il ruolo dello stato nella concezione liberista e riformista

EQUILIBRIO SIMULTANEO, DISEQUILIBRI INTERNI
ED ESTERNI E POLITICHE DI AGGIUSTAMENTO
Nel I Capitolo parlando delle variabili che interagiscono con la bilancia dei
pagamenti, in primo luogo, il tasso d’interesse, il tasso di cambio, il livello dei prezzi
e del reddito, è apparso evidente come l’economia interna è correlata con la bilancia
dei pagamenti e come l’equilibrio interno possa essere compatibile o non con quello
esterno. Abbiamo osservato anche che la domanda estera di moneta interna deriva
dalle esportazioni di beni e dagli afflussi di capitale e che l’offerta estera di moneta
interna deriva dalle importazioni di beni e dai deflussi di capitali. Se i tassi di cambio
sono perfettamente flessibili, nel caso in cui ad un tasso di cambio la quantità
domandata md è maggiore di quell’offerta ms di moneta interna, questa si apprezzerà
e il tasso di cambio (certo) aumenterà o non se incerto fino a che md=ms, cioè finché
il saldo positivo della bilancia dei pagamenti non sarà in equilibrio (Bp=0). Se i tassi
di cambio sono perfettamente fissi e se md>ms, le autorità monetarie estere dovranno
usare le riserve per far fronte ai debiti, lo stesso se md<ms. Con i campi flessibili il
riequilibrio della bilancia dei pagamenti è automatico; con quelli fissi è contabile; nel
primo l’offerta di moneta interna varierà in seguito alle variazioni del tasso di
cambio, variazioni che renderanno più o meno costoso l’acquisto della moneta estera;
nel secondo l’offerta di moneta interna varierà in seguito alle variazioni delle riserve.
In entrambi i casi non ha senso ipotizzare che l’offerta di moneta ms sia un dato
esogeno al modello che rappresenta l’economia interna. Quindi per definire più
compiutamente un equilibrio simultaneo (interno ed esterno) abbiamo bisogno di
considerare contemporaneamente i tre settori dell’economia dei beni (settore reale),
della moneta (settore monetario) e degli scambi (beni contro moneta e moneta contro
moneta) con l’estero (settore internazionale). Nel II Capitolo ci occuperemo
dell’equilibrio simultaneo e delle politiche economiche da attuare per eliminare
eventuali situazioni di squilibrio in presenza di tasso di cambio fissi e flessibili,
presentando per entrambi l’approccio Keynesiano e quello monetarista. Per
evidenziare le diversità dei due modelli e relative implicazioni macroeconomiche,
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tale presentazione sarà preceduta da un breve richiamo del ragionamento su cui essi si
basano e relativo contesto storico.
IL CONTESTO STORICO E IL FUNZIONAMENTO DEL
MODELLO KEYNESIANO
Il 1929 fu un anno di crisi dell’economia mondiale e dell’analisi macroeconomica
classica. Il convincimento classico che ci fossero in economia meccanismi automatici
tendenti a realizzare un equilibrio di piena occupazione apparve in evidente contrasto
con una realtà che mostrava una disoccupazione evidente e senza precedenti, negli
anni della Grande Depressione (1929-1934) in USA e nel Regno Unito la
disoccupazione non scese mai al di sotto del 10% e nei periodi peggiori superò il
20%; nell’ottobre del 1923 in Germania, il tasso di inflazione era del 32,5 % al mese;
il sistema monetario entrò in crisi e ritornò il baratto. I classici pensavano che la
causa principale della disoccupazione fosse la rigidità dei salari verso il basso, difesa
in modo compatto dai sindacati, e ritenevano che bisognava ripristinare una
flessibilità perfetta dei salari reali per superare la crisi. Una caduta dei salari avrebbe
consentito un aumento della domanda di lavoro, dell’occupazione e produzione.
Questo ragionamento venne contestato da Keynes che espose il suo punto di vista
diverso nella sua TEORIA GENERALE dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta del 1936. Infatti, affermava che indipendentemente dalla rigidità dei salari
verso il basso, ci potesse essere nell’economia un equilibrio di sottoccupazione e per
sostenere la sua tesi ribalta il ragionamento classico. Nella sua teoria della
determinazione del reddito nazionale sostiene che il livello dell’occupazione e della
produzione sia determinato dalla domanda effettiva aggregata e che non esistono
meccanismi automatici tendenti ad assicurare la piena occupazione. I redditi, afferma
Keynes, sono il prezzo di prestazioni corrispondenti a delle domande; il livello del
reddito Nazionale dipende da due categorie di spese, quelle per CONSUMI E SPESE
e per INVESTIMENTI. Le prime dipendono dalla propensione al consumo, le
seconde sussistono fintantoché esiste un divario positivo tra l’efficienza marginale
del capitale e il tasso di interesse. L’efficienza marginale del capitale è quel tasso
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ideale di sconto che, applicato alla serie di annualità costituite dai rendimenti scontati
di questo capitale durante la sua esistenza, rende il valore attuale delle annualità
uguale al prezzo di offerta di questo capitale. La più elevata di queste efficienze
marginali può essere considerata l’efficienza marginale del capitale in generale.
L’efficienza marginale del capitale è il primo elemento che agisce sulle decisioni di
investire degli imprenditori, il secondo è il tasso d’interesse. Ricordiamo che un
imprenditore decide di investire fondi liquidi, solo quando il tasso d’interesse, al
quale egli prende in prestito, è inferiore a ciò che egli spera di ricavare dopo averli
investiti. Il tasso d’interesse non è il prezzo del risparmio e il risparmio non dipende
dal tasso d’interesse, il risparmio è semplicemente un residuo del reddito una volta
soddisfatta la domanda di consumo. Il tasso d’interesse dipende pertanto da una
disponibilità psicologica del risparmiatore e cioè dalla sua preferenza per la liquidità.
Tal preferenza, secondo Keynes, dipende da tre motivi: TRANSAZIONE,
SPECULAZIONE e PRECAUZIONE, nonché dall’ammontare della circolazione
monetaria perché se questa aumenta il tasso di interesse tende a diminuire a parità di
preferenza per la liquidità. L’ottica Keynesiana è decisamente macro, può darsi che in
una singola impresa la caduta dei salari, riducendo i costi, tenda a stimolare la
produzione, viceversa in un’economia la caduta dei salari riduce i redditi disponibili
per la spesa e tende a deprimere il livello dell’attività economica e dell’occupazione e
quest’ultimo, riducendo la capacità di produrre reddito, tende a deprimere i salari.
L’analisi Keynesiana spiega l’arresto dello sviluppo di un’economia capitalistica ed il
conseguente equilibrio di sottoccupazione e nella prospettiva l’economia ristagna il
livello dei salari sarà l’effetto e non la causa come ritenevano i classici del volume
dell’occupazione. Le cause sono tre: la progressiva riduzione della propensione
marginale al consumo, la diminuzione dell’efficienza marginale del capitale,
l’eccesso di preferenza per la liquidità. Lo sviluppo dell’economia tende ad
aumentare il reddito prodotto e distribuito, la domanda di consumi cresce meno
rispetto alla crescita del reddito, il risparmio cresce al crescere del reddito. Una
distribuzione equa del reddito tende ad accrescere la propensione al consumo e la
domanda aggregata effettiva, Keynes ritiene che se l’occupazione e pertanto il reddito
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globale crescono, l’occupazione addizionale non sarà interamente richiesta per
soddisfare i bisogni del consumo addizionale, la soluzione non può che consistere
nella disoccupazione e in un conseguente impoverimento che limiti l’eccesso del
reddito sui consumi. Poiché la domanda aggregata effettiva è costituita anche la
domanda d’investimenti, è possibile che la progressiva e tendenziale caduta della
propensione al consumo sia compensata da un’analoga progressiva e tendenziale
crescita della domanda d’investimenti. Questa possibilità è esclusa dall’analisi
Keynesiana a causa dell’interrelazione che agisce nel senso di ridurre il divario
positivo tra l’efficienza marginale del capitale e il tasso d’interesse. L’efficienza
marginale del capitale tende a cadere se la propensione al consumo tende a cadere.
L’efficienza marginale del capitale tende a cadere anche per un’altra ragione non
meno importante della prima; infatti, non è connessa con la domanda dei consumi.
Un’economia in sviluppo, osserva Keynes, presenta un grado d’accumulazione
crescente dello stock di capitale ed ogni nuovo investimento, perché possa
giustificarsi, dovrà risultare sempre più intensamente capitalistico. Il divario tra
l’efficienza marginale del capitale ed il tasso d’interesse tende a diminuire anche
perché il tasso dell’interesse tende ad aumentare. In un’economia in sviluppo, infatti,
il fabbisogno di moneta per finanziare lo sviluppo, tende a crescere. Vi è infine
un’altra causa che spiega l’arresto dello sviluppo: gli ammortamenti e gli
autofinanziamenti diminuiscono la domanda effettiva corrente e non l’accrescono,
che nel corso dell’anno in cui il rinnovo del capitale è realmente effettuato.
L’accumulazione delle riserve finanziarie da parte delle imprese, determinata da un
comportamento di prudente gestione, svolge un ruolo decisamente negativo per
l’economia generale. L’economia capitalistica contiene in sé, secondo Keynes, le
cause per le quali essa tende al ristagno che non è pertanto il risultato di semplici
contingenze storiche ma è il risultato di un’insufficienza cronica della domanda
aggregata effettiva che una qualunque economia capitalistica presto o tardi
sperimenta.
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IL RUOLO DELLO STATO NELLA CONCEZIONE
LIBERISTA E RIFORMISTA
Il ruolo dello Stato che dovrebbe avere nell’economia è diversamente concepito dalle
varie scuole di pensiero economico. Tuttavia la relazione tra le teorie economiche ed
il ruolo dello Stato nell’economia non è trattata con la dovuta attenzione nella
maggior parte dei testi di economia, trattiamo le varie scuole di pensiero
macroeconomico liberista e riformista nel loro contesto. Tra la fine nel secolo XVIII
e la prima metà del secolo XIX, l’idea dominante assunta è quella di assumere la
libertà sia il fine ultimo di ogni individuo e di ogni società (LIBERISMO
CLASSICO). In quest’ottica la società è l’espressione degli interessi dell’individuo
che sono in grado di conoscere i loro destini ed agiscono per realizzarli. Il Laissenz faire
(il
lasciar
fare)
francese
del
secolo
XVIII
costituisce
l’essenza
dell’organizzazione economica di una società. L’intervento dello Stato nell’economia
dovrebbe essere ridotto al minimo indispensabile, poiché si assume che gli individui
sono in grado di decidere razionalmente, non vi è motivo che lo Stato interferisca
nelle loro decisioni. Lo Stato ha un ruolo PASSIVO, perché dovrebbe essere tenuto a
rispondere solo alle sollecitazioni degli individui, e neutrale in quanto che la sua
funzione dovrebbe essere solo quella di arbitro tra interessi individuali eventualmente
in conflitto. Lo Stato dovrebbe limitare la sua azione ed assicurare il rispetto dei
confini della libertà degli individui, confini che non sono rispettati nel momento in
cui la libertà d’azione di un individuo o gruppo d’individui, limita la libertà d’azione
di un altro individuo o gruppo. Lo Stato è il garante del rispetto e del mantenimento
della competizione fra individui, il non intervento dello Stato richiede tuttavia un
forte intervento, proprio per assicurare il non intervento. La competizione, la
disponibilità d’informazioni, la capacità degli individui di conoscere i propri interessi
e di adottare scelte razionali, assicureranno l’efficienza di tutti i mercati e di
conseguenza il più elevato tasso di sviluppo in piena occupazione. Devono essere
definiti i diritti di proprietà e l’azione dello Stato deve essere diretta ad assicurare che
essi siano rispettati, il prelievo fiscale non deve andare al di là del necessario, in
modo che lo Stato stesso possa garantire l’efficienza dei mercati e la libera
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competizione; in caso contrario ridurrebbe la libertà d’azione dei singoli e
interferirebbe negativamente nel processo economico. Il Liberismo classico, non
sviluppa alcuna teoria dell’intervento dello Stato nell’economia, infatti, teorizzare
l’intervento dello Stato sull’economia significa accettare una concezione riformista,
concezione che non nega la possibilità alla persona di perseguire i suoi interessi,
disponendo di libertà d’azione, ma tale libertà è condizionata dai processi sociali e
dalle istituzioni che presiedono a regolamentare quei processi. L’individuo non ha
tutte le informazioni per definire correttamente i suoi interessi e pertanto non è in
grado di assegnare allo Stato il ruolo che debba avere. Lo Stato deve avere un ruolo
attivo nel definire i bisogni degli individui e nel contribuire a realizzarli. La sua
azione non è neutrale poiché produce un vantaggio netto sociale, sia perché agisce a
supporto della sfera d’azione degli individui, sia perché amplia quella degli interessi
di questi. Il Riformismo prefigura un pluralismo democratico, data l’esistenza in una
società di più gruppi di interessi attribuendo a ciascuno di essi la libertà di perseguire
più fini e dà allo Stato il compito di disegnare e difendere un progetto che permette di
eliminare la conflittualità tra gli interessi dei vari gruppi, in vista di un interesse
generale. La macroeconomia si sviluppa in una visione riformista allo scopo di
assegnare allo Stato un ruolo attivo d’intervento e di stabilizzazione nell’economia. Il
liberismo classico, assegnando allo Stato un ruolo passivo, non può sviluppare alcuna
macroeconomia, può solo spiegare i fattori dello sviluppo o, ciò che è lo stesso, le
ragioni per le quali in un’economia capitalistica è possibile realizzare un
accrescimento del reddito nazionale in assenza di vincoli socio – istituzionali. La
flessibilità dei prezzi e dei salari e il perfetto funzionamento dei mercati è una
condizione indispensabile all’analisi economica del liberalismo classico; il
liberalismo classico produce una visione pessimistica del futuro dell’economia e
paradossalmente con le sue teorie del sovrappiù nega se stesso. Riacquista fiducia con
lo sviluppo dell’economia neoclassica che sostituisce alle teorie del sovrappiù i
metodi d’analisi marginalista. Il liberalismo classico e neoclassico precede il
riformismo. Il liberismo neoclassico, come quello classico se pure con diverse
motivazioni, non ammette altre possibilità per un’economia se non quella di
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percorrere un sentiero di sviluppo in equilibrio di piena occupazione, di qui il ruolo
passivo dello Stato. Il riformismo, al contrario, prevede che un’economia possa
trovarsi in squilibrio o non, di persistente occupazione ed assegna allo Stato un ruolo
attivo d’intervento nell’economia.
I CLASSICI, I NEOCLASSICI E IL MODELLO
KEYNESIANO
Il termine classico è adoperato nella letteratura corrente per indicare sia i predecessori
di Keynes sia quella dei neoclassici. In realtà i classici e i neoclassici sono due scuole
di pensiero diverso con differenze in campo d’indagine, nel metodo d’analisi e
nell’uso di strumenti d’analisi formale ed infine nei risultati. Il campo d’indagine
risiede nello studio delle cause e delle implicazioni della crescita della ricchezza.
L’economia politica classica è il prodotto della rivoluzione industriale e si colloca tra
l’ultimo quarto di secolo XVIII e il 1871, alla sua base c’è l’idea che l’intero
meccanismo economico ruoti attorno alle decisioni relative alla produzione delle
merci e all’accumulo del capitale, il processo economico è un circuito ininterrotto di
produzione, distribuzione e consumo che tende a riprodurre quanto consumato e
generare un sovrappiù da destinare all’ulteriore consumo ed investimento. Le loro
teorie sono definite teorie del sovrappiù. Tali teorie si basano sulla concezione di una
società divisa in classi
contrapposte, dove l’offerta di lavoro, essendo
sovrabbondante, consente di mantenere bassi i salari a livello di sussistenze. Il
risultato a cui si perviene è pessimista poiché nel lungo periodo il processo di
accumulazione del capitale entra in crisi. Il campo d’indagine dei neoclassici
s’identifica nello studio dell’allocazione delle risorse date tra linee di produzione
alternativa. La teoria neoclassica domina un’epoca tra il 1871 al 1936, anno in cui
appare la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes.
Essa spiega ogni tipo di attività in base ad un unico principio, quello del
comportamento massimizzante, i comportamenti individuali configurano la realtà
sociale. La società è una somma d’individui. L’individuo non è un prodotto della
società, ogni persona è libero di adottare e, di fatto adotta, un comportamento
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razionale tendente ad ottimizzare i risultati. Per i classici un accumulo di capitale è il
momento principale di ogni attività economica, per i neoclassici è il consumo. Il
consumatore si sostituisce alla sovranità dei capitalisti, per cui l’obiettivo della
produzione e del profitto si trasforma in quello della creazione di utilità, tutti i fattori
produttivi sono posseduti dalle famiglie e il reddito deriva dal contributo alla
produzione. Di conseguenza non esistono né classi contrapposte né lotte di classe. La
produzione, la distribuzione e lo scambio costituiscono un unico processo economico
armonioso giacché tutti cooperano al raggiungimento dello stesso fine, che è quello di
soddisfare i bisogni espressi dai consumatori. Il metodo, d’analisi è diverso da quello
classico. I neoclassici introducono nell’analisi il principio di sostituzione, i
consumatori e i produttori possono sostituire i prodotti (i primi) e i fattori (i secondi)
per realizzare la massima utilità o il massimo rendimento. I neoclassici, come i
classici, accettano la filosofia sociale del liberismo, ma diversamente da questa,
teorizzano l’armonia delle relazioni sociali del sistema. Il loro liberismo è ottimista. I
neoclassici si servono per spiegare il raggiungimento dell’equilibrio della persona e
di tutti i mercati ed è dato dai prezzi relativi, che definiscono il valore dei beni. La
teoria neoclassica si sviluppa in un periodo di grande espansione delle economie,
occidentali e contrariamente a quanto preconizzato dai classici in presenza di sensibili
miglioramenti nei salari e nelle condizioni di lavoro. Il modello proposto dalla teoria
neoclassica è statico e si basa sull’assunto della concorrenza perfetta o illimitata e né
risponde agli interrogativi posti dai classici per la crescita o lo sviluppo. Però sia
classici che neoclassici hanno in comune l’ipotesi della flessibilità dei prezzi e salari
e la stessa concezione del ruolo dello stato nell’economia. Sia i neoclassici che
teorizzano aggiustamenti automatici dei mercati, che i classici che sono interessati ai
problemi dello sviluppo, non hanno motivo di concepire l’uso di politiche di
stabilizzazione dell’economia. Il modello Keynesiano fu il prodotto della crisi senza
precedenti che investì tutti i paesi industrializzati tra gli anni tra le due guerre, crisi
che indusse molti a chiedersi se non fossero vere le profezie di Marx sul crollo del
capitalismo e se le economie collettiviste non fossero preferibili a quelle di mercato,
anche perché il sistema economico nella rappresentazione neoclassica, tra le due
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guerre era lontano dalla realtà. Infatti, il volume della manodopera e delle potenzialità
produttive inutilizzate avevano raggiunto proporzioni preoccupanti e nulla faceva
pensare che i meccanismi automatici di riequilibrio dei neoclassici entrassero in
azione. Ciò nondimeno i neoclassici difendevano il loro punto di vista, attribuendo
all’azione delle associazioni sindacali, che impedivano la caduta dei salari e allo
sviluppo delle imprese di grandi dimensioni, che turbavano il libero gioco delle forze
di mercato, le cause del permanere della disoccupazione. Nel modello Keynesiano si
dimostra che un’economia capitalista in assenza d’interventi, non è in grado di
conciliare gli interessi individuali con quelli collettivi. Il lasciar fare dei liberisti
classici e neoclassici è contestato, sostituito dalla logica dell’interventismo. Anche i
classici e Keynes ritengono che il capitalismo debba inevitabilmente entrare in crisi,
ma per ragioni diverse; per i classici e per Marx l’origine della crisi risiede nella
conflittualità tra il salario e il profitto; per Keynes la causa risiede nell’insufficienza
della domanda globale in rapporto alla diminuzione della propensione al consumo,
dell’efficienza marginale del capitale e della differenza tra questa e il tasso
d’interesse. Ancora per i classici e Marx la crisi non è solo inevitabile, ma anche
desiderabile perché le condizioni sociali causate dalla conflittualità non vanno
salvate. Per Keynes la crisi è evitabile mediante l’uso di politiche adeguate ed è
desiderabile perché egli crede nel sistema capitalistico, nella proprietà privata. Le
politiche keynesiane sono riformiste nel senso che tendono a stabilizzare l’economia
e a riformare il sistema capitalistico per farlo sopravvivere. L’uso di tali politiche non
ha precedenti né nei classici, né nei neoclassici. Se per macroeconomia s’intende
l’analisi delle variabili aggregate e per politiche macroeconomiche quelle di
stabilizzazione, entrambe nascono con l’economia keynesiana.
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L’EQUILIBRIO SIMULTANEO NELL’APPROCCIO
KEYNESIANO ALLA BDP CON TASSI DI CAMBIO FISSI
Nell’analisi Keynesiana è dedicata più attenzione al conto corrente e meno al conto
finanziario perché tra il 40 e il 50 i flussi di capitali erano relativamente modesti e i
controlli legislativi sugli stessi relativamente forti. L’analisi di un’economia chiusa ad
un’economia aperta pertanto incorpora solo le esportazioni e le importazioni di beni e
non anche di flussi di capitali. Nel settore reale la spesa Yd in beni (e servizi) è
espressa in termini reali, ed è costituita dalla spesa in consumi (C), dalla spesa in
investimenti (I), da quella del settore pubblico (G) e dal saldo (BT) espresso in
moneta nazionale è
Yd  C + I + G + BT;
e si assume che le componenti della spesa siano definite dalle seguenti ipotesi
comportamentali: che la domanda di consumi varia in funzione diretta dal reddito
reale disponibile
C = a – b + bY …….;
che la domanda di investimenti vari in funzione inversa del tasso di interesse reale
atteso
I = Io – f;
che la spesa pubblica sia definita esogenamente
G = Go;
che le esportazioni X di beni e servizi varino in funzione inversa dei prezzi relativi
internazionali (P.R.I.) dove P.R.I. è tanto maggiore quanto maggiore è il reddito
estero; che le importazioni M di beni e servizi varino in funzione diretta del reddito
reale interno e del tasso di cambio estero
M = Mo + MY ……
dove M è la propensione alle importazioni. Il BT migliora in seguito ad un aumento
di X e ad una diminuzione di Y.
Bt = Bto – mY……
Il settore reale è in equilibrio se il reddito reale Y e la spesa totale di Yd sono uguali
Y = Yd
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La domanda d’investimenti aumenterà e, dato l’effetto moltiplicativo, il reddito
aumenterà finché non sarà uguale al livello Y¹ della spesa. Al reddito Y¹ il tasso
d’interesse nominale R¹ relativo al punto A¹è maggiore del tasso d’interesse nominale
d’equilibrio Rº. Se il tasso atteso di inflazione è dato in A¹ il tasso di interesse reale
R¹ – Pe è maggiore di quello reale di equilibrio. La domanda d’investimento
diminuirà e, dato l’effetto moltiplicativo, il reddito reale cadrà finché non sarà uguale
al livello Yº della spesa.
R
A¹
r¹
r²
A
IS
Yº
Y¹
Y
Nel mercato monetario la domanda di moneta varia in funzione diretta del reddito
reale ed inversa rispetto al tasso d’interesse nominale.
Md = Md0 + l¹Y - l²r ;
dove l¹ e l² misurano rispettivamente la rispondenza della domanda di moneta al
reddito reale e al tasso d’interesse nominale, e l’offerta di moneta varia in funzione
diretta del tasso d’interesse nominale.
Ricordiamo che la domanda e l’offerta, pur essendo espresse in termini reali, sono
riferite ad un livello dei prezzi dati. L’interscambio con l’estero riguarda beni e
capitali, per cui il saldo della bilancia dei pagamenti BDP contiene il saldo del conto
corrente BT e il saldo dei flussi di capitali. In una grafica possiamo dire che i punti a
destra e al di sotto della BDP indicano un disavanzo nella bilancia dei pagamenti,
mentre quelli a sinistra e al di sopra indicano un avanzo.
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Bp
R
A¹
B¹
r¹
A
rº
r²
B²
A²
Y²
Yº
Y¹
Y
Un aumento del tasso d’interesse interno da Rº a R¹ riduce la domanda
d’investimenti, la domanda globale, il reddito e le importazioni: il saldo del conto
corrente migliora. La rispondenza della BDP alle variazioni del tasso di interesse e
della propensione alle importazioni tuttavia è asimmetrica, i flussi di capitali, infatti,
richiedono tempi brevissimi e comunque molto minori di quelli richiesti dagli
aggiustamenti del saldo del conto corrente.
L’EQUILIBRIO NON AUTOMATICO DEL CONTO
CORRENTE NELL’APPROCCIO KEYNESIANO DEL
MOLTIPLICATORE DI MERCATO APERTO CON TASSO DI
CAMBIO FISSI
Una volta estesi l’analisi Keynesiana di una economia chiusa ad una economia aperta
possiamo calcolare le variazioni nel saldo BT del conto corrente derivante da un
incremento della quota autonoma delle esportazioni x0. Se poniamo Bt = 0
abbiamo:
Bt / x0 = 1 – b – bt / 1 – b + bt + m <1 (2.6.1)
Bt / Io = Bt / Go = m / 1 – b + bt + m <0
(2.6.2)
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Dalla prima formula cioè la 2.6.1 si evince che il saldo BT diminuisce se Y aumenta
e che le variazioni in qualsiasi variabile che produca un aumento del reddito
provocano un peggioramento del saldo BT. Un incremento x0 nella componente
autonoma delle esportazioni migliora il saldo BT ma in quantità minore di x0
poiché x0, implicando un aumento di Y, aumenta le importazioni e detto aumento
controbilancia in parte il miglioramento del saldo BT. Dalla seconda formula cioè la
2.6.2 si evince che un aumento /0 o AG0 nelle componenti autonome degli
investimenti o della spesa pubblica, aumentando il reddito, aumenta le importazioni e
peggiora il saldo BT, di conseguenza il conto corrente non si riequilibra
automaticamente poiché il saldo BT è influenzato dalle variazioni nelle variabili
autonome. Se l’azione di governo è volta ad evitare disavanzi o avanzi nel conto
corrente sarà inevitabile attuare adeguate politiche e l’analisi Keynesiane richiede che
tali politiche vengano attuate. Con i tassi di cambio fissi il riequilibrio del conto
corrente avviene automaticamente in seguito delle Banche Centrali che eliminano un
eventuale squilibrio. Se ad esempio il conto corrente presenta un disavanzo, la Banca
Centrale utilizzerà le riserve di valuta estera per estinguerlo, venderà valuta estera
acquistando moneta interna. Però in tal caso, l’offerta di moneta interna si ridurrà e
gli operatori modificheranno le decisioni nel periodo successivo. L’equilibrio del
conto corrente sarà solo temporaneo. Nell’analisi Keynesiana è dedicata
un’attenzione minore al ruolo della moneta per questa ragione: il ruolo secondario
della moneta nell’analisi Keynesiana non varia anche considerando il conto
finanziario.
LA CRITICA MONETARISTA ALL’APPROCCIO
KEYNESIANO DEL MOLTIPLICATORE DI MERCATO
APERTO CON TASSI DI CAMBIO FISSI
La variazione nel reddito aperto derivante dall’incremento G0 nella quota autonoma
di spesa pubblica è prevedibile se il moltiplicatore è costante e questo è costante se lo
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sono i parametri h, t e m. I monetaristi ritengono che la funzione del consumo non è
stabile poiché la propensione marginale del consumo B è variabile. Maggiore è
l’apertura
di
un’economia,
maggiore
è
la
variabilità
della
propensione
all’importazione M, sicché anche se il governo mantiene costante l’aliquota T, la
variabilità di B e M rende la funzione del consumo instabile. I monetaristi ritengono
che sia stabile la domanda di moneta e non la funzione del consumo, per cui ad un
dato tasso di interesse è possibile prevedere la variazione nel reddito dipendente da
una variabile G0. Che la domanda di moneta sia più stabile rispetto alla funzione del
consumo è da dimostrare con analisi empiriche, ma quale sia il risultato di tali analisi,
resta il fatto che la logica delle due analisi, la Keynesiana e la monetaria, è diversa.
L’APPROCCIO ELASTICITÀ
L’approccio elasticità, come quello del moltiplicatore di mercato aperto, fa parte del
ragionamento Keynesiano, applicabile anche al regime dei cambi flessibili oltre a
quelli fissi. L’idea centrale ruota attorno alle condizioni di Bickerdicke – Robinson
(B-R), se tali condizioni sono rispettate, una svalutazione della moneta interna (una
diminuzione del tasso di cambio che assumiamo certo) migliora il saldo BT del conto
corrente ed estendendo l’analisi anche ai flussi di capitali, una svalutazione della
moneta interna, migliora anche il saldo BDP della bilancia dei pagamenti. Quindi la
bilancia dei pagamenti deve presentare all’inizio un disequilibrio, altrimenti non ha
senso considerare l’ipotesi di una rivalutazione o di una svalutazione del tasso di
cambio, e che la domanda e l’offerta di moneta estera riflettano l’interscambio tra un
paese e il resto del mondo di beni, servizi e attività, e che a riguardo delle attività, il
tasso di interesse interno sia uguale a quello del resto del mondo, nonché i tassi di
cambio a termine restino invariati ed in ultimo che per semplicità, l’interscambio sia
riferito a Eurolandia e USA, l’ipotesi della svalutazione implica il riferimento al
regime dei cambi fissi. Se indichiamo con e = €/$ il tasso di cambio certo e con SS$ e
D$, rispettivamente l’offerta e la domanda di moneta estera, si vedrà la curva
decrescente perché ad un tasso di cambio minore (€ svalutato) corrisponderà una
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quantità offerta di dollari e così via mentre succederà il contrario con l’Euro
rivalutato. Con i cambi fissi, come sappiamo, si eliminerà il disavanzo utilizzando le
riserve, lo scopo della svalutazione è di migliorare il saldo BT del conto corrente e
pertanto il saldo BDP della bilancia dei pagamenti. Il saldo BT migliora se il
disavanzo si riduce, si elimina o si trasforma in avanzo, allorquando le condizioni di
B – R non sono rispettate, quando il valore delle importazioni non aumenti più del
valore delle esportazioni. Da tutto ciò si può facilmente capire e verificare che nel
caso dei cambi flessibili, l’analisi dell’approccio elasticità relativo ai cambi fissi non
varia, quello che varia è solo la conseguenza del disavanzo.
L’APPROCCIO ASSORBIMENTO
L’approccio elasticità considera, solo gli effetti che una variazione nel tasso di
cambio (svalutazione o rivalutazione o deprezzamento o apprezzamento) ha sul saldo
del Conto corrente BT e del conto finanziario BK con le modifiche nei prezzi
relativi; in realtà è come un’analisi d’equilibrio parziale più che di equilibrio
macroeconomico poiché non tiene conto delle variazioni nella domanda globale
causate dalle variazioni nel tasso di cambio. Da questo punto di vista l’approccio
elasticista non si adatta al modello keynesiano, che è un modello macroeconomico; al
contrario l’approccio assorbimento è più vicino al modello Keynesiano ed evita
d’incorporare nell’analisi gli effetti delle elasticità della domanda e dell’offerta di
moneta estera derivante dalle variazioni del tasso di cambio. Il suo sviluppo nella
teoria economica, come alternativa all’approccio elasticitsta, deriva anche dalla
difficoltà di verificare la validità di quest’ultimo, dal momento che le variazioni nei
saldi BT e BK che si manifestano nel tempo, derivano da ragioni diverse dalle
variazioni del tasso di cambio dalle quali sono difficilmente distinguibili. Polack ed
Alexander intuirono per primi che il saldo del conto corrente è equivalente alla
differenza tra il reddito e la spesa. Nella teoria di Alexander la spesa è
l’assorbimento se nell’identità
Y=C+I+G+X–M
Indichiamo con A = C + I + G, l’assorbimento sarà
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BT = X – M = Y – A;
Si vede che il saldo BT è pari alla differenza tra l’ammontare dei beni e servizi
prodotti nell’economia Y e quelli consumati A. Nella versione tradizionale
l’approccio assorbimento opera con il conto corrente mediante effetti diretti ed
indiretti della svalutazione o del deprezzamento, i quali concorrono ad aumentare il
livello del reddito. Le variabili pivot su cui ruota il meccanismo dell’approccio
assorbimento sono costituite dall’occupazione e dalla produzione e non dai prezzi
relativi. L’ipotesi di partenza è che un’economia presenti un disavanzo e che, con i
cambi fissi, si decida di svalutare la moneta interna allo scopo di migliorare il saldo
del conto corrente o che con cambi flessibili si deprezzi la moneta interna. All’inizio
la svalutazione o il deprezzamento provoca un aumento dei prezzi interni dei beni per
cui conviene acquistare beni interni e l’acquisto di beni esteri diventa meno
conveniente, per cui converrà produrre all’interno beni che prima della svalutazione
venivano acquistati all’estero. Risulta un aumento dell’occupazione nella produzione
di beni destinati all’esportazione diventati più convenienti per la domanda estera e dei
beni, divenuti competitivi, destinati a sostituire le importazioni. Aumenta la
produzione di entrambi (effetto diretto sulla produzione). Ci sarà l’aumento della
produzione su quello dei consumi interni (assorbimento di entrambi i tipi di beni
(effetto diretto sull’assorbimento)). Il saldo interno BT migliora e quello del paese
estero peggiora, non a caso nel paese estero, a causa della minor domanda,
diminuiscono l’occupazione, la produzione ed il livello dei prezzi. Nella versione
alternativa a quella tradizionale, l’approccio assorbimento, pur coinvolgendo il conto
corrente, opera attraverso il conto finanziario. Gli effetti diretti sono potenziati dagli
effetti indiretti che agiscono sulla riduzione dell’assorbimento perché le famiglie
sono indotte a ridurre i consumi e le imprese a ridurre gli investimenti, poiché
dispongono entrambi di minor liquidità reale per l’aumento dei prezzi. Reddito e
assorbimento varieranno in misura uguale ed in direzione opposta. Nell’approccio
assorbimento, pertanto il riequilibrio nel conto corrente è il risultato delle variazioni
nel reddito e nell’occupazione e non nei prezzi relativi, come avveniva nell’approccio
elasticità.
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L’EFFETTO DELLA SVALUTAZIONE, O DEL
DEPREZZAMENTO, SUI SALARI
L’approccio elasticità e quello dell’assorbimento prevedeva un modello teorico
contraddistinto dalla presenza dei salari monetari rigidi e prezzi costanti. Dagli anni
’50 e ancor più negli anni ’60, il quadro istituzionale del mercato del lavoro cambia
profondamente. Oggetto della contrattazione salariale è sempre il salario monetario,
ma ora esso tiene conto delle variazioni nei prezzi. La svalutazione o il
deprezzamento implica un aumento dei prezzi dei beni importati ed il salario
monetario incorpora tale aumento, l’obiettivo dei lavoratori è mantenere costante il
salario reale. L’introduzione nell’analisi della spirale prezzi – salari – prezzi altera gli
effetti attesi dalla svalutazione o dal deprezzamento. I prezzi aumentano in parte (α)
per l’aumento dei prezzi delle importazioni e in parte (β) per l’aumento dei salari
cioè:
P = αM = β W
dove M indica il valore dei beni importati e W i salari monetari. Ora a causa del
conseguente aumento dei salari monetari che cresceranno allo stesso tasso affinché il
salario reale sia invariato, al primo aumento dei prezzi né seguirà un secondo. La
svalutazione o il deprezzamento, determinerà solo un aumento dei prezzi in assenza
di un miglioramento nel saldo del conto corrente.
SITUAZIONE DI SQUILIBRIO E POLITICA FISCALE
Vi è una politica fiscale espansiva comporta un aumento del reddito e la domanda di
moneta ed il tasso d’interesse aumentano, viceversa una politica restrittiva, comporta
una caduta del reddito con la domanda di moneta ed il tasso d’interesse analogo.
IL PROBLEMA DELL’ASSIGNMENT
Quale che sia il tipo di squilibrio, in cui l’economia può trovarsi non è possibile usare
in modo indifferente le politiche fiscali e monetarie. Vi è un equilibrio esterno che
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secondo l’approccio keynesiano comporta un aumento di reddito maggiore e quindi
in una politica monetaria espansiva riduce il tasso d’interesse ed il reddito aumenta.
La caduta del tasso d’interesse provoca deflussi di capitale. L’assegnazione della
politica monetaria al raggiungimento dell’equilibrio di piena occupazione si è
dimostrata inadeguata, l’accresciuto disavanzo dovrà essere pagato, utilizzando le
riserve, riserve che non sono illimitate. Vi è ancora una politica fiscale utile
all’equilibrio interno e una politica monetaria, attuata con le riserve, all’equilibrio
esterno. Quindi il disavanzo implicherà una diminuzione delle riserve, per cui
l’offerta di moneta interna si ridurrà. La manovra monetaria se è efficace nel ridurre il
disavanzo riduce tuttavia il reddito interno che può essere conseguito con una politica
fiscale espansiva.
ECCESSO DI DOMANDA E SQUILIBRI ESTERNI
È possibile che l’economia presenti un eccesso di domanda che provoca spinte
inflazionistiche e un disavanzo o un avanzo della BDP. In entrambi i casi potrà essere
intrapresa una politica fiscale restrittiva allo scopo di contrarre la domanda interna,
tasso d’interesse e reddito diminuiranno ma in misura insufficiente ad assicurare
l’equilibrio simultaneo. Il disavanzo implicherà una diminuzione delle riserve per cui
l’offerta interna di moneta si ridurrà, l’avanzo produce l’effetto contrario.
POLITICA FISCALE, MONETARIA E PERFETTA
MOBILITA’ DI CAPITALI
Nel caso di perfetta mobilità di capitali, il tasso d’interesse interno non può essere
diverso da quello del RDM e se il tasso d’interesse interno è maggiore di quello del
RDM si avranno afflussi di capitali. Nel caso della perfetta mobilità non è possibile
evitare gli effetti dei flussi esteri sull’offerta di moneta interna. Le autorità monetarie
non possono controllare il tasso d’interesse se i cambi sono fissi.
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I CASI ESTREMI DEL MODELLO KEYNESIANO
Nel caso estremo keynesiano della trappola della liquidità non è possibile ottenere
l’equilibrio simultaneo perché una riduzione dell’offerta di moneta, per quanto possa
essere grande incontra una domanda di moneta molto elastica al tasso d’interesse.
Quindi l’economia ha bisogno di uscire dalla trappola della liquidità. Diverso è il
caso estremo keynesiano degli investimenti insensibili al tasso d’interesse. Abbiamo
avuto che negli anni ’50 – ’60, in presenza di tassi d’inflazione sostanzialmente
stabili e i tassi di cambi fissi, la sola politica fiscale si è dimostrata insufficiente per
raggiungere l’equilibrio simultaneo. Il modello Mundel – Fleming, poiché il numero
degli obiettivi è uguale al numero degli strumenti (equilibri esterni = politica fiscale e
monetaria) ha permesso di stabilire la variabile strumento da assegnare tale che
controbilanci la variabile obiettivo. La ragione dell’assegnazione, voluta dal modello
della politica fiscale al raggiungimento dell’equilibrio interno e della politica
monetaria all’equilibrio esterno deriva dal diverso livello del tasso d’interesse
richiesto dai due equilibri. Vi può essere svalutazione, rivalutazione ed un equilibrio
simultaneo. L’aumento del tasso d’interesse, per la manovra fiscale espansiva,
implica un maggiore afflusso di capitali, però un aumento del tasso d’interesse
provoca un disavanzo del tasso d’interesse o un avanzo. Per questa ragione il
riequilibrio della BDP richiede una svalutazione nel primo caso ed una rivalutazione
nel secondo.
ASSIGMENT DIVERGENZA E CONVERGENZA
Nel modello Mundel – Fleming, poiché il numero degli obiettivi (equilibrio interno
ed esterno) è uguale al numero degli strumenti (politica fiscale e monetaria), è
rispettato il principio di Tinberger, secondo cui un modello con obiettivi prefissati
con n variabili obiettivo indipendenti deve avere n variabili strumento indipendenti.
In realtà il principio di Tinberger è una condizione necessaria ma non sufficiente
affinché il modello abbia soluzione. Infatti, è vero che se la variabile obiettivo non
sono indipendenti il modello presenta diverse soluzioni, tuttavia un modello con n
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variabile obiettivo indipendenti ed n variabili strumenti indipendenti può anche non
ammettere una soluzione o ammetterne una politicamente non accettabile. Negli anni
’50 – ’60 con tassi d’inflazione sostanzialmente stabili e con tassi di cambi fissi, l’uso
della sola politica fiscale era insufficiente al raggiungimento dell’equilibrio
simultaneo. La politica fiscale espansiva attuata per aumentare l’occupazione
implicava un aumento dell’importazione e pertanto un disavanzo del conto corrente.
Successivamente, l’uso combinato della politica fiscale e quella monetaria, in
presenza di prezzi costanti all’interno e all’esterno e di tassi di cambio fissi, da una
parte ha consentito di rispettare il principio Tinberger dall’altro è stato condizionato
dagli stessi limiti impliciti nel principio. Il modello Mundel – Fleming tuttavia ha
consentito
di
stabilire
la
variabile strumento
indipendente da
assegnare
appropriatamente alla variabile obiettiva sulla base degli effetti più ampi che una
delle
due
variabili
strumento
ha
sulla
variabile
obiettivo.
La
ragione
dell’assegnazione, indicata dal modello, della politica fiscale al raggiungimento
dell’equilibrio interno e della politica monetaria all’equilibrio esterno deriva dal
diverso livello del tasso d’interesse richiesto dai due equilibri. Nel modello M – F,
l’assegnazione della politica fiscale all’equilibrio interno deriva dall’effetto che essa
esercita sul reddito, tramite il MOLTIPLICATORE KEYNESIANO, rispetto a quello
minore esercitato sul saldo della Bilancia dei Pagamenti, che dipende dal valore di M
(Importazioni). L’Assegnazione della politica monetaria all’equilibrio esterno deriva
dall’effetto maggiore che il tasso d’interesse esercita sulla bilancia dei pagamenti
(l’aumento R, cioè TASSO D’INTERESSE, richiesto dall’equilibrio esterno è minore
di quello richiesto dall’equilibrio interno). L’Assegnazione della politica fiscale
all’equilibrio interno e della politica monetaria all’equilibrio esterno implica la
convergenza all’equilibrio simultaneo. Se vi è perfetta mobilità di capitale si
conferma la correttezza dell’assegnazione della politica fiscale all’equilibrio interno e
della politica monetaria all’equilibrio esterno. Ricordiamo che l’aumento del tasso
d’interesse provocato dalla manovra fiscale espansiva implica un maggiore afflusso
di capitale, esso tuttavia potrebbe risultare insufficiente a controbilanciare il
peggioramento del saldo del conto corrente dovuto all’aumento dell’importazione,
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causato dall’aumento del reddito derivante dalla politica fiscale espansiva. L’intensità
degli effetti della politica fiscale espansiva può rivelarsi insufficiente o eccessiva
rispetto all’obiettivo del raggiungimento del reddito di piena occupazione. Il
riequilibrio della Bilancia dei Pagamenti richiede una svalutazione o una
rivalutazione. Ora una volta definito l’equilibrio simultaneo con tassi di cambi fissi
ed esaminati determinati tipi di squilibrio, si è cercato di comprendere quali pressioni
generano sulle variabili interessate e quali politiche economiche siano opportune a
seconda dei casi. Il procedimento seguito può apparire meccanicistico e lo è.
L’ottenimento dell’equilibrio simultaneo sia esso automatico o frutto di politiche, è
stato presentato come il risultato delle variazioni del saldo dei flussi di capitali Bk
(saldo finanziario) e del saldo del conto corrente BT. Un saldo negativo BT
controbilanciato da un saldo positivo Bk implica un pareggio della bilancia dei
pagamenti. L’analisi è essenzialmente di breve periodo e pertanto non è stata fatta
alcuna differenza tra un disavanzo temporaneo ed uno cronico nel conto corrente.
Qualunque esso sia se il disavanzo è compensato da un saldo positivo nei flussi di
capitale non desta preoccupazione: l’economia è comunque in grado di arrivare ad un
equilibrio simultaneo, eccetto nel caso estremo Keynesiano della trappola della
liquidità. Allo stesso modo un disavanzo nei flussi di capitale temporaneo o cronico,
non dà preoccupazione finché il conto corrente è in grado di compensare quel
disavanzo. Tuttavia se i disavanzi sono cronici o di grandi dimensioni o se sono
improvvisi è probabile qualche incertezza sulla validità dell’analisi esposta. Ad
esempio se un’economia presenta disavanzi cronici nel conto corrente, come mai è in
grado di attrarre capitali per compensare questo disavanzo. Si potrà osservare che la
risposta a questi interrogativi è implicita nell’analisi: se l’economia non è in grado da
sola di ristabilire l’equilibrio simultaneo, l’attuazione di politiche economiche
adeguate glielo consentirà. Ma un’economia che presenta un disavanzo cronico nel
conto corrente, dovrà pagare sistematicamente questo disavanzo e, perciò stesso,
accrescere il deflusso di moneta disponibile. Quindi ci sono tanti problemi vedi un
tasso d’interesse interno elevato e più elevato di quello estero, deprimerà l’economia
interna, ci sarà a lungo andare un tasso di disoccupazione interna e quant’altro. Le
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politiche economiche che un paese può attuare sono davvero tali da far invertire la
tendenza in atto nell’economia reale? L’analisi inoltre suppone implicitamente
l’aggiustamento continuo delle variabili interessate ai valori interessati. Se
l’aggiustamento non è continuo, la possibilità di raggiungere un equilibrio simultaneo
si fa sempre più remota. Le ipotesi su cui si basa il modello Mundel – Fleming della
politica fiscale al raggiungimento dell’equilibrio interno e della politica monetaria di
quella esterna sono restrittive. Infatti, le ipotesi sono essenzialmente due: che il
livello interno ed esterno dei prezzi sia costante e che il livello dei tassi di cambi sia
fisso. Più semplicemente l’ipotesi è una cioè che il livello dei prezzi relativi
internazionali sia costante. Infatti, l’ipotesi che il tasso di cambio nominale sia fisso
ha retto fino agli anni ’70, successivamente i tassi di cambio sono diventati flessibili,
cade una delle ipotesi del modello. Invece, riguardo al livello dei prezzi, negli anni
’50 e ’60, quando i tassi di cambio erano fissi quel livello si è mantenuto stabile.
L’ipotesi di costanza dei prezzi relativi internazionali appariva ragionevole ed il
modello di orientamento keynesiano, che dava un ruolo decisivo alla politica fiscale
lasciando a quella monetaria il compito di aggiustamento dei valori delle variabili,
sembrava il più idoneo al raggiungimento dell’equilibrio simultaneo. La
preoccupazione principale delle autorità era mantenere stabile anche il livello del
tasso d’interesse e i problemi derivanti da insufficienza o eccesso di domanda
venivano affrontate con manovre fiscali. La politica adottata è di tipo STOP - GO
(una politica tesa a frenare l’economia non appena essa mostra qualche sintomo di
surriscaldamento). Le autorità, per mantenere costante il livello del tasso d’interesse,
attuavano manovre monetarie espansive. Il tentativo di mantenere costante il livello
del tasso d’interesse peggiorava il saldo della bilancia dei pagamenti. Sorgevano due
problemi: una disoccupazione interna non interamente eliminata dall’iniziale politica
fiscale espansiva ed un disavanzo dei conti con l’estero, disavanzo che cresceva via
via che veniva attuata l’espansione monetaria per non deprimere gli investimenti e il
reddito a causa dei tassi d’interesse elevati. Se questi due problemi erano ad un livello
sopportabile non veniva dato impulso ad alcuna politica espansiva “STOP”, se essi
superavano un determinato livello si riprendeva con le politiche espansive, attiva
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quella fiscale, passiva quella monetaria “GO”. Se si venivano a determinare periodi
di crisi per particolare circostanze interne o internazionali, si rendevano necessarie
procedere alla svalutazione della moneta interna, se le riserve valutarie fossero state
insufficienti o le autorità, ritenendole già esigue, non avessero volute ridurle. La
svalutazione veniva attuata per ripristinare l’equilibrio esterno e la politica fiscale
restava la principale politica economica, tesa al raggiungimento di quello interno.
Dopo gli anni ’70 il quadro è cambiato e le ipotesi del modello finora usato sono
cadute, cioè quello del tasso di cambio fisso e del tasso d’inflazione interno ed
esterno sostanzialmente stabile. Ancora le strette interrelazioni che si sono instaurate
tra le variazioni dei tassi di cambio e il tasso d’interesse hanno aggravato ancor più la
messa in crisi del modello. Poiché il modello è di orientamento keynesiano si
continuerà a prevedere l’ipotesi di costanza dei livelli dei prezzi. Quando questa
ultima ipotesi verrà eliminata dall’analisi, quando cioè sia il tasso di cambio nominale
che il livello dei prezzi saranno ipotizzati flessibili, verrà costruito un modello
alternativo a quello usato. Tale sarà il modello monetarista di analisi dell’equilibrio
simultaneo sviluppato negli anni ’70. Le esportazioni e le importazioni di beni e
servizi dipendono anche dal tasso di cambio reale perché le variazioni del tasso di
cambio influenzano anche il saldo del conto corrente. Finora abbiamo supposto fisso
il tasso di cambio, ora lasciamo questa ipotesi restrittiva e supponiamo che il tasso di
cambio vari, se la variano del tasso di cambio è uguale al differenziale tra la
variazione del livello interno e quella dei livello dei prezzi esteri, le importazioni e le
esportazioni non variano. Se il tasso di cambio è maggiore o minore del livello dei
prezzi, il saldo BT migliora o peggiora se sono rispettate le condizioni di
Bickeridicke – Robinson. I flussi di capitale non si giustificano se sono verificate le
condizioni di parità scoperte e coperte dei tassi d’interesse. Se supponiamo costante il
livello dei prezzi estero ed interno, una diminuzione del tasso di cambio nominale,
ovvero un deprezzamento della moneta interna ad esempio un deprezzamento
dell’€uro rispetto al dollaro, rendendo più competitivi i beni e le attività interne,
accresce l’esportazione, determinando l’avanzo del conto corrente in Eurolandia e gli
afflussi di capitale. L’aumento delle esportazioni di beni implica un aumento della
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domanda globale interna e del reddito, ora l’avanzo nel conto corrente e nei flussi di
capitale, accrescendo l’offerta interna di moneta, implicano una diminuzione del
tasso d’interesse interno. Il contrario si verifica quando vi è un aumento del tasso di
cambio nominale, cioè un apprezzamento della moneta interna, che renderà più
competitivi i beni e le attività USA, riduce le esportazioni, determinando il disavanzo
nel conto corrente di €urolandia e aumenta i capitali verso gli USA. Quindi ci sarà la
diminuzione delle esportazioni di beni che porteranno ad una diminuzione della
domanda globale interna e del reddito con un aumento del tasso d’interesse interno,
col ridursi dell’offerta di moneta.
TASSI DI CAMBIO FLESSIBILI, POLITICA FISCALE E
POLITICA MONETARIA
Col livello dei prezzi interno ed estero e il tasso di cambio fisso, l’eliminazione di
eventuali disavanzi o avanzi nella BDP ha richiesto l’attuazione di una combinazione
opportuna di politiche fiscali e monetarie. Se il tasso di cambio è flessibile, i
disavanzi o gli avanzi modificano il tasso di cambio, il disavanzo implica un eccesso
di offerta sulla domanda di moneta interna, l’avanzo implica un eccesso di domanda
sull’offerta. Se il tasso di cambio è il prezzo della moneta interna espresso in termini
di moneta estera, il disavanzo lo riduce, l’avanzo l’aumenta. Il tasso di cambio
diventa la variabile dipendente dagli squilibri della BDP. La modifica del tasso a sua
volta modifica l’equilibrio interno. Quindi vi è una relazione biunivoca tra
l’equilibrio interno e la BDP.
POLITICA FISCALE E MOBILITA’ IMPERFETTA
Gli effetti sul livello del reddito e sul tasso di cambio della politica fiscale e
monetaria sono influenzati dall’inclinazione della BP rispetto alla curva LM della
figura. Quindi se viene attuata una politica fiscale espansiva si raggiunge l’equilibrio
interno in un dato punto B che indica un disavanzo nel primo quadrante e un avanzo
nel secondo. Nel quadrante A, l’aumento del reddito fa aumentare le importazioni di
beni, peggiora il saldo BT; l’aumento del tasso d’interesse, aumentando gli afflussi di
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capitale migliora il saldo Bk. I maggiori afflussi di capitale, tuttavia, sono
insufficienti a controbilanciare il saldo negativo del conto corrente, perché il saldo
richiesto all’equilibrio è maggiore e il disavanzo fa cadere il tasso di cambio. La
diminuzione del tasso di cambio, rendendo più competitivi i beni e le attività,
migliora i saldi BT, Bk e pertanto il saldo BP. L’aumento del tasso di cambio,
rendendo meno competitivi i beni e le attività, peggiora i saldi BT, Bk e pertanto il
saldo BP. In definitiva, a seconda che l’inclinazione della BP sia maggiore o minore
dell’inclinazione della LM, la politica fiscale espansiva porta con sé una diminuzione
o un aumento del tasso di cambio e del reddito maggiore o minore. Ci possono essere
i casi estremi della perfetta immobilità e della perfetta mobilità di capitali, nel primo
caso la curva BP è perfettamente verticale, la politica fiscale espansiva porta ad un
aumento del tasso d’interesse e del livello del reddito e la politica fiscale è risultata
efficace. Nel caso della perfetta mobilità della politica fiscale espansiva implica un
aumento del tasso d’interesse e del reddito. Conseguentemente si determina un forte
eccesso di domanda sull’offerta per cui il tasso di cambio aumenta. Via via che il
tasso di cambio aumenta, le esportazioni cadono, aumentano le importazioni e
peggiora il saldo BT. L’equilibrio finale sarà identico all’equilibrio finale e questa
politica fiscale non è efficace, infatti, l’aumento causato dalla politica fiscale
espansiva e la diminuzione causata dall’aumento del tasso di cambio del reddito sono
di pari ammontare.
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