Enzo Zatta LA STAFFETTA Delfina Borgato ex deportata a Mauthausen 2 In copertina: Incisione di una deportata polacca nel lager di Ravensbrück, eseguita il 25 dicembre 1944, giorno del suo compleanno e regalata a Maria Zonta, operaia alla Viscosa di Padova: rappresenta delle deportate in marcia nel bosco di Fürstenberg-Havel. o Stampa giugno 1995 a cura del Comune di Saonara (Pd) o Aggiornato a febbraio 2010 Graphic supporter: Roberto Cavazzin [email protected] 3 PRESENTAZIONE “E' stata l'esperienza dei lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile sembravano ridicoli ...... mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta . Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al lager femminile di Ravensbück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”. ( Primo Levi ) Ho voluto lasciare alle parole di un grande narratore, deportato nei campi di concentramento, l'introduzione al commento di questo piccolo, ma intenso libro, al quale l'Amministrazione di Saonara ha con sincero piacere concesso il patrocinio. Le testimonianze della quotidiana follia vissuta in tutta Europa durante l'oppressione nazista, stanno ancora oggi completando un immenso mosaico, cui si unisce questo tassello, che vede protagonisti la nostra gente, la nostra terra. E quando il racconto si fa straziante esperienza di vita, l'animo di chi legge non può restare impassibile, perché i luoghi e i volti sono conosciuti e fanno parte sì della storia universale, ma anche della nostra storia personale. Ringrazio tutti i promotori di questa significativa pubblicazione, degna appendice delle celebrazioni per il cinquantenario della lotta di Liberazione: leggendolo potremo anche noi imparare molte cose sugli uomini e sul mondo. Il Sindaco di Saonara ( Fabio Amato) 4 INTRODUZIONE Scrivere una pagina di storia sulla Resistenza attraverso la testimonianza di una donna, allora sedicenne, che attivamente vi prese parte, è quanto si prefigge questa memoria. Tuttavia, ascoltare Delfina Borgato, questo è il nome della protagonista, rievocare la sua sofferta storia personale, scritta con il sangue e le oppressioni ferocemente infertale dalla violenza fascista e nazista, è quanto di più malinconico e struggente si possa immaginare ma, almeno, si spera che tutto ciò faccia riflettere su quanto costò riacquistare la libertà dalla dittatura, nonché la riaffermazione di valori positivi indispensabili in una società civile e democratica. La partecipazione delle donne alla lotta di Liberazione non è stato solo un prezioso e mero contributo sotto il profilo politico, sociale e umano, ma una condizione indispensabile per la vittoria stessa della Resistenza. La Resistenza, ossia l’opposizione attiva della popolazione oppressa, si sviluppò nel nostro Paese, durante la Seconda guerra mondiale, su due fronti: contro l’invasione germanica, da una parte, e contro la dittatura fascista, dall’altra. In quest’ambito hanno assunto notevole rilevanza gli episodi e le azioni organizzate da donne, senza riscontro alcuno nel passato. Per lo più giovani, non 5 sempre appartenenti a gruppi o comitati clandestini organizzati, spinte soprattutto da ideali di solidarietà, di carità nonché di avversione e giusto sdegno per gli oppressori, dimostravano un sempre più crescente atteggiamento antifascista e antinazista che, il più delle volte, le rese valorose e anonime militanti. Non mancavano, inoltre, manifestazioni di solidarietà spontanea e istintiva da gran parte della popolazione, desiderosa di collaborare con gli alleati affinché la guerra finisse al più presto. Nel Veneto le partigiane attive, appartenenti alle varie brigate, furono più di seicento e il prezzo che gran parte di loro pagò fu durissimo in termini di sofferenze fisiche e psichiche, quali gli interrogatori, le umiliazioni, le sevizie, il carcere, la lontananza da casa e, per molte, la deportazione nei lager, la detenzione in campi di lavoro, la tortura ed anche la morte. Dagli oltre mille campi di concentramento - i più famigerati dei quali furono Auschwitz1, Treblinka, Dachau, Mauthausen, Ravensbrück, Bergen Belsen - veri lager, il novanta per cento dei primi internati non fece ritorno2. Alcuni dei superstiti3, più di altri segnati dalla atroce esperienza, a guerra finita sentirono la necessità di raccontare, di scrivere le proprie memorie per far giustamente 1 Il lager di Auschwitz fu liberato il 27 gennaio 1945 dall’esercito russo. Dal 2001 lo Stato italiano ed altri Paesi europei hanno decretato questa data “Giorno della memoria”. 2 La più grande strage dell’umanità mai avvenuta, che impropriamente viene definita “Olocausto”. 3 Si suggerisce la lettura di “Se questo è un uomo”, ed. Einaudi, di Primo Levi. 6 conoscere la verità. Tuttavia gran parte di loro, ancora prigionieri di quei ricordi, rimasero in silenzio per l’intera vita, evitando di parlare persino ai propri familiari dei patimenti e delle crudeltà subite. La Resistenza in Italia prese le mosse all’indomani dell’arresto di Mussolini (il 24 luglio 1943 su ordine di Vittorio Emanuele III) e della nomina del Maresciallo Pietro Badoglio capo del Governo, il quale, nonostante le trattative segrete in corso con gli anglo-americani per giungere ad un armistizio, commise il gravissimo errore di dichiarare alla radio che la guerra a fianco dei tedeschi sarebbe continuata. Gli Anglo-Americani, non fidandosi della improvvisa quanto equivoca “conversione” italiana, continuarono a bombardare le città italiane, causando altre migliaia di morti soprattutto tra la popolazione inerme. L' 8 settembre 1943 (l’armistizio in realtà fu firmato in Sicilia a Cassibile il 3 settembre), Badoglio commise il secondo grave errore quello cioè, dopo l’annuncio dell’avvenuto armistizio, di lasciare le truppe italiane senza ordini precisi e senza un adeguato coordinamento strategico-militare, di fuggire assieme al re Vittorio Emanuele, a Brindisi sotto la protezione degli americani. Fu il caos: sfascio dell’esercito italiano; prigionieri alleati e soldati italiani allo sbando; deportazioni da parte dei tedeschi di militari italiani nei campi di concentramento in Germania; tremendi 7 eccidi4 militari e civili. A Saonara, un piccolo paese in provincia di Padova, dove oltre cento prigionieri, per lo più inglesi-sudafricani, lavoravano alle dipendenze dei fratelli Sgaravatti, la solidarietà degli abitanti nei confronti di questi giovani militari, finalmente liberi ma in preda allo smarrimento, braccati dalle brigate nere e dai tedeschi, non si fece attendere. Molti di essi si nascosero, per qualche tempo, nelle vicine campagne e la loro sorte sarebbe stata ben presto segnata se la popolazione non li avesse aiutati, nascondendoli nei fienili e nelle stalle, dividendo con loro il poco cibo a disposizione. Saonara era anche il paese dove Delfina Borgato, primogenita di dieci fratelli, abitava con la sua famiglia, in una casa in aperta campagna di proprietà degli Sgaravatti. La sua, come tante altre, era una famiglia patriarcale di umili origini contadine dai sani e onesti principi morali. Era composta dai genitori di Delfina, da una sorella e otto fratelli, dai nonni paterni e dalla zia Maria, sorella del padre di Delfina. enzo zatta 4 Il massacro di Cefalonia comportò oltre 8.000 vittime. 8 Cenni storico-introduttivi. Erano militari inglesi sudafricani e neozelandesi, i prigionieri catturati durante la Campagna d’Africa, tra il 1940 e il 1941, dall’esercito italo-tedesco, che lavoravano nei campi di proprietà della famiglia Sgaravatti. Custoditi e sorvegliati da soldati italiani nella “boaria” dell'attuale via 28 aprile, classificato come campo di concentramento “C-120”, erano trattati bene e nessuno di loro cercò mai di fuggire. Nonostante vivessero isolati dal resto del paese, riuscivano ugualmente ad avere sporadici contatti con gli abitanti di Saonara, duranti i quali scambiavano sigarette, cioccolata ed altro, con piccoli lavori di cucito o derrate alimentari. Gli anziani del paese li ricordano di passaggio negli spostamenti da una coltura all’altra o a lavorare nei vivai, tra le piante da curare e da potare, sotto il vigile controllo dei soldati. Con l'armistizio, tutti i prigionieri della tenuta Sgaravatti fuggirono e si sparpagliarono, dapprima per il paese, poi tentarono la fuga via mare verso la Iugoslavia e successivamente cercarono di raggiungere la Svizzera. Molti però rimasero nascosti nei fienili, nel bosco di villa Cittadella-Vigodarzere-Valmarana o sistemati nelle cantine delle case, sostenuti ed aiutati da famiglie saonaresi e del piovese. I tedeschi si misero ben presto alla caccia di questi fuggiaschi, senza tuttavia 9 catturarne alcuno, per cui favoriti da spie collaborazioniste fasciste, si vendicarono arrestando coloro che presumevano avessero dato loro accoglienza e assistenza. Il 13 marzo del '44 ci furono i primi arresti. L’accusa: favoritismo al nemico angloamericano. Tra questi c'erano Delfina Borgato di sedici anni, il padre Giovanni e la zia Maria di 45 anni. I Lager - fabbriche di morte Durante la Seconda guerra furono gravemente infranti gli accordi internazionali da quasi tutti i paesi coinvolti nel conflitto, in particolare, nei lager tedeschi,fu violato il trattato sui diritti dei prigionieri di guerra e degli internati civili. I KL5 dislocati in Germania, in Austria, in Polonia..., si contavano a centinaia ed erano tutti luoghi di maltrattamento e di umiliazione. Campi muniti di torrette armate, recintati da filo spinato carico di alta tensione, erano sorvegliati da guardie-aguzzini. La fuga da questi luoghi, salvo qualche rarissima eccezione, era impensabile ed impossibile. Furono milioni coloro che trovarono la morte nei campi di sterminio, in gran parte ebrei. A stenderli per 5 Konzentrationslager: campi di sterminio e annientamento di massa come Auschwitz o Dachau, Bergen Belsen nonché campi di sperimentazione su uomini e donne come Ravensbrück. Da non confondere con i campi di internamento per deportati obbligati a lavorare nelle fabbriche belliche tedesche o i campi di concentramento italiani, attivi fino all’8 settembre ‘43, per prigionieri alleati. Il totale dei campi di sterminio, di concentramento e di lavoro del Terzo Reich, disseminati in Europa dal 1933 al 1945, fu di oltre 1800. 10 terra, la catena umana risulterebbe lunga oltre quindicimila chilometri. Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio del '43, e soprattutto dopo l'Armistizio, l'Italia si trovò coinvolta in un dramma spaventoso. Gli italiani si resero colpevoli, secondo i tedeschi, di tradimento. Per l’Italia, invece, l’armistizio fu la sola via di uscita da una guerra ormai fallita. Per l’esercito tedesco, dopo l’abbandono del Re e di Badoglio, fu gioco facile sopraffare, catturare e deportare in Germania un terzo del nostro esercito sparso in mezza Europa. Oltre 615.000 furono i militari italiani6 che, a fronte della opzione di combattere a fianco dei tedeschi, scelsero di non collaborare e quindi l’ignara via dei lager e dei campi di concentramento. Più di 32 mila non fecero ritorno da questi luoghi di sterminio, altri vennero massacrati da ex camerati, altri ancora finirono fucilati all’istante dai tedeschi. Ad innescare la miccia della Resistenza furono anche queste deportazioni, oltre alla necessità di liberarsi dell’odiato nemico tedesco. I soldati italiani, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e spediti in carri bestiame piombati in Germania, subirono un trattamento peggiore dei soldati di altre nazioni, in quanto ritenuti dai tedeschi rei di tradimento. Per non contrastare le convenzioni di Ginevra, il Terzo Reich declassò i soldati di tutte le nazionalità deportati da prigionieri di guerra a 6 IMI Internati Militari Italiani. 11 “internati militari”. Questo nuovo stato giuridico fu creato artificiosamente dai tedeschi per eludere le norme della convenzione, le quali garantivano ai prigionieri di guerra un trattamento umano e dignitoso tra cui il diritto di sottrarsi al lavoro7 coattivo, cioè imposto contro la propria volontà. Il primo rito nazista, che si svolgeva nei lager di prima categoria, era l'immatricolazione dell'individuo, cui seguiva la requisizione di qualunque oggetto e indumento, la presa delle impronte digitali e la foto segnaletica8. L'essere umano, nudo anche del nome, veniva fatto passare sotto la doccia, ora gelata, ora bollente, quindi poteva rivestirsi con luridi indumenti appartenuti ad altri internati passati a miglior vita. I più fortunati venivano inviati nei campi di lavoro, trattati come schiavi e, al pari di animali da soma, subivano malvagità e barbarie indescrivibili. E’ successo che molti internati sopravvissuti per mesi alla fame, alle malattie, alle torture, siano finiti ugualmente nelle camere a gas o nelle fosse comuni da loro stessi scavate, affinché di essi non rimanesse traccia. Altri ancora, in particolare gli ebrei9, entravano nei forni crematori lo stesso giorno di arrivo o entro pochi giorni. Purtroppo, ancora oggi, nonostante tante vite si 7 Furono migliaia i soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre costretti a lavorare, in condizioni spesso disumane, nelle fabbriche belliche tedesche. 8 Agli ebrei veniva contrassegnato sul braccio sinistro il numero progressivo di arrivo. 9 La Shoah, cioè lo sterminio ebraico perpetrato dalla Germania nazista. 12 siano sacrificate in nome della libertà, dell'uguaglianza e del rispetto alla vita umana e sia trascorso oltre mezzo secolo, la storia si ripete ogni giorno in altre parti del mondo sotto gli occhi di tutti. L'uomo malvagio, egoista, senza scrupoli e assetato di potere, è sopravvissuto e continua imperterrito a creare disastri. Per contrastarlo, non solo bisogna dar voce alla memoria, quale espressione di libertà e di democrazia, ma è necessario compiere un ulteriore passo, impegnandosi personalmente con ogni mezzo affinché tutto ciò non abbia a ripetersi mai più. Ravensbrück è una località della Germania a ottanta chilometri da Berlino, tristemente conosciuta perché è stata sede di un campo di concentramento nazista principalmente per donne. Costruito nel 1939 ospitò circa 130 mila prigioniere, 92.700 delle quali perirono. Le detenute erano sottoposte a lavoro coatto, in condizioni penose tanto nutritive quanto igieniche e, quando si ammalavano, venivano eliminate. Il campo, però, deve la sua fama sinistra soprattutto agli “esperimenti biologici” che si attuarono sulle persone tra il 1942 e il 1943. Ma chi erano queste donne? Dapprima al campo erano destinate le avversarie del regime, uccise e buttate nelle fosse comuni scavate da detenuti comuni privi di scrupoli, poi in massa le 13 francesi, strappate alle file della Resistenza, poi le migliaia di ebree, le russe, le polacche e... le italiane. A Ravensbrück la sveglia suonava alle quattro e trenta del mattino e dopo l'estenuante appello, che durava un paio d’ore, le prigioniere si incamminavano al lavoro attraversando un lugubre bosco di conifere, con una coperta sul capo, in fila per cinque, verso la fabbrica che, prima del conflitto, produceva dischi per grammofoni e, in seguito, fu convertita per la produzione di componenti per aeroplani. Qui, dopo una breve sosta a mezzogiorno per mangiare una gavetta di brodaglia e una fetta di pane nero, lavoravano fino alle sei di sera, quindi, ritornavano stanche e affamate al campo. Non vestivano calze e portavano ai piedi pesanti zoccoli o sandali. Passavano mesi tra un cambio di biancheria e l'altro. Dormivano in sudici pagliericci dividendo una coperta in tre e si lavavano di rado; qualche volta attingevano di nascosto, con la gavetta, l’acqua dagli abbeveratoi dei cavalli. Chi tentava la fuga veniva frustato con 25 nerbate; ciò significava debilitare ulteriormente il fisico e favorire l'insorgere di malattie che costituivano l'anticamera del forno crematorio. Donne contro donne e, fra le tante, c'era Dorothea Binz: la malvagità in persona! Era entrata nel lager a 19 anni come cuoca ed era diventata “aufseherin” (ispettrice). Il suo frustino e i suoi stivali rappresentavano il terrore delle prigioniere. Nel 1947 i 14 tedeschi di questo campo furono processati per le loro barbarie. Allora Binz aveva 27 anni, finì impiccata nel carcere di Hamelin. Quanti deportati riuscirono a tornare vivi dall'inferno dei campi di sterminio? Ben pochi rispetto ai milioni di uomini, donne e bambini che vi erano entrati. Quando i soldati degli eserciti avversari riuscirono a penetrare, nella ormai lontana primavera del '45, nei lager abbandonati dagli aguzzini in fuga, lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu superiore ad ogni, sia pur pazzesca, previsione. Là giacevano file interminabili di cadaveri. Là si aggiravano pallidi spettri di detenuti ancora in vita, dai grandi occhi pieni di una paura senza fine.... Allora, solo allora, si cominciò a conoscere i particolari dell'inaudita macchina da sterminio. A guerra finita, a Norimberga, dal 20 novembre 1945 al 31 agosto ‘46, vennero processati e condannati all'impiccagione dodici degli oltre mille principali responsabili della follia nazista. Di certo la giustizia umana fu fin troppo magnanima con i responsabili di tante atrocità, tuttavia i tanti crimini di guerra, nazisti e non nazisti, commessi, non potranno mai essere cancellati dalla storia dell'umanità. Ciò che rimane viva è la speranza in un mondo migliore, come scrisse Anna Frank pochi giorni prima di essere deportata ad Auschwitz: “Quando guardo il cielo, penso che un giorno il bene dovrà tornare tra gli uomini”. 15 CAPITOLO UNICO 8 settembre 1943 - Saonara Dovetti interrompere la scuola terminate le elementari, perché in casa c'era bisogno di aiuto. Successivamente fui mandata da un signora che abitava in paese a imparare il mestiere di sarta. Fu durante questo periodo che oltre cento prigionieri inglesi, che lavoravano nei campi degli Sgaravatti furono lasciati liberi, in attesa, allora si sperava, di un rapido avanzamento del fronte e della fine della guerra. Invece, dopo otto giorni dalla firma dell'armistizio, iniziarono i rastrellamenti dei tedeschi aiutati da fascisti italiani. Cosicché i prigionieri si diedero alla macchia, nascondendosi nella vicina campagna, vivendo alla meno peggio. Erano aiutati dalle famiglie che vi abitavano poiché avevano proprio bisogno di tutto: cibo, medicine, abiti borghesi e, con l'avvicinarsi dell'inverno, di un rifugio dove ripararsi dal freddo, almeno la notte. Zia Maria, spinta da sentimenti di carità e incurante dei rischi che correva, iniziò ad aiutare questi giovani sbandati come poteva: si recava, nonostante zoppicasse vistosamente a causa di una malformazione congenita, dalle famiglie benestanti del paese a chiedere quanto potessero 16 offrire per aiutarli. All'insaputa della famiglia io collaboravo con lei inconsapevole dei rischi che correvo, animata anche da spirito di avventura ma soprattutto orgogliosa di rendermi utile a persone più grandi di me. Le cose si complicarono e diventarono più rischiose quando sulla popolazione incombette l'ordinanza militare tedesca, con la quale si minacciavano di ritorsioni e pene severissime coloro che fossero stati scoperti a collaborare col nemico. Contemporaneamente erano iniziate le perquisizioni nelle case sospette e, ad aggravare ulteriormente la situazione, contribuì, nel mese di ottobre, l'istituzione di taglie su quanti avrebbero aiutato gli ex prigionieri e gli alleati. Ciò nonostante la nostra attività continuò per tutto l'autunno del '43 e proseguì anche l'inverno. La notte facevamo dormire i prigionieri nel fienile di casa o nella stalla, mentre di giorno si nascondevano nei campi tra le “pannocchie”. Ricordo quanto mio padre si adirasse con Maria perché di notte gli ospiti fumavano, col rischio di dar fuoco al fienile adiacente la casa. Anche mia madre non dormiva sonni tranquilli. Temeva per la sorte della famiglia. Quando, per l’ennesima volta, chiese a Maria di smettere, la zia le rispose: “Un giorno anche i tuoi figli potrebbero essere in giro per il mondo e trovarsi in una situazione simile! Non vorresti che fosse fatto per loro quanto si fa ora per questi poveretti?”. 17 Una volta, essendo necessario far partire in gran fretta un prigioniero che indossava ancora la divisa da militare, quindi facilmente riconoscibile, Maria chiese a mia madre il vestito da sposo di mio padre. Dopo qualche insistenza la mamma glielo diede e il soldato inglese poté ripartire. Ad ogni modo, il pericolo che ci scoprissero e ci denunciassero ai nazifascisti era reale, si rischiava la fucilazione ma, per niente intimorite, continuavamo ad ospitare i prigionieri. Maria ogni volta diceva: “sono gli ultimi”. C'erano due ospiti fissi, i cui nomi non ricordo, poi ne arrivarono degli altri, ed altri ancora, alternandosi non appena questi riuscivano a partire. Venivano anche da fuori paese, in fuga da altri campi di lavoro o da centri di raccolta di altre località. Tra loro si passavano parola che in fondo a una stradina, in mezzo ai campi, vicino a villa Valmarana, c’era una casa abitata da brave persone a cui chiedere aiuto e delle quali ci si poteva fidare. Sul finire dell’anno, un’impiegata della Prefettura di Padova, di nome Elsa, ci fece conoscere le sorelle Martini: Teresa e Liliana. Esse appartenevano ad una rete clandestina che aiutava ebrei, ex prigionieri e soldati allo sbando, a fuggire all’estero. Della stessa rete faceva parte anche padre Placido Cortese, un frate della basilica di S. Antonio, direttore del Messaggero. Era padre Placido che, tra le altre cose, si incaricava di fornire le fotografie, prese tra gli ex voto nella 18 Basilica, da utilizzare nelle carte d’identità false da consegnare a ricercati prossimi alla partenza per la Svizzera: gli espatri verso la Iugoslavia erano falliti, dopo che alcune spie si erano infiltrate nella organizzazione, per cui la frontiera era strettamente controllata dai tedeschi. Fu così che iniziai a tenere i contatti con le sorelle Martini, telefonando dall'unico apparecchio pubblico nel bar del paese, dicendo loro: “Sono pronti due o tre polli, per quando li preparo?”. Poi, saputo il giorno dell’appuntamento, partivamo a piedi da Saonara, di notte, durante il coprifuoco, col cuore che ci saltava in gola per la paura d'essere arrestati; mia zia davanti con uno o due fuggiaschi, io dietro, bicicletta alla mano, con altri due, verso la stazione ferroviaria di Padova, dove eravamo attesi da altre militanti che, fingendosi sorelle o fidanzate, li accompagnavano in treno fino a Milano, da dove proseguivano con altri mezzi di fortuna verso il confine Svizzero. Alla stazione ferroviaria di Padova arrivavano ex prigionieri e ricercati da vari comuni della provincia, ed erano in molti a tentare l’espatrio che rappresentava l'unica via di scampo, poiché restare significava rischiare di essere arrestati. Nel mese di febbraio del ‘44, vennero da fuori paese delle brigate nere, che radunarono mio padre e mia madre, assieme ad altri paesani, nel cortile di villa Sgaravatti e iniziarono ad interrogarli sulla presenza di nemici 19 nel territorio, ma, soprattutto, li minacciarono di arrestarli e bruciar loro la casa, se avessero trovato un solo prigioniero in casa. Preoccupate dalle difficoltà e dai problemi sempre più presenti, decidemmo di limitare l’attività assistendo questi giovani fuori di casa. Nella prima decade di marzo conoscemmo due inglesi ospiti della famiglia Battan di S. Angelo di Piove di Sacco. Una sera, all' imbrunire, mentre tornavo dal lavoro, mi aspettarono lungo la stradina che conduceva alla mia casa, per chiedermi se effettivamente c'era la possibilità di essere aiutati a fuggire all'estero. Riuscimmo, dopo alcuni contatti, ad organizzare anche la loro fuga. Il giorno, dopo la loro partenza, fu accompagnato a casa nostra, dalla signora Battan un certo Franz, ex prigioniero sloveno fuggito dopo l' 8 settembre che, a suo dire, sentendosi a rischio di cattura, era venuto a conoscenza della recente partenza dei due inglesi da noi aiutati a S. Angelo prima e a Saonara poi. A casa c’era mia madre che, ingenuamente, gli diede informazioni sufficienti per capire che effettivamente avevamo dato asilo a due inglesi i giorni precedenti. Franz chiese, così, se si potevano aiutare cinque prigionieri inglesi che, nascosti in casa Battan, non potevano rimanervi oltre, poiché correvano il pericolo di essere scoperti. Come d'abitudine, telefonai alle Martini per avvertire che altri cinque “polli” erano pronti, affinché procurassero 20 loro i documenti. Mi chiesero, come al solito, particolari sul loro aspetto, che però non seppi dare perché non li avevo ancora conosciuti, ma le rassicurai che presto sarei stata in grado di rispondere. Il giorno seguente venne a casa mia Liliana Martini con alcune foto, per scegliere quelle più somiglianti ai cinque e a quell'incontro, purtroppo, era presente anche Franz: l'unico ad averli visti. La sera stessa, dopo il lavoro, mi recai in bicicletta a S. Angelo in casa Battan dove, in una stanza al primo piano, c'erano i cinque inglesi. Appena li vidi, rimasi subito colpita dal loro atteggiamento: erano in piedi, quasi sull'attenti, vestiti elegantemente e col cappello in testa. Dubitai immediatamente che fossero veri prigionieri. Mi rivolsi a loro in dialetto per chiedere da dove venissero e quale fossero le loro intenzioni. Nessuno dei cinque capì una sola parola di quello che avevo detto, mentre, invece, i prigionieri, che fino allora avevo conosciuto, qualche parola l’avevano sempre capita. Franz parlò per tutti e ribadì la loro necessità di fuggire al più presto. Gli risposi che presto sarebbero potuti partire aggiungendosi a un gruppo di altri tre prigionieri. Lungo la strada di ritorno ero tormentata da molti dubbi. Col passare dei minuti mi stavo sempre più convincendo che quelli non fossero prigionieri inglesi, bensì spie tedesche. 21 A casa dissi a mia zia: “Se questa volta passa, è un miracolo”. Le esposi tutti i miei dubbi e non ultimo, quello sul loro aspetto e sul loro atteggiamento, quasi arrogante, mentre, al contrario, gli inglesi conosciuti fino ad allora, erano mal vestiti e, consci dei rischi che si correvano per aiutarli, erano molto rispettosi nei nostri confronti. 22 Maria Borgato a 41 anni 23 13 marzo ‘44 - l’arresto Quella stessa sera c'era nell'aria una strana atmosfera: quasi un presentimento funesto. Verso le undici sentimmo bussare alla porta con una decisione tale da farci sobbalzare per lo spavento. Capimmo subito che non si trattava certamente di amici o di prigionieri inglesi; loro venivano con tutti i riguardi e le accortezze possibili. Persino il nostro cane abbaiava come mai aveva fatto prima. Benché preoccupata dissi alla zia: “Vado io ad aprire e qualora fosse Franz gli parlerò, poiché l'ho incontrato solo io, gli dirò di lasciare in pace il resto della famiglia”. Avevo degli indirizzi di prigionieri già partiti, li diedi a mia madre che li nascose tra le fasce dell'ultimo fratellino nato, che teneva in braccio, e scesi ad aprire. La casa fu presto invasa da fascisti e da SS: correvano su e giù per le scale e si misero a rovistare le stanze, la barchessa, la stalla. Non trovando alcun prigioniero inglese, iniziarono, con atteggiamento minaccioso, a farmi delle domande riguardanti i tre inglesi, ma io negai qualunque circostanza. Mi ordinarono di vestirmi e così pure a mio padre e a mia zia, ma soprattutto di far zittire il cane che, legato alla catena, abbaiava a più non posso. La spedizione era comandata dal giuda Franz, il quale ci ordinò di uscire in cortile al freddo e, dopo averci messo in fila, 24 continuò a farmi domande sui prigionieri inglesi, alle quali rispondevo di non sapere nulla. Franz mi accusò di mentire, in quanto mia madre, qualche giorno prima, gli aveva detto che gli inglesi avevano dormito nella stalla. E continuava: “Dove sono adesso, dove li avete nascosti?”. Fu allora che iniziò a percuotermi alla presenza di tutti gli adulti della famiglia che, pur fremendo dalla rabbia, nulla potevano fare, poiché reagire equivaleva ad una condanna di fucilazione. Ci caricarono sul camion: io davanti, tra una SS e Franz, mio padre e mia zia dietro con gli altri tedeschi. Franz, rifilandomi qualche pugno e tirandomi per i capelli, insisteva nel farmi domande sui prigionieri, alle quali rispondevo sempre allo stesso modo: “Non so dove siano, io li ho incontrati per i campi e in casa non sono mai entrati”. Ero sicura che se avessi confessato di aver dato ospitalità anche a un solo prigioniero, mi avrebbero costretta ad ammettere che ne avevamo aiutati altri e, quindi, a raccontare l’intera storia, coinvolgendo di conseguenza anche altre persone. Perciò decisi di non parlare, ad ogni costo. Passarono per S. Angelo di Piove di Sacco, dove arrestarono la signora Battan e suo figlio, proseguirono per Arzarello e qui prelevarono i fratelli Gelmini, quindi si diressero verso la caserma dei carabinieri di Piove di Sacco. Mio padre, mia zia e tutti gli altri furono rinchiusi in uno stanzone, mentre a me fecero fare il giro delle 25 camerate, dalle quali dei giovani fascisti mi coprirono di insulti e, uno di loro vedendomi, mi schernì ad alta voce: “Sarebbe questa l'artefice di tanto putiferio?”. Arrivata nell'ufficio del capitano delle SS, iniziarono ad interrogarmi e a picchiarmi, con calci, pugni e a pestarmi le dita dei piedi ma io, risoluta, continuavo a ripetere che non sapevo nulla e che non conoscevo nessuno. Dopo alcune ore venni rinchiusa in una cella di isolamento per il resto della notte. La mattina seguente, vennero altri fascisti a vedermi per schernirmi; per tutta risposta girai loro le spalle senza rispondere alle provocazioni. Decisero di tenermi isolata dagli altri reclusi, convinti che, essendo la più giovane, cedessi e raccontassi ciò che era stato fatto fino ad allora. Ripetutamente mi chiesero a quale organizzazione appartenessi, come si tenessero i collegamenti e chi ne facesse parte. Da come mi ponevano le domande, capii che sapevano molte più cose di quante ne sapessi io. Evidentemente avevano bisogno della testimonianza di qualcuno del gruppo e anche il più piccolo particolare poteva tornare loro utile per smascherare altre persone. Verso mezzogiorno il fascista che piantonava il corridoio, preso da compassione, mi offrì la sua parte di rancio, raccomandandomi però di non farmi scoprire. Non feci in tempo ad accettare che entrarono quelli che la sera precedente ci avevano arrestati, per portarci a fare 26 un altro viaggio: destinazione Padova, via Galilei, in una casa antica, dove abitavano le sorelle Martini. Lì trovammo solo Teresa: Liliana era andata in stazione ad accompagnare sua madre che doveva raggiungere la località a lei assegnata come sfollata. Teresa non capì subito che le persone con le quali mi presentai erano fascisti e, quasi sorpresa, mi chiese: “Delfi, come mai qui a quest' ora? Non dovevamo vederci domani?”. Con gli occhi le feci cenno di non parlare ma Franz e gli altri non si persero d'animo e, con maniere brusche, vollero sapere dov'era Liliana. Immediatamente mandarono qualcuno in stazione a verificare se Teresa avesse detto la verità. Quel giorno sfuggì alla cattura un'altro dei dodici figli dei Martini, Lidia di vent'anni; fortunatamente si trovava a Milano per un “trasferimento”. In casa Martini viveva a pensione Milena Zambon, un’impiegata della Banca d’Italia; fu arrestata anche lei. Da Padova, in camion, ci trasferirono tutti a Venezia dove giungemmo all’imbrunire. Durante il viaggio, benché sorvegliati a vista, feci in tempo a bisbigliare a mio padre che dicesse di non sapere nulla dell'attività mia e della zia. Arrivati a Venezia, in piazzale Roma, ci incamminammo in fila per due, sorvegliati dai tedeschi attraverso le calli tra gli sguardi incuriositi della gente. Attraversammo piazza s. Marco ed entrammo nel carcere di S. Maria Maggiore: gli 27 uomini da una parte, le donne da un'altra. Ci accolse una donna alta, magra, vestita di nero, con le chiavi alla cintola: sembrava donna Lucia del Carducci nella poesia “Davanti S. Guido”. Attraversate quattro o cinque porte chiuse a più mandate, arrivammo all'ufficio matricole: qui ci presero le impronte digitali, ci tolsero i lacci, la cintura, gli orecchini e ci condussero in cella. La prima sera mi rinchiusero assieme ad altre quattro donne detenute per reati comuni e con una signora di cognome Raimondi, di Piove di Sacco, che pianse tutta la notte, così una delle detenute le disse: “Piangi pure oggi, ma domani ti abituerai, come ci si abitua a tutte le situazioni, anche le peggiori”. La mattina seguente ci divisero: io in una cella di isolamento - la numero dieci - le altre in celle comuni. I giorni che seguirono ad interrogarmi, usando le maniere forti, furono sempre Franz e uno delle SS. Volavano calci e schiaffi con una tale violenza da farmi sbattere la testa contro il muro. Pretendevano che facessi i nomi degli appartenenti all'organizzazione e confessassi che, in casa nostra, si dava alloggio ai prigionieri inglesi. Se avessi ceduto avrei distrutto la mia famiglia, perciò, ostinata e determinata, sostenni che gli incontri avvenivano fuori, casualmente, lontano dall'abitato. Il vile spione Franz, buon conoscitore del nostro dialetto, insisteva nell'affermare che gli inglesi 28 avevano dormito a casa nostra e voleva sapere quante volte e che fine avessero fatto. Mi faceva tante altre domande alle quali non intendevo rispondere, conscia del fatto che la colpa sarebbe ricaduta su mio padre, unico sostegno della famiglia. Forse si accanivano tanto su di me perché mi ritenevano l'anello più debole della catena o depositaria di chissà quali segreti. Un giorno, dopo la solita razione di botte e le solite domande senza risposta, Franz, perduta la pazienza, diede ordine alla carceriera di riportarmi in cella e di lasciarmi senza mangiare per tre giorni. Furono ore interminabili, sempre sola, durante le quali non udii alcun scuotimento di chiavi, nessuna offerta di cibo. Così il tempo passava e l'isolamento, che ormai durava da un mese, mi pesava molto: la cella dai muri spessi era umida e angusta. C’era una grande finestra, che prendeva luce da una apertura a bocca di lupo, una branda in ferro attaccata al muro e, sul pavimento, un buco munito di sportello in ferro, che conteneva il secchio per i bisogni. Passavo gran parte del tempo pregando e camminando su e giù, dalla finestra alla porta e viceversa, in attesa di quei due schifosissimi pasti: unico privilegio, perché minorenne, un caffè di orzo la mattina. Compii diciassette anni in quella lurida cella e, a parte i fascisti, non parlavo e non vedevo mai nessuno. Trovavo conforto nella preghiera e nella grande fede che ho sempre avuto in Gesù 29 Cristo. Fu senz’altro questo il periodo più triste della mia vita. Dopo oltre un mese, forse stanchi di interrogarmi, i tedeschi mi sottoposero il verbale per la firma, che però rifiutai, perché scritto in lingua tedesca. La SS si arrabbiò moltissimo, ma dovette far riscrivere tutto il testo in italiano. Firmai, convinta che il peggio fosse passato e ci rimandassero tutti a casa. Ma non fu così: seguirono altri giorni di isolamento e altre sofferenze. Un dì venne il cappellano del carcere a confessarmi. Durante il breve incontro lo pregai di riferire a mio padre, chiuso nello stesso carcere, di non lasciarsi coinvolgere e che continuasse a dire di non sapere nulla di quanto facevo fuori casa. Questi, dapprima, rifiutò per paura di essere scoperto poi, su mia insistenza, accettò. Verso la metà del periodo di isolamento, mi fece compagnia per qualche giorno una donna che, spacciandosi per prigioniera, mi chiedeva con troppa insistenza perché mi trovassi in carcere e che cosa avessi fatto di così grave da meritarmi un simile trattamento. Mi consigliava di parlare, di dire tutta la verità, poiché conosceva un comandante fascista che poi mi avrebbe fatto uscire. Capii subito che era della stessa pasta di Franz, così le risposi: “Se sei tanto amica di un comandante, perché non fa uscire anche te da qui?”. Questa presunta prigioniera passò anche nelle altre celle, dove riuscì sicuramente a sapere ciò che le interessava. Fatto sta 30 che mi richiamarono per l'ennesimo interrogatorio al termine del quale mi dissero: “Avevamo deciso di mandarti a casa, ma, visto che non hai collaborato, per punizione ti mandiamo in Germania”. Probabilmente a casa non sarei tornata ugualmente! L'unica buona notizia la ebbi da mia madre il giorno che le permisero di farmi visita: dopo circa quaranta giorni dall'arresto, mio padre era stato liberato e poté tornare a casa dagli altri nove figli. Quel pomeriggio del quattro maggio, infatti, le avevano concesso di farmi visita e di portarmi un pacco con qualcosa da mangiare e da vestire. Continuavo ad essere fermamente decisa a non parlare, per non vanificare i tanti sacrifici fatti da tutti e anche per non darla vinta a persone tanto malvagie e prepotenti. Mi consolavo pensando ai tanti giovani aiutati: più di trenta, tra settembre e ottobre, e un paio di dozzine fino a marzo. Il mio atteggiamento nei confronti degli aguzzini doveva averli indispettiti parecchio, poiché non c’era occasione in cui non mi facessero dei dispetti: rinvio del colloquio, sospensione del pacco o di qualcosa da leggere, o assistere alla messa sulla soglia della porta. Anche durante l'ora d'aria, in uno stretto corridoio all'aperto, ero da sola, così decisi di rinunciarvi. 31 27 luglio ‘44 -Partenza per Bolzano Una mattina ci avvertirono di tenerci pronti perché presto saremmo partiti per una destinazione ignota. Da Venezia partimmo in treno, con me c'erano: zia Maria, che finalmente rividi dopo quattro mesi, le sorelle Martini, la Battan, la Zonta, la Raimondi col marito e il figlio, la Zambon, Erika e Gabri di Gorizia, altre due donne di Piove di Sacco che non conoscevo ed alcuni prigionieri uomini. Quando il treno passò per la stazione di Padova, gettammo dal finestrino dei biglietti indirizzati alle nostre famiglie, nella speranza che qualcuno li facesse giungere a destinazione. Arrivammo a Bolzano assieme a centinaia di prigionieri provenienti da altre città e ci rinchiusero nelle carceri locali, ancora più schifose di quelle veneziane: lì, cimici, pidocchi e scarafaggi erano di casa. Dopo una settimana, selezionarono tra i più giovani quelli che avrebbero dovuto partire per la Germania. Zia Maria era avvilita perché mi inserirono nell'elenco di quelli in partenza. Supplicò un militare tedesco di farmi restare. Un prigioniero, che conosceva il tedesco, ci tradusse ciò che le aveva risposto: “Per ciò che ha fatto, merita di partire”. Fu la prima volta che vidi zia Maria disperarsi, non tanto per la sua sorte, quanto per la mia. Fu anche l'ultimo 32 giorno che la vidi. Ci fecero firmare un registro e, insieme ad altre compagne di sventura, tra le quali una giovane quindicenne di Castel Cerino di nome Pasquina Chiarotto. Rinchiuse in un carro bestiame facente parte di un convoglio che trasportava centinaia di uomini e donne, partimmo con destinazione Mauthausen. Zia Maria, la signora Zonta e la signora Raimondi col marito e il figlio, furono successivamente deportati in un campo di concentramento in Germania chiamato Ravensbrück il 7 ottobre 1944. Un viaggio così lungo non lo avevo mai fatto e ne avrei fatto volentieri a meno, di certo non mi accorsi quanto erano belle le nostre montagne. Ricordo solo di essere stata rinchiusa per giorni in quel carro come un animale, con la puzza di escrementi e la fame che non mi dava tregua. Il mio più grande tormento era però il pensiero che a casa non sarei più tornata. Mauthausen - Lager 39 Arrivammo nella cittadina di Mauthausen poco prima di mezzanotte. Ad attenderci c'erano le SS che, con in mano la frusta, colpivano dove capitava. Così, incolonnati come bestie verso il macello, percorremmo una strada in salita, recintata da filo spinato che portava (noi non lo sapevamo) al campo di 33 sterminio. Lungo il percorso alcune donne tedesche ci sputavano addosso, chiamandoci traditori e amici di Badoglio. Mi sembrava di vivere un incubo! Oltrepassammo il portone del campo di concentramento sul quale c'era la scritta, crudelmente ironica: “Arbeit Macht Frei” il lavoro rende liberi-. Restammo nel cortile, in piedi, per tutta la notte. L'angoscia e lo sgomento ci facevano tremare come foglie al vento. Eravamo ammutoliti dallo spavento. “Da qui” - pensai - “Non si esce vivi”. La mattina seguente, dopo aver firmato su un registro, ci ordinarono di spogliarci e di fare un fagotto di tutto il vestiario perché si doveva andare alla disinfestazione. Dopo una doccia di gruppo con acqua gelata, passammo in un altro stanzone dove rimanemmo lì, in piedi, intirizziti dal freddo fino alle ossa, come nostra madre ci aveva fatto, per ventiquattro ore. Ci restituirono quindi il nostro fagotto di vestiti e a me toccò un paio di zoccoli di misura più grande. 34 Delfina Borgato a Mauthausen Nel frattempo ci assegnarono delle baracche dalle cui finestre vedevamo passare dei prigionieri, in fila come 35 delle processionarie, che sembravano scheletri viventi. Erano rasati in capo e indossavano la nostra stessa divisa: si diceva che stessero lavorando a un'arma segreta. Ancora una volta meditai: “Questa è la sorte che toccherà anche a noi”. Il giorno seguente ci diedero qualcosa da mangiare e facemmo la visita medica che consisteva nella rasatura di peli e capelli. << I prigionieri del campo erano divisi per categorie e contraddistinti da un numero e da un triangolo colorato a seconda dell’appartenenza cucito sulla parte sinistra della divisa a strisce: nero per gli zingari, verde per i criminali comuni, rosa per gli omosessuali, rosso per i politici, la stella di Davide per gli ebrei, viola per i testimoni di Geova. Il mio era rosso con la punta rivolta verso il basso. I criminali detenuti che diventavano kapò avevano un carattere molto duro, arroganti e crudeli, dettavano legge sugli altri prigionieri, comportandosi anche peggio delle SS. Dovevano meritarsi il posto che occupavano e, tra i lavori che dovevano svolgere, avevano anche il compito di togliere la vita e poi bruciare i prigionieri. In cambio ricevevano cibo, medicazioni e il privilegio di dormire in una branda singola. Ogni camerata misurava dieci metri per quindici, ospitava più di centottanta persone (due per tavolaccio) e il cibo consisteva in una fetta di pane nero quasi trasparente e un mestolo di brodaglia scura due volte al giorno. 36 Ogni sei settimane c’era la doccia. Mauthausen, sorto nel 1939, era il campo amministrativo di altri quarantanove campi di concentramento sparsi in tutta l’Austria ed era comandato direttamente dalle SS. Si raccontava che il comandante del campo, il giorno in cui suo figlio compì diciotto anni, gli regalò una rivoltella con la quale il ragazzo uccise a sangue freddo diciotto prigionieri. Un altro nazista, per farci vedere che il filo spinato era attraversato dall’alta tensione, vi scaraventò un bimbo di tre anni sotto gli occhi della madre. Gran parte dei prigionieri maschi lavorava nella cava sottostante il campo. Dovevano, prima di sera, estrarre a colpi di scalpello un masso di roccia a testa, poi ognuno col suo macigno in spalla, risaliva la scalinata della morte. In molti cedevano prima di sera o lungo quella lunghissima, maledetta scalinata. Questo era Mauthausen >>. I primi giorni di agosto, a Linz, vi fu un cruento bombardamento ad opera di aerei alleati: una fabbrica bellica fu centrata in pieno. Vi morirono molte persone, quasi tutti internati, tra i quali molti italiani. Fu quindi necessario rimpiazzarle con altri prigionieri. Dio volle che toccò a noi partire per Linz per prendere il loro posto. Pur consapevoli che la morte di tante persone innocenti ci stava risparmiando dal martirio certo, si risvegliava in noi un barlume di speranza, forse la salvezza. Era questa una delle tante assurdità di una guerra crudele 37 ed inutile. Mentre ci apprestavamo a salire sul camion in partenza per Linz, suonò l'ennesimo allarme. Entrammo in un grande stanzone privo di finestre, con delle strane docce sul soffitto: sembravano delle rose di latta. Prese dallo sgomento del bombardamento alcune di noi gridavano. Entrò, allora, un tedesco che con voce minacciosa ci ordinò di smetterla, altrimenti avrebbe aperto il gas. Una compagna di sventura, arrivata al lager prima di noi, che conosceva la lingua tedesca, ci spiegò: “Questa è la stanza dove vengono gassati i prigionieri, oltre quella porta c'è il forno crematorio dove vengono carbonizzati i loro corpi”. Linz - lager n. 3 Giunti a Linz, ci fotografarono col numero di matricola sul petto e ci fecero firmare un foglio, sul quale c'era scritto: “Al minimo sbaglio, al più piccolo atto di sabotaggio, si ritorna a Mauthausen; al secondo tentativo di fuga c'è la fucilazione”. La vita nel lager, se così la si poteva definire, era una conquista quotidiana: la brodaglia nauseante, a base di cetrioli, pomodori e patate, non bastava mai; l'igiene personale, soprattutto di noi donne, era approssimativa. La temperatura di notte raggiungeva anche i meno venticinque gradi e il pavimento era bagnato d’acqua che, ghiacciandosi, imprigionava gli 38 zoccoli al pavimento. Sudiciume e sporcizia favorivano il proliferare di pidocchi, cimici e malattie che debilitavano il fisico e la mente dei prigionieri. La situazione era talmente drammatica che, alcuni di noi invocavano la morte come una liberazione. La lager fùhrerin10 ci trattava con durezza, pronta a punirci severamente ad ogni minimo sbaglio. Nella nostra baracca vivevano circa 30 donne (alcune erano madri e figlie), di diverse nazionalità: greche, armene, francesi, polacche, rumene, slave, italiane e Pasquina. Pasqui fu arrestata assieme al padre perché i tedeschi, non trovando il fratello che faceva il partigiano sui colli veronesi, si vendicarono deportando loro due. Io e Pasqui eravamo diventate inseparabili e ci aiutavamo a vicenda. Lei, dal carattere più timoroso, non faceva un passo senza di me e quel niente che avevamo ce lo dividevamo: un pezzo di sapone, qualche cencio stralavato e soprattutto la paura di morire sotto le bombe. Insieme affrontavamo anche le crisi di nervi alle quali Erika, la ragazza slava incontrata a Venezia, andava spesso soggetta. Nella fabbrica dove lavoravano circa duecento persone, in gran parte internati, si facevano turni di dodici ore al giorno; il sonno non ci dava tregua e c'era sempre il pericolo di finire sotto un macchinario. Il meister (maestro) era un brav’uomo: un giorno, vedendomi 10 Comandante delle baracche. 39 esausta per la febbre e la stanchezza, mi sostituì al trapano per un po'. Un'altra volta, quando rischiai di finire con una treccia sotto il trapano, mi procurò una retina per raccogliere i capelli. Era pesante sostenere quel ritmo e, a volte, di proposito, rompevo la punta del trapano così, in attesa che venisse sostituita, Pasqui ed io potevamo riposarci qualche minuto. C'erano anche momenti o situazioni che mi esasperavano e allora rispondevo ai capi per le rime in dialetto veneto. Pasqui in lacrime mi supplicava: “Taci, taci, per carità lascia perdere perché questi a casa non ci mandano più”. Ma, quando si è giovani, si è anche incoscienti e alle conseguenze, spesso, non ci si pensa. Ma c'era di peggio! I continui e improvvisi bombardamenti di notte e di giorno, che ci costringevano a precipitose fughe nei rifugi con il conseguente salto del pasto, mettevano a dura prova lo stato psichico, già duramente provato. Se alzavo lo sguardo verso l'alto, era per veder passare squadre di aerei che minacciosi oscuravano il cielo, altre volte il tramonto infuocato dopo un bombardamento. Quando suonava l'allarme, mentre eravamo al lavoro, scappavamo fuori e poco lontano, scesi tre gradini, ci riparavamo dietro un muro che nulla avrebbe potuto contro una bomba. La domenica non si lavorava e, quindi, non si mangiava. Si andava allora in città alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti o, 40 semplicemente, a trovare riparo nella galleria-rifugio. A volte non c'era posto per tutti e allora, noi internati, venivamo spinti dai cittadini tedeschi in fondo alla galleria ancora in costruzione, dove si era maggiormente esposti alle schegge delle bombe. Durante una di queste uscite domenicali, il venti agosto 1944, incontrammo, vicino al Duomo di Linz, i due padovani che avevamo conosciuto al campo di smistamento 39, anch’essi deportati per motivi politici. Uno si chiamava Andrea Redetti, un’amicizia che si consolidò e ci permise di affrontare con più ottimismo il dramma che stavamo vivendo; la malinconia, le umiliazioni e la nostalgia di casa ci pesavano meno. Noi internati eravamo legati da un forte sentimento di amicizia vera che ci legava ed un profondo senso di solidarietà; si dividevano le grandi paure e le piccole gioie: mezza patata o un tozzo di pane raffermo trovato sotto le macerie di qualche abitazione appena bombardata, rendevano la giornata meno triste. A volte si riusciva persino a scherzare e a ridere. Il 17 settembre Liliana Martini partì per Grein a lavorare in un'officina situata sotto il castello; venne raggiunta, dopo nove giorni, dalla sorella Teresa e da Gabri. Dopo tante sofferenze e tanti giorni passati insieme a darci reciproco aiuto e conforto, ci separammo. Veniva così a mancare il sostegno morale che la vera amicizia può dare nel momento del 41 bisogno. Per me fu un periodo molto triste poiché non riuscivo a trovare alcuna motivazione per la quale valesse la pena di continuare a vivere, se non quella di resistere per tornare dai miei cari che, sicuramente stavano soffrendo, non sapendo nulla di me. Mi sentivo terribilmente sola e abbandonata, in preda allo sconforto e col terrore di finire sotto le bombe senza rivedere i miei cari. I ricordi della mia infanzia, di quando giocavo e correvo spensierata, sembravano frutto della mia immaginazione, tanto era crudele e ingiusta la realtà del presente. I bombardamenti sui campi, sull'officina e sulla città continuavano senza sosta, soprattutto di domenica, perché gli alleati sapevano che non si lavorava e quindi erano persuasi di fare meno vittime. Il 4 novembre trovarono la morte, sotto le bombe, numerosi italiani ed altri restarono per giorni senza baracca. L'otto novembre arrivò la prima neve e anche la prima rara lettera da casa che però mi fu consegnata, per punizione, dopo otto giorni dalla lager-fùhrerin: disse di aver trovato il mio letto in disordine durante l’ispezione mattutina. A casa stavano tutti bene, era nata mia sorella Giovanna. Benché fossi demoralizzata e rassegnata ad accettare una situazione senza via di scampo, ero contenta di sapere che mio padre stesse bene e non avesse subito la mia stessa sorte. Una parte di me era orgogliosa per aver resistito ai fascisti e alle SS, che tanto avevano 42 fatto per farmi “confessare”, e gratificata al pensiero di aver potuto aiutare tanti giovani. “A volte mi chiedo quali motivazioni mi avessero spinta a mettere a repentaglio la tranquillità mia e della famiglia per aiutare degli sconosciuti. Certamente fu l'esempio di mia zia, nonché una buona dose di incoscienza, ma soprattutto la compassione che provavo guardando gli occhi imploranti di quei giovani nel momento del bisogno: tutto il giorno non pensavo che a loro e a come li avrei potuto aiutare”. Verso la fine di novembre si rese necessaria una visita sanitaria generale, poiché alcune di noi avevano contratto la scabbia. La conseguenza fu: digiuno per tutti e pulizia a fondo delle baracche. Alle acari della scabbia si aggiungevano i pidocchi che, insinuati tra le coperte e i vestiti, ci succhiavano il sangue. Inoltre pulci e scarafaggi formavano un altro esercito col quale lottare quotidianamente. A dicembre, febbre e tosse mi costrinsero a letto. Al posto del medico venne un poliziotto a sgridarmi e la lager fùhrerin a rispedirmi al lavoro. La vigilia e il Natale li passai a letto, mentre fuori si susseguivano ininterrottamente preallarmi, allarmi e bombardamenti. Il giorno di s. Stefano, mentre lavoravo in officina con la febbre, suonò l'ennesimo allarme e fummo costretti ad uscire fuori al gelo: quel giorno ci fu un fortissimo bombardamento durante il quale una bomba cadde così vicino al nostro 43 paraschegge che ci salvammo per miracolo. Quando gli alleati bombardavano, anche per due o tre ore di seguito, nulla veniva risparmiato. La terra tremava in continuazione e, come il lampo del temporale precede il tuono, così ad ogni sibilo seguiva uno scossone. Spesso pregavo Iddio che fosse l'ultimo ma, quasi sempre, mi sbagliavo. Durante la prigionia conoscemmo un ex maggiore dell’aviazione di Novara di nome Cleto. Egli svolgeva il lavoro di lager-posttrager11. La sua posizione gli consentiva il libero accesso al campo. Fu così che nacque tra noi una forte simpatia: mi regalava una patata o un po' di carta per scrivere lettere che mai sarebbero arrivate a destinazione ma, soprattutto, dopo la partenza delle compagne per Grein, la sua presenza mi risollevò il morale. Un giorno Cleto fu picchiato perché sorpreso a rubare in un campo di patate: lo salvò la sua padronanza della lingua tedesca. La speranza che la guerra sarebbe presto finita si faceva sempre più concreta; Cleto ci assicurava che gli alleati erano ormai vicini ed era questione di giorni. Ma, col passare delle settimane, l'unico cambiamento fu l'intensificarsi dei bombardamenti. Verso la fine di febbraio, nel bunker della stazione, incontrammo dei padovani di Pontelongo, del Bassanello, di Vigonovo e di Ponte S. Nicolò. Questo incontro ci risollevò il 11 Portalettere 44 morale e ci aiutò a non perdere la speranza di tornare a casa. Arrivò anche il giorno di Pasqua e come “regalo” venne centrata la cucina, così restammo tre giorni senza mangiare. A volte, Pasqui ed io scavavamo tra le macerie alla ricerca di cibo, ma con scarsi risultati. 12 aprile '45 – fuga dal Campo La prima settimana di aprile in fabbrica c’era poco lavoro dato che i tedeschi stavano trasferendo i macchinari a Grein per cui ricevemmo l'ordine di tenerci pronti a partire. Da Grein ci scrissero le Martini, avvertendoci di sottrarci alla partenza perché Vienna era ormai occupata e il cannone dei soldati russi sparava vicino al Danubio. Ci consigliavano di tentare la fuga dal campo. La sera del 12 aprile, Pasqui ed io decidemmo di scappare dal campo. Fuori faceva buio e pioveva, riuscimmo ad eludere le guardie e, superata la recinzione, ci dirigemmo verso la città dove, lungo la strada, ci stavano aspettando Cleto ed un suo amico di nome Bruno. Pasqui andò avanti con Bruno, Cleto ed io li seguimmo a distanza. Arrivati in città un poliziotto fermò Pasqui e Bruno. Girammo per un'altra strada ad aspettarli. Poco dopo, con nostra gioia, ci raggiunsero. 45 Trovammo ospitalità presso una signora che conosceva Bruno, proprietaria di un forno e alla quale raccontammo di essere le sue cugine sfollate da Vienna. Presa da compassione ci mise a disposizione una stanza priva di vetri e piena di calcinacci, ma che per noi andava benissimo. Ci promise pure che si sarebbe recata all'Arbaissant12 a chiedere un permesso di lavoro per noi. Nel frattempo io trovai da lavorare presso l'hotel Scharmùller. Il lavoro era duro. Più di sessanta stanze da riordinare erano tante per me e la sera tornavo distrutta dalla fatica. Il diciotto di aprile passarono per Linz Erika e Gabri, anche loro fuggite dal campo, volevano tentare il rientro in Italia. Il loro distacco mi rattristò perché ci volevamo molto bene. Due giorni dopo anche Teresa e Liliana riuscirono a raggiungerci ma, non trovando i giusti contatti per comunicare con gli alleati, furono costrette a ritornare a Grein. Intanto i bombardamenti continuavano sempre più incessanti sulla città e l’eventualità di morire sotto le bombe era reale. La mattina del 25 aprile mentre stavo riordinando una stanza che dava sulla piazza speravo che almeno quel dì, l'allarme non suonasse, invece si udì l'ennesima sirena. Pasqui venne a chiamarmi ma io, stanca di correre ad ogni suono di sirena, le risposi che al rifugio non ci sarei andata. Poco dopo ritornò con Cleto al quale risposi 12 L' ufficio dove venivano rilasciati i permessi di lavoro. 46 allo stesso modo, perché volevo essere lasciata in pace. “Hai per caso perso la testa” mi gridò “Vuoi forse morire ora che sono gli ultimi giorni”. Così dicendo mi spinse giù per le scale obbligandomi a seguirlo al rifugio. Bombardarono ininterrottamente per ore: le bombe scendevano a grappoli facendo tremare l'intera galleria. La sabbia ci ricopriva e i continui spostamenti d'aria ci facevano pensare che fosse giunta la fine. Per lo spavento Pasqui perse la voce, e Cleto, se gli chiedevamo qualcosa, rispondeva a stento. Passò una prima ondata di bombe, ne arrivò un'altra e un'altra ancora: la paura diventava terrore, non si parlava più e anche chi, come Cleto, era solito dire qualcosa di spiritoso per dare coraggio, era ammutolito. Venne colpita l'entrata della galleria e noi, che eravamo i più vicini, fummo coperti di polvere e di detriti. Dopo cinque interminabili ore il bombardamento smise. Ancora sotto shock, uscimmo dalla galleria. Il fumo degli incendi copriva il sole, la città era un cumulo di macerie. Alcuni prigionieri russi, scortati da sentinelle tedesche, scavavano tra le macerie in soccorso dei superstiti. A pochi passi da noi, un prigioniero, che stava scavando tra le macerie, toccò inavvertitamente con la pala una bomba facendola esplodere, senza rimanere fortunatamente ucciso. In tutta fretta ci avviammo verso quello che rimaneva del centro della città. Giunti all' hotel dove 47 lavoravo, lo trovammo completamente distrutto. Un brivido mi percorse la schiena: ero viva grazie a Cleto! Da quel momento la nostra preoccupazione più grande fu come procurarci da mangiare e dove dormire. Girovagammo da un posto all'altro, scavando tra le macerie e mangiando ciò che trovavamo. La sera si dormiva in galleria per terra: unico lusso, un paio di coperte che ci furono rubate quasi subito da un italiano che pareva onesto. La mattina del 27 aprile, non sapendo dove andare, decidemmo di tornare dalla proprietaria del forno. Da lontano la vedemmo parlare con dei poliziotti. Cleto si avvicinò per ascoltare e sentì che stava denunciando due italiane (cioè noi) per il furto di un sacco di zucchero, il che non era vero! Dovemmo, nostro malgrado, allontanarci in fretta poiché, oltre ad essere ricercate dai soldati del campo, da quel momento correvamo il rischio di essere arrestate per furto dalla polizia locale. Il primo maggio, vagabondando lungo il Danubio alla ricerca di qualche negozio aperto, per barattare un buono valido per due chili di patate con un chilo di pane, sentimmo la radio che comunicava la notizia della morte di Hitler, cosa che in quel momento ci lasciò abbastanza indifferenti tanta era la confusione che si era creata. Capimmo senz'altro che la Germania aveva perso definitivamente la guerra. Sporchi e affamati ci dirigemmo in un campo profughi, ma 48 anche lì cominciarono ad arrivare le cannonate degli americani e perciò fummo costretti a ripararci dietro un paraschegge per due giorni e due notti. La mattina del terzo giorno smisero di sparare; Cleto uscì per vedere com’era la situazione e tornò poco dopo gridando: “Sulla ciminiera c'è la bandiera bianca! La guerra è finita”. Questo accadde il cinque maggio 1945 giorno che segnò finalmente la fine di un incubo. La gioia della gente era indescrivibile. Tutti i cattivi propositi di vendicarsi di questo o quel tedesco, a guerra finita, lasciarono il posto a manifestazioni di incontenibile gioia per la speranza ormai concreta di tornare a casa molto presto. La sera si festeggiò in baracca fino a tarda notte. Purtroppo non fu possibile tornare subito a casa perché non c'erano mezzi. Gli americani, che nel frattempo avevano occupato la città, organizzarono centri di assistenza sanitaria e sociale. Iniziò una lunga attesa durante la quale Pasqui ed io, cercavamo di renderci utili come potevamo. A volte si andava all’ospedale di Linz per assistere e dare conforto a quanti vi erano ricoverati. Qui regnava una confusione indescrivibile: continuava ad arrivare gente da ogni parte, persone gravemente ferite a causa dei bombardamenti, o affette da malattie molto gravi. Molti degli internati di Mauthausen e di altri campi, gravemente denutriti, una volta usciti dai lager, trovarono la morte rimpinzandosi delle prime cose 49 commestibili capitate loro sottomano, ciò creava nel loro organismo, fortemente debilitato, un tale malessere che spesso diventava letale. Altre persone, scavando tra le macerie alla ricerca di un familiare o di quello che restava delle proprie cose, restarono uccise dallo scoppio di una bomba inesplosa. La guerra continuava a mietere vittime innocenti anche dopo la sua fine! Dopo tante peripezie riuscimmo, il venticinque giugno, a raggiungere Bolzano e da lì, un po' a piedi e grazie a qualche passaggio di fortuna, giungemmo a Verona. Pasqui, Cleto ed io ci salutammo affettuosamente con la promessa che presto ci saremmo rivisti. La domenica del 29 giugno, giorno dei santi Pietro e Paolo, giunsi a Saonara dove venni accolta festosamente dall'intero paese e naturalmente dalla mia famiglia. Ero felice di poter riabbracciare i miei cari, di rivedere la mia casa i luoghi della mia infanzia e poter respirare i profumi della mia amata terra che per tanto tempo avevo solo sognato. Un unico pensiero offuscava la mia gioia, non trovare zia Maria a casa ad aspettarmi. Da Bolzano era stata deportata a Ravensbrück lager 17, assieme a Milena Zambon e a Maria Zonta, che, successivamente furono trasferite Fürstenberg-Havel per cui scamparono alla morte, e fecero ritorno, mentre di Maria non si ebbero più notizie. Coloro che la videro gli ultimi giorni dissero che si era ammalata 50 gravemente e ciò non le permise di salvarsi. Venni pure a sapere della grande tragedia che aveva colpito la comunità di Saonara poche settimane prima del mio ritorno: l’eccidio di Villa Bauce13. Qualche giorno dopo il mio ritorno accadde un fatto che mi fece comprendere quanto la triste e dura esperienza vissuta non aveva lasciato in me sentimenti di odio o di risentimento verso alcuno. <<Una sera, tornando a casa dal lavoro, sempre lungo quella stradina che tanti guai mi aveva procurato, incontrai un giovane militare tedesco prigioniero degli alleati, che viveva alla meno peggio nella barchessa di villa Valmarana. Come tanti suoi commilitoni, aspettava di essere rimpatriato. Nel frattempo, visto che la sorveglianza era pressoché inesistente, usciva la sera in cerca di qualcosa da mangiare presso le famiglie del posto. Aveva in mano un paio di scarpe da militare da scambiare con qualcosa da mettere sotto Villa Bauce di Saonara evoca tristemente l’eccidio del 28 aprile 1945. Quella sera, l’incoscienza di alcuni partigiani comandati da Luigi Tombola di Camin portò al ferimento di tre soldati tedeschi presso villa Pimpinato. Ciò scatenò la furia del comandante di cinquecento soldati della Wermacth, ormai in ritirata, che si trovava a villa Bauce, poco distante. La reazione tedesca fu immediata: un rastrellamento che ebbe come epilogo la drammatica morte di dieci civili, tra cui un bimbo, Agostino, di appena cinque anni. A questo seguì l’eccidio di trentaquattro uomini mediante esecuzione con un colpo alla nuca sul ciglio del fossato di villa Bauce. 13 51 i denti. Dopo quanto mi era successo avrei voluto dirgliene quattro ma, presa da compassione e ricordando per esperienza personale che cosa significasse la parola fame, lo condussi a casa. La mia famiglia lo ospitò quella sera ed altre ancora. Un pomeriggio, forse per sdebitarsi per l’ospitalità che riceveva, arrivò con in mano un paio di briglie da cavallo prese chissà dove e ce le regalò. Recuperò in fretta le forze necessarie per riprendere il cammino e non lo rivedemmo più >>. *** 52 Elenco di alcuni Lager Auschwitz Belzec Bergen Belsen Bolzano Buchenwald Chelmno Dachau Dora Mittelbau Esterwegen Flossenbürg Fossoli Gross Rosen Majdanek Mauthausen Natzweiler Struthof Neuengamme Ravensbrück Risiera di San Sabba Sachsenhausen Sobibor Stutthof Treblinka 53 anno di apertura 1940 1942 1943 1944 1937 1941 1933 1943 1943 1938 1942 1940 1941 1938 1941 1938 1938 1943 1936 1942 1939 1942 I dati relativi al numero dei luoghi di detenzione sono stati estrapolati dal libro “La mappa dell’inferno” di Gustavo Ottolenghi – ed. Sugarco Edizioni – 1993. 54 Bibliografia 1. A.N.P.I. Padova (a cura di), Donne nella Resistenza. Testimonianze di partigiane padovane. Milano, Zanocco, 1981. 2. L. BECCARIA ROLFI - A. M. BRUZZONE, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane. Torino, Einaudi, 1978. 3. E. GATTI, Lager. Storia inedita dei campi di sterminio d’Europa, Modena, Toschi, 1993. 4. G. Ottolenghi, La mappa dell’inferno. Sugarco Edizioni,1993 5. P. GIOS, Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di sterminio tedeschi. Padova, Associazione volontari della libertà,1987. 6. V. MARANGON, Resistenza padovana tra memoria e storia. Padova, Centro studi Ettore Luccini-Il Poligrafo, 1994. 7. S. NAVE, 50°. L’offensiva aerea alleata. Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto 1943-1945. Comune di Padova, 1993. 8. V. PAPPALETTERA, Nei lager c’ero anch’io. Milano, Mursia, 1973. 9. A. SALMASO, Saonara,Villatora, Tombelle, Celeseo. Storia e antologia. Comune di Saonara, 1995. 10. C. SAONARA (a cura di), Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto. Venezia, Marsilio, 1990. 11. L. SCALCO (a cura di), Numero monografico per il 50° anniversario della Resistenza, in “Storia e cultura” n° 13-14, gennaio-giugno 1994, Centro studi O. Peron, Cittadella. 12. L. STERPELLONE, Le cavie dei lager, Milano, Mursia, 1978. 13. G. TEDESCHI, C’è un punto nella terra. Firenze, Loescher, 1997. 14. P. A . TOTTOLI, Ho soccorso Gesù perseguitato, in “Messaggero di S. Antonio”. Padova, 2001. 15. E. ZATTA, Maria Borgato, Una vita firmata dono. Cleup, 2002. 55 Delfina Borgato, classe 1927, cresce a Saonara (Pd) in una famiglia di umili origini, trascorrendo un’infanzia serena e felice. Il 13 marzo 1944, a sedici anni, Delfina e sua zia Maria Borgato, per aver prestato soccorso a ex prigionieri alleati, vengono arrestate dai nazifascisti. Nel carcere di santa Maria Maggiore di Venezia Delfina subisce violenti interrogatori, che però non la piegano; chiusa in carro bestiame, viene deportata nel lager di Mauthausen e in seguito trasferita nel campo di concentramento di Linz. Sopravvissuta ai campi di concentramento, ritorna a Saonara il 29 giugno 1945. Per molti anni cerca di dimenticare la terrificante esperienza, evitando di raccontare persino ai propri familiari i mesi di prigionia. Nel 1979 il Comune di Saonara intitola la piazza principale a Maria Borgato. Per Delfina, a questo punto, il parlare dei patimenti e delle crudeltà subite è inevitabile, soprattutto agli incontri con gli studenti nelle scuole delle province di Padova, Vicenza e Verona che sempre più spesso la invitano. Il 20 dicembre 2005 il Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, nomina Delfina Borgato “Cavaliere della Repubblica italiana”. Il 28 gennaio 2006, al Teatro Verdi di Padova, viene presentato il dramma in due tempi di Luigi Francesco Ruffato “Maria Borgato vittima del nazifascismo”. Tra i personaggi del dramma figurano: Delfina diciassettenne e Delfina da adulta. Nel 2008 il Comune di Padova consegna a Delfina Borgato il sigillo della città e lo stesso giorno, nel Giardino dei Giusti di Padova, scopre una stele col suo nome. Da molti anni Delfina vive a San Bonifacio (Vr). Enzo Zatta è nato a Padova nel 1953. Sensibile cultore di storia locale, nel 2002 ha scritto la biografia di Maria Borgato dal titolo “Maria Borgato - Una vita firmata dono”. (Cleup 2002). Dal 1995 raccoglie testimonianze di reduci ed internati della Seconda guerra mondiale, promuovendo incontri ed audizioni, soprattutto nelle scuole, incentrati sulla memorialistica dell’Ultimo conflitto. 56