonici della musica del gruppo, avvalendosi di pregevoli arrangiamenti. Burdon introduce solitario la stupenda Sky pilot che, dietro all’incedere accattivante e all’innocente ritornello, nasconde meraviglie inenarrabili, chitarre siderali in partenza per lo spazio, vecchie cornamuse scozzesi e scenari di battaglie campali, docili quartetti d’archi, orchestrazioni di largo respiro e la voce del cantante, strumento concreto, palpabile, vero. E’ il vertice creativo dei New Animals. Nulla può andare oltre. Ci prova We love you Lil, e quasi ci riesce, con quel suo epico incedere alla Quicksilver, carico di tensione non completamente liberata ; le cornamuse s’incrociano al sitar per illuminare la nenia di All is one che si apre su placidi orizzonti di speranza, alla fine. Al disco collabora Zoot Money, un ottimo ma poco conosciuto musicista reduce dell’epoca del blues revival con la sua Big Roll Band. Nel luglio 1967 quel gruppo si scioglie e George Bruno (suo vero nome) con due compagni d’avventura, Andy Summers (ch.) e Colin Allen (bt.), recluta il bassista Pat Donaldson per dar vita ad una nuova, effimera formazione che si dedica ad argomenti psichedelici. I Dantalian’s Chariot pubblicano un solo, mitico singolo (Madman running through the fields, ottobre ’67) e tengono qualche esibizione al Middle Earth. Dopo il precoce scioglimento Money entra in pianta stabile nei New Animals, Allen suona con Mayall (nell’ottimo Blues from Laurel Canyon) e poi con gli Stone the Crows, mentre Donaldson incide nel ’69 con i Poet & One Man Band e partecipa al progetto Fotheringay di Sandy Denny. Il nuovo album Every one of us, con una formazione a sei (Money alle tastiere), resta in cielo almeno nella risoluta ed accattivante White house e nella potente Year of the guru, entrambe composte dal solo Burdon. Serenade to a sweet lady, un valido strumentale scritto da Weider, si accontenta di girare attorno al sentimento del suono senza penetrare in profondità. La tanto decantata New York 1963 - America 1968 si perde in qualche lungaggine di troppo, anche se non mancano attimi di grande intensità emotiva e strumentale. Verso la fine del ’68 i New Animals subiscono un rimpasto d'organico per via dell’abbandono di Briggs e McCulloch. Per l’ultimo, ambizioso doppio LP Love is, registrato in ottobre, le parti di basso sono assorbite da Money ed entra in formazione il chitarrista Andy Summers, suo collaboratore di vecchia data. L’aspetto visionario della musica di Burdon è ormai irrimediabilmente perduto. Rimangono però le qualità di un suono spigliato, vitale, privo di sofisticazioni ; da segnalare le belle ed originali versioni di River deep mountain high (un successo per Ike and Tina Turner), di Coloured rain (Traffic), di Madman running through the fields (in eredità dai Dantalian’s Chariot), di To love somebody (Bee Gees) e ancora le trame progressive di Gemini e il buon originale di Burdon I’m dying (or am I). Con il cambiare delle stagioni il gruppo si dissolve : Weider va a suonare il basso con i Family, mentre Summers collabora con Kevin Coyne e con Kevin Ayers prima di diventare uno dei Police. Al termine dell’esperienza con i New Animals, Burdon si unisce ai War, una formazione funk di colore, con i quali incide due album tra il ’70 e il ’71 ; collabora poi con il bluesman Jimmy Whiterspoon e nel ’72 allestisce una propria band. Il miglior disco degli anni Settanta è il Sun secrets pubblicato nel 1974, dove il cantante mette in opera un grintoso e pirotecnico recupero di grandi classici quali It’s my life, Don’t let me be misunderstood, When I was young, Ring of fire, affiancati da qualche buona nuova composizione. Il suono è secco e tagliente, caratterizzato dalla chitarra del giovane Aalon, da una dinamica e potente sezione ritmica di colore e con Burdon incontenibile, in forma smagliante. Il successo quasi non lo degna più d’uno sguardo, ma Eric continua per la sua strada ed annega la nostalgia per i bei tempi andati nelle varie reunion degli Animals. - 16 E’ con la pubblicazione del Sgt. Pepper dei Beatles che s’inaugura la moda dell’album concept, con canzoni realizzate sulla base di un tema dominante che funge da ispirazione per lo sviluppo del lavoro di composizione. Tra coloro che per primi aderiscono al nuovo metodo sono da annoverare i Who, con l’album The Who Sell out, gli Small Faces e, poco dopo, altre due formazioni, Pretty Things e Kinks, che (ancora con il gruppo di Pete Townshend) producono alcuni dischi imperniati su una concezione sempre più complessa, mirata all’elaborazione di vere e proprie storie in musica, le cosiddette opere rock. Il fenomeno degli album a soggetto si diffonde abbondantemente nell’ambito della musica progressiva dei primi anni Settanta, divenendo per numerosi musicisti una tappa obbligata della carriera. In questo paragrafo si vuole evidenziare il primordiale approccio alla materia da parte di gruppi legati a doppio filo con la classica tradizione del rock’n’roll e del rhythm & blues. SMALL FACES - OGDENS’ NUT GONE FLAKE (Immediate - 1968) Nell’estate 1968 il nuovo album degli Small Faces, Ogdens’ nut gone flake, suscita buon interesse non solo per l’originale copertina rotonda (la prima nel rock) ma soprattutto per il contenuto musicale, che si riallaccia alla psichedelia più dura in voga all’epoca. Si tratta del primo ed unico 33 giri organico della formazione, abituata a produrre compilazioni di successi ottenuti su singolo, e il tentativo acquisisce un importante rilievo sia per l’apprezzabile (anche se non rivoluzionaria) qualità della musica proposta, sia per un approccio vagamente ‘a concetto’ con diverse canzoni proposte in medley. Il brano che titola il disco si presta ad introduzione strumentale, stabilendo un convincente feeling di base mediante l’uso di orchestrazioni articolate. Afterglow appare indecisa, tra delicati arpeggi intrisi di melodia e una propensione per rudezze quasi hard, seguita in rapida successione da Long agos and worlds apart e dalla facile cadenza di Rene, nobilitata da una solida coda con chitarre distorte, armonica e tastiere in evidenza. Song of a baker è hard, senza mezzi termini, melodica come nella migliore tradizione di Marriott, inesorabile e bella. Lazy Sunday riporta a pigre atmosfere da psichedelia soffice, con particolare attenzione all’equilibrio formale e un azzeccato utilizzo di effetti speciali. La seconda parte del disco è costituita da una sorta di suite intitolata Happiness Stan. Nel brano omonimo il clavicembalo e le tastiere di McLagan s’impegnano in ariose aperture a carattere sinfonico ; Rollin’ over riconduce ad un rock semplice, diretto e fisico, soluzioni e umori si alternano in canzoni di buon livello quali The hungry intruder e The journey. Mad John sceglie la chitarra acustica senza nascondere toni aspri ed epici, subito contraddetti dalla stoltezza della conclusiva Happydaystoytown. Nonostante il notevole successo di classifica ottenuto dall’album e il tentativo, sia pur tardivo, di rinnovamento stilistico, il gruppo perde rapidamente colpi e all’inizio del nuovo anno gli Small Faces si sciolgono, lasciando in eredità (nel novembre ’69) la buona antologia di The autumn stone, ricca di classici brani da 45 giri, inediti ed incisioni dal vivo. Già in aprile Marriott è impegnato con Peter Frampton nella fondazione degli Humble Pie mentre, poco più tardi, Lane, McLagan e Jones si uniscono a Ron Wood e Rod Stewart (entrambi dal Jeff Beck Group) ribattezzandosi come Faces. Tra il ’76 e il ’78 c’è tempo per la consueta, poco opportuna reunion e Jones sale agli onori delle cronache quando, al termine del ’78, prende il posto di Keith Moon nei Who. Di peso ben superiore è il contributo offerto, sempre nel 1968, dai Pretty Things. Dopo il periodo ’64 - ’66, dedicato ad una musica grintosa ed incisiva direttamente derivata dal blues e dal rock’n’roll, il gruppo di Dick Taylor e di Phil May si appresta ad affrontare con rinnovato entusiasmo i tempi della musica psichedelica e progressiva. Con loro sono John Povey (ts.), Wally Allen (bs.), Skip Alan (bt.) e il complesso trova asilo discografico alla Columbia, per la produzione di Norman Smith (collaboratore dei primi Pink Floyd). Nel novembre 1967 l’ottimo singolo di Deflecting grey mostra già il nuovo volto dei Pretty Things, ma è con l’album S.F. Sorrow che Taylor e compagni realizzano il massimo sforzo creativo dell’intera carriera. PRETTY THINGS - S. F. SORROW (Columbia - 1968) I Pretty Things inaugurano, di fatto, l’epoca delle opere rock senza la minima indecisione e contraddizione, con un esempio sobrio sotto l’aspetto concettuale e risoluto dal punto di vista espressivo. Le chitarre efficaci e taglienti di Taylor, la voce di May capace di passare con disinvoltura da climi infuocati a momenti delicati e melodici, le percussioni surreali di Twink (dai Tomorrow, per l’occasione subentrato a Skip Alan) e il prezioso apporto strumentale di Povey e Allen rendono il suono molto vario e sfuggente a sterili classificazioni. S.F. Sorrow is born apre con le chitarre di Taylor in grande spolvero, armonie vocali ben congegnate e ariosi inserti di organo quasi floydiano. Bracelets of fingers è un carillon psichedelico dagli scenari in continuo mutamento, ricco di soluzioni armoniche e ritmiche veramente originali. She says good morning prende la strada della consapevolezza e stabilisce un ottimale punto d’incontro tra Beatles e Pink Floyd. La ballata folk, stravolta e ridisegnata, di Private Sorrow termina sui colpi inesorabili di Twink e solidifica nel ritmo della sostenuta Balloon burning, guidata dalla ficcante chitarra di Taylor. Death, e pare che il mondo s’afflosci sulle proprie miserie, sul dolore di una processione funebre che sgombra il campo, con perfido realismo, dell’innocuo agitarsi di tanti stregoni dark di seconda mano. Le chitarre tremano, il sitar intona la litania, le voci spettrali e i tamburi di Twink, come pietre che rotolano negli abissi dell’oblio. Baron Saturday riporta in auge il ritmo di uno sbilenco R & B, con il gruppo camuffato da Beatles psichedelici ; l’apertura acustica di The journey conduce ad una spontanea jam elettrica dal sapore sotterraneo, mentre I see you fonda la sua essenza su trame sognanti e passionali, contrapposte ad incubi chitarristici che trovano ulteriore sfogo nel frammento strumentale di Well of destiny. Trust è quasi normale nella sua stupenda melodia e prepara il campo all’esplosione metallica di Old man going, con le chitarre che avvolgono la canzone in una spirale di drammatica costrizione, contorcendosi e sibilando, supportate da un implacabile Twink che pare divertirsi ad evitare sistematicamente i luoghi comuni della batteria rock. L’epilogo malinconico di Loneliest person chiude degnamente un gran disco, capace (in teoria) d’elevare i Pretty Things ai vertici espressivi del rock’n’roll progressivo. Purtroppo, come spesso accade alle cose belle ma scomode, l’album viene ingiustificatamente ignorato. Non da Pete Townshend, che più volte ha riconosciuto l’influenza di S.F. Sorrow sull’ispirazione che lo ha portato alla stesura del celebrato Tommy. Per ironia della sorte, quando il capolavoro dei Pretty Things viene dato alle stampe negli Stati Uniti, con quindici mesi di colpevole ritardo, il disco finisce alla gogna per aver copiato Tommy dei Who ! ! ! Subito dopo la pubblicazione del long playing Twink si dilegua nei sotterranei londinesi per preparare nuove avventure, lasciando il posto al ritorno di Skip Alan. Ancora più pesante risulta la perdita del fondatore Dick Taylor che va a collaborare con gli Hawkwind (lo ritroveremo nei Pretty Things della seconda metà dei Settanta). May, Povey, Allen e Alan trovano un temporaneo sostituto nel chitarrista della Edgar Broughton Band, Victor Unitt, e così sistemato il gruppo registra Parachute (1970), ancora prodotto da Norman Smith. Il disco alterna brani melodici quali In the square, The letter, Grass a tempi medi come Sickle clowns e She’s a lover ; il brano di maggior interesse è la dura e sofferta Cries from the midnight circus e la qualità media del materiale è molto buona. Parachute è opera degnissima ed onesta, addirittura la prestigiosa rivista Rolling Stone investe il lavoro del ‘titolo’ di miglior album dell’anno, anche se alla base c’è solo un rock diretto, essenziale, convincente, privo degli aspetti sperimentali e psichedelici del disco precedente. Anche in quest’occasione il successo è cosa che non riguarda il gruppo, che sbanda e preferisce sciogliersi nel 1971. L’anno seguente i Pretty Things ci riprovano grazie alla perseveranza di Phil May (unico membro della band originaria) che si porta appresso Povey e Alan, oltre a reclutare i nuovi Peter Tolson (ch. - una breve esperienza con gli Eire Apparent) e Stuart Brooks (bs. - ex Black Cat Bones e Leaf Hound). Esce Freeway madness (Warner Bros.-1972) e seguono altri due LP, ma il gruppo ha smarrito l’originalità creativa del decennio precedente e sopravvive senza particolare convinzione, tra separazioni ufficiose e riunioni dettate dalla nostalgia. I tempi della maturità artistica per Ray Davies e i suoi Kinks si materializzano nel 1967, con la realizzazione di due 45 giri di notevole qualità. In maggio esce Waterloo sunset, un bellissimo brano melodico, con armonie vocali impostate alla Beatles, che sogna di estatici tramonti ; nel luglio seguente è la volta della ballata di Death of a clown che conferma i Kinks sempre più lontani dalle dure matrici R’n’R degli inizi, con Ray Davies proteso verso creazioni armoniche e melodiche di grande respiro, ricche di trasporto emotivo, spesso intrise d’ironia e accompagnate da testi polemici. L’album Something else by the Kinks (ottobre 1967) comprende i due singoli citati e riassume l’orientamento musicale, dando sfoggio d'equilibrio e sobria eleganza stilistica. Il disco è anche l’ultima produzione di Shel Talmy per ciò che riguarda i Kinks. Le ambizioni del gruppo (in particolare di Ray Davies) si orientano insistentemente verso progetti a concetto, come nel caso di Four more respected gentlemen, un lavoro che non viene completato ma offre diversi spunti al successivo album The Kinks are the village green preservation society (Pye-1968). Preceduto, in giugno, dall’ottimo singolo Days, una composizione di squisito stampo melodico non inserita nella scaletta dell’album, Are the village green... è il primo LP a tema dei Kinks e appare lavoro di transizione, non privo comunque di canzoni degne di menzione quali The last of the steam powered trains, dalle reminiscenze blues, Big sky e la bellissima Animal farm, che unisce cadenze in vago stile Stones a fascinose aperture melodiche e orchestrali. I 33 giri faticano a conservare il successo riscosso dai singoli, anche perché la Pye considera i Kinks gruppo essenzialmente da 45 giri e non promuove adeguatamente gli album. KINKS - ARTHUR OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE (Pye - 1969) Sul finire del 1968 Davies inizia a lavorare ad un’opera commissionatagli da Granada TV sul tema della caduta dell’impero britannico. La stessa emittente rifiuta le composizioni di Davies, che decide di utilizzare il materiale per la produzione del nuovo album dei Kinks. Il disco viene definito opera rock e, all’inizio del ’69, si colloca tra S.F. Sorrow dei Pretty Things e Tommy dei Who, non possedendo il coraggioso vigore sperimentale del primo, né la razionale lucidità narrativa del secondo. Arthur, con il bassista John Dalton (ex Mark Four) in sostituzione di Pete Quaife, gode di un approccio diretto ed essenziale evitando, come costume di Ray Davies, soluzioni sperimentali e proponendo belle canzoni intrise di amara ironia. La divertita, beffarda nostalgia di Victoria contrasta con la rudezza tematica di Yes sir, no sir, con la triste elegia di Some mother’s son e con il duro monito dell’esplicita Brainwashed. Australia torna all’ironia pungente e si risolve in un magistrale arrangiamento che trae spunto da citazioni rock’n’roll, romanticismo classico e fiati rhythm & blues. Altrove il suono fatica ad emergere a causa di qualche timidezza di troppo, anche se vanno ricordate l’agrodolce Shangri-la e l’asciutta Mr. Churchill says. Ray Davies è da tempo il leader indiscusso, compositore, produttore e immagine dei Kinks, ma al suo interno il gruppo soffre di forti contrasti che, in ogni caso, non ne mettono a repentaglio l’esistenza. Nel 1969 i Kinks tornano ad esibirsi negli Stati Uniti dopo il lungo, forzato ‘esilio’, esordendo con un concerto al Fillmore East, di spalla agli Spirit. Nonostante il limitato successo dei 33 giri di recente pubblicazione, Davies insiste con gli album concept ideando nel 1970 l’ottimo Lola versus the powerman and the moneygoround, di certo uno dei migliori LP dei Kinks che, sfruttando le potenzialità della bella e passionale Lola, li spinge fino al secondo posto in classifica. Lola viene censurata, non per il testo scabroso che narra di un’ambigua avventura sessuale ma in quanto contiene un’allusione alla Coca Cola, che chiede ed ottiene la modifica del verso incriminato. L’album presenta contenuti molto polemici ; Davies se la prende con i manager precedenti, con il sindacato musicisti americano (che aveva bandito il gruppo dagli States), con il business musicale in genere. Stilisticamente si nota un deciso ritorno all’antico con modi rock semplici ed incisivi, di notevole impatto come nelle spigliate The contender, Rats, Powerman. La sarcastica Top of the pops si avvale di un riff granitico e di una parte centrale che cita Wilson Pickett. Ovviamente non mancano ballate di valore, tra le quali sono da ricordare Strangers e l’amara Get back in the line. Al disco collabora il tastierista John Gosling che a maggio diventa il quinto Kinks. Lola tocca l’apice qualitativo della produzione dei Kinks e al tempo stesso determina la fine del loro momento d’oro. Nel ’71 Percy è l’ultimo disco inciso per la Pye e un nuovo lavoro a tema, ma la vena non è quella solita. Il contratto con la RCA permette ai Kinks un approccio più marcato alle classifiche americane, pur in assenza di risultati creativi di particolare rilievo. Dopo la pubblicazione del non eccelso A quick one (1966), all’inizio del ’67 i Who vanno in tour negli Stati Uniti e in giugno forniscono una memorabile esibizione in occasione del festival di Monterey, mantenendo elevato l’interesse nei loro confronti soprattutto per merito delle tumultuose performance dal vivo. Nello stesso anno il gruppo registra il terzo LP The Who sell out, che si propone come uno dei primi esempi di album concept. Il disco, quasi interamente firmato da Pete Townshend, presenta il complesso in ottima forma e s’avvale di un atteggiamento ambizioso a livello creativo ; il tema affrontato è quello della pubblicità, con le canzoni collegate tra loro dai jingles delle radio pirata inglesi, dichiarate fuorilegge proprio in quei giorni. Tra i brani migliori figurano la psichedelica Armenia city in the sky, la melodica Tattoo, I can see for miles, percorsa dai fremiti di una micidiale progressione ritmica, e Rael 1+2, che permette d’ascoltare alcune embrionali idee poi utilizzate da Townshend per la stesura del fortunato Tommy. Townshend lavora ossessionato dalla volontà di realizzare una rock opera a carattere teatrale, che possa rappresentare un contributo definitivo alla storia del rock, e pensa la figura di Tommy, un ragazzo cieco sordo muto, la cui novella è parabola del successo, con la crescente esaltazione, l’onnipotenza e la rapida decadenza. La pubblicazione del doppio disco, nel 1969, giunge in ritardo rispetto a S.F. Sorrow dei Pretty Things (dal quale Townshend si dichiara fortemente impressionato) e a Arthur dei Kinks, ma il lavoro dei Who supera di gran lunga il successo dei predecessori, a livello di critica e soprattutto per l’impatto sul pubblico. Dedicato al guru Meher Baba, influenza di Townshend sin dal ’68, Tommy è valorizzato da una stesura raffinata e godibile, strutturato quasi a forma di musical, dotato di un solido impianto narrativo che porterà l’opera ad essere adattata per numerose versioni teatrali e a diventare nel 1974 un film per la regia di Ken Russell. Overture e Underture fungono da necessari collegamenti fra le sezioni del lavoro, a proposta e recupero dei temi salienti. Il brillante strumentale di Sparks, il focoso soul rock di Acid queen, il divertente rock’n’roll di Pinball wizard (anche su singolo), con la celebre introduzione alla chitarra acustica di Townshend, sono i brani più significativi. La progressione epica di We’re not gonna take it chiude il disco in un crescendo emotivo, ma alla fine resta la sensazione di una grande occasione persa. In Tommy manca il coraggio d’osare, di incrinare e mettere in discussione le certezze strutturali e con questo dare un valore aggiunto al perfezionismo formale che permea l’intero lavoro. Solo di rado affiora la rude forza espressiva che rende irresistibili i concerti dei Who e una dimostrazione pratica viene dal magnifico Live at Leeds, dove è possibile toccare con mano la consistenza dal vivo di parte del materiale ereditato da Tommy. Rimane un successo di larga portata, a netto rilancio delle quotazioni del gruppo che partecipa da protagonista ai grandi raduni di Woodstock e dell’isola di Wight. Il già citato Live at Leeds (1970) è uno dei più importanti ed esaltanti dischi dal vivo di tutto il rock, presentando i Who così come sempre avrebbero meritato, nella veste d'irrequieti folletti capaci di scatenare uragani sonori d’inaudita energia. Oltre che nelle interpretazioni di alcuni classici del repertorio (My generation a forma di medley con alcuni frammenti prelevati da Tommy, The magic bus e Substitute), il gruppo si esprime ai massimi livelli nella devastante versione di Young man blues, che mette in luce tutte le migliori prerogative delle quali i musicisti dispongono : il magistero ritmico di Townshend, il basso incontenibile di Entwistle, la batteria disordinata ma tremendamente efficace di Moon, la voce sfrontata e potente di Daltrey. Notevoli anche le proposte di Summertime blues (Eddie Cochran) e di Shakin’ all over (Johnny Kidd and the Pirates). WHO - WHO’S NEXT (Track - 1971) Non pago del gran successo di Tommy, Townshend inizia a lavorare ad un’opera rock ancor più complessa ed ambiziosa, dal titolo provvisorio di Lifehouse. Il progetto, strutturato in circa quaranta canzoni, naufraga miseramente ma per fortuna alcuni brani di eccezionale qualità vanno a costituire l’ossatura del nuovo album Who’s next, senza dubbio il miglior disco di studio dei Who, capace di condensare in una manciata di canzoni gli elementi essenziali delle capacità creative di Townshend e in grado di recuperare quell’urgenza espressiva, semplice e diretta, che dopo il primo album si era un poco persa per strada. Le tastiere suonate da Townshend introducono sonorità derivate dal minimalismo di Terry Riley, sia su Baba o’Riley che su Won’t get fooled again, parti estreme del lavoro accomunate da un senso di fiera rassegnazione e disillusione riguardo agli ideali ‘rivoluzionari’ degli anni Sessanta. L’iniziale si stempera in uno stupendo scenario in equilibrio tra Riley e il violino di Dave Arbus, ad est dell’Eden, mentre la conclusiva trova nella durissima ed amara scorza la propria attrazione fatale. Altro vertice del disco è la splendida Behind blue eyes, il cui disagio interiore attraversa con inaudita disinvoltura climi dolcissimi ed improvvisi sfoghi rabbiosi. Bargain è secca e tagliente, nella quieta e melodica Song is over e nella solida Getting in tune si può ascoltare l’ottimo contributo strumentale di Nicky Hopkins, mentre leggermente inferiori appaiono le rilassate Love ain’t for keeping e Going mobile, oltre all’unica composizione di Entwistle, My wife. La tensione interna al gruppo è elevata : Townshend si conferma il compositore pressoché esclusivo della musica dei Who e Daltrey non è disposto ad accettare un ruolo di secondaria importanza. Entrambi, come pure Entwistle, tra il ’71 e il ’73 iniziano a dedicarsi a progetti individuali, nei quali sfogare liberamente le proprie convinzioni creative. Townshend continua nella ricerca esasperata della perfetta opera rock e nel ’73 ci riprova con Quadrophenia (anche in questo caso si arriverà alla trasposizione cinematografica), un doppio LP incentrato sulle vicissitudini e sulle incomprensioni di un giovane mod. Il rock asciutto e vibrante di The real me, la spigliata 5 :15 e la drammatica Love, reign o’er me sono gli attimi salienti di un lavoro compatto e ben assemblato, che mostra qualche piccolo segno di stanchezza e, in ogni caso, non raggiunge il livello del disco precedente. Da questo momento le prove dei Who si fanno sporadiche e piuttosto stanche. Le ultime cose degne d’interesse si ascoltano nel The Who by numbers (Polydor) del 1975, ancora con la presenza del piano di Hopkins (bella How many friends). Un altro album nel ’78 (Who are you) e la morte di Keith Moon, il 7 settembre, mette seriamente a rischio l’esistenza del gruppo. La voglia di continuare da parte di Townshend e compagni è scarsa, ma ugualmente si provvede alla sostituzione di Moon con la poco convincente assunzione di Kenny Jones, ex Small Faces e Faces. Non è più la stessa cosa, l’entusiasmo è perso per sempre. Ancora un paio di dischi e poi la fine nel 1982, con successive occasionali reunion che fruttano qualche tour. Nell’ambito dei lavori a tema, su basi chiaramente di stampo rock’n’roll, un pensiero va dedicato agli sconosciuti Fire che nel 1970 pubblicano il loro unico album The magic shoemaker. Il nucleo del gruppo prende consistenza nell’inverno del ’66 su iniziativa del chitarrista David Lambert, affiancato da Dick Dufall (bs.) e da Bob Voice (bt.), ed inizia ad esibirsi nel circuito londinese dei club sotterranei (Middle Earth, Marquee, Pink Flamingo). Dopo la realizzazione nel 1968 di due singoli che passano inosservati, i Fire (nel gennaio ’70) giocano la carta del disco concept, di gran moda a quei tempi, e registrano per la Pye i nastri di The magic shoemaker. L’album accusa qualche ingenuità e caduta di tono e si colloca a debita distanza dai più importanti esempi del genere, ma non è privo di belle composizioni e di spunti pregevoli. Tutte le canzoni, come del resto la parte narrativa, sono opera di Lambert e tra le migliori vanno segnalate le grintose Tell you a story, Flies like a bird e l’ottima ballata di Reason for everything. Per le registrazioni del long playing i Fire s’avvalgono dell’aiuto di Dave Cousins (degli Strawbs) e di Paul Brett (degli Elmer Gantry’s Velvet Opera). Quest’ultimo entra per breve tempo, come secondo chitarrista, nell’organico del gruppo per poi costituire una propria formazione (Paul Brett Sage) nella quale finiscono Voice e Dufall. Lambert mantiene in vita il marchio Fire assumendo una nuova sezione ritmica, ma l’illusione di poter emergere con la propria musica svanisce rapidamente e nel 1972 il chitarrista entra negli Strawbs del vecchio amico Cousins, al posto del dimissionario Tony Hooper. Con gli Strawbs Lambert registra ben sette album, prima di realizzare nel ’79 un disco come solista (Framed). - 17 In ordine sparso, uno scarno ed eterogeneo manipolo di musicisti che vantano al denominatore una comune origine dalle solide radici del rock’n’roll più disinvolto ed intelligente. Terry Reid, ad esempio, pur avendo sviluppato la parte decisiva della carriera negli Stati Uniti è personaggio tutt’altro che marginale per la scena inglese. A soli 15 anni è cantante e chitarrista nei Redrig e nel 1964 entra nei Peter Jay & the Jaywalkers, che hanno l’opportunità di partecipare al tour dei Rolling Stones e di Ike & Tina Turner del ’66. Poco prima di sfaldarsi (nell’aprile del ’67) il gruppo diventa Terry Reid & the Jaywalkers e registra un primo singolo. La mossa successiva di Reid è quella di allestire un trio con Eric Leese (ts.) e Keith Webb (bt.), con il quale si esibisce come spalla di formazioni di notevole notorietà (Hollies, Small Faces, Yardbirds, Beach Boys, Jefferson Airplane), costruendosi una buona reputazione. All’inizio del 1968 entra nell’orbita del produttore Mickie Most (Jeff Beck, Donovan...) pubblicando in aprile il singolo Better by far. Leese viene sostituito alle tastiere da Pete Solley e il gruppo se ne va in America al seguito dei Cream, conseguendo discreto successo. Per capitalizzare l’interesse creatosi sul posto, Reid incide un album negli Stati Uniti con il quale ottiene una buona risposta a livello commerciale. Bang, bang you’re Terry Reid mette in mostra le inequivocabili doti vocali di Reid, assieme ad un suono privo di fronzoli imperniato sul lavoro di chitarra e tastiere. Molti brani si risolvono nella forma di ballata, con Reid sempre puntuale nell’interpretazione vocale ; belle sono le versioni di Bang, bang (my baby shot me down) di Sonny Bono, pervasa da improvvise mutazioni di ritmo, e del robusto soul rock di Something’s gotten hold of my heart. La lunga Season of the witch perde il respiro psichedelico dell’originale di Donovan, acquisendo sincere cadenze rock che vivono di luce propria, come accade per l’altrettanto lungo e convincente medley che comprende l’ottima Writing on the wall (forse la miglior composizione di Reid) e l’originale rilettura di Summertime blues. Tra le canzoni a firma di Reid convincono Tinker Taylor (un rhythm & blues progressivo) e Loving time, dove un lucido suono d’organo si mescola all’efficacia ritmica della chitarra. Per assurdo l’album viene pubblicato solo negli Stati Uniti, mentre in Inghilterra è reperibile esclusivamente sul mercato d’importazione. Nell’estate del ’68 Jimmy Page è alle prese con la fondazione di un nuovo gruppo che deve nascere dalle ceneri degli ultimi Yardbirds ; già deciso per il bassista (John Paul Jones) Page cerca di convincere il batterista B.J. Wilson dei Procol Harum e, come cantante, lo stesso Reid. Terry commette un grave errore declinando l’offerta, nella speranza di un fulgido futuro come solista, ed è proprio lui a consigliare l’assunzione dei due Band of Joy, Robert Plant e John Bonham : saranno i Led Zeppelin. La leggenda vuole che, tornato in tour in Inghilterra con Jethro Tull e Savoy Brown, a metà del ’69 Reid perda una seconda grossa occasione per sostituire il cantante Rod Evans nei Deep Purple. Toccherà a Ian Gillan. La carriera di Terry Reid non riesce a decollare, nonostante la pubblicazione del secondo LP omonimo (Epic-1969) che contiene valide cover di Stay with me baby (Jerry Ragavoy), di Highway 61 revisited (Bob Dylan) e di Superlungs my supergirl (ancora Donovan). A questo punto il cantante si stabilisce definitivamente in USA dove, negli anni Settanta, pubblica altri tre dischi discreti, ma il solo River (Atlantic-1973) ottiene un’accettabile risposta di pubblico. Gli Spooky Tooth, formazione dall’esistenza tribolata e di buon impatto alla fine degli anni Sessanta, hanno le loro radici nei V.I.P., un complesso del 1966 dove si conoscono il cantante / pianista Mike Harrison, il chitarrista Luther Grosvenor, il bassista Greg Ridley e il batterista Mike Kellie. I V.I.P., con i quali suona brevemente anche Keith Emerson prima dell’esperienza Nice, pubblicano due singoli e nel 1967 cambiano nome in Art, dedicandosi ad una proposta in linea con la psichedelia dell’epoca. Dopo un album (Supernatural fairy tales, Island-1967) e la partecipazione al primo LP degli Hapshash & the Coloured Coat, nell’ottobre del ’67 i quattro s’imbattono nell’organista americano Gary Wright e danno luogo ad un'ennesima metamorfosi, diventando Spooky Tooth. Con la produzione di Jimmy Miller (Traffic, Rolling Stones) l’esordio di It’s all about (Island1968, con una dura cover di Tobacco road) è confortante, così come il successivo Spooky two che nel 1969 fissa lo stile del gruppo su una fusione tra R & B e R’n’R progressivo, con qualche influenza Traffic e una sostanza riconducibile più ai toni duri dell’hard che alla raffinata psichedelia e alla varietà stilistica del gruppo di Winwood. Buono è lo schematismo del 4/4 di Waitin’ for the wind, Feelin’ bad (quasi una risposta ai Traffic) è una tipica ballata con riflessi armonici gospel, perfetta per un Joe Cocker ; la versione hard di Evil woman risulta appassionante, guidata dalla pesante chitarra di Grosvenor e sostenuta dall’organo di Wright. Interessanti pure Lost in my dream e la dura Better by you, better than me. Nell’aprile dello stesso anno Ridley lascia il gruppo per raggiungere i neonati Humble Pie e il suo posto viene rilevato da Andy Leigh. Il terzo album Ceremony (Island-1970) sperimenta a sorpresa l’idea di una ‘messa rock’ progressiva, con la collaborazione del francese Pierre Henry, riscuotendo buon successo ; gli Spooky Tooth sono però allo sbando per la decisione assunta da Gary Wright di abbandonare il complesso e Harrison, Kellie, Grosvenor, con l’aiuto di alcuni musicisti esterni tra i quali spicca l’organista Chris Stainton, incidono un ultimo The last puff (Island-1970). Si riparla di Spooky Tooth solo nel settembre del ’72 quando Wright e Harrison rifondano il gruppo su basi completamente nuove, con l’ausilio di Mick Jones (ch.), Chris Stewart (bs.) e Bryson Graham (bt.). Questa formazione incide il valido You broke my heart so...I busted your jaw (Island-1973) che è l’ultimo disco di rilievo degli Spooky Tooth, almeno nelle belle Old as I was born, This time around, Moriah mirate ad un riuscito compromesso tra le esigenze commerciali e il residuo fuoco progressivo che ancora arde. Più avanti torna il vecchio batterista Mike Kellie e dispiace veder coinvolto il bravo Mike Patto in un disco poco ispirato come The mirror, che nel 1974 chiude definitivamente la storia degli Spooky Tooth. Wright prosegue come solista, con una musica facile e di notevole successo. Kellie resiste alle intemperie punk e nel 1977 si ritrova negli Only Ones. Mick Jones, ultimo chitarrista della formazione, forma con Ian McDonald (King Crimson) i Foreigner, con i quali propone un vendutissimo hard dalle poche pretese artistiche. Thunderclap Newman, un gruppo del giro Who prodotto da Pete Townshend, vive un attimo di fuggevole gloria nel 1969 quando imbrocca un brano come Something in the air, che sorprendentemente si piazza al primo posto della classifica inglese. Si tratta di una bella canzone dall’ampio respiro melodico, valorizzata da un misurato arrangiamento orchestrale che non nasconde l’originalità dello stile del gruppo. Il trio è composto da Andy Newman alle tastiere, un ex impiegato postale di quarant’anni che si diletta a suonare il piano jazz e ragtime, dal giovanissimo chitarrista scozzese Jimmy McCulloch, scoperto da Townshend mentre suona al Middle Earth con il suo complesso One In A Million, e dal batterista / cantante John ‘Speedy’ Keen, con all’attivo una collaborazione con John Mayall e autore della bella Armenia city in the sky inclusa dai Who nell’album Sell out. Il secondo 45 giri Accidents è interessante, ma poco adatto al ruolo di singolo e non ripete il successo di Something in the air. L’unico album Hollywood dream (Track-1969) risulta valido, ma non vende. Il divertimento ragtime di Hollywood 1 e l’esotismo percussivo di Hollywood 2, Wild country, con Newman che s’impegna ad oboe e flauto, e la discreta cover di Open the door, homer (con il consueto inserto ragtime - Dylan, dal bootleg di Great white wonder) dimostrano che i Thunderclap Newman sono in grado d’esprimere qualcosa di più rispetto al rock’n’roll di base. Ancora, The reason è decisamente bella con quell’incedere risoluto, tipico delle ballate in stile Townshend, impreziosita dal pregevole lavoro alle chitarre di McCulloch. Viene pubblicata anche su singolo ma nessuno se ne accorge e al gruppo non resta che la scelta di un rapido scioglimento, nel 1970. Keen e Newman producono alcuni dischi come solisti, mentre McCulloch suona, tra gli altri, con Stone the Crows e i Wings di Paul McCartney. Un pensiero per David Bowie non è fuori luogo, in questo contesto. Per il Bowie del primo periodo, quando il musicista ancora si agita nei meandri dell’underground alla ricerca di un’identità definita, che del resto mai riuscirà (e vorrà) trovare. Proprio il disinvolto trasformismo è alla base del suo immane successo commerciale, essenza fondamentale per un artista sempre in grado di riproporsi a seconda (o incurante) delle mode di passaggio. David Robert Jones, in arte Bowie, tra il ’63 e il ’65 fa esperienza in gruppetti beat e rhythm & blues come i King Bees, i Manish Boys (un singolo prodotto dal noto Shel Talmy, nel quale suona il giovanissimo sessionman Jimmy Page), i Lower Third (suonano spesso al Marquee con gli High Numbers, poi diventati Who). Nel 1966 escono i primi due 45 giri a nome David Bowie, entrambi pubblicati dalla Pye, e nel ’67 altri singoli per la Deram, oltre all’omonimo album d’esordio che passa del tutto inosservato. Bowie entra come mimo nella compagnia di Lindsay Kemp e vi rimane per tutto il 1968 ; è un’esperienza molto importante, messa a frutto dal cantante negli anni Settanta quando affina le proprie capacità sceniche, dando vita ad una serie di fantasiosi personaggi di gran presa sulla scena rock. La svolta della carriera di Bowie avviene nel luglio ’69 con la pubblicazione del singolo Space oddity, un brano melodico ed accattivante ispirato al film ‘2001 Odissea nello Spazio’ di Stanley Kubrick. Il successo della canzone permette la pubblicazione di un secondo LP, anch’esso omonimo (Philips-1969), ma solo nel 1970 inizia a prendere consistenza una precisa linea artistica. Tony Visconti diventa il manager del cantante e nascono gli Hype, con lo stesso Visconti (bs.), John Cambridge (bt.) e soprattutto Mick Ronson (ch.) ; per il nuovo album The man who sold the world entra nel gruppo il batterista Mick Woodmansey, che successivamente con Ronson sarà negli Spiders From Mars. The man who sold the world non è certo l’album migliore di Bowie, nemmeno il più bello e piacevole, ma è l’unico dell’intero catalogo ad ostentare con convinzione la sua natura sotterranea, disponendo ritmo ed elettricità senza curarsi troppo di subdoli calcoli commerciali. Musica ingenua, se si vuole, soluzioni semplici, una voce innamorata di Dylan e le chitarre di Ronson dispiegate al vento come nelle crude Running gun blues e She shook me cold, come nel vortice di Saviour machine. The width of a circle è il brano più ambizioso, con l’insinuante melodia che raccoglie per strada tutti gli scampoli d’elettricità disponibili e si chiude con la citazione del ‘Zarathustra’ di Richard Strauss (curiosamente la stessa conclusione poi riservata alla celebre Life on Mars ?, sull’ellepì di Hunky dory). C’è spazio per momenti meno convulsi, anche se le sinistre trame di After All e il sapore decadente della title track contribuiscono ulteriormente ad elevare la tensione sonora. Nel 1971 Hunky dory vede per la prima volta insieme Ronson, Woodmansey e il bassista Trevor Bolder, che poco dopo diventano i Ragni di Marte. Al disco partecipa Rick Wakeman (al piano) che in quei giorni sta passando dagli Strawbs agli Yes. Hunky dory stabilisce definitivamente i connotati del timbro vocale di Bowie e musicalmente ammorbidisce i toni, attingendo da certo folk melodico ; il bersaglio è centrato in pieno, visti i successi di Changes e della ballata di Life on Mars ?, ma non si tratta dello stesso musicista del disco precedente. L’ultimo contributo al mondo musicale alternativo avviene nel 1971, con l’esibizione alla festa del Glastonbury Fayre; Bowie concede ai compilatori del triplo album che celebra l’evento la discreta The supermen, in una versione di studio diversa da quella compresa su The man who sold the world. Poi il trasformismo prende la mano, Bowie diventa Ziggy Stardust con la pubblicazione di The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (Rca-1972) e di Aladdin sane (Rca-1973), non privi di spunti validi nell’ambito di un rock facile e edulcorato. Il 7 luglio del ’73, in occasione di un concerto londinese, con abile mossa pubblicitaria Bowie pone fine alla breve ma redditizia epopea di Ziggy Stardust, riciclandosi come Duca Bianco su territori soul rock. Arriverà alle pregevoli sintesi elettroniche di Low e Heroes (1977, con Fripp e Eno), per dedicarsi in seguito a discutibili soluzioni dance. I Mott The Hoople, infine. Nella parte conclusiva degli anni Sessanta Mick Ralphs (ch.v.), Overend Watts (bs.), Verden Allen (or.), Dale Griffin (bt.), con il cantante Sean Tippens, si propongono come Silence. All’inizio del 1969 il gruppo si trasforma in Mott The Hoople e cambia cantante, con l’avvento di Ian Hunter. Il primo album omonimo, registrato nel luglio ’69 con la produzione di Guy Stevens, risulta il più fresco e creativo, svariando da Dylan ad un rock molto vicino all’hard. You really got me dei Kinks è resa in una dura versione strumentale, che si stempera nel classico stile dylaniano (tradito sin dall’impostazione vocale di Hunter) dell’ottima At the Crossroads, un brano del texano Doug Sahm. Backsliding fearlessly e Laugh at me (altra cover, questa volta di Sonny Bono) presentano un incedere simile, ma in aggiunta la seconda possiede un finale elettrizzante. Lo stile del gruppo è ampiamente interessato da connotati hard, come dimostra la piacevole Rock and roll queen ; punto focale dell’album appare la bellissima Half moon bay, solcata da placide ed ammalianti onde melodiche controllate da un Hunter ispirato. Mott The Hoople riceve una buona accoglienza da parte della critica, ma le vendite non sono esaltanti ; la stessa cosa capita ai successivi album Mad shadows (1970), Wild life (1971) e Brain capers (1971), tutti incisi per la Island. Il gruppo entra in crisi ma un illustre fan, David Bowie, li aiuta in modo decisivo scrivendo per loro All the young dudes, una canzone che raggiunge il terzo posto in classifica nel 1972. Il brano, una bella melodia tipica dello Ziggy Stardust di quei tempi, diventa il pezzo guida del nuovo LP che porta lo stesso titolo (Cbs-1972), nel quale Bowie suona il sax, arrangia parte del materiale e si occupa della produzione. Tra le canzoni spiccano la versione di Sweet Jane (Velvet Underground) e numerosi episodi che spostano la musica del gruppo su lidi chiaramente hard, con qualche strizzatina d’occhio ai Rolling Stones (Sucker, One of the boys, Ready for love). Verden Allen abbandona per formare i Cheeks e la formazione prosegue come quartetto, registrando all’inizio del ’73 il long playing Mott (Cbs - luglio ’73), il miglior album del nuovo corso. Al disco, che presenta una buona varietà di temi, partecipano Paul Buckmaster (vc.), Graham Preskitt (vi.) e Andy Mackay dei Roxy Music (sax.), e tra le canzoni emergono durissimi hard rock (All the way from Memphis e Drivin’ sister), ballate dai toni contenuti e decadenti (Hymn for the dudes e Ballad of Mott The Hoople), l’originale ed intraprendente Violence e la composita I’m a cadillac / El camino Dolo Roso. Il successo è assicurato ma a sorpresa Ralphs lascia il gruppo per raggiungere Paul Rodgers nella Bad Company, con Boz Burrell e Simon Kirke. Il suo posto viene ereditato da Luther Grosvenor (ex Spooky Tooth, sotto lo pseudonimo di Ariel Bender) ed entra anche l’organista Morgan Fisher (dai Love Affair). Ancora due album, The Hoople (Cbs-1974) e l’ottimo Live (Cbs-1974), ricavato da due concerti tenuti a Londra e New York, e alla fine del ’74, con l’ingresso del chitarrista Mick Ronson (già con Bowie), il gruppo sembra pronto per nuove imprese, quando Hunter decide di porre fine all’avventura dei Mott The Hoople per intraprendere una buona carriera solista. Più Duro di tuo Marito i miti e le illusioni dell'hard rock inglese Quante volte, ascoltando un brano di musica hard, abbiamo rischiato di cadere in una crisi di euforica epilessia, presi dalla potenza liberatoria del suono ; quante volte, con atteggiamento freddo e distaccato, ci siamo accorti di presenziare a strutture sonore banali e risapute, d’assistere a fenomeni iconografici più pacchiani che oltraggiosi. In fin dei conti, è proprio a questo vizio originario, a questo dubbio storico, che paga il pedaggio gran parte della critica di settore, spesso incapace di (o forse non interessata a) separare il buono dal cattivo, di attribuire al fenomeno una valutazione serena e al di sopra delle parti. Da un lato i sostenitori a tutti i costi del verbo metallico, capaci d’accettare le esasperazioni più allucinanti, dall’altro il gruppo dei colti, convinto che dietro alla facciata di sudore e rumore si celi il nulla intellettuale. A ben guardare, sono entrambi atteggiamenti che nascondono una lunga teoria di luoghi comuni. Nonostante tutto, l’hard rock inglese vanta nobili radici, riconducibili al fenomeno del British blues, all’Hendrix quadrato e vigoroso, agli alfieri della musica post beat più ispida che mal digerivano il neoclassicismo inaugurato dai Beatles (Rolling Stones, Who, Pretty Things). Lo stile si consolida definitivamente con il blues roccato alla massima potenza dei triangoli classici dei Cream e dell’Experience, esplicitandosi in toni oramai prossimi al suono più duro in occasione dei primi lavori del gruppo di Jeff Beck e dell’esordio dei Led Zeppelin. Un crescendo di soluzioni, sempre più tese ed ossessive, porta alla coniazione di un linguaggio caratterizzato da un suono violentemente fisico e possente, fortemente coinvolgente e altrettanto costringente, destinato a canalizzarsi in aridi rivoli di musica ripetitiva, che a lungo andare paga l’essenza della propria natura con la perdita di quella freschezza dinamica che appare come la componente originaria di maggior attrazione. In questo panorama non mancano situazioni tristi ed incresciose, esecutori di musica priva di fantasia e di qualità trascurabile, ma neppure ci si deve dimenticare di coloro, grandi e piccini, che hanno avuto il merito d’offrire una versione credibile e, perché no, progressiva del suono più duro della roccia. - 18 - Innanzi a tutti, i Led Zeppelin. Se il primo album della formazione fornisce un’interpretazione estrema del rock blues più duro in voga all’epoca, restando in ogni caso saldamente ancorato all’idioma originario, il seguente lavoro Led Zeppelin II (pubblicato nell’ottobre 1969) non conosce compromessi e stabilisce, in via definitiva, le modalità del loro personale e godibile hard rock. LED ZEPPELIN - LED ZEPPELIN II (Atlantic - 1969) Whole lotta love si apre con il riff tagliente della chitarra di Page, una sorta di tema blues sviluppato a velocità supersonica ; l’immediato raddoppio del basso di Jones, l’enfatico fraseggio di Plant e il dirompente ingresso dei tamburi di Bonham producono una tensione crescente ed avvolgente. Incubi, lacerazioni, selvaggi vocalizzi orgasmici, stacchi mozzafiato, assoli lancinanti. E’ la sigla di un modo imperioso, estremo ed implacabile di concepire, plasmare ed esternare gli ultimi residui della cultura blues. L’unico brano che si avvicina allo stile dell’album d’esordio è The lemon song, uno spesso power blues dominato dalla chitarra di Page. Heartbreaker sospinge gli Zeppelin verso l’hard più arcigno, pompato dal basso e dalla perentoria batteria, con la chitarra che produce riff poderosi e un iperbolico solismo ; la tremenda forza d’urto si placa nell’orecchiabile Living loving maid (she’s just a woman), carina ma nulla più. What is and what should never be è giocata sul contrasto tra un raffinato blues da night club e violente frasi hard, così come Ramble on, un brano molto importante per l’evoluzione futura della musica dei Led Zeppelin, muove in territori a mezza strada tra il folk acustico e l’esuberanza elettrica tipica del gruppo. Discreta è Thank you, ballata di vaga ispirazione folk segnata dall’organo di John Paul Jones, mentre Moby Dick offre l’occasione a Bonham per scuotere le pelli della batteria a mani nude. La conclusiva Bring it on home, introdotta da un noto blues di Willie Dixon (stranamente non citato tra gli autori della canzone), si scatena nel solito turbinio ritmico selvaggio ed assordante. Il successo dell’album è eccezionale, con il primo posto di classifica in Inghilterra e Stati Uniti ; la strada da seguire, facile e priva di rischi, è quella di ripetere gli schemi e bissare i risultati di vendita. Invece no ; laddove altre formazioni longeve dell’hard inglese (Deep Purple, Uriah Heep, Black Sabbath) puntano ad una standardizzazione del suono i Led Zeppelin, pur senza mutare le caratteristiche di uno stile di base già ben definito, cercano di divincolarsi da questa facile ma creativamente penalizzante equazione, attingendo di volta in volta a matrici tra le più disparate. L’esempio eclatante arriva con il notevole Led Zeppelin III, pubblicato nell’ottobre del 1970. Nel primo lato del disco il gruppo dà dimostrazione di notevole eclettismo, mettendo a confronto con disinvoltura i diversi aspetti della propria musica : l’iniziale Immigrant song, uno dei brani classici del repertorio, dal ritmo sincopato, incessante, che pare travolgere ogni ostacolo, sorvolato dagli agghiaccianti vocalizzi di Plant - l’acustica Friends, costruita su strane armonie ed intriganti arrangiamenti d’archi - il robusto rock’n’roll di Celebration day, con il consueto gran lavoro di Page alle chitarre. Since I’ve been loving you, magnifica e inattesa, è un lungo blues dominato da una chitarra brillante e incisiva, sottolineato dall’organo e sostenuto dalla poderosa batteria, con una sofferta interpretazione di Plant che conferma le sue indiscutibili doti vocali. E’ un grande omaggio alla tradizione blues, a precisazione di quali sono le originarie radici dei Zeppelin. Out on the tiles offre l’impatto di un accettabile pezzo hard e chiude la parte elettrica del disco. La seconda facciata è quasi completamente acustica con la saltellante Gallows pole, le ballate di That’s the way e Bron-y-aur-stomp ; c’è anche spazio per una dedica, non proprio memorabile, a Roy Harper (Hats off to Roy Harper), amico di vecchia data di Page. Tangerine è stupenda, commovente nostalgia dell’estasi di una tarda psichedelia folk che rapisce il cuore. Il risultato commerciale non cambia : primo posto ovunque. Nel novembre 1971 è la volta del quarto LP, che curiosamente non presenta alcun titolo ; per praticità d’uso (e senza troppa fantasia) scegliamo di chiamarlo Led Zeppelin IV. Il gruppo è ormai un'istituzione della scena rock mondiale e l’impressione che s’ottiene ascoltando il quarto album è quella di musicisti alla ricerca di risultati definitivi sul piano artistico. La cosa riesce solo in parte, di certo nella fantastica Stairway to heaven che si evolve all’interno di un’incantata sospensione generata dai delicati arpeggi dell’acustica di Page e dal canto confidenziale di Plant. La tensione sale con l’ingresso della batteria e, al culmine, le chitarre (come squilli di fanfara che annunciano l’imminente battaglia) si lanciano in un memorabile assolo, a conclusione di un capolavoro assoluto del concetto di ballata hard. Altro vertice del disco è il Black dog d’apertura, dove l’introduzione vocale e il riff convulso e complicato della chitarra devono non poco alla Oh well di Peter Green (come ha modo di affermare lo stesso Page). Notevole appare la suggestiva versione di When the levee breaks, un vecchio blues di Memphis Minnie ristrutturato secondo i progetti dell’architetto Page che crea appassionanti intrecci utilizzando la tecnica bottleneck, ben coadiuvato dal recupero dell’eredità blues, garantito dall’armonica di Plant, e dallo stile percussivo devastante di Bonham. Il resto dell’album non risulta altrettanto convincente. Piace Rock and roll, esplicita sin dal titolo, ideale apripista per le esibizioni dal vivo, e si salva l’ossessionante Four sticks, sorretta da un’incessante reiterazione armonica. In The battle of evermore compare la voce di Sandy Denny che dialoga con Plant, ma l’impianto folk del brano non persuade del tutto e anche altri episodi rimangono in un limbo di aurea mediocrità. Il successo appare inarrestabile (a tutt’oggi IV è uno dei dischi più venduti della storia del rock), rinnovato e suggellato grazie all’efficacia dell’attività concertistica del gruppo ; il quinto LP Houses of the holy (Atlantic-marzo ’73) non fa eccezione, anche se qualcosa nei meccanismi sonori dei Led Zeppelin non funziona come ai bei tempi. Il materiale, almeno in parte, è piuttosto buono : la ritmata The song remains the same, le soffuse atmosfere di The rain song e della notevole No quarter, la bella Over the hills and far away, il discreto hard di The ocean, ma in generale le interpretazioni non brillano, mostrando qualche segno di stanchezza. Il gruppo decide di allentare la presa, dal luglio ’73 al gennaio ’75 evita di esibirsi dal vivo e nel 1974 si dedica alla preparazione del materiale da utilizzare per il nuovo 33 giri. Previsto sulla doppia distanza e pubblicato all’inizio del ’75 per la personale neonata etichetta Swan Song, Physical graffiti introduce alcune novità nella musica e rilancia l’entusiasmo strumentale dei Led Zeppelin. Tra l’aggressività di Custard pie e la contagiosa nostalgia di Ten years gone si snodano le lunghe e complesse In my time of dying, che raggiunge un’enfasi ritmica devastante, Kashmir, con convincenti orchestrazioni di sapore orientale, In the light, che passa senza problemi da tonalità leggere ed ariose ad implacabili cadenze metronomiche. E’ l’ultimo grande impegno discografico dei Led Zeppelin che nel ’76 tentano di ripetersi con Presence (Swan Song-1976) il quale, sia pur distante dall’elevata media qualitativa del disco precedente, contiene l’appassionante cavalcata chitarristica di Achilles last stand e qualche altra canzone degna d’approvazione (For your life, Nobody’s fault but mine). Nello stesso anno il gruppo dà alle stampe il doppio dal vivo The song remains the same (Swan Song - parziale colonna sonora di un film concerto, tra i più famosi del genere), registrato in occasione di una serie di spettacoli tenuti nel luglio 1973 al Madison Square Garden di New York. Purtroppo i Led Zeppelin non sono colti in alcune delle migliori esibizioni della loro lunga storia ‘on stage’ e, a parte una splendida versione di No quarter, il materiale proposto non rappresenta in modo esaustivo le grandi potenzialità live del gruppo. Ancora oggi si attende una pubblicazione ufficiale che faccia giustizia in tal senso. Gli ultimi giorni dei Led Zeppelin sono anche i più controversi : l’album del ’79 In through the out door (Swan Song) risulta in buona parte deludente e la morte di John Bonham, nel settembre del 1980, chiude per sempre l’avventura esaltante ed imprescindibile della formazione di Jimmy Page. La carriera dei Deep Purple attraversa varie fasi storiche, contraddistinte dalla presenza di diversi organici, che riflettono almeno due momenti fondamentali e ben distinti della loro produzione discografica. Nella parte iniziale della carriera, tra il ’68 e il ’69 con la formazione originaria, il gruppo produce tre discreti album dal contenuto estremamente eterogeneo, in bilico tra hard rock, soluzioni progressive e tardo psichedeliche, versioni di brani famosi, senza riuscire a definire con precisione il proprio stile. In una seconda fase, che decorre dal 1970 e comunemente viene contrassegnata dalla sigla ‘Mark II’, i Deep Purple raggiungono l’apice della notorietà realizzando i lavori classici del repertorio e stabilendo con estrema chiarezza uno stile immediatamente riconoscibile. I successivi cambiamenti d’organico, dal 1973 in avanti, modificano esclusivamente le sfumature, i particolari di un suono già abbondantemente definito e pesantemente sfruttato sul piano commerciale. Dal 1964 al 1967 Jon Lord è organista negli Artwoods, un complesso rhythm & blues fondato dal cantante Art Wood (fratello del noto Ron) che comprende pure il batterista Keef Hartley. Dopo aver registrato alcuni singoli e un album nel 1966, Hartley preferisce continuare con John Mayall e gli Artwoods si trasformano, senza fortuna, in St. Valentine’s Day Massacre. In seguito ad una brevissima parentesi con i Santa Barbara Machine Head (assieme a Ron Wood, Kim Gardner e Twink - tre soli brani all’attivo) Lord si ritrova nei Flowerpot Men, dove conosce il bassista Nick Simper con il quale poi forma i Roundabout. In organico è presente anche il chitarrista Ritchie Blackmore, reduce da una breve esperienza con i Trip (si, proprio la formazione anglo - italiana di Joe Vescovi). Dalla fusione tra musicisti dei Roundabout (Lord, Blackmore, Simper) e dei Maze (gruppo nel quale militano il batterista Ian Paice e il cantante Rod Evans) nascono nel marzo 1968 i Deep Purple. Il complesso esordisce con un singolo che presenta una bella versione hard soul di Hush, un brano di Joe South, che in estate ottiene un insperato successo negli Stati Uniti. I Purple colgono l’occasione al volo e si recano in tour negli USA, di supporto ai Cream. L’ottimo risultato di Hush rimane però isolato e i tre album pubblicati tra il ’68 e il ’69 non riescono ad andare oltre un tiepido interesse da parte del pubblico inglese. Del resto i Deep Purple faticano oltremodo nell’elaborare trame sonore originali di un certo valore e si affidano in larga misura alla proposta di cover di brani celebri. Sul primo LP Shades of Deep Purple (Parlophone-1968), oltre a Hush, sono comprese le discrete I’m so glad (Skip James), già provata dai Cream sul loro album d’esordio, Help (Beatles), in una versione rallentata percorsa da fremiti hard e vaghe sfumature soul, Hey Joe (portata al successo in Inghilterra da Hendrix), caratterizzata da un ritmo di Bolero e climi spagnoleggianti. Nella musica dei primi Deep Purple si nota un’evidente preminenza delle tastiere di Lord sugli altri strumenti, ribadita anche su The book of Taliesyn (1969), con il quale la EMI gira il gruppo alla nuova etichetta progressiva Harvest. Tra i brani originali appare discreta la strumentale Wring that neck, mentre Anthem accampa troppe pretese in una volta sola. We can work it out dei Beatles è davvero poco ispirata ; le cose vanno meglio con l’elaborata versione di River deep, mountain high, che comunque fatica a reggere il confronto con l’originale di Ike & Tina Turner e con l’ottima cover dei New Animals. La direzione musicale del terzo album Deep Purple (Harvest-1969) resta saldamente nelle mani di Jon Lord e il disco registra un maggior impegno compositivo da parte del gruppo, dal momento che l’unica rilettura inserita è una sognante versione di Lalena di Donovan. I brani migliori sono il dinamico Chasing shadows, per percussioni ed organo, Blind (una composizione di Lord che adotta soluzioni barocche con tanto di clavicembalo, dotata di una buona struttura lirica) e The painter, registrato in diretta, che concede più spazio a Blackmore cercando la via dell’immediatezza, in anticipo sui modi a venire. Per un attimo ci si dimentica dei progetti ambiziosi di Lord, ma solo fino alla suite in tre parti di April, dove il tastierista sfoga la sua visione ‘classica’ del rock con l’ausilio di una piccola formazione da camera comprendente flauti, oboe, clarinetti ed archi. Nel luglio del 1969 Rod Evans e Nick Simper lasciano il gruppo ; il cantante entra nei Captain Beyond, senza fortuna, e poco meglio riesce a fare Simper con i discreti Warhorse e poi con gli oscuri Fandango. La celebre Mark II dei Deep Purple prende consistenza subito dopo, con l’ingresso in organico di due ex componenti degli Episode Six, una formazione di scarso successo (un briciolo di notorietà solo in Libano !) ; i nomi sono quelli del cantante Ian Gillan e del bassista Roger Glover. In apparenza nulla cambia nelle strategie del gruppo, dal momento che i Deep Purple s’impegnano nella realizzazione di un ambizioso concerto rock per gruppo ed orchestra sinfonica, composto nell’arco di tre mesi dal solito Lord e messo in pratica il 24 di settembre con uno spettacolo tenuto alla Royal Albert Hall, alla presenza della Royal Philarmonic Orchestra (Concerto for group & orchestra, Harvest-1970). DEEP PURPLE - IN ROCK (Harvest - 1970) I primi sintomi di un radicale cambiamento di stile sono annunciati dal singolo di Black night, che nel giugno del ’70 riesce finalmente a conquistare le classifiche inglesi. Il nuovo 33 giri In rock sancisce definitivamente le intenzioni. Il caos, la frenesia esplosiva, le brusche accelerazioni del rhythm & blues al tritolo di Speed King in pochi minuti spazzano via i residui e le incertezze del passato. Lo spazio per la chitarra di Blackmore è notevolmente aumentato, Lord si limita a rifiniture ritmiche e a sprazzi solistici più controllati, in sintonia con l’hard rock del gruppo. La ritmica è potenziata dal plastico basso di Glover e Gillan mostra una forza ed un’esuberanza vocale sconosciute a Evans. Gli ultimi spasmi di Speed King lasciano strada al devastante riff della chitarra in Bloodsucker ; è musica creativa, originale, trascinante, in apparenza libera d’osare. Non possiede la varietà dei toni, le sfumature, la poliedricità che rendono inarrivabile l’hard dei Led Zeppelin, ma funziona. Child in time presenta un’introduzione dal sapore orientale copiata da, o quantomeno identica a, Bombay calling (dal primo album dei californiani It’s a Beautiful Day). Non importa, il brano si evolve autonomamente con buona lucidità d’intenti e diventa un classico del repertorio dei Purple. Into the fire ha un bell’incedere ritmico e un riff accattivante, Flight of the rat è durissima, compatta, così come le meno brillanti Living wreck, che a tratti furbeggia alla Grand Funk, e Hard lovin’ man, dove s’avverte puzza di bruciato, dopo soli quaranta minuti scarsi il sapore di cose già ascoltate. Il disco vende più di un milione di copie e forse il problema sta tutto qui. Il nuovo Fireball (Harvest-1971) manca di un vero pezzo guida e ricalca la matrice di In rock, senza possederne l’esuberanza e l’impatto travolgente. Discrete, ma con riserva, la title track e The mule, e non mancano alcune pesanti cadute di tono, le modeste Demon’s eye e Anyone’s daughter che davvero non si capisce dove vogliano andare a parare. Che poi l’album finisca al primo posto della classifica sorprende relativamente poco (così va il mondo) ; il successivo Machine head (Purple-1972) rende ancora meglio ad un gruppo che, ormai ricco e famoso ovunque, si può permettere la fondazione di un’etichetta discografica privata, la Purple. Anche Machine head non sposta di una virgola lo stile dei Deep Purple, ma contiene almeno due classici del repertorio quali Highway star e la celeberrima Smoke on the water, dimostrandosi nel complesso nettamente superiore all’album precedente. In ogni caso meglio rivolgersi a Made in Japan, doppio album registrato dal vivo in Giappone nell’agosto del ’72, che risulta essere una buona antologia live con graffianti interpretazioni di brani famosi e qualche lungaggine di troppo (Space truckin’ e il non indispensabile solo di batteria su The mule). Alla Mark II resta la forza di registrare un ultimo, stanco, Who do we think we are ! (Purple1973), e, dopo un concerto giapponese a Osaka, nel giugno ’73 Gillan e Glover si defilano per lavorare a progetti solistici. Un nuovo cantante, David Coverdale, e l’ex bassista dei Trapeze, Glen Hughes, permettono ai Deep Purple di realizzare i due album del 1974, Burn e Stormbringer, prima dell’abbandono di Ritchie Blackmore (aprile ’75) che allestisce la formazione dei Rainbow. Al suo posto arriva l’americano Tommy Bolin, già con Zephyr e James Gang, per l’ultimo LP Come taste the band (1975). I Deep Purple si sciolgono nel luglio del 1976 ma non si tratta di una mossa definitiva, visto che negli anni Ottanta la Mark II si riunisce per l’incisione di alcuni vendutissimi album. E’ fumo sull’acqua...o meglio negli occhi. Gruppo tra i più controversi, agli inizi osteggiato e a volte ridicolizzato dalla critica musicale, in tempi recenti riscoperto ed elevato al rango di influenza essenziale da parte di numerosi complessi grunge e heavy metal, i Black Sabbath vanno considerati tra gli iniziatori e i massimi esponenti di una corrente dark sviluppatasi nel rock degli anni Settanta. A differenza di Led Zeppelin e Deep Purple, formazioni composte da strumentisti di notevole livello tecnico, i Black Sabbath puntano tutto nella cocciuta ricerca di una musica dal timbro originale, compromessa con aspetti legati all’occulto e a sentimenti attratti dal polo negativo, evitando di lanciarsi in improbabili virtuosismi individuali. Quanto di sinceramente arcano si cela nella musica dei Black Sabbath e quanto è dovuto alla necessità di stupire, di pubblicizzare il prodotto, può benissimo essere oggetto di studi filosofici da parte dei soliti benpensanti (con le loro prove schiaccianti !), purché non si voglia cogliere a tutti i costi l’occasione, con una scusa o un’inquisizione, per cancellare con un colpo di spugna ciò che procura fastidio e va contro il tetro (quello si !) concetto di normalità quotidiana. I Black Sabbath nascono a Birmingham verso la fine del 1969, dalle ceneri degli Earth. Il chitarrista Tony Iommi e il batterista Bill Ward provengono da un gruppo chiamato Mythology, mentre il cantante Ozzy Osbourne e il bassista Geezer Butler iniziano con i Rare Breed. Osbourne, prima d’entrare negli Earth, suona anche con i Magic Lanterns che nel ’69 pubblicano un album, ottenendo un attimo di notorietà con il brano Shame shame. Tutto rischia di andare in fumo quando Iommi viene convocato da Ian Anderson per sostituire Mick Abrahams nei Jethro Tull, ma dopo pochi giorni di prove l’incompatibilità tra i due musicisti si rivela incolmabile e il chitarrista torna sui suoi passi per dedicarsi ai Black Sabbath. BLACK SABBATH - BLACK SABBATH (Vertigo - 1970) Un temporale, rintocchi di campana a morto, un tuono libera un’agghiacciante cascata di dure vibrazioni metalliche partorite dalla chitarra di Iommi. La voce di Osbourne è asfissiante, spettrale ; il suono avvolgente, plumbeo, gravido d’inquietudine non concede distrazioni. Black Sabbath è il manifesto programmatico del gruppo e si capisce perché, prima di venire accettati dalla Vertigo, Iommi e compagni sono costretti a sopportare ben quattordici rifiuti da parte di altrettante etichette discografiche. The wizard rompe il grave peso e s'inerpica su possenti strutture di derivazione blues, mentre Behind the wall of sleep è costruita su impietosi riff carichi di oscuri presagi e convince per la capacità di mutare ritmi e modalità. Evil woman si accomoda su argomentazioni vicine ai territori del rock’n’roll, subito zittita dalle atmosfere da film dell’orrore di Sleeping village, con la chitarra che si contorce, s’allunga e si contrae sugli spasmi del ritmo. In N.I.B. e in Warning (un pezzo di Aynsley Dunbar) Osbourne si produce in performance efficaci ed originali e la chitarra di Iommi esprime tonalità cupe, appare veloce, precisa ; la sezione ritmica è a suo modo virtuosa, con Butler a disegnare linee pesanti ma sufficientemente elastiche e Ward che si dimostra capace di raffinatezze, in grado di donare alla struttura granitica delle canzoni sfumature poco appariscenti ma indispensabili. Registrato in due giorni, nel febbraio 1970, senza produzioni faraoniche e in completa autonomia creativa, Black Sabbath desta al tempo numerose e pretestuose polemiche riguardo a presunte accelerazioni dei nastri con le parti di chitarra, e sono in molti a deridere il complesso a causa delle prime caotiche esibizioni dal vivo, ma il disco lascia un segno indelebile generando discreto interesse tra il pubblico. Il fortunato 45 giri di Paranoid (un rock’n’roll scuro e compresso, destituito di ogni apparenza di divertimento) proietta i Black Sabbath ai vertici delle classifiche di vendita, trascinando al successo anche il secondo album. Nel settembre del ’70, Paranoid riassume, sintetizzandoli e rendendoli canonici, i caratteri del loro stile, fissando i confini della musica del gruppo. Si nota, in generale, qualche forzatura di troppo, nel tentativo d’ottenere una consistenza sonora drammatica e negativa (Iron man, Electric funeral) ; ciò che sul primo LP pare sgorgare da una reale esigenza espressiva, nel nuovo lavoro è opera dell’insistenza, della voglia di stupire e consolidare sul mercato il proprio marchio di fabbrica. In ogni caso, non mancano brani importanti come War pigs, dalla scorza hendrixiana, Hand of doom, con una spigliata parte centrale, Fairies wear boots, costruito su un’insinuante linea chitarristica. Nel luglio 1971 Master of reality (Vertigo), pur introducendo alcuni frammenti acustici, non riesce a rinnovare il suono e si crogiola nella routine di lusso della granitica Sweet leaf e delle grintose After forever, Children of the grave, Into the void. Sembra l’inizio di una precoce decadenza creativa ma il Vol. IV del settembre ’72 rialza la testa, per un attimo, quanto basta a produrre una manciata di piccoli classici dell’hard inglese quali la lunga ed articolata Wheels of confusion, le concise e aggressive Tomorrow dream, Supernaut, Cornucopia e, in particolare, Snowblind, che si posiziona ai vertici del loro personale rock duro sfoderando una cadenza micidiale. E’ l’ultimo sussulto. Da Sabbath bloody Sabbath (Vertigo-1973) in avanti la storia è ancora lunga, ma certamente meno interessante. I Gods sono una buona ma poco considerata formazione, che opera nel panorama della seconda metà degli anni Sessanta, nota soprattutto per aver ospitato nelle sue fila alcuni musicisti destinati agli onori delle cronache nel decennio seguente. Il primo nucleo, nel 1965, comprende Ken Hensley (ts.ch.v.), Mick Taylor (ch.), John Glascock (bs.) e Brian Glascock (bt.) ; nel giugno del ’67 Taylor entra nei Bluesbreakers di John Mayall e più avanti succede a Brian Jones nei Rolling Stones. Hensley coglie l’occasione per ristrutturare il complesso con il chitarrista John Konas, il bassista Paul Newton e il batterista Lee Kerslake. Anche questa edizione del gruppo dura poco perché Newton preferisce andare con gli Spice (nucleo che anticipa la nascita degli Uriah Heep), sostituito da tale Greg Lake che, a sua volta, resta fino all’estate del ’68 per poi raggiungere i neonati King Crimson (inizio ’69). Il controverso ruolo di bassista viene nuovamente e definitivamente ricoperto da John Glascock e il quartetto ha modo d’incidere e pubblicare due discreti LP, Genesis nel 1968 e To Samuel a son nel 1969 (entrambi per la Columbia), oltre ad alcuni singoli. I Gods sono autori di un rock brioso, senza troppe pretese ma neanche insulso. La loro musica costituirà un’influenza primaria per gli Uriah Heep, in particolare per l’uso delle tastiere, per l’impostazione delle parti vocali e di certi arrangiamenti. Merita un ascolto almeno Genesis, un lavoro omogeneo nel quale risaltano le buone Toward the skies, Farthing man (vagamente psichedelica) e I never know che presenta assonanze con gli oramai prossimi Uriah Heep. I Gods sopravvivono fino alla metà del ’69, quando in giugno Hensley, Konas (passato al basso) e Kerslake confluiscono nei Toe Fat, il nuovo gruppo ad ambientazione hard del cantante Cliff Bennett, titolare negli anni precedenti della formazione R & B dei Rebel Rousers. I Toe Fat non perdono tempo e subito registrano il primo album omonimo, edito all’inizio del ’70 dall’etichetta Parlophone. Il suono del gruppo è diretto, privo di complicazioni, elettrico ma non esasperato anche nei brani tipicamente hard come But I’m wrong e Just like me. La voce di Bennett appare potente e grintosa, così come il rock’n’roll di That’s my love for you ; Bad side of the moon è una scaltra, energica e piacevole versione di una ballata di Elton John, pubblicata anche come retro del 45 giri Working nights, un pezzo alla Bo Diddley. Subito dopo la registrazione del long playing Hensley concorre alla fondazione degli Uriah Heep, mentre Kerslake va a suonare con la National Head Band, prima d’entrare anch’egli nel noto gruppo hard (verso la fine del ’71). Bennett si vede costretto a rinnovare completamente l’organico dei Toe Fat e curiosamente chiama la vecchia sezione ritmica dei Gods (John e Brian Glascock), oltre al chitarrista Alan Kendall. Esce Toe Fat two (Regal Zonophone-1970) che si apre con la spettacolare Stick heat e poi si perde per strada : un lavoro senza infamia, ma incapace d’oltrepassare la soglia di un hard rock privo di novità. E’ l’ultimo fuoco del gruppo che poco dopo si scioglie. Bennett si dedica a nuovi progetti (Rebellion, Shangai), Brian Glascock e Alan Kendall suonano con i Bee Gees, John Glascock nel ’72 incide con i Chicken Shack, quindi entra nei Carmen e dal dicembre ’75 è bassista nei Jethro Tull, fino alla morte nel 1979 in seguito ad un’operazione al cuore. Verso la fine del 1969 Mick Box (ch.), David Byron (v.), Paul Newton (bs.) e Alex Napier (bt.), membri degli Spice, si uniscono al tastierista / chitarrista Ken Hensley (ex Gods e Toe Fat) dando vita agli Uriah Heep. Durante le sessioni di registrazione del primo album, Napier lascia il gruppo e viene temporaneamente sostituito dal batterista di Elton John, Nigel Olsson. ...very ‘eavy...very ‘umble (Vertigo-1970) non piace alla critica musicale del tempo, ma ugualmente riesce a creare interesse grazie ad un hard rock di certo meno personale rispetto a quello di altre formazioni contemporanee. L’iniziale Gypsy illustra perfettamente la musica del complesso, tutta raccolta attorno alla pesante chitarra di Box, all’organo di Hensley e al caratteristico timbro vocale vibrato di Byron. Come away Melinda propone soluzioni acustiche di discreta fattura, pur rimanendo inferiore alla precedente versione del brano rilasciata dagli sconosciuti Velvett Fogg. I toni dominanti sono però quelli sfrontati e spietati del rock duro di Dreammare, di I’ll keep on trying e il risultato finale non appare eclatante. Incuranti delle critiche gli Uriah Heep proseguono per la loro strada reclutando il batterista Keith Baker, in precedenza negli ottimi Bakerloo, con il quale nell’autunno del ’70 sono effettuate le registrazioni del secondo LP Salisbury (Vertigo-1971). A dir il vero il bravo Baker è praticamente irriconoscibile, relegato ad un poco appariscente accompagnamento ritmico, ingoiato e stritolato dai tratti forzati che pervadono il disco. La tuonante Bird of prey pare dover demolire il mondo, ma alla fine suona un poco ridicola, non si sa bene se con una punta d’ironia o se tragicamente seria. La prestazione vocale di Byron, come in altri casi, è a suo modo notevole, grazie ad un acuto ed inconsueto falsetto al limite del paradosso. Di grosse novità non ce ne sono, se si eccettua una maggiore attenzione alla cura dei particolari e alla produzione : l’accettabile Time to live è un trattato sui luoghi comuni dell’hard rock e la suite di Salisbury contribuisce esclusivamente a generare ulteriore confusione nello stile del gruppo. I dischi si succedono copiosi e ottengono successo soprattutto negli Stati Uniti e in continente ; nel terzo Look at yourself (Bronze-1971) compare ancora una volta un batterista diverso (Iain Clark dei Cressida), e dal successivo Demons & wizards (Bronze-1972) gli Uriah Heep possono finalmente disporre di una sezione ritmica definitiva, con il nuovo bassista Gary Thain (ex Keef Hartley Band) e il batterista Lee Kerslake, compagno di Hensley in Gods e Toe Fat. Live, doppio LP registrato nel gennaio 1973, è una delle migliori prove degli Uriah Heep, contenendo buone interpretazioni dal vivo di brani hard con sfumature melodiche quali Sunrise, Sweet Lorraine, Traveller in time. La carriera del gruppo prosegue senza soste, con risultati qualitativi di scarso rilievo, non riuscendo mai ad elevarsi oltre il limite di un modesto rock duro privo di qualsiasi connotato innovativo. Conclusa l’esperienza con gli Small Faces, Steve Marriott si dedica al nuovo progetto degli Humble Pie, formazione con la quale il chitarrista conta d’esprimere una musica in bilico tra un torrido hard rock e marcate esigenze melodiche. Il gruppo nasce nell’aprile del 1969 e presenta alla seconda chitarra il giovanissimo emergente Peter Frampton (proveniente dagli Herd), al basso l’ex Spooky Tooth Greg Ridley e il batterista Jerry Shirley. Sulla carta l’organico è piuttosto interessante e l’esordio con il 45 di Natural born woman conforta le aspettative, raggiungendo i primi posti della classifica. Il meglio viene espresso nei due album pubblicati nel 1969 per l’etichetta Immediate, As safe as yesterday is e Town and country, dove gli Humble Pie si dedicano ad un suono passionale, caldo, dai toni ruvidi, che non disdegna divagazioni acustiche di stampo country rock, con armonie vocali degne di nota. Desperation, ottima cover di un brano presente sul primo LP degli Steppenwolf, si orienta sul lato hard, mitigata da belle figure melodiche di chitarra solista ; sullo stesso versante si collocano A nifty little number like you, giocata sull’insinuante intreccio delle chitarre, e Silver tongue, dominata dalla solista di Marriott, che ricorda da vicino lo stile degli ultimi Small Faces come del resto la più elaborata ed ottima As safe as yesterday is, accattivante punto d’incontro elettroacustico. Every mother’s son è una ballata acustica in vago stile Stones, Home and away è leggera ed orecchiabile, ma pure curata e dignitosa. I due dischi vendono meno del previsto e il fallimento della Immediate crea non pochi problemi agli Humble Pie ; il passaggio alla A&M segna l’inizio di un buon successo, ottenuto con i vari Humble Pie (1970), Rock on (1971), Performance : rockin’ the Fillmore (1971-doppio dal vivo), ma sul finire del 1971 Frampton lascia il gruppo per intraprendere una fortunata (sul piano economico) carriera solistica. Al suo posto arriva l’ottimo Dave Clempson (Bakerloo, Colosseum), ma gli Humble Pie non hanno più granché da dire anche se mantengono un discreto successo negli USA fino allo scioglimento, all’inizio del 1975. Purtroppo Marriott entra a far parte della cospicua schiera di coloro che non sono più con noi, nel 1991, quando resta coinvolto nell’incendio della propria abitazione. Steve Upton e Martin Turner sono la sezione ritmica dei Tanglewood, un oscuro complesso attivo verso la fine degli anni Sessanta nel quale suona anche Glen Turner (chitarrista, fratello di Martin). Quando Glen abbandona la formazione Steve e Martin decidono di pubblicare un’inserzione sul Melody Maker per reperire un nuovo chitarrista e finiscono per trovarne due : con l’aggiunta di Andy Powell e di Ted Turner, nel 1969 nascono i Wishbone Ash. Il gruppo inizia ad elaborare uno stile personale tenendo numerosi concerti dal vivo e nel dicembre ’70 realizza un primo omonimo LP (Mca) che tradisce subito il particolare approccio del quartetto, sicuramente atipico rispetto ai normali canoni dell’hard inglese. Nel disco brilla Phoenix, una canzone che nelle esibizioni live si espande tranquillamente verso i venti muniti di durata, capace di elencare con precisione le principali caratteristiche della musica dei Wishbone Ash. Le chitarre di Powell e Turner dominano il suono, a tratti eteree, legate tra loro in rarefatte ambientazioni di stampo westcoastiano, spesso indurite e pressanti, pronte ad alternarsi ed incrociarsi in lunghe parti solistiche. Il successivo Pilgrimage, registrato nel maggio ’71, è un deciso passo in avanti ; The pilgrim muove da quiete atmosfere per gettarsi in un vortice strumentale di sicuro effetto, adottando soluzioni originali ed interessanti, Jail bait va diritta al nocciolo sfruttando al meglio il ritmo immediato del boogie. Non mancano eccellenti frammenti strumentali a forte componente romantica come Lullabye e Alone, concetto ampiamente ribadito nella passionale Valediction. La conclusiva Where were you tomorrow, registrata a Leicester nel giugno del ’71, consente un assaggio del clima torrido dei loro concerti. WISHBONE ASH - ARGUS (Mca - 1972) I primi dischi dei Wishbone Ash incontrano un discreto interesse, vendono bene senza raggiungere i vertici delle classifiche. Il terzo LP Argus porta il gruppo al massimo risultato di vendita grazie ad un’impostazione musicale ancor più melodica e, se vogliamo, commerciale. Laddove Pilgrimage enumerava gli elementi del loro particolare hard rock, mostrando abbastanza frequentemente i muscoli e le chitarre incandescenti, Argus sviluppa su territori d’apparente mollezza che vantano, invece, il pregio di evidenziare meglio l’originalità e la diversità dalle mode correnti del rock duro, sin dall’essenza stessa della musica proposta. Le chitarre di Powell e Turner si dividono equamente le parti solistiche, spesso anche all’interno della stessa canzone, e il gruppo riesce a mascherare bene l’assenza di un cantante potente e carismatico tramite l’utilizzo quasi sistematico di armonie vocali corali di buona fattura. Il delicato inizio acustico di Time is cede il posto ad un rock spigliato che evita di cadere nel manierismo. Sometime world e Leaf and stream sono ballate melodiche dal caratteristico timbro nostalgico, tutt’altro che banali. Blowin’ free procede sul ritmo sostenuto dalla chitarra solista di Powell, aprendo squarci corali e melodici di chiara matrice californiana ; The king will come s’avvale di una struttura grintosa, varia e ben controllata. Warrior è l’unico pezzo veramente hard del disco, almeno nelle intenzioni introduttive dove le chitarre si sovrappongono per offrire vigore al suono, ma non rinuncia ad una lunga parte centrale rarefatta e meditativa per poi riannodare le sei corde in un finale dai toni epici. Infine Throw down the sword preferisce toni pacati, da lussuosa ballata, dettata come sempre dalle chitarre e arricchita dall’organo di John Tout. Benché si tratti di un brano orecchiabile e commerciale i Wishbone Ash tengono a galla il suono grazie ad una sufficiente asciuttezza formale e al solismo intrigante di Powell. E’ un momento di notevole notorietà per i Wishbone Ash che all’inizio del 1973 sono nuovamente in studio di registrazione per la realizzazione di Wishbone four (Mca-1973) ; l’iniziale So many things to say pare dare maggior forza al suono, ma la seguente (non esaltante) Ballad of the beacon torna alla canzone d’atmosfera mostrando qualche ruga in più del solito. In generale il lavoro soffre di una certa ripetitività di temi, di una minore freschezza espositiva, pur alla presenza del rock’n’roll privo di fronzoli di Doctor e della pregevole Rock’n’roll widow che contribuiscono ad elevare il livello medio dell’album. Nello stesso anno i Wishbone Ash offrono un saggio del notevole impatto dal vivo con la pubblicazione del doppio Live dates, bellissima escursione all’interno del classico repertorio del gruppo. La passione, l’onestà, la semplice ma creativa dizione del loro rock assumono nella dimensione live una coerenza ammirevole. Ted Turner si chiama fuori, nel giugno del 1974 ; con la sua dipartita termina la stagione migliore e fortunata ma non la storia dei Wishbone Ash. I numerosi dischi pubblicati in seguito, con il nuovo chitarrista John Wisefield (ex Home e accompagnatore di Al Stewart), non raggiungono i livelli qualitativi e commerciali dei primi lavori ; in ogni caso rimane un gruppo fatto di personaggi sinceri, capace di entusiasmare nei concerti per tutta la durata della carriera. - 19 - Non è tutto oro (nel senso di milioni di dischi venduti) ciò che riluce di riflessi hard. Tra i gruppi dediti in modo creativo ad una proposta musicale dura ed intransigente s’eleva il nome dei mitizzati Clear Blue Sky, una formazione triangolare che si forma all’inizio del 1970 dall’unione di tre giovanissimi musicisti, praticamente alle prime armi. CLEAR BLUE SKY - CLEAR BLUE SKY (Vertigo - 1970) I tre sconosciuti diciottenni ottengono la fiducia della Vertigo che consente la realizzazione di un trentatré giri, mettendo a disposizione anche la firma prestigiosa di Roger Dean per quanto riguarda il disegno di copertina. Ne scaturisce un lavoro d’indubbio interesse per l’originale forma dell’hard rock proposto, che però non trova il necessario riscontro da parte del pubblico. La prima facciata del disco è occupata da Journey to the inside of the sun, una specie di opera a tema che si risolve in tre brani ben distinti. Sweet leaf apre con una lunga jam informale, costruita su un ritmo sostenuto ed insistente che offre la possibilità alla chitarra di Simms di lanciarsi in libere improvvisazioni, grintosa e veloce, frenata ripetutamente da sospensioni di vaga ispirazione psichedelica. The rocket ride ha un approccio secco, micidiale e propone un’originale struttura ritmica. Il brano mostra il lato migliore della musica dei Clear Blue Sky, un hard rock tirato allo spasimo con gli strumenti al massimo della tensione, stacchi improvvisi, assoli lancinanti di chitarra, disorientanti aperture melodiche. Il terzo brano I’m comin’ home appare più ortodosso, valido ma di minore interesse. Sull’altra parte del disco You mystify è una nuova possente esplosione di ritmi e soluzioni in continua mutazione, Tool of my trade porta il sapore della ballata elettrica con intrusioni ritmiche alla Black Sabbath, la bella My heaven concede un importante spazio alla chitarra acustica senza rinunciare alle consuete accelerazioni del suono, la compatta Birdcatcher non dà tregua sino allo strano e poco convincente finale. Alcune inevitabili ingenuità dovute all’inesperienza e parti vocali un poco deboli non pregiudicano eccessivamente il risultato complessivo, ma il disco non vende e, nonostante un secondo album sia già praticamente pronto, la Vertigo scarica frettolosamente il gruppo. Un solo disco è davvero troppo poco per una formazione che dimostra di possedere ottime idee e la giusta predisposizione alla materia. Sicuramente fa piacere ritrovare la sigla Clear Blue Sky nel 1990 per un nuovo disco (Destiny, Saturn-1990) e in occasione di una nostalgica esibizione sotterranea a Wight, assieme ad altre vecchie ‘glorie’ del sottobosco inglese (Trees, Janus...), anche se il solo rimasto della formazione originale è il chitarrista John Simms. A differenza dei Clear Blue Sky, l’organico dei Leaf Hound è composto da musicisti di buona esperienza, dotati di capacità tecniche non trascurabili ; anche se l’unico album inciso si dimostra di elevato livello qualitativo e può essere considerato un piccolo classico dell’hard dei primi anni Settanta, i Leaf Hound rimangono relegati nel più assoluto anonimato, dimenticati pure quando, in anni recenti, la moda del recupero nostalgico dello stile progressivo provvede a restituire dignità a tanti musicisti persi nella memoria storica del rock inglese. LEAF HOUND - GROWERS OF MUSHROOM (Decca - 1971) I cugini Peter French e Mick Halls suonano in improbabili gruppetti che rispondono ai nomi di Switch, Erotic Eel, Joe Poe, prima di arrivare all’esperienza in sala d’incisione con la Brunning Sunflower Blues Band, il gruppo del bassista originale dei Fleetwood Mac. Subito dopo i due entrano a far parte dell’ultimo organico dei Black Cat Bones, in sostituzione di Rod Price partito in cerca di gloria con i Foghat. Qui trovano i fratelli Derek e Stuart Brooks, reduci di quell’onesto complesso di power blues, e con il nuovo batterista Keith Young il gruppo cambia sigla in Leaf Hound. French e Halls si propongono come nucleo creativo e propulsivo della formazione, puntando su un suono pesante, inesorabile ma non privo di freschezza. La Decca mette sotto contratto i Leaf Hound, anche se la complicata gestazione del loro unico album Growers of mushroom dimostra quanto poca fosse la fiducia riposta dalla casa discografica nelle capacità del gruppo. Il disco viene inizialmente pubblicato in Germania per la Telefunken, oltretutto privo di due brani, e la versione inglese completa vede la luce solo nell’ottobre del ’71, quando il complesso si è già dissolto. Growers of mushroom è registrato in sole undici ore di studio e il contenuto ne risente in senso positivo per l’immediatezza del suono, e in negativo per alcune inevitabili imperfezioni dovute alla fretta con cui il disco è realizzato. Freelance fiend entra subito nel vivo, introdotta da un attacco micidiale della chitarra di Halls, ed è priva di compromessi, con gli strumenti che all’unisono si lanciano in una danza tribale di inaudita potenza. La voce di French è aspra e grintosa, la ritmica puntuale e priva di sbavature. Il gruppo sa dare dimostrazione di buone qualità anche in ambito più moderato, come dimostra la ballata di Sad road to the sea, priva di qualsiasi edulcorazione stilistica. Alcuni brani risentono in modo evidente del retaggio rock blues dei musicisti ; Drowned my life in fear (pubblicata a 45 giri, con sul retro la ballata melodica di It’s gonna get better) è basata su un classico e potente riff blues e su una notevole consistenza strumentale, Work my body naviga sulla rotta di collisione con certa musica underground, la chitarra di Halls interpreta il blues in maniera ora educata, ora ficcante e selvaggia, e il finale piace per il gusto melodico e per le procedure semplici e determinate. Stagnant pool e la supersonica Stray sono gli esempi marcatamente duri ed intransigenti del loro stile. Entrambe pilotate dai riff d'acciaio della chitarra, presentano affinità con i Led Zeppelin più impettiti mostrando comunque una buona personalità. Bella e ben costruita è With a minute to go, una ballata elettrica che trova pregi nell’apparenza semplice e trasandata del suono. La title track si ricorda d’echi tardo psichedelici e la conclusiva Sawdust Caesar appare originale sotto l’aspetto ritmico, chiudendo senza clamori eccessivi un album meritevole di ben diversa fortuna commerciale. L’unico membro del gruppo che riesce a lasciare un piccolo segno nella storiografia del rock è il cantante Peter French che, subito dopo lo scioglimento dei Leaf Hound, entra negli Atomic Rooster (autunno ’71) in tempo per registrare il terzo LP In hearing of. L’anno successivo French è con Tim Bogert e Carmine Appice (l’ex sezione ritmica degli americani Vanilla Fudge) nei Cactus, con i quali incide un album, quindi entra in lizza senza successo per il ruolo di cantante in gruppi quali la Earth Band di Manfred Mann, gli Uriah Heep e i Deep Purple. D’altro rimane da segnalare la partecipazione di Stuart Brooks, tra il ’72 e il ’74, all’organico dei Pretty Things. Nick Simper è bassista nella formazione originale dei Deep Purple, con i quali incide i primi tre album ; quando, nel luglio del ’69, decide di abbandonare il complesso, il musicista ha in mente il progetto Warhorse dove sfogare le proprie capacità creative e strumentali, sempre oscurate nei Deep Purple da personaggi del calibro di Jon Lord e Ritchie Blackmore. Il nucleo prende consistenza nel giugno del ’70 e, oltre a Simper, comprende il cantante Ashley Holt, il tastierista Frank Wilson, il chitarrista Ged Peck e il batterista Mac Poole. I Warhorse consolidano una buona reputazione come live band soprattutto in Europa, senza riuscire pienamente a sfondare dal punto di vista commerciale ; la critica poi è completamente divisa tra chi esalta il gruppo come uno dei migliori dell’hard progressivo e coloro che, senza mezzi termini, lo considerano una nullità, pallida copia dei Deep Purple. Non sempre la verità sta nel mezzo, ma forse in questo caso è proprio così dal momento che il primo album omonimo del 1970 illustra una musica di forte derivazione Purple, dotata però di sufficiente personalità e grinta. Tra i brani significativi sono da citare l’iniziale Vulture blood, con il preludio dell’organo maestoso di Wilson, le grintose ed efficaci Burning e Woman of the devil, la disinvolta cover di St. Louis (edita anche a 45 giri). Più ponderate e d’atmosfera appaiono No chance e Solitude, appesantite da un pizzico di retorica dark. La Vertigo concede un’ulteriore opportunità discografica e il gruppo, dopo aver sostituito Ged Peck con il nuovo Peter Parks, nel ’72 realizza il secondo LP Red sea. L’album non è brutto, almeno per quanto concerne la title track e alcune parti della lunga Back in time, ma mostra il limite, invalicabile, della loro musica che si rivolge su se stessa senza ulteriori possibili sbocchi, ricalcando schemi pesantemente sfruttati. Ancora un cambio in organico, con il batterista Barney James al posto di Mac Poole, e i Warhorse si sciolgono nel 1974 ; Simper prova senza successo con i Fandango, Holt in seguito collabora con Rick Wakeman. Dal mondo sommerso del più oscuro rock inglese gli Zior, un’idea nata dalle menti di Keith Bonsor (v.ch.ts.) e di Pete Brewer (bt.ts.), con John Truba (ch.v.) e Barry Skeels (bs.v.). Il gruppo gode di un breve momento di gloria quando accompagna i Cream per qualche data inglese, e proprio dal vivo esprime i contenuti di maggior interesse proponendo spettacoli selvaggi, con l’ausilio di effetti speciali, di luci stroboscopiche, con la messa in scena di rituali satanici e altre trovate da film dell’orrore, il tutto sostenuto da un rock maniacale. Gli Zior ottengono un contratto discografico dalla Nephenta, la nuova etichetta progressiva fondata da Larry Page (manager dei primi Kinks e dei Troggs), che concede un piccolo spazio anche a Dulcimer e Earth and Fire ; l’omonimo LP d’esordio (giugno ’71) è orientato ad un suono duro e legnoso, con connotati dark (I really do, Your life will burn), non particolarmente fantasioso ma neppure disprezzabile. A sprazzi affiorano elementi psichedelici e progressivi (New land) che rendono la musica del gruppo più varia e, al tempo stesso, confusa. Il fallimento della Nephenta porta con sé anche quello degli Zior che poco più avanti contribuiscono alla realizzazione di un altro illusorio lavoro, accreditato come Monument. Un doveroso riconoscimento ai Third World War, oggi dimenticati da tutti ma ancora attuali in virtù della serietà dimostrata, credibili in quanto incapaci di attribuire una bella facciata di comodo alla propria musica, fieri sostenitori di un rock da combattenti di razza, stradaiolo e a suo modo poetico. Il gruppo prende forma all’inizio del 1970, atteggiandosi a nucleo aperto ad una moltitudine di collaborazioni con alla base Terry Stamp (ch.v.), Jim Avery (bs.) e Fred Smith (bt.). Per l’omonimo album d’esordio, registrato nell’autunno del ’70, i Third World War s’avvalgono della chitarra solista di Mick Lieber e delle prestazioni al piano di Tony Ashton. Ascension day è ruvida, rauca, pura carta vetrata strofinata sulle corde vocali e della chitarra, quasi un esempio di perfetta, epica sintesi punk sei anni prima. E’ un suono povero, che si sistema lontano anni luce dai lustrini e dalle tentazioni del music business, quello che unisce la lunga M.I.5’s alive alla scarna Teddy teeth goes sailing, l’intransigente Working class man alle parti intrise di consapevolezza di Stardom road. Shepherds bush cowboy (con il piano di Ashton) coglie la sana essenza del rock’n’roll venato di R & B e Preaching violence (ancora con Ashton) anticipa durezze che saranno, debitamente levigate e ricondotte entro i termini del gioco, tipiche in certo rock della metà dei Settanta (Mott The Hoople). I Third World War hanno vita breve, giusto il tempo di registrare II (Track-1972) con il batterista Craig Collinge e di salutare la compagnia nel 1973. Seasons They Change le contaminazioni del folk inglese Le radici dell’espressione progressiva del rock inglese risiedono senza dubbio negli stili musicali importati dagli Stati Uniti da parte dei complessi del beat e del blues revival. Non sono questi, però, gli unici elementi a provocare la caratterizzazione del suono : la cultura classica europea è alla base dello sviluppo di un filone rock definito romantico / sinfonico, così come la cultura della tradizione popolare inglese, scozzese e irlandese determina la nascita di un’originale rappresentazione musicale riconducibile alla spesso abusata marca del folk rock. Senza voler entrare nel merito della storia e degli aspetti della musica popolare britannica, in questa occasione importa rivolgere l’attenzione alla contaminazione, alla fusione di matrici e stili diversi, spesso anche solo alla colorazione che il suono ricava a seguito del contatto con la materia. - 20 Sicuramente il più importante gruppo del folk rock inglese, i Fairport Convention nascono nel novembre 1967 dall’evoluzione dei Tim Turner’s Narration. La formazione è imperniata sulle chitarre di Richard Thompson e Simon Nicol, sulle voci di Ian Matthews e Judy Dyble, con il basso di Ashley Hutchings e la batteria di Martin Lamble (succeduto a Shawn Frater, presente solo sul singolo d’esordio). Il complesso, sotto la produzione di Joe Boyd, registra all’inizio del ’68 il primo album omonimo (per la Polydor) e si muove nel panorama dell’underground londinese, suonando all’UFO e al Middle Earth. Nel maggio dello stesso anno la Dyble lascia i Fairport per formare i Trader Horne, con l’ex Them Jackie McAuley : l’effimera formazione incide nell’agosto del ’69 l’unico LP Morning way (Dawn-1970), un lavoro abbastanza originale con influenze folk, per poi sciogliersi nella primavera del ’70. In sostituzione della Dyble arriva Sandy Denny (via Strawbs), destinata a divenire personaggio centrale nella scena del folk inglese. Il suo apporto compositivo e vocale si rivela importantissimo sin da What we did on our holidays (Island - gennaio ’69) ; sotto l’aspetto creativo la Denny si limita al delicato, dolce arpeggio della bellissima Fotheringay, mentre la sua stupenda voce segna in modo indelebile le canzoni di un gruppo che è ancora alla ricerca di una precisa definizione stilistica. L’album è un collage valido ma alquanto disorganico di brani di varia estrazione, con i Fairport Convention che passano disinvoltamente dalla tenue melodia della citata Fotheringay al rock blues di Mr. Lacey, da pezzi dal sapore americano d’ispirazione country folk (Meet on the ledge, le cover di I’ll keep it with mine - Dylan - e di Eastern rain - Mitchell) a tradizionali quali Nottamun town e il classico irlandese She moves through the fair, reso in un’ottima interpretazione dalla chitarra di Thompson e dalla magica voce della Denny. Contemporaneamente alla pubblicazione del disco il cantante Ian Matthews abbandona per formare i Matthews Southern Comfort, con alla base un suono decisamente orientato verso un country folk di matrice americana. I cinque componenti rimasti registrano le canzoni da inserire nel nuovo album con l’aiuto esterno del violinista Dave Swarbrick e, in piccole parti, dello stesso Matthews e di Trevor Lucas. Unhalfbricking (luglio ’69, sempre prodotto da Boyd) si conferma legato ad un suono di prospettiva USA, con ben tre versioni di brani di Bob Dylan, Si tu dois partir (riedizione in francese di If you gotta go, go now) che vale un eccellente piazzamento nella top ten dei singoli, Percy’s song e Million dollar bash. Thompson è responsabile della bella Genesis hall e del gioioso rock’n’roll di Cajun woman, la Denny regala momenti intensi con le ballate di Autopsy, dal soffuso profumo di estati californiane, e di Who knows where the time goes. Episodio centrale del disco è la lunga, emozionante cavalcata di A sailor’s life che muove da rarefatte atmosfere per acquisire un crescente peso strumentale ; l’arrangiamento di questa canzone tradizionale, con l’atteggiarsi degli strumenti ai modi della jam rock, si rivela decisivo per la definizione del tipico stile Fairport Convention, traccia base di grande importanza per tutto il movimento folk a carattere progressivo. FAIRPORT CONVENTION - LIEGE & LIEF (Island - 1969) Subito prima della pubblicazione di Unhalfbricking il batterista Martin Lamble rimane ucciso in un incidente stradale ; il gruppo reagisce alla sventura aggregando nei due mesi successivi il violinista Dave Swarbrick (già presente sul disco, ex Ian Campbell Group) e il nuovo batterista Dave Mattacks, capace di calarsi perfettamente nei non facili equilibri ritmici del complesso. I tempi sono maturi per ottenere un grande risultato e puntualmente questo si verifica quando, alla fine del 1969, viene dato alle stampe l’album Liege & lief, giustamente considerato il capolavoro del folk rock inglese. Tale definizione appare perfino riduttiva perché il lavoro è, prima di tutto, un disco profondo, sincero, umano, vero, che trascende ogni catalogazione e ancora oggi non ha smarrito la struggente poesia della quale a suo tempo fu nutrito. Essendo presenti ben cinque brani tradizionali il disco risulta, tra i primi lavori dei Fairport Convention, quello che maggiormente s’avvicina all’ispirazione popolare e pure appare come il più sperimentale e carico di novità. L’originale violino di Swarbrick e le chitarre a forti tinte rock dominano Come all ye, una canzone limpida e lineare, ben controllata dalla voce della Denny. Reynardine è magica ; l’estatico, meraviglioso canto di Sandy crea profonde suggestioni, sospeso sulle placide onde delle chitarre, del tenue violino, delle percussioni. I Fairport raggiungono vertici espressivi impensabili solo pochi mesi prima ; il dolce respiro di Reynardine si dissolve nella quadrata struttura di Matty groves che recupera e spazia i concetti di A sailor’s life, attribuendo al suono una solidità ancora superiore. L’enfasi ritmica, gli improvvisi cambi di tensione, la padronanza strumentale sempre al servizio della globalità del risultato finale fanno di Matty groves uno degli attimi di massimo splendore della musica del gruppo. The deserter s’affida ad una linea melodica nitida, supportata da atipiche soluzioni ritmiche, l’arrangiamento della bellissima Tam lin è sottolineato da chitarre insolitamente dure e dall’insistente ripetitività del tema dominante, elementi che donano alla canzone un carattere teso e drammatico. L’unico episodio che non s’avvale delle notevoli prestazioni vocali di Sandy Denny è il Medley, costituito da quattro frammenti strumentali che rappresentano una piacevole incursione nel campo della musica popolare da ballo, con Swarbrick in gran risalto. In conclusione dei lati dell’album Farewell, farewell e Crazy man Michael, due canzoni originali, melodiche e delicate, dipinte dalla voce di Sandy Denny. Nel corso delle registrazioni di Liege & lief il gruppo incide anche una versione del brano dei Byrds The ballad of easy rider, che non viene inclusa nel disco, forse per evitare d’incrinare la particolare atmosfera creatasi. Il pezzo sarà recuperato sull’album di Richard Thompson Guitar, vocal (2 LP Island-1976) che contiene altri inediti dei Fairport Convention, tra cui un brano residuale delle sessioni del successivo album Full house. Nonostante l’interesse sollevato e la qualità eccelsa della musica Liege & lief vende relativamente poco, sicuramente molto meno di quanto avrebbe meritato. Hutchings preferisce lasciare per dedicarsi al progetto Steeleye Span e subito dopo se ne va anche la Denny, che appronta i Fotheringay e si dedica alla carriera solista. A queste pesanti perdite il gruppo fa fronte ingaggiando il bassista Dave Pegg (già con Swarbrick nello Ian Campbell Group) e decidendo di non sostituire la cantante, puntando su una musica asciutta ed essenziale espressa al meglio nel disco del 1970, Full house. Certo è andata persa l’impalpabile magia sonora del capolavoro precedente, i Fairport si sfogano con le chitarre al vento, con le evoluzioni del violino e una ritmica concisa e puntuale. Molto buone sono le composizioni originali, le spigliate Walk awhile, Doctor of physick e soprattutto la lunga e sofferta ballata di Sloth, canzoni in perfetta sintonia con il materiale tradizionale che comprende gli ottimi strumentali Dirty linen e Flatback caper, le piacevoli Sir Patrick Spens e Flowers of the forest. Lo stesso organico di Full house è responsabile di un eccellente disco registrato dal vivo al Troubador di Los Angeles nel corso di un tour negli Stati Uniti, album inspiegabilmente pubblicato solo nel 1976 (Live at L.A. Troubador - Island). Nel gennaio del ’71 i Fairport Convention perdono per strada anche Richard Thompson, certamente il musicista cardine della formazione fino a quel punto, che intraprende una proficua carriera solista (inizialmente con la moglie Linda) e diventa un apprezzato sessionman. L’evento segna la fine del periodo di maggior creatività del complesso che da questo momento perde in freschezza e lucidità, continuando in ogni caso ad incidere con regolarità. Angel delight (Island-1971) è nettamente inferiore ai lavori precedenti, mentre il successivo Babbacombe Lee (Island-1971) si confonde nelle ambizioni da disco concept ; nel corso degli anni si susseguono i cambiamenti d’organico, arrivano gli ex Fotheringay Trevor Lucas e Jerry Donahue, per un attimo torna Sandy Denny, ma i vertici del passato non vengono neppure sfiorati. La dignità, quella si, rimane. A differenza dei Fairport Convention che iniettano la tradizione folk su solide basi rock, i Pentangle evolvono il loro credo musicale mischiando disinvoltamente l’ispirazione popolare con il jazz e il blues, come ben dimostrano i lavori più indicativi del gruppo, Sweet child e Cruel sister. Bert Jansch e John Renbourn, chitarristi allievi di Davy Graham, sono tra gli esponenti importanti del folk inglese e sin dalla metà degli anni Sessanta iniziano una prolifica carriera come solisti. Nel 1966 i due collaborano per la realizzazione dell’ottimo Bert & John (Transatlantic-1966) e alla fine dell’anno successivo decidono d’unire stabilmente le forze in un nucleo che chiamano Pentangle. Con loro sono la cantante Jacqui McShee, già collaboratrice di Renbourn, Danny Thompson (cb.) e Terry Cox (bt.), provenienti dalla Blues Incorporated di Alexis Korner. Dopo la pubblicazione di un buon disco d’esordio (Pentangle, Transatlantic-1968, con la produzione di Shel Talmy) il gruppo raggiunge elevati livelli espressivi con il doppio Sweet child (sempre nel ’68 e ancora prodotto da Talmy), proponendo un folk jazz blues di notevole qualità. L’album si compone di un disco registrato dal vivo alla Royal Festival Hall di Londra nel giugno del ’68 e di una parte realizzata in studio nell’agosto seguente. Dal vivo risalta la limpida bellezza di Market song, che svaria su tempi complessi, dei brevi frammenti che compongono le Three dances, del duetto di chitarre di No exit (dal long playing Bert & John), del tradizionale inglese di Bruton town. Toccante è la poesia di A woman like you, una canzone scritta e interpretata dal solo Jansch. Lo spiritual di No more my Lord e il blues di Turn your money green sono brillanti sul piano strumentale, con la voce della McShee precisa ma poco adatta alla materia, certamente più a suo agio nella canzone scozzese So early in the spring. Presenti due brani di Charles Mingus, Haitian fight song in un’interpretazione di Danny Thompson e il classico tributo a Lester Young di Goodbye Pork-Pie hat. Non meno interessante il materiale di studio che presenta una rifinitura sonora estremamente curata. Ancora grande musica in Sweet child, nella cameristica Three part thing, nei briosi strumentali In time e Hole in the coal, nelle linee melodiche della bella The trees they do grow high (ripresa da Angelo Branduardi - Gli alberi sono alti), nel suono ancestrale delle percussioni di Cox in Moon dog. PENTANGLE - CRUEL SISTER (Transatlantic - 1970) A seguito della notevole prestazione di Sweet child, i Pentangle incidono un terzo album (Basket of light, Transatlantic-1969) che permette al gruppo d’ottenere un discreto successo commerciale, piazzando ben due singoli in classifica. Il capolavoro resta Cruel sister, il 33 del 1970, tutto imperniato su materiale tradizionale arrangiato con maestria ed interpretato con sopraffina duttilità strumentale. A maid that’s deep in love colpisce per l’intreccio delle chitarre, acustica ed elettrica, di Renbourn, con il dulcimer di Jansch e la soave voce della McShee che subito dopo s’esibisce nel canto solitario di When I was in my prime. Lord Franklin è una canzone eseguita da Renbourn con l’ausilio della concertina di Jansch e delle armonie vocali di Jacqui McShee. La chitarra di Jansch e la celebre nenia vocale fanno di Cruel sister un piccolo classico, al quale il sitar di Renbourn attribuisce un sapore insolito, che vagamente richiama il folk hippie della Incredible String Band. Il compendio delle intenzioni si concentra nei quasi venti minuti di Jack Orion, che attraversa i modi della canzone popolare con la consueta visuale jazz - blues, dilatando il tempo e lo spazio ai limiti estremi con un approccio affine alle lucide sintassi dei primi Grateful Dead. Il gruppo gode di buona popolarità, nell’agosto del ’70 partecipa al festival dell’isola di Wight, ma le possibilità espressive sono già state completamente sviscerate e gli ultimi dischi, Reflection (Transatlantic-1971) e Solomon’s seal (Reprise-1972), non aggiungono nulla a quanto affermato in precedenza. Così, nel marzo del 1973, Jansch e Renbourn pongono fine all’esistenza dei Pentangle per tornare ad occuparsi delle rispettive carriere solistiche. Distante sia dalle quadrate strutture ritmico melodiche dei Fairport Convention, sia dal preziosismo strumentale dei Pentangle, la Incredible String Band nasce nel 1965 su impulso di Mike Heron e di Robin Williamson, polistrumentisti e soprattutto hippie per vocazione. Associati a Clive Palmer, nei primi tempi i musicisti agiscono nella zona di Glasgow e nel 1966 (per l’etichetta Elektra) incidono l’omonimo album d’esordio. Con la produzione di Joe Boyd, la cui collaborazione proseguirà fino al 1970, la Incredible String Band propone una musica acustica fortemente legata alla tradizione, che solo marginalmente lascia trasparire la prossima tendenza per un folk libero da schemi e preconcetti d’ordine formale. INCREDIBLE STRING BAND - THE HANGMAN’S BEAUTIFUL DAUGHTER (Elektra - 1968) A seguito del rapido abbandono di Palmer, Heron e Williamson mettono a punto uno stile originale, una sorta di caleidoscopio musicale variopinto e bizzarro. 5000 spirits or the layers of the onion (Elektra-1967) tenta d’affermarsi con improbabili country blues e ballate stralunate, il seguente The hangman’s beautiful daughter proietta il duo verso una buona notorietà nell’ambiente underground. All’album partecipano le ragazze dei due musicisti, Likky e Rose, presenti sui dischi successivi con organo e basso. Sin dall’iniziale Koeeoaddi there la Incredible String Band esibisce le strane, immaginarie linee che uniscono tradizione popolare britannica e misticismo orientale, stupende melodie perse nel tempo e anomale particelle sonore che si fondono e si scompongono con continuità sorprendente. The minotaur’s song pare nutrirsi della medesima scienza che illumina le visioni schizoidi di Syd Barrett. I cori assurdi e i modi sgarbati di Swift as the wind contrastano (ma solo in apparenza) con il raffinato lirismo di Waltz of the new moon, con la poetica The water song, con il sogno sfuggente di Nightfall. Davvero non si capisce quale preponderante fonte d’ispirazione permetta ai musicisti di generare un affresco sonoro quale A very cellular song, dove si mischiano echi folk, blues, gospel, classicismo barocco, Donovan forse. Verrebbe quasi voglia di parlare di musica totale, se con questo abusato termine spesso non si cercasse di celare la mancanza d’ispirazione e la confusione creativa. Diciamo allora musica free form, libera da ogni condizionamento, pura nell’essenza primordiale del suono, concepita ed eseguita per il piacere di esserlo. I dischi si susseguono a ritmo serrato con risultati altalenanti, senza che la Incredible String Band riesca a rinnovare la vena migliore dell’ispirazione ; degno di menzione il doppio Wee tam and the big huge (Elektra-1968), che contiene la bellissima The circle is unbroken. Nel 1970 il gruppo chiude la collaborazione con la Elektra (passerà alla Island) approntando un ambizioso spettacolo che diventa anche un doppio LP, U. Il fallimento del progetto e l’inesorabile calo d’interesse nei confronti della proposta musicale della Incredible String Band non precludono alla formazione di continuare a pubblicare alcuni lavori dignitosi fino al novembre del ’74, quando Heron e Williamson decidono di proseguire ognuno per la propria strada. - 21 Dave Cousins e Tony Hooper formano gli Strawberry Hill Boys nel 1967 ; all’inizio dell’anno seguente, raggiunto dal bassista Ron Chesterman e dalla cantante Sandy Denny, il gruppo cambia nome in Strawbs e si reca in Danimarca per registrare con un batterista locale (Ken Gudmond) un album che resta inedito fino al 1973. Nel maggio del ’68 la Denny lascia gli Strawbs per entrare nei Fairport Convention ed iniziare una folgorante carriera nel panorama del folk rock. Cousins e Hooper rifondano il complesso, aggregando la sezione ritmica degli Elmer Gantry’s Velvet Opera (John Ford - bs. - e Richard Hudson - bt. - due LP all’attivo alla fine dei Sessanta) e il giovane tastierista Rick Wakeman, formatosi su studi classici alla Royal Academy of Music. Così gli Strawbs, nel 1969, possono finalmente effettuare il vero esordio discografico (Strawbs, A&M) e replicare nel 1970 addirittura con due LP sempre per la A&M, Dragon fly (al quale partecipa la violoncellista classica Claire Deniz) e Just a collection of antiques & curious, registrato dal vivo nel luglio ’70 alla London Queen Elizabeth Hall. Il gruppo fonda la propria musica sull’ispirazione trasognata, quasi mistica, di Dave Cousins, con canzoni per la maggior parte poggiate su un’intelaiatura acustica, rifinita dagli interventi delle tastiere di Wakeman non ancora in fase di sproloquio strumentale. From the witchwood, registrato all’inizio del 1971, è il frutto migliore fino a quel momento, con le belle A glimpse of heaven, Witchwood, Flight, In amongst the roses, la più complessa The shepherd’s song ; The hangman and the papist e Sheep risentono in modo netto della commistione con il rock romantico e progressivo dell’epoca, fornendo importanti spunti per il successivo Grave new world. STRAWBS - GRAVE NEW WORLD (A&M - 1972) Dopo le registrazioni di From the witchwood, Rick Wakeman decide che per lui è arrivato il tempo della raccolta ed accetta l’invito a sostituire l’organista Tony Kaye nei lanciati Yes. Cousins si dedica alla realizzazione di un ottimo lavoro come solista (Two weeks last summer, A&M-1972) e provvede all’avvicendamento di Wakeman, chiamando l’ex tastierista degli Amen Corner, Blue Weaver. L’atmosfera di Grave new world, registrato nel novembre del ’71, è intrisa di misticismo e la musica appare decisamente votata ad aspetti romantico - progressivi. Benedictus ha le movenze della ballata folk, percorsa dalle tastiere sinfoniche di Weaver e caratterizzata dall’epico canto corale (con Trevor Lucas e Anne Collins) ; questo vale anche per la bella The flower and the young man, introdotta da un suggestivo coro a cappella. Il piacevole scorrere di Queen of dreams è interrotto da una parentesi rumorista ; a tratti la canzone ricorda soluzioni strumentali in stile Jethro Tull (modello Thick as a brick), pur mantenendo una propria originalità di base. New world è un girone infernale, durissima nelle intenzioni la voce di Cousins, sinfonica nell’impostazione la musica, con il mellotron in grande evidenza ; Tomorrow riconduce a trame care ai Jethro Tull e per l’occasione Cousins sfodera una ficcante chitarra elettrica. Il folk acustico trova saltuario spazio nei brevi frammenti di Hey, little man..., nelle brillanti songs di Heavy disguise (Ford) e di On growing older (Cousins), echeggia lontano nell’orientaleggiante Is it today, Lord ? (Hudson) e nella classica ballata di The journey’s end. Tutto sommato, con il loro folk barocco e romantico, gli Strawbs escono positivamente dalla prova, in una stagione dove già s’avverte aria pesante di recessione creativa, nell’ambito del rock sinfonico. Grave new world è in ogni caso l’ultima opera importante del gruppo, che subito dopo perde il defezionario Hooper ; al suo posto arriva il chitarrista David Lambert, reduce dalla poco fortunata esperienza dei Fire e vecchio amico di Cousins. Nel 1973 lasciano pure Hudson e Ford, che proseguono insieme per qualche anno, e la musica diventa sempre meno interessante, conducendo gli Strawbs ad un rapido declino di credibilità. Tra i gruppi dediti ad un folk rock pulito e lineare, senza eccessive pretese, uno dei migliori è quello dei Magna Carta, nato alla fine degli anni Sessanta attorno alle figure del cantante Glen Stuart e del chitarrista Chris Simpson. Se paragonati ad alcune formazioni loro contemporanee, quali i graziosi ma scarsamente incisivi Amazing Blondel (Evensong, Island1970), i timidi e commerciali Lindisfarne di Alan Hull (Fog on the Tyne, Charisma-1971), i Magna Carta possono mettere sul piatto della bilancia (almeno su Seasons, Vertigo-1970, la prova più convincente) un suono controllato e abbastanza variegato, strutturato su ballate impreziosite da buoni contributi strumentali (Rick Wakeman, Tony Carr, Davy Johnstone) ed orchestrali. In questa musica non c’è traccia di sperimentazione o di soluzioni azzardate, però non dispiace l’equilibrio formale di brani come Airport song e della lunga suite ‘delle stagioni’, che s’avvalgono di arrangiamenti ricondotti ad una corretta dimensione complementare. Ben altri risultati sono in grado di raggiungere i Fotheringay, in teoria la formazione ottimale per Sandy Denny. Dopo l’effimera apparizione d’inizio carriera negli Strawbs e in seguito all’esperienza esaltante con i Fairport Convention, la Denny nel 1970 è giustamente annoverata tra i protagonisti fondamentali della scena folk rock inglese. Nel marzo dello stesso anno nascono i Fotheringay, con il chitarrista Jerry Donahue e il bassista Pat Donaldson (provenienti dai Poet & One Man Band, un LP nel ’69) e con il cantante / chitarrista Trevor Lucas (che nel 1973 diventerà marito della Denny) e il batterista Gerry Conway, entrambi ex Eclection (anche per loro un LP, nel ’68). FOTHERINGAY - FOTHERINGAY (Island - 1970) Pur essendo la figura più nota ed importante, Sandy Denny non monopolizza la musica del gruppo, raffinata ma fondamentalmente semplice, caratterizzata da una notevole brillantezza strumentale, nella quale sentimento, intensità, trasporto emotivo sono le virtù principali. La cantante apporta quattro composizioni personali. Nothing more è stupenda ; la canzone, interpretata con passione ineguagliabile dalla Denny, si risolve in un flusso continuo di raffinate sonorità incastonate in una limpida melodia folk. La sua voce accarezza le pacate armonie di The sea, guidata dalla precisa chitarra di Donahue, colora la cristallina poesia di Winter winds, sublima la narrazione di The pond and the stream. Lucas imposta The ballad of Ned Kelly e Peace in the end con sicuro passo cadenzato e il gruppo conferma un’elevata capacità strumentale, mostrando notevole coesione in brani orecchiabili ma di buon gusto. Molto bella è la versione corale di The way I feel di Gordon Lightfoot, che ricorda da vicino l’approccio vocale di certi gruppi della California fine anni Sessanta (It’s a Beautiful Day), coinvolgente è Too much of nothing, immancabile cover di un brano di Dylan. Il tradizionale Banks of the Nile, arrangiato dalla coppia Denny / Lucas, chiude degnamente l’eccellente unico lavoro dei Fotheringay che pochi mesi più tardi, nel corso delle registrazioni di un secondo album mai completato, pongono fine alla breve avventura. Sandy Denny intraprende la carriera come solista, pubblicando nel ’71 l’ottimo The north star grassman and the ravens che, seppur inferiore, si avvicina molto al repertorio stilistico dei Fotheringay, presenti al completo alle registrazioni del disco. Tra i brani significativi dell’album, al quale partecipano pure Richard Thompson, Tony Reeves (Colosseum), Ian Whiteman e Roger Powell (Mighty Baby), vanno ricordati Late november, una ballata dalle struggenti linee melodiche nella migliore tradizione della Denny, la tradizionale Blackwaterside, la marziale John the gun e le autunnali The north star grassman and the ravens e Next time around. A questo primo lavoro seguono i validi Sandy (Island-1972), Like an old fashioned waltz (Island-1973) e l’atipica esperienza di The Bunch, estemporaneo incontro di musicisti, per la maggior parte del giro Fairport Convention, che frutta Rock on (Island-1972), imprevedibile ritorno alle radici del rock’n’roll scatenato degli anni Cinquanta. La carriera della Denny appare in fase calante ; nel ’74 la cantante effettua un breve rientro nei Fairport Convention per un paio di LP e nel ’77 pubblica l’ultimo lavoro, Rendezvous, come sempre per la Island. Il 21 aprile 1978 è una data triste da ricordare : una banale caduta dalle scale le procura un’emorragia cerebrale e la porta via, sicuramente per il paradiso. Altro personaggio di notevole rilevanza del folk rock inglese, Ashley Hutchings (come la Denny) lascia i Fairport Convention subito dopo la pubblicazione del capolavoro Liege & lief, alla fine del 1969. Il passo successivo è la creazione degli Steeleye Span, con la cantante Maddy Prior, Tim Hart (ch.v.) e i coniugi Gary e Terry Woods, provenienti dagli Sweeneys Men. Il gruppo incide Hark the village wait (RCA-1970), album interamente e rigorosamente basato su materiale tradizionale ; quest’aspetto viene confermato anche nei lavori seguenti, sia pure con qualche timida concessione verso sonorità elettriche. Molto belli sono Please to see the king (B&C-1971) e soprattutto Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again (Pegasus-1971), che appare il disco più riuscito del primo periodo. Il programma prevede gighe, reels e canzoni quali Gower wassail, che alterna cori a cappella ad un incedere marziale, le belle When I was on horseback (lenta e rarefatta) e Captain Coulston. Quando vengono incisi questi due album gli Steeleye Span hanno già perso per strada i Woods, e al loro posto troviamo Martin Carthy (ch.v. - autore sin dal ’65 di una lunga serie di dischi solistici) e il violinista Peter Knight. Nel 1972 il fondatore Ashley Hutchings preferisce lasciare il gruppo per dedicarsi ad una nuova creatura, la Albion Country Band, alla quale poi s’aggregherà lo stesso Carthy. STEELEYE SPAN - BELOW THE SALT (Chrysalis - 1972) Gli Steeleye Span si assestano definitivamente con i nuovi Robert Johnson e Rick Kemp (fino a quel momento stretto collaboratore di Michael Chapman). Il primo risultato del nuovo corso è Below the salt, un disco controverso che rispetto al passato presenta un suono notevolmente orientato al rock, ma che non per questo rinnega l’aspetto tradizionale della musica del gruppo ; si tratta di un riuscito momento d’incontro tra musica popolare (tutto il materiale è ancora d’epoca) e la propensione ad un’espressione che tiene maggior conto del numero di copie vendute. Purtroppo, per gli Steeleye Span Below the salt è anche un punto di non ritorno, un precedente di successo che induce la formazione a svilire i contenuti della proposta musicale alla ricerca di una costante conferma commerciale. In ogni caso l’album è opera degna, in parte pregevole, che pure riflette una certa freddezza stilistica tipica del complesso. La voce della Prior è sicura, ineccepibile sotto l’aspetto formale, ma manca della calda passione che consente a Sandy Denny di volare ben più in alto ; la strumentazione è impeccabile anche se non lascia trasparire spunti particolarmente fantasiosi. La gelida King Henry presenta un incedere deciso, la chitarra è più elettrica che mai e Knight orchestra i violini concedendosi qualche licenza espressiva. Molto belle pure Sheepcrook and blackdog e Saucy sailor, che sfrutta un arrangiamento facile e ammiccante senza perdere la vena romantica. Rosebud in june e l’inno sacro di Gaudete (pubblicato con successo su singolo) sono maestosi canti a cappella. Le gighe di The bride’s favourite e di Tansey’s fancy, le graziose Spotted cow e John Barleycorn, la gioiosa Royal forester completano degnamente un album che merita rispetto e considerazione. I dischi successivi incrementano il successo degli Steeleye Span, ma la qualità del materiale si dimostra in rapido ed evidente calo ; da Now we are six (Chrysalis-1974), prodotto da Ian Anderson dei Jethro Tull, trova posto in organico il batterista Nigel Pegrum, e in quel long playing appare persino David Bowie al sassofono...davvero un’altra musica. Nonostante l’ingloriosa svolta i primi album rimangono, senza dubbio, degni di una collocazione ai vertici del movimento folk rock. Dalla terra d’Irlanda gli Horslips, una buona ma non eccelsa formazione che rivisita in maniera elettrica e con arrangiamenti elaborati la musica tradizionale dei propri luoghi d’origine. Il gruppo prende forma a Dublino nel 1970 ed inizialmente si schiera con il chitarrista Declan Sinnot (nei primi anni Ottanta sarà con i Moving Hearts), Charles O’Connor (vi.mn.), Jim Lockhart (fl.ts.), Barry Devlin (bs.v.) e Eamon Carr (bt.). Sinnot viene presto sostituito da Gus Guiest e alla fine il posto di chitarrista spetta, in via definitiva, a John Fean. Dopo un paio di 45 giri di discreto successo gli Horslips registrano il primo LP Happy to meet sorry to part, che nel 1973 ottiene ottimi riscontri di vendita. Il disco è il più rappresentativo della folta discografia ed esplica le soluzioni sonore care agli Horslips, forse non troppo originali per via del facile (e ingeneroso) paragone con i Jethro Tull, comunque accettabili e non forzatamente commerciali, almeno nei primi due lavori. Piace la vena strumentale di The musical priest, di Hall of mirrors, di The clergy’s lamentation, della bella ballata di Furniture, dell’aria popolare di The shamrock shore. Bon istgh ag ol, in effetti, presenta uno stile non distante da quello del gruppo di Ian Anderson, ma nel complesso il disco non dispiace. Nell’autunno del ’73 gli Horslips vanno in tour con gli Steeleye Span e poco dopo pubblicano il secondo album The tain (Oats-1973), che si propone come opera concept senza sostanziali modifiche sul piano stilistico (Charolais, Cu chulainn’s lament / Faster than the hound). Nei primi due lavori sono concentrate le migliori intuizioni degli Horslips, che in seguito spostano il baricentro musicale verso forme ancora più rock e di minore personalità, disperdendo buona parte dell’interesse inizialmente suscitato. - 22 Numerose formazioni poco conosciute dal grande pubblico si agitano nel panorama underground offrendo un sottovalutato, quasi sempre fuggevole ma anche originale, contributo ad un rock d'ispirazione folk. Tra queste, i Foresters of Walesby nascono nel 1967 dall’unione dei fratelli Martin e Hadrian Welham con Derek Allenby, tutti polistrumentisti. Il gruppo, mutato il nome in Forest, firma un contratto discografico con la Harvest che frutta la pubblicazione di un singolo e dell’album omonimo, prodotto nel 1969 dal manager dei primi Pink Floyd, Andrew King. FOREST - FOREST (Harvest - 1969) Interamente composti dai tre musicisti, i brani dei Forest sono costruiti su arrangiamenti piuttosto originali e bizzarri, con improvvisi cambi di umore e di tempi, sorretti da un approccio strumentale complesso ed articolato, solo in apparenza trasandato. La proposta dei Forest è avvicinabile a quella della Incredible String Band anche per le strane, atipiche armonie vocali ; il gruppo si ferma però all’aspetto esteriore e superficiale delle canzoni, magari rese in modo informale, mancando del surrealismo, del fervore sperimentale e visionario di un’opera quale The hangman’s beautiful daughter. Filastrocche dall’incedere obliquo (Bad penny, While you’re gone), canzoni cariche d'inatteso lirismo (A glade somewhere, Don’t want to go), limpide e suggestive ballate sempre pronte a stupire per l’elasticità della struttura (Lovemakers’ ways, Sylvie, Rain is on my balcony) ; in Mirror of life si assiste ad un piccolo delirio sulla stessa lunghezza d’onda di Peter Hammill e l’emozionante Fading light conquista uno spazio nel cuore per via dell’ottimo lavoro alle chitarre e per la bella melodia della voce di Hadrian Welham. Il gruppo suona ovunque gli sia offerta la possibilità, acquisendo una certa notorietà anche in continente. Nella primavera del 1970 i Forest registrano il nuovo LP Full circle (sempre per la Harvest), che appare leggermente meglio rifinito, perdendo parte dell’aspetto estemporaneo e mantenendo pressappoco lo stesso livello qualitativo del disco precedente. Tra i brani migliori sono da ricordare Hawk the hawker, con la bella steel guitar di Gordon Huntley dei Matthews Southern Comfort, l’aggraziata ballata pianistica di The midnight hanging of a runaway serf, l’accattivante linea melodica di Do not walk in the rain, il classicismo gotico di Graveyard (quasi una canzone di Paul Roland, venti anni prima). Ovviamente una simile musica non vende e il destino dei Forest è segnato, senza possibilità d’ulteriore appello. Ancora più amara è la storia dei Trees, autori di due splendidi lavori per la CBS nel 1970 che non hanno molto da invidiare ai migliori esempi del folk rock inglese. Nessuno li ha degnati di uno sguardo, di un tardivo ascolto. La formazione presenta un organico sul modello dei primi Fairport Convention, con le chitarre di Barry Clarke e David Costa, una solida sezione ritmica composta dal bassista e cantante (e principale compositore) Bias Boshell e dal batterista Unwin Brown, con la voce solista di Celia Humphris. All’inizio del 1970 il gruppo pubblica l’album The garden of Jane Delawney, che propone materiale tradizionale alternato ad ottime composizioni di Boshell. Indubbiamente riusciti appaiono gli arrangiamenti della bella melodia tradizionale di The great silkie, le ottime elaborazioni di Lady Margaret e Glasgerion, l’appassionante rilettura della classica She moved thro’ the fair, tutti brani caratterizzati da un emozionante suono elettroacustico che a tratti presenta forti tinte rock. Tra i brani composti da Boshell spiccano la pacata ballata di The garden of Jane Delawney, la delicata Epitaph e il canto meravigliato della conclusiva Snail’s lament. TREES - ON THE SHORE (CBS - 1970) The garden of Jane Delawney passa pressoché inosservato, ma ugualmente al gruppo viene concessa una doverosa ulteriore chance ; il secondo On the shore è lo splendido frutto di alcune sessions dell’ottobre ’70 ai Sound Techniques di Londra, disco che merita d’essere ricordato tra i più bei lavori del folk rock britannico. Il gruppo appare compatto e convinto dei propri mezzi, la musica acquista maggior consistenza e sposta l’attenzione verso un’espressione marcatamente rock. La voce di Celia Humphris, un poco timida e priva della personalità delle grandi cantanti della scena folk, si difende bene e risulta più sicura e precisa rispetto all’album precedente. Soldiers three inaugura il disco con sonorità decisamente elettriche. Murdoch è una notevole composizione di Boshell, con un’ottima interpretazione della Humphris, chitarre acustiche ed elettriche a sostenere il ritmo e la melodia. L’attacco della magnifica e fiera Streets of Derry è quasi hard, la ritmica insistente e mutevole, le chitarre elettriche si distendono verso drammatici orizzonti rosso fuoco. I Trees sono al massimo delle possibilità espressive, difficile andare oltre. Sally free and easy (con Tony Cox al basso) ci prova, con un approccio sussurrato e melodico che spazia in un coinvolgente crescendo strumentale. La seconda parte del disco appare equilibrata, priva di sbavature, con due buoni originali quali Fool e While the iron is hot (segnata da un inconsueto arrangiamento di archi e da un intermezzo rock piuttosto marcato). Ancora prestazioni di rilievo in Geordie e in Polly on the shore, ancora una volta il disinteresse nei loro confronti. Ignorati al di fuori della scena underground, ai Trees non resta che rassegnarsi all’ennesimo beffardo scioglimento. Due gli album anche per i Dr. Strangely Strange, Kip of the Serenes (Island-1969) e Heavy petting (Vertigo-1970). In particolare il secondo lavoro, prodotto dall’onnipresente Joe Boyd e valorizzato dalla bizzarra copertina di Roger Dean, si segnala per una musica che trae spunto dalla tradizione popolare rivista attraverso atmosfere semplici e di buona presa armonica. La poetica sincera della loro proposta si riflette in brani di folk dolcemente stralunato (Ballad of the wasps, Kilmanoyadd stomp) e di frequente subisce decise intromissioni rock : è il caso di canzoni immediate ed accattivanti come Summer breeze (che contiene un assolo di chitarra in stile rock blues), la fluida Sign on my mind, le roccate Gave my love an apple e Mary Malone of Moscow, pezzi nei quali appare l’importante contributo del chitarrista degli Skid Row, Gary Moore (poi Colosseum II, Thin Lizzy e fortunato solista) e del batterista Dave Mattacks (Fairport Convention). Alla voce solista si alternano tutti e tre i componenti dei Dr. Strangely Strange, Jim Goulding (ts.vi.), Jim Booth (ch.bs.) e Ivan Pawle (bs.ts.sf.ch.) ; il loro epitaffio è il tenero, poetico frammento di Friends. Poi il silenzio. I nomi del sottobosco folk sono numerosi : la fascinosa C.O.B., gli sconosciuti Dulcimer, la appena più nota formazione dei Tudor Lodge (un album nel ’70 per la Vertigo, al quale collaborano Danny Thompson e Terry Cox dei Pentangle) ed altri ancora, tutti superati in notorietà dai Dando Shaft, un complesso nato nel 1968 dall’ampliamento di un duo folk composto da Kevin Dempsey (ch.v.) e da Dave Cooper (v.ch.). Con loro finiscono Martin Jenkins (v.ch.mn.vi.), Roger Bullen (bs.), Ted Kay (pr.) e il gruppo firma per la Young Blood, la nuova etichetta del produttore Miki Dallon (in catalogo fra l’altro anche gli psichedelici Julian’s Treatment e gli hard rockers Elias Hulk). Nel luglio del 1970 viene pubblicato il disco d’esordio, An evening with Dando Shaft, che li pone all’attenzione degli appassionati del folk inglese. In autunno si aggiunge al gruppo la cantante Polly Bolton e a metà del ’71 i Dando Shaft giungono alla maturità artistica con il secondo LP omonimo, edito dall’etichetta Neon. Del complesso non si discutono la vena limpida e raffinata di canzoni quali Coming home to me e Kalyope driver, la brillantezza del suono, lo stile rigoroso ed accattivante al tempo stesso ; solo manca un pizzico di coraggio, o forse la volontà, per generare qualche azzardo geniale, qualche contaminazione meno ordinaria. Il lavoro ottiene buone critiche ma vendite scarse, a ben poco valgono i numerosi concerti di supporto a gruppi quali Pentangle, Brian Auger, e altri come attrazione principale alla Roundhouse e al Lyceum. Alla fine del ’71 i Dando Shaft registrano Lantaloon, che viene pubblicato nel ’72 dalla casa madre RCA, ma il successo non arriva e nello stesso anno il gruppo si scioglie. La Bolton e Dempsey proseguono in duo, Jenkins entra negli Hedgehog Pie e collabora con Bert Jansch ; nel 1977 l’effimera ricostituzione che frutta l’album Kingdom. Verso la fine degli anni Sessanta l’ex manager degli Yardbirds Simon Napier-Bell è alla ricerca di musicisti emergenti per la sua neonata etichetta SNB, quando in Irlanda s’imbatte in due dotate cantanti, Clodagh Simonds e Alison Williams. Il duo si battezza come Mellow Candle e nell’agosto 1968, per l’etichetta di Napier-Bell, realizza il singolo Feeling high / Tea with the sun. Il 45 giri riscuote un insuccesso assoluto, come del resto la stessa casa discografica che ben presto fallisce. MELLOW CANDLE - SWADDLING SONGS (Deram - 1972) Dopo il ritorno in Irlanda, di Clodagh e Alison si perdono le tracce fino all’inizio del nuovo decennio, quando il nome Mellow Candle torna alla ribalta per alcuni concerti irlandesi. La formazione si è nel frattempo ampliata, con l’ingresso di David Williams, fratello di Alison, di Frank Boylan e di William Murray (che vanta una collaborazione con Kevin Ayers). Il gruppo suona dal vivo di supporto a Horslips, Thin Lizzy, Skid Row e la Simonds partecipa, alla fine del ’71, in qualità di tastierista al secondo album dei Thin Lizzy. Nell’autunno dello stesso anno i Mellow Candle firmano per la Decca, che prima pubblica (per l’etichetta Deram, all’inizio del ’72) il singolo di Silver song / Dan the wing e quindi l’album Swaddling songs. La formazione si esprime con delicate, stupende melodie dal sapore antico, rivisitate con spirito attuale e afflato romantico, come la preziosa Heaven heath, l’incantevole Sheep season, con le voci di Clodagh Simonds e Alison Williams che s’incrociano e si rincorrono mirabilmente, in un’estasi sonora alla quale contribuisce una strumentazione raffinata ed essenziale. La pianistica Reverend sisters e la tenue ballata di Silver song, entrambe composte dalla Simonds, si associano alla bellissima melodia di Messenger birds (della Williams) nell’affrontare ed impadronirsi dei fragili, emozionanti equilibri che regolano questa musica. Anche quando i ritmi si fanno più sostenuti la stesura rimane diretta e naturale, priva d'artifizi, innocente nel suo profondo romanticismo : The poet and the witch, Dan the wing, Break your token, Buy or beware, Boulders on my grave s’avvalgono delle eccellenti capacità strumentali dei musicisti, delle chitarre di David Williams (Lonely man), della mai invadente sezione ritmica. Nonostante l’elevata qualità il disco vende pochissimo e davvero non si capisce il perché, dal momento che la proposta non sottintende ricerche sperimentali, né evidenzia particolari asperità timbriche. Il finale di partita è già visto, con i Mellow Candle che si dissolvono nel nulla accompagnati dalla loro eterea musica. Il solo Murray resterà nella scena musicale apparendo occasionalmente in lavori di Mike Oldfield, Richard & Linda Thompson e Paul Kossoff. Per concludere, i Gryphon, una formazione sorta nel 1972, da molti considerata una fulgida speranza del folk inglese, promessa mantenuta solo in parte a causa di un precoce decadimento commerciale dopo i primi tiepidi entusiasmi. Richard Harvey (ts.sf.) e Brian Gulland (sf.), due brillanti studenti del Royal College of Music, si uniscono al chitarrista Graeme Taylor e al percussionista e cantante David Oberlé con l’obiettivo di realizzare una musica basata su soluzioni acustiche d’impostazione tradizionale, attraverso una rivisitazione personale, un atteggiamento estroverso, tutt’altro che cattedratico. Un buon esempio del loro approccio originario è rintracciabile sul primo album Gryphon (Transatlantic-1973), nel quale trovano posto aggraziati e stravaganti brani come Sir Gavin Grimbold, Three jolly butchers, The astrologer, Juniper suite. Il disco vende abbastanza bene, ma già il secondo LP Midnight mushrumps (Transatlantic1974) evidenzia l’esigenza dei Gryphon di allargare gli orizzonti della loro musica ; di questa necessità si nutre la lunga suite che titola il lavoro, interessante anche se un poco dispersiva, apprezzabile ma incapace di mostrare il volto migliore del complesso. Il suono è appesantito da ambizioni esagerate e non riesce completamente a coinvolgere. GRYPHON - RED QUEEN TO GRYPHON THREE (Transatlantic - 1974) In ogni caso la popolarità dei Gryphon è in aumento, grazie anche a numerosi concerti dal vivo come spalla degli Yes, e il nuovo Red queen to Gryphon three (registrato nell’agosto del ’74) avvicina notevolmente il gruppo a forme di rock progressivo, con largo uso di strumentazione elettrica. L’estetismo di Opening move offre la prospettiva del folk ormai completamente assorbito nei tessuti di una musica che riassume la propria bellezza formale in lunghe e raffinate composizioni interamente strumentali, di notevole equilibrio stilistico ed estremamente seducenti, vagamente assimilabili alle prime esperienze di un Mike Oldfield ma dotate di un’anima più profonda. Second spasm richiama in linea retta i dischi precedenti ma tastiere, chitarra e ritmica sono ben più presenti e corpose, il contrasto fra strumenti elettrici e d’epoca crea un singolare fascino e una musica intelligente e divertente. Lament si basa su una splendida melodia senza tempo, che gli Yes avrebbero pagato a peso d’oro, e internamente evolve in svariate direzioni dimostrando la poliedricità e la sensibilità di questi musicisti. La conclusiva Checkmate appare ancora più complessa e moderna nella scelta dei suoni, senza perdere in immediatezza. I Gryphon hanno raggiunto i limiti della loro sintesi, l’avventura prosegue ancora (Raindance, Transatlantic-1975, con Malcolm Bennett - bs.fl. - al posto di Nestor) ma i tempi cambiano rapidamente e per il gruppo è sempre più difficile confrontarsi con le rinnovate esigenze del mercato discografico. Le settimane Astrali e i giorni della Luna Rosa - 23 Chiusa l’avventura dei Them, il produttore Bert Berns convince Van Morrison a trasferirsi a New York per registrare alcuni singoli e una serie di canzoni, raccolte su vari album senza l’autorizzazione dell’artista. Dopo la morte di Berns, l’irlandese trova spazio alla Warner Bros. e qui inizia una monumentale carriera da solista VAN MORRISON - ASTRAL WEEKS (Warner Bros. - 1968) Il vero esordio avviene con Astral weeks, registrato nell’arco di due sessioni di studio consecutive, per un totale di ben...sedici ore complessive di lavoro, e pubblicato nel novembre del 1968. I tempi del focoso rhythm & blues dei Them sembrano appartenere alla preistoria : la musica ora è acustica, fascinosa e romantica, di grande raffinatezza strumentale con presupposti folk e jazz, arricchita da misurati interventi orchestrali. Ciò che importa in Astral weeks non sono tanto la bellezza e le soluzioni di ogni singolo episodio, quanto l’imponente struttura complessiva del lavoro, concepito come una sinfonia per ‘low budget orchestra’ che si stempera in una sobria atmosfera quasi cameristica. Il solo brano che in qualche modo si ricorda del R & B originario è The way young lovers do, che recupera il ritmo confondendolo con chiari riferimenti jazzistici. Le altre (Astral weeks, Beside you, Cyprus avenue e Madame George le più virtuose) sono canzoni rarefatte ed intense, con chitarra, flauto, vibrafono, violino, contrabbasso che si alternano alla guida del suono, duettano, si fondono tra loro creando uno spazio vergine colmato magistralmente dalla voce di Morrison, caratteristica, forte ed espressiva, capace di assumersi la responsabilità di un contesto musicale tutt’altro che semplice e accomodante, dando fiato ad una poesia visionaria, trasognata e nostalgica. Al disco partecipano musicisti di notevole levatura, tra i quali il chitarrista Jay Berliner (già collaboratore di Charles Mingus) e il batterista Connie Kay, del Modern Jazz Quartet. Astral weeks appare momento unico, isolato nella discografia di Van Morrison che nei lavori successivi solo episodicamente rinverdirà l’approccio stilistico di tale capolavoro. Nel febbraio1970 Moondance sposta l’accento su un rhythm & blues meno avanguardistico ma di gran classe ; scompaiono i colori tenui del disco precedente per lasciare spazio a suoni concisi e diretti, con una sezione ritmica tradizionale e i fiati di Jack Schrorer e Collin Tillton al posto degli archi. Stoned me, Crazy love, Caravan, Into the mystic sono le fondamenta dell’impianto sonoro presente e futuro di Van Morrison, e il nuovo corso piace al pubblico americano che ne decreta il buon successo, al contrario di quanto accaduto al ‘difficile’ Astral weeks. La tendenza stilistica è confermata dal meno brillante His band and the street choir (Warner Bros.-1970) e dal discreto Tupelo honey (Warner Bros.-1971). Tra i dischi dei primi anni Settanta, di rilievo sono il doppio ...it’s too late to stop now... (Warner Bros.-1974, registrato dal vivo) e Veedon fleece (Warner Bros.-1974), l’opera che più s’avvicina alle atmosfere di Astral weeks. La carriera di Van Morrison prosegue senza intoppi sino ai nostri giorni, con pubblicazioni costanti e irrefrenabili ; per qualcuno è sempre la stessa canzone, per i fans i capolavori si sprecano. Philip Donovan Leitch è originario di Glasgow e, a soli diciannove anni, viene già definito il nuovo Bob Dylan. E’ il primo di un’interminabile serie (che continua ancora oggi) di presunti discepoli del menestrello di Duluth ma, come spesso accade, l’accostamento con il maestro è improprio. Donovan intelligentemente cerca di sfruttare la popolarità derivata dallo scomodo paragone atteggiandosi a novello folksinger, e una fortunata esibizione televisiva lo pone in condizione d’incidere nel 1965 una notevole quantità di brani, che vengono raccolti su alcuni singoli e su due LP (What’s bin did and what’s bin hid e Fairytale, Pye-1965). Il repertorio spazia da canzoni di protesta, dal tono comunque gentile (The war drags on, Universal soldier, Ballad of a crystal man), a dolci brani che in parte anticipano lo stile futuro (Colours, To sing for you, Turquoise) e qualche arrangiamento leggermente più impegnativo (Sunny goodge street e l’ottima Hey Gyp, dig the slowness). Buone canzoni, ma nel complesso nulla di trascendentale. Nel 1966 Donovan effettua una serie di concerti negli Stati Uniti, accompagnato alla chitarra dallo sconosciuto Shawn Phillips, e durante il tour entra in contatto con la scena psichedelica californiana e con il flower power ; sotto la produzione di Mickie Most vedono la luce due importanti album improntati ad una musica sognante e psichedelica, percorsa da brividi orientali, sostanziata da arrangiamenti rock e da un uso misurato di orchestrazioni classiche. Il notevole Sunshine superman (Pye, per il mercato inglese) e la versione USA Mellow yellow (Epic) sono pubblicati nel 1967 e comprendono numerosi titoli in comune. Al fianco di canzoncine preparate con gusto inimitabile, quali Sunshine superman e Mellow yellow, trovano posto delicati acquerelli d’infinita dolcezza che rispondono ai nomi di Guinnevere, Celeste, Writer in the sun, la lucente ballata di House of Jansch, la cupa litania di Young girl blues, la riuscita melodia orientale di Three kingfishers. Sulla bellissima Season of the witch spira un tiepido vento proveniente dalla costa occidentale degli States che porta una musica elettrica e disinvolta, in contrasto con il classico e prezioso arrangiamento di Hampstead incident e con l’intensa forza espressiva di Legend of a girl child Linda, che pure non possono prescindere da una semplice essenza folk. DONOVAN - A GIFT FROM A FLOWER TO A GARDEN (2 LP Pye - 1968) Alla fine del ’67 Donovan ripone le fantasie psichedeliche di Sunshine superman e diventa seguace del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi ; la musica ne risente fortemente, acquisendo serenità e toni quieti in omaggio alla teoria dell’amore assoluto ed universale. La voce del cantante appare ancora più distesa, rilassata, e la strumentazione si propone con gran sobrietà, dimenticando buona parte dei preziosismi timbrici senza perdere in eleganza e fascino. Il risultato è il doppio A gift from a flower to a garden. Il primo disco presenta un suono moderatamente elettrico, equilibrato ed arricchito dai misurati interventi di ospiti quali il flautista Harold McNair e il tastierista Mike O’Neil. I brani più significativi sono l’eterea Wear your love like heaven, l’accattivante Mad John’s escape, l’affascinante cadenza jazzata di Oh gosh con il decisivo apporto del flauto di McNair ; O’Neil introduce con discrezione il clavicembalo in There was a time, produce liquide sonorità all’organo e al piano nella valida The land of doesn’t have to be, Jack Bruce appare al basso nella orchestrata Someone singing. Il secondo LP, completamente acustico e con sporadici interventi di musicisti esterni, è ancora più rigoroso ed estremo nella scelta stilistica, rasentando a tratti una certa monotonia di fondo. Non mancano però attimi di assoluta illuminazione, come nel caso di Isle of Islay, forse la sua canzone più bella tra quelle che si muovono in territori di delicata passione. Ottime anche la sussurrata Song of the naturalist’s wife e le tenere ballate dal sapore tradizionale di Widow with shawl e di The lullaby of spring. La pubblicazione dell’album è seguita da un nuovo tour americano di gran successo. Da alcuni concerti tenuti al Fillmore West di San Francisco è tratto il materiale di Donovan in concert, squisito esempio della capacità di coinvolgimento e della nitida bellezza della sua proposta acustica. Il successo prosegue anche con gli ultimi lavori dei Sessanta, Hurdy gurdy man (Epic-1968) e Barabajagal (Epic-1969) ; in quest’ultimo album trova posto la facile ballata di Atlantis e fa capolino un suono dal forte impatto rock, per via della presenza del Jeff Beck Group in due brani (Barabajagal e Trudi). Nel decennio successivo Donovan continua ad incidere regolarmente, senza riuscire a rinverdire la popolarità ed il successo dei tempi migliori, dimostrando un progressivo calo d’ispirazione. Certamente meno interessante, ma non per questo trascurabile, la parabola artistica di Steven Georgiou, un cantante d’origine greca che nel 1966 esordisce con il 45 giri I love my dog, dopo essersi ribattezzato Cat Stevens. Buone vendite giungono nel 1967 con Matthew and son, che si piazza ai vertici della classifica inglese e presta il titolo al primo LP. Nello stesso anno Stevens suona spesso dal vivo, in aprile partecipa ad un tour inglese come supporto a Jimi Hendrix ma, all’inizio del ’68, la sua carriera subisce un brusco arresto dovuto alla tubercolosi che lo costringe in ospedale per un lungo anno. Durante questo periodo di forzata inattività il cantante prepara buona parte del materiale utilizzato per il ritorno discografico del 1970, l’ottimo album Mona bone jakon, prodotto dall’ex bassista degli Yardbirds Paul Samwell Smith. Accompagnato dal chitarrista Alun Davies, da John Ryan (bs.), da Harvey Burns (bt.pr.) e con una fugace apparizione di Peter Gabriel al flauto, Cat Stevens propone una musica acustica che prende spunto dalla canzone d’autore piuttosto facile ma di buon gusto, ispirata a modelli vagamente folk. La voce è caratteristica, modulata con precisione, capace di affrontare atmosfere dolci e morbide, come di passare senza problemi a toni più robusti. Le ottime vendite del singolo con la leggiadra ballata di Lady d’Arbanville servono da traino per tutto il long playing, che si sostenta con le semplici ma efficaci armonie delle buone Maybe you’re right, I think I see the light, Mona bone jakon, trova sfogo nell’ironia di Pop star e si crogiola nelle leggere tinte color pastello di Trouble e di Katmandu. Con Tea for the tillerman (Island-1971) Cat Stevens non modifica l’assetto vincente del disco precedente ; stesso produttore, stessi musicisti, due brani trainanti di gran successo come Wild world e Father and son, le belle Where do the children play ? e Miles from nowhere, soprattutto le tenere e raffinate Sad Lisa e Into white ad elevare la qualità del lavoro. Teaser and the firecat (Island-1971) spreme ciò che resta della creatività del cantante, proponendo una musica curata ed elegante, ormai chiusa a qualsiasi possibilità di rinnovamento stilistico. Terminato il periodo migliore, Stevens rimane sulla breccia fino al 1978 con una qualità decrescente dei lavori e con minore seguito di pubblico. S'interessa di misticismo orientale, emigra in Brasile per motivi fiscali, elargisce denaro in beneficenza ; nel 1979 il clamoroso colpo di scena, con la conversione alla religione musulmana e il nuovo nome di Yosef Islam. Onestamente, sono fatti suoi. - 24 Syd Barrett : mito e leggenda, disgrazia e disperazione, forse solo un uomo alla ricerca di se stesso, con le sue illusioni, con i suoi vertici creativi e i frequenti crolli psichici, esaltato da inafferrabili voli d’immaginazione, provato dalle droghe e dall’incapacità d’esprimere compiutamente in musica il pensiero. Il chitarrista infuriato di sperimentazione degli anni Sessanta o il grasso, tranquillo e un poco strano signore dei tempi recenti, quale sia il suo vero volto alla fine del gioco ha ben poca importanza. Meglio lasciar perdere il complicato rebus della sua vita, anche per rispetto alla persona, e guardare con serenità alla sua opera da solista, a quella preziosa manciata di canzoni che ci ha lasciato come testamento musicale di un’epoca colma di disagio, ma non solo di sofferenza. SYD BARRETT - THE MADCAP LAUGHS (Harvest - 1970) Dopo l’inevitabile, sofferto abbandono dei Pink Floyd nel marzo del 1968, Syd Barrett tiene a Abbey Road le prime sessioni di registrazione come solista, tra il maggio e il luglio dello stesso anno. Il materiale realizzato non trova posto nei suoi album originali e verrà recuperato in occasione della raccolta Opel (del 1969) e del cofanetto antologico Crazy diamond (1993). L’allontanamento dai Floyd e l’uso sempre massiccio di droghe allucinogene provocano un ulteriore peggioramento della situazione, con conseguente ricovero per sottoporsi a trattamento psichiatrico. Finalmente, nell’aprile del 1969, Barrett torna in studio in discreta forma per registrare, con l’aiuto del produttore Malcom Jones, del nuovo materiale da inserire in un ipotetico album. Per facilitare il lavoro Jones decide di far incidere la base di chitarra e voce dal solo Barrett, evitando il problematico confronto diretto con altri musicisti (Wyatt, Hopper, Ratledge - i Soft Machine - Jerry Shirley degli Humble Pie e Willie Wilson dei Jokers Wild) che successivamente vengono chiamati a sovraincidere i propri strumenti. Da queste sedute sono ricavate la lenta e indolente Terrapin, la tipica filastrocca di Love you e un gruppo di ottime composizioni caratterizzate da un suono piuttosto elettrico : molto bella è No good trying, probabilmente sovraincisa dai Soft Machine al completo, No man’s land è elettrica e caotica, Late night è arrangiata in stile Pink Floyd mentre Here I go viene registrata in diretta con Wilson e Shirley. La musica appare notevolmente lontana dalle sperimentazioni dei primi Pink Floyd, una sorta di pigro e stravolto impasto elettroacustico che si muove attorno alla voce trasognata di Barrett, resa ancora più insolita dal forzato montaggio sonoro adottato per l’occasione. In giugno Jones è rimpiazzato da David Gilmour e Roger Waters, che cercano d’imprimere al lavoro di Barrett una maggiore concretezza. Una nuova seduta di registrazione frutta l’accattivante ballata di Octopus, la suggestiva Golden hair e due nuovi brani, le notevoli Dark globe e Long gone (la prima solitaria, la seconda con qualche aggiunta di voce e organo) che portano Barrett ai limiti delle sue possibilità. La EMI ha fretta e reclama la conclusione del lavoro ; alla fine di luglio viene affrontata un’ultima serie d'incisioni per ricavare il materiale necessario al completamento del 33 giri. Sotto pressione Barrett fatica ancora di più a trovare la necessaria lucidità ; ne risultano tre canzoni incerte (She took a long cold look, Feel, If it’s in you) ma comunque in linea con il resto della produzione. Nel gennaio ’70 viene infine pubblicato The madcap laughs, che ottiene ottime recensioni e vendite incoraggianti. Questo spinge la EMI a tentare un immediato raddoppio discografico al fine di sfruttare l’evidente popolarità che Barrett continua a mantenere, nonostante i problemi fisici, mentali e l’impossibilità ad effettuare esibizioni dal vivo. Il secondo LP Barrett esce nel novembre del 1970, messo a punto tra febbraio e luglio e costituito essenzialmente da canzoni composte nel ’69 durante la lavorazione di The madcap laughs. Il carattere e il comportamento di Barrett sono volubili ; Gilmour (che con Richard Wright si accolla la produzione del nuovo disco), viste le difficoltà insormontabili di Syd per suonare con altri musicisti, decide di seguire due strategie di lavoro. Fare eseguire il brano dal solo Barrett e cercare poi di quadrare il tutto con la sovraincisione di basso (lo stesso Gilmour), tastiere (Wright) e batteria (Shirley), oppure preparare le basi preventivamente e quindi indurre il musicista ad inserire la parte vocale e la chitarra. In febbraio Barrett incide due nuovi brani, la pregevole Baby lemonade e lo strampalato blues di Maisie, e recupera vecchi progetti tra i quali spicca la lineare Gigolo aunt. A tratti il musicista ritrova lucidità, come in marzo quando esibisce un’ottima performance alla trasmissione radiofonica Top Gear, condotta da John Peel. In giugno torna a suonare dal vivo (la prima volta dopo i Pink Floyd) in occasione della manifestazione Extravaganza Concert ’70 all’Olympia Theatre di Londra ; lo accompagnano Gilmour e Shirley, Barrett suona alcune canzoni piuttosto bene, poi improvvisamente ringrazia e toglie il disturbo. Le ultime incisioni, nel luglio ’70 a completamento del secondo album, generano le discrete Dominoes e It’s obvious, brani che mettono in luce più che altro l’apporto strumentale, fin troppo marcato e predominante. Inoltre viene realizzata Rats, una pazzesca jam in presa diretta che si risolve in un caotico ed insistente crescendo vocale e strumentale. In seguito alla pubblicazione di Barrett l’artista non riesce a combinare granché. Nel febbraio del ’72 il bassista Jack Monk (ex membro dei Delivery, una poco conosciuta formazione di Canterbury) matura l’idea degli Stars, un gruppo che coinvolge Barrett oltre al batterista John ‘Twink’ Alder (personaggio di centrale importanza dell’underground londinese, già con Tomorrow, Pretty Things, Pink Fairies). La formazione prova per qualche settimana e il 24 febbraio effettua l’esordio ufficiale al Corn Exchange di Cambridge, con gli MC5 e gli Skin Alley. Le precarie condizioni di Barrett determinano il totale insuccesso dell’esibizione e il rapido scioglimento degli Stars. Benché circoli la voce insistente dell’esistenza di nastri del gruppo registrati dallo stesso Barrett, nulla di quell’effimera avventura vede la luce su disco. Sempre nel 1972 Peter Jenner tenta di riportare il musicista in sala d’incisione, senza riuscire a ricavare niente d'ascoltabile. Poi il silenzio cala su Barrett, a cementare la solita leggenda del perdente. Ciò che importa e deve bastare sono le tracce da lui lasciate nei dischi, da solo e con i Floyd, inamovibile testimonianza del talento di uno dei grandi innovatori del rock progressivo inglese. - 25 Musicista di notevole interesse della scena musicale inglese Jack Bruce, dopo gli eclatanti ma poco duraturi entusiasmi con i Cream, preferisce dedicarsi ad una carriera come solista di non facile affermazione, al contrario di Baker e soprattutto di Clapton impegnati nella ricerca di nuovi supergruppi con i quali mantenere la popolarità acquisita. La scelta di Bruce appare ancora più coraggiosa dal momento che l’attenzione creativa viene rivolta ad un’originale mistura di rock, folk, canzone melodica con forti inflessioni jazz, che ben poco ha da spartire con i precedenti rock blues. I validi Song for the tailor (Polydor-1969) e Things we like (Polydor-1972) mostrano la via e non mancano di collaborazioni di prestigio (John McLaughlin, Jon Hiseman, Dick Heckstall Smith). JACK BRUCE - HARMONY ROW (Polydor - 1971) Il vertice qualitativo è raggiunto con le registrazioni del gennaio ’71, dalle quali emerge il piccolo capolavoro di Harmony row. Avvalendosi esclusivamente dell’apporto della chitarra graffiante e creativa di Chris Spedding e della batteria potente e precisa di John Marshall, a quei tempi entrambi di stanza nei Nucleus di Ian Carr, Bruce si dimostra compositore sopraffino e musicista completo, bassista fantasioso e dotatissimo (già si sapeva), tastierista misurato e cantante limpido ed equilibrato. Impossibile resistere al fiero e struggente lirismo della pianistica Can you follow ?, alle ingegnose soluzioni armoniche della bellissima Escape to the Royal Wood (on ice), alla grazia melodica di Folk song, al rock brioso e mai ottuso di You burned the tables on me, con la chitarra scoppiettante di Spedding, e ancora di Post war e di A letter of thanks. Le movenze jazz di There’s a forest lasciano spazio all’incontenibile frenesia ritmica di Morning story e alle geometrie inconsuete della varia Smiles and grins. Chiudono la gustosa ballata Victoria sage e l’originale The consul at sunset. Bruce non perde occasione per collaborare con musicisti jazz di rilievo quali Carla Bley, Mike Mantler e Tony Williams ; contemporaneamente si presta ad un provvisorio ritorno verso forme di rock duro con gli ex Mountain Leslie West e Corky Laing (tre album tra il ’72 e il ’74). Nel 1974 torna ad incidere come solista con il valido Out of the storm, lavoro nel quale conferma la collaborazione con Pete Brown nella veste di paroliere e, forse indotto dalla presenza del grintoso chitarrista Steve Hunter, adotta ritmi più forti (Pieces of mind) senza scendere a compromessi, mantenendo integre tutte le componenti fondamentali del suo stile melodico (Golden days) e composito (l’ottima Timeslip, con un finale...alla Cream). La produzione degli anni Ottanta non sempre sarà all’altezza delle sue possibilità, comunque le note di Harmony row e dei dischi migliori sono sufficienti per attribuire a Bruce un giusto riconoscimento artistico anche come solista. Roy Harper è un cantante e compositore atipico dalla complessa personalità, che sconta un’infanzia difficile e disavventure varie a base di manicomio, elettroshock e galera. Nel 1964 giunge a Londra dove suona ovunque capita, per le strade e gratis a Hyde Park ; qualche tempo dopo trova il modo di registrare, con mezzi poveri, un album dal titolo The sophisticated beggar (Strike-1967) subito bissato da un secondo LP, Come out fighting Ghengis Smith (CBS-1967), prodotto da Shel Talmy. Il miglior lavoro del primo periodo è il successivo Folkjokeopus (Liberty-1969), ancora curato da Talmy : nel complesso discreto, il disco raccoglie i momenti più significativi nella bella Sgt. Sunshine d’apertura e nella lunga Mc Goohan’s blues. Dopo continui cambi di casa discografica finalmente Harper trova spazio alla Harvest e, con la pubblicazione di Flat baroque and beserk (1970), inizia il periodo decisivo della sua carriera. Sull’album appaiono i Nice e proprio in quei giorni Harper ha modo di conoscere i Led Zeppelin, in occasione del festival di Bath. Con il gruppo di Jimmy Page il bizzarro folksinger va in tour negli Stati Uniti e si vede gratificato di un omaggio nella parte acustica del terzo LP del gruppo (Hats off to Roy Harper). ROY HARPER - STORMCOCK (Harvest - 1971) Roy Harper è ormai musicista rispettato ed apprezzato da grossi nomi della scena inglese, dai Pink Floyd a Ian Anderson dei Jethro Tull a Paul McCartney, mantenendo lo stesso integra la propria immagine di artista underground. Stormcock raggiunge il vertice espressivo in una complessa, matura elaborazione acustica e vocale che si dispiega in quattro lunghe composizioni. Apre la pacata Hors d’oeuvres con quelle voci impossibili, sospese ed intrecciate su diversi piani mentali ; uno stato d’incoscienza virtuale, un sogno ad occhi aperti. The same old rock riporta a terra, con la chitarra solista di Jimmy Page, e affronta una maggiore varietà armonica, alternando frasi di notevole pregnanza e bellezza formale ed evoluzioni vocali d'assoluta eccellenza che ricordano i voli stellari di Tim Buckley, gli incubi spaziali di Peter Hammill, in ultima analisi l’insegnamento basilare delle stratificazioni sonore di Ligeti, sia pure rivisti in forma barocca. Le linee folk blues della chitarra di One man rock and roll band sono allungate, strascicate fino all’esasperazione del suono, nella trepidante attesa di un evento mai consumato. Me and my woman è stupenda, equilibrato esempio di suite da camera in quattro tempi con misurati ed adeguati interventi orchestrali di David Bedford, sviluppata in una sequenza di lirici frammenti folk, canzoni intime, suggestive, momenti ritmati e lucidi sprazzi strumentali. Harper è costretto ad una prolungata sosta per via di seri problemi di salute. Il ritorno sulla scena avviene nel 1973 con l’ottimo Lifemask, ancora prodotto da Peter Jenner e realizzato con l’ausilio di un cast importante di musicisti quali il solito Page, Brian Hodges (bs.), Ray Warley (fl.) e i percussionisti Tony Carr, Laurie Allen, Brian Davison (Nice), Steve Broughton (Edgar Broughton Band). La musica si assesta su strutture meno ambiziose in canzoni d’intrinseca bellezza come Highway blues, Bank of the dead, la funerea All Ireland ; l’eccezione è costituita dal poema musicale The Lord’s prayer che tradisce un assetto troppo rigido e severo, accusando qualche cedimento nell’arco della lunga esposizione. L’artista è all’apice della notorietà, tiene esibizioni live accompagnato da musicisti di fama. Nel febbraio ’74, il giorno di San Valentino, viene pubblicato il nuovo LP Valentine (Harvest) e Harper tiene un famoso concerto al Rainbow con il sostegno tra gli altri di Jimmy Page, Keith Moon e di un’orchestra diretta da David Bedford. Di non minore effetto il concerto a Hyde Park, gratuito come agli inizi ma ora l’artista è accompagnato da Dave Gilmour, John Paul Jones e Steve Broughton. Nel 1975 interpreta la parte vocale di Have a cigar sul Wish you were here dei Pink Floyd e realizza un discreto album di studio, al quale partecipano Chris Spedding (ch.) e Bill Bruford (bt.) (HQ, Harvest). L’approccio è ora decisamente elettrico, molto del fascino originario è andato perso ma Harper rimane un musicista credibile, capace di conservare dignità e sincerità nel suo modo introspettivo di fare musica. Michael Chapman è un altro folksinger sotterraneo e ingiustamente sottovalutato ; come Harper, anche Chapman fa parte della scuderia Harvest, almeno nel periodo migliore dal punto di vista creativo. I suoi Rainmaker (1969), Fully qualified survivor (1970), Window (1971) e Wrecked again (1971) spiegano abbondantemente l’onestà e le qualità del musicista. Si passa da brani per sola chitarra acustica come Rainmaker, colorata da un sano impressionismo, come lo squisito ragtime di Naked ladies and electric ragtime alle belle ballate folk di In the valley e The first leaf of autumn, sino alla schiettezza stilistica di Last lady song che richiama vaghe allusioni soul. Chapman è un valido chitarrista folk ma pure un cantante ricco di sensibilità, dotato di una voce cruda e vissuta, diretta e carica di nostalgia. In alcuni brani del secondo album appare l’elettrica di Mick Ronson : notevoli sono Kodak ghosts, Soulful lady (dal forte accento rock) e soprattutto la triste e decadente Postcards of Scarborough, valorizzata da un misurato arrangiamento di archi di Paul Buckmaster. L’intervento di Buckmaster è decisivo alla riuscita della magnifica Wrecked again, una canzone nel cui impianto folk s’innestano interventi orchestrali di stampo classico. Con Chapman collabora assiduamente fino al 1972, spesso anche dal vivo, il bassista Rick Kemp, fino a quando lo strumentista coglie l’occasione per entrare nei più fruttiferi Steeleye Span, a partire dall’album Below the salt. Nel 1973 esce Milestone grit (Deram), primo album prodotto a seguito del passaggio alla Decca, dove appare ancora Kemp e suona il batterista Keef Hartley ; Chapman può proseguire la carriera, senza particolari riscontri commerciali ma sempre con estrema lealtà. Texano di Fort Worth, Shawn Phillips può essere considerato inglese d’adozione anche se, per il carattere libero ed aperto, pare giusto definirlo un girovago cittadino del mondo. Gli inizi di carriera narrano di un folksinger in perenne movimento negli States, che si mantiene con umili lavoretti e cerca ispirazione prima nella canzone folk e poi s’innamora di Ravi Shankar, delle filosofie orientali. A metà degli anni Sessanta arriva a Londra dove, per la Columbia, pubblica i primi lavori I’m a loner (1965) e Shawn (1966) ; subito dopo, nel ruolo di chitarrista, accompagna Donovan in una serie di concerti americani. Al ritorno in Inghilterra, privo di regolare permesso di lavoro, si vede costretto a lasciare il paese per cercare rifugio in Italia, a Positano. Il primo risultato di rilievo viene colto con Contribution (A&M-1970) che riassume alcune parti di quello che sarebbe dovuto diventare un progetto ambizioso, un album triplo con musicisti della London Philarmonic Orchestra, Paul Buckmaster e i Traffic. Phillips inizia a sviluppare uno stile vocale affascinante ed originale, caratterizzato dalla grande capacità di controllo di toni e sfumature. Il modello preso a base del suo lavoro è di certo quello del Tim Buckley sperimentale di opere come Lorca, Blue Afternoon e in parte di Starsailor ; un buon esempio si rintraccia nell’affascinante L ballade, mentre sul versante della canzone folk meno ortodossa risalta l’ottima Screamer for Phlyses. Notevole, sul piano strettamente vocale, è l’influenza esercitata da Phillips nei confronti di Alan Sorrenti per la realizzazione del piccolo classico nostrano di Aria. Second contribution nel 1971 ottiene i risultati migliori con un collage sonoro di grande equilibrio formale, reso possibile da una raggiunta maturità compositiva ed interpretativa di Phillips, oltre che dall’aiuto profuso da una fitta schiera di musicisti di valore, tra i quali il tastierista Pete Robinson (Quatermass, Come To The Edge) e Paul Buckmaster, splendido esecutore al violoncello e responsabile di pregevoli arrangiamenti orchestrali. La tecnica vocale di Phillips esprime il massimo delle possibilità a livello esecutivo, sfruttando in pieno il sostegno fornito da una base strumentale d’elevata qualità. Importa rilevare la compattezza dell’insieme dell’opera, ma non si può far a meno d’applaudire l’intrinseco valore (e l’impossibile titolo) dell’iniziale She was waitin’ for her mother at the station in Torino and you know I love you baby but it’s getting to heavy to laugh, d’ammirare il suono fluido e lucido delle notevoli Song for Mr. C, Song for sagittarians, Lookin’ up lookin’ down, la meraviglia e lo stupore strumentale della Ballad of Casey Deiss, la tenue melodia folk che sconfina nel silenzio di Steel eyes. Lo stesso anno Shawn Phillips si segnala per un altro disco di pregio (Collaboration, A&M), poi la vena creativa tende ad esaurirsi, così come l’interesse nei suoi confronti. Kevin Coyne inizia la carriera nei Siren, una formazione che nel 1970 ha modo di registrare e vedere pubblicati un paio di album (Siren e Strange locomotion) per la Dandelion, l’etichetta di John Peel. Sempre per la stessa casa Coyne effettua nel 1972 l’esordio da solista, con il long playing di Case history, e subito dopo passa alla neonata Virgin dove trova notevole fiducia, tale da permettergli un’intensa e duratura attività discografica. Proprio il lavoro che inaugura il rapporto risulta uno dei più interessanti dell’intera produzione di Coyne : Marjory razor blade, in due LP verso la fine del ’73, raccoglie le principali configurazioni del suo particolare stile. Tra il rhythm & blues di Marlene (e della potente Eastbourne ladies) e il rock’n’roll di Chicken wing trovano posto canzoni prossime alla ballata folk (Talking to no-one, Chairmans ball e la pregevole House on the hill), oltre a brani come Jackie and Edna e il tradizionale I want my crown, di chiara impostazione blues. La voce è decisamente sgraziata, a volte ricorda l’approccio insofferente di Van Morrison, in altre occasioni si deforma attingendo alla scuola ‘bestiale’ di Captain Beefheart, come nella Marjory razor blade iniziale e in Karate king, pur rimanendo originale, sofferta, spesso al limite dell’insolenza (Dog latin, This is Spain, Good boy). Certo siamo lontani da improponibili accostamenti con Joe Cocker, come qualcuno ha furbescamente cercato di lasciar intendere, forse per agevolare una poco probabile carriera commerciale. - 26 John Martyn e Nick Drake, musicisti diversi tra loro ma uniti da una comune sensibilità artistica che, ciascuno a modo suo, li fa giungere alle soglie della consapevolezza. John Martyn è il più forte dei due, la personalità più spiccata, capace di governare creativamente le spinte propulsive del proprio animo e per questo estremamente efficace nell’interpretazione, duraturo nei risultati, ma pure privo della tremante, sofferente purezza poetica della musica di Nick Drake. Nativo di Glasgow, Martyn inizia come cantante folk legato alla tradizione con l’ellepì London conversation (Island-1967), e nel successivo The tumbler (Island-1968, con la partecipazione di Harold McNair) comincia ad introdurre elementi blues - jazz e a sviluppare uno stile vocale personale. Nel 1970 produce due dischi assieme alla moglie Beverly (Stormbringer e The road to ruin, sempre su Island), che preludono al momento migliore dell’artista, inaugurato da Bless the weather (Island-1971, dedicato proprio a Nick Drake). Il culmine è raggiunto nel 1973 con la pubblicazione di due lavori fondamentali, quali Solid air e Inside out. Solid air ricorda da vicino il quieto e raffinato folk acustico, intriso di blues e di jazz, di MarkAlmond, con in aggiunta una voce espressiva e coinvolgente ; su questo piano si collocano brani come la title track e Don’t want to know, mentre altri preferiscono affidarsi a nitide rimembranze folk (Over the hill) o ad esuberanze blues (The easy blues). La sperimentazione si fa strada nella rilettura di I’d rather be the devil di Skip James, resa con gran trasporto ritmico e con sonorità che si dividono tra basi acustiche ed impennate elettriche, il tutto cementato da una notevole prestazione vocale. Meno incisive, anche se interessanti, sono Dreams by the sea, The man in the station e la soffusa poesia di Go down easy. JOHN MARTYN - INSIDE OUT (Island - 1973) Registrato nel luglio 1973 con l’aiuto di musicisti del calibro di Stevie Winwood, Chris Wood (Traffic) e Danny Thompson (Pentangle), Inside out è il superbo risultato della creatività di Martyn. Fine lines mostra subito una voce profonda, appassionata e una totale padronanza sugli arrangiamenti, caratteristiche fondamentali di tutto il disco. Il traditional Eibhli ghail chiuin ni chearbhaill è un leggero alito di vento tiepido spazzato via dal brusco realismo di Ain’t no saint, che aggredisce con una vocalità insistente e con un memorabile, spasmodico trattamento di chitarra. Outside in capovolge i termini del discorso musicale di Martyn, che esce allo scoperto e fornisce la pagina più sperimentale, coniugando enfasi ritmica e lirici sprazzi armonici, echi ancestrali e prospettive di moderna sintassi in un’atipica simmetria di suoni e colori. Subito dopo, The glory of love diffida ironicamente a prendere tutto troppo sul serio. Di minore intensità la seconda parte dell’album, che offre le cose migliori nell’acida Look in e nel toccante strumentale di Beverley ; le restanti Make no mistake, Ways to cry e So much in love with you non mancano di nulla, ma neppure aggiungono particolari a quanto già enunciato. La lunga carriera musicale di Martyn regala ancora l’ottimo Sunday child (Island-1974) e, sporadicamente, qualche bagliore creativo che permette di ricordare l’illustre passato di sperimentatore folk. Quando, il 25 novembre 1974, Nick Drake si toglie la vita assumendo una dose eccessiva di un antidepressivo il mondo della musica rock resta indifferente al consumarsi dell’ennesima grande tragedia. Proprio perché di grande tragedia non si tratta, non di mito né di leggenda ma solo di un sensibile ragazzo impegnato nel disperato tentativo di comunicare con il prossimo, con la natura, con il mondo esterno che impietosamente lo respinge. Una figura fragile, un angelo di depressione e d'infinito amore. E’ Ashley Hutchings, allora bassista nei Fairport Convention, a scoprirlo nel 1968 e ad introdurlo al solito Joe Boyd, produttore di primaria grandezza in ambito folk rock. Il risultato è la pubblicazione nel 1969 di Five leaves left (Island), per la realizzazione del quale Drake s’avvale di collaboratori importanti (Richard Thompson, ch. e Danny Thompson, bs.). La musica di Drake non pare ancora completamente definita ma il disco evidenzia ugualmente le principali doti di uno stile costruito su ballate semplici e lineari, di lucente bellezza, reso appena più severo dal frequente utilizzo di arrangiamenti orchestrali di stampo classico. Tra i brani vanno segnalati Time has told me, Cello song (con il violoncello di Clare Lowther), Fruit tree e Saturday sun. La critica pare ben disposta ed accoglie positivamente l’album, che comunque non ottiene grandi risultati commerciali. Nel settembre del 1970 Drake ci riprova con convinzione ancora maggiore, dando alle stampe lo splendido Bryter layter. La disillusione e la tragedia sono lontane e Drake offre ampia dimostrazione delle potenzialità creative ed interpretative, fissando le qualità e i limiti della sua musica, perfezionando un timbro vocale caratteristico, fatto di ‘aria solida’ e colmo di passione. Si passa dalle due spigliate Hazey Jane, con i Fairport Convention (Thompson, Pegg e Mattacks), a One of these things first nel più classico stile di Drake. At the chime of a city clock e Poor boy presentano un incedere ricco di sfumature jazzate, con la presenza del sax alto di Ray Warleigh ; Poor boy contempla pure il piano di Chris McGregor e l’utilizzo di arrangiamenti gospel per i cori. Bryter layter e Sunday sono frammenti d’illuminata semplicità nei quali, riposta per un attimo l'affascinante voce, Drake traccia una serena linea melodica alla chitarra, valorizzata dal delicato fraseggio del flauto (Lyn Dobson e Ray Warleigh) e da una sezione d’archi sobriamente arrangiata da Robert Kirby. Basilare la presenza dell’ospite d’onore John Cale, che lega il proprio contributo a due delle canzoni più belle : Fly, cameristica ed appassionata, con l’ex Velvet Underground alle prese con clavicembalo e l’inseparabile viola, e Northern sky, nel tipico stile del cantautore. NICK DRAKE - PINK MOON (Island - 1972) Purtroppo la qualità di Bryter layter non è ripagata dal giusto riscontro di pubblico ; stimato da musicisti e addetti ai lavori, ma incapace di trovare il necessario rapporto con il pubblico e il music business, Drake si chiude in se stesso e il carattere fragile ed introverso gli rende problematico l’esibirsi dal vivo con continuità. Questa situazione porta l’artista ad incidere in completa solitudine il terzo album Pink moon, pubblicato nel febbraio del 1972. L’iniziale brano omonimo fa gelare il cuore, illustrando perfettamente lo stato d’animo decadente e privo di speranza di Drake che canta con voce cupa e rassegnata, accompagnandosi con un pregevole quanto inanimato suono di chitarra ed inserendo poche tristi note di pianoforte. L’intrinseca bellezza di canzoni quali Place to be, Road, Which will non modifica l’atmosfera opprimente che attanaglia il disco. Nick Drake canta la solitudine, l’impotenza, l’incapacità di comunicare al prossimo la propria arte. Horn è un breve, desolato frammento per sola chitarra che emette rintocchi funerei. Things behind the sun, capolavoro dell’album, si muove su spigliate linee da ballata folk, sembra dare segni di ripresa ma è solo apparenza, la voce di Drake raggiunge l’apice della sofferenza, l’uomo è ormai solo sotto la pioggia. La minimale Know lascia presagire poco di buono con il suo canto patito, uno spiritual proveniente da una dura terra di ghiaccio ; dopo l’interlocutoria Free ride, Parasite getta nuovamente nella costernazione, e nelle note finali di Harvest breed e di From the morning non si trova serenità, nessun messaggio positivo. Il suono della chitarra si spegne senza sussulti, quasi a volersi mettere definitivamente in disparte. La debole spinta è esaurita, il destino segnato. Ovviamente Pink moon non migliora la situazione, risolvendosi in un ennesimo fiasco commerciale, aiutato dall’aspetto triste e sconsolato della musica. E’ in ogni caso un lavoro carico d'eccezionale umanità, sotto quest’aspetto simile ai grandi capolavori incompresi di un altro illustre disperato del rock, Tim Buckley. Ars Longa Vita Brevis - 1 la musica della casa delle bambole - 27 Uno dei sicuri meriti, fra i tanti, che deve essere ascritto ai Beatles è quello dell’introduzione nella musica rock di tematiche proprie alla tradizione culturale classica. L’uso che il quartetto di Liverpool fa di strumenti, arrangiamenti e orchestrazioni derivanti dalla musica classica contagia ben presto il panorama del beat e persino quello del blues revival, tanto che in certe canzoni dei Rolling Stones e degli Yardbirds, per portare un paio d’esempi, accanto alla chitarra elettrica e alla batteria compare l’austero clavicembalo. L’allargarsi del fenomeno, dovuto al successo di brani pionieristici (come A whiter shade of pale dei Procol Harum), e l’avvento nei gruppi rock di numerosi studenti provenienti dalle scuole d’arte e dal conservatorio sono alla base della nascita del cosiddetto rock romantico sinfonico, che tanta fortuna commerciale riscuote nei primi anni Settanta. Non tutte le formazioni che solcano il mare in fermento del rock progressivo inglese decidono di affidarsi al suono neoclassico. Alcune preferiscono confrontarsi in modo diretto, anche se con diverse prospettive rispetto al passato, con i vecchi e sempre validi idiomi del folk, del blues e del jazz. Tra queste i Traffic di Stevie Winwood, che all’inizio del 1970, dopo lo scioglimento dei Blind Faith e la parentesi con gli Airforce di Ginger Baker, ricostituisce il gruppo tornando a collaborare con Chris Wood e Jim Capaldi. Di nuovo insieme in studio per registrare le canzoni di un album solistico di Winwood, dal titolo provvisorio di Mad shadows, i tre musicisti decidono di concentrare gli sforzi per un nuovo lavoro a sigla Traffic. TRAFFIC - JOHN BARLEYCORN MUST DIE (Island - 1970) John Barleycorn must die viene pubblicato nell’aprile del ’70 e consente ai Traffic di riguadagnare rapidamente la popolarità d’inizio carriera, tanto da diventare il primo disco d’oro del gruppo. La musica è notevolmente cambiata rispetto ai lavori degli anni Sessanta ; non c’è traccia di psichedelia, oramai fuori moda, e il suono si fa professionale e concreto, sicuramente ancora in grado di generare forti emozioni. La prima facciata dell’album è da antologia. L’apertura è affidata al fluire della strumentale Glad, condotta a buon ritmo dal piano di Winwood e dal sax di Wood ; nella parte conclusiva il brano si risolve in pacate armonizzazioni che si dissolvono nella seguente Freedom rider, introdotta da un suadente sax. Torna l’inconfondibile voce di Winwood, Wood soffia nel flauto con il consueto buon gusto e Capaldi fornisce l’asciutto, indispensabile sostegno ritmico. La bellissima Empty pages è un rhythm & blues di tempo medio basato su un grande suono d’organo (si esibisce allo strumento anche Wood), interpretata dalla melodica voce di Winwood che pure è autore di un bell’intermezzo al piano. Su Stranger to himself Winwood suona tutti gli strumenti, aiutato da Capaldi alle armonie vocali, e lo stesso accade in Every mothers son, con Capaldi alla batteria. John Barleycorn è una delicata canzone folk arrangiata da Winwood, con una bella prestazione di Wood al flauto. Winwood amplia la base della formazione accogliendo il bassista Ric Grech (proveniente dai Family, già con il leader nei Blind Faith e negli Airforce) ; poco dopo è la volta del percussionista africano ‘Reebop’ Kwaku Baah e del batterista americano Jim Gordon (ex Derek & the Dominos), che rinforzano la sezione ritmica permettendo a Capaldi di dedicarsi con maggior attenzione alle parti vocali. Alla nuova edizione dei Traffic s’aggrega anche il vecchio compagno Dave Mason e la temporanea riunione frutta un album dal vivo, Welcome to the Canteen (Island-1971), attribuito ai vari singoli musicisti. Il disco, registrato a Croydon e a Londra nel luglio ’71, è discreto pur non presentando particolari motivi d’interesse ; si tratta sostanzialmente di un’antologia live, con buone (a volte non esaltanti) versioni di classici quali Medicated goo, 40000 headmen, Dear mr. Fantasy, Gimme some lovin’ e con l’accattivante Shouldn’t have took more than you gave apportata da Mason. Sempre nel 1971, con lo stesso organico (senza Mason), i Traffic realizzano il nuovo album di studio The low spark of high heeled boys (Island), un buon disco anche se nettamente inferiore a John Barleycorn. La musica presenta tessiture ritmiche frastagliate e complesse, evolve in lunghe parti strumentali senza per questo perdere in immediatezza, anzi risultando più facilmente fruibile nell’ambito di canzoni quali la title track, Light up or leave me alone, Rainmaker ; le pagine migliori sono la raffinata Hidden treasure e l’appassionata ballata di Many a mile to freedom. Grech e Gordon abbandonano il gruppo e vengono sostituiti da due musicisti americani del giro dei Muscle Shoals Studios, il bassista David Hood e il batterista Roger Hawkins. Shoot out at the fantasy factory (Island febbraio 1973) enfatizza il nuovo corso musicale dei Traffic, proponendo un piacevole e leggero soul rock ; Winwood ammette candidamente in musica di attraversare momenti di scarsa ispirazione creativa...Sometimes I feel so uninspired. Con l’organico ulteriormente allargato dalle tastiere di Barry Beckett, anche lui sessionman ai Muscle Shoals, il gruppo intraprende un tour mondiale. Dai concerti tedeschi sono ricavati i nastri per un doppio LP (On the road, Island-1973), che rivisita il repertorio dei dischi degli anni Settanta con buoni risultati. Alla fine del ’73 i tre strumentisti americani e ‘Reebop’ sono congedati e i Traffic tornano al classico triangolo d’inizio decennio ; per affrontare una serie di concerti inglesi nel ’74 il gruppo s’avvale delle prestazioni del bassista Rosko Gee e così organizzato pubblica l’ultimo When the eagle flies (Island-1974), prima di sciogliersi alla fine dell’anno. Winwood e compagni dimostrano di poter ancora produrre musica dignitosa, il suono riacquista parte della scarna semplicità espressiva di qualche anno prima e canzoni come Dream Gerrard e When the eagle flies meritano di suggellare la gloriosa carriera dei Traffic. Capaldi si dedica all’attività solistica pubblicando numerosi dischi, così come Winwood che negli anni Ottanta ottiene gran successo proponendo una musica piuttosto facile, dopo il fallimento dell’ennesimo supergruppo dei Go, con Stomu Yamash’ta, Klaus Schulze e Michael Shrieve. Dopo vent’anni Winwood e Capaldi si ritrovano con il vecchio marchio per un album (Far from home) e la partecipazione alla discutibile festa di Woodstock ’94. Purtroppo, non è della partita Chris Wood, morto nel luglio1983 ; l’agile fraseggio del sassofono, il magico respiro del suo flauto sono emozioni che rimangono, per sempre. Gruppo di fondamentale importanza per lo sviluppo della musica progressiva inglese, ingiustamente relegato ai margini della vasta notorietà, i Family nascono nel 1966 dalle ceneri dei Roaring Sixties (un singolo nel ’66), a loro volta derivati dai Farinas (attivi tra il ’62 e il ’64). Il gruppo si compone del cantante Roger Chapman, del chitarrista Charlie Whitney, del bassista / violinista Ric Grech, del fiatista Jim King e del batterista Rob Townsend ed inizia ad esibirsi nel circuito underground, arrivando all’incisione con il singolo Scene through the eye of a lens nell’estate del 1967. Dopo aver firmato un contratto con la Reprise, i Family giungono alla prova sulla lunga durata con Music in a doll’s house (Reprise-1968) ; l’influenza principale è certamente quella dei Traffic e non è un caso che la produzione del long playing sia affidata a Dave Mason. Il gruppo riesce comunque ad imprimere, sia pure in modo caotico e privo della futura potenza espressiva, alcuni spunti personali di notevole rilievo che preparano il terreno per audaci ed innovative sintesi sonore. La sequenza The chase / Mellowing grey sorprende per gli arrangiamenti originali e in particolare la seconda è imbevuta di classicismo fino al midollo, anticipando atmosfere care ai primi King Crimson. Il contrasto tra la musica aggraziata e la voce di Chapman, incredibilmente forte e priva di pudore, contribuisce ad accrescere la drammaticità e il fascino della canzone. Mason offre un contributo compositivo con Never like this e nell’insieme piacciono Be my friend, Winter, il rock blues con interventi corali a cappella di Old songs new songs, Peace of mind e la strana, rumorista Voyage, nelle quali il mellotron e l’intraprendente violino di Grech affermano concetti poco usuali. FAMILY - FAMILY ENTERTAINMENT (Reprise - 1969) Se Music in a doll’s house abbozza in ordine sparso gli elementi di un nuovo approccio stilistico, Family Entertainment è in grado di raccogliere i primi significativi risultati. Le fonti d’ispirazione della musica del gruppo sono innumerevoli (rock, folk, jazz, classica e qualsiasi d’altro) ma miracolosamente non s’assiste ad un forzato ed accademico esercizio d'accostamento fra generi, bensì al riuscito tentativo di creazione di un rock sfaccettato, dai molteplici interessi. Chapman inizia a stabilire con chiarezza il tipico stile dei Family, a cominciare dall’indimenticabile The weaver’s answer, uno dei brani più belli di tutto il ‘progressive’ inglese. L’introduzione è dolcissima, una tenue melodia folk sottolineata dal violino ed interpretata dalla stupenda voce del cantante. Subito la canzone acquista peso, con un incedere ritmico che si fa ossessivo senza bisogno di elettrificare in eccesso il suono ; i fiati di King sibilano, Chapman supera ogni barriera, apre squarci vibranti d’emozione al limite delle possibilità fisiche. Alla fine tutto si quieta, come per incanto torna il tono iniziale. Observations from a hill è più di maniera ma ugualmente di notevole interesse, per quel suo mescolare la brillante melodia folk con un violino prossimo a modi classici. Chapman è di nuovo incontenibile nell’originalissima Hung up down ; impossibile catalogare questa musica che trae le radici dal folk pur essendone lontana nella forma, che associa senza problemi fiati di colorazione jazz, violini e corpose orchestrazioni classiche, che non cede nemmeno all’impeto rock blues nonostante la presenza di un interprete vocale potente e rabbioso. E chissà da quali meandri proviene l’idea di Whitney per l’arrangiamento d’archi di Summer ’67, in bilico con un indefinito sapore orientale. Ric Grech è responsabile dell’ottima How-HiThe-Li che ricorda il metodo di scrittura di Jack Bruce : un’identità rock con il sapore del jazz e del folk. La seconda facciata si apre con la chitarra libera di indurire il suono e lasciar partire il rock’n’roll di Second generation woman (un’altra composizione di Grech) ; From past archives possiede un impianto classico e nostalgico che all’improvviso si schiude in estemporanee visuali jazz, mentre Dim si lascia suggestionare da modi country. Processions (scritta dal solo Whitney) è bellissima nel suo incedere decadente e pieno di fascino, mirabilmente sostenuta dalle chitarre di Whitney e dalla stupenda interpretazione di Chapman ; in successione un altro notevole brano di Grech, Face in the cloud, con sitar e ambientazione classica, nel quale si vanno a spegnere gli ultimi bagliori psichedelici. La conclusione è affidata ad Emotions che recupera ritmo e voce da orco, con le solite inconsuete elaborazioni armoniche all’interno di un contesto solo in apparenza convenzionale. Un disco d’elevato livello qualitativo e, una volta tanto, stupisce positivamente il sesto posto in classifica. All’inizio del 1969, nel bel mezzo di un tour USA, Grech abbandona i Family per entrare nei Blind Faith ; il suo posto è preso da John Weider, ex membro dei New Animals. Verso la fine dell’anno lascia anche King, sostituito da John ‘Poli’ Palmer (dai Deep Feeling) che apporta vibrafono, tastiere e flauto. Il nuovo quintetto nel 1970 realizza A song for me, un lavoro ancora più radicale del precedente, senza curare minimamente l’aspetto commerciale della proposta musicale. Drowned in wine è priva di compromessi, audace convergenza di riff hard, tre / quarti improbabili, arpeggi folk, spunti jazzati, con la voce che non fatica a ritagliarsi lo spazio necessario all’interno di un arrangiamento caotico ma godibile. Diverse sono le canzoni di notevole bellezza, come la pacata Some poor soul, la strumentale 93’s ok J e Song for sinking lovers, con il violino di Weider. Tra i solchi affiora qualche rudezza in più del solito, che si nota nelle insinuanti linee di chitarra di Love is a sleeper e soprattutto nel giro semplice e micidiale di A song for me. La produzione dei Family rimane ad altissimo livello con un altro album pubblicato nel ’70, sempre per la Reprise. Anyway... ha il pregio di mostrare le indiscutibili doti del gruppo dal vivo, proponendo sul primo lato una breve selezione di quattro brani registrati durante un concerto alla Fairfields Hall di Londra. La dimensione live conferma la vitalità e la grinta dei Family : Good news - bad news è esaltante e durissima, con qualche spunto ricercato (l’assolo centrale di vibrafono) e chi pensava che la voce di Chapman fosse un’invenzione di studio è destinato a ricredersi ; Strange band raggiunge i confini estremi della forza espressiva, la voce è spinta ai limiti della dissonanza, l’approccio è selvaggio, appena mediato da violino, vibrafono e qualche apertura melodica. La seconda parte registrata in studio guadagna la piena maturità, i suoni sono intensi e curati, difficile pretendere qualcosa di meglio. La poliedrica Part of the load è una sorta di moderno R & B, pregevoli sono la ballata di Anyway e lo strumentale di Normans, con violino e piano in evidenza. Infine la stupenda Lives and ladies che apre la strada alla fortunata progenie della ballata rock epico - romantica, filone imprescindibile per le fortune commerciali di formazioni quali Genesis e simili. Nell’agosto del ’70 i Family sono nel cast del festival di Wight e poco dopo John Weider lascia il gruppo, sostituito dal bassista dei Mogul Thrash, John Wetton. Fearless (nel 1971) segna un nuovo vertice nella discografia del gruppo. Between blue and me, lo stile si collega alla parte di studio di Anyway..., dominato dalle chitarre di Whitney e dalla voce di Chapman. Si nota l’assenza del violino di Grech e di Weider, ma non viene a mancare la varietà timbrica tipica della musica del gruppo. Tra i brani, estremamente livellati, risaltano i raffinati Spanish tide, Burning bridges, la solida e moderna Take your partners. Fearless è il limite invalicabile della proposta dei Family, riassunto creativo e fantasioso delle puntate precedenti che possiede il merito di evitare noia e cadute di tono. Cosa che purtroppo non riesce al successivo Bandstand (Reprise-1972) che, in ogni caso, appare disco dignitoso con qualche canzone particolarmente brillante (My friend the sun, Top of the hill, Burlesque). Una cosa è certa : la vena creativa di Chapman e soci è in decisa fase calante, ma questo non comporta svendite e facili liquidazioni, la caduta nel banale. Il gruppo resta fiero ed eretto, senza colpe delle quali vergognarsi, fino all’ultimo It’s only a movie del 1973. Dei Family non fanno più parte ‘Poli’ Palmer e Wetton (approdato alla corte dei King Crimson), mentre danno il loro contributo il tastierista Tony Ashton (già con Gardner & Dyke) e il chitarrista (per l’occasione bassista) Jim Cregan, ex Blossom Toes e Stud. It’s only a movie è di certo il disco meno brillante ed interessante dei Family, con ben poca carne da mettere al fuoco (parzialmente ci si può accontentare delle sufficienti Buffer tea for two e Boom bang). Lo scioglimento del gruppo, nell’ottobre del 1973, non sorprende eccessivamente anche se i Family ottengono consensi trionfali proprio in occasione del tour inglese di addio, culminato in un concerto al Rainbow. All’inizio del ’74 Chapman e Whitney formano gli Streetwalkers, che pubblicano cinque discreti LP prima di naufragare nel 1977 ; negli anni Ottanta il cantante si dedica alla carriera solistica realizzando una fitta serie di album, a volte con apprezzabili risultati artistici. Da parte sua Whitney forma gli Axis Point : con lui sono Rob Townsend (che nel ’74 suona con i Medicine Head) e altri due veterani quali Eddie Hardin (Spencer Davis Group, Hardin & York) e Charlie McCracken (Taste, Stud). Le origini storiche dei Jethro Tull, uno dei gruppi più longevi di tutto il rock inglese, risalgono alla metà degli anni Sessanta e a piccole formazioni della zona di Blackpool, quali Blades e John Evan Band. Nel 1967 Ian Anderson e Glenn Cornick sono nella John Evan’s Smash mentre Mick Abrahams e Clive Bunker suonano nei McGregor’s Engine, provenienti da Luton. Dall’unione dei quattro musicisti, nel novembre 1967, inizia l’avventura dei Jethro Tull che nel febbraio del ’68 esordiscono con il timido 45 giri di Sunshine day / Aeroplane. Il gruppo suona spesso al Marquee e in occasione del festival di Sunbury effettua una riuscita esibizione che contribuisce ad aumentare la considerazione in terra inglese. Nell’ottobre del 1968 esce il primo album This was (Island), accompagnato dal singolo A song for Jeffrey. Il disco mostra in modo esauriente lo stile dei primi Jethro Tull, improntato ad un entusiasta rock blues nel quale si trova a perfetto agio la chitarra di Abrahams, grintosa ed ineccepibile sotto l’aspetto tecnico. Meno impeccabile risulta l’approccio al flauto da parte di Anderson, con uno stile ancora approssimativo, mutuato dal jazzista Roland Kirk ; il suono dello strumento caratterizza però in modo deciso il timbro della musica del gruppo, Anderson è un front man spettacolare in grado di coinvolgere il pubblico dei concerti e inoltre dispone di una bella voce immediatamente riconoscibile. La sezione ritmica è solida e precisa, anche inventiva dal momento che Glenn Cornick è un bassista piuttosto fantasioso e Clive Bunker si dimostra batterista capace di andare oltre ad un oscuro lavoro di accompagnamento. L’atmosfera del disco è frizzante e brani come My Sunday feeling, Beggar’s farm, It’s breaking me up, l’incontenibile Cat’s squirrel sono ben congegnati ed eseguiti con passione e freschezza. Indubbiamente originale appare A song for Jeffrey, dedicata da Anderson al vecchio compagno Jeffrey Hammond Hammond, bassista nei Blades e nella John Evan Band (buono anche One for John Gee, retro del singolo, uno strumentale jazz blues a ringraziamento del manager del Marquee che fu il primo a credere nelle possibilità dei Jethro Tull). Serenade to a cuckoo è la ripresa di un classico di Roland Kirk, mentre la serrata Dharma for one offre a Bunker la possibilità di mettere in luce le proprie doti con un assolo conciso e pirotecnico, che vanta il merito di riuscire a non annoiare. I contrasti tra Anderson e Abrahams, sulla direzione musicale da seguire e riguardo alla leadership interna del complesso, si fanno sempre più netti e quando, nel dicembre del ’68, viene dato alle stampe il nuovo singolo Love story / Christmas song il chitarrista ha già abbandonato per dedicarsi ai Blodwyn Pig. Per il posto vacante vengono contattati diversi musicisti tra i quali Dave O’List (dei Nice) e soprattutto Tony Iommi ; quest’ultimo rimane per pochi giorni con il gruppo di Anderson, tanto quanto basta per capire che non è quella la sua strada. Iommi torna ai suoi progetti e dopo qualche mese dà vita ai Black Sabbath. Alla fine la scelta cade su Martin Barre, uno strumentista di ottima qualità e (guarda caso) in piena sintonia con le esigenze stilistiche di Ian Anderson ; Barre diviene il fedele scudiero del leader, ancora oggi al suo fianco. La prima incisione pubblicata dal rinnovato quartetto è Living in the past (maggio ’69), un brano melodico contraddistinto da un gradevole e misurato arrangiamento orchestrale. Dopo un paio di mesi è la volta di Stand up, manifesto del nuovo corso musicale intrapreso dai Jethro Tull che da questo momento, sotto la spinta determinante del padre padrone Anderson, preferiscono attingere a matrici folk, con canzoni di ampio respiro melodico notevolmente irrobustite dalle sferzate hard della chitarra e segnate dalla presenza sempre più insistita del flauto. Il blues rimane come influenza marginale, qualcosa si può ancora scorgere nella tirata struttura di A new day yesterday. A tratti emerge un gustoso e caratteristico suono elettroacustico nelle piacevoli Jeffrey goes to Leicester Square, Look into the sun, Fat man, così come nella celebre rivisitazione di Bach (Bourée) fornita in chiave jazz rock. Capolavoro in ambito acustico è Reasons for waiting, mirabilmente in equilibrio tra squisita canzone dal sapore folk ed arrangiamenti orchestrali che ricordano l’esperienza di Living in the past. We used to know è una convincente ballata che da un inizio acustico sale progressivamente di tono, grazie agli interventi della chitarra di Barre. Decisivi per l’economia complessiva del lavoro sono i brani legati ad un’esposizione grintosa, ai limiti dell’hard rock. L’egregia Back to the family s’avvale di una base melodica di stampo folk ed è scossa da potenti soluzioni elettriche, ben lontane dal soffocare l’apparato narrativo della canzone. Notevole anche Nothing is easy, imperniata su una struttura ritmica circolare che ricorda l’Experience, stacchi e sospensioni eccitanti e una buona prestazione di Lancelot Barre. Efficace la conclusiva For a thousand mothers, marcata da un originale incedere ritmico. Mick Abrahams è presto dimenticato, bene o male che sia. In ogni caso, da ora in avanti, questi sono i Jethro Tull di Ian Anderson. Con la popolarità in netta ascesa il gruppo effettua un paio di tour negli Stati Uniti, riscuotendo buon successo ; del resto la creatività di Anderson è all’apice della forma, come dimostrano gli ottimi singoli di Sweet dream (ottobre ’69), di The witches promise (gennaio ’70), stupenda, con la gentile melodia e un turbinio di flauti, e soprattutto come lascia intendere la pubblicazione dell’album Benefit (aprile ’70), punto più alto raggiunto dai Jethro Tull nella prima parte della carriera. Al disco collabora in modo sistematico (per il momento come membro esterno) il vecchio amico John Evan, che introduce piano e organo. L’iniziale With you there to help me, marcata da un flauto spettrale, sviluppa sonorità dure, a tratti sorrette da ritmi convulsi. La musica del gruppo pare orientata ad una marcata rudezza espressiva, mitigata dalla vena compositiva di Anderson e dal lavoro alle tastiere di Evan. To cry you a song è hard in continua evoluzione, capace di guardare oltre l’angusto recinto del riff implacabile grazie alla duttilità della chitarra e all’elasticità dell’impronta ritmica. Piace pure Play in time, anche se il brano non brilla per eccessiva originalità ; piuttosto inconsueta è invece Son, che presenta un’elaborazione singolare senza convincere in pieno. Non mancano canzoni di gran presa melodica come la bellissima e poetica Nothing to say, la romantica For Michael Collins, Jeffrey and me, la ballata di Sossity ; you’re a woman. Inside (pubblicata anche a 45 giri) e A time for everything ? sono caratterizzate dal flauto di Anderson e da una notevole duttilità strumentale, mentre Alive and well and living in (retro del singolo) possiede un suono raffinato con l’importante contributo di Evan al piano. Subito dopo la pubblicazione di Benefit John Evan entra come quinto elemento stabile e il gruppo si esibisce al festival di Wight, ma alla fine del 1970 il bassista Glenn Cornick abbandona i compagni per fondare i Wild Turkey, con i quali incide due LP (sarà poi nei Kathargo e nei Paris, con l’ex Fleetwood Mac Robert Welch). Con l’ingresso del tante volte citato Jeffrey Hammond Hammond i Jethro Tull sono pronti per affrontare il grande successo anche negli Stati Uniti, che giunge puntuale per merito di Aqualung. JETHRO TULL - AQUALUNG (Chrysalis - 1971) Pubblicato nel marzo del 1971, Aqualung è una sorta di album concept incentrato sul tema della religione. Alla ricerca di un vasto riscontro di vendite negli USA, Anderson predispone un lavoro nel quale prevalgono gli estremi dei concetti sonori sviluppati dal gruppo sino a quel momento. Sotto l’aspetto più prossimo al rock duro i Jethro Tull realizzano tre brani tra i più importanti di tutta la loro produzione. Aqualung s’affida ad un giro micidiale di chitarra e ai modi della ballata folk, con chitarra acustica e una lontana, nostalgica voce narratrice ; come sempre alla base esiste una forte componente melodica in grado di donare equilibrio e gradevolezza all’insieme. Cross-eyed Mary, introdotta da flauto e mellotron, evolve in un rhythm & blues moderno e personale, schematizzato da una quadrata sezione ritmica. My God sorge magnifica su un’audace architettura gotica, in continua trasformazione tra suoni acustici, durissime linee di chitarra ed incontenibili assoli di flauto. In alternativa a questi suoni spigolosi Anderson pone alcune ballate d’impronta folk, per lo più esili, delicate e di breve durata quali Cheap day return, Mother goose, Wond’ring aloud, Slipstream. In mezzo alle due tendenze alcuni episodi di minore interesse (le discrete Hymn 43, Wind up, Up to me) e la bella Locomotive breath, destinata a diventare un classico nello sconfinato repertorio del gruppo per via del coinvolgente incedere ritmico. Aqualung raccoglie le ultime prestazioni dell’ottimo Clive Bunker, che in maggio lascia i Jethro Tull per formare i Jude con Robin Trower (chitarrista dei Procol Harum), James Dewar (bassista degli Stone the Crows) e il cantante Frankie Miller. Si tratta però di una sistemazione poco durevole : la formazione si dimostra torrenziale dal vivo ma non riesce a trovare un contratto discografico e in breve tempo si dissolve. Bunker proverà poi, sempre senza fortuna, con gli Aviator e con l’infruttuoso tentativo di riunione dei Blodwyn Pig. Il sostituto è Barriemore Barlow, anch’egli ex Blades e John Evan Band. Il nuovo LP Thick as a brick (febbraio 1972) non fatica a raggiungere un gran successo di vendita, ma vede la critica divisa sulla valutazione dell’opera che porta Anderson al raggiungimento della forma espressiva della suite. Sono lontani i tempi dell’euforia rock blues di This was, del pregevole hard folk degli album successivi. Distante dal vuoto estetismo di cui è stato spesso accusato, Thick as a brick presenta un collage ben organizzato di temi, melodie vagamente folk, improvvisi stacchi hard, ‘reprise’ e cambiamenti di ritmo tenuti insieme dalla sicura voce di Anderson. I Jethro Tull esibiscono le note capacità strumentali, dalla ritmica potente ed esuberante al lucido suono delle tastiere (organo in particolare) ; un po’ in secondo piano la chitarra elettrica, dopo le possenti parti su Aqualung. Sempre nel ’72 il gruppo pubblica il doppio Living in the past, che raccoglie numerosi brani tratti da 45 giri e mai inseriti nei precedenti album ; nel disco sono presenti anche le cinque canzoni che costituiscono il maxi singolo edito nell’estate del 1971, tra le quali spiccano le gradevoli Life is a long song e Up the ‘pool. Inoltre una facciata dell’album è interamente dedicata ad un interessante estratto di un concerto alla Carnegie Hall. Bisogna attendere fino al luglio del 1973 per la presentazione del nuovo A passion play (Chrysalis-1973) e il risultato non convince pienamente. Stroncato dalla critica l’album, che si compone di un’unica lunga suite, in effetti appare eccessivamente pretenzioso e a tratti disorganico, notevolmente appesantito nelle parti strumentali. I Jethro Tull continuano imperterriti a realizzare dischi, nonostante i tempi migliori siano ormai tramontati, ottenendo risultati a volte degni di menzione (Minstrel in the gallery, Chrysalis-1975 / Songs from the wood, Chrysalis-1977) e ancora oggi insistono, incuranti delle mode e degli anni che pesano sulle spalle. Ars Longa Vita Brevis - 2 la musica della casa delle bambole - 28 Verso la metà degli anni Sessanta, il tastierista Keith Emerson e il bassista Lee Jackson suonano in un complesso chiamato Gary Farr & the T. Bones. Dopo una breve parentesi nel 1966 con i V.I.P. (formazione che annovera diversi musicisti che poi saranno negli Spooky Tooth) Emerson si ritrova con Jackson nei Nice, con la partecipazione del chitarrista David O’List e del batterista Brian Davison. Inizialmente il gruppo accompagna le prestazioni della cantante P.P. Arnold, una delle Ikettes di Ike and Tina Turner in cerca di successo solista, ma ben presto (nell’ottobre del ’67) decide di proseguire autonomamente ottenendo risultati di rilievo. NICE - THE THOUGHTS OF EMERLIST DAVJACK (Immediate - 1968) A seguito di una fortunata partecipazione al festival di Windsor il gruppo firma per la Immediate e pubblica l’album The thoughts of emerlist davjack, nel maggio del 1968. Spinti da Emerson, musicista di predisposizione classica, i Nice sperimentano una musica che porta alle estreme conseguenze le forme neoclassiche introdotte nel rock dai Beatles, mettendo in risalto la posizione preminentemente solistica dell’organo rispetto alla chitarra (pure presente con esiti qualitativi) e gettando un ponte decisivo verso le forme di rock classico - sinfonico dei primi anni Settanta. Le regole del gioco sono fissate in brani di notevole impatto quali Flower king of flies, War and peace e Rondo : in particolare quest’ultimo brano riveste importanza fondamentale per lo sviluppo di certo rock a forte caratterizzazione classica, basato su una fluida e mai verbosa esercitazione all’organo di Emerson disturbata dalla chitarra del guastatore O’List e sostenuta da un’estrosa sezione ritmica. Proprio il suono della chitarra di O’List, incentrato sul rumore e sul timbro (sulle orme di Barrett), contribuisce a definire in modo originale i tratti della musica dei Nice. Possono così prendere forma impegnativi affreschi d’ispirazione psichedelica, quali l’eterea The cry of Eugene, pervasa dall’acido timbro della chitarra che culmina in vortici allucinati, e l’ottima Dawn, resa affascinante dal gioco di chiaroscuri messo in opera da tastiere e chitarra. Il disco è completato dalla title track, una spiritata canzoncina dalle atmosfere barocche e dal sapore vagamente psichedelico, e dalle meno intraprendenti (ma non per questo di poco interesse) Bonnie K e Tantalising Maggie. David O’List abbandona i Nice subito dopo. Nella sua sfortunata carriera perde varie buone occasioni, alla fine del ’68 quando va in prova con i Jethro Tull (che per sostituire Mick Abrahams scelgono poi Martin Barre) e nel 1971 con i neonati Roxy Music, dove viene rapidamente avvicendato da Phil Manzanera. Dal vivo il gruppo si fa largo offrendo esibizioni oltraggiose, che colpiscono le fantasie del pubblico ; pezzo forte dei concerti è la rivisitazione di America, tema tratto dalla commedia musicale West side story di Leonard Bernstein che lo stesso compositore sconfessa nell’interpretazione dei Nice, ritenuta offensiva. Leggendaria resta l’esecuzione del brano in occasione di un concerto alla Royal Albert Hall, con tanto di rogo della bandiera americana ; ovviamente l’impresa frutta al gruppo l’espulsione permanente dalla celebre sala concertistica. Dopo la pubblicazione su singolo di America, nel luglio del ’68, i Nice ridotti a trio producono il nuovo album Ars Longa Vita Brevis, che contiene un adattamento della Carelia suite di Jean Sibelius e insegue un’ambiziosa via espressiva nella suite che titola il disco. L’assenza dell’imprevedibile e sfuggente chitarra di O’List rende la musica dei Nice meno fantasiosa, decisamente tecnica e densa di riferimenti alla cultura classica ; nella suite di Ars Longa Vita Brevis appaiono un’orchestra sinfonica e una citazione dai Concerti Brandeburghesi di Bach, ma lo stile del gruppo (dominato dalle tastiere di Emerson) risulta ancora fresco e piacevole, lontano dal freddo conformismo che attanaglierà i Nice stessi e buona parte del rock sinfonico negli anni Settanta. Il terzo LP Nice (settembre ’69) chiude la stagione migliore della formazione. Sul primo lato, registrato in studio, trovano posto buone canzoni progressive come Azrael revisited (dove viene citato il compositore russo Serghei Rakhmaninov), la fluida For example e un'ispirata versione della Hang on to a dream di Tim Hardin. La seconda parte, dal vivo al Fillmore East di New York, presenta una brillante esecuzione della classica Rondo e una libera interpretazione di She belongs to me di Bob Dylan. Già alla fine del 1969 Emerson è intento ad organizzare, con Greg Lake dei King Crimson, un supergruppo triangolare che esordirà nell’agosto del ’70 al festival dell’isola di Wight. Per contro la musica dei Nice si fa di minor interesse, come dimostrano la non esaltante prova di Five bridges (Philips-1970) e l’ultimo Elegy (Philips-1971), che esce postumo in seguito allo scioglimento del gruppo. Il dopo Nice vede Lee Jackson formare i Jackson Heights che nel 1970 si disimpegnano positivamente con King progress (Charisma), album gradevole dalle raffinate sonorità elettroacustiche. La formazione pubblica altri tre LP prima di sciogliersi nel 1973. Buona anche la fugace esperienza di Brian Davison con gli Every Which Way, dove è presente l’ex Skip Bifferty Graham Bell ; il gruppo riesce ad incidere un solo album omonimo nel 1970, pubblicato dall’etichetta Charisma. Nell’agosto del 1973 Davison e Jackson tornano insieme per fondare i Refugee, con il tastierista svizzero Patrick Moraz (presente nell’ultima edizione dei Jackson Heights). Ispirati chiaramente dai Nice sin dall’assetto triangolare della formazione, i Refugee fanno giusto in tempo a realizzare un long playing dal titolo omonimo (Charisma-1974) prima che Moraz entri negli Yes, come sostituto di Rick Wakeman all’epoca di Relayer. Procol Harum e Moody Blues sono tra le prime formazioni ad elaborare una musica di evidente impostazione classico - sinfonica, ottenendo notevoli consensi commerciali a fronte di un rock melodico dai toni esili, che spesso stenta a trovare contenuti efficaci. La carriera dei Procol Harum registra un fondamentale, imprescindibile punto di riferimento nella pubblicazione del primo singolo, quella A whiter shade of pale che nel maggio 1967 vola al comando della classifica inglese vendendo mezzo milione di copie in tre sole settimane. Il brano costituisce uno degli esempi embrionali del cosiddetto ‘art rock’, ispirato all’Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach e con un latente gusto soul che rende la canzone un classico per le sale da ballo dell’epoca (in Italia famosa la versione dei Dik Dik : Senza luce). Gli unici membri dei Procol Harum che partecipano a quella storica incisione sono il tastierista Matthew Fisher (sue le maestose linee d’organo che caratterizzano il pezzo) e il cantante Gary Brooker. Gli altri componenti (Dave Knights, Ray Royer e Bobby Harrison) nell’occasione sono sostituiti da alcuni sessionmen, e pare che proprio per questo motivo Royer e Harrison decidono di abbandonare la formazione (l’ultimo fonda i Freedom). I due lasciano il posto al chitarrista Robin Trower e al batterista B.J. Wilson, entrambi compagni di Brooker nei Paramounts, un complesso di R & B attivo tra il ’62 e il ’66. I Procol Harum insistono sulla stessa falsariga con il nuovo 45 giri Homburg (ennesima traduzione in Italia per i Camaleonti, L’ora dell’amore) e alla fine del 1967 incidono il materiale del primo album omonimo, che comprende anche la celebre A whiter shade of pale. Il disco appare piuttosto timido e fragile, nonostante la presenza di alcune canzoni dall’accattivante linea melodica (A Christmas camel, She wandered through the garden fence) e di concise soluzioni soul rock (Certes e la bella Kaleidoscope). Il long playing e quelli immediatamente successivi, Shine on brightly (Regal Zonophone-1968) e A salty dog (Regal Zonophone-1969), ottengono gran successo negli Stati Uniti e confermano i limiti espressivi del gruppo : accanto a buone canzoni, come la sinfonica A salty dog, che comunque non vanno oltre l’impianto melodico sul quale sono costruite, i Procol Harum si lasciano prendere la mano da eccessive ambizioni (la lunga, artificiosa In held twas in I) risultando dispersivi e poco credibili. Nel ’69 Fisher e Knights lasciano il gruppo e con l’ingresso di Chris Copping in pratica si ricostituisce la vecchia formazione dei Paramounts ; nel 1970 esce Home, sempre per la Regal Zonophone, e si registra l’esibizione al festival dell’isola di Wight. Robin Trower, chitarrista focoso ed innamorato del rock blues più vigoroso, presto si stanca delle atmosfere melodiche e classicheggianti dei Procol Harum e nel luglio del 1971 abbandona il gruppo per formare i Jude, con Clive Bunker (Jethro Tull), James Dewar (Stone the Crows) e il cantante Frankie Miller. I Jude hanno vita breve, nonostante dimostrino dal vivo di possedere notevoli capacità esecutive con la proposta di un rock blues ad alta temperatura. La scelta definitiva del chitarrista è per una propria formazione triangolare (ancora Dewar, oltre al batterista Reg Isadore, poi sostituito da Bill Lordan di Sly & the Family Stone) che ottiene buoni risultati discografici, interpretando una musica grintosa di evidente derivazione hendrixiana. Da parte loro, i Procol Harum continuano pubblicando altri lavori poco originali ed interessanti, fino allo scioglimento verso la fine degli anni Settanta. I Moody Blues si formano in piena epoca beat nel maggio del 1964 ed ottengono notevole successo con il singolo Go now, che balza in vetta alle classifiche inglesi del ’65 ; nello stesso anno il gruppo supporta i Beatles in un tour americano e pubblica l’album The magnificent Moodies (Decca). Nel novembre ’66 i Moody Blues s’assestano con Ray Thomas (v.ar.fl.), Mike Pinder (ts.v.), Graeme Edge (bt.) e i nuovi arrivati Justin Hayward (ch.v.) e John Lodge (bs.v.). Anche lo stile muta dal rhythm & blues degli esordi ad un ambizioso pop sinfonico, che trova ampia raffigurazione sul 33 giri di Days of future passed (Deram), realizzato nel 1967 con la partecipazione della London Festival Orchestra diretta da Peter Knight. Days of future passed è un lavoro pretenzioso, che solo a tratti riesce ad esprimere qualche spunto convincente (la leggera Peak hour, che perlomeno risveglia dal torpore generale, e le belle melodie di Forever afternoon (Tuesday ?) e soprattutto di Nights in white satin - in Italia Ho difeso il mio amore, un successo per i Profeti), all’interno di una logica sinfonico orchestrale troppo enfatica. Tra i dischi successivi possono essere segnalati In search of the lost chord (’68) e On the threshold of a dream (’69), entrambi su etichetta Deram, con un crescente successo commerciale che prosegue nel decennio seguente ma senza risultati particolarmente memorabili sul piano artistico. Ars Longa Vita Brevis - 3 la musica della casa delle bambole Musicista di formazione jazz, Brian Auger crea il primo nucleo dei Trinity nel 1964 ; in tempi diversi suonano con lui il bassista Rick Laird (poi nella Mahavishnu Orchestra), il batterista Mick Waller (Jeff Beck Group) e il chitarrista John McLaughlin (Miles Davis, Mahavishnu Orchestra). Nel 1965 i Trinity vengono destinati a fungere da gruppo di base negli Steampacket, una formazione ideata dal manager Giorgio Gomelsky che annovera i cantanti Rod Stewart e Long John Baldry (provenienti dagli Hoochie Coochie Men), oltre alla segretaria di Gomelsky, Julie ‘Jools’ Driscoll. Gli Steampacket durano un anno scarso e registrano solo alcuni nastri di prova, pubblicati in svariate edizioni postume. Sciolti gli Steampacket, Auger riorganizza i Trinity e nel 1967 esordisce con Open (edito dalla Marmalade dello stesso Gomelsky), ottenendo buon successo con i 45 giri Save me e This wheel’s on fire (un brano di Bob Dylan). Forse un tantino sopravvalutati, i Trinity meritano giusta considerazione almeno per il doppio LP Streetnoise (Marmalade-1969). A quei tempi, oltre a Auger e alla Driscoll, il gruppo comprende il bassista Dave Ambrose e il batterista Clive Thacker, proponendo una musica che spazia dalla canzone melodica di facile presa alle nuove istanze progressive, con qualche timida influenza jazz. Elementi fondamentali sono la brillante tecnica all’organo di Brian Auger che si può assaporare in tutto il lavoro, in particolare nelle dinamiche escursioni di Tropic of capricorn, Ellis island, Finally found you out, e la voce della Driscoll che pare atteggiarsi come una Grace Slick più eterea e jazz, priva dell’emozionante respiro psichedelico della californiana (belle interpretazioni in Czechoslovakia e When I was young). Presenti anche numerose cover, alcune riuscite come Save the country di Laura Nyro (dall’album New York Tendaberry), altre discrete (All blues, dal monumentale Kind of blue di Miles Davis), altre ancora certamente poco ispirate (la discutibile versione di Light my fire dei Doors). Poco dopo la Driscoll lascia il gruppo e convola a nozze con il pianista jazz Keith Tippett ; Auger mantiene in vita i Trinity fino al luglio 1970 per poi formare gli Oblivion Express, discreta formazione jazz rock con cui produce una lunga serie di album. Di rilievo indubbiamente superiore sono i risultati artistici conseguiti dai Colosseum, una delle formazioni più interessanti tra quelle che si misurano con una sintesi sonora che riassume senza forzature rock, jazz, blues e influenze classiche. Il batterista Jon Hiseman inizia la carriera suonando in un gruppetto jazz nel quale conosce il tastierista Dave Greenslade, quindi entra nel quintetto di Don Rendell al fianco di Graham Bond ; quando Bond si mette in proprio con la prima edizione dell’Organization, alla sezione ritmica costituita da Jack Bruce e Ginger Baker l’organista decide di associare non la solita chitarra solista, bensì il sassofono di Dick Heckstall Smith. Hiseman ha modo di partecipare per breve tempo alla seconda formazione dell’Organization (al posto di Baker) e di entrare in contatto con Heckstall Smith. Il nucleo base dei Colosseum prende forma all’interno dei Bluesbreakers di John Mayall, dove si ritrovano Hiseman, Heckstall Smith e il bassista Tony Reeves ; quella versione del complesso nel 1968 è responsabile dell’album Bare wires. Recuperato Greenslade (nel frattempo con i Thunderbirds di Chris Farlowe) ed inserito il chitarrista James Litherland, nello stesso anno viene ufficializzata la nascita dei Colosseum. Il blues più ritmato e il jazz sono gli elementi basilari su cui il gruppo sviluppa le proprie trame sonore sin dal primo album Those who are about to die salute you, pubblicato all’inizio del 1969 per l’etichetta Fontana ; presenti anche chiare reminiscenze di stampo classico, apportate in particolare da Greenslade (Beware the ides of march, come la A whiter shade of pale dei Procol Harum, s’ispira all’Aria sulla quarta corda di Bach), il tutto sostenuto da una sezione ritmica ricca di talento. Tra i brani di maggior interesse gli strumentali Mandarin e Debut, il blues di Backwater blues (con Litherland e Heckstall Smith in evidenza), il grintoso R & B di Walking in the park (recuperato dal secondo LP della Graham Bond Organization) e l’elaborata partitura della title track. COLOSSEUM - VALENTYNE SUITE (Vertigo - 1969) I Colosseum producono il massimo sforzo compositivo con la realizzazione del secondo album Valentyne suite (prima pubblicazione assoluta per l’etichetta Vertigo, con la quale il gruppo ha nel frattempo firmato). Il disco appare idealmente suddiviso in due parti ben distinte. Nel primo lato i Colosseum mostrano i diversi aspetti della propria ispirazione con il rock trascinante dell’aggressiva The kettle, con le escursioni jazz di Elegy (l’arrangiamento degli archi è curato da Neil Ardley), con il blues fiatistico di Butty’s blues, mentre atipico è il rituale ritmico di The machine demands a sacrifice. E’ la seconda parte del disco, interamente occupata dalla suite che titola l’album, a fissare i confini e sublimare la sostanza della musica dei Colosseum ; si tratta di una composizione suddivisa in tre sezioni, ben strutturata ed arrangiata, capace di fare coesistere umori e suoni di diversa origine. January’s search associa immagini evocative a ripide trame ritmiche, condotte dal fluido organo di Greenslade che salda su fondamenta classiche la propensione a fughe jazz, facendo tesoro della lezione dei Nice di Keith Emerson. La corale February’s Valentyne serve da sezione di collegamento con la maestosa, indimenticabile apertura melodica di The grass is always greener..., che prima anticipa certo estetismo romantico tipico del rock d’inizio anni Settanta (poggiando su solide basi classiche - Ravel), quindi si lancia in una pirotecnica jam con tanto di chitarra ai limiti dell’hard. A dispetto dell’ottimo risultato ottenuto il gruppo comincia a mostrare sintomi di cedimento ; nell’ottobre del ’69 Litherland viene sostituito dall’ottimo Dave Clempson (proveniente dai Bakerloo), che con il suo robusto stile rock blues rende più pesante la musica dei Colosseum, in particolare dal vivo. E’ poi il turno del bassista Tony Reeves che lascia il posto a Mark Clarke, ed infine l’affermato Chris Farlowe (una versione di Out of time degli Stones gli regala un primo posto in classifica nel 1966) entra come cantante. I primi frutti del nuovo organico sono contenuti su Daughter of time (Vertigo-1970), registrato nell’estate del 1970, album che vede la partecipazione del bassista Louis Cennamo (Renaissance) e di Barbara Thompson ai fiati. La musica dei Colosseum appare ancora interessante, anche se viziata da troppe pretese stilistiche, con il vocione baritonale di Farlowe a creare un singolare contrasto con il jazz rock del gruppo (Three score and ten amen) : degni di menzione sono gli arrangiamenti di Neil Ardley delle ottime Time lament e The daughter of time, e il robusto melodismo di Theme for an imaginary western, un brano della coppia Pete Brown / Jack Bruce già nel repertorio dei Mountain. Dal vivo lo stile del complesso indurisce notevolmente, come dimostra il valido Colosseum live, testimonianza del buon successo ottenuto nei concerti all’inizio del 1971. Buone sono le versioni di Rope ladder to the moon e di Walking in the park, caratterizzate dalla rude chitarra di Clempson e dalla voce potente di Farlowe, eccellente è la performance conclusiva di Lost Angeles che pare rinverdire i fasti dei tempi migliori. Quantunque l’esperienza live mostri un gruppo ancora in brillante forma, i Colosseum si sciolgono nell’autunno 1971, subito prima della pubblicazione dell’antologia Collectors (Bronze-1971) che comprende alcuni interessanti brani inediti, tra i quali una libera interpretazione del Bolero di Ravel su sfondo hard blues. Clempson va a cercare gloria negli Humble Pie, Farlowe si unisce agli Atomic Rooster per l’incisione di un paio di album, mentre Greenslade e Reeves formano (alla fine del 1972) i discreti Greenslade ; in organico anche il tastierista Dave Lawson, proveniente dai Samurai e in precedenza membro dei Web, una buona ma poco conosciuta formazione con all’attivo tre LP tra i quali il migliore risulta l’ultimo I Spider. Da parte sua Hiseman lavora alla realizzazione di una musica sorretta da durezze hard e mitigata da inflessioni jazz ; il progetto sfocia nella nascita dei Tempest, con la partecipazione di Clarke al basso, del cantante Paul Williams (ex componente dei Juicy Lucy) e soprattutto di Allan Holdsworth, chitarrista di grandi doti tecniche con alle spalle una breve esperienza con i Nucleus. Il primo album omonimo, pubblicato nel 1973, non sempre presenta materiale di assoluta originalità. Sorprende la potenza del suono in brani quali Gorgon e Foyers of fun ; la voce di Williams è particolarmente grintosa, Hiseman e Clarke costituiscono una sezione ritmica rodata e di notevole impatto, Holdsworth sfoggia uno stile tecnicamente ineccepibile che associa in modo originale riff d’impostazione hard con tirate solistiche veloci e jazzate. Il gruppo dimostra buona personalità in canzoni come Up and on e Upon tomorrow, che parlano una lingua jazz rock robusta ed incisiva. Ben presto Williams abbandona e Holdsworth viene affiancato e successivamente sostituito dal chitarrista dei Patto, Ollie Halsall. L’edizione triangolare dei Tempest genera l’album Living in fear (Bronze-1974), prima del definitivo scioglimento nell’estate 1975. Hiseman tenta un impacciato recupero della vecchia sigla con i Colosseum II, incidendo tre LP di modesta fattura che vantano il solo pregio di mettere in luce le qualità del chitarrista Gary Moore, già leader degli Skid Row (due album nel ’70 - ’71) e saltuariamente membro dei Thin Lizzy, destinato ad una fruttuosa carriera solistica. Dopo il furioso periodo creativo con Syd Barrett e la lucida sperimentazione controllata di A saucerful of secrets i Pink Floyd, all’inizio del 1969, s’impegnano nella realizzazione di More (Columbia-1969), colonna sonora del film di Barbet Schroeder. Il disco, a parte un’inevitabile frammentarietà tematica, evidenzia momenti d’ispirazione folk in belle composizioni quali Cirrus minor, Green is the colour, Cymbaline e presenta due inconsueti brani hard, The nile song e Ibiza bar. Il doppio Ummagumma (un disco dal vivo e uno in studio) nell’ottobre dello stesso anno chiude la fase creativa del periodo iniziale, prima della svolta sinfonica decretata da Atom heart mother. La parte live, registrata nel giugno ’69 a Birmingham e Manchester, contiene eccellenti versioni di classici come Astronomy domine, Set the controls for the heart of the sun, A saucerful of secrets, oltre alla lisergica Careful with that axe, Eugene (già apparsa come retro del valido singolo Point me at the sky e in seguito, con il titolo di Come in number 51, your time is up, parte fondamentale della colonna sonora del film di Michelangelo Antonioni, Zabriskie point - MGM 1970). Il brano è uno degli esempi più eclatanti di musica sott’acido, una sorta di estatico dormiveglia squarciato da un’improvvisa, agghiacciante esplosione sonora. Il disco di studio sceglie il metodo di quattro distinti progetti predisposti dai singoli musicisti, rinunciando all’ideale coesione d’intenti del precedente A saucerful of secrets. La musica tocca vertici notevoli nelle impressionanti tonalità delle quattro parti che compongono Sysyphus, generate dall’impetuoso, esasperato, appassionato, vivisezionato classicismo delle tastiere di Wright, e nell’ottima sequenza di The narrow way con Gilmour che si disimpegna tra la ballata acustica di buone maniere della prima parte, gli inquietanti fremiti elettrici della sezione seguente e la bella melodia conclusiva, anticipazione di alcuni aspetti del futuro stile del gruppo. Waters si affida al folk campestre in Grantchester meadows ed è responsabile della divertente gazzarra faunistica di Several species of small furry animals gathered together in a cave and grooving with a pict, mentre intelligente ed originale appare l’affresco percussivo di The grand vizier’s garden party proposto da Mason. PINK FLOYD - ATOM HEART MOTHER (Harvest - 1970) La prima volta che i Pink Floyd eseguono in pubblico la suite di Atom heart mother è in occasione del concerto al festival di Bath, dove si presentano con coro, sezione fiati e spettacolo di fuochi artificiali. Nell’ottobre del 1970 la composizione è l’elemento portante del nuovo LP, del quale occupa l’intera prima facciata. Il possente sperimentalismo di Ummagumma lascia posto ad un’elaborazione concettualmente vicina al poema sinfonico a carattere epico, articolato attraverso l’imponente introduzione di Father’s shout, le atmosfere pastorali di Breast milky, le partiture corali di Mother fore, lo space funk di Funky dung, fino alla rumorista Mind your throats please e all’affannoso riflusso mnemonico di Remergence. La decisa virata stilistica, suffragata da un notevole successo commerciale (l’album va al primo posto in Inghilterra), trova riscontro anche nelle moderate creazioni della seconda parte. If è un delicato arpeggio della chitarra acustica, con la voce indolente di Waters ; notevolmente migliori sono Summer ’68, un brano di Wright che adotta interessanti soluzioni armoniche, e l’ottima Fat old sun (Gilmour), pallido tramonto degli ultimi tepori psichedelici. La conclusiva Alan’s psychedelic breakfast s’affida ad un crudo realismo poco consono agli scenari psichedelici evocati nel titolo, e il timido contributo strumentale non permette alla creazione di decollare pienamente. Da questo momento la musica dei Pink Floyd s’incammina decisa verso scenari che necessitano di ambiziosi soggetti a tema e di lunghe, complesse elaborazioni, abbandonando sempre più i territori della ricerca e dell’intuito. Per qualche tempo il gioco funziona egregiamente, almeno fino al novembre del ’71 quando esce Meddle, album in grado di regalare attimi di grande intensità e bellezza. Le folate space rock della brillante Out of these days e il cromatismo timbrico della lunga, eccellente Echoes (in bilico tra stringato sinfonismo e dinamico funk rock) possono essere considerati gli ultimi compiuti episodi della creatività floydiana. I Pink Floyd attraversano un buon periodo anche per ciò che riguarda i concerti dal vivo. Da ricordare l'affascinante esibizione dell’ottobre ’71 tra le rovine di Pompei, senza la presenza di pubblico, con i musicisti ripresi dalle telecamere per la realizzazione di un famoso film concerto. Dopo la superflua colonna sonora del film ‘La Vallée’, sempre del regista Barbet Schroeder (Obscured by clouds, Harvest-1972), i Pink Floyd ottengono un immane successo commerciale con The dark side of the moon che per anni resta in classifica negli Stati Uniti, risultando tra i dischi più venduti di tutti i tempi. Paradossalmente, l’album (pubblicato nel 1973) è un’opera a tema che contiene una dura critica alla società dei consumi e una denuncia sull’alienazione del ‘moderno’ vivere umano, ma è pure il lavoro più commerciale del gruppo, dove va persa ogni necessità creativa per lasciare spazio a suoni compromessi con l’estetica del bello a tutti i costi e con l’esigenza di raggiungere una platea di acquirenti sempre più vasta. I dischi successivi non introducono grosse novità : Wish you were here (Harvest-1975, dedicato a Syd Barrett) è gradevole e ben strutturato, Animals (Harvest-1977) e il doppio The wall (Harvest-1979) proseguono sulla stessa strada con gli oramai consueti trionfi commerciali. Ars Longa Vita Brevis - 4 la musica della casa delle bambole Robert Fripp inizia la carriera di musicista rock nell’agosto del 1967, associandosi in un’atipica e fallimentare formazione triangolare con i fratelli Peter (bs.) e Mike (bt.) Giles. Nel 1968 Giles, Giles & Fripp pubblicano l’album The cheerful insanity of G.G. & F. (Deram), disco che adotta interessanti soluzioni armoniche ma risulta non particolarmente memorabile. All’epoca l’insuccesso è clamoroso, con poche centinaia di copie vendute, e il gruppo giunge all’inevitabile separazione verso la fine del ’68, senza riuscire a tenere esibizioni dal vivo. La nuova ambiziosa creatura di Fripp nasce nel gennaio del 1969 (si narra il giorno 13) ; con il chitarrista rimane Mike Giles e si aggiungono Ian McDonald (sf.ts.), Greg Lake (ex bassista dei Gods) e, in qualità di paroliere, Pete Sinfield. In aprile i King Crimson tengono un primo concerto allo Speakeasy di Londra, ma il vero esordio avviene in luglio, con la partecipazione (davanti ad una folla oceanica) al free concert per Brian Jones organizzato a Hyde Park dai Rolling Stones. KING CRIMSON - IN THE COURT OF THE CRIMSON KING (Island - 1969) Il gusto inconfondibile per la ballata melodica dei Beatles, il classicismo privo di remore dei Nice, le intuizioni sinfoniche dei primi Family e lo sperimentalismo colto dei Pink Floyd post Barrett (e pure la chitarra free form di Syd) sono alla base di uno stile originale, che trova adeguato sfogo nell’album d’esordio dei King Crimson, primo compiuto tentativo (e in assoluto tra i migliori esempi) di rock sinfonico impressionista. I ritmi convulsi e schizofrenici, gli scatti repentini, l’apparente disordine e il rigido controllo dinamico imposto da Fripp fanno di 21st century schizoid man un brano dalla notevole originalità, destinato ad imprimere un importante segno sulla scena musicale progressiva. Il personale approccio di Fripp allo strumento genera un suono teso, inquieto e stridente, capace d’improvvise aperture melodiche, i fiati e le tastiere (il mellotron in particolare) di McDonald costruiscono affascinanti ambientazioni classiche e la sezione ritmica si disimpegna con eleganza, grazie al solido e tecnico basso di Lake (buono anche l’apporto vocale) e al leggero, variegato tocco percussivo di Giles. I talk to the wind è una canzone di meravigliata dolcezza, che nulla pare avere in comune con l’intransigenza dell’episodio precedente e mette in primo piano i fiati di McDonald ; la stessa Moonchild muove in territori placidi, con toni quieti e sfumati, quasi alla ricerca di una recondita natura intima del suono. Le grandiose ambientazioni di Epitaph e di The court of the Crimson King possiedono un incedere epico, con il mellotron che produce imponenti squarci sinfonici punteggiati dalla romantica chitarra di Fripp e contrapposti alla bellezza dei temi lirici delle canzoni. I King Crimson compiono un tour negli Stati Uniti ma al ritorno in patria, verso la fine del ’69, Giles e McDonald escono dal gruppo per realizzare l’album McDonald & Giles (Island1970). Più avanti McDonald fa fortuna con i commerciali Foreigner, mentre Giles rientra alla corte di Fripp per le registrazioni del secondo LP. Per In the wake of Poseidon (1970) Fripp (da questo momento impegnato anche alle tastiere) organizza un’ampia formazione che annovera, oltre a Mike Giles e a Greg Lake (entrambi però sul piede di partenza), il jazzista Keith Tippett (pn.), il vecchio compagno Peter Giles (bs.), il fiatista Mel Collins (proveniente dai Circus) e il cantante Gordon Haskell. Il disco ricalca le cadenze e i modi del lavoro precedente con discreti risultati : Pictures of a city ricorda da vicino le atmosfere tese di 21st century schizoid man senza possederne il devastante impatto, Cadence and cascade cerca invano di catturare la magica dolcezza di I talk to the wind, In the wake of Poseidon si cala con gusto ed equilibrio nel più tipico sinfonismo crimsoniano. Cat food strizza l’occhio a certo pop jazz intelligente, con più di qualche reminiscenza Beatles e con il piano rotolante di Tippett. Tra gli episodi di maggior interesse è da annoverare la mini suite di The devil’s triangle, che attinge pesantemente dal primo movimento (Mars, the bringer of war) de ‘I pianeti’ di Gustav Holst, tanto che il compositore classico d’origine svedese avrebbe meritato almeno una fredda citazione fra gli autori del brano. Attorno alla figura centrale di Robert Fripp l’organico dei King Crimson continua a modificarsi senza soste : Mike Giles esce definitivamente di scena, Greg Lake abbandona all’inizio del 1970 durante le registrazioni del secondo LP per raggiungere Keith Emerson e Carl Palmer. Si narra che Fripp pensò di utilizzare come cantante lo sconosciuto Elton John al fine di completare le sessioni di In the wake of Poseidon e che lo stesso chitarrista rifiutò l’offerta di sostituire Pete Banks negli Yes. In ogni caso il basso passa nelle mani del cantante Gordon Haskell, e accanto al confermato Mel Collins si posiziona il nuovo batterista Andy McCulloch. Con l’aiuto di una sostanziosa schiera di jazzisti (il solito Tippett, oltre a Robin Miller, Mark Charig e Nick Evans ai fiati) e del cantante Jon Anderson degli Yes, la formazione registra il controverso Lizard (sempre nel 1970), disco considerato da molti addetti ai lavori come il più debole dell’intera produzione. Probabilmente il giudizio è troppo severo nei confronti di Fripp e compagni ; di certo Lizard non raggiunge i vertici assoluti della produzione dei King Crimson, ma neppure va disconosciuto il coraggio di Fripp nel voler utilizzare sistematicamente un linguaggio contaminato da accenti jazz, senza perdere di vista il classicismo sinfonico di base. Piacciono il romanticismo che permea la bella Cirkus e il divertente dinamismo di Indoor games, che pure mostra qualche indecisione. La suite che titola l’album occupa l’intero secondo lato, passando dalla ballata romantica di Prince Rupert awakes (cantata da Anderson) ad un inconsueto Bolero per gruppo rock, piano e fiati jazz, per concludersi con le complesse stratificazioni sonore di The battle of glass tears. Nel 1971 i King Crimson subiscono un ennesimo rimpasto per via dell’uscita di Haskell e di McCulloch (che va con i Greenslade) ; cessa la collaborazione anche con Tippett che organizza i Centipede, un mastodontico ensemble con cui effettua un paio d’esibizioni e registra un album, Septober energy (2 LP RCA-1971), interamente composto ed arrangiato dal jazzista e prodotto da Fripp (presenti, tra gli altri, Elton Dean, Robert Wyatt, Karl Jenkins, John Marshall, Mike Patto e la moglie del pianista Julie Driscoll). La nuova sezione ritmica dei King Crimson è composta dal bassista e cantante Raymond ‘Boz’ Burrell e dal batterista Ian Wallace, proveniente dai World di Neil Innes. Così sistemato il gruppo registra nel 1971 l’ottimo Islands, lavoro che riassume un raffinato connubio tra rock, jazz e classica dai toni soffusi e romantici. Dopo l’apertura riservata al pop jazz impertinente di Ladies of the road e preceduta dalle movenze classiche di Song of the gulls, Islands è un tenue, suggestivo affresco che conquista nonostante l’assoluta staticità di esposizione. Sulla stessa cadenza rallentata si muove la bella Formentera lady, che sfocia nel maestoso sussulto ritmico di Sailor’s tale ; la conclusiva The letters si agita tra morbide linee melodiche, rock d’avanguardia e free jazz, anticipando in parte i modi a venire della musica del Re Cremisi. Islands è l’ultimo disco alle cui liriche contribuisce Pete Sinfield, che in seguito di dedica alla produzione (il primo LP dei Roxy Music), incide un disco solista (Still, Manticore-1973) e scrive i testi per Photos of ghosts della P.F.M., versione inglese di Per un amico, per poi scomparire dalle scene. I King Crimson effettuano un tour americano all’inizio del 1972, dal quale sono estratte le registrazioni che fruttano l’incerto Earthbound (Island-1972). Al termine della serie di concerti il gruppo si sfalda : Collins, Burrell e Wallace prima formano gli Snape con Alexis Korner, quindi Collins entra nei Kokomo, Wallace suona con gli Streetwalkers di Roger Chapman e Burrell trova successo con i Bad Company di Paul Rodgers. Da parte sua Fripp impiega qualche mese per riassettare l’organico ed impostare il discorso musicale su basi piuttosto differenti. - 29 E’ la fine del 1969 quando il tastierista dei Nice Keith Emerson comincia a meditare sulla possibilità di costituire una formazione triangolare, in grado d’inserirsi autorevolmente nel dilagante fenomeno del rock classico progressivo che inizia a raccogliere importanti risultati commerciali. L’idea è quella del supergruppo e il primo ad essere coinvolto è Greg Lake, bassista e cantante di Shame, Gods, ma soprattutto dei King Crimson di sua maestà Robert Fripp. All’inizio del 1970 viene individuato il batterista nella figura di Carl Palmer, già con Chris Farlowe, Arthur Brown e Atomic Rooster, e nascono ufficialmente gli Emerson, Lake & Palmer che sin dalla sigla adottata lasciano trasparire un certo narcisismo di fondo. EMERSON, LAKE & PALMER - EMERSON, LAKE & PALMER (Island - 1970) Le ambizioni di Emerson, Lake & Palmer si riflettono anche sulla scelta del prestigioso palcoscenico dell’isola di Wight per il debutto live, nell’agosto del 1970. Il gruppo propone una musica ad elevata concentrazione tecnica, di notevole effetto e non priva di soluzioni interessanti. Sicuramente sono lontane la freschezza, le trovate estemporanee dei primi Nice, ma almeno non compaiono stucchevoli tentazioni orchestrali, assai diffuse nel territorio del rock neoclassico ; qui le tastiere inseguono vertigini barocche ad alta definizione, il basso sostiene possentemente la struttura delle canzoni e la batteria fornisce una propulsione inarrestabile. Se The barbarian propone uno scorcio strumentale introduttivo alla musica del trio, Take a pebble s’affida alla voce e alla chitarra acustica di Lake, oltre che alla tecnica esecutiva di Emerson, mentre Knife-edge lascia scorrere plastiche configurazioni ritmiche d’indubbia presa. The three fates permette ad Emerson di sfogare le brame classiche con partiture per organo e piano (solo e trio), Tank riporta il ritmo sul rock ad alta tecnologia e contiene un assolo di batteria non troppo fantasioso, Lucky man è un finale atipico con il passo della ballata elettrica. Il disco ottiene lo sperato successo, piazzandosi nelle posizioni alte della classifica inglese, e ancora meglio fa Tarkus, che nel ’71 raggiunge il primo posto. Il suono di Tarkus appare più freddo e calcolato, ma comunque piace molto pur nell’estrema rigidità tematica ed espressiva dell’omonima suite. Del resto i brani residui ridimensionano parecchio le pretese, con qualche innocua canzoncina (Jeremy Bender, Are you ready Eddy ?) ed episodi non del tutto convincenti. Il controverso Pictures at an exhibition (Island-1971), registrato dal vivo a Newcastle nel marzo del ’71 su musiche del compositore russo Modest Mussorgski, e il successivo album di studio Trilogy (Island-1972) brillano solo a sprazzi e mostrano il gruppo in chiara fase discendente, in contrasto con il sempre notevole successo discografico. Su Trilogy trova posto From the beginning, una rilassata ballata composta da Lake che ottiene buona fortuna commerciale come singolo, ed è presente una riuscita elaborazione (Hoedown) di un frammento tratto dal balletto Rodeo del compositore americano Aaron Copland. Emerson, Lake & Palmer giungono al traguardo della costituzione di una propria etichetta discografica, la Manticore, ma i risultati creativi deludono le attese : Brian salad surgery (Manticore-1973) si perde nei meandri di una musica pesante negli arrangiamenti e priva di emozioni, che viene celebrata definitivamente nel mastodontico resoconto live di Welcome back my friends, to the show that never ends (3 LP Manticore-1974). Contemporanei di E.L.&P., i Quatermass sono una formazione costruita sulle stesse modalità del triangolo con al vertice le tastiere, capace di lasciare il segno della propria effimera esistenza con la realizzazione di un album di notevole qualità. Le origini del gruppo risalgono alla fine degli anni Sessanta, quando il bassista John Gustafson (musicista di grande esperienza che attraversa la scena del beat di Liverpool in complessi come Big Three, Seniors e Merseybeats) si ritrova negli Episode Six, una formazione di scarso successo nota per aver annoverato nelle sue fila Ian Gillan e Roger Glover, futuri Deep Purple. Negli Episode Six Gustafson conosce il tastierista Pete Robinson e il batterista Mick Underwood, con i quali nel settembre ’69 dà vita ai Quatermass. QUATERMASS - QUATERMASS (Harvest - 1970) L’unico album inciso dai Quatermass resta uno dei migliori esempi di rock progressivo realizzato da una formazione priva di chitarra solista. Il gruppo dimostra padronanza strumentale e, al tempo stesso, notevole vitalità e dinamismo esecutivo ; ciò che per E.L.&P. appare serioso e forzato è reso dai Quatermass in modo disinvolto, con gran naturalezza. Tra i due estremi rappresentati dai brevi frammenti di Entropy, il lavoro evidenzia una musica che in alcuni episodi possiede l’impatto dell’hard rock : è il caso di Black sheep of the family, così come di Gemini (già nel repertorio dei New Animals, spaziata dall’organo siderale dello scatenato Robinson) e della bella Make up your mind, che fa perno su un convincente apparato melodico per poi svolgersi nella parte centrale con una buona sequenza strumentale. Good Lord knows è una melodia felicemente arrangiata da Robinson, con clavicembalo e orchestra d’archi ; il tastierista si ripete anche a livello compositivo con la fluida Laughin’ tackle, dove trova spazio un breve assolo di batteria di Underwood. L’introduzione di stampo progressivo di Post war Saturday echo lascia il posto ad un lento blues d’atmosfera, valorizzato dall’ottimo lavoro di Robinson all’organo e al piano. Up on the ground libera gli strumenti e propone qualcosa di molto simile (e di meglio) a ciò che utilizzeranno i decantati E.L.&P. per Tarkus. Purtroppo i Quatermass non godono di un sufficiente riscontro di vendite e sono costretti allo scioglimento già nell’aprile del 1971. Underwood si associa a Paul Rodgers nella brevissima esperienza dei Peace, quindi incide vari LP con i Sammy e gli Strapps prima di finire nel gruppo di Ian Gillan. Robinson e Gustafson nel 1972 effettuano un tentativo di riunione dei Big Three, con la registrazione di un album ; in seguito Robinson sceglie la via del jazz rock con i Come To The Edge di Stomu Yamash’ta, con i Suntreader e con i Brand X per capitare pure lui nella Ian Gillan Band, mentre Gustafson si dedica a gruppi hard come gli Hard Stuff (due LP per la Purple) e i Baltik (un album), fino al 1973 quando entra nei Roxy Music (in occasione di Stranded) per rimanervi un paio d’anni. Uno dei primi gruppi ad essere messo sotto contratto dal manager Tony Stratton-Smith per la sua etichetta Charisma, i Rare Bird esordiscono al Mother’s Club di Birmingham e nel 1969 pubblicano il primo album omonimo che viene prodotto da John Anthony (lo stesso dei Genesis ad inizio carriera). L’organico del complesso ricalca i presupposti del triangolo basato sulle tastiere, di gran moda a quei tempi, con la particolarità della presenza di due strumentisti che agiscono in sincrono, Graham Field all’organo e David Kaffinetti al piano, sostenuti da una sobria sezione ritmica (Steve Gould : v.bs., Mark Ashton : bt.pr.v.). Rare Bird evidenzia una buona varietà di temi in brani quali Iceberg, Beautiful scarlet, God of war, mantenendo alla base una musica dai toni romantici abbastanza originale e semplice, evitando complicazioni tecnologiche ed arrangiamenti troppo appariscenti. Nonostante la presenza di una canzone accattivante come la melodica Sympathy, il disco ottiene risultati commerciali deludenti, dal momento che il pubblico sembra gradire maggiormente formazioni in grado di proporre una musica più pretenziosa e di garantire spettacoli dal vivo di sontuoso impatto scenico. I Rare Bird pubblicano un secondo album, As your mind flies by contenente una suite suddivisa in quattro movimenti (Flight), ma la fortuna non s’accorge del complesso e oggi nessuno si ricorda della loro esistenza. Dal maggio ’63 al luglio ’68 Jim McCarty e Keith Relf sono batterista e cantante dei gloriosi Yardbirds ; dopo lo scioglimento del gruppo, i due provano come Together e poi (nel giugno del 1969) organizzano un’ambiziosa formazione, i Renaissance, con la quale affrontare la stagione del rock romantico progressivo. Con loro sono la cantante Jane Relf (sorella di Keith), il tastierista John Hawken (proveniente dai Nashville Teens) e il bassista Louis Cennamo (dai Jody Grind). RENAISSANCE - RENAISSANCE (Island - 1969) Prodotto da Paul Samwell Smith, ex compagno negli Yardbirds, il primo album del 1969 propone un’efficace miscela di folk, rock e romanticismo classico, capace di mantenere i piedi ben ancorati a terra. Si tratta, ovviamente, di musica molto distante dalle precedenti esperienze di Relf e McCarty, nella quale emergono in particolare il tocco al piano di Hawken e l’aggraziata, esile voce di Jane Relf. Kings & queens e Innocence trovano la giusta mediazione tra stimoli ritmici, belle melodie ed influenze classiche. Se Island si sofferma esclusivamente su toni pacati e romantici, la bella Wanderer preferisce reminiscenze barocche con il clavicembalo in primo piano ; entrambi i brani registrano la bella voce solista della Relf. La complessa Bullet torna a forme tipicamente rock, con timidi accenni jazz e un’inconsueta (per il genere) armonica country blues, per disperdersi nell’enigmatica atmosfera finale direttamente derivata dalle figure corali di Gyorgy Ligeti. La buona prova iniziale non è sufficiente garanzia di vita tranquilla ; Relf e McCarty se ne vanno già nell’agosto ’70 e le registrazioni del secondo LP Illusion (Island-1970) vengono completate con l’ausilio di musicisti esterni. Nei Renaissance fa la sua apparizione il cantante e chitarrista Michael Dunford, che eredita il marchio e riorganizza il complesso con nuovi musicisti. Dal 1972 il nucleo comprende, oltre a Dunford, la cantante Annie Haslam, il tastierista John Tout, il bassista Jon Camp e il batterista Terrence Sullivan ; i Renaissance ottengono buon successo soprattutto negli USA, con una serie di album nei quali è proposto un rock sinfonico che attinge a piene mani dal panorama classico (in particolare russo dell’Ottocento), con citazioni di Rimski-Korsakov, Borodin e Mussorgski tra gli altri. Ottima sintesi della loro opera rimane il doppio Live at Carnegie Hall, registrato con l’apporto della New York Philharmonic nel giugno del 1975. Dei componenti originari McCarty suona con gli Shoot (un LP nel ’73), Relf partecipa al terzo album dei Medicine Head (1971) per poi fondare nel 1975 gli Armageddon, un gruppo hard nel quale ritrova Cennamo e che comprende il chitarrista Martin Pugh (Steamhammer) e il batterista Bobby Caldwell (Johnny Winter). Nel 1976 Relf lavora al progetto della riunione dei Renaissance originali (sotto diversa sigla : Illusion) ma in novembre, durante le ultime prove casalinghe, muore folgorato da una scarica elettrica ; gli Illusion riescono comunque a pubblicare due album tra il ’77 e il ’78. Di altro, da ricordare le collaborazioni di Cennamo con Steamhammer e Colosseum e la partecipazione di Hawken a dischi di Third World War e Strawbs. Nel 1963 i Syndicats sono tra le prime formazioni inglesi a dilettarsi con il rhythm & blues ; con in organico Steve Howe il gruppo pubblica tre singoli, prima dell’abbandono del chitarrista stesso che nell’estate del ’65 raggiunge gli In Crowd (poi evoluti in Tomorrow). Nei Syndicats entrano il chitarrista Pete Banks e il bassista Chris Squire, e nel 1967 il complesso accorcia il nome in Syn, abbracciando la causa psichedelica. I Syn registrano due singoli, l’ultimo dei quali contiene la mitica 14 hour technicolour dream, dedicata al festival della psichedelia e dell’underground inglese tenuto nell’aprile ’67 all’Alexandra Palace. All’inizio del 1968 Banks e Squire sono nei Toy Shop, dove conoscono il cantante Jon Anderson (ex Warriors). I tre s’uniscono all’organista Tony Kaye (dai Bitter Sweet) e al batterista Bill Bruford, dando vita agli Yes (giugno ’68). Il gruppo si fa le ossa tenendo numerosi concerti al Marquee, allo Speakeasy e partecipando come supporto al famoso concerto d'addio dei Cream, tenuto alla Royal Albert Hall nel novembre del ’68. I primi due album, Yes (Atlantic-1969) e Time and a word (Atlantic-1970), sono discreti (e nulla più) alternando brani originali a numerose cover (tra queste canzoni di Byrds, Beatles e Stephen Stills) ; il gruppo non ha ancora individuato con precisione uno stile sufficientemente personale, anche se alcuni brani (Beyond and before, Harold land, Astral traveller) e le belle armonie vocali lasciano timidamente intravedere le caratteristiche del futuro suono. YES - THE YES ALBUM (Atlantic - 1971) Una prima importante svolta avviene all’inizio del 1970, quando Pete Banks lascia i compagni per entrare nei Blodwyn Pig in sostituzione di Mick Abrahams ; il suo posto negli Yes viene rilevato da Steve Howe, reduce dall'esaltante avventura con i Tomorrow. Lo stile del gruppo subisce una decisa maturazione acquisendo un’identità ben definita, come dimostra il terzo LP The Yes album (registrato nell’autunno del 1970) che permette agli Yes di conquistare un buon seguito di pubblico. L’incedere fratturato della sezione ritmica, i preziosismi della chitarra di Howe e le ottime parti corali di Yours is no disgrace introducono al classico Yes sound, uno stile articolato e complesso, ma ancora lontano dagli esagerati arrangiamenti sinfonici dei tempi a venire. E’ evidente il gusto per la ballata, per un rock che mantiene agganci (sempre più esili) con certa musica di derivazione americana. The clap è un esercizio d’abilità strumentale di Howe, in curioso equilibrio tra Leo Kottke, Roy Harper e i Led Zeppelin del terzo LP ; I’ve seen all good people suona come una ballata folk impreziosita da formidabili parti vocali (sul modello di C.S.N.&Y.) e solidifica in un originale rock’n’roll, chiuso da un gran finale per organo e coro a cappella. La dinamica struttura dalle belle aperture melodiche di Perpetual change e le indovinate sequenze armoniche delle tre parti di Starship trooper offrono la misura estrema dei delicati meccanismi che regolano la sintesi sonora degli Yes. In seguito alla pubblicazione di The Yes album, Tony Kaye lascia (nel ’73 è nei Badger di Jackie Lomax, con la sezione ritmica di Gardner & Dyke) e con l’ingresso di Rick Wakeman, dagli Strawbs, si costituisce l’organico degli Yes più conosciuto e fortunato sotto il profilo commerciale. L’ottimo Fragile, registrato nel settembre del ’71, consegue notevole successo un po’ ovunque ; l’apporto strumentale di Wakeman, diplomato alla Royal Academy of Music, determina un chiaro avvicinamento a modi classici, non solo nel breve estratto della quarta sinfonia di Brahms (Cans and Brahms) ma nell’intera opera degli Yes. Tutti i membri del complesso propongono frammenti di varia natura e consistenza (Long distance runaround e la spettacolare azione corale di We have heaven - Anderson -, gli estratti ritmici di Five per cent for nothing - Bruford - e di The fish - Squire -, il pezzo per chitarra classica di Mood for a day Howe), che ruotano attorno ai tre episodi centrali del disco : Roundabout, sostanzialmente un raffinato e brillante rock’n’roll dove emergono squarci del crescente approccio classicheggiante, South side of the sky e soprattutto la notevole Heart of the sunrise, che coglie l’essenza del migliore rock sinfonico sull’esempio dei King Crimson. Al culmine del successo Close to the edge nel 1972 inaugura la fiera delle vanità per gli Yes, ormai proiettati verso una ricerca esasperata della perfezione tecnica ed estetica, pesantemente ostentata nelle esibizioni dal vivo. Close to the edge non manca di spunti pregevoli, come nell’ambiziosa And you and I, imperniata sul già sperimentato contrasto fra trame acustiche ed aperture di romantico sinfonismo. Poche novità sotto i cieli ma almeno un suono ancora vivo, capace di regalare tenere emozioni, quello che non sempre accade nella pomposa suite che titola l’album, con i suoi quattro tempi viziati da un eccesso di freddo e calcolato formalismo. Per Bill Bruford la misura è colma ; nel luglio ’72 effettua la coraggiosa scelta di lasciare gli Yes, all’apice della popolarità, per raggiungere i riorganizzati King Crimson di Robert Fripp. Sul lussuoso triplo Yessongs (Atlantic-1973), fedele celebrazione della stagione concertistica del 1972, appaiono Bruford e, in alcuni brani, il sostituto Alan White, un batterista d’esperienza anche se sicuramente meno inventivo. I progetti del gruppo si fanno sempre più ambiziosi e sfociano nell’elefantiaco Tales from topographic oceans (2 LP Atlantic-1973), che pure in alcune parti mostra residui segni di vitalità. Per la prima volta la critica si divide sulla valutazione del lavoro, ma il pubblico gradisce ugualmente il disco premiandolo con un buon numero di copie acquistate. Nel maggio del ’74, in seguito a forti tensioni interne al gruppo, Wakeman abbandona per proseguire una carriera solista inaugurata l’anno precedente con il discreto The six wives of Henry VIII (A&M-1973) e solo raramente all’altezza della fama acquisita come strumentista ; torna negli Yes nel ’77, per l’album Going for the one, quando la vena del complesso si è definitivamente esaurita. Relayer (Atlantic-1974) è inciso con l’aiuto del tastierista Patrick Moraz (fresco dell’esperienza con i Refugee), perfetto compendio della decadenza di una musica priva di respiro, soffocata da una maniacale cura riservata ad ogni benché minimo particolare, che determina un inestricabile, barocco groviglio di note senz’anima. Gruppo che s’orienta su coordinate sonore non molto distanti da quelle degli Yes, i Gentle Giant si formano nel 1970 su impulso dei fratelli scozzesi Derek, Ray e Phil Shulman, in precedenza impegnati nei Simon Duprée & the Big Sound, un complesso musicalmente collocabile nella scena del R & B, con all’attivo un album e un successo a 45 giri (Kites). La formazione viene completata dal chitarrista Gary Green, dal tastierista Kerry Minnear (diplomato al Royal College of Music e con un passato nei Rust), dal batterista Martin Smith e sin dall’omonimo album d’esordio, pubblicato nello stesso anno, i Gentle Giant propongono una musica ancor più raffinata e composita rispetto a quella degli Yes, con una fusione tra rock, R & B, classica, jazz, folk che prevede l’utilizzo di un’ampia strumentazione. Gentle Giant è un’ottima dimostrazione del già ben definito stile del complesso, con la presenza di alcuni dinamici brani rock basati su cadenze ricche di variabili e con un suono caratterizzato dalle lucide tonalità di chitarra e tastiere, oltre che da preziose armonie vocali (Giant, Nothing at all con il vento a fischiare la melodia !), mentre il folk e il rhythm & blues fanno capolino nelle strutture barocche di Funny ways e Alucard. Il successo ottenuto in Inghilterra è modesto e, come succede ad altri gruppi del periodo (Genesis, Van Der Graaf Generator), i Gentle Giant trovano motivazioni per continuare nell’interesse suscitato in vari paesi europei, Italia in particolare. GENTLE GIANT - ACQUIRING THE TASTE (Vertigo - 1971) Acquiring the taste, seconda emissione a 33 giri, raggiunge i limiti espressivi dei Gentle Giant sin dall’iniziale Pantagruel’s nativity, marcata dalla chitarra di Green che ne scolpisce la struttura portante ; le raffinate parti vocali, il tocco di vibrafono, la jam della parte centrale rendono un insieme di notevole impatto, in equilibrio fra preziosismi funambolici e potenza hard. Le valide The house, the street, the room (con maniacali inserti strumentali) e Wreck seguono le stesse direttive, in contrasto con gli arrangiamenti estremamente elaborati di Edge of twilight, di The moon is down e di Black cat che, sia pur pregevoli sotto l’aspetto strumentale, rischiano di cadere nella trappola di un rigido formalismo. Plain truth è più immediata, con il sostegno di un corposo rock dal quale emerge la prestazione di Ray Shulman al violino, il cui trattamento con il wah-wah evoca addirittura ricordi hendrixiani. Il gruppo mantiene inalterato lo stile anche nei dischi successivi, senza particolari accomodamenti commerciali ma pure rinunciando ad una ricerca originale, che possa evitare le ripetitive regole della propria musica. Così nel terzo LP Three friends (1972 - con il batterista Malcom Mortimer al posto di Smith) trovano collocazione canzoni già sentite quali Prologue e Mister class and quality ?, perfino la buona Schooldays appare leziosa e troppo legata a schemi collaudati. Tutto sommato, gli sforzi migliori restano il vago R & B (per quello che può essere R & B un brano dei Gentle Giant...) di Working all day e la classica Peel the paint, che nasconde una certa carenza d’ispirazione nella ‘overture’ da camera e nei potenti riff hard rock della chitarra di Green. Dal seguente Octopus (Vertigo-1973) il gruppo si stabilizza con il batterista Pugwash Weathers (dalla Grease Band di Joe Cocker) ; Octopus è però l’ultimo lavoro al quale partecipa Phil Shulman e proprio questo disco segna l’inizio di un tardivo (in ogni caso meritato) successo, in Inghilterra come negli Stati Uniti. La musica è ancora accettabile, manca di novità, ma agli appassionati del genere può piacere almeno fino al Free hand (Chrysalis) del 1975. Cosa resta oggi delle canzoni dei Genesis, di quelle fragili tessiture fantastiche che trovano sistemazione nelle loro opere migliori, agli albori degli anni Settanta. Oggi che Peter Gabriel è diventato un musicista moderno, alla ricerca di eccitanti contaminazioni tra musica occidentale e suoni del ‘terzo e quarto mondo’, oggi che Phil Collins è assurto agli onori delle cronache facendo l’attore, producendo musica di facile ascolto e di gran consumo. Nostalgia, forse un po’ di tristezza, ma vale la pena ricordare quella storia iniziata nell’autunno del 1967 con l’incontro tra Peter Gabriel, Tony Banks, Chris Stewart (tutti provenienti dai Garden Wall), Anthony Phillips e Michael Rutherford (entrambi degli Anon). Nel 1968 i Genesis firmano un contratto che li lega alla Decca, per la quale incidono un paio di singoli e l’album From Genesis to revelation (maggio 1969), dove suona il batterista John Silver al posto di Stewart. L’insuccesso è tale per cui i componenti del gruppo pensano seriamente ad una precoce ritirata dal mondo musicale. Li salva Tony Stratton-Smith, boss della Charisma, alla ricerca di formazioni da sistemare nella scena del rock progressivo in via di forte affermazione. Il primo significativo frutto è Trespass (Charisma-1970) che, sia pure con qualche timidezza di troppo e in modo frammentario, mostra le potenzialità del gruppo ; le canzoni lasciano trasparire una buona capacità di scrittura e il risultato è discreto, anche in assenza di brani memorabili. Le vendite restano scarse, il batterista John Mayhew (presente sul disco) e il chitarrista Anthony Phillips preferiscono lasciare (Phillips tornerà come solista nel 1977) ; con l’ingresso di Steve Hackett e di Phil Collins, quest’ultimo batterista nei Flaming Youth, si concretizza la formazione più celebre dei Genesis. GENESIS - NURSERY CRYME (Charisma - 1971) Pur essendo dei discreti strumentisti, i Genesis non possono essere paragonati dal punto di vista tecnico a complessi quali Yes e Gentle Giant ; il maggior impegno è perciò profuso sotto l’aspetto creativo e degli arrangiamenti, e questo permette alla musica del gruppo (almeno per quanto riguarda l’eccellente Nursery Cryme) di mantenere una sufficiente semplicità di esposizione, all’interno di un contesto curato ed elegante. Gabriel non è cantante dotato di particolare estensione vocale e preferisce lavorare sulla tonalità del canto, rendendola immediatamente riconoscibile ; inoltre dimostra di essere personaggio estroso, adottando in scena travestimenti a dir poco fantasiosi, contribuendo in modo decisivo all’affermazione del complesso che dal vivo si esibisce in ambiziose forme di ‘rock teatrale’. Nursery Cryme vede la luce nel novembre 1971 e lo stile espressivo preferito appare quello della canzone romantica, come dimostrano i riusciti episodi di For absent friends, Seven stones, Harlequin, mentre The return of the giant Hogweed possiede un accentuato telaio ritmico ed esibisce più di qualche punto di contatto con la musica dei Gentle Giant. Ancora lontana per i Genesis appare la dilagante moda della suite, anche se i brani più significativi anticipano, di fatto, la futura adesione ad ambiziose forme a tema. Introdotta da un delicato arpeggio, The musical box scorre fluida su un tappeto di soffuse e romantiche melodie per chitarra, flauto e voce, animata a più riprese dal dialogo serrato tra chitarra e organo, fino all’epico crescendo del finale pervaso dall’organo di Banks e dal canto, ora deciso, di Gabriel ; il tema di The fountain of Salmacis, sufficientemente movimentato ed impreziosito dagli interventi di Hackett, è caratterizzato dal mellotron che si produce in folate d’intenso sinfonismo. I Genesis ottengono buon successo, vanno in classifica con The musical box e spopolano in Italia, dove nel corso del 1972 (tra aprile e settembre) tengono ben 31 concerti ! Foxtrot nell’ottobre del ’72 ottiene risultati commerciali addirittura migliori (in Italia è n. 1), ma risulta musicalmente inferiore all’opera precedente. Giunge l’ora della suite e Supper’s ready, nonostante la presenza di qualche spunto notevole, si perde in un eccessivo sforzo di connessione delle varie parti, senza raggiungere un risultato pari alle energie profuse. Del resto anche i rimanenti brani non valgono le piccole gemme di Nursery Cryme ; in generale c’è minore fantasia ed affiora un rigido schematismo sonoro. Tra il ’72 e il ’73 il gruppo effettua numerosi concerti negli Stati Uniti, intervallati da un trionfale tour inglese dal quale viene ricavato Genesis live (Charisma-1973, registrato nel febbraio ’73 a Manchester e Leicester), comprendente un breve compendio dei loro brani migliori. In autunno esce il nuovo album di studio Selling England by the pound, che tenta di recuperare l’originaria forma canzone e nell’ottima Dancing with the moonlit knight quasi riesce a rinverdire la magia di Nursery Cryme. Purtroppo il suono soffre di un crescente tecnicismo che penalizza le buone intenzioni sparse sul disco, soffocando la natura romantica della musica (Firth of fifth) e permettendo l’affiorare di episodi poco ispirati (I know what I like in your wardrobe) o superflui (More fool me, con il futuro leader Phil Collins al canto). La situazione non migliora con il doppio The lamb lies down on Broadway (Charisma-1974) che si affida a soluzioni concept, tanto spettacolari quanto fredde e calcolate. Il 24 marzo 1975 la formazione classica dei Genesis tiene, per l’ultima volta in Italia, un concerto nell’affollatissimo palasport di Torino, con situazioni di grande tensione per gli scontri che coinvolgono la polizia e numerosi dei presenti ; il gruppo propone The lamb... in modo scontato, senza entusiasmo. Due mesi dopo Gabriel abbandona clamorosamente i compagni. Per lui l’età delle favole è terminata, il successo fine a se stesso evidentemente non è ciò che il musicista sta cercando. Collins assume il comando delle operazioni, ma oramai i Genesis sono fuori tempo massimo (non per il successo, che negli anni Ottanta diviene eclatante), luccicante ed ingombrante soprammobile di un’epoca tramontata. C’era una volta... La leggenda vuole che siano proprio loro ad ispirare la sigla Harvest, prestigioso marchio progressivo della EMI ; a prescindere da curiose e non determinanti considerazioni del genere, i Barclay James Harvest riescono a ritagliarsi uno spazio tutt’altro che sfarzoso, ma quantomeno meritevole di rispetto, nel campo del pop romantico dei primi anni Settanta. John Lees (ch.v.), Stewart Wolstenholme (ts.), Les Holroyd (bs.) e Mel Pritchard (bt.) sono musicisti con alle spalle esperienze rhythm & blues, quando nel 1967 s’associano per costituire il nuovo gruppo. Affidati alle cure del produttore Norman Smith (Pink Floyd) i Barclay James Harvest registrano nel novembre ’69 il primo album omonimo (Harvest-1970), che chiarisce immediatamente gli elementi essenziali della loro musica. I risultati più significativi sono ottenuti con i lavori d’inizio carriera e in particolare con l’ottima seconda prova, Once again, registrata alla fine del 1970 e pubblicata nel febbraio dell’anno successivo. Nelle lunghe She said e Mocking bird i Barclay James Harvest si dimostrano autori di un rock tardo romantico dai forti caratteri sinfonici, ma sufficientemente equilibrato e non pesantemente stucchevole. Tra i brani più concisi piacciono la leggiadra Galadriel, la robusta Ball and chain e soprattutto l’ottima Song for dying, che sintetizza tutte le componenti migliori del suono del gruppo, con gli sfumati toni romantici e decadenti uniti ad un approccio vagamente psichedelico della chitarra. Qualcosa di simile è alla base della proposta musicale dei discreti Fruupp, gruppo di origine irlandese autore, tra il 1973 e il 1975, di quattro album pubblicati dall’etichetta Dawn. Dal primo, e forse migliore, Future legends all’epitaffio di Modern masquerades, i Fruupp s’impegnano in una musica dal pesante respiro melodico, non priva di spunti interessanti (Decision) ma frequentemente viziata da un eccesso di colorazioni barocche che rendono il suono alquanto artefatto e pretenzioso. Altra formazione che soffre le contraddizioni di una musica scarsamente equilibrata e ricca d’ingenuità è quella dei Beggar’s Opera, che nel 1970 pubblicano Act one (Vertigo), un lavoro che porta all’esasperazione le tipiche componenti dello stile classico progressivo, con forti accenti barocchi di dubbio gusto. Davvero non si capisce se ad animare pasticci sonori quali Poet and peasant, Passacaglia, Raymond’s road, Light cavalry sia una sana necessità di divertimento al limite dell’ironia, oppure una triste consapevolezza di sofisticate ed improbabili elucubrazioni ben poco piacevoli. Qualcosa di meglio si ascolta nella più lineare Memory, in ogni caso resta una musica ibrida e scarsamente coinvolgente, una sorta di collage disarticolato tra frammenti di diversa natura ed origine stilistica, appiccicati tra loro senza logica apparente. Se questa è l’opera dei poveri, i poveri restano tali, in quanto all’opera... Fortunatamente il gruppo, costituito da Martin Griffiths (v.) - Alan Park (ts.) - Ricky Gardiner (ch.) - Marshall Erskine (bs.) - Raymond Wilson (bt.), con il secondo LP Waters of change (Vertigo-1971) rende il suono un po’ più sobrio, e il successivo Pathfinder (con Gordon Sellar al posto di Erskine) riesce perfino a suscitare un discreto interesse. Ora i Beggar’s Opera hanno semplificato notevolmente i modi, eliminando buona parte degli ammiccamenti barocchi, e gli esiti sono buoni nella bella versione di MacArthur park (un brano di Jimmy Webb, di gran successo alla fine dei Sessanta nell’interpretazione di Richard Harris, riadattato con un gustoso arrangiamento soft jazz e venato da forme classiche più contenute), oltre che nel fluido impeto ritmico di The witch. Il gruppo resiste fino al 1976, senza andare oltre ad un moderato interesse da parte di pubblico e addetti ai lavori ; il solo Gardiner vanta ulteriori esperienze degne di menzione, con partecipazioni saltuarie a dischi di David Bowie e Iggy Pop. Appartenenti alla schiera dei classico-romantici di successo, i Curved Air si distinguono per la propensione verso moderate soluzioni sperimentali, come lascia intendere perfino il nome scelto per il complesso, tratto da una celebre composizione di Terry Riley (A rainbow in Curved Air). La nascita del gruppo risale al marzo del 1970, quando Darryl Way, Francis Monkman e Florian Pilkington (tutti membri dei Sisyphus) si uniscono alla cantante Sonja Kristina e al bassista Robert Martin ; con quest’organico i Curved Air registrano l’album d’esordio Air conditioning. CURVED AIR - AIR CONDITIONING (Warner Bros. - 1970) I buoni propositi sperimentali restano però sulla carta e solo di rado trovano collocazione nel vivo dell’esposizione strumentale ; Monkman si dimostra il più convinto assertore del verbo di Riley ma, nonostante l’ottimo operato alle tastiere e le tonalità elettriche, secche e dilatate delle chitarre, è obbligato a rimanere sulla difensiva per via del virtuosismo dilagante del violino di Way e della presenza della piacevole voce solista di Sonja Kristina. Inoltre, il gruppo è spinto in modo consistente a livello promozionale e l’esigenza dell’ottenimento di un riscontro commerciale immediato contrasta con la produzione di una musica che risulti troppo slegata dai canoni della bella melodia. In ogni caso Air conditioning, che si presenta negli scaffali di vendita in una rivoluzionaria (per i tempi) veste ‘picture’, appare convincente e al di sopra della media di produzioni similari. Il complesso si disimpegna bene in alcuni brani rock corposi, come l’intrigante It happened today, capace di distendersi in una bella frase melodica conclusiva diretta dal violino di Way, come la divertente (e un po’ scontata) Stretch e l’originale Propositions, forse la composizione di maggior interesse, con le tastiere e le chitarre di Monkman a ricordare da vicino le strutture iterative di Terry Riley. Le valide Hide and seek e Situations si nutrono di cadenze mutevoli e possiedono un buon impatto, mentre Screw e Rob one approdano su atmosfere classiche, con il violino a generare impressioni romantiche di gran fascino, e Vivaldi s’affida all’abilità strumentale di Darryl Way non senza introdurre tra le pieghe del suono le manipolazioni elettroniche di Monkman, elementi di disturbo al dilagante classicismo. Il Second album (Warner Bros.-1971, con il bassista Ian Eyre) conferma l’interesse per il gruppo, beneficiato dal successo del 45 giri Back street Luv che con il suo rock vigoroso raggiunge i primi posti delle classifiche nel dicembre del ’71. Ancora un avvicendamento nel ruolo di bassista (Mike Wedgwood al posto di Eyre) segna il terzo LP Phantasmagoria (Warner Bros.-1972), subito prima dell’abbandono di Darryl Way che, formando i Wolf (tre album incisi), in pratica determina lo scioglimento dei Curved Air. Sonja Kristina non intende mollare e, aiutata dal confermato Wedgwood, organizza un’inedita formazione che comprende Eddie Jobson (vi.), Kirby Gregory (ch.) e Jim Russell (bt.), giusto per l’incisione di Air cut (Warner Bros.-1973). Il nuovo assetto ha però breve durata, in quanto Jobson si unisce ai Roxy Music (all’epoca del loro terzo LP Stranded) e Wedgwood entra nei Caravan. Alla fine del 1974 i Curved Air originali (con il bassista Philip Kohn) tornano insieme per un tour che frutta il dignitoso Curved Air live (Deram-1975) comprendente, quantomeno, una bella versione di Propositions. Monkman e Pilkington abbandonano definitivamente, mentre la Kristina e Way decidono di continuare con l’assunzione di altri musicisti, tra i quali sono da segnalare Tony Reeves (bs., ex Colosseum) e il batterista Stewart Copeland, che prima si sposa la bella Sonja e poi (dicembre ’76) fonda con Sting e con Andy Summers i Police. ARS LONGA VITA BREVIS - 5 la musica della casa delle bambole - 30 Per alcuni gruppi del rock romantico che riescono ad agguantare un solido successo commerciale, ve ne sono parecchi altri (non sempre di trascurabile qualità) che restano desolatamente ai margini della scena, ignorati dal grosso pubblico e colpevolmente dimenticati dagli addetti ai lavori. Il nome più fulgido è quello dei Cressida, complesso autore di due interessanti album per la Vertigo, il primo dei quali pubblicato all’inizio del 1970 con un organico che prevede Peter Jennings (ts.), Angus Cullen (v.), John Heyworth (ch.), Kevin McCarthy (bs.) e Iain Clark (bt.). Cressida appare esordio timido ma privo di particolari scadimenti, che riesce a gettare le fondamenta del suono del gruppo con una manciata di limpide composizioni in equilibrio tra rock romantico e derivazioni della prima scuola di Canterbury (in particolare Caravan). CRESSIDA - ASYLUM (Vertigo - 1971) Asylum, con il nuovo chitarrista John Culley e con la prestigiosa partecipazione di Harold McNair (collaboratore di lunga data di Donovan), raggiunge livelli d’assoluta eccellenza con una musica che piace soprattutto per la scioltezza stilistica ed esecutiva, nell’ambito di un genere nel quale si tende ad estremizzare l’aspetto tecnico e a complicare fino all’assurdo gli arrangiamenti. Gli elementi della proposta dei Cressida restano quelli iniziali, con riferimenti al Canterbury sound sia per l’approccio strumentale, sia per l’impostazione vocale di Cullen, come si può dedurre dall’ascolto delle belle Asylum e Goodbye post office tower goodbye ; il lavoro mantiene comunque una profonda originalità, grazie al sentimento e all’intima decadenza romantica che le canzoni dimostrano di possedere. Munich, ad esempio, è un lungo brano melodico giocato sul morbido dialogo tra voce e organo, con lirici interventi di chitarra, misurate intromissioni orchestrali e con una brillante parte centrale strutturata a forma di jam session. L’accoppiata Survivor / Reprieved passa da potenti soluzioni in continua evoluzione (che ricordano l’incedere dei brani ritmicamente più sostenuti di Shawn Phillips) ad atmosfere strumentali vagamente jazz. La maggior intensità emotiva è raggiunta da Lisa, brano che racchiude la migliore espressione del rock romantico, senza dover fare ricorso ad inutili orpelli, preferendo accarezzare i risvolti più intimi del suono con sprazzi di gran lirismo e con eccellenti spunti strumentali (tra cui il flauto di McNair) ed orchestrali. Molto bella è pure la conclusiva Let them come when they will, una spigliata jam con chitarra e organo in evidenza. La qualità del disco non basta a salvare i Cressida da un precoce scioglimento, causato dal completo disinteresse del pubblico nei loro confronti. Kevin McCarthy fonda gli oscuri Tranquillity, John Culley fa una breve apparizione nell’ultima formazione dei Black Widow e il bravo Iain Clark sfiora per un attimo la notorietà sedendosi ai tamburi degli Uriah Heep, ma solo per il terzo LP Look at yourself. Giustizia vuole che almeno altri tre complessi del sottobosco musicale inglese meritino d’essere presi in considerazione e, anche solo per un attimo, fatti emergere dalla fitta nebbia che ne oscura il ricordo. Pur non raggiungendo i livelli espressivi dei Cressida, i vari Gracious, Czar e Spring riescono ad imprimere nelle loro poche opere vitalità e passione sufficienti a non farli sfigurare al cospetto dei tanto osannati colleghi di successo. I Gracious si formano nel 1968, con un organico che prevede Paul Davis (v.ch.pr.), Martin Kitcat (ts.), Alan Cowderoy (ch.v.), Tim Wheatley (bs.), Robert Lipson (bt.), e subito vanno in tournée come spalla dei Who. Nella primavera del 1970 il gruppo registra il primo album Gracious !, per l’etichetta Vertigo ; il rock conciso di Introduction echeggia soluzioni care ai primi Gentle Giant, con inserti di clavicembalo e una buona predisposizione ritmica, un organo floydiano si staglia all’orizzonte del placido neoclassicismo di Heaven, che confluisce nelle devastanti, soffocanti spirali di Hell. Tutto sommato, l’episodio di maggior interesse è la lunga e complessa sequenza di The dream, che poggia su elaborate frasi rock alternate a creazioni melodiche di derivazione classica, mostrando però una frammentarietà troppo accentuata. L’insuccesso è totale, il secondo e ultimo LP (This is Gracious, Philips-1972) risulta inferiore e comprende materiale scartato dal lavoro precedente ; dopo lo scioglimento del complesso, il bassista Wheatley finisce nei Tagget (due LP all’attivo) mentre il cantante Davis prova come solista ed entra a far parte del cast di Jesus Christ Superstar. I Czar sono un ancor più oscuro gruppo, che ha la forza d’incidere nel 1970 il solo album omonimo d’esordio, pubblicato dalla Fontana. Bob Hodges (ts.v.), Mick Ware (ch.v.), Paul Kendrick (bs.ch.v.) e Del Gough (bt.) sono titolari di una musica dalle sonorità avvolgenti, direttamente derivata dal rock sinfonico (in particolare dai King Crimson del primo LP), con largo spiegamento di mellotron e un’impostazione più marcatamente rock nell’uso della chitarra. Nei brani migliori, la valida Tread softly on my dreams e le belle ballate di Cecelia e Today, affiora qualche tonalità dark che rende la proposta moderatamente originale. Gli Spring dimostrano di possedere discrete capacità strumentali e soprattutto una vena creativa semplice ed estremamente efficace, che permette al gruppo d’ottenere risultati di tutto rispetto con brani caratterizzati da una pronunciata sensibilità romantica. Anche loro, come molte altre formazioni underground, capitalizzano gli sforzi in un’unica pubblicazione (Spring, per la Neon), che raccoglie registrazioni effettuate tra l’inverno ’70 e la primavera ’71. Con un organico dominato dalla presenza di ben tre mellotron (il cantante Pat Moran, il chitarrista Ray Martinez e il tastierista Kips Brown, oltre alla sezione ritmica costituita da Adrian Maloney - bs. - e da Pique Withers - bt.), il gruppo evita di affondare in un pesante e forzato sinfonismo, avendo l’accortezza di porre particolare cura alla melodia delle canzoni che, dotate di un'appassionante anima acustica (Golden fleece, Gazing, Grail), conquistano senza riserve con il loro fascino discreto. L’unico membro degli Spring ad ottenere significativi risultati dalla carriera musicale è il batterista Withers, che si riduce a suonare con Mal e i Primitives, affronta una dignitosa serie d’incisioni come sessionman (tra l’altro partecipa a buone registrazioni di Michael Chapman, dove è presente anche il bravo Ray Martinez) e alla fine si ritrova catapultato sulla grande scena musicale alle spalle di Mark Knopfler, nei Dire Straits. - 31 Tra i nuclei più interessanti del pop progressivo inglese, i Van Der Graaf Generator si collocano ai margini del rock a tinte classiche, preferendo dedicarsi ad una musica aperta a svariate influenze stilistiche, filtrata attraverso il comune denominatore della creatività ‘cosmica’ e visionaria di Peter Hammill. Le prime tracce del gruppo sono rintracciabili a Manchester nel 1967, dove Hammill s’associa a tali Nick Pearne (ts.) e Chris Smith (bt.) ; l’anno successivo i due sono sostituiti dal tastierista Hugh Banton, dal bassista Keith Ellis e dal batterista Guy Evans. Le registrazioni dell’album d’esordio The aerosol grey machine (Fontana-1969) si tengono tra il gennaio e l’estate del ’69, partendo dal presupposto di un album solista di Hammill che alla fine viene pubblicato con la sigla del complesso. Il disco non può certo essere annoverato tra le migliori produzioni del periodo, anche se un po’ tutte le composizioni hanno il pregio d’evidenziare l’interessante impostazione vocale di Hammill, non adeguatamente supportata da una musica ancora lontana dall’acquisire una maturità stilistica ben definita. Giusto si possono ricordare l’irreprensibile staticità melodica di Afterwards e l’intonazione futuribile di Aquarian, oltre a qualche frammento delle acerbe Into a game e Octopus. Keith Ellis lascia subito dopo per raggiungere i Juicy Lucy, sostituito da Nic Potter ; ben più decisivo per lo sviluppo musicale dei Van Der Graaf è l’ingresso in organico del fiatista David Jackson, che introduce importanti variabili al suono del gruppo sin dal secondo LP The least we can do is wave to each other (1970), disco di qualità nettamente superiore al precedente. L’oscura, glaciale Darkness è il primo risultato di rilievo per i Van Der Graaf, merito delle tastiere spaziali di Banton, delle interessanti (e spesso imprevedibili) tessiture armoniche dei fiati di Jackson, di una sezione ritmica (in particolare Evans) dotata di fantasia e buon dinamismo, e ovviamente delle notevoli armonie vocali di Hammill che affina il canto, prendendo a prestito spunti dal Tim Buckley più melodico per inserirli in un intenso romanticismo gotico ricco di fascino. Refugees, canzone pervasa da una dolcezza nostalgica e decadente, il lirismo epico dell’ottima White hammer (contraddistinta da una caotica ed inquietante chiusura) e la lunga, articolata After the flood sono i momenti importanti di un lavoro sicuramente riuscito. Il complesso si stabilizza con un organico al quadrato (Hammill, Banton, Jackson, Evans) che non prevede la presenza fissa di un bassista (anche se Potter rimane collaboratore esterno in molti dischi dei Van Der Graaf e dello stesso Hammill) ; il nuovo album H to He, who am the only one, sempre nel 1970, registra l’illustre partecipazione di Robert Fripp, la cui chitarra s’insinua tra le spirali nevrasteniche di The emperor in his war-room. Il disco è aperto da Killer, un brano insolitamente aggressivo che sfrutta un accattivante riff dettato dai fiati di Jackson e determina un netto contrasto con la riflessiva pacatezza pianistica della successiva House with no door. Hammill rende ancor più verticale l’impostazione del cupo romanticismo vocale, estremizzando le escursioni tonali, assecondato efficacemente dal gruppo alla ricerca di un suono elaborato e surreale in Lost e Pioneers over C, composizioni che anticipano le magistrali evoluzioni di Pawn hearts. VAN DER GRAAF GENERATOR - PAWN HEARTS (Charisma - 1971) I Van Der Graaf Generator ottengono qualche timido consenso in Inghilterra, mentre sono molto apprezzati in Italia dove competono in notorietà con Genesis e Gentle Giant, gruppi ai quali vengono erroneamente paragonati ; sarà per l’appartenenza alla medesima casa discografica (la Charisma) e per la presenza del produttore John Anthony, ma la musica possiede in realtà ben pochi punti di contatto con il rock romantico di Genesis e simili. Pawn hearts, registrato nel settembre del ’71, lo dimostra chiaramente. Certo l’aspetto melodico è una delle componenti basilari, ma il suono è indirizzato verso inquietanti forme di psichedelia dark, con gli strumenti che evitano di scendere a smaccati compromessi di natura classica (pur rimanendo sensibili a questa matrice), esibendosi in intricate architetture che piuttosto fanno affiorare qualche affinità con le partiture dei King Crimson (in tal senso appare tutt’altro che casuale la rinnovata e più radicata presenza della chitarra di Fripp). Notevoli sono le due lunghe composizioni di Hammill che trovano posto sulla prima facciata del disco, brani che evidenziano l’abilità del gruppo nell’attraversare climi strumentali mutevoli e di gran caratterizzazione lirica per merito delle coinvolgenti prestazioni vocali del leader stesso. Lemmings e Man-erg rappresentano il vertice della creatività dei Van Der Graaf Generator, così come la suite A plague of lighthouse-keepers recupera in sintesi tutti gli aspetti fondamentali della loro musica, fornendo una sorta di affascinante epitaffio della storia di Hammill e compagni. Già prima delle registrazioni di Pawn hearts Peter Hammill realizza un buon album come solista (Fool’s mate, Charisma-1971, con l’aiuto di vari musicisti del giro Van Der Graaf), che non si discosta eccessivamente dalle linee portanti del suono del gruppo madre. La decisione del cantante è quella di proseguire sotto proprio nome, determinando così lo scioglimento dei Van Der Graaf che torneranno alla ribalta solo nel 1975, senza riuscire a conseguire i mirabili risultati dei primi tempi. L’ottimo Chameleon in the shadow of the night sceglie la via di un suono scarno ed essenziale, basato quasi esclusivamente su chitarra acustica, piano e voce, con belle e impressionanti composizioni (German overalls, Easy to slip away e l’elettrica Rock and Role) che mostrano qualche punto di contatto con lo stile di Roy Harper. La carriera solista di Hammill prosegue ricca di episodi sino ai nostri giorni, sempre contraddistinta da una buona qualità media dei lavori e con punte di particolare interesse negli eccellenti Nadir’s big chance (Charisma-1975) e The future now (Charisma-1978). Spesso associati ai Van Der Graaf Generator, probabilmente a causa della presenza dei fiati di Keith Gemmell, gli Audience muovono su coordinate sonore nettamente diverse da quelle del gruppo di Peter Hammill. Dopo la pubblicazione di un controverso lavoro d’esordio (Audience, Polydor-1969), rinnegato dai musicisti stessi, il gruppo formato da Howard Werth (v.ch.), Keith Gemmell (sf.), Trevor Williams (bs.), Tony Connor (bt.pr.) viene messo sotto contratto da Tony Stratton-Smith per la sua Charisma, realizzando il discreto Friend’s friend’s friend (1970). La musica è lontana dagli oscuri, plumbei incubi psicospaziali tipici dei migliori Van Der Graaf e si sofferma sulla modalità della ballata rock, presentata di volta in volta con caratteristiche diverse, come si può desumere dal lavoro più rappresentativo, The house on the hill del 1971. Il brano più noto (e forse più bello) è Jackdaw, che mette in risalto un’intensa scrittura melodica con solidi arrangiamenti dei fiati e la convincente prestazione al canto di Werth, potente e sicuro. In altri casi le ballate diventano lenti d’atmosfera (I had a dream), oppure canzoni dal ritmo spigliato (Nancy) ; bella anche la title track, che si avvale del decisivo apporto dei fiati di Gemmell e riesce a sopportare un breve e poco indicato assolo di batteria. Gli Audience non resistono al crescente interesse e all’inevitabile pressione di pubblico e critica ; nel 1971, dopo una serie di concerti americani con i Faces, Keith Gemmell abbandona per disaccordi interni (suonerà nei Sammy e negli Stackridge) e la formazione si scioglie l’anno successivo, dopo un ultimo superfluo album e un disastroso concerto al Lyceum. Candidato da Stratton-Smith, Werth rinuncia all’offerta di diventare il nuovo cantante dei Doors, in seguito alla scomparsa di Jim Morrison, ed inizia la carriera solista. Il bassista Trevor Williams entra nei Johnatan Kelly Outside, dove sono pure l’ex batterista dei Ben (Dave Sheen) e il chirarrista Snowy White (poi con Pink Floyd, dal vivo, e con Thin Lizzy). Quando alla fine del 1969 crea un proprio gruppo con il quale affrontare i modi del pop romantico progressivo, Rod Argent è musicista con alle spalle un lungo tirocinio nella formazione beat degli Zombies, che tra il ’62 e il ’67 riesce sporadicamente a centrare qualche successo con un paio di 45 giri e con l’album Odyssey & oracle (CBS-1968). Nel nuovo complesso, denominato semplicemente Argent, confluiscono il chitarrista Russ Ballard e il batterista Robert Henrit (entrambi con precedenti in gruppi beat quali Roulettes e Unit 4+2), oltre al bassista Jim Rodford, cugino di Argent ed ex Mike Cotton Sound. ARGENT - RING OF HANDS (CBS - 1971) Con gran parte del materiale composto da Argent e da Chris White (ex compagno del leader negli Zombies), e qualche significativo contributo di Ballard, gli Argent esordiscono nel 1970 con un discreto album omonimo per la CBS che appare tentativo di superamento del vecchio idioma beat. Solo a tratti lo sforzo per cercare di creare un suono vario ed eclettico ottiene i risultati sperati, pur in presenza di buone canzoni quali Like honey, Liar, The feeling is inside. Ovviamente la musica prevede ampio spazio per l’organo e il piano di Argent, avvalendosi di raffinate e piacevoli (anche se un poco esili) armonie vocali. Sicuramente più maturo e godibile risulta il successivo Ring of hands, che cattura il giusto equilibrio di un pop progressivo facile ed ordinato, sempre molto curato, con belle melodie e precise soluzioni vocali come nell’iniziale Celebration, nella grintosa Chained (una sorta di riff rallentato alla Hendrix, sul quale viene incastonata una stratificazione corale di grand’effetto), come nelle beatlesiane Rejoice e Pleasure (con echi Yes). Cast your spell uranus è un R & B con accenni gospel, ben strutturato e dominato dalle tastiere di Argent, che pure forniscono le trame classicheggianti all’ambiziosa Lothlorien. Il pop jazz di Sleep won’t help me e lo spedito senso affermativo di Where are we going wrong chiudono degnamente il disco ; purtroppo la musica del gruppo subisce una rapida involuzione nei lavori seguenti, perdendo gran parte della freschezza stilistica. Al termine del 1974, Ballard abbandona i compagni per intraprendere la carriera solistica, evento che precede di poco la separazione definitiva degli Argent. Gli Ashton, Gardner & Dyke nascono nel 1969, dall’associazione tra il tastierista Tony Ashton e il batterista Roy Dyke (entrambi reduci dell’epoca beat con i Remo 4) con il bassista Kim Gardner, musicista di notevole esperienza che vanta partecipazioni a Birds, Santa Barbera Machine Head e Creation. Nonostante la predisposizione triangolare tipica dell’epoca (Nice, E.L.&P., Quatermass) la proposta del gruppo si dimostra originale, restando in bilico tra rock, jazz e soul, valorizzata dalle raffinate tastiere e dalla voce rauca di Ashton. Consigliabile l’ascolto, quanto meno, del primo omonimo LP datato 1969, nel quale spicca la bella Maiden voyage (pubblicata anche come singolo), vagamente in stile Traffic. Nel disco trovano spazio diversi brani swinganti di qualità come Young man ain’t nothing in the world these days, Picture sliding down the wall, Rolling home e una discreta versione della New York mining disaster 1941 dei Bee Gees. Il gruppo resta ai margini del successo commerciale e in seguito allo scioglimento (avvenuto nel 1972, dopo la pubblicazione di altri tre album) ritroviamo Gardner e Dyke impegnati nel rock blues dei Badger, con Jackie Lomax e Tony Kaye (Yes) ; Ashton s’unisce agli ultimi Family per poi dedicarsi a svariate collaborazioni con i Broken Glass (presenti Stan Webb e Miller Anderson), con i due Purple Jon Lord e Ian Paice e con i Chicken Shack. Pete York è il batterista dello Spencer Davis Group sin dalla fondazione del complesso, nell’aprile del ’63 ; Eddie Hardin entra in formazione nel 1967, a seguito della dipartita di Stevie Winwood. Insieme elaborano un ambizioso (anche se scarno) progetto e nell’ottobre del ’68, dopo avere lasciato Davis, decidono di attuarlo. Nasce così uno stravagante duo che rivede in termini minimali il concetto di formazione rock impostata sulle tastiere (in pratica organo + batteria), fregiandosi del titolo di ‘più piccola Big Band del mondo’. Il primo LP di Hardin & York, Tomorrow today (pubblicato a metà del ’69), è un buon esempio della loro proposta musicale imperniata su un suono scarno, essenziale ma non privo di arrangiamenti ricercati e in grado d’interessare grazie alla notevole fluidità strumentale, dimostrata dal duo soprattutto dal vivo. In studio il gruppo si avvale della collaborazione di vari musicisti, che contribuiscono a donare ai brani una maggiore completezza ; in particolare piacciono canzoni semplici (ma tutt’altro che banali) quali Tomorrow today (un soul rock alla Traffic), Candlelight, le moderate Listen everyone e I’m lost. Degni di menzione gli arrangiamenti jazz rock di Mountains of sand, e pure quelli blues che fanno capolino nella raffinata Can’t keep a good man down. Dal vivo Hardin & York sfoderano una grinta e un dinamismo strumentale rilevanti, doti indispensabili per evitare il pericolo di esibizioni povere della necessaria ampiezza timbrica. Il progetto si consuma rapidamente, nel giro di poche stagioni, con la realizzazione di altri due buoni lavori, World’s smallest big band (Bell-1970) e For the world (Decca-1971), per perdersi in ambizioni solistiche che passano quasi inosservate. Ma davvero, non erano male. Una breve citazione per Affinity e Manfred Mann’s Earth Band. I primi riscuotono buone critiche all’uscita, nel 1970, di quello che rimane l’unico album pubblicato dal gruppo, costituito da Lynton Naiff (or.), Mike Jopp (ch.), Mo Foster (bs.), Grant Serpell (bt.) e dalla cantante Linda Hoyle. In effetti, gli Affinity dimostrano di avere buone qualità da spendere, anche se la musica si avvicina con marcata evidenza allo stile dei Trinity di Brian Auger, con l’organo in bella mostra e la voce della Hoyle ispirata dalla Driscoll. Così le ottime Night flight e Mr. Joy soffrono dell’inevitabile paragone con i più rinomati Trinity, mentre I am and so are you e soprattutto Three sisters appaiono meno ambiziose ma concrete nella fluida elasticità ritmica che le contraddistingue. Non particolarmente esaltante, invece, la versione di All along the watchtower posta in chiusura dell’album. Alla pubblicazione di Affinity il complesso è già in via d’estinzione : la Hoyle ci prova come solista con Pieces of me (Vertigo-1971), dove suonano i Nucleus quasi al completo (Spedding, Marshall, Jenkins e Clyne). Degli altri membri, Naiff fa una breve apparizione con i Toe Fat, Foster va con i RMS e Serpell con i Sailor. Dopo lo scioglimento dei Chapter Three, primo tentativo da parte di Manfred Mann d’adeguamento alle vigenti norme progressive, nel 1971 è la volta della Earth Band, formazione che poggia su solide basi rock appena sfiorate da arrangiamenti ispirati a certa psichedelia spaziale vuota ed esteriore. Dei numerosi dischi incisi il migliore sembra il Solar fire del 1973, su etichetta Bronze. Non indispensabili. La carriera musicale di Peter Bardens inizia nel 1963 con i Cheynes, un complesso del quale fa parte anche il batterista Mike Fleetwood e che riesce ad incidere tre singoli, prima di scomparire a metà del decennio. Bardens suona per un breve periodo con i Them di Van Morrison, quindi all’inizio del ’66 fonda i Peter B’s Looners, con la presenza (oltre al ritrovato Fleetwood) di Peter Green alla chitarra e di Dave Ambrose al basso. Con l’inserimento delle voci di Rod Stewart e di Beryl Marsden, nell’inverno del ’66, il gruppo si trasforma in Shotgun Express e nel giro di pochi mesi incide un paio di singoli : Green e Fleetwood vanno a fondare i Fleetwood Mac, Ambrose suona con i Trinity di Brian Auger, Stewart entra nel Jeff Beck Group e Bardens resta ai margini della grande scena, partecipando a formazioni secondarie quali Love Affair e Mike Cotton Sound. Inoltre, all’inizio dei Settanta, l’organista pubblica due album in proprio editi dalla Transatlantic, subito prima di tuffarsi nella tarda scena progressiva con le creature dei Village (poi ribattezzati Global Village Trucking Co.) e quindi degli On, che nel 1972 comprendono tre ex membri dei Brew, Andrew Latimer, Doug Ferguson e Andy Ward. L’anno successivo gli On mutano nome in Camel. CAMEL - CAMEL (MCA - 1973) La nuova formazione concretizza immediatamente ottimi risultati con la pubblicazione dell’album omonimo d’esordio, che sin dall’iniziale Slow yourself down esprime al meglio il tipico suono sobrio, elegante ed efficace, povero di novità ma ricco d’equilibrio, ciò che manca ai gruppi del rock romantico degli anni Settanta inoltrati. I Camel ricordano da vicino il suono di Canterbury per il tocco leggero e gentile e per l’incedere fluido, mai forzato degli strumenti. Tra i lati negativi, la modesta qualità delle parti vocali è il punto debole della loro proposta, sicuramente più attraente nella veste strumentale. Mystic queen è un bel lento d’atmosfera, che presenta linee d’organo sinuose e gradevoli e una lirica chitarra, ottenendo un effetto non molto distante dai migliori Argent. Se Never let go (chitarristica e scorrevole, ma pure un tantino scontata), la strumentale Six ate (ben eseguita, anche se priva di particolare brillantezza), la graziosa Curiosity (Canterbury sound un po’ timido) segnano il passo senza per altro deludere, le ottime Separation e Arubaluba rivitalizzano con un suono scattante che, soprattutto per la chitarra in stile simil Hillage dei primi tempi e per l’articolazione della struttura dei brani, ricorda i Khan più determinati. Il buono stato di forma è confermato dal vivo ; nell’ottobre del ’73 i Camel contribuiscono alla realizzazione del doppio Live at Dingwall’s Dance Hall, che raccoglie performance di Global Village Trucking Co., Henry Cow e Gong. La loro suite strumentale in tre parti God of light revisited sfoggia un suono brillante e privo di fronzoli, basato essenzialmente sull’ottimo lavoro all’organo di Bardens. Il gruppo tiene bene anche nel successivo album di studio del ’74, Mirage, che non introduce elementi di novità, focalizzando l’abilità dei musicisti nel saper dar vita a trovate armoniche ingegnose e poco complicate, a mezza strada tra rock duro e melodia romantica. Indicative in tal senso le lunghe Nimrodel e Lady fantasy. I Camel conseguono un buon successo e la qualità dei dischi resta discreta almeno fino al quarto Moonmadness (1976) ; verso la fine del decennio entra nel gruppo Richard Sinclair (Caravan, Hatfield & the North), in sostituzione di Ferguson, e lo stesso Bardens abbandona il suo complesso per raggiungere la band di Van Morrison. - 32 ‘Jazz rock’ è uno dei termini più ambigui e, al tempo stesso, ricchi di fascino di tutto il ‘progressive’ inglese. Ricco di fascino perché lascia presagire sconvolgenti architetture sonore in grado di tener conto della trazione diretta del rock e della libertà espressiva del jazz ; ambiguo in quanto, come di sovente accade ai sistemi binari, sottintende forzati compromessi destinati a produrre esiti deludenti, privi della necessaria lucidità tematica. Non tutto, però, è confusione o scontata ‘fusion’ : tralasciando volutamente esemplari musicisti jazz, solo marginalmente coinvolti nel panorama rock, quali Mick Westbrook, John Surman e simili, ottimi esempi vengono dai Soft Machine e da più di un gruppo dell’orbita di Canterbury (presi in considerazione nel successivo capitolo), dai Nucleus di Ian Carr e dalla Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin. Il trombettista Ian Carr crea i Nucleus all’inizio del 1970, unendosi a Karl Jenkins (sf.ts.), Brian Smith (sf.), Chris Spedding (ch., proveniente dai Battered Ornaments), Jeff Clyne (bs.) e John Marshall (bt.pr.) ; con loro si reca immediatamente in studio per registrare Elastic rock (Vertigo-1970), un buon disco che però solo raramente riesce a scalfire lo stile freddo e calcolato che contraddistingue la proposta del gruppo. Grande importanza nell’economia del suono dei Nucleus spetta al ruolo di Chris Spedding che, con il suo informale approccio rock, dona alla musica solidità ritmica e allo stesso tempo varietà timbrica. Nel settembre del ’70 i Nucleus sono nuovamente impegnati in studio per le registrazioni di We’ll talk about it later, che si rivela il miglior album grazie all’omogeneità di fondo della musica proposta più che alle pur eccellenti prestazioni strumentali dei musicisti. Di rilievo l’ottima Song for the bearded lady, perfetta illustrazione delle caratteristiche del tipico brano jazz rock, mediata tra l’elastico sostegno ritmico di stampo rock (ricco di originali ed azzeccati interventi della chitarra di Spedding) e la stratificazione armonica generata dalla sezione fiati ; notevole anche la nitida progressione di We’ll talk about it later. Il terzo Solar Plexus (Vertigo-1971), realizzato con un organico allargato a contributi esterni, chiude un ciclo : poco dopo Marshall passa ai Soft Machine, seguito a ruota da Jenkins. Di fatto, i Nucleus non esistono più. Carr continua pubblicando a suo nome Belladonna, sempre per la Vertigo nel 1972, al quale partecipano musicisti del calibro di Dave McRae e Alan Holdsworth. Più avanti, per Labyrinth, torna di moda la vecchia marca ma per i Nucleus i tempi migliori sono tramontati. Musicista tra i più significativi per la capacità di sapersi porre come tramite tra jazz e rock con precisa cognizione di causa, John McLaughlin inizia la carriera nei primi anni Sessanta facendo gavetta nei complessi di Graham Bond (con Jack Bruce e Ginger Baker) e di Brian Auger. Il 1969 è l’anno cruciale per il chitarrista, che entra nella formazione di Miles Davis partecipando all’incisione di due album storici come In a silent way (in febbraio) e Bitches brew (in agosto). A marzo trova il tempo per effettuare una mitizzata session di studio con Jimi Hendrix (mai ufficialmente edita), nella quale è presente anche il bassista jazz Dave Holland ; inoltre pubblica a proprio nome l’ottimo Extrapolation (Polydor), con l’aiuto di alcuni esponenti di prestigio dell’English jazz (John Surman, Brian Odges e Tony Oxley). Tra le varie collaborazioni e i dischi incisi come solista spicca My goal’s beyond (Douglas-1971), nel quale suonano il violinista Jerry Goodman (già membro dei Flock) e il batterista di colore Billy Cobham che, nel 1972, con l’innesto del pianista cecoslovacco Jan Hammer e del bassista Rick Laird formeranno l’ossatura della Mahavishnu Orchestra. MAHAVISHNU ORCHESTRA - BIRDS OF FIRE (CBS - 1973) Dopo la realizzazione di lavori concettualmente piuttosto distanti dall’espressione rock, la Mahavishnu Orchestra è, nelle intenzioni di McLaughlin, il complesso ideale per tornare ad eseguire una musica di chiara impostazione elettrica. Nel 1972 il gruppo registra The inner mounting flame (CBS), ma è con il seguente Birds of fire che la Mahavishnu Orchestra raggiunge i limiti delle possibilità espressive del genere. Il suono è secco, graffiante, elettrico, teso allo spasimo : nell’iniziale Birds of fire gli strali di fuoco della chitarra s’avvinghiano alle evoluzioni del violino, in una straordinaria sospensione dai contorni indefiniti, sostenuti dal treno ritmico Laird / Cobham. Non mancano belle e pacate melodie quali Miles beyond (di Miles Davis, unico brano non composto da McLaughlin) e Sanctuary, che vengono comunque sottoposte ad interessanti trattamenti armonici. L’ardore ritmico di Celestial terrestrial commuters e di One word mette in luce l’abilità strumentale dei musicisti, sfiorando territori ‘fusion’ senza scadere nella banalità più ovvia ; c’è anche spazio per la nitida canzone di Open country joy, dai vaghi accenni country, e per il breve frammento dallo svolgimento circolare di Hope. La conclusiva Resolution è magistrale nella sua ascesa disperata, senza fine e senza meta, e pare preludere alle sequenze utilizzate a piene mani da Robert Fripp su Red, qualche mese più tardi. La Mahavishnu Orchestra si conferma formazione interessante anche dal vivo, come dimostra Between nothingness & eternity (CBS-1973), registrato nell’agosto del ’73 in occasione di un concerto al Central Park di New York. I lunghi sfoghi strumentali che compongono il disco forse non piacciono a chi ricorda con nostalgia il McLaughlin dei tempi jazz, ma colpiscono per l’incontenibile dinamismo, per l’approccio anfetaminico, incapaci di giungere a traguardi d'assoluta eccellenza ma tremendamente efficaci per l’impatto frontale generato. Il finale della storia è meno esaltante : McLaughlin scioglie la formazione per approntarne una nuova, ancora più ambiziosa, strutturata a somiglianza di una piccola orchestra nel cui organico spicca la presenza del violinista Jean-Luc Ponty. I due album pubblicati, Apocalypse (CBS-1974) e Visions of the emerald beyond (CBS-1975), mantengono poco del precedente splendore, naufragando in un funky jazz rock spigliato e piacevole, quanto privo d’importanti contenuti tematici. Anche il sassofonista Dick Morrissey è musicista d’estrazione jazz che all’inizio dei Sessanta gira con un proprio gruppetto (riesce persino ad incidere un LP), nel quale di passaggio appare il grande Ginger Baker ; al suo attivo, inoltre, qualche collaborazione con Georgie Fame e Animals. Nel 1970 Morrissey fonda gli If, una formazione a sette che comprende il tastierista John Mealing, il chitarrista Terry Smith, il cantante J.W. Hodkinson, il bassista Jim Richardson, il batterista Dennis Elliot e l’altro sassofonista Dave Quincy. Quest’organico è responsabile della realizzazione dei lavori più importanti, tra i quali può essere scelto ad esempio il secondo If 2, pubblicato verso la fine del 1970 (ottimo anche l’esordio di If - Island, 1970 - con la bella What can a friend say ?). I primi nomi che vengono in mente, ascoltando gli If, sono quelli di analoghe formazioni americane quali Blood Sweat & Tears e Chicago, soprattutto per la ritmica scattante e per i corposi arrangiamenti fiatistici. La musica è prevalentemente orientata in ambito rock, con canzoni ben strutturate, dotate di belle linee melodiche (Sunday sad, I couldn’t write and tell you) e colorate da una poco fitta ma solida sezione di fiati derivata dal jazz e dal rhythm & blues (A song for Elsa, Three days before her 25th birthday). Certo non si tratta di jazz rock nel senso letterale del termine, ma questi If risultano piacevoli e meritano un piccolo angolo di considerazione. Tre anni più tardi Morrissey rifonda il gruppo, modificandone radicalmente l’assetto, ma gli ultimi album (prima dello scioglimento nel ’75) sono deludenti ; Elliot fa fortuna con i Foreigner, Mealing suona con gli Strawbs dell’ultimo periodo, Smith e Quincy formano gli Zzebra con due LP all’attivo. La luna in giugno nella terra del grigio e del rosa - 33 Gruppo seminale della scena musicale sviluppatasi nella zona di Canterbury, i Wilde Flowers nascono nel giugno del 1963 dall’aggregazione di alcuni giovani musicisti del luogo, tali Robert Wyatt, Kevin Ayers, Richard Sinclair e i fratelli Hopper, Brian e Hugh. Nei primi mesi del ’66 Ayers e Wyatt lasciano i Wilde Flowers e si uniscono ad un bizzarro personaggio proveniente dall’Australia, Daevid Allen. Nell’agosto di quell’anno l’insolito trio si trasforma in quintetto, con l’aggiunta di Mike Ratledge (anch’egli del luogo) e del chitarrista americano Larry Nolan, denominandosi Soft Machine. Ben presto Nolan se ne va e la formazione s’assesta a quartetto, risultando tra le più assidue frequentatrici dell’Ufo Club. Proprio durante un’esibizione nel mitico locale underground londinese il complesso viene notato da Chas Chandler, scopritore e manager di Jimi Hendrix ; Chandler produce il primo 45 giri del gruppo, Love makes sweet music, che si rivela un completo insuccesso. Ai Soft Machine s’interessa anche Giorgio Gomelsky, che nell’aprile del ’67 porta il gruppo in studio per alcune sessions di discreto valore storico, pubblicate su disco solo dopo diversi anni (buona la ristampa At the beginning, Charly-1977). Pochi giorni più tardi, i Soft Machine partecipano alla ‘14th hour technicolour dream’, leggendaria festa dell’underground e della psichedelia inglese ; sono gli ultimi fuochi della formazione originaria che in settembre perde Daevid Allen, al quale viene negato il rinnovo del permesso di soggiorno (riemergerà con i Gong). Wyatt, Ayers e Ratledge decidono di proseguire come trio e per loro il 1968 è un anno di notevole intensità : a più riprese partecipano come supporto a numerosi concerti americani della Jimi Hendrix Experience e, sempre negli Stati Uniti, pubblicano l’album d’esordio omonimo. L’inizio di Hope for happiness è un tuffo al cuore per via della voce di Wyatt, originale per i riferimenti alla cultura jazz, eterea e tremante, imprendibile nel suo volo in caduta libera, prima che il ritmo e l’organo di Ratledge prendano il sopravvento. Why am I so short ? appare timida, ma lascia intravedere ottime soluzioni che saranno sviluppate nel lavoro successivo. Bella anche la spigliata Lullabye letter e in generale il materiale è valido, l’album non delude pur scontando una cura sommaria della produzione, che si riflette nell’eccessiva frammentarietà della musica. I ritmi delle esibizioni dal vivo si fanno sempre più intensi e sono mal tollerati dal carattere pigro ed insofferente di Ayers, che preferisce abbandonare per dedicarsi ad una carriera solistica inizialmente densa di buoni risultati ; al suo posto entra Hugh Hopper, altro ex Wilde Flowers. All’inizio del 1969 il nuovo trio registra Soft Machine volume two, nel quale esibisce i notevoli progressi conseguiti. Le buone intuizioni comprese nel lavoro d’esordio sono confermate e le varie e complesse componenti dello stile vengono amalgamate con equilibrio e precisione. Decisivo è l’apporto strumentale e compositivo di Hugh Hopper (sua la bellissima Dedicated to you but you weren’t listening) che, in perfetta sintonia con Wyatt, tende a spostare l’accento della musica verso influenze jazz, con alcune parti al limite del free (Fire engine passing with bells clanging). L’apertura è affidata ad una snella Pataphysical introduction che incappa nel divertimento delirante di A concise British alphabet. L’eccellente Hibou anemone and bear sfoggia un suono maturo, che si confronta con l’evidente ispirazione jazz (marcata in varie parti del disco dalla presenza dei fiati di Brian Hopper) ; il canto di Wyatt si libera improvviso, limpido ed impalpabile, carico di sentimento al limite dello stordimento. SOFT MACHINE - THIRD (2 LP CBS - 1970) Le ambizioni dei Soft Machine aumentano e, di pari passo, la formazione si allarga con l’ingresso, come elemento fisso, del sassofonista Elton Dean. Inoltre, alle registrazioni del terzo album partecipano alcuni esponenti di rilievo del ‘new English jazz’, che donano alle composizioni un’inedita intensità strumentale. Third rappresenta l’ideale punto d’incontro tra l’aspetto trasognato e dadaista dei primi Soft Machine e il jazz moderno, elettrico e sperimentale, dei dischi degli anni Settanta, con esiti qualitativi di primaria grandezza. E’ musica che trascende il significato del termine jazz rock, che evita una fredda fusione di stili e generi per intervenire direttamente sulla consistenza molecolare del suono, modificandone le caratteristiche atomiche al fine di generare un risultato creativo e originale. L’apporto dei sassofoni di Elton Dean è decisivo, gli interventi di Ratledge appaiono adeguatamente misurati e la sezione ritmica registra un’evidente maturazione che permette a Wyatt e Hopper di collocarsi tra gli strumentisti più raffinati ed innovativi dell’epoca. Il doppio LP si compone di quattro lunghe composizioni che occupano i relativi lati del disco. Due portano la firma di Ratledge : Slightly all the time, fluida disposizione di una bella varietà di temi, e Out-bloody-rageous, che attinge a certo minimalismo iterativo vicino a Philip Glass e ancor più a Terry Riley, per poi ricollegarsi al jazz elettrico e fiatistico. Hopper presenta Facelift, brano proposto in una versione dal vivo realizzata con registrazioni provenienti da due concerti del gennaio 1970, che si apre con una libera sequenza di suoni elettronici ed evolve in una serie d’affascinanti aperture armoniche improntate sui fiati. La felice vena creativa di Wyatt dona al pop inglese la stupenda Moon in June, unico brano a presentare una parte vocale e a non tradire lo spirito originario della Soft Machine. Il canto colmo di sentimento e la bellezza inarrivabile della parte strumentale, che non prevede l’intervento di strumenti a fiato, afferma per l’ultima volta e in modo definitivo (almeno con i Softs) la scienza ‘patafisica’ tanto cara a Robert. La direzione musicale del gruppo procede in senso inverso, alla ricerca di forme sempre più impervie di jazz elettrico ; in Fourth (CBS-1971) non c’è spazio per la creatività di Wyatt, relegato al ruolo di comprimario di lusso, batterista virtuoso capace di trasferire la gran personalità della sua arte sui tamburi dello strumento prediletto. Il quarto parto dei Soft Machine resta in ogni caso un disco di buon livello ; sotto le indicazioni stilistiche dettate da Hopper, Ratledge e Dean, e per merito di un agguerrito manipolo di fiatisti, il disco sviluppa un forte approccio bandistico che straripa fin sulle rive del free jazz. Prima della pubblicazione di Fourth, Wyatt sfoga la creatività repressa realizzando un album come solista, il mitico The end of an ear, e nell’estate del ’71 saluta la compagnia per formare, non senza una punta di polemica ironia, i Matching Mole (dal francese Machine Molle). Per le registrazioni di Fifth i Soft Machine s’avvalgono dell’opera di due batteristi, Phil Howard (sul primo lato) e John Marshall (proveniente dai Nucleus, sul secondo), che diventa il sostituto ufficiale. La qualità del materiale dell’album è all’altezza del nome del gruppo, anche se la musica appare totalmente sganciata dalle precedenti esperienze. Fifth va considerato tra le migliori espressioni del jazz rock inglese, ma la forma rigorosa, poco incline ad accomodamenti commerciali, non permette al complesso di guadagnare spazio nelle classifiche di vendita. Elton Dean viene sostituito da Karl Jenkins, un altro musicista dei Nucleus, e nel 1973 il gruppo incide l’ancora valido Six (2 LP, CBS) che presenta alcune parti dal vivo. L’instabilità dell’organico è costante ; nel maggio ’73 Hopper lascia per incidere un ottimo disco da solista (1984, CBS-1973) e successivamente finire negli Isotope di Gary Boyle. A partire da Seven (CBS-1973) la proposta musicale diviene di scarso interesse e l’uscita di scena, nel 1976, di Ratledge (l’ultimo presente dei fondatori del complesso) precede di poco la fine dei Soft Machine. I Caravan vantano una comune derivazione genealogica con i Soft Machine. Il bassista Richard Sinclair fa parte dei Wilde Flowers sin dalla loro costituzione e quando, all’inizio del 1966, Robert Wyatt e Kevin Ayers abbandonano per formare i Soft Machine, i due vengono rimpiazzati (in tempi diversi) dal fratello di Richard, David (ts.), dal chitarrista Pye Hastings e dal batterista Richard Coughlan. I Wilde Flowers si sciolgono ufficialmente alla fine del 1967, trasformandosi in Caravan. Il primo album (Caravan, Verve-ottobre1968, lavoro dignitoso che presenta le belle Love song with flute e Where but for Caravan would I) passa inosservato, ma dopo il necessario periodo di rodaggio i Caravan firmano per la Decca e nel settembre del ’70 pubblicano l’eccellente If I could do it all over again, I’d do it all over you, che stabilisce i canoni dello stile ed ottiene maggiori (anche se non eccezionali) riscontri di vendita. Tra i brani, peraltro di qualità media elevata, spiccano la frizzante title track e le notevoli sequenze di And I wish I were stoned e, soprattutto, di Can’t be long now, che anticipa le ambientazioni della celebrata Nine feet underground. CARAVAN - IN THE LAND OF GREY AND PINK (Deram - 1971) Pubblicato nella primavera del 1971, In the land of grey and pink rappresenta la definitiva consacrazione artistica dei Caravan, che si propongono come secondo polo d’attrazione del Canterbury sound, con una musica meno cerebrale e all’avanguardia rispetto a quella dei Soft Machine, ma non per questo di minore efficacia ed importanza per l’influenza esercitata su numerose altre formazioni. Se la ‘macchina soffice’, sospinta da una furiosa creatività, evolve verso soluzioni complesse e spesso di difficile assimilazione, i Caravan predicano il verbo della semplicità e della melodia, evitando accuratamente ogni accento sperimentale. Il suono appare nitido e pulito, semplice ma curato nei minimi particolari, con in evidenza le tastiere spumeggianti di David Sinclair e le belle armonie vocali di Richard Sinclair e Pye Hastings. La gustosa ed indolente cadenza di Golf girl ammalia sin dall’originale introduzione e pone in evidenza l’importante contributo ai fiati di Jimmy Hastings, già presente nei precedenti LP e collaboratore dei Soft Machine. Winter wine è una canzone stupenda, intrisa di nostalgia, interpretata magistralmente dalla malinconica voce di Richard Sinclair e percorsa da insinuanti, liriche frasi d’organo. La disarmante, divertente semplicità espositiva della tutt’altro che banale Love to love you introduce la raffinata ballata di In the land of grey and pink, che conferma l’equilibrio stilistico ed esecutivo raggiunto dai musicisti. La suite di Nine feet underground raccoglie l’esperienza globale della proposta Caravan, senza cadere in facili riti celebrativi, mantenendo il suono straordinariamente compatto come solo i migliori Traffic in quel periodo riescono a fare. Nell’agosto ’71 David Sinclair cede all’invito di Robert Wyatt per entrare a far parte dei Matching Mole e il suo posto nei Caravan viene preso da Steve Miller, tastierista con alle spalle l’effimera esperienza dei Delivery, leggendaria formazione nata a Canterbury nel 1968 con la presenza di Phil Miller (ch.), Lol Coxhill (sax.), Jack Monk (bs.) e Pip Pyle (bt.). Con Roy Babbington al posto di Monk e con l’inserimento della cantante Carol Grimes, i Delivery incidono nel 1969 l’unico album Fools meeting (B&C-1970), per poi sfaldarsi nel ’71 tra l’indifferenza generale. Waterloo Lily (maggio ’72) raccoglie critiche controverse, ma tutto sommato non delude. Le qualità del suono Caravan per il momento sono salve, anche se alcune parti del disco non convincono completamente ; l’assenza delle tastiere di Sinclair (per quanto ben sostituito dall’ottimo Miller) si fa sentire e la maggiore propensione verso aspetti jazzati, unita alla ricerca accentuata del particolare e di tonalità originali, determina un sensibile appesantimento delle canzoni. Il gruppo è in evidente difficoltà per via dell’immediato abbandono di Miller e soprattutto a causa dell’uscita di Richard Sinclair, che ritrova il fratello negli Hatfield & the North. Il pallino passa in mano a Pye Hastings, che nel ’73 riassetta i Caravan con l’assunzione di John Perry al basso e di Geoffrey Richardson alla viola ; per l’album For girls who grow plump in the night (Deram, pubblicato nell’ottobre del ’73) e per il successivo Caravan & the New Symphonia (Decca-1974, registrato dal vivo lo stesso mese con l’aiuto di un’ampia formazione orchestrale) torna temporaneamente con il gruppo David Sinclair. Non si tratta di dischi del livello abituale, tra i solchi affiora un rock di facile presa che manca di freschezza ed inventiva, anche se la proposta appare ugualmente curata e dignitosa, a tratti piacevole. L’album dal vivo, complessivamente migliore, deve rispolverare l’antica cadenza di For Richard per decollare completamente. Sono gli ultimi episodi degni di nota di un gruppo che avrebbe meritato miglior fortuna e considerazione. Ma tanto basta, la musica del grigio e del rosa non si può cancellare dai nostri cuori. A mezza strada tra Soft Machine e Caravan si collocano gli Egg di Dave Stewart. Nel 1967 l’organista fa parte degli Uriel, un complesso dedito alla materia flower power, del quale sono membri il chitarrista Steve Hillage, il bassista Hugh Montgomery-Campbell e il batterista Clive Brooks. Le uniche tracce registrate dagli Uriel vengono pubblicate nel 1969, su un album attribuito curiosamente agli Arzachel ; nel luglio del ’68 Hillage lascia il gruppo per dedicarsi agli studi universitari (in quel di Canterbury, ovviamente) e i tre rimasti cambiano nome, ribattezzandosi Egg. La nuova denominazione esordisce nell’estate del ’69 con il discreto singolo Seven is a jolly good time / You are all princes, e il gruppo giunge alla prova sulla lunga distanza nel marzo del ’70. Egg (pubblicato dalla Deram) è un esordio di tutto rispetto, che nelle ottime I will be absorbed e The song of McGillicudie the pusillanimous mette a fuoco lo stile del gruppo, in gran parte basato sul talento di Stewart e sull’uso di tempi inconsueti di lontana derivazione jazz. Emergono anche evidenti aspetti classici nel timido arrangiamento della Fuga in D minore di Bach e nella stesura dei quattro movimenti della Symphony no. 2 che, pur sfoderando episodi strumentalmente brillanti, appare nell’insieme un po’ esagerata di pretese. EGG - THE POLITE FORCE (Deram - 1970) Passano pochi mesi ed entro la fine dell’anno gli Egg pubblicano il secondo LP The polite force, un lavoro maturo e particolarmente complesso. A visit to Newport hospital presenta una cadenza grave, pesante, con la parte centrale del brano abilmente strutturata attorno all’agile gioco delle tastiere. In Contrasong viene introdotta una nutrita sezione di fiati (nella quale spicca la tromba di Henry Lowther), in un bell’intreccio di tempi complessi. L’atmosfera della lunga Boilk echeggia un classicismo stralunato, inquinato da una psichedelia oscura ed inquietante, al limite del rumore. Il secondo lato del disco è interamente occupato da un ennesimo tentativo sulla lunga distanza : le quattro parti di Long piece no. 3 si spingono agli estremi della concezione sonora degli Egg, con soluzioni armoniche e ritmiche che appaiono formalmente inappuntabili, pur correndo il rischio di una latente freddezza espressiva. L’assoluta mancanza di potenziale commerciale è fuori di dubbio e nel luglio 1972 il gruppo si scioglie : Brooks va a suonare con i Groundhogs di Tony McPhee, mentre Stewart mette a disposizione del progetto Khan il proprio magistero strumentale, per poi entrare negli Hatfield & the North. La sigla Egg torna in scena per l’ultima volta nel 1974, quando i tre membri si riuniscono temporaneamente per l’incisione di The civil surface (Caroline-1974), con un organico allargato a numerosi musicisti esterni. Dopo la breve ed intensa esperienza degli Egg, Dave Stewart all’inizio del 1972 ritrova sulla sua strada il vecchio compagno Steve Hillage il quale, terminati gli studi universitari, ha nel frattempo allestito la formazione dei Khan. A far gavetta con lui in piccoli club, come supporto di Genesis, Caravan, Van Der Graaf Generator, sono il bassista Nick Greenwood (con alle spalle una partecipazione al Crazy World di Arthur Brown), il batterista Eric Peachey e il tastierista Dick Henningham. Quando si presenta l’occasione di recarsi in studio d’incisione per realizzare un album, Hillage si rivolge a Stewart per le parti relative alle tastiere ; nel maggio del 1972 la Deram pubblica Space shanty, pregevole parto di tal estemporanea collaborazione. La musica è un’interessante, spettacolare fusione tra soluzioni romantiche d’impronta canterburiana e un rock spigliato ed incisivo, dotato di gran dinamismo strumentale, con l’ovvia predominanza della chitarra di Hillage (che inizia a sfoderare il tipico stile, melodico e ricco di echi spaziali) e delle pregevoli tastiere di Stewart. Il binomio chitarra / tastiere dell’iniziale Space shanty, la ballata melodica di Stranded, l’intera struttura di Driving to Amsterdam sono essenziale nutrimento per lo sviluppo del suono dei Camel di Peter Bardens. Mixed up man of the mountains e Hollow stone mostrano le radici genuinamente rock di Hillage (eterno debitore dello stile ‘acquatico’ dell’Hendrix più quieto), senza rinunciare ad una convincente varietà di temi. Hillage e Stewart lavorano per breve tempo all’allestimento di una nuova formazione dei Khan, senza esito, dal momento che il tastierista entra negli Hatfield & the North mentre il chitarrista finisce nei Gong di Daevid Allen. In quel bizzarro complesso rimane fino al 1976, ma già l’anno precedente Hillage inizia una carriera solistica che dà ottimi frutti con i primi lavori, Fish rising e L (quest’ultimo, prodotto da Todd Rundgren, vanta la presenza degli Utopia e del jazzista Don Cherry). Fish rising (Virgin-1975) si collega direttamente alle precedenti esperienze dei Khan e dei Gong, con l’elaborazione di alcune riuscite mini suite (Solar musick suite, The salmon song, Aftaglid). Gruppo di nobili radici del Canterbury sound, Hatfield & the North prende forma nell’ottobre del 1972. I fratelli David e Richard Sinclair affrontano assieme le esperienze dei Wilde Flowers e dei Caravan, il chitarrista Phil Miller proviene dai Delivery e suona (con lo stesso David Sinclair) nei Matching Mole, Pip Pyle è batterista alla corte di Daevid Allen e nei primi Gong. L’organico s’assesta definitivamente all’inizio del 1973 con l’ingresso di Dave Stewart, in sostituzione di David Sinclair tornato a suonare con i Caravan. HATFIELD AND THE NORTH - HATFIELD AND THE NORTH (Virgin - 1973) Pubblicato alla fine del 1973, Hatfield and the North non delude di certo le esigenti aspettative dei pochi appassionati del genere. Sin dall’iniziale The stubbs effect, gli Hatfields danno dimostrazione dell’abilità nel saper trasporre le precedenti esperienze dei singoli musicisti in un’entità sonora indivisibile. Echi di Matching Mole e Caravan (nel momento in cui questi gruppi hanno cessato di esistere o di produrre musica di qualità) si rincorrono in un vortice di emozioni ; sintetizzando al massimo, si può parlare di jazz rock ma, in realtà, è facile rendersi conto dell'insufficiente precisione del termine. Going up to people and tinkling fa leva, come tutto il lavoro, su una notevole poliedricità strumentale e d’ispirazione : le raffinate tastiere di Stewart attingono a trame minimali ed iterative, la chitarra jazz di Miller inferisce colpi secchi ed improvvisi, a forti tinte psichedeliche, i fiati di Leigh - in prestito da Henry Cow - ampliano le coordinate sonore (jazz e lo Zappa bandistico, dietro l’angolo). Le composizioni di Sinclair (Big jobs, Bossa nochance, l’eccellente Fol de rol) non perdono di vista l’aspetto romantico (e di commovente nostalgia) di una proposta che, a ben vedere, chiude un ciclo e forse l’intera epopea della musica di Canterbury. Se un difetto si vuole trovare a tutti i costi, si può ragionare su qualche parte che tollera una certa freddezza stilistica, ma è un’impressione dovuta alla natura elaborata e ‘seria’ della materia trattata, assolutamente estranea a qualsiasi concessione mercantile. Nonostante lo scarso riscontro ottenuto, gli Hatfield & the North ci riprovano e all’inizio del 1975 registrano i nastri del secondo The rotter’s club, pubblicato in marzo. Alla lavorazione partecipa una bella serie di ospiti impegnati ai fiati, come Jimmy Hastings (Caravan, Soft Machine), ‘Mont’ Campbell (Egg), Lindsay Cooper e Tim Hodgkinson (Henry Cow), e il risultato appare ugualmente ispirato e raffinato, forse con un pizzico di concretezza in più. Belle e limpide composizioni quali Share it e Didn’t matter anyway possono lasciar intendere la ricerca di un maggior seguito di pubblico, e non è uno scandalo. Ma poi troviamo le complicate configurazioni ritmiche di The yes no interlude, l’ennesima elaborazione a forma di suite ad opera di Stewart (Mumps), e la teoria non regge. Il gruppo non riesce a suscitare interesse nel pubblico inglese e scivola tristemente verso lo scioglimento, poco dopo aver partecipato al concerto di chiusura del Rainbow Theatre (marzo 1975). Stewart e Miller tentano ancora formando i National Health, che si avvalgono della stessa filosofia musicale (interessanti i dischi del ’78, National Health e Of queues and cures) e soffrono ugualmente della mancanza di successo. - 34 Ma che fine hanno fatto i tre Soft Machine originali, Kevin Ayers, Daevid Allen e Robert Wyatt ? Kevin Ayers abbandona i Soft Machine nel 1968, al termine di una lunga serie di concerti come supporto alla Jimi Hendrix Experience che mette a dura prova la sua resistenza psicofisica. Torna sulla scena verso la fine del ’69, con la pubblicazione per la Harvest di Joy of a toy, buon album dallo stile in apparenza scanzonato e leggero che, in verità, nasconde insidie d’ogni tipo in brani quali Stop this train again doing it, Town feeling, Song for insane times, Lady Rachel, Oleh oleh bander bandong. Al disco, prodotto da Peter Jenner, partecipano i Soft Machine al completo (Wyatt, Ratledge, Hopper), il compositore / arrangiatore / tastierista David Bedford e il batterista Rob Tait (Battered Ornaments e Piblokto). KEVIN AYERS AND THE WHOLE WORLD - SHOOTING AT THE MOON (Harvest - 1970) Ayers matura l’idea di una formazione fissa ed allestisce il Whole World, eterogenea unione comprendente Bedford, il giovane e promettente chitarrista Mike Oldfield (ancora lontano dai fasti delle ‘campane tubolari’) e il batterista Mick Fincher. A completamento del gruppo il sassofonista Lol Coxhill, personaggio sempre rimasto ai margini della notorietà, capace di passare con disinvoltura dal rhythm & blues al free jazz e a tutto ciò che può stare in mezzo. Nella sua carriera suona con Alexis Korner, nel 1969 appare con i Delivery e ancora vaga senza una meta precisa, passando da Robert Wyatt a Hugh Hopper, da Mike Oldfield a Mike Westbrook, esibendosi da solo ovunque possibile. Il suo Ear of beholder (2 LP Dandelion-1971) merita un ascolto, con la dovuta attenzione. Shooting at the moon è il saporito frutto della collaborazione con il Whole World ; stimolato dall’intraprendenza dei compagni, Ayers s’impegna nella realizzazione di un insieme a nuclei contrapposti, dove cialtroneria e sperimentazione s’affrontano mantenendo peso ed identità ben distinti. Siamo lontani dalla scienza ‘patafisica’ di Wyatt e dalla pietra filosofale della ‘musica totale’ ; qui si bada ad accostare le sostanze senza generare incontrollate trasformazioni della materia, puntando piuttosto sul contrasto timbrico tra i suoni. L’apertura è riservata a May I, perfetto prototipo di ballata indolente in ossequio del carattere pigro dell’autore ; Rheinhardt and Geraldine azzecca un piacevole giro armonico (sottolineato dal sax di Coxhill), che s’infrange in un furioso zapping radiofonico (Cage ?) per lasciare posto alla concreta Colores para dolores. Lunatics lament fa il verso all’hard freak informale di Daevid Allen, in antitesi con la sperimentazione di Pisser dans un violon, dove s’avverte lo zampino di Bedford. Le divertenti The oyster and the flying fish e Clarence in wonderland scelgono la trama della filastrocca di poco senso, spezzate dal frammento allucinato di Underwater. Coxhill si conferma in gran forma nell’ottima melodia di Red green and you blue e nell’acida iterazione conclusiva di Shooting at the moon. La strana congrega del Whole World si dimostra priva di unità, impossibilitata a durare nel tempo, e dopo diversi rimaneggiamenti la sigla viene accantonata ancor prima della pubblicazione del terzo LP Whatevershebringswesing (1972), nel quale Ayers è accompagnato dall’ennesimo lussuoso cast di musicisti (ancora Bedford, Oldfield e Wyatt, Didier Malherbe dei Gong, i batteristi Tony Carr e William Murray, tra gli altri). Il disco segna l’approdo a climi più rilassati, con qualche sussulto distribuito nell’iniziale There is loving / Among us, dotata di un interessante arrangiamento approntato da Bedford, nella deragliante allucinazione di Song from the bottom of a well, nel rock’n’roll di Stranger in blue suede shoes, che scherza con Lou Reed e i Velvet Underground. E’ la fine del periodo migliore dell’artista, che in ogni modo mantiene una buona popolarità almeno fino al 1974, grazie ad altri due album (Bananamour, Harvest-1973 e The confessions of Dr. Dream, Island-1974) e al celebre concerto del primo giugno al Rainbow Theatre di Londra, del quale è ideatore e tra i principali animatori. Con lui salgono sul palco personaggi della statura artistica di John Cale, Nico, Brian Eno, Robert Wyatt, musicisti del calibro di Mike Oldfield, Ollie Halsall, "Rabbit" e Ayers tiene per sé l’intera seconda facciata del disco registrato a ricordo dell’evento (June 1, 1974, Island-1974). I lavori successivi sono indubbiamente meno brillanti e la sua stella declina rapidamente, nonostante l’appoggio ricevuto (in tempi diversi) da strumentisti di prim’ordine quali Ollie Halsall, Zoot Money, Tony Newman, Andy Summers, Rob Townsend, Charlie McCracken. Daevid Allen, australiano, musicista di professione e freak per vocazione, giunge in Inghilterra all’inizio dei Sessanta e nel ’66 finisce nella formazione originale dei Soft Machine. Con il gruppo di Robert Wyatt rimane fino al settembre 1967, quando è costretto a rinunciare per via del mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Assieme alla compagna Gilli Smyth non gli resta che trasferirsi in Francia, dove suona con musicisti del posto, conosce Didier Malherbe (con il quale nel 1970 fonderà i Gong), partecipa al festival rock di Amougies (dove si esibiscono anche i Soft Machine) e pubblica due album come solista, Magick brother, mystic sister (Byg-1970) e l’ottimo Banana moon (Byg), pubblicato nel 1971. Banana moon, che vede la partecipazione di un nutrito gruppo di musicisti tra cui Robert Wyatt, Pip Pyle e l’organista Gary Wright, è un esemplare compendio di stranezze freak con un ampio ventaglio di soluzioni sonore a disposizione. Time of your life si colloca a metà strada tra Hendrix e i Beatles, Memories (cantata da Wyatt) è una bella, romantica ballata ripescata dalle prime sessions dei Soft Machine, White neck blues è una ‘zapperia’ di buona fattura, con tanto di coretti stupidi e coda finale. Ancora suoni duri in Stoned innocent Frankenstein, che regge le briglie dell’hard più estroso ed estroverso, mentre la prosecuzione & his adventures in the land of flip si lascia andare ad un lungo delirio free form, specchio della bizzarria di questa musica che in embrione anticipa alcuni aspetti dell’opera dei Gong. Contemporanea è la creazione dei Gong che, oltre Allen, la Smyth e Malherbe, comprendono il bassista Christian Tritsch e il batterista Pip Pyle ; quest’organico esordisce nel 1971 con Continental circus (Philips-1971), colonna sonora per un documentario sul motociclismo, ed entro l’estate dello stesso anno ultima le registrazioni di Camembert electrique (Byg), album di notevole importanza che prosegue il discorso iniziato dai dischi solistici di Allen ed introduce alle fantastiche storie spaziali del pianeta Gong. Proprio su Camembert electrique è possibile ascoltare per la prima volta le vocine degli abitanti di Gong (direttamente dalle frequenze di Radio Gnome), entrare in contatto con gli orizzonti spaziali di Tropical fish : Selene e dell’ottima Fohat digs holes in space. You can’t kill me è un hard fantasioso con un duro riff di chitarra, il petulante sassofono di Malherbe e i vocalizzi erotico - spaziali della Smyth ; Dynamite : I am your animal possiede un’andatura anfetaminica e gira senza soluzione attorno ad un ipotetico centro di gravità. GONG - RADIO GNOME INVISIBLE Part 1 : FLYING TEAPOT (Virgin - 1973) Il 22 giugno 1971 Allen torna in Inghilterra, per esibirsi con i Gong alla festa alternativa del Glastonbury Fayre Festival (il gruppo è presente sul triplo LP che commemora l’evento). In seguito l’artista decide di sciogliere temporaneamente il complesso, per dedicarsi alla messa a punto della fantasiosa e strampalata trama di Radio Gnome, una sorta di radio pirata che effettua le trasmissioni a bordo di una teiera volante proveniente dal pianeta Gong. Verso la fine del ’72 giunge l’ora di riassettare la formazione, per dare riscontro discografico alla storia di Radio Gnome ; l’organico prevede la presenza, oltre alla vecchia guardia (Allen, la Smyth e Malherbe), del chitarrista Steve Hillage (reduce dai Khan), del bassista Francis Moze (ex Magma, subentrato a Tritsch che comunque suona ancora in alcune parti di Flying teapot), di Tim Blake e del batterista Laurie Allan (al posto di Pip Pyle). All’inizio del ’73 Flying teapot costituisce la prima parte della prevista trilogia di Radio Gnome e già l’introduttiva Radio Gnome invisible offre una sintesi con i classici ingredienti del maturo suono Gong, un mix di ‘stupid music’, scatti jazz, soavi linee dall’intenso sapore orientale, sibili elettronici dall’iperspazio, gorgheggi sospesi a mezza via tra echi spaziali e sogni erotici. La Flying teapot giunge dallo spazio elettronico, lucido e rilassato, di Blake (ben distante dagli scenari sperimentali approntati dai Pink Floyd), navigando alla velocità di un brioso jazz rock. La proposta appare originale e divertente, passando dall’accattivante canzoncina di The pot head pixies alla distesa elettronica di The octave doctors & the crystal machine, dallo sciolto dinamismo strumentale di Zero the hero and the witch’s spell alla bizzarra interpretazione della conclusiva Witch’s song - I am your pussy. Di livello ugualmente elevato è il secondo capitolo Angel’s egg, registrato nell’agosto del 1973 con una nuova sezione ritmica composta dal bassista Mike Howlett, dal batterista Pierre Moerlen e dalla percussionista Mireille Bauer. Nell’esigenza di continuità con il lavoro precedente, la musica non subisce modifiche di rilievo, confermandosi godibile nella tranquilla cantilena di Selene, nello space rock di Other side of the sky, nello spigliato jazz rock di Oily way e di I niver glid before e un po’ ovunque. Memorabile Prostitute poem, dotata di un passo di valzer tinto d’oriente, con una curiosa interpretazione sexy della Smyth. Allo stesso periodo risalgono alcune registrazioni dal vivo che vengono inserite nel doppio Live at Dingwall’s Dance Hall (Greasy Truckers-1973) ; nella facciata dedicata ai Gong trovano posto la valida General flash of the united hallucinations, registrata in giugno al Festival di Tabarka (Tunisia) e una frammentaria Part 32 floating anarchy, dal vivo a Sheffield (ottobre ’73). Nell’estate 1974 lo stesso organico provvede alle incisioni che compongono l’ultima parte della trilogia di Radio Gnome, raccolte su You (Virgin-1974). Il gioco comincia a farsi prolisso, pur essendo un discreto album You non possiede la spontaneità e l’originalità dei capitoli precedenti, suona un poco noioso e anche i passaggi strumentali di maggior impatto (The isle of everywhere, Master builder) appaiono risapute copie del glorioso passato. La pubblicazione di You anticipa quella che, nel 1975, è per i Gong una vera e propria rivoluzione ; il fondatore Allen e la Smyth abbandonano il gruppo (continuano insieme con diverse sigle fino agli anni Ottanta, quando si separano anche affettivamente), seguiti a breve distanza da Steve Hillage, proteso verso un’intensa carriera solistica. Gli ultimi due dischi degni di nota sono il discreto Shamal (Virgin-1975), prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd e con un contributo di Steve Hillage che suona in due brani, e Gazeuse ! (Virgin-1976), con Allan Holdsworth (ch. - ex Nucleus e Tempest). La musica si trasforma (anche dal vivo) in un jazz rock piuttosto convenzionale, eseguito con buone cognizioni tecniche ma privo della fantasia e della personalità trascorse. Oramai i Gong si confondono tra le numerose formazioni del genere e la pubblicazione del doppio retrospettivo Gong live etc. (Virgin-1977), che raccoglie tracce dal vivo e registrazioni per la BBC datate tra il ’73 e il ’75, non può fare a meno di suonare ad epitaffio di una concezione musicale tramontata per sempre. Il resto si può dimenticare. Abbiamo lasciato Robert Wyatt al tempo in cui abbandona i Soft Machine (fine estate ’71), in totale disaccordo con le scelte artistiche intraprese dal gruppo. Già l’anno precedente il batterista pubblica un album come solista, The end of an ear, che si dimostra coraggioso tentativo di portare alle estreme conseguenze le intuizioni dei primi due lavori dei Soft Machine. Senza preoccupazioni di carattere commerciale, in totale libertà espressiva, Wyatt travolge Gil Evans nelle due tracce di Las Vegas tango - part 1, sfigura il jazz con uno sfacciato, infantile, provocatorio approccio free, aiutato da un manipolo di prodi strumentisti, tra i quali i fiatisti Elton Dean, Mark Charig e l’organista David Sinclair ; nella melodia funestata di To Carla, Marsha and Caroline si possono percepire anticipazioni del progetto Matching Mole. Wyatt non perde tempo e prepara (sin dal nome scelto per la nuova formazione) una personale, ironica, clamorosa rivincita sul vecchio gruppo. A dargli man forte sono il solito David Sinclair (che rinuncia momentaneamente ai Caravan), il chitarrista Phil Miller (ex Delivery) e il bassista Bill MacCormick (proveniente dai Quiet Sun di Phil Manzanera). MATCHING MOLE - MATCHING MOLE (CBS - 1972) Il primo album omonimo, che vede la partecipazione di Dave McRae al piano, viene registrato tra il dicembre ’71 e il gennaio ’72 e appare opera di eccellente qualità, poetica e raffinata fusione tra rock, jazz e melodia pop. La parte iniziale del disco è trasognata e melodica ; la voce di Wyatt colpisce per la profonda umanità del tono nella ballata pianistica di O Caroline, le tastiere di Sinclair e dello stesso Wyatt forniscono una base armonica di gran fascino. Instant pussy introduce batteria e chitarra, in un’eterea sospensione solcata dai vocalizzi del leader, mentre la magnifica Signed curtain (solo piano e voce) segna il ritorno all’essenza originaria del concetto di canzone, sin dal realismo minimale e geniale delle liriche. La magia è infranta dagli echi psichedelici della complessa Part of the dance, che ricava spunti dal jazz elettrico per un viaggio negli anfratti del ritmo e dell’armonia, con l’irrequieta chitarra di Miller (autore del brano) impegnata a dialogare nervosamente con il magma sonoro della ‘machine molle’. Instant kitten recupera la fluidità del miglior suono Caravan, con accenti jazz più marcati ; avvincenti anche la dedica jazz rock (nella migliore accezione del termine) a Hopper di Dedicated to Hugh, but you weren’t listening, e il contorto impressionismo di Beer as in braindeer. Il siderale, agghiacciante romanticismo fornito dal mellotron di Wyatt (Immediate curtain) pare quasi voler trascinare lontano i ricordi meravigliosi di un tempo irripetibile. Nell’estate del 1972 Matching Mole ci riprova ; non c’è più David Sinclair, impegnato nell’atto costitutivo di Hatfield & the North, sostituito dal piano insistente e raffinato di Dave McRae, e nel nuovo Little red record (prodotto da Robert Fripp) si registra la partecipazione di Brian Eno ai sintetizzatori, presente sui brani Gloria Gloom e Flora fidgit. Anche se di qualità elevatissima, Little red record non raggiunge nell’insieme il valore dell’album precedente, scontando una pratica rivolta a soluzioni in genere più complicate e di non facile fruibilità. E’ confermato l’originalissimo jazz rock, portato a livelli assoluti di affidabilità strumentale e di organizzazione armonica su Marchides e sui brani che seguono nel primo lato del disco. Restano la monumentale Gloria Gloom, la bellissima melodia cantata col consueto trasporto da Wyatt e gli echi allarmanti dei sintetizzatori di Eno, resta la limpida trasparenza della melodica God song e ancora il raffinato cromatismo timbrico di Smoke signal. Non è poco, ma per i Matching Mole l’avventura si avvia rapidamente alla conclusione : Wyatt pensa ad una nuova edizione del complesso con Miller, Gary Windo e Francis Monkman (dei Curved Air), ma l’idea naufraga ben presto e Miller preferisce raggiungere Sinclair nei neonati Hatfield & the North. ROBERT WYATT - ROCK BOTTOM (Virgin - 1974) Chissà quali progetti passano per la mente di Robert Wyatt, dopo l’esperienza dei Matching Mole. Purtroppo, nell’estate del 1973, il musicista è vittima di un grave incidente, cadendo da un balcone e rimanendo paralizzato alle gambe ; il rock inglese perde così uno dei più validi batteristi ma per fortuna Wyatt riesce a reagire alla sventura. I Pink Floyd tengono un concerto il cui ricavato è devoluto al musicista e Nick Mason si presta alla produzione del lavoro solistico che, a metà del ’74 dopo sei lunghi mesi di ospedale, segna il ritorno sulle scene di Wyatt, il magnifico Rock bottom. Con Wyatt sono un folto numero di amici, strumentisti di vaglia, da Richard Sinclair a Hugh Hopper, dall’ormai celebre Mike Oldfield a Fred Frith (Henry Cow) e Laurie Allan (Gong), fino ai fiatisti Gary Windo e Mongezi Feza, sfortunato trombettista sudafricano morto l’anno successivo a causa di una polmonite colpevolmente (come sostiene lo stesso Wyatt) non curata in tempo nell’ospedale dov’era ricoverato. Gran parte del materiale utilizzato per Rock bottom risale a prima dell’incidente e Wyatt rivede gli arrangiamenti puntando sull’impatto emotivo, su una musica passionale e seducente. Il suono appare distante dalle esperienze con i Soft Machine, con i Matching Mole, dal The end of an ear d’inizio decennio. Le tastiere e la voce di Wyatt sono alla base della dolce e commovente Sea song, A last straw (con Hopper e Allan) muove con discrezione il ritmo che s’intensifica nella coinvolgente Little red riding hood hit the road, dove fondamentale risulta il contributo di Mongezi Feza (di notevole effetto le trombe sovrapposte nel finale). In Alifib Wyatt dialoga col vecchio compagno Hopper (ottimo l’apporto solistico del basso), in Alife si confronta con i gorgheggi free dei fiati di Windo. Little red Robin Hood hit the road, con la lirica chitarra di Oldfield e la glaciale viola di Frith, chiude degnamente un lavoro di struggente bellezza. Nulla della folta e qualitativa discografia successiva del musicista raggiungerà risultati simili. L’impatto sul mercato di Rock bottom è sorprendentemente buono e Wyatt consolida il momento positivo con il singolo di I’m a believer, cover di una canzone di Neil Diamond portata al successo dai Monkees. Sempre nel 1974 il musicista partecipa al concerto del primo giugno con Ayers, Cale e compagnia bella, e in settembre organizza in proprio un’esibizione al Drury Lane Theatre con l’intervento di Nick Mason, Fred Frith, Mike Oldfield, Hugh Hopper, Dave Stewart e Julie Tippett. Verso la metà del 1975 Wyatt pubblica il buon Ruth is stranger than Richard, che annovera il solito straordinario nucleo di collaboratori ; il disco soffre oltremodo dell’ingeneroso paragone con Rock bottom, muovendosi in realtà su territori ben diversi. Valide appaiono la versione della Song for Che di Charlie Haden e la lirica struttura di 5 black notes and 1 white note, arricchita dai sassofoni di Nisar Ahmad ‘George’ Khan (Battered Ornaments, Mike Westbrook Brass Band), oltre alle varie parti della melodica Muddy mouse, scritta ed interpretata assieme a Fred Frith. Le apparizioni dal vivo si fanno sporadiche (qualche esibizione con i compagni degli Henry Cow), ma la carriera di Robert Wyatt prosegue fino ai nostri giorni con risultati artistici più che dignitosi. Il buio ai margini della città - 1 eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea Si potrebbe titolare, alla ricerca del suono perduto. Una panoramica, veloce ma obbligatoria, sui gruppi minori (talvolta minimi) della musica progressiva inglese, personaggi della cui esistenza le giovani generazioni non sanno, neppure per sentito dire, e sigle che nemmeno all’epoca furono in grado di muovere le classifiche di vendita. Accanto a complessi e musicisti di notevole popolarità, e spesso di grandi guadagni (non sempre giustificati dalla qualità della musica proposta), è giusto e doveroso collocare, con pari dignità e onori, nomi familiari solo agli appassionati incalliti, che meritano una sistemazione più equa nella trattazione storica della musica rock per i propri (a volte sorprendenti) meriti musicali. Molti di questi gruppi hanno trovato spazio nelle pagine precedenti, a diretto confronto con illustri e fortunati esponenti del rock inglese ; tanti altri, la cui opera contribuisce ad accrescere e dare sostanza a tutto il movimento rock di un’epoca, sono citati qui. Le loro illusioni e le delusioni, i dischi invenduti senza possibilità di replica, le promozioni inesistenti, i concerti mal pagati, la musica provata per il piacere e la passione, senza compromessi. Anonimi musicisti, gruppi durati pochi mesi, a volte giorni, stritolati insieme alle loro aspettative da un’industria discografica illusoria e persecutrice. Le chitarre e le batterie per lo più abbandonate, per diventare impiegati, operai, avvocati, disoccupati e chissà cos’altro, lontano mille miglia dal mito e dal successo ; molti, purtroppo, non sono più tra noi, scomparsi senza lasciare traccia nel ‘normale’ senso della vita. Ma (per quanto esile) resta un filo da seguire, la loro musica che vive ancora, che si può ascoltare grazie alla perversione di un music business che ciclicamente si adatta a riscoprire qualsiasi avvenimento del passato, che merita di essere ascoltata e amata almeno quanto quella dei fratelli favoriti dalla buona sorte. Far finta di nulla, evitare di attribuire a questa gente il dovuto riconoscimento sarebbe un errore imperdonabile. Per non dimenticare. - 35 Tra i maggiori agitatori del panorama underground inglese, Mick Farren fa gavetta nei Mafia sin dal 1962 ; il passo decisivo lo compie nel ’66 quando forma la strana congrega dei Social Deviants, un nucleo aperto del quale inizialmente fanno parte il chitarrista Sid Bishop, il bassista Cord Rees e il batterista Russel Hunter. DEVIANTS - PTOOFF ! (Underground Impresarios - 1967) Abbreviato il nome in Deviants, il gruppo acquisisce un certo seguito esibendosi all’Ufo Club e negli altri piccoli locali della Londra alternativa. Sorprendente è l’esito di vendite del primo album Ptooff !, considerando che la distribuzione avviene esclusivamente attraverso le due riviste storiche dell’underground inglese, International Times e Oz : il relativo ‘successo’ del disco (circa 8.000 copie vendute) serve da stimolo alla Decca per la pubblicazione su più larga scala. Con certezza, si può affermare che il disco non risponde ai requisiti di ‘bello’, nel senso tradizionale del termine. La musica appare aggressiva e trasandata, il suono è sporco e selvaggio ma in compenso non manca il coraggio di gettarsi a testa bassa in ardite, anche se spesso inconcludenti, elaborazioni psychoblues. Il blues rock tirato allo spasimo di I’m coming home sfodera un impatto a mezza via tra Animals e Hendrix, puntando tutto sulla forza d’urto, vista la non eccelsa levatura tecnica degli strumentisti. Siamo dalle parti di un rock iterativo, infuocato, urlato, punk per antonomasia, qualcosa di simile alle deflagrazioni del Detroit sound (Stooges, MC5), di quasi contemporanea evoluzione. Child of the sky sorprende con una stanca melodia acustica dalle belle maniere, mentre Charlie è un blues roccato a bassa cadenza. Il percussionismo sgangherato e l’atmosfera allucinata della pazzesca Nothing man determinano un esito piuttosto evanescente ; meglio Garbage che fa il verso allo Zappa dei primi passi, senza rinunciare ad un suono deciso, a Bo Diddley e al rock blues di base, in netto contrasto con l’aggraziata Bun. Deviation street è devastante nell’esplosivo intreccio che contempla Zappa, rumore ed effetti speciali, hard rock ai massimi livelli di distorsione, Diddley, tracce di calypso, Hendrix e Oriente, un’escursione viscerale nei meandri di un rock liberato da ogni remora formale. E’ chiaro che una proposta simile può solo aspirare ai vertici della scena alternativa ed è ciò che puntualmente accade, dal momento che per una breve stagione i Deviants sono il gruppo freak per eccellenza, a Londra. La conferma, ad elevato livello, viene dai due album successivi. Disposable (nel 1968, per la piccola etichetta Stable e con il bassista Duncan Sanderson) appare tecnicamente più maturo, registrando l’intervento di numerosi musicisti esterni. In particolare impressionano la lucida, tirata strumentazione di Somewhere to go, con chitarra e organo (Tony Ferguson) in evidenza, e l’asciutta poesia di Jamies song (guidata dalle belle chitarre di Bishop) e di Guaranteed to bleed (cantata da Sanderson). Buoni pure il rock’n’roll trascinante di You’ve got to hold on, quello demenziale di Pappa-oo-mao-mao, il discreto R & B di Fire in the city (che prevede la partecipazione dei tenori di Dick Heckstall Smith e George Khan e della tromba di Pete Brown) e la spettrale invocazione conclusiva di Last man. Il terzo ed ultimo LP, The Deviants, risulta più ‘professionale’, per merito delle prestazioni del nuovo chitarrista Paul Rudolph, con in scaletta una stupid song d’ispirazione zappiana (Billy the monster), il blues ficcante di Rambling back transit blues, l’ottimo rock dinamico di Metamorphosis exploration e persino un assolo di ‘batteria a voce’ (Black George does it with his mouth). La formazione dei Deviants del terzo album partecipa alle registrazioni del notevole Think pink di Twink, poco prima dello scioglimento decretato nell’ottobre del ’69 a causa dell’abbandono di Mick Farren, nel corso di un tour canadese. Tornato a Londra, Farren si dedica alla realizzazione di Mona ; the carnivorous circus, suo primo album come solista, nel quale è aiutato da musicisti del calibro di Twink, John Gustafson (Quatermass e poi Roxy Music), Steve Took (Tyrannosaurus Rex) e Paul Buckmaster. Il disco segna il ritorno ai ritmi basilari del rock’n’roll di Bo Diddley (Mona, con il violoncello di Buckmaster) e di Eddie Cochran (Summertime blues, non lontana dalla versione dei Who), spaziato da un pregevole rock dai toni tipicamente underground, libero d’evolvere senza preoccupazioni d’ordine normativo (Carnivorous circus part 1 & 2) fino alla romantica vertigine della struggente An epitaph can point the way. Contemporaneamente Farren dà vita a Shagrat, nuova esperienza a nucleo aperto, dal quale però si defila rapidamente : sarà Twink a stabilizzare la formazione e a dare prosecuzione all’avventura assieme agli altri ex Deviants (Rudolph, Sanderson, Hunter), modificando nome in Pink Fairies. Da parte sua, Farren negli anni Settanta diviene un quotato giornalista musicale (per il New Musical Express) ed effettua un paio d’effimere riunioni dei Deviants (la seconda, nell’84, frutta la realizzazione di un disco dal vivo) ; come solista pubblica nel 1978 il discreto Vampires stole my lunch money. Il cantante Keith Hopkins, con alle spalle un’esperienza nei Teenbeats, e il bassista John Wood si trovano insieme nei Four Plus One (un singolo nel gennaio 1965), prima di approdare nell’agosto del ’65 in una formazione R & B, gli In Crowd. Il complesso pubblica That’s how strong my love is, che si piazza dignitosamente nella classifica dei singoli, e subito dopo entra in organico Steve Howe, proveniente dai Syndicats ; con il nuovo chitarrista, gli In Crowd danno alle stampe altri due 45 giri, Stop wait a minute (settembre ’65) e Why must they criticise (novembre ’65). Un ulteriore avvicendamento (nel 1966) porta nel gruppo il batterista John Alder, già con Dane Stephens & the Deep Beats e con i Fairies (tre singoli) ; così sistemati (Hopkins, Wood, Howe e Alder) gli In Crowd registrano i nastri per un album che non sarà mai pubblicato e nel marzo 1967 decidono di modificare sigla in Tomorrow. TOMORROW - TOMORROW (EMI - 1968) Hopkins diventa West, Wood si fa chiamare Junior e Alder da questo momento si propone come Twink, personaggio tra i più carismatici di tutto l’underground inglese. Dal vivo i Tomorrow dispongono di un impatto scenico inconsueto per i tempi. In aprile si esibiscono al 14th Hour Technicolour Dream e il 28 dello stesso mese tengono una delle tante performance all’Ufo Club, con l’ausilio di un bassista d’eccezione, Jimi Hendrix. L’esordio discografico avviene nel maggio del ’67 con l’eccellente singolo di My white bicycle, una stralunata canzoncina con chitarre imbevute d’Oriente che diventa un piccolo classico della psichedelia inglese, proiettando i Tomorrow tra le formazioni più seguite del sottobosco rock. Nel settembre dello stesso anno il gruppo si ripete ad alto livello con il nuovo 45 giri Revolution, che suona più duro e serrato, con la chitarra wah-wah e un’originale orchestrazione a completamento della traccia base. Il terreno è pronto per la realizzazione di un lavoro sulla lunga distanza, che si materializza all’inizio del 1968 con la pubblicazione dell’album omonimo. Il disco (che comprende anche i due singoli già pubblicati) conferma i Tomorrow padroni di uno stile che paga un evidente tributo ai Beatles, pur dimostrando una solida originalità strumentale e creativa. In brani quali Colonel Brown, Shy boy, The incredible journey of Timothy Chase, Auntie Mary’s dress shop, Now your time has come (che nella parte centrale include un lungo, originale esercizio per chitarra solista), Hallucinations, il gruppo costruisce l’impianto della propria musica su belle melodie di derivazione Lennon / McCartney, mettendo in evidenza un uso notevolmente personale degli strumenti, in particolare di chitarra e batteria. Non è casuale la presenza di Strawberry fields forever, resa in una bellissima versione che acquista in peso strumentale, senza smarrire l’afflato lisergico dell’originale. Interessanti pure la divertente Three jolly little dwarfs, con un buon lavoro ai tamburi di Twink, e Real life permanent dream, che ricorda vagamente l’incedere degli Stones in odor di psichedelia. Purtroppo i Tomorrow nell’aprile del ’68 cessano d’esistere, subito dopo aver interpretato una canzoncina per bambini (A teenage opera), ideata dal produttore Mark Wirtz. Howe e West progettano un gruppo con Ainsley Dunbar e Ron Wood, ma poi il chitarrista forma i Bodast (e successivamente raggiunge la fama con gli Yes) mentre West si dedica ad una timida carriera solistica per finire, nel 1975, con i Moonriders (un album, con John Weider). Ma torniamo a Twink. Contemporanea alla creazione dei Tomorrow è la brevissima esperienza con i Santa Barbara Machine Head, dove il batterista si trova a confronto con musicisti del valore di Jon Lord, Ron Wood e Kim Gardner ; la formazione non riesce a decollare e lascia a testimonianza tre sole canzoni incise. Nel 1968 (dopo lo scioglimento dei Tomorrow) Twink entra a far parte dei Pretty Things, con i quali registra lo splendido S.F. Sorrow, quindi viene in contatto con l’ambiente dei Deviants e nel novembre del ’69 contribuisce con Mick Farren alla fondazione degli Shagrat The Vagrant, nucleo dal quale derivano i Pink Fairies. TWINK - THINK PINK (Polydor - 1970) Con la pubblicazione di Think pink, Twink dimostra il proprio valore come compositore elaborando, con l’aiuto dell’ultima formazione dei Deviants e con la produzione di Farren, un affascinante rock free form venato da evidenti influssi orientali (con sitar e tabla), condito con salsa lisergica. Se l’iniziale The coming of the other one (con un pizzico di confusione di troppo) e il mantra di Dawn of majic si posizionano sul versante orientale, le improbabili marcette baccanali di Mexican grass war e di Three little piggies danno ampia rassicurazione dell’incurante atteggiamento dell’autore nei confronti del music business. Discrete appaiono le divertite Rock’n’roll the joint e The sparrow is a sign, spaziata dalla potente chitarra di Rudolph ; Fluid è un attimo di pura lisergia e Suicide apre lo sguardo su sognanti sospensioni, allacciate alla tensione di implacabili chitarre acustiche. Ten thousand words in a cardboard box è un esaltante rock dal passo sicuro, con l’affilata chitarra di Rudolph impegnata su appassionanti tonalità medio - basse ; bellissima Tiptoe on the highest hill, limpida e fresca ballata dalle sembianze floydiane, ancora con la sei corde in grado di alzare il tiro. Il nucleo aperto degli Shagrat The Vagrant si dimostra estremamente instabile e inconcludente. In tempi diversi vi prendono parte, tra gli altri, Steve Took (dei Tyrannosaurus Rex), Larry Wallis (Entire Sioux Nation) e Dave Bidwell (Chicken Shack). Quando gli Shagrat tengono il loro unico concerto, nel 1970, Farren e Twink sono già partiti per altri lidi ; il batterista si unisce ai tre membri dell’ultima formazione dei Deviants (presenti su Think pink) e forma i Pink Fairies, propendendo per un originale assetto che prevede due percussionisti. PINK FAIRIES - NEVERNEVERLAND (Polydor - 1971) Nella migliore tradizione underground il gruppo suona spesso gratis nei piccoli ritrovi londinesi e si mette in luce partecipando, nell’agosto del ’70, ad un festival alternativo tenuto fuori dei cancelli del festival di Wight. All’inizio del 1971 viene pubblicato Neverneverland, disco che presenta un frequente alternarsi di pezzi durissimi e ariose ballate con tonalità anche acustiche, la predominanza strumentale della chitarra di Rudolph e un corposo sostegno ritmico. Do it è il manifesto programmatico dei Pink Fairies, un hard urlato e tirato allo spasimo, vero e proprio pezzo forte delle esibizioni dal vivo, sorta di rituale liberatorio caratterizzato dall’aggressiva chitarra di Rudolph che domina il rock’n’roll di base. Say you love me poggia su un riff assassino che si ammorbidisce un poco nella parte lirica, non distante dall’hard rock di un gruppo come i Mountain. Per contro, le ballate di Heavenly man (che paga un tributo ai Pink Floyd più melodici), di War girl (segnata da un incedere latin - blues, quasi sul modello del Peter Green di Albatross e dintorni), di Neverneverland (con una bella chitarra hendrixiana) preferiscono climi pacati. Molto coinvolgente è la sequenza della seconda facciata con Track one side two (dal titolo particolarmente esplicito), quasi sconcertante nella sua linea placida e sommessa, spezzata dalla grinta chitarristica di Thor ; Teenage rebel, introdotta da un inquietante rombo di Rudolph, si sviluppa in un frenetico e divertente rock’n’roll per poi lasciare spazio alla granitica Uncle Harry’s last freak out, che fa il paio con Do it per la devastante energia profusa e per lo sfoggio di solide divagazioni alla chitarra, con Hendrix ben fissato in mente. La chiusura delle ostilità è affidata alla breve e sognante The dream is just beginning. Il 23 giugno del 1971 i Pink Fairies partecipano al Glastonbury Fayre Festival, mitica cinque giorni che raduna il popolo dell’underground, oramai in fase di crisi d’identità e di avanzata decadenza creativa. Eppure il triplo album che testimonia sull’avvenimento risulta fresco e vitale, nell’epoca del decadimento barocco della musica rock ancora vi sono complessi che urlano la propria rabbia, forse per l’ultima volta. E’ il caso dei Pink Fairies, che concedono ai compilatori della Revelation due possenti esecuzioni delle classiche Do it e Uncle Harry’s last freak out (in una versione lunga quasi venti minuti). Si tratta dell’ultima apparizione di Twink con il gruppo ; l’errante musicista, all’inizio del 1972, tenta l’utopistica avventura degli Stars, con Syd Barrett e Jack Monk, destinata a fallire subito dopo una disastrosa esibizione d’esordio. In seguito il batterista viene coinvolto nella reunion dei Pink Fairies e, anche se defilato, si mantiene nei meandri di una sempre più atrofizzata scena alternativa. I Pink Fairies proseguono in formazione triangolare e nel 1972 pubblicano il buon What a bunch of sweeties ; il forte rock chitarristico resta alla base della proposta, una sorta di hard di qualità, meno scontato e ripetitivo rispetto ai canoni del genere ma pure lontano dagli eccessi e dalle stonature entusiaste dei tempi migliori. Gli esempi più significativi sono le grintose Right on fight on, Marilyn (sia pure con la presenza di un assolo di batteria un po’ troppo tirato per le lunghe), le ottime Portobello shuffle e Walk don’t run, che si aprono in finali ricercati e melodici, senza voler dimenticare la valida versione proto punk di I saw her standing there dei Beatles. Il gruppo subisce l’importante defezione di Paul Rudolph, che collabora con Robert Calvert e suona con gli Hawkwind ; il chitarrista è temporaneamente sostituito da Trevor Burton (dai Move) e quindi da Mick Wayne (ex Junior’s Eyes), prima del definitivo ingresso in formazione di Larry Wallis, già presente nel nucleo degli Shagrat. Così organizzati i Pink Fairies realizzano l’ultimo Kings of oblivion (Polydor-1973) e resistono fino al marzo del ’74, quando decidono di separarsi. Non è però una mossa definitiva ; nel luglio del ’75 il complesso dà luogo ad un’attesa reunion che contempla la formazione originaria con Twink, rinforzata dalla presenza di Wallis. L’occasione è quella di un concerto alla Roundhouse, registrato e pubblicato su vinile solo nel 1982 dall’etichetta Big Beat. Ancora qualche esibizione di Wallis, Sanderson e Hunter (negli ultimi momenti si aggrega pure Martin Stone, altro esponente di spicco del sottobosco rock con i Mighty Baby), quindi il definitivo addio all’inizio del 1977. Nel panorama del rock alternativo più duro e sfrontato emerge il nome della Edgar Broughton Band, attiva sin dal 1968 con i fratelli Edgar (ch.) e Steve (bt.) Broughton, con il bassista Art Grant e il chitarrista Victor Unitt. Quando Unitt s’unisce ai Pretty Things per le registrazioni dell’album Parachute, i tre rimasti realizzano a loro volta un primo progetto discografico (Wasa wasa), pubblicato verso la metà del 1969. EDGAR BROUGHTON BAND - WASA WASA (Harvest - 1969) Prodotto dal manager dei Pink Floyd, Peter Jenner, e accompagnato dalle note di copertina di John Hopkins (fondatore di I.T., dell’Ufo Club e ideatore del 14th Hour Technicolour Dream le note citano il curioso episodio di un concerto del gruppo a Rieti dove, ingaggiati per le manifestazioni del carnevale, riescono a suonare per dieci minuti, prima che il capo della polizia decida brutalmente di porre fine all’insolita esibizione), Wasa wasa esprime un suono privo di compromessi, duro, spietato, alternativo per eccellenza. Death of an electric citizen (qualcuno sostiene che il brano è dedicato a Brian Jones) sputa il blues sull’insegnamento del Captain Beefheart d’oltreoceano, con una musica rabbiosa che si atteggia da subito ad ostinato rituale liberatorio per il corpo e la mente. Se American boy soldier è una parodia dal gusto zappiano, Why can’t somebody love me si sviluppa su pochi accordi, tesa e trascinante, essenziale e diretta come tutto il materiale del disco. Evil è focosa, concisa, e ben s’intende che l’elettricità della chitarra deriva dal primo Hendrix. Il tormento di Crying, il respiro pesante di Love in the rain e la desolazione di Dawn crept away sigillano un lavoro forse troppo monocorde, ma che proprio nella proposta povera e trasandata trova un fiero equilibrio d’intenti. I soliti concerti gratis, l’energia profusa senza mezzi termini, l’approccio anarchico alla scena musicale elevano in breve il gruppo fra i più accreditati ed immacolati alfieri dell’underground inglese. Le registrazioni del secondo LP Sing brother sing (ancora prodotto da Jenner) vengono effettuate tra il luglio del ’69 e il febbraio del ’70 agli studi di Abbey Road. La musica diventa più complessa ed articolata, perde qualcosa in impatto fisico ma regala momenti di notevole caratura ; la Edgar Broughton Band mette positivamente a frutto ricercate tecniche di registrazione, come si può desumere dall’ascolto dell’iniziale There’s no vibrations but wait ! e delle due mini suite The moth e soprattutto Psychopath, in bilico fra toni drammatici, durezza espressiva e sogno meravigliato. Non mancano brani che si collegano alle atmosfere energiche del disco precedente, come Momma’s reward e Old Gopher, solo leggermente meglio rifiniti del solito. Ancora Beefheart nella scansione funerea di Refugee, e l’inquietante incedere dell’obliqua It’s failing away a nobilitare un lavoro non facile ma ricco di spunti interessanti. Il 24 giugno del 1971 la Edgar Broughton Band chiude il festival di Glastonbury (e forse un’epoca, un’intera concezione di fare musica), interpretando una lunga versione di Out demons out, insistente rito collettivo che prende esempio dai Fugs di Tenderness junction. Victor Unitt è tornato nel gruppo che, a questo punto, ha già speso le carte migliori ; i tempi dei free festival stanno tramontando e i fratelli Broughton, coerenti con la propria inattaccabile posizione di estremo rigore anti commerciale, scivolano lentamente nell’anonimato, continuando a produrre album quantomeno decorosi quali Edgar Broughton Band (Harvest-1971) e In side out (Harvest-1972). Rispetto a Edgar Broughton Band e Pink Fairies gli Hawkwind possono vantare un piccolo assaggio delle classifiche di vendita che contano, ai tempi del fortunato singolo di Silver machine. L’episodio nulla toglie al sincero atteggiamento sotterraneo del quale il gruppo si è sempre avvalso con gran coerenza. Le origini del complesso risalgono alla fine degli anni Sessanta, quando i chitarristi Dave Brock e Mick Slattery (entrambi dei Famous Cure) si uniscono al sassofonista Nik Turner fondando il Group X ; con loro sono anche il bassista John Harrison, il batterista Terry Ollis e Dik Mik, agli strumenti elettronici. Il nome del gruppo viene modificato in Hawkwind 200 e definitivamente abbreviato, nel luglio ’69. La formazione va in studio per le sessions del primo LP, con l'importante partecipazione del fondatore dei Pretty Things, Dick Taylor, in qualità di chitarrista e produttore. Frutti del lavoro svolto sono il 45 giri Hurry on sundown / Mirror of illusion e l’album Hawkwind (Liberty-1970), che vede il gruppo impegnato nel tentativo di coniugare tematiche fantascientifiche con un hard rock abbastanza scontato, generando risultati per la maggior parte confusi e caotici. Accanto alla spigliata ballata dai tratti rock di Hurry on sundown trovano spazio timide intuizioni space rock, collocate all’interno di lunghe ed ambiziose, ancorché inconcludenti, composizioni (degna di nota Seeing it as you really are). HAWKWIND - IN SEARCH OF SPACE (United Artists - 1971) Il caratteristico rock spaziale degli Hawkwind trova precisa e matura elaborazione su In search of space, il loro miglior album di studio, che segna l’ingresso in organico di Del Dettmar ai sintetizzatori e del bassista Dave Anderson, reduce dagli Amon Duul II di Phallus Dei. La lunga You shouldn’t do that (e anche la seguente You know you’re only dreaming) evolve in ipnotiche spirali concentriche, sostenuta dal ritmo pulsante del basso di Anderson e collegata idealmente ad analoghe esperienze di formazioni tedesche quali Amon Duul II e Can. Master of the universe s’affida a decise scansioni hard, diventando (nonostante l’assenza di gran fantasia) un piccolo classico del repertorio, importante per lo sviluppo futuro della musica degli Hawkwind. Le buone ballate acustiche di We took the wrong step years ago e di Children of the sun, inframmezzate dalla caotica psichedelia di Adjust me, completano un lavoro più che dignitoso, anche se resta la sensazione complessiva di una tangibile confusione forse determinata dall’impietoso missaggio dei suoni. Dal vivo gli Hawkwind mettono in opera un ambizioso spettacolo, che contempla la presenza della ballerina Stacia ; già nell’agosto del ’70 il gruppo prende parte al contro festival gratuito dell’isola di Wight, quindi il 23 giugno del ’71 è presente nel programma del Glastonbury Fayre Festival. Gli Hawkwind contribuiscono al triplo album della Revelation con una versione di Silver machine, peraltro registrata qualche mese più tardi. Con una rinnovata sezione ritmica proveniente dagli Opal Butterfly (Lemmy Willis al basso, già con Sam Gopal’s Dream, e Simon King alla batteria) il gruppo incide Doremi fasol latido (United Artists-1972), disco che indugia eccessivamente in soluzioni di hard space rock, con brani in genere ben caratterizzati ma privi di novità, che tendono a ripetere gli aspetti esteriori della musica in una sorta di saga senza inizio né fine, sconfinando nell’inevitabile noia (l’ossessiva Brainstorm è uno dei pochi momenti da salvare). Meglio guardare al successo di Silver machine, un potente hard & roll firmato dal cantante Robert Calvert, nel frattempo entrato in formazione, e soffermarsi un attimo sul discreto resoconto live di Space ritual, doppio LP ricavato da concerti tenuti a Londra e Liverpool, che conferma l’hard spaziale del gruppo particolarmente adatto alle esibizioni dal vivo. Qui termina il periodo migliore per gli Hawkwind che comunque insistono imperterriti ad incidere dischi fino agli anni Ottanta, con la partecipazione più o meno continuata di musicisti importanti quali Simon House (High Tide, Third Ear Band) e Paul Rudolph (Deviants, Pink Fairies). Un pensiero va speso per l’ottimo Captain Lockheed and the starfighters di Robert Calvert, registrato tra il marzo del ’73 e il gennaio ’74 con l’intervento di una lunga lista di ospiti comprendente Paul Rudolph, Brian Eno, Twink, Arthur Brown, Adrian Wagner e gli Hawkwind al gran completo. Si tratta di un album concept ben congegnato, che musicalmente si riallaccia non poco allo stile del gruppo madre, con un rock dai tratti hard, manipolato dai sintetizzatori e dagli effetti elettronici di Eno (The right stuff, Ejection), oltre alle irrequiete parti liriche di The song of the Gremlin e di Catch a falling starfighter (Twink alla ‘funeral drum’). Calvert ci riprova l’anno successivo con il discreto Lucky leif and the longships (United Artists-1975), prodotto da Eno e con il solito elenco di qualificati musicisti. Il buio ai margini della città - 2 eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea - 36 Ancora qualche tenue bagliore psichedelico a rischiarare il buio che nasconde formazioni perse nella memoria degli ultimi anni Sessanta e nel riflusso creativo dei primi Settanta. Come i Julian’s Treatment con il loro Time before this (Young Blood-1971), doppio album concept composto ed arrangiato dal leader Julian J. Savarin, imperniato su un accettabile space rock progressivo. Come i discreti ma spesso sconclusionati Nirvana di Patrick Campbell-Lyons, produttore per la Vertigo, scopritore dei Clear Blue Sky e sostenitore dei Jade Warrior (Local anaesthetic, Vertigo-1971). E, qualche anno prima, come gli altrettanto confusionari Hapshash & the Coloured Coat (Michael English, Nigel Waymouth e Guy Stevens gli ideatori), autori nel 1967 dell’album Featuring the human host and the heavy metal kids (Minit), forzato e pretenzioso tentativo di mescolare psichedelia, oriente, ritmo tribale, nenie, rumori. Non si sa da dove si parte e tanto meno dove si vuole arrivare ; rimane l’aspetto emotivo legato alla superficie del suono, la sensazione di una musica strettamente riferita ad un preciso periodo temporale. Se al primo LP partecipano i membri degli Art in qualità di sessionmen, sull’ultimo Western flier (Liberty-1969, con uno stile orientato su un più tradizionale folk rock blues) è presente la chitarra di Tony McPhee dei Groundhogs. Il 1967 è anche l’anno dei validi Kaleidoscope (nessuna parentela con il gruppo USA di David Lindley) e del loro Tangerine dream (Fontana-1967), bissato due anni dopo da Faintly blowing, sempre per la Fontana. Il gruppo evolve poi in Fairfield Parlour, autori di un raffinato pop psichedelico di non poche qualità nell’album From home to home (Vertigo-1970). Soprattutto è l’anno dei sottovalutati, ma eccellenti, Blossom Toes che, dopo l’esordio con il 45 giri di What on earth, in novembre pubblicano il bellissimo We are ever so clean per l’etichetta Marmalade di Giorgio Gomelsky. Brian Godding (ch.ts.v.), Jim Cregan (ch.v.), Brian Belshaw (bs.) e Kevin Westlake (bt.) danno corpo ad una musica colorata, elaborata, ricca di spunti interessanti, che raccoglie l’insegnamento del Sgt. Pepper dei Beatles senza rinunciare a soluzioni estreme, vicine ai primi Pink Floyd. Solo che, mentre nel gruppo di Syd Barrett tutto esplode in un verticale panorama di ripide costruzioni senza appigli, dai Blossom Toes viene istituito un ricercato lavoro di montaggio orizzontale. Così le stupende melodie di base delle varie Look at me I’m you, Telegram Tuesday, What on earth e delle altre composizioni sono sottoposte a correzioni armoniche e ad arrangiamenti d’indubbia efficacia, e da belle e limpide canzoni si trasformano in piccoli gioielli psichedelici. Ancor meno conosciuti ed apprezzati sono gli Skip Bifferty, le cui origini vanno ricercate a metà degli anni Sessanta, quando il tastierista Mickey Gallagher esordisce nella scena di Newcastle suonando in un gruppetto chiamato significativamente Unknowns. Dopo un breve stage negli Animals, in temporanea sostituzione del dimissionario Alan Price, Gallagher forma i Chosen Few con il chitarrista Alan Hull, il bassista Alan Brown, il batterista Tommy Jackman (anche lui ex Unknowns) e il cantante Rod Hood. Il gruppo firma per la Pye e nel 1965 incide due singoli ; nell’estate del ’66 Brown e Hull sono avvicendati da Colin Gibson (bs.) e da John Turnbull (ch.), entrambi provenienti dai Primitives Sect (dove milita anche il tastierista Bob Sargeant, poi in Everyone, Junco Partners e Mick Abrahams Band). Nel 1969 Hull guadagnerà notorietà e discreto successo come leader dei Lindisfarne. Verso la fine del ’66 entra nei Chosen Few anche il cantante Graham Bell, reduce dall’esperienza dei Trend, e all’inizio dell’anno nuovo il gruppo cambia nome in Skip Bifferty. La formazione tiene concerti in piccoli club ed inizia a comporre materiale originale, che trova pubblicazione per la RCA su un singolo che comprende la grintosa On love e l’altrettanto interessante Cover girl, con belle soluzioni vocali ed armoniche. Il 45 giri gode di parecchi passaggi sulle radio pirata dell’epoca e permette al gruppo di ottenere una piccola popolarità. Purtroppo il singolo successivo Happy land / Reason to live appare decisamente meno brillante e nonostante i numerosi concerti, e un terzo singolo (con le belle Man in black e Money man, prodotto nel luglio del ’68 da Steve Marriott e Ronnie Lane degli Small Faces), gli Skip Bifferty non riescono ad affermarsi come meriterebbero. Contemporanea è la pubblicazione di un album omonimo interamente registrato nel 1967, dalla sofferta gestazione ma di ottima qualità, nel quale il complesso mostra minore coraggio rispetto ai Blossom Toes, fermandosi ad un livello più superficiale nell’elaborazione del suono. Questo non pregiudica affatto il valore del lavoro che si dimostra vario e piacevole, sostenuto da belle armonie vocali e da buone prestazioni strumentali, in particolare delle tastiere di Gallagher. Di rilievo sono la matura When she comes to stay (con una ficcante chitarra), la tribale Guru, la delicata e sognante Orange lace, l’elaborata struttura di Clearway 51. La totale mancanza d’interesse nei confronti del disco spinge il complesso ad una nuova metamorfosi e, alla fine del 1968, gli Skip Bifferty cambiano nome in Heavy Jelly, incidendo un singolo per la Island (I keep singing that some old song). Poi le forze si disperdono in mille tentativi : Bell e Gibson formano i Griffin, dove suona anche il futuro batterista degli Yes, Alan White. Quindi Bell entra a far parte degli Every Which Way di Brian Davison. Da parte loro, Gallagher e Turnbull nel 1971 creano gli Arc (un album omonimo per la Decca) che in seguito, con il ritorno di Graham Bell, diventano Bell & Arc (un altro album nel ’71 per la Charisma). Ancora un disco come solista nel 1973 e di Bell si perde ogni traccia ; Turnbull finisce nei Glencoe, Gallagher suona con Peter Frampton prima d’entrare a sua volta nei Glencoe (entrambi saranno infine nella band di Ian Dury). Un cenno per Colin Gibson che, dopo aver provato con alcuni anonimi gruppetti, collabora con i Mark-Almond di Rising e nel luglio del ’73 va con gli Snafu, formazione che annovera altri reduci della scena minore quali Bobby Harrison (Freedom) e Mick Moody (Juicy Lucy). Altra discreta formazione della scena psichedelica underground, i July si formano nel 1968 su impulso del chitarrista Tony Duhig e del batterista Jon Field. I due fanno esperienze parallele nei Second Thoughts, un complesso R & B del quale fa parte anche Patrick Campbell-Lyons, e nei Tomcats ; con i July, Duhig e Field aderiscono al suono psichedelico collocandosi, con la pubblicazione dell’album Dandelion seeds (1968), a breve distanza stilistica da gruppi quali Blossom Toes, Tomorrow e Skip Bifferty. Le influenze sono all’incirca le stesse, vale a dire i Beatles e i primi Pink Floyd, con chitarre dalle tonalità ruvide, una buona varietà di arrangiamenti e una maggiore propensione verso l’Oriente. Rock corposo e sfumature orientali sono alla base di belle composizioni quali My clown, Dandelion seeds, The way ; altre canzoni (Jolly Mary, Move on sweet flower, To be free) vengono sottoposte a trattamenti con acidi adeguati e brani come Crying is for writers e You missed it all danno la misura dei risultati raggiunti, ma Duhig e Field passano oltre, già hanno in mente il progetto Jade Warrior. Su un piano sensibilmente inferiore vanno posti gli sconosciuti Apple e i più noti Idle Race. Gli Apple, scoperti dal manager Larry Page (Kinks, Troggs), vivono una breve stagione nel 1968 pubblicando tre singoli e un album, An Apple a day... (Page One - febbraio 1969), prima di scomparire dalla scena. La musica è un rhythm & blues grezzo e potente, colorato di psichedelia (Let’s take a trip down the rhine, Doctor rock, Mr. Jones), piuttosto accattivante ma certo non rivoluzionario in considerazione dell’epoca di produzione. Gli Idle Race di Jeff Lynne pubblicano due discreti album di pop psichedelico, The birthday party (Liberty-1968) e Idle Race (Liberty-1969), ricchi di brevi canzoni melodiche di chiaro stampo beatlesiano (The end of the road, On with the show, The morning sunshine). Nel novembre del ’70 Lynne accetta l’offerta da parte di Roy Wood di entrare nell’organico dei Move : i restanti Idle Race, privi della principale fonte creativa, riescono ad incidere il terzo Time is prima di sciogliersi nel 1971. Poi viene la Electric Light Orchestra, il gran successo e un rock sinfonico edulcorato e commerciale. Il buio ai margini della città - 3 eroi e dannati dell'Inghilterra sotterranea - 37 La Bonzo Dog Doo/Dah Band va annoverata tra le più strane congreghe dell’Inghilterra sotterranea degli anni Sessanta. La formazione, che in seguito accorcia la sigla in Bonzo Dog Band, inizia a muovere i primi passi nella Londra del 1965 tenendo esibizioni in locali come Roundhouse, Middle Earth, Pink Flamingo e, dopo la partecipazione al carrozzone del Magical Mystery Tour dei Beatles, trova il modo d’incidere un primo long playing per l’etichetta Liberty. BONZO DOG DOO/DAH BAND - GORILLA (Liberty - 1967) Per associazione d'idee, il primo nome che viene in mente è quello delle Mothers Of Invention, ma si tratta di un’impressione di comodo dovuta all’impatto disorientante della musica ; tanto la stesura e il messaggio dello Zappa di Freak out ! e di Absolutely free sono crudi, geniali e provocatori, quanto la proposta dei Bonzos appare bizzarra e legata alla cura esteriore del suono, all’aspetto dei brevi episodi che compongono il disco. Pulite e spiritose canzoncine che pagano dazio ai Beatles (The equestrian statue), che rincorrono datate ed improbabili partiture jazz (Jazz, delicious hot, disgusting cold) frammiste ad accenni rhythm & blues e ad un diffuso gusto per lo sberleffo, per la ‘stupid song’. Cosa dire del canto a cappella inserito nella pazzesca I’m bored, dello swing divertito di Look out, there’s a monster coming, del romantico pianoforte della conclusiva The sound of music, se non che l’effetto suscitato è limitato ai due - tre minuti di transito delle singole tracce, facendo ben attenzione a non valicare i confini delle buone maniere. Nel 1968, con un organico ridotto (non ci sono più Spoons e Bohay-Nowell), la Bonzo Dog Band registra il nuovo Doughnut in Granny’s greenhouse (Liberty) e in novembre ottiene l’unico successo commerciale con il singolo I’m the urban spaceman, un brano di Innes prodotto da Paul McCartney, successivamente incluso nell’album Tadpoles (Liberty-1969). Il gruppo appare in difficoltà, anche se continua a tenere esibizioni fino al 1970 ; il breve momento di popolarità è passato e non c’è più spazio per la musica levigata e umoristica dei Bonzos. In ogni caso, Stanshall e Innes proseguono per la loro strada : il primo progetta formazioni dai curiosi nomi quali Big Grunt, Gargantuam Chums, Sean Head Show Band, per poi dedicarsi alla carriera solistica, l’altro nel 1970 è con i World (un album per la Liberty, Lucky planet), quindi inizia la carriera come solista e forma i Grimms, con il contributo di Ollie Halsall e Zoot Money (altri due LP nel 1973). Sempre Innes è responsabile della creazione dei Rutles, ironica contraffazione dei Beatles che frutta un album per la Warner Bros. nel 1978. Poeta e musicista, esponente di spicco del movimento underground, Pete Brown acquisisce notevole notorietà nella veste di paroliere per numerose canzoni di successo dei Cream (basti pensare a classici come White room e Sunshine of your love), costituendo con Jack Bruce un’affiatata coppia di compositori, capace di esprimersi ad alto livello in svariate configurazioni stilistiche. Nel 1968 Brown appronta una formazione con la quale esprimere direttamente le proprie convinzioni creative. Coinvolti nel progetto sono l’ottimo chitarrista Chris Spedding ed altri eccellenti strumentisti di scarsa notorietà quali Charlie Hart (or.), ‘George’ Khan (sax.), Roger Potter (bs.), Pete Bailey (pr.) e Rob Tait (bt.). I Battered Ornaments esordiscono registrando il valido A meal you can shake hands with in the dark, pubblicato nel 1969 dalla Harvest ; Brown si dimostra cantante non particolarmente dotato ma capace d’imprimere originalità all’asciutto timbro vocale, e la musica riflette alla perfezione la natura sotterranea del complesso, basata su un ingenuo, povero quanto coinvolgente incrocio di rock, blues e jazz. Accanto a brani lunghi e un po’ monocordi (la percussiva Sandcastle, il blues di Travelling blues) si slancia il potente R & B di Dark lady, pungolato dal sassofono free di Nisar Ahmad Khan, e brillano le bellissime The old man (con l’ondeggiante chitarra di Spedding) e Station song, che coniuga folk informale ad echi d’Oriente. I Battered Ornaments vivono un attimo d'effimera gloria quando, nel luglio del 1969, partecipano al concerto in memoria di Brian Jones, organizzato dai Rolling Stones a Hyde Park, ma già alla pubblicazione del secondo Mantle piece il gruppo in pratica non esiste più, con Brown assorbito da nuove avventure. Con un pizzico di coraggio in meno (o forse di consuetudine aggiunta) Mantle piece è comunque un 33 giri di notevole bellezza ; il rock pigro di Sunshades e soprattutto le stupende, intense ballate di Then I must go (strepitosa la chitarra di Spedding) e di The crosswords and the safety pins vanno oltre ogni precedente risultato. Sono le ultime prodezze del complesso, perché Spedding si prepara al jazz rock dei Nucleus e Brown fonda i Piblokto. PETE BROWN & PIBLOKTO - THINGS MAY COME AND THINGS MAY GO BUT... THE ART SCHOOL DANCE GOES ON FOR EVER (Harvest - 1970) Una chitarra ai confini con l’hard apre la title track, dinamico ed incalzante brano che subito sfoggia un suono meno scarno rispetto ai dischi dei Battered Ornaments. La musica appare meglio curata e rifinita, elegante e moderna nella veste estetica per merito delle precise tastiere di Thompson, di un apporto strumentale generalmente misurato e del migliorato stile vocale di Brown (High flying electric bird, Someone like you). Il rock torna spedito e diretto in I walk for charity, run for money, che riserva un imprevisto finale a tinte jazz con il sassofono di Thompson ; la ripresa di Then I must go... non può raggiungere l’immacolata bellezza dell’originale, ma si distingue per un arrangiamento aggressivo, mentre il recupero della rilassata My love’s gone far away mostra un aspetto ricercato (entrambe le canzoni erano presenti su Mantle piece). La convincente ballata di Golden country kingdom, la lirica Firesong (con una citazione da ‘L’uccello di fuoco’ di Igor Stravinski), la soffice e jazzata Country morning suggellano mirabilmente un lavoro di non facile assimilazione, che quasi tende a nascondere pudicamente le virtù che gli appartengono. I Piblokto fanno in tempo a realizzare un secondo LP, Thousands on a raft (Harvest-1970), e Brown prosegue la sua integerrima carriera con sporadiche pubblicazioni, tra le quali va segnalato l’album Two heads are better than one, ideato ed inciso insieme a Graham Bond. Ospite fisso dell’Ufo Club nell’anno di grazia 1967, Arthur Brown è personaggio dal carattere stravagante ed imprevedibile, capace per una breve stagione di imporsi all’attenzione generale grazie ad una musica che mischia psichedelia, neoclassicismo, hard rock, e ad esibizioni selvagge e fuori della norma. Il ricordo corre rapido al nucleo del Crazy World, al quale partecipano l’organista Vincent Crane (suo braccio destro) e il giovanissimo batterista Carl Palmer (destinato ai fasti commerciali di E.L.&P.), e al secondo 45 giri, quel Fire che balza inatteso in testa alle classifiche, nell’estate del 1968. Il brano (un ossessivo R & B arrangiato in modo originale, guidato dall’organo di Crane ed interpretato da un esplosivo Brown, croce e delizia di un’intera carriera) è il fulcro delle performance dal vivo, spesso sconcertanti (come al Palermo Pop Festival, dove il cantante si esibisce nudo, finisce arrestato e rispedito in Inghilterra), e dell’album The Crazy World of Arthur Brown, prodotto da Kit Lambert e Pete Townshend nel 1968. L’effetto scatenato dall’ascolto dell’unico LP inciso dal Crazy World è notevole. Nella musica di Brown non vi sono novità sconvolgenti, né trovano posto sperimentazioni di particolare rilievo. Ciò che colpisce è l’aggressività, la secchezza del suono che s’atteggia ad embrionale forma hard senza irrigidirsi in schemi forzati, priva com’è del supporto essenziale della chitarra elettrica. Alcuni brani possiedono aspetti inquietanti (Nightmare, Time / Confusion) che, di fatto, anticipano soluzioni dark, con la voce di Brown estremamente coinvolgente ; l'ottima Come and buy contiene spunti che saranno preziosi agli Atomic Rooster di Vincent Crane e buone sono le cover di I put a spell on you (Hawkins) e di I’ve got money (James Brown). Tutto si esaurisce molto rapidamente. Nel giugno del ’69 Crane e Palmer formano gli Atomic Rooster e Brown, pochi mesi più tardi, risponde con la creazione dei Puddletown Express, effimera formazione che annovera il batterista Drachen Theaker (già presente nella versione d’esordio del Crazy World) e il sassofonista ‘George’ Khan, proveniente dai Battered Ornaments. Più duratura la vita dei Kingdom Come, ennesima creatura che resiste dal settembre 1970 al 1973 con la pubblicazione di tre album. Poi il nome di Arthur Brown finisce nel dimenticatoio, ma è difficile non provare un sincero fremito d’emozione riascoltando Fire e la sua inossidabile voce. I Bystanders sono una band gallese composta da Mick Jones (ch.), Clive John (ch.ts.), Jeff Jones (bt.) e Ray Williams (bs.), alla quale nel 1968 s’unisce il chitarrista Deke Leonard (proveniente dai Dream). La formazione si trasforma in Man e nel marzo 1969 pubblica un primo album, Revelation (Pye), che si rivela complessivamente discreto, con alcuni brani che adottano soluzioni originali ed interessanti. Di rilievo il grintoso e conciso rock blues di Sudden life, la bella linea melodica di Empty room (con chitarra e organo in evidenza), la frenesia imprevedibile di Don’t just stand there (come in out of the rain), ma non tutto il materiale si conferma a questi livelli. Certamente meno memorabile è Erotica, curiosa esibizione strumentale maldestramente condita con sospiri e gridolini a luci rosse. MAN - 2 OZS OF PLASTIC (WITH A HOLE IN THE MIDDLE) (Dawn - 1969) In questa fase l’attività e la notorietà dei Man sono limitate alla scena underground, con frequenti concerti in piccoli club e la produzione di una musica lontana da stereotipi commerciali. 2 ozs of plastic... è la splendida conferma dello stile privo di compromessi dei primi Man. Se Revelation mostra chiari i segni dell’inesperienza, perdendosi a più riprese nell’ingenuità stilistica dell’esordio discografico, il nuovo album non cede di un millimetro sul piano di un rock tirato ed essenziale. Prelude - The storm propone scenari che si stagliano su un orizzonte cupo e minaccioso, per poi aprirsi ad una distesa melodia dal sapore di California, mentre il coinvolgente rock blues di It is as it must be indurisce i toni e le chitarre scaraventano furiose ondate di elettricità in una struttura dall’assetto variabile. Spunk box rafforza la solidità del suono, facendo leva su un riff di sicura presa e su un trattamento estremo di strumenti ed amplificazione. A tratti s’avvertono echi di Led Zeppelin ma è solo una lontana impressione, fugata dall’originale rock’n’roll di My name is Jesus Smith. Dopo la delicata psichedelia del clavicembalo di Parchment and candles, il ritmo torna frenetico nella conclusiva Brother Arnold’s red and white striped tent, dove chitarre e organo ricordano da vicino l’impeto della Allman Brothers Band. Con 2 ozs of plastic... termina la breve stagione dell’underground per i Man, che iniziano la nuova decade incidendo il valido Man (Liberty-1971) ; nel frattempo è cambiata la sezione ritmica (entrano il bassista Martin Ace e il batterista Terry Williams, entrambi ex Dream) e nel 1972 Leonard lascia temporaneamente per andare con gli Help Yourself ed intraprendere la carriera solistica. Con i nuovi Phil Ryan (ts.), Will Youatt (bs.) (nel turbinio di variazioni d’organico Ace è già partito, destinazione Help Yourself) i Man realizzano l’ottimo Be good to yourself at least once a day (1972). Lo stile del complesso è notevolmente mutato a favore di un rock più levigato, fortemente influenzato da inflessioni di matrice West Coast. Le quattro lunghe composizioni dell’album risultano ben congegnate e vantano esecuzioni di prim’ordine sul piano della resa strumentale. Nello stesso anno i Man partecipano ad iniziative live della Greasy Truckers e al concerto del Christmas at the Patti. Ancora cambiamenti d’organico (tra gli altri se ne va Youatt, che raggiunge i discreti Neutrons - due LP all’attivo su United Artists, Black hole star nel ’74 e Tales from the blue cocoons nel ’75 - e torna Deke Leonard), senza che i Man cessino di pubblicare dischi che non raggiungono la qualità dei precedenti (da segnalare il doppio Back into the future, United Artists-1973), pur rimanendo onesti e gradevoli, lontani da furbe tentazioni di classifica. Nel 1975 suona con loro perfino il grande John Cipollina (Quicksilver Messenger Service), per l’album dal vivo Maximum darkness (United Artists-1975). Formazione che presenta parecchie affinità di carattere stilistico con i Man, gli Help Yourself nascono nel 1970 con un organico comprendente i chitarristi Malcolm Morley e Richard Treece, il bassista Ken Whaley e il batterista Dave Charles. Così sistemato il gruppo incide nel 1971 il primo LP omonimo, nel quale propone un rock ben eseguito, con chiare influenze americane (country e West Coast) e la propensione ad un timido approccio progressivo. Pare quasi che dietro gli strumenti di Your eyes are looking down e di Paper leaves si celi Neil Young, e che tra le note di Old man respiri l’anima travagliata di David Crosby ; ovviamente si tratta di un fenomeno d’illusione sonora. Per il resto, del buon rock senza troppe pretese (Street songs) e le delicate melodie delle belle To Katherine they fell e Deborah. HELP YOURSELF - STRANGE AFFAIR (Liberty - 1972) Whaley abbandona per andare con i neonati Ducks Deluxe, dove ritrova Sean Tyla (per breve tempo chitarrista nel nucleo embrionale di Help Yourself) ; al suo posto il bassista Paul Burton e due nuovi chitarristi (che portano a quattro il numero totale delle sei corde presenti). Di spicco la presenza di Ernie Graham, proveniente dagli Eire Apparent, una discreta formazione che tra il ’68 e il ’69 gode di un breve momento di notorietà, grazie ai numerosi concerti come spalla dell’Experience e all’interessamento di Jimi Hendrix, presente nella doppia veste di musicista e produttore nel loro LP Sun rise (Buddah-1969). Strange affair rappresenta un importante passo verso la produzione di una musica creativamente autonoma, svincolata da scomodi paragoni stilistici, e nonostante la presenza di così tante chitarre (che potrebbero indurre al pensiero di chissà quali sconquassi sonori) le canzoni restano rilassate, capaci di emozionare senza la necessità di una forte spinta elettrica. Accanto a brani rock scorrevoli e piacevoli quali Strange affair e Heaven road, trovano posto le ottime ballate di Brown lady, di Many ways of meeting, di Movie star (con belle chitarre in evidenza), oltre alla romantica e decadente Deanna call and Scotty. The all electric fur trapper resta il progetto più ambizioso, teso a spaziare gli orizzonti creativi di Help Yourself verso soluzioni strumentali complesse, che confermano la maturità raggiunta dal gruppo. Per il successivo LP Beware of the shadow (United Artists-1972) il complesso, persi i chitarristi Glemser e Graham, torna a quartetto : così partecipa alla festa del Natale ’72 al Patti Pavillion di Swansea, raccolta su Christmas at the Patti (United Artists-1972). Gli Help Yourself hanno la forza di registrare un quarto album, curiosamente suddiviso in due parti distinte : un LP intitolato Return of Ken Whaley (dove si celebra il ritorno dell’originario bassista), e uno chiamato Happy days (con un organico allargato ad altri musicisti del giro pub rock). In seguito allo scioglimento del gruppo, Whaley entra nei Man (1974) e, dal maggio 1978, nella Tyla Gang di Sean Tyla, mentre Dave Charles continua con gli Airwaves. Sostenitori di un rock muscoloso venato di psichedelia, gli Andromeda del chitarrista John DuCann legano il proprio nome ad un solo album (Andromeda), registrato nel giugno del 1969 e pubblicato dalla RCA. La carriera di DuCann inizia negli Attak, formazione che vede la presenza dell’altro chitarrista David O’List (destinato ai Nice), quindi partecipa ai Five Day Week Straw People, complesso di matrice psichedelica dove incontra il bassista Mick Hawksworth (il gruppo pubblica nel ’68 un album omonimo per l’etichetta Saga). DuCann e Hawksworth si uniscono al batterista Ian Maclane e danno vita agli Andromeda ; il gruppo tenta di farsi un nome effettuando numerose esibizioni nel circuito dei piccoli club e delle università, entrando nei favori del noto D.J. John Peel. Peel propone a DuCann d’incidere un album per la sua etichetta Dandelion, ma alla fine gli Andromeda firmano per la RCA. Il risultato è un disco di discreta caratura, anche se non privo di qualche ingenuità, che propone un hard rock con lievi accenni psichedelici e forti echi hendrixiani. Tra i brani, da segnalare la rocciosa The reason (in bello stile Experience), le tirate When to stop, Turn to dust e l’estatica ballata di I can stop the sun. Certo all’epoca c’è di meglio. L’avventura dura poco perché nel 1970 DuCann accetta l’invito di Vincent Crane ad entrare nei lanciati Atomic Rooster. Esaurita la parentesi con Crane, nel 1972 il chitarrista e il batterista Paul Hammond formano gli Hard Stuff unendosi al bassista John Gustafson (Quatermass). Da parte sua, Hawksworth nel 1970 fonda i Fuzzy Duck, una discreta formazione di hard progressivo comprendente il tastierista Roy Sharland, il chitarrista e cantante Grahame White (poi sostituito dall’ex Greatest Show On Earth, Garth Watt Roy) e il batterista Paul Francis (già con i Tucky Buzzard). Anche per loro un solo long playing, il buono e ignorato Fuzzy Duck pubblicato nel 1971 dall’etichetta Mam. Peter Dunton è batterista nell’ultima versione dei Gun, un complesso di hard rock capitanato dai fratelli Adrian (ch.) e Paul (bs.) Gurvitz che incide un paio di album per la CBS, sul finire degli anni Sessanta. In seguito allo scioglimento dei Gun, i fratelli Gurvitz formano i Three Man Army (con il batterista Tony Newman - ex Jeff Beck e May Blitz) e successivamente la Baker Gurvitz Army, con Ginger Baker. Dunton, all’inizio del 1970, si unisce al chitarrista / tastierista Keith Cross e al bassista Bernard Jinks (ex Bulldog Breed) in un gruppo chiamato T 2. T 2 - IT’LL ALL WORK OUT IN BOOMLAND (Decca - 1970) L’unico album, pubblicato dalla Decca, arriva quasi subito, a conferma di un marcato interesse per il complesso. Le contrazioni che introducono In circles esplodono in vortici di gran forza strumentale, in continue mutazioni ritmico - armoniche. Le parti vocali, prevalentemente affidate a Dunton, non appaiono troppo originali, ma ciò che importa è l’abilità dei musicisti nell’elaborare una musica che non permette divagazioni e rilassamenti, che scorre senza pause e coinvolge intensamente. Persino la contenuta ballata di J.L.T. mantiene la giusta tensione e No more white horses indurisce i toni, alternando possenti ondate chitarristiche a frasi pacate e ad interessanti arrangiamenti ai fiati. Gli oltre venti minuti di Morning rappresentano il culmine del loro lavoro, fantasiosa escursione in un hard concept dagli spiccati umori underground, con arrangiamenti semplici ed azzeccati. La sezione ritmica appare potente e malleabile, il diciassettenne Keith Cross si dimostra musicista dotato e brillante, qualcuno trova il modo (ingiustificato) di definirlo come ‘nuovo Clapton’ e il gruppo si monta la testa. Apparizioni a TV e radio, concerti infuocati e partecipazioni ad importanti rassegne tra cui, nell’agosto del ’70, quella dell’isola di Wight non bastano a salvare il complesso da una rapida fine. Dei T 2 restano alcune notevoli tracce di registrazioni in presa diretta per la BBC (l’incontenibile CD e le impressionanti sequenze della chitarra di In circles), poco prima - ottobre ’70 - dell’abbandono di Cross, seguito a ruota da Jinks. Il chitarrista incide un album con Peter Ross, intitolato Bored civilians, e poi scompare dalla circolazione. Dunton tenta di mantenere in vita il gruppo con nuovi musicisti e fino al 1972 tiene concerti e continua a sperare, ma i tempi stanno cambiando e il destino dei T 2 è segnato, sin dal momento dell’abbandono di Cross. Una formazione interessante, distrutta precocemente dalle troppe attenzioni e dalle eccessive pretese nei suoi confronti. BLOSSOM TOES - IF ONLY FOR A MOMENT (Marmalade - 1969) In seguito alla pubblicazione di We are ever so clean i Blossom Toes si concedono una breve pausa discografica, per poi tornare in studio con il nuovo batterista Barry Reeves ed incidere un altro notevole ed ingiustamente sottovalutato album. If only for a moment è un lavoro composto, arrangiato ed eseguito con maestria. La lucida sovrapposizione di svariate matrici stilistiche (hard, psichedelia, pop melodico) crea un insieme omogeneo e complesso al tempo stesso, senza abbandonare mai la strada maestra di una gradevole esposizione strumentale. Il disco viene aperto dalle intelligenti sferzate hard di Peace loving man ; le chitarre di Cregan e Godding si fanno dure e concrete, senza perdere le peculiarità melodiche. Il primo lato è perfetto, con le ariose sequenze di Kiss of confusion, di Listen to the silence (con una chitarra solista in odor di California) e di Love bomb, brani dalla struttura articolata, capaci di stupire per la scelta d’imprevedibili soluzioni ricche di lirismo. Il resto del lavoro, anche se d’elevata qualità, appare leggermente inferiore. Billy Boo the gunman è un ironico brano dalle modalità ‘hard progressive’, belle risultano la ballata di Indian summer e la conclusiva Wait a minute, che si riallaccia allo stile vario delle canzoni della prima facciata. Un po’ sotto tono la cantilena di Just above my hobby horse’s head, caratterizzata da qualche superficiale punteggiatura orientale. Il rapido fallimento dell’etichetta discografica di Gomelsky porta con sé anche i Blossom Toes, che si sciolgono tra l’indifferenza generale. Cregan ha modo di suonare la chitarra solista negli Stud, una formazione triangolare che comprende la sezione ritmica dei disciolti Taste, quindi entra come bassista nei Family per le registrazioni dell’ultimo LP It’s only a movie, suona con i Cockney Rebels e diventa chitarrista di Rod Stewart. Godding, Belshaw e il redivivo Westlake si uniscono al chitarrista Alan King (ex Mighty Baby) e formano i B.B. Blunder (un album nel 1971). Successivamente Godding partecipa al progetto Centipede di Keith Tippett, suona con i Solid Gold Cadillac, con i francesi Magma e con i Mirage (che annoverano il sassofonista ‘George’ Khan e il batterista dei Ben, Dave Sheen). Reggie King (v.), Pete Watson (ch.), Alan King (ch.), Mike Evans (bs.) e Roger Powell (bt.) sono i membri degli Action, una formazione che tra il 1965 e la metà del 1967 pubblica cinque singoli che mettono in luce una musica improntata ad un beat venato di soul e di psichedelia. Già alla fine del ’66 Watson viene sostituito dal polistrumentista Ian Whiteman, che contribuisce a rendere più ricercato lo stile del gruppo. Nel 1968 arriva anche il chitarrista Martin Stone, musicista di notevole esperienza con alle spalle partecipazioni a Stone’s Masonry, Junior Blues Band, Rockhouse, Savoy Brown, e il gruppo prima cambia nome in Azoth, quindi sceglie in via definitiva la denominazione di Mighty Baby. MIGHTY BABY - MIGHTY BABY (Head - 1969) C’è, nella musica dei Mighty Baby, un’innata predisposizione per la forma canzone che, abilmente spaziata da eccellenti contributi strumentali e caratterizzata da una piacevole impressione di libertà espressiva, trova nell’album d’esordio compiuta manifestazione. La proposta si rivela raffinata e ricca di originalità, all’interno di soluzioni strutturali che prediligono scelte armoniche e melodiche d’indubbio fascino, complesse elaborazioni che risultano di non difficile fruizione. Le chitarre di Stone e King dominano il suono, sorrette da una sezione ritmica puntuale, con i fiati e le tastiere di Whiteman e le belle parti vocali ad offrire un indispensabile contributo all’assetto definitivo delle composizioni. Tra le canzoni migliori di un lavoro complessivamente impeccabile sono da segnalare le stupende A friend you know but never see, I’ve been down so long, Same way from the sun, House without windows, At a point between fate and destiny, brani che mutano continuamente con estrema disinvoltura da ritmi sostenuti e chitarre focose a momenti di struggente lirismo. Per farla breve, uno dei grandi, trascurati capolavori della musica progressiva inglese. Pubblicato nell’ottobre del ’69 (seconda emissione assoluta per la piccola etichetta Head), Mighty Baby ottiene scarsi riscontri di vendita. A ricordarsi del gruppo è il produttore Mike Vernon che nel 1971 mette sotto contratto i Mighty Baby per la sua etichetta Blue Horizon, grazie anche alla conoscenza dei trascorsi blues di Martin Stone. Il 25 giugno 1971 il complesso s’esibisce al Glastonbury Fayre Festival ed offre un contributo all’album celebrativo con la lunga A blanket in my muesli ; dello stesso anno (luglio / agosto) sono le registrazioni del secondo long playing A jug of love, anch’esso molto bello ma ugualmente poco fortunato a livello commerciale. Il suono appare omogeneo, le coraggiose escursioni d’umore del disco precedente sono più contenute ma non è difficile recuperare nei brani, pervasi da inflessioni romantiche e decadenti, la magia e la poesia della musica dei Mighty Baby, tra le pieghe delle belle Jug of love e Virgin spring. Subito dopo il gruppo si scioglie, a causa dell’insuccesso persistente. Evans e Whiteman (dopo la breve esperienza orientaleggiante come Habibiyyam) si ritrovano nel ’78, in tour con Richard & Linda Thompson. Stone suona negli Uncle Dog di Carol Grimes (un LP nel 1972), quindi forma i Chilli Willi and the Red Hot Peppers (due gli album incisi) assieme a Phil Lithman, che negli anni Ottanta si agita nella scena di San Francisco con il nome d’arte di Snakefinger. Ancora, troviamo Stone in una riedizione dei Pink Fairies, sempre ai margini del rock business. Alan King, dopo la parentesi con i B.B. Blunder, collabora con l’ex Action Reggie King ai Clat Thyger, poi s’unisce a due membri dei Warm Dust (una buona band che tra il 1970 e il 1972 incide tre album, dei quali merita una segnalazione il primo And it came to pass), il bassista Tex Comer e il tastierista Paul Carrack, formando gli Ace Flash & the Dynamos, che in seguito abbreviano la sigla in Ace (tre LP all’attivo). - 38 Tutti conoscono Marc Feld (in arte Bolan) per i grandi successi ottenuti negli anni Settanta, conseguenza di una musica facile prodotta con il marchio T. Rex a partire dall’ottobre 1970, dalla riuscita commerciale di quello scarno ed orecchiabile rock’n’roll dal titolo Ride a white swan. Ad inizio di carriera gli interessi di Bolan sono però altri. Ad esempio la sconclusionata psichedelia dei John’s Children, con i quali il cantante fa il suo ingresso nella scena rock all’inizio del 1967, quando il gruppo ha già realizzato l’unico album Orgasm. In verità Bolan vanta la precedente pubblicazione di tre singoli, ma è la breve parentesi con i John’s Children che gli permette di cominciare a farsi un nome nell’ambito della scena underground. Verso la fine dell’anno Bolan fonda un proprio gruppo, i Tyrannosaurus Rex, con il percussionista Steve Took ; il duo realizza tre LP di folk acustico, dal suono atipico ma troppo esile e tutt’altro che esaltante. Il miglior disco del periodo è il terzo Unicorn (Regal Zonophone-1969), la cui pubblicazione precede di poco l’abbandono di Took che entra negli Shagrat The Vagrant (nucleo pre Pink Fairies). A questo punto Bolan decide di modificare radicalmente il corso della propria carriera musicale ; accorcia il nome del gruppo in T. Rex e si dedica ad un rock piuttosto commerciale, ottenendo notevole successo fino al 1973. Morirà nel settembre ’77 in un incidente d’auto. I Tea & Symphony, gruppo originario di Birmingham, si formano verso la metà del 1969 con James Langston (v.ch.), Jeff Daw (ch.bs.fl.) e Nigel Phillips (pr.). La proposta dei Tea & Symphony sotto alcuni aspetti si avvicina a quella dei primi Tyrannosaurus Rex, risultando in genere più interessante e godibile grazie ad una maggiore varietà stilistica, nell’ambito di una notevole libertà espressiva. Il lavoro che meglio li rappresenta resta l’iniziale An asylum for the musically insane del 1969, comprendente una serie di bizzarre composizioni tra le quali, in particolare, piacciono Armchair theatre (tra folk, underground e Bach), Sometime e la roccata The come on. Il successivo Jo sago (Harvest-1970), registrato con un organico ampliato dai chitarristi Bob Wilson, Dave Carroll e dal batterista Bob Lamb, appare più convenzionale e ugualmente di scarso successo. All’inizio del 1971 il gruppo è già dissolto ; per Wilson, Carroll e Lamb ci sarà posto (dalla metà dei Settanta) nella Steve Gibbons Band. Risultati di rilievo ben superiore (almeno nella parte iniziale della carriera) sono conseguiti dagli East Of Eden, singolare formazione che prende forma nel 1968 su impulso del violinista / fiatista Dave Arbus, un dottore in filosofia flippato ai piedi della Mecca. Con lui, a dar vita ad un’originale miscela di rock, jazz, Oriente, elementi di musica classica ed etnica, sono il sassofonista Ron Caines, il chitarrista e cantante Geoff Nicholson, il bassista Steve York e il batterista Dave Dufont. Il gruppo esprime il massimo della creatività tra il ’69 e il ’70, quando è sotto contratto con la Deram. L’esordio avviene nel 1969 con l’ottimo Mercator projected, che vanta connotati stilistici originali e composizioni di notevole bellezza, anche se alcune parti della complessa struttura musicale non sono ancora perfettamente amalgamate. Northern hemisphere fornisce un’introduzione al limite dell’hard rock, la seguente Isadora è una danza per flauto e sax soprano, il violino di Arbus conduce la poetica e suggestiva Bathers ; tra i brani di maggior impegno spiccano Waterways, Communion (ispirata alla musica per quartetto d’archi di Béla Bartok) e la conclusiva In the stable of the sphinx. EAST OF EDEN - SNAFU (Deram - 1970) Alla fine del 1969, con una nuova sezione ritmica composta da Andy Sneddon (bs. - al posto di York che va a suonare con Graham Bond, Manfred Mann Chapter Three, Vinegar Joe) e da Geoff Britton (bt.), gli East Of Eden registrano il secondo album Snafu, ottenendo i migliori risultati artistici dell'intera carriera. Le varie componenti dello stile del gruppo sono assemblate in modo organico, con audaci accostamenti che evitano di generare confusione, grazie alla maturità e alla risoluzione con cui vengono posti in opera. Leaping beauties for Rudy, ad esempio (senza voler dimenticare il discreto rock blues iniziale di Have to whack it up), è un breve frammento free ad introduzione della bella melodia di Marcus junior (a mezza via tra Spagna e Oriente), che s’avvale delle prestazioni di Caines al soprano e di Arbus al tenore. La stupenda sequenza successiva inizia con i nastri ‘rovesciati’ di Xhorkom, si apre su una libera interpretazione di un tema di John Coltrane (Ramadhan, con il sax di Caines), per concludersi con le evoluzioni di In the snow for a blow, sentito omaggio alla basilare influenza di Charlie Mingus. Con Gum arabic - Confucius si torna alle tipiche ambientazioni East Of Eden (bella soprattutto l’introduzione del brano, con il flauto e le percussioni di Arbus) ; Nymphenburger è una bella canzone che compendia echi classici, rock e jazz, con Arbus e Nicholson impegnati a sovraincidere rispettivamente ben sei violini e quattro chitarre. L’ennesima sequenza con Habibi baby (quasi tutti gli strumenti riprodotti alla rovescia), Boehm constrictor e Beast of Sweden (in primo piano il violino di Arbus), conferma l’eccellente qualità del disco che si chiude con Traditional, vale a dire la ‘corretta’ ricostruzione di Xhorkom. Pare persino superfluo rilevare che i primi due album degli East Of Eden restano in gran parte invenduti negli scaffali. Il gruppo cerca d’invertire la tendenza realizzando nel 1971 il singolo Jig a jig, una canzone basata su un motivo tradizionale irlandese che improvvisamente li proietta nella Top Ten. Ciò non basta agli East Of Eden per evitare un precoce scioglimento, e poco importa che Dave Arbus rifondi rapidamente il complesso con Jim Roche (ch.), David Jacks (bs.) e Jeff Allen (bt.) : i due album del 1971 (su etichetta Harvest), East Of Eden e New leaf, suonano deludenti rispetto alla precedente produzione. Tramontata l’idea East Of Eden, troviamo il violino di Arbus al servizio dei Who, sull’album Who’s next (Baba o’Riley) ; la ricostituzione del gruppo nel 1976, senza la presenza di alcun membro originario, lascia completamente indifferenti. Giant Sun Trolley, nel 1967, è uno dei tanti gruppetti attivi sulla scena dell’Ufo Club e nei piccoli locali della Londra alternativa. Dapprima la formazione cambia nome in Hydrogen Jukebox, quindi si trasforma in Third Ear Band. Con questa definitiva sigla Glen Sweeney (pr.), Richard Coff (vi.vl.), Paul Minns (ob.) e Mel Davis (vc.) registrano l’album Alchemy, pubblicato nel 1969 dalla Harvest con la produzione di Peter Jenner (e con la partecipazione del D.J. John Peel). Impossibile definire rock, almeno in senso stretto, la proposta della Third Ear Band ; il gruppo esprime una musica acustica dallo svolgimento ipnotico, fortemente caratterizzata da influenze orientaleggianti ed impregnata di una profonda convinzione poetica. Particolarmente godibili sono le notevoli Ghetto raga, Stone circle, Dragon lines e Lark rise. THIRD EAR BAND - THIRD EAR BAND (Harvest - 1970) Sostituito il violoncellista Mel Davis con Ursula Smith, e sotto la produzione di Andrew King (sempre appartenente allo stesso management di Jenner), la Third Ear Band si ripropone con un album che conserva intatto il fascino (e lo scarso potenziale commerciale) di Alchemy. Nel tentativo di garantire una maggiore omogeneità alla delicata struttura della musica, Sweeney e compagni si orientano sull’elaborazione di quattro lunghe composizioni (bellissima Earth), che effettivamente possono essere, nell’insieme, considerate la versione definitiva del concetto puro di espressione sonora perseguita dal gruppo. Le vendite inconsistenti mettono in guardia la Harvest che lascia alla Third Ear Band giusto il tempo di realizzare un ultimo lavoro, Macbeth (Harvest-1972), colonna sonora dell’omonimo film di Roman Polansky, ispirato a Shakespeare. Ora Sweeney siede anche dietro la batteria, c’è ancora l’oboe di Minns e si sono aggiunti il violoncello (e il basso) di Paul Buckmaster, il violino (ma pure i sintetizzatori) di Simon House - reduce da High Tide - e perfino la chitarra di Denim Bridges. Ovviamente, non è più la stessa filosofia ad animare le esecuzioni della Third Ear Band, e l’esigenza di adattare la musica alle immagini cinematografiche rende l’insieme inevitabilmente frammentario. Si tratta, in ogni caso, di un lavoro dignitoso, con alcune parti che riportano agli antichi splendori, e dispiace veder scomparire per sempre il nome del complesso. Stilisticamente distanti da East Of Eden e Third Ear Band, formazioni quali Jade Warrior e Quintessence possono vantare una comune predisposizione all’utilizzo di atmosfere a forti tinte orientali, inserite in contesti musicali di una certa originalità. In seguito allo scioglimento dei July, il chitarrista Tony Duhig e il batterista Jon Field formano i Jade Warrior e il vecchio compagno Patrick Campbell-Lyons, divenuto produttore alla Vertigo, offre al gruppo la possibilità d’incidere tre album per l’etichetta della spirale. Il secondo Released (1972) (gli altri sono Jade Warrior - 1971 - e Last autumn’s dream - 1972) può essere portato ad esempio della singolare proposta musicale, che contempla la fusione tra soluzioni vicine all’hard rock ed influenze a carattere orientale (Three-horned dragon king, dura ed aggressiva, sostenuta da un incessante tappeto percussivo ; Minnamoto’s dream, con fiammeggianti frasi chitarristiche), senza tralasciare lunghe, a tratti un po’ tediose, scorribande strumentali imparentate con il jazz rock in voga all’epoca (Barazinbar, in stile Traffic, Water curtain cave). Molto belle le delicate, poetiche, Yellow eyes e Bride of summer, che mostrano uno degli aspetti più convincenti della loro musica. Dopo l’abbandono della Vertigo, i Jade Warrior passano alla Island pubblicando altri quattro LP e ancora nel 1984 si concedono il lusso di una reunion. Più che un vero e proprio complesso rock (per quello che è il normale significato di questo termine) i Quintessence sono l’espressione musicale di una piccola comunità della zona di Notting Hill Gate, infatuata di religione, misticismo e filosofie orientali. Creata nel 1969 dal flautista Raja Ram, con Shiva Shankar Jones (v.ts.pr.), Allan Mostert (ch.bs.), Maha Dave Codling (ch.), Shambu Baba (bs.ch.), Jake Milton (bt.pr.), la formazione trova la maniera d’incidere tre buoni album per la Island (In blissfull company - 1969, Quintessence - 1970, e il maturo Dive deep - 1970). Quella dei Quintessence è una musica dai toni contenuti, sognante e raffinata, tesa alla ricerca di viaggi nello spazio interiore senza bisogno di stupire con l’utilizzo d’effetti speciali, onesta e intima. I risultati sono particolarmente convincenti nelle lunghe Epitaph for tomorrow e Dance for the one, che portano il suono al massimo delle potenzialità del gruppo. La formazione originaria incide ancora un LP, Self (RCA-1971), quindi Jones e Codling abbandonano per dar vita ai Kala (un album nel 1973) ; ai Quintessence resta la forza di registrare l’ultimo Indweller (RCA-1972) prima di far perdere ogni traccia. Grande e piacevole è la sorpresa di ritrovare, alla fine del 1980, Jack Milton dal vivo a Berlino, dietro i tamburi di un’oscura band di new wave, i Blurt. Il chitarrista Mick Hutchinson esordisce in occasione del 14th Hour Technicolour Dream, nell’aprile 1967 ; nell’ambito di quella festa il musicista si esibisce con il percussionista Sam Gopal. Poco dopo Gopal costituisce una propria formazione, Sam Gopal’s Dream, che comprende i chitarristi Roger D’Elia e Lemmy Willis (poi negli Hawkwind e fondatore dei Motorhead) e il bassista Phil Duke. Il gruppo riesce a registrare (verso la fine del ’68) l’album Escalator, pubblicato dall’etichetta Stable. Nel frattempo, Hutchinson finisce nei Vamp, un complesso che nel ’68 registra solamente un 45 giri ; con lui sono Pete Sears (ex Fleurs De Lys), Viv Prince (primo batterista dei Pretty Things) e il polistrumentista Andy Clark. L’anno successivo nascono i Clark Hutchinson, che in due brevi sessioni di registrazione (maggio ’69) realizzano per l’etichetta Deram Nova l’album A=MH2, vero e proprio disco di culto imperniato su una musica dall’approccio originale, lontana dai classici parametri del rock. Hutchinson e Clark sovraincidono una moltitudine di strumenti all’interno di lunghe costruzioni iterative, interessanti anche se di fruizione piuttosto ostica (Improvisation on a modal scale, Impromptu in E minor, Textures in ¾, Improvisation on a indian scale) ; unica eccezione alla regola è il virtuoso assolo alla chitarra di Hutchinson in Acapulco gold, che mischia (in presa diretta) influenze classiche e flamenco. CLARK HUTCHINSON - RETRIBUTION (Nova - 1970) Alla ricerca di un suono più duro, diretto e tipicamente rock, Clark e Hutchinson decidono di allargare l’organico, introducendo una sezione ritmica, e progettano la realizzazione di un ambizioso album doppio. Alla fine Retribution esce accorciato ma ugualmente non manca di lanciare intorno, in modo efficace, i suoi strali infuocati. L’hard informale di Free to be stoned, introdotto e sviluppato dalla devastante chitarra di Hutchinson e con il supporto della selvaggia voce di Clark, mostra senza mezzi termini quanto sono lontani i tempi del primo LP. Le soluzioni jazzate di After hours, con il piano di Clark e il bell’assolo di Hutchinson, mantengono alta la tensione ; ad ammorbidire i toni ci pensa In another way che sceglie la via della ballata elettrica, trasandata e carica di coinvolgente lirismo. Un po’ il senso di Best suit, che nella lunga esposizione finisce però col risultare piuttosto prolissa. Non è casuale che la chiusura del disco sia affidata alla caotica e durissima Death, the lover, ennesima prova di forza di una proposta che abiura ogni compromesso commerciale. La breve avventura di Clark Hutchinson si chiude nel 1972, a poca distanza dalla pubblicazione dell’ultimo Gestalt (Deram-1971) dove il gruppo, ridotto a trio (non c’è più Amazing), si disimpegna con discreti risultati in belle ed equilibrate creazioni quali la misurata Man’s best friend (con la solita gran prestazione di Hutchinson), l’acustica Love is the light, la melodica Boat in the morning mist, fino al ritorno del rock tirato di Poison. Hutchinson collabora con Graham Bond e Pete Brown all’album Two heads are better than one ; Clark e Amazing nel 1975 costituiscono gli Upp, autori di due LP che vedono il coinvolgimento di Jeff Beck. Dopo qualche mese troviamo ancora Clark impegnato nei Be Bop Deluxe di Bill Nelson. Tra le più singolari del panorama alternativo, la proposta dei Comus prende forma nel tardo 1970 quando i sei membri di quella strana congrega si recano agli studi della Pye per registrare il loro primo 33 giri. COMUS - FIRST UTTERANCE (Dawn - 1971) L’approccio alla musica dei Comus è impegnativo, l’impatto risulta coinvolgente e non permette fredde considerazioni di comodo ; seguire le inconsuete linee del suono che varia repentinamente (con momenti melodici ed eterei sottoposti a forsennate, isteriche accelerazioni) significa calarsi senza condizioni nelle avventurose creazioni degli strumenti e delle voci. Non è certo il primo gruppo ad associare orientamenti folk con influenze orientali e classiche, ma Comus possiede un’intima originalità di stile, un fervore espressivo proprio ai vari elementi sonori liberi di interagire senza vincoli formali. La proposta è completamente acustica, con largo dispiego di chitarre (anche slide), violini, flauti, tribali percussioni ‘a mano’, con le voci imprevedibili ed inarrivabili di Wootton e della Watson. Già l’iniziale Diana (pubblicata anche su singolo !) mette a dura prova con cadenze ondeggianti ed insinuanti, e ancora estreme sono The Herald, suddivisa in tre parti ricche di fascinose atmosfere per chitarra, violino ed oboe, e la stupenda Drip drip, con un folgorante esordio di chitarra slide, che sa di sole e terra bruciata, per poi acquisire ritmo in una stupefacente, continua evoluzione di modi e toni. La spiritata danza dall’aspetto folk di Song to Comus, il rapido sviluppo della melodia di The bite sono notevoli conferme delle possibilità del gruppo. L’inquietante violino della strumentale Bitten introduce alla conclusiva The prisoner che, a tratti, è la canzone maggiormente vicina a soluzioni rock, senza compromettere l’assetto stilistico complessivo del lavoro. I Comus hanno la possibilità di apparire a Radio One e di effettuare concerti, anche apprezzati ; l’interesse per il gruppo da parte di critica e pubblico è però modesto, sicuramente a causa di una difficile collocazione commerciale del disco. Wootton, la Watson e Hellaby tentano di mantenere in vita il complesso e resistono fino al 1974, quando pubblicano il secondo ed ultimo To keep from crying (Virgin), aiutati da diversi musicisti tra i quali Lindsay Cooper (Henry Cow) e Didier Malherbe (Gong). Un attimo dopo Comus non esiste più. - 39 “...c’è parecchia buona musica in questo disco ; ricorda Velvett Fogg, ne sentirai ancora parlare”. Così il noto D.J. e produttore John Peel concludeva la redazione delle note di copertina dell’unico album inciso dai Velvett Fogg. Se si può concordare pienamente sulla prima parte dell’affermazione, il riferimento ad un futuro ricco di soddisfazioni resta purtroppo lettera morta e a posteriori suona (per quanto in buona fede) come ingloriosa beffa. VELVETT FOGG - VELVETT FOGG (Pye - 1969) Gruppo avvolto in una fitta nebbia di mistero, dei Velvett Fogg si conoscono la provenienza (Birmingham) e l’elenco della scarna discografia che comprende, oltre all’album, il 45 giri Telstar ’69 / Owed to the dip, pubblicato nel gennaio del 1969. Certa, inoltre, la presenza del cantante e chitarrista Paul Eastment, animatore ed elemento di maggior spicco del complesso. Del resto, le amorevoli note di copertina scritte da John Peel non forniscono ulteriori chiarimenti e si sforzano di convincere della bontà del materiale presentato. Tentativo nobile ma vano : Velvett Fogg rimane oggetto di culto, senza riuscire a suscitare il benché minimo interesse nel pubblico inglese, grazie anche ad un vero e proprio ostracismo da parte della critica musicale. Eppure, in quell’unico LP c’è veramente tanta buona musica. Ad iniziare da Yellow cave woman, che presenta una rigida struttura seriale resa corposa dalle evoluzioni dell’ottima chitarra di Eastment e dall’organo, fluido ed essenziale, per continuare con la splendida ballata di Once among the trees (una delle più belle di tutto l’underground inglese), che si svolge su un’esile trama d’origine folk percorsa da efficaci linee d’organo e valorizzata dalla prestazione di un Eastment particolarmente ispirato. E ancora la notevole versione della Come away Melinda di Tim Rose (nettamente superiore a quella degli Uriah Heep, sul primo LP del ’70) che, dopo un’introduzione curiosamente in stile Spencer Davis Group, sviluppa un suono moderno ed innovativo, allo stesso tempo decadente e poetico, ricco d'insoliti effetti elettronici. Potrebbe bastare, ma come dimenticarsi del brillante strumentale di Owed to the dip e della buona cover di New York mining disaster 1941 dei Bee Gees, entrambi con l’organo in primo piano ; né si possono trascurare le originali Wizard of gobsolod e Lady Caroline, le belle soluzioni ritmiche di Within the night e Plastic man. E’ davvero incredibile che una formazione come Velvett Fogg, dotata d’idee originali e di buone doti strumentali, sia potuta passare inosservata (se non per i negativi commenti alla foto di copertina) e ancora oggi resti dimenticata nell’ambito di un recupero generalizzato di complessi e musicisti frequentemente di qualità inferiore. Paul Eastment è l’unico a proseguire, senza peraltro riuscire a guadagnare maggiore notorietà. Anche la sua successiva creatura, i Ghost, naufraga in seguito alla realizzazione di un singolo e di un long playing dal titolo emblematico, For one second. La storia e le epiche gesta dei Misunderstood sono già note. Nel 1969 Tony Hill, che di quella formazione è chitarrista nel periodo di maggior fulgore creativo, si unisce al violinista Simon House, al bassista Peter Pavli e al batterista Roger Hadden per dar vita agli High Tide, uno dei migliori complessi del rock progressivo inglese. Gli High Tide esordiscono come gruppo d'accompagnamento in occasione delle registrazioni per l’unico album pubblicato da Danny Gerrard (Sinister morning, Deram Nova-1970), un musicista emerso per un attimo dagli angoli bui della metropolitana londinese. Gerrard ricambia il favore curando la produzione del primo album del gruppo, Sea shanties, pubblicato dalla Liberty nel 1969 con una bellissima ed apocalittica copertina di Paul Whitehead. La proposta degli High Tide risulta da subito ricca di fascino e di soluzioni originali ; il suono pesante, gravido, implacabile delle chitarre di Hill (derivato in linea retta dalle nobili matrici Misunderstood di Children of the sun e I can take you to the sun) si fonde con il virtuosismo del violino di House, in un drammatico, impenetrabile incubo tridimensionale (sostenuto da una compatta sezione ritmica) che non ha eguali nella storia del rock inglese. Molti li confondono con gli adepti del cosiddetto ‘dark sound’, a quei tempi in forte fase d’espansione, ma la musica del gruppo non si presta a facili e furbi accomodamenti stilistici, all’utilizzo di frasi fatte di sicuro effetto. Se Futilist’s lament è un informe, incandescente magma hard che travolge ogni ostacolo, Pushed but not forgotten mette in opera delicati equilibri tra irruenza espressiva e dolci melodie bagnate di folk e classicismo, improbabile connubio tra Hendrix e King Crimson, e nel lirico finale fa le prove per il futuro capolavoro di The joke. Nel bel mezzo fungono da raccordo le vorticose spire dello stupendo strumentale Death warmed up, sorta di giga pirotecnica supportata da chitarre al limite dell’hard più focoso e creativo, che presenta clamorose assonanze con le strutture armoniche utilizzate qualche anno dopo dalla Mahavishnu Orchestra di Birds of fire. Meno sconvolgenti i brani del secondo lato che, in ogni caso, possiedono il pregio di confermare l’elevata qualità media di Sea shanties (con una nota di merito per la conclusiva Nowhere). HIGH TIDE - HIGH TIDE (Liberty - 1970) Purtroppo una musica simile non vende e quando esce il secondo High Tide critica e pubblico, occupati ad incensare ben altre prodezze, nemmeno s’accorgono di quel capolavoro (solo tardivamente e parzialmente recuperato), album incompreso che scivola rapidamente tra le rimanenze invendute dei negozi di dischi. L’opera si compone di tre sole, lunghe composizioni che riassumono con maturità e grande splendore creativo le caratteristiche dello stile del gruppo. Apre Blankman cries again, brano strutturato su una monolitica stratificazione per chitarre e violino dalla quale si sviluppa una corposa jam, con gli strumenti solisti che disegnano belle linee melodiche contorcendosi sotto l'azione dell’implacabile sezione ritmica. L’incedere epico, teso e drammatico di The joke è l’intuizione più folgorante, con la chitarra di Hill capace di escursioni mozzafiato, prima che il violino liberi la tensione nella melodica frase conclusiva, in un rincorrersi d’indimenticabili emozioni. L’intera seconda facciata del disco è occupata da Saneonymous, brano dalla singolare struttura circolare composto da due parti sostanzialmente identiche che, per l’approccio strumentale, ricordano vagamente le acide improvvisazioni dei Grateful Dead. Gli High Tide confermano la rigorosa natura della musica, rinunciando a tentazioni commerciali e, di fatto, firmano la propria condanna all’oblio ; la Liberty non concede ulteriori chance e per il gruppo, che ha già iniziato le registrazioni del terzo LP, è la fine. Alcune incisioni sono recuperate dall’italiana Cobra Records e costituiscono la base del 33 giri di Precious cargo (1989). Un paio di anni prima, sempre per la Cobra, Hill e House firmano il ritorno alla vecchia sigla con l’album Interesting times, ben inferiore ai lavori originali ma sufficiente per colmare il vuoto lasciato ai loro pochi ed irriducibili estimatori. Dei quattro musicisti l’unico ad affrontare una regolare carriera è Simon House, che mette il violino a disposizione dell’ultima Third Ear Band, degli Hawkwind (quattro album tra il ’74 e il ’77), della band di David Bowie (per il tour mondiale del ’78 dal quale è tratto il doppio Stage). Hill dà vita alla Ronnie Paisley Band (con il bassista Pavli), pubblicando un disco nel 1979. L’organista Vincent Crane è il principale collaboratore di Arthur Brown, anche a livello compositivo, ai tempi del Crazy World (’67-’68) ; dopo la realizzazione dell’unico album della formazione e il raggiungimento del gran successo con Fire, Crane decide di mettersi in proprio costituendo nel giugno del 1969 gli Atomic Rooster. Nell’avventura sono coinvolti il giovane, promettente batterista del Crazy World, Carl Palmer, e il bassista Nick Graham, a stretta somiglianza con il classico triangolo in stile Nice. L’esordio discografico (Atomic Rooster, B&C-1970) appare sicuramente confortante ; la struttura dinamica della musica del gruppo si evidenzia sin dalle prime note di Friday the thirteenth, con le evoluzioni del fluido organo di Crane supportate da un robusto tappeto ritmico, nel quale spicca il preciso e potente contributo percussivo di Carl Palmer. Sulla stessa falsariga s’accodano le buone And so to bed, S.L.Y. e Decline & fall, che contiene un assolo di Palmer. Tra gli spunti migliori vanno segnalati l’interessante arrangiamento di Broken wings (un brano di John Mayall), con misurati interventi fiatistici, il focoso strumentale di Before tomorrow, le linee classiche di Banstead (dalla quale attingono a piene mani i celebri E.L.&P.) e la melodica Winter (con il flauto di Graham), che recupera un’idea del Crazy World di Arthur Brown. ATOMIC ROOSTER - DEATH WALKS BEHIND YOU (B & C - 1970) Nel 1970 il nucleo originario degli Atomic Rooster si dissolve a causa delle dimissioni di Palmer che, all’inizio dell’anno, si unisce a Keith Emerson e Greg Lake dando vita al supergruppo di E.L.&P. ; poco dopo è la volta di Nick Graham, che lascia per entrare negli interessanti Skin Alley. Crane riorganizza il complesso assumendo il valido batterista Paul Hammond ed associando il chitarrista e cantante John DuCann, reduce dalle esperienze di Attak, Five Day Week Straw People e Andromeda. L’assenza di un vero bassista viene compensata dallo stesso Crane, che si fa carico di questa parte strumentale mediante l’uso di un’appropriata tecnica all’organo Hammond. L’inserimento di un chitarrista duro e spigoloso come Cann rende la musica degli Atomic Rooster ancora più serrata e graffiante, con chiari accenti hard ; inoltre, l’atmosfera generale del lavoro risente di una forte componente ‘oscura’, che dona alle canzoni un aspetto gotico e a tratti denso d’inquietudine. Le note spettrali del piano di Crane introducono la cupa Death walks behind you, che è solo la prima di alcune eccellenti composizioni caratterizzate da evidenti tratti dark. Di elevato impatto sono le soluzioni chitarristiche delle grintose Streets (che passa con estrema disinvoltura da un hard rock variegato ad atmosfere di stampo classico) e Sleeping for years (forse il brano più duro mai inciso dagli Atomic Rooster, con una notevole prestazione di Cann). Se I can’t take no more appare indecisa sulla direzione da intraprendere, pur confermando la strada del rock pesante, in Nobody Else Crane si ricorda di essere in grado di firmare buone ballate dal tono decadente. Anche l’ottima Tomorrow night (discreto successo a 45 giri) è strutturata su una nitida e piacevole cadenza rock, mentre le strumentali Vug e Gershatzer recuperano lo stile disinvolto e dinamico del primo album, con in aggiunta la solida chitarra di Cann. E’ il momento di maggiore notorietà e successo per gli Atomic Rooster, che nel 1971 ampliano l’organico con l’ingresso del bravo cantante Pete French, già con Brunning Sunflower Blues Band, Black Cat Bones e Leaf Hound. Questa edizione del complesso incide il valido In hearing of (B&C-1971), che non presenta grosse novità ma pure comprende brillanti e tipiche composizioni come Breakthrough, Break the ice, Decision / Indecision, The price e vanta una discreta qualità media del restante materiale. Contemporanea è la pubblicazione del singolo Devil’s answer (un po’ più commerciale del solito), che bissa i buoni risultati di vendita del precedente Tomorrow night. Tutto sembra funzionare al meglio delle loro possibilità, ma all’improvviso gli Atomic Rooster si disintegrano : Cann e Hammond se ne vanno per formare gli Hard Stuff (con il bassista John Gustafson) e French raggiunge i Cactus di Tim Bogert e Carmine Appice. Alla fine del 1971 Crane si ritrova da solo, costretto a ricostruire il complesso. Lo aiutano il chitarrista Steve Bolton, il batterista Rick Parnell (proveniente dagli Horse - un album nel 1970 - e curiosamente destinato a finire nei nostrani Ibis - 1974 - e Nova -1976), oltre al prestigioso cantante Chris Farlowe, reduce dai disciolti Colosseum. Un nuovo contratto stipulato con l’etichetta Dawn permette al gruppo d’incidere i discreti Made in England (Dawn-1972) e Nice’n’greasy (Dawn-1973, con il chitarrista Johnny Mandala al posto di Bolton) che, nonostante le buone intenzioni, non vanno oltre una dignitosa routine insufficiente a rilanciare le quotazioni in netto ribasso. Il gruppo sbanda definitivamente, Crane perde la testa e scappa con l’incasso dopo i primi due concerti di un tour italiano ; più avanti tenta inutilmente di rinverdire i fasti dei tempi migliori con sporadiche e ben poco convincenti riunioni del complesso, pensa ad un nuovo organico che contempli il ritorno di Cann, ma lo ferma la morte, nel 1989. I Black Widow nascono nel 1970 a Leicester, in un momento particolarmente propizio allo sviluppo di tematiche dark nell’ambito del rock inglese. Per via di una spiccata predisposizione al culto dell’oscuro, o forse solo a causa del nome scelto, il gruppo è immediatamente (prima di essere ascoltato) collegato ai Black Sabbath, ma i connotati musicali sono evidentemente molto diversi. Con un organico a sei che prevede Jim Gannon (ch.), Zoot Taylor (ts.), Kip Trevor (v.), Clive Jones (sf.), Bob Bond (bs.) e Clive Box (bt.pr.), i Black Widow registrano il primo LP Sacrifice, pubblicato dalla CBS nel 1970. La proposta del gruppo appare un po’ troppo carica d’effetto (l’ossessiva Come to the sabbat, piccolo successo a 45 giri), anche se non mancano attimi di sincera tensione, come l’agghiacciante introduzione d’organo che inaugura il disco (In ancient days), e interessanti arrangiamenti (Conjuration, dal passo di Bolero, la melodica Seduction). Per il resto, la musica si presta ad un approccio rock semplice e diretto (Sacrifice), impreziosito dai fiati di Jones. Purtroppo le discrete intuizioni affiorate sull’album d’esordio non vengono adeguatamente sviluppate nei lavori successivi. Black Widow (1971, con una rinnovata sezione ritmica - Jeff Griffith al basso e Romeo Challenger alla batteria) è disco di minor interesse, che trova qualche spunto discreto nelle linee ‘hard progressive’ di Tears and wine, di Wait until tomorrow e di altri occasionali episodi, ma il risultato complessivo appare modesto. L’ultimo Black Widow III (1972) segna un ulteriore scadimento del livello qualitativo. Autori di un unico album omonimo, edito dalla Vertigo all’inizio del 1971, gli Still Life sono una misteriosa formazione, della quale le scarne note di presentazione al disco non consentono di venire a conoscenza dei nomi dei musicisti coinvolti. L’impostazione strumentale del complesso è quella tipicamente post Nice, basata sulle tastiere che dominano un suono contrassegnato da una forte componente melodica e decadente, senza che manchino espliciti riferimenti ad atmosfere dark (sin dalla lugubre immagine della copertina). I risultati sono accettabili, a tratti discreti, in canzoni che sviluppano una buona tensione emotiva (People in black, October witches, Love song no. 6), in ogni caso superiori a quelli ottenuti da analoghe formazioni di scarsa popolarità come (ad esempio) i tremanti, ingenui, ma pure intriganti Raw Material di Time and illusion (dal primo LP omonimo del 1970), o come i modesti Dr. Z di Three parts to my soul (Vertigo-1971). Di buon interesse la vicenda degli Skin Alley, complesso nato nel 1969 dall’unione del chitarrista e fiatista Bob James con Krzysztof Juszkiewicz (ts.), Thomas Crimble (bs.ar.v.) e Alvin Pope (bt.). Il quartetto esordisce con un discreto album omonimo (CBS-1969) che mette in luce i vari aspetti rock, jazz e blues di uno stile non ancora perfettamente definito. Crimble lascia quasi subito e viene sostituito da Nick Graham (bs.v.fl.pn.), proveniente dal nucleo originale degli Atomic Rooster ; con il nuovo assetto gli Skin Alley registrano To pagham & beyond (1970), lavoro maturo e di elevata qualità, imperniato su un jazz rock vario e scorrevole. L’insuccesso è totale, la CBS scarica il gruppo e il disco dopo pochi mesi è già fuori catalogo. Il complesso comunque non molla e, con il nuovo batterista Tony Knight, nel giugno del ’71 prende parte al Glastonbury Fayre Festival, apparendo sul triplo album della Revelation con la modesta Sun music. Gli attimi di maggior creatività sono esauriti, anche se il sottovalutato Two quid deal (Transatlantic-1972) dimostra di possedere qualche spunto pregevole, e dispiace veder finire Skin Alley nel rock’n’roll facile e leggero di Skin tight. Una breve parentesi per due complessi minori, impegnati nell’effimero tentativo di dar sostanza alle argomentazioni delle personali proposte jazz rock. I Catapilla si presentano alla fine del 1970 con un folto organico comprendente Jo Meek (v.), Graham Wilson (ch.), Malcolm Frith (bt.), Dave Taylor (bs.), Hugh Eaglestone (sax.), Robert Calvert (sax.), Thiery Rheinhart (sf.). Sotto la produzione di Patrick Meehan (manager dei Black Sabbath) il gruppo realizza il primo album omonimo, pubblicato dalla Vertigo nel tardo 1971 ; sul disco non appare la voce di Jo Meek, sostituita all’ultimo momento dalla sorella Anna. I Catapilla non convincono pienamente con un jazz rock poco stimolante, che si salva per i toni raffinati ed insoliti del suono. Con un organico largamente modificato (presenti i soli Meek, Wilson e Calvert) il gruppo incide un secondo LP, Changes (Vertigo-1972), subito prima di giungere allo scioglimento. Indubbiamente più orientato verso un suono tipicamente jazz rock (che mischia Keith Jarrett a materiale proprio), brillante dal punto di vista strumentale, ben congegnato sotto l’aspetto strutturale ma non eccessivamente originale, risulta l’unico album inciso dai Ben (Ben, Vertigo-1971). Della proposta di Peter Davey (sf.), Alex Macleery (ts.), Gerry Reid (ch.), Len Surtees (bs.) e David Sheen (bt.pr.v.) piacciono in particolare le improvvise aperture melodiche, che possiedono il merito di rendere i brani un po’ più vari e certamente gradevoli. Originari di Manchester, i Gravy Train si formano nel marzo del 1969 attorno alla figura di Norman Barrett, chitarrista che agguanta un piccolo momento di notorietà quando è chiamato da Screaming Lord Sutch a sostituire Jimmy Page, in occasione dell’esibizione all’Hollywood Festival. Oltre a Barrett, nei Gravy Train sono coinvolti il fiatista J.D. Hughes, il bassista Les Williams e il batterista Barry Davenport. Registrato quasi interamente in presa diretta, il primo Gravy Train (Vertigo - fine 1970) evidenzia l’assenza di uno stile ben definito e lascia trasparire qualche ingenuità, ma allo stesso tempo convince per il suono assestato su un hard rock abbastanza vario, dominato dalla chitarra e dalla voce di Barrett e caratterizzato da un marcato utilizzo del flauto da parte di Hughes. Più che discrete sono l’elaborata The new one, le aspre cadenze rock blues di Coast road, le dure frasi chitarristiche di Think of life (Black Sabbath ?) e alcune parti della lunga jam strumentale di Earl of pocket nook. GRAVY TRAIN - (A BALLAD OF) A PEACEFUL MAN (Vertigo - 1971) Il secondo album (A ballad of) a peaceful man rappresenta un notevole salto di qualità sotto l’aspetto creativo e in fatto di definizione ed eleganza dei suoni, sicuramente meno crudi e spigolosi rispetto al disco precedente. La sequenza iniziale è di alto livello, con belle ed armoniose ballate quali Alone in Georgia, (A ballad of) a peaceful man (eccellente il lavoro alle chitarre e di gran fascino la melodia), Jule’s delight (con il flauto di Hughes in risalto), tutte condotte dalla sicura voce di Barrett e valorizzate da azzeccati arrangiamenti orchestrali. Messenger accosta la melodia di base ad un’incandescente fuga solista della chitarra ; Can anybody hear me e Won’t talk about it recuperano i ritmi decisi del primo LP, presentando una migliore cura del suono e una scrittura matura. Buone, anche se non troppo appariscenti, le restanti Old tin box e Home again. L’intrinseca bellezza del lavoro non basta ai Gravy Train per evitare la risoluzione del contratto discografico con la Vertigo ; le scarse vendite mettono a rischio l’esistenza stessa del complesso, che trova asilo presso la Dawn. Second birth nel 1973 conferma il gruppo su livelli dignitosi, senza esaltare ma neppure deludendo, con un hard melodico di discreta fattura. Ancora un album nel 1974 (Staircase to the day, con la presenza di George Lynon - ch. - Pete Solley e Mary Zinovieff) e Gravy Train cessa d’esistere. Tracce successive di Barrett sono riscontrabili in complessi di scarsa fortuna come Mandalaband e Alwyn Wall Band. I Titus Groan iniziano a far circolare il proprio nome in occasione dell’Hollywood Festival, tenuto nel maggio del 1970 nei pressi di Newcastle Under Lyme (in programma formazioni quali Airforce, Family e Grateful Dead, al loro debutto inglese). Nello stesso anno il gruppo, sotto contratto per la Dawn, esordisce con un maxi - singolo contenente tre brani, tra i quali spicca il dinamico e moderno R & B di Liverpool ; discrete anche la versione di Open the door, homer (una canzone di Bob Dylan dal bootleg Great white wonder) e la ballata di Woman of the world. Pochi giorni più tardi è la volta dell’album Titus Groan, che sviluppa considerevolmente gli aspetti della musica del gruppo mediante l’elaborazione di un rock solido e raffinato, nel quale il lavoro alla chitarra e alle tastiere di Stuart Cowell (ex Rockhouse Band e Sweet Pain) si combina abilmente con gli strumenti a fiato (sax, flauto, oboe) di Tony Priestland, il tutto sostenuto in modo adeguato dal basso di John Lee e dalla batteria di Jim Toomey. La lunga Hall of bright carvings è la composizione più ambiziosa ; articolata in quattro sezioni, offre ampio sfoggio di una brillante vena strumentale che dona unità alle varie influenze stilistiche (rock, folk e in misura meno evidente blues e jazz), senza oltrepassare mai i confini di una godibile semplicità espositiva. L’album riceve recensioni confortanti e la Dawn cerca di risolvere il problema promozionale delle pubblicazioni del proprio recente catalogo con l’organizzazione, nel novembre del ’70, di un singolare tour denominato ‘A Penny Concert’, al quale aderiscono piccole formazioni come Heron, Comus, Demon Fuzz e, ovviamente, Titus Groan, che s’esibiscono per la favolosa somma di...un penny. L’iniziativa termina nel gennaio del 1971 con un concerto per Radio One, senza riuscire ad affermare le potenzialità dei complessi partecipanti. Dopo lo scioglimento dei Titus Groan, Stuart Cowell suona con Paul Brett Sage e con Al Stewart, mentre Jim Toomey entra (verso la fine del decennio) nella Ronnie Paisley Band e nei Tourists. Il nome dei Second Hand resta legato agli anfratti più remoti dell’underground inglese e a quell’oscuro lavoro (Death may be your Santa Claus) pubblicato nel 1972 dalla Mushroom, esemplare etichetta alternativa che fallisce dopo un breve periodo di autogestione. Rob Elliott (v.), Ken Elliott (ts.v.), George Hart (bs.vi.v.) e Kieran O’Connor (bt.pr.v.) realizzano l’album avvalendosi di ottime idee di base, condite con una buona dose di coraggio. Sfortunatamente, tanto impegno è tradito da una produzione insufficiente che rende l’aspetto delle composizioni parzialmente indefinito e confuso. Questo non esclude la presenza di alcuni eccellenti brani, come il rhythm & blues orchestrato di Funeral e quello conciso e depravato di Somethin’ you got ; la notevole Lucifer and the egg rispolvera echi di Arthur Brown e spazza via con decisione tanti finti cultori di ‘dark music’, regalando brividi e sospensioni allucinate. Il secondo lato presenta soluzioni a tratti vagamente avvicinabili a sperimentazioni floydiane, contrapposte ad attimi di forte lirismo e ad ambientazioni romantico - sinfoniche tutt’altro che rassicuranti. E’ proprio la forte tensione che s’incrocia in ogni angolo di Death may be your Santa Claus, l’inquietudine che permea l’intero lavoro a rendere il suono intenso e meritevole d’attenzione. Solo da parte di pochissimi, però, e ai Second Hand nessuno offre una nuova opportunità. Alla fine del gioco le ultime propaggini del pop progressivo - 40 Dal 1972 l'azione progressiva del rock inglese inizia sensibilmente ad affievolirsi. Si assiste così al consolidamento di una fase d’evidente stasi creativa, determinata dall’involuzione stilistica propria alla maggior parte dei gruppi storici, senza che avvenga il necessario ricambio generazionale di qualità. In quegli anni poco esaltanti non tutto, però, è da dimenticare. Tra i nuovi nati si mettono in luce gli interessanti Roxy Music, che già nel novembre del 1970 muovono i primi passi sotto la guida del cantante Bryan Ferry, in precedenza scartato in un provino per i King Crimson. Con lui sono Roger Bunn (ch.), Dexter Lloyd (bt.), Graham Simpson (bs. - ex Gas Board, come lo stesso Ferry), Andy Mackay (sf. - formatosi su studi classici) e Brian Eno (sn.). Nel giugno del ’71 la formazione subisce una temporanea mutazione d’organico con l’ingresso del batterista Paul Thompson (proveniente dagli Smokestack) e con la breve apparizione alla chitarra di David O’List, uscito dai Nice, per poi stabilizzarsi all’inizio del nuovo anno grazie all’arrivo del chitarrista Phil Manzanera, titolare dei Quiet Sun che sin dal 1970 tentano inutilmente di ottenere un aggancio discografico con qualche etichetta. ROXY MUSIC - ROXY MUSIC (Island - 1972) Nel marzo del 1972 i Roxy Music si recano in studio per registrare il primo LP omonimo, sotto la produzione dell’ex paroliere dei King Crimson, Pete Sinfield. L’attacco aggressivo di Re-make/Re-model stordisce, nell’illustrazione dettagliata della proposta musicale del gruppo che contempla dure strutture iterative (con la chitarra quasi hard, lanciata in un assolo perenne), il sax insolente di Mackay, una sezione ritmica incessante e metronomica, i sintetizzatori del ‘non musicista’ Eno che deformano le nitide linee strumentali, la voce di Ferry sicura e sfrontata, lontana dai tipici connotati dei grandi urlatori rock, in anticipo di dieci anni (o quasi) sulle modalità del cantante new wave. La ballata di Ladytron presenta trovate originali, belle soluzioni timbriche e una chitarra che echeggia Hendrix ; If there is something fa ancora meglio con una cadenza spensierata che all’improvviso diventa tesa e decadente, nobilitata da una notevole prestazione di Ferry. Tra i brani più ricercati ed elaborati convincono l’interessante 2 H.B. dove il piano di Ferry pare allacciarsi all’esperienza di Terry Riley, fondendosi ai sassofoni di Mackay in una soffusa girandola strumentale, il viaggio allucinante di The Bob, introdotto dall’irreale atmosfera dei sintetizzatori di Eno e spezzato in continuazione da impulsi hard, inquietanti rumori di battaglie elettroniche, sax, oboe, rock’n’roll, aperture e citazioni classiche, e ancora l’estatica Chance meeting, condotta dal piano e solcata dalla chitarra trattata di Manzanera. Il lineare sviluppo delle piacevoli Would you believe ? e Bitters end (in odor di fifties) è intervallato dall’ottima Sea breezes, che si divide tra atmosfere cameristiche (con l’oboe di Mackay che sorge da recondite profondità marine) e un’atipica parte centrale con gli strumenti (in particolare la chitarra) sfigurati dagli interventi di Eno. Brano trainante sotto l’aspetto commerciale è la bella Virginia plain, uno spedito e suadente rock’n’roll trascritto nella particolare ottica futurista del gruppo ; pubblicata a 45 giri la canzone raggiunge la parte alta delle classifiche, trascinando l’album ad un buon successo. I Roxy Music s’impongono all’attenzione generale anche dal vivo, suonando in tour con David Bowie e Alice Cooper e sfoggiando un’immagine ambigua, aggressiva ed originale che accompagna una proposta musicale di alto livello. Simpson esce di scena e per il secondo album For your pleasure, inciso nel febbraio del ’73, le parti di basso sono affidate a John Porter, considerato solo come ospite. For your pleasure, che si presenta con l’avvenente Amanda Lear in copertina e all’interno propone i cinque Roxy Music in un improbabile look (si noti Brian Eno, della serie...come si cambia...), non possiede la portata innovativa del disco d’esordio, lo stile ricalca sostanzialmente quello del primo album, gli ingredienti di base sono gli stessi. Il lavoro vanta però una coesione ammirevole, l’elaborata combinazione strutturale della musica del gruppo appare intensa e solida, al massimo delle possibilità espressive dei musicisti. C’è spazio per belle e tipiche ballate melodiche, con grande attenzione per il timbro e le sfumature (Beauty queen, For your pleasure e la sua fantastica coda finale, degna delle migliori intuizioni di una Laurie Anderson), per lo stupendo rock’n’roll evoluto di Grey lagoons, per le supersoniche danze di Do the strand e di Editions of you. L’oboe di Mackay guida la melodia della raffinata Strictly confidential, che alterna un clima rarefatto a ficcanti frasi chitarristiche; la chitarra ubriaca di phasing dell’ottima In every dream home a heartache non costituisce proprio una novità (Hendrix, su Bold as love, gioca in netto anticipo), ma scatena lo stesso un bell’effetto. L’iterazione insistita della lunga The bogus man conquista vertici assoluti nell’ambito di un disco dai toni moderni, che precorre i modi a venire delle nuove ondate del rock. Nell’estate del ’73 Ferry, preoccupato di mantenere salda la leadership all’interno del complesso, costringe Eno ad abbandonare la formazione. Il posto del ‘non musicista’, che inizia un’infinita carriera solistica, è rilevato dal violinista / tastierista Eddie Jobson (dai Curved Air) e per il vacante ruolo di bassista la scelta ricade su John Gustafson (ex Quatermass e Hard Stuff). Così i Roxy Music nel settembre 1973 registrano Stranded (Island) che, pur essendo un buon disco, non ripete i notevoli risultati dei precedenti lavori. La musica è ora legata agli elementi più diretti e decadenti (Amazona, Just like you, la bella A song for Europe), con Street life prosegue la tradizione dei gradevoli scioglilingua di Ferry, ma si tratta quasi sempre degli aspetti esteriori di uno stile consolidato e svuotato dei contenuti sperimentali. Gli album successivi si muovono spediti in questa direzione, con un livello qualitativo decrescente. Country life (Island-1974) e Siren (Island-1975) sono gli ultimi fuocherelli, poi i Roxy Music tornano di tanto in tanto in sala d’incisione, compatibilmente con le esigenze delle carriere solistiche di Ferry e Manzanera. Il chitarrista, in particolare, nel 1974 rifonda i Quiet Sun che pubblicano un album dove appare Brian Eno, nel ’75 inizia ad incidere come solista (Diamond head, Island) e l’anno successivo costituisce gli 801, con l’aiuto di personaggi importanti quali Eno, Bill MacCormick (Quiet Sun e Matching Mole), Francis Monkman (Curved Air). Il gruppo dura pochissimo e nell’ultimo dei suoi tre concerti registra il valido 801 live (Island-1976). Brian Peter George St. John Le Baptiste De La Salle Eno consuma i primi approcci con la scena musicale all’interno di due formazioni, i Merchant Taylor’s Simultaneous Cabinet (orientati verso proposte d’avanguardia) e i Maxwell Demon (più tipicamente rock). Alla fine del 1970 è tra i membri fondatori dei Roxy Music dove, più che il ruolo di tastierista e musicista in genere, ricopre la figura di alchimista e guastatore del suono. Proprio nei Roxy Music, Eno inizia ad esplicitare la teoria del ‘non musicista’, di colui che non crea in prima persona il suono in modo virtuosistico ma piuttosto interviene sul lavoro degli altri musicisti, stravolgendone la forma e spesso il significato tramite l’utilizzo di artifizi elettronici. Il gioco dura per i primi due eccellenti 33 giri del complesso, fino all’estate del ’73 quando Eno lascia i compagni, in contrasto con la linea musicale più morbida e romantica di Brian Ferry. ENO - HERE COME THE WARM JETS (Island - 1973) Sempre nel 1973 Eno collabora con Robert Fripp alla stesura di No pussyfooting, un disco per chitarra trattata elettronicamente, e in novembre (aiutato da un imponente stuolo d’illustri musicisti) registra il primo album come solista, Here come the warm jets. Il lavoro è basato su canzoni piuttosto orecchiabili, di concezione (in apparenza) semplice, sulle quali Eno inserisce le parti vocali ed effettua un profondo trattamento del suono, con l’ausilio di ogni possibile alchimia elettronica. Ne consegue una musica futuribile, moderna e ricca di originalità, capace di coinvolgere per le belle melodie e per l’accesa struttura ritmica, che servirà da esempio ai paladini della new wave ‘intelligente’ (Talking Heads, Devo). Tra i brani (tutti d’elevata qualità) spiccano l’eccezionale Baby’s on fire, lanciata in orbita da una memorabile prestazione alle chitarre di Robert Fripp, la cadenza decadente dell’agghiacciante Driving me backwards, la compatta massa chitarristica (Manzanera e Spedding) e la ritmica serrata della bella Needles in the camel’s eye, il rock stravolto di Blank Frank (un geniale mix tra Bo Diddley e i King Crimson della seconda generazione), con un altro importante intervento di Fripp. Contemporanea è la fondazione della Portsmouth Sinfonia, formazione pseudo sinfonica dedita al rifacimento, non proprio ortodosso, di celebri composizioni classiche. Il primo giugno 1974 Eno appare tra i principali animatori del concerto al Rainbow con Kevin Ayers, John Cale e Nico. In settembre vengono effettuate le registrazioni per il secondo LP Taking tiger mountain (by strategy) (Island-1974), ottimo disco che in sostanza ricalca le posizioni acquisite dal precedente lavoro (da segnalare la notevole Third uncle) e che vanta la partecipazione, tra gli altri, di Robert Wyatt e di Phil Collins. Del 1976 è la breve collaborazione dal vivo con gli 801 di Phil Manzanera ; dalla metà dei Settanta e fino ai giorni nostri la produzione discografica di Brian Eno prosegue incessante in svariate direzioni musicali, passando da una marcata impronta pop rock (gli ottimi Another green world, Island-1975 e Before and after science, Island-1977, oltre alla pregevole partecipazione a Low e Heroes di David Bowie) alla musica elettronica e a quella ‘ambientale’. Divenuto oramai a tutti gli effetti un ‘musicista’, sia pure un po’ particolare, teorizza la ‘musica per non musicisti’ e le ‘strategie oblique’ in due libri, organizza un’etichetta dedita a progetti d’avanguardia (la Obscure) e s’impone come produttore dalle ampie vedute (e fortune) con complessi quali Talking Heads, Devo, Ultravox e i planetari U2. La prima metà degli anni Settanta porta buoni risultati artistici anche al gallese John Cale, membro fondatore dei leggendari Velvet Underground. Cale si forma a Londra su studi classici e ben presto inizia ad interessarsi alla musica elettronica e d’avanguardia ; è il compositore americano Aaron Copland a metterlo in contatto con il musicista d’avanguardia La Monte Young, con il quale nel 1963 crea il nucleo dei Dream Syndicate, che realizza un album. Stabilitosi negli Stati Uniti, nel ’64 conosce Lou Reed e con lui dà vita ai Velvet Underground, risultando decisivo (con l’apporto di tastiere e viola) nella messa a punto dell’originale proposta musicale del gruppo contenuta nei primi due LP. Lasciati i Velvet verso la fine del ’68, Cale si dedica alla produzione (dischi di Earth Opera e Stooges), collabora alle prime incisioni soliste di Nico e con Terry Riley, con il quale incide il controverso Church of Anthrax. Al 1970 risale la pubblicazione del suo esordio a 33 giri come solista, il non eccelso Vintage violence, seguito a distanza di due anni dal più convincente The academy in peril (Reprise), lavoro denso di forti e diretti riferimenti alla cultura classica. I risultati migliori del periodo sono colti nel 1973 con la realizzazione di Paris 1919 che, sia pur inciso a Los Angeles, è disco dagli espliciti umori europei, composto da gradevoli canzoni permeate da un afflato decadente ed intimista. Il suono è tranquillo, con arrangiamenti complessi, curati e di grand'equilibrio, dai quali traspare (anche se con connotati ben diversi rispetto all’album precedente) la formazione classica di Cale (Child’s Christmas in Wales). Bellissima appare The endless plain of fortune, una soffice aria decadente sfiorata da sfumature orchestrali da brivido, che nascondono l’essenza intima della canzone in un’atmosfera nebbiosa e quasi irreale. Di rilievo anche la cameristica Paris 1919, la sognante Half past France e l’originale rock’n’roll di Macbeth. Dopo la partecipazione al famoso concerto del Rainbow, Cale pubblica altri due buoni LP, Fear (Island-1974) e Slow dazzle (Island-1975), nei quali è aiutato da musicisti di vaglia come Phil Manzanera, Chris Spedding e Brian Eno, e la produzione discografica continua sino ad oggi con risultati altalenanti e sintassi musicali di varia natura ed ispirazione. Tra gli interventi esterni è da rimarcare la produzione del primo album di Patti Smith, Horses. - 41 La seconda generazione dei King Crimson si evolve nell’arco di un paio d’anni, a partire dal 1973, quando Robert Fripp rifonda per l’ennesima volta il complesso con l’apporto del violinista David Cross, del bassista John Wetton (ex Family), del percussionista Jamie Muir (proveniente dagli Assagai, un album omonimo all’attivo) e del batterista Bill Bruford (che preferisce Fripp ai facili guadagni con gli Yes). KING CRIMSON - LARKS’ TONGUES IN ASPIC (Island - 1973) Registrato all’inizio del 1973, Larks’ tongues in aspic è, senza mezzi termini, uno dei grandi capolavori della musica progressiva inglese. Le percussioni policrome di Muir introducono la prima parte di Larks’ tongues in aspic, che si apre con il serrato fraseggio del violino sorvolato dalla tesa chitarra di Fripp ; reminiscenze classiche ed impronte d’avanguardia travolte da un’intermittente esplosione hard, che evolve in una spigolosa, moderna cadenza jazz rock in continua mutazione genetica. Una musica che deriva forze e virtù dalla sua stessa essenza, capace di calarsi nelle impervie voragini del ritmo e d’aprirsi in melodiche frasi di sconcertante consistenza emotiva. Se le eccellenti Book of Saturday e Exiles riportano a dolci e romantiche atmosfere già conosciute ed apprezzate nei primi momenti del complesso, il fraseggio spezzato di Easy money e la dinamica progressione di The talking drum s’inventano inedite prospettive di sviluppo e mostrano il compiuto aspetto strumentale dei nuovi King Crimson. La conclusiva seconda parte di Larks’ tongues in aspic, annunciata dal selvaggio stridere degli strumenti, trova il modo di accarezzare la materia per poi sbranarla e vivisezionarla senza ritegno, in una danza che stordisce e lascia senza fiato. Jamie Muir esce dal gruppo e sparisce senza lasciare tracce (c’è chi lo crede in Tibet, in un monastero buddista), ma nonostante la dipartita del percussionista, e al contrario del solito, i King Crimson dimostrano di poter contare su un organico stabile. I restanti quattro musicisti tornano in studio, nel gennaio del ’74, per registrare le composizioni che vanno a sommarsi sull’ottimo Starless and Bible Black. Le folate dell’ossessiva e (volutamente) frammentaria The great deceiver (quasi una suite in miniatura) mostrano il gruppo in piena forma, sicuro e compatto anche nelle parti esecutive più intricate. Il sintomo è confermato dalla nervosa Lament (che a tratti pare rivolgersi su se stessa), dall’aggraziata e commovente The night watch (con un grande Fripp alla chitarra), dal pacato classicismo di Trio. Sul secondo lato trovano posto le pregevoli Starless and Bible Black (di non semplice fruizione) e Fracture (che in parte anticipa le soluzioni tese e violente del successivo LP Red). All’inizio del ’74, poco dopo l’incisione di Starless and Bible Black, lascia anche David Cross ma i King Crimson resistono e, ridotti a trio, nell’estate dello stesso anno realizzano un altro notevole album. In realtà, alla lavorazione di Red partecipano alcuni ospiti esterni, tra i quali spiccano i nomi delle vecchie conoscenze Mel Collins e Ian McDonald (ai sax soprano e alto) e dello stesso David Cross al violino. La musica dei King Crimson è giunta ad un nuovo capolinea, splendida nell’esasperante potenza di un suono distorto e sovraccarico d’energia. Red, con le sue masse chitarristiche contrapposte, è una perfetta introduzione al disco e la successiva Fallen angel unisce la bella melodia (guidata dall’oboe di Robin Miller) alle energiche spirali senza fine di One more red nightmare. Providence, con il violino di Cross, si lancia in una difficile improvvisazione ai limiti del rumore ; la stupenda Starless rappresenta la fine di un ciclo, significa ritrovare il romantico sinfonismo della Corte del Re Cremisi, sotto una veste riveduta ed aggiornata. I King Crimson cessano d’esistere nell’ottobre del 1974 (al tempo della pubblicazione di Red) ; non si tratta però di una decisione definitiva perché Fripp, all’inizio degli anni Ottanta, recupera la vecchia sigla per pubblicare, a più riprese, una serie di dischi di buon pregio. Nel frattempo il chitarrista produce diversi lavori come solista, ad iniziare da Exposure (EG1979), e collabora frequentemente con musicisti quali David Bowie, Peter Gabriel e Brian Eno. Per quanto riguarda gli altri due membri ufficiali dell’ultimo organico dei King Crimson, Wetton suona con Uriah Heep, Roxy Music, Bryan Ferry e, nel 1978, ritrova Bruford nel supergruppo degli U.K. (con Eddie Jobson e Allan Holdsworth). Da parte sua Bruford, prima di finire negli U.K., collabora con Roy Harper, Pavlov’s Dog, Gong, National Health, Genesis, e nel 1980 figura tra i partecipanti alla nuova edizione del gruppo di Fripp. Mi piace ricordarli così, seduti attorno ad uno spoglio tavolo di una festa dell’ultra sinistra, a mangiare pane e poco altro, accanto alle persone che poco più tardi avrebbero costituito il loro sparuto pubblico. Voglio terminare con gli Henry Cow, fiera unione di uomini e donne a sostegno di un approccio alla vita della musica completamente estraneo all’equazione concerti : successo = dischi : soldi, una scelta che comporta necessariamente la povertà. HENRY COW - THE HENRY COW LEGEND (Virgin - 1973) I polistrumentisti Fred Frith e Tim Hodgkinson progettano Henry Cow già alla fine del 1968 e il gruppo assume un’identità precisa nel 1971 quando, a seguito di vari cambiamenti d’organico, si associano il fiatista Geoff Leigh, il bassista John Greaves e il batterista Chris Cutler. Gli Henry Cow iniziano a farsi conoscere suonando gratis o a prezzo politico un po’ ovunque, abbracciando la causa di una musica e di un’ideologia radicali. Della primavera del ’73 sono le registrazioni dell’album d’esordio The Henry Cow Legend, disco di gran bellezza che materializza l’originale formula stilistica del complesso, in equilibrio tra rock e rumore, free jazz e avanguardia, umori classici e bandismo zappiano. Concepito come una complessa suite a carattere prevalentemente strumentale, Legend propone un suono ‘leggero’ ed inafferrabile nel continuo mutare di toni e sfumature, ora contorto ed intricato, subito dopo lirico e disteso. I musicisti dimostrano notevoli capacità tecniche e una ancor maggiore personalità esecutiva, rendendo la musica raffinata ed immediatamente riconoscibile. Il disco piace alla critica musicale ma il seguito di pubblico non può che essere modesto, visto il carattere impegnativo della proposta. Dal vivo il complesso esibisce un atteggiamento provocatorio ed estremo sotto l’aspetto prettamente musicale, elaborando composizioni che spesso sfociano in improvvisazioni totali, ai confini con il rumore e il caos. Una buona dimostrazione è offerta dai brani incisi nell’ottobre del 1973 in occasione del concerto alla Dingwall’s Dance Hall, compresi nel doppio LP della Greasy Truckers al fianco di Camel, Global Village e Gong. Lindsay Cooper (fagotto e oboe) subentra a Geoff Leigh e all’inizio del 1974 gli Henry Cow registrano Unrest, disco che presenta parti piuttosto ostiche rispetto alle raffinate atmosfere di Legend. Tra le composizioni di più ‘facile’ fruibilità vanno segnalate le ottime Bittern storm over Ulm e Half asleep ;half awake, che sfodera un personalissimo jazz rock. Di maggior impegno, ma imprescindibile, il confronto con le impietose scansioni ritmiche della stupenda Ruins (ricettacolo delle influenze e delle esperienze di Henry Cow), con il feroce free jazz di Upon entering the Hotel Adlon, con le desolate distese armoniche di Deluge, mentre Linguaphonie rischia l’incomunicabilità. Del ’75 è la collaborazione con gli Slapp Happy (Anthony Moore - ts. - Peter Blegvad - ch. Dagmar Krause - v.) : assieme i due organici realizzano Desperate straight (Virgin-1975) e In praise of learning (Virgin-1975), discreti ma non essenziali. Gli Henry Cow svolgono costantemente un’intensa attività live e sempre nel 1975 effettuano alcune esibizioni con la formazione allargata a Dagmar e con la presenza di Robert Wyatt. Su tre lati del doppio Concerts trovano spazio le registrazioni ricavate da concerti tenuti tra maggio e novembre, con particolare interesse per le belle versioni di Little red riding Hood hits the road (con Wyatt) e di Ruins (registrata a Udine). La prima facciata del disco è occupata da uno stupefacente medley che illustra adeguatamente gli eccellenti risultati e l’equilibrio formale raggiunti dalla formazione (tra le altre Beautiful as the moon, Nirvana for mice e una struggente versione di Gloria Gloom dei Matching Mole, il tutto messo su nastro in agosto per la BBC). Prima di disperdere le forze in mille direzioni (carriere soliste, Art Bears, Aqsak Maboul, Work...) Henry Cow resiste fino al 1978, in tempo per la pubblicazione dell’ultimo, e ancora rilevante, Western culture (Broadcast), registrato senza l’apporto di John Greaves (impegnato con i National Health), che chiude degnamente la storia di questo mai sufficientemente considerato gruppo. “Il futuro degli Henry Cow è molto semplice. Abbiamo questo concerto stasera, poi ne avremo due consecutivamente nei prossimi giorni, quindi andremo in studio per registrare un nuovo disco e poi ci scioglieremo.” Tim Hodgkinson (23.7.78) Sommario...per una discografia progressiva A NEW DAY RISING...dal beat alla musica progressiva -1Beatles - Revolver (Parlophone-1966) -2Rolling Stones - Aftermath (Decca-1966) Rolling Stones - Big hits (high tide and green grass) (Decca-1966) ant. ‘63 - ‘66 Animals - House of the rising sun (Emi-1970) ant. ‘64 - ‘65 Them - The collection / featuring Van Morrison (2 LP Castle Comm.-1986) ant. ‘64 - ‘66 Yardbirds - On air (2 LP Band of Joy-1991) reg. BBC ‘65 - ‘68 John Mayall and the Bluesbreakers - A hard road (Decca-1967) Graham Bond Organization - The sound of 65 (Columbia-1965) Spencer Davis Group - The best of ... featuring Stevie Winwood (Island-1967) ant. ‘65 - ‘67 -3Kinks - Golden hour of the Kinks (Pye-1977) ant. ‘64 - ‘69 Who - My generation (Brunswick-1965) Pretty Things - The vintage years (2 LP Sire-1976) ant. ‘64 - ‘66 Small Faces - The autumn stone (2 LP Immediate-1969) ant. ‘66 - ‘68 in parte dal vivo -4Creation - How does it feel to feel (CD Edsel-1990) ant. ‘66 - ‘68 Misunderstood - Before the dream faded (Cherry Red-1982) ant. ‘66 THE TURNING POINT...diario fantastico dell’esperienza interstellare di Pepper il sergente -5Jimi Hendrix Experience - Are you experienced ? (Track-1967) Jimi Hendrix Experience - Jimi plays Monterey (Polydor-1986) dal vivo 18.6.67 Jimi Hendrix Experience - Smash hits (Track-1968) ant. ‘66 - ‘67 Jimi Hendrix Experience - Axis : bold as love (Track-1967) Jimi Hendrix Experience - Radio one (2 LP Rykodisc-1988) reg. BBC ‘67 -6Beatles - Sgt. Pepper’s lonely hearts club band (Parlophone-1967) Beatles - Magical mystery tour (Capitol-1967) ant. ‘67 Beatles - The Beatles (2 LP Apple-1968) Beatles - Past masters, vol. one & two (2LP Parlophone - 1988) ant. '62 - '70 -7Pink Floyd - The piper at the gates of dawn (Columbia-1967) Pink Floyd - Masters of rock (Harvest-1974) ant. ‘67 Pink Floyd - A saucerful of secrets (Columbia-1968) -8Traffic - Mr. Fantasy (Island-1967) Traffic - Traffic (Island-1968) IL FUOCO E L’ACQUA...un ricordo di British blues -9Cream - Fresh Cream (Reaction-1966) Cream - Disraeli gears (Reaction-1967) Cream - Wheels of fire (2 LP Polydor-1968) in parte dal vivo Blind Faith - Blind Faith (Polydor-1969) - 10 Jimi Hendrix Experience - Electric ladyland (2 LP Track-1968) Jimi Hendrix Experience - Live at Winterland (2 LP Polydor-1987) dal vivo ottobre 1968 - 11 John Mayall’s Bluesbreakers - Bare wires (Decca-1968) John Mayall - Blues from Laurel Canyon (Decca-1969) Fleetwood Mac - Then play on (Reprise-1969) Chicken Shack - 40 blue fingers freshly packed & ready to serve (Blue Horizon-1968) Peter Green - The end of the game (Reprise-1970) Aynsley Dunbar Retaliation - To mum, from Ainsley and the boys (Liberty-1969) Keef Hartley Band - Halfbreed (Deram-1969) Mark Almond - Mark Almond (Harvest-1971) - 12 Jeff Beck - Truth (Columbia-1968) Jeff Beck Group - Beck Ola (Columbia-1969) Free - Tons of sobs (Island-1968) Free - Free (Island-1969) Free - Fire and water (Island-1970) Led Zeppelin - Led Zeppelin (Atlantic-1969) - 13 Ten Years After - Ten Years After (Deram-1967) Ten Years After - Undead (Deram-1968) dal vivo Ten Years After - Stonedhenge (Deram-1969) Ten Years After - Ssssh. (Deram-1969) Groundhogs - Blues obituary (Liberty-1969) Groundhogs - Thank Christ for the bomb (Liberty-1970) Groundhogs - Split (Liberty-1971) Patto - Patto (Vertigo-1970) Patto - Hold your fire (Vertigo-1971) Taste - Pop history vol. 7 (2 LP Polydor-1972) ant. ‘69 - ‘70 in parte dal vivo Savoy Brown - Blue matter (Decca-1969) in parte dal vivo Joe Cocker - With a little help from my friends (Regal Zonophone-1969) AA.VV. - Woodstock (3 LP Cotillon-1970) dal vivo - 14 Blodwyn Pig - Ahead rings out (Island-1969) Steamhammer - Steamhammer (Reflection-1969) Steamhammer - MK II (Reflection-1969) Steamhammer - Mountains (Brain-1970) in parte dal vivo Bakerloo - Bakerloo (Harvest-1969) Black Cat Bones - Barbed wire sandwich (Nova-1969) Killing Floor - Killing Floor (Spark-1970) Juicy Lucy - Lie back and enjoy it (Vertigo-1970) N.S.U. - Turn on, or turn me down (Stable-1969) May Blitz - May Blitz (Vertigo-1970) May Blitz - The 2nd of May (Vertigo-1971) Sharks - First water (Island-1973) Back Door - Back Door (Blakey-1972) A ROCK’N’ROLL DAMNATION...ovvero il diavolo, probabilmente - 15 Rolling Stones - Their satanic majesties request (Decca-1967) Rolling Stones - Beggar’s banquet (Decca-1968) Rolling Stones - Through the past darkly (Decca-1969) ant. ‘66 - ‘69 Eric Burdon & the Animals - Winds of change (Mgm-1967) Eric Burdon & the Animals - The twain shall meet (Mgm-1968) Eric Burdon & the Animals - Every one of us (Mgm-1968) Eric Burdon & the Animals - Love is (2 LP Mgm-1968) Eric Burdon Band - Sun secrets (Capitol-1974) - 16 Small Faces - Ogdens’ nut gone flake (Immediate-1968) Pretty Things - S.F. Sorrow (Columbia-1968) Pretty Things - Parachute (Harvest-1970) Kinks - Arthur or the decline and fall of the British empire (Pye-1969) Kinks - Lola versus the powerman and the moneygoround (Pye-1970) Who - The Who sell out (Track-1967) Who - Tommy (2 LP Track-1969) Who - Live at Leeds (Track-1970) dal vivo Who - Who’s next (Track-1971) Who - Quadrophenia (2 LP Track-1973) Fire - The magic shoemaker (Pye-1970) - 17 Terry Reid - Bang, bang you’re Terry Reid (Epic-1968) Spooky Tooth - Spooky two (Island-1969) Thunderclap Newman - Hollywood dream (Track-1969) David Bowie - The man who sold the world (Mercury-1970) Mott the Hoople - Mott the Hoople (Island-1969) PIU’ DURO DI TUO MARITO...i miti e le illusioni dell’hard rock inglese - 18 Led Zeppelin - Led Zeppelin II (Atlantic-1969) Led Zeppelin - Led Zeppelin III (Atlantic-1970) Led Zeppelin - Led Zeppelin IV (Atlantic-1971) Led Zeppelin - Physical graffiti (2 LP Swan Song-1975) Deep Purple - In rock (Harvest-1970) Deep Purple - Made in Japan (2 LP Purple-1972) dal vivo Black Sabbath - Black Sabbath (Vertigo-1970) Black Sabbath - Paranoid (Vertigo-1970) Black Sabbath - Vol. IV (Vertigo-1972) Gods - Genesis (Columbia-1968) Toe Fat - Toe Fat (Parlophone-1970) Uriah Heep - Live (2 LP Bronze-1973) dal vivo Humble Pie - Greatest hits (Immediate-1978) ant. ‘69 Wishbone Ash - Pilgrimage (Mca-1971) un brano dal vivo Wishbone Ash - Argus (Mca-1972) Wishbone Ash - Live dates (2 LP Mca-1973) dal vivo - 19 Clear Blue Sky - Clear Blue Sky (Vertigo-1970) Leaf Hound - Growers of mushroom (Decca-1971) Warhorse - Warhorse (Vertigo-1970) Third World War - Third World War (Fly-1971) SEASONS THEY CHANGE...le contaminazioni del folk inglese - 20 Fairport Convention - Unhalfbricking (Island-1969) Fairport Convention - Liege & lief (Island-1969) Fairport Convention - Full house (Island-1970) Pentangle - Sweet child (2 LP Transatlantic-1968) in parte dal vivo Pentangle - Cruel sister (Transatlantic-1970) Incredible String Band - The hangman’s beautiful daughter (Elektra-1968) Incredible String Band - Seasons they change (2 LP Island-1976) ant. ‘66 - ‘74 - 21 Strawbs - From the witchwood (A & M-1971) Strawbs - Grave new world (A & M-1972) Fotheringay - Fotheringay (Island-1970) Sandy Denny - The north star grassman and the ravens (Island-1971) Steeleye Span - Ten man mop or Mr. Reservoir Butler rides again (Pegasus-1971) Steeleye Span - Below the salt (Chrysalis-1972) Horslips - Happy to meet sorry to part (Oats-1973) - 22 Forest - Forest (Harvest-1969) Forest - Full circle (Harvest-1970) Trees - The garden of Jane Delawney (Cbs-1970) Trees - On the shore (Cbs-1970) Dr. Strangely Strange - Heavy petting (Vertigo-1970) Dando Shaft - Dando Shaft (Neon-1971) Mellow Candle - Swaddling songs (Deram-1972) Gryphon - Gryphon (Transatlantic-1973) Gryphon - Red queen to Gryphon three (Transatlantic-1974) LE SETTIMANE ASTRALI E I GIORNI DELLA LUNA ROSA - 23 Van Morrison - Astral weeks (Warner Bros.-1968) Van Morrison - Moondance (Warner Bros.-1970) Donovan - Sunshine superman (Pye-1967) Donovan - A gift from a flower to a garden (2 LP Pye-1968) Donovan - Donovan in concert (Pye-1968) dal vivo Cat Stevens - Mona bone jakon (Island-1970) - 24 Syd Barrett - The madcap laughs (Harvest-1970) Syd Barrett - Barrett (Harvest-1970) - 25 Jack Bruce - Harmony row (Polydor-1971) Jack Bruce - Out of the storm (Polydor-1974) Roy Harper - Stormcock (Harvest-1971) Roy Harper - Lifemask (Harvest-1973) Michael Chapman - Lived here (Cube-1977) ant. ‘68 - ‘71 Shawn Phillips - Second contribution (A & M-1971) Kevin Coyne - Marjory razor blade (2 LP Virgin-1973) - 26 John Martyn - Solid air (Island-1973) John Martyn - Inside out (Island-1973) Nick Drake - Five leaves left (Island-1969) Nick Drake - Bryter layter (Island-1970) Nick Drake - Pink moon (Island-1972) ARS LONGA VITA BREVIS...la musica della casa delle bambole - 27 Traffic - John Barleycorn must die (Island-1971) Traffic - The low spark of high heeled boys (Island-1971) Family - Music in a doll’s house (Reprise-1968) Family - Family entertainment (Reprise-1969) Family - A song for me (Reprise-1970) Family - Anyway... (Reprise-1970) in parte dal vivo Family - Fearless (Reprise-1971) Jethro Tull - This was (Island-1968) Jethro Tull - Stand up (Island-1969) Jethro Tull - Benefit (Island-1970) Jethro Tull - Aqualung (Chrysalis-1971) Jethro Tull - Living in the past (2 LP Island-1972) ant. ‘68 - ‘71 in parte dal vivo Jethro Tull - Thick as a brick (Chrysalis-1972) - 28 Nice - The thoughts of emerlist davjack (Immediate-1968) Nice - Ars longa vita brevis (Immediate-1968) Nice - Nice (Immediate-1969) in parte dal vivo Procol Harum - Procol Harum (Regal Zonophone-1968) Moody Blues - Days of future passed (Deram-1967) Julie Driscoll, Brian Auger & the Trinity - Streetnoise (2 LP Marmalade-1969) Colosseum - Those who are about to die salute you (Fontana-1969) Colosseum - Valentyne suite (Vertigo-1969) Colosseum - Colosseum live (2 LP Bronze-1971) dal vivo Tempest - Tempest (Bronze-1973) Pink Floyd - Ummagumma (2 LP Harvest-1969) in parte dal vivo Pink Floyd - Atom heart mother (Harvest-1970) Pink Floyd - Meddle (Harvest-1971) Pink Floyd - The dark side of the moon (Harvest-1973) King Crimson - In the court of the Crimson King (Island-1969) King Crimson - In the wake of Poseidon (Island-1970) King Crimson - Lizard (Island-1970) King Crimson - Islands (Island-1971) - 29 Emerson, Lake & Palmer - Emerson, Lake & Palmer (Island-1970) Emerson, Lake & Palmer - Tarkus (Island-1971) Quatermass - Quatermass (Harvest-1970) Rare Bird - Rare Bird (Charisma-1969) Renaissance - Renaissance (Island-1969) Renaissance - Live at Carnegie Hall (2 LP Btm-1976) dal vivo giugno ‘75 Yes - The Yes album (Atlantic-1971) un brano dal vivo Yes - Fragile (Atlantic-1971) Yes - Close to the edge (Atlantic-1972) Gentle Giant - Gentle Giant (Vertigo-1970) Gentle Giant - Acquiring the taste (Vertigo-1971) Gentle Giant - Three friends (Vertigo-1972) Genesis - Nursery cryme (Charisma-1971) Genesis - Foxtrot (Charisma-1972) Barclay James Harvest - Once again (Harvest-1971) Beggar’s Opera - Pathfinder (Vertigo-1972) Curved Air - Air conditioning (Warner Bros.-1970) - 30 Cressida - Asylum (Vertigo-1971) Gracious - Gracious ! (Vertigo-1970) Czar - Czar (Fontana-1970) Spring - Spring (Neon-1971) - 31 Van Der Graaf Generator - The least we can do is wave to each other (Charisma-1970) Van Der Graaf Generator - H to he, who am the only one (Charisma-1970) Van Der Graaf Generator - Pawn hearts (Charisma-1971) Peter Hammill - Chameleon in the shadow of the night (Charisma-1973) Audience - The house on the hill (Charisma-1971) Argent - Ring of hands (Cbs-1971) Ashton, Gardner & Dyke - Ashton, Gardner & Dyke (Polydor-1969) Hardin & York - Tomorrow today (Bell-1969) Affinity - Affinity (Vertigo-1970) Camel - Camel (Mca-1973) AA.VV. - Live at Dingwall’s Dance Hall (2 LP Greasy Truckers-1973) dal vivo Camel - Mirage (Deram-1974) - 32 Nucleus - We’ll talk about it later (Vertigo-1971) Mahavishnu Orchestra - Birds of fire (Cbs-1973) Mahavishnu Orchestra - Between nothingness & eternity (Cbs-1973) dal vivo If - If 2 (Island-1970) LA LUNA IN GIUGNO...nella terra del grigio e del rosa - 33 Soft Machine - Soft Machine (Probe-1968) Soft Machine - Soft Machine volume two (Probe-1969) Soft Machine - Third (2 LP Cbs-1970) in parte dal vivo Soft Machine - Fourth (Cbs-1971) Soft Machine - Fifth (Cbs-1972) Caravan - If I could do it all over again, I’d do it all over you (Decca-1970) Caravan - In the land of grey and pink (Deram-1971) Caravan - Waterloo Lily (Deram-1972) Egg - Egg (Deram-1970) Egg - The polite force (Deram-1970) Khan - Space shanty (Deram-1972) Steve Hillage - Fish rising (Virgin-1975) Hatfield and the North - Hatfield and the North (Virgin-1973) Hatfield and the North - The rotter’s club (Virgin-1975) - 34 Kevin Ayers - Joy of a toy (Harvest-1969) Kevin Ayers and the Whole World - Shooting at the moon (Harvest-1970) Kevin Ayers - Whatevershebringswesing (Harvest-1972) Kevin Ayers, John Cale, Eno, Nico - June 1, 1974 (Island-1974) dal vivo Daevid Allen - Banana moon (Byg-1971) Gong - Camembert electrique (Byg-1971) Gong - Radio Gnome invisible part 1 : Flying teapot (Virgin-1973) Gong - Angel’s egg (Virgin-1973) Robert Wyatt - The end of an ear (Cbs-1970) Matching Mole - Matching Mole (Cbs-1972) Matching Mole - Little red record (Cbs-1972) Robert Wyatt - Rock bottom (Virgin-1974) IL BUIO AI MARGINI DELLA CITTA’...eroi e dannati dell’Inghilterra sotterranea - 35 Deviants - Ptooff ! (Underground Impresarios-1967) Deviants - Disposable (Stable-1968) Deviants - The Deviants (Transatlantic-1969) Mick Farren - Mona ; the carnivorous circus (Transatlantic-1970) Tomorrow - Tomorrow (Emi-1968) Twink - Think pink (Polydor-1970) Pink Fairies - Neverneverland (Polydor-1971) AA.VV. - Glastonbury Fayre Festival (3 LP Revelation-1972) in parte dal vivo Pink Fairies - What a bunch of sweeties (Polydor-1972) Edgar Broughton Band - Wasa wasa (Harvest-1969) Edgar Broughton Band - Sing brother sing (Harvest-1970) Hawkwind - In search of space (United Artists-1971) Hawkwind - Space ritual (2 LP United Artists-1973) dal vivo Robert Calvert - Captain Lockheed and the starfighters (United Artists-1974) - 36 Blossom Toes - We are ever so clean (Marmalade-1967) Skip Bifferty - Skip Bifferty (Rca-1968) July - Dandelion seeds (Major Minor-1968) - 37 Bonzo Dog Doo/Dah Band - Gorilla (Liberty-1967) Pete Brown & his Battered Ornaments - A meal you can shake hands with in the dark (Harvest-1969) Battered Ornaments - Mantle piece (Harvest-1969) Pete Brown & Piblokto - Things may come and things may go but...the art school dance goes on for ever (Harvest-1970) Arthur Brown - The Crazy World of Arthur Brown (Track-1968) Man - 2 ozs of plastic (with a hole in the middle) (Dawn-1969) Man - Be good to yourself at least once a day (United Artists-1972) Help Yourself - Strange affair (Liberty-1972) Andromeda - Andromeda (Rca-1969) T2 - It’ll all work out in boomland (Decca-1970) Blossom Toes - If only for a moment (Marmalade-1969) Mighty Baby - Mighty Baby (Head-1969) Mighty Baby - A jug of love (Blue Horizon-1971) - 38 Tea & Symphony - An asylum for the musically insane (Harvest-1969) East of Eden - Mercator projected (Deram-1969) East of Eden - Snafu (Deram-1970) Third Ear Band - Alchemy (Harvest-1969) Third Ear Band - Third Ear Band (Harvest-1970) Jade Warrior - Released (Vertigo-1972) Quintessence - Dive deep (Island-1970) Clark Hutchinson - A=MH2 (Nova-1969) Clark Hutchinson - Retribution (Nova-1970) Comus - First utterance (Dawn-1971) - 39 - Velvett Fogg - Velvett Fogg (Pye-1969) High Tide - Sea shanties (Liberty-1969) High Tide - High Tide (Liberty-1970) Atomic Rooster - Atomic Rooster (B & C-1970) Atomic Rooster - Death walks behind you (B & C-1970) Black Widow - Sacrifice (Cbs-1970) Still Life - Still Life (Vertigo-1971) Skin Alley - To pagham & beyond (Cbs-1970) Gravy Train - (A ballad of) a peaceful man (Vertigo-1971) Titus Groan - Titus Groan (Dawn-1970) Second Hand - Death may be your Santa Claus (Mushroom-1972) ALLA FINE DEL GIOCO...le ultime propaggini del pop progressivo - 40 Roxy Music - Roxy Music (Island-1972) Roxy Music - For your pleasure (Island-1973) Eno - Here come the warm jets (Island-1973) Eno - Taking tiger mountain (by strategy) (Island-1974) John Cale - Paris 1919 (Reprise-1973) - 41 King Crimson - Larks’ tongues in aspic (Island-1973) King Crimson - Starless and Bible Black (Island-1974) King Crimson - Red (Island-1974) Henry Cow - The Henry Cow Legend (Virgin-1973) Henry Cow - Unrest (Virgin-1974) Henry Cow - Concerts (2 LP Compendium-1976) dal vivo e reg. BBC ‘75 Starring... ...Affinity / Daevid Allen / Andromeda / Animals / Argent / Ashton, Gardner & Dyke / Atomic Rooster / Audience / Brian Auger & Trinity / Kevin Ayers / Back Door / Bakerloo / Barclay James Harvest / Syd Barrett / Battered Ornaments / Beatles / Jeff Beck Group / Beggar’s Opera / Black Cat Bones / Black Sabbath / Black Widow / Blind Faith / Blodwyn Pig / Blossom Toes / Graham Bond Organization / Bonzo Dog Doo Dah Band / David Bowie / Edgar Broughton Band / Arthur Brown / Jack Bruce / Eric Burdon & the Animals / Eric Burdon Band / John Cale / Robert Calvert / Camel / Caravan / Michael Chapman / Chicken Shack / Clark Hutchinson / Clear Blue Sky / Joe Cocker / Colosseum / Comus / Kevin Coyne / Cream / Creation / Cressida / Curved Air / Czar / Dando Shaft / Spencer Davis Group / Deep Purple / Sandy Denny / Deviants / Donovan / Dr. Strangely Strange / Nick Drake / Aynsley Dunbar Retaliation / East Of Eden / Egg / Emerson, Lake & Palmer / Brian Eno / Fairport Convention / Family / Mick Farren / Fire / Fleetwood Mac / Forest / Fotheringay / Free / Genesis / Gentle Giant / Gods / Gong / Gracious / Gravy Train / Peter Green / Groundhogs / Gryphon / Peter Hammill / Hardin & York / Roy Harper / Keef Hartley Band / Hatfield and the North / Hawkwind / Help Yourself / Jimi Hendrix Experience / Henry Cow / High Tide / Steve Hillage / Horslips / Humble Pie / If / Incredible String Band / Jade Warrior / Jethro Tull / Juicy Lucy / July / Khan / Killing Floor / King Crimson / Kinks / Leaf Hound / Led Zeppelin / Man / Mahavishnu Orchestra / Mark Almond / John Martyn / Matching Mole / May Blitz / John Mayall and the Bluesbreakers / Mellow Candle / Mighty Baby / Misunderstood / Moody Blues / Van Morrison / Mott The Hoople / N.S.U. / Nice / Nucleus / Patto / Pentangle / Shawn Phillips / Piblokto / Pink Fairies / Pink Floyd / Pretty Things / Procol Harum / Quatermass / Quintessence / Rare Bird / Terry Reid / Renaissance / Rolling Stones / Roxy Music / Savoy Brown / Second Hand / Sharks / Skin Alley / Skip Bifferty / Small Faces / Soft Machine / Spooky Tooth / Spring / Steamhammer / Steeleye Span / Cat Stevens / Still Life / Strawbs / T 2 / Taste / Tea & Symphony / Tempest / Ten Years After / Them / Third Ear Band / Third World War / Thunderclap Newman / Titus Groan / Toe Fat / Tomorrow / Traffic / Trees / Twink / Uriah Heep / Van Der Graaf Generator / Velvett Fogg / Warhorse / Who / Wishbone Ash / Robert Wyatt / Yardbirds / Yes.... Elenco delle abbreviazioni Ant. (Antologia) Ar. (Armonica) Bj. (Banjo) Bs. (Basso) Bt. (Batteria) Cb. (Contrabbasso) Ch. (Chitarra) Cl. (Clarinetto) Cv. (Clavicembalo) Du. (Dulcimer) Fl. (Flauto) Me. (Mellotron) Mn. (Mandolino) Ob. (Oboe) Or. (Organo) Pn. (Piano) Pr. (Percussioni) Prod. (Produzione) Reg. (Registrazione) Sax. (Sassofono) Se. (Strumenti elettronici) Sf. (Strumenti a fiato) Si. (Sitar) Sn. (Sintetizzatore) Tm. (Trombone) Tr. (Tromba) Ts. (Tastiere) V. (Voce) Vb. (Vibrafono) Vc. (Violoncello) Vi. (Violino) Vl. (Viola)