SIGMUND FREUD

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SIGMUND
FREUD
(18561939)
Alla fine dell’Ottocento, la psichiatria austro-tedesca sosteneva
posizioni di tipo positivistico e naturalistico : spiegava le
sofferenze mentali come conseguenze di lesioni o di disfunzioni
cerebrali. Inoltre la sfera della psiche era identificata con quella
della coscienza, che era capace di esercitare un dominio sugli
istinti e di fungere da motore delle azioni. Freud scoprirà invece
che la causa delle psiconevrosi è da ricercarsi in un conflitto tra
forze psichiche inconsce, ossia operanti al di là della sfera di
consapevolezza del soggetto, i cui sintomi risultano quindi
psicogeni, cioè non derivano da disturbi organici bensì da
traversie della psiche stessa. La scoperta dell’inconscio segna
l’atto di nascita della psicoanalisi.
LA PRIMA TOPICA. Per spiegare i fenomeni psichici bisogna
tenere conto della distinzione tra un livello conscio ed un livello
inconscio ed attribuire a quest’ultimo una azione causale sul
primo. Da ciò deriva che i moventi del comportamento umano, sia
normale che patologico, hanno la loro collocazione, più che nella
coscienza,
nelle
profondità
dell’inconscio
(raffigurato
dall’immagine dell’iceberg : la parte sommersa, la più grande è
appunto l’inconscio; la parte che emerge, più piccola, è il conscio;
le onde che toccano la superficie sono il preconscio). La psiche è
dunque una realtà complessa che viene divisa da Freud in un
primo tempo in tre zone o luoghi che definiscono la prima topica
(dal greco topoi, luoghi) descritta nel cap. 7° della
Interpretazione dei sogni. Essi sono il conscio, il preconscio e
l’inconscio. L’inconscio è una forza attiva, dotata di proprie
finalità e operante con una propria logica, diversa dalla logica
della vita cosciente (che è basata ad es. sul principio di causalità,
di non contraddizione, sulle sequenze temporali ordinate di
passato, presente e futuro ecc.). Esso comprende quegli elementi
psichici stabilmente inconsci che sono mantenuti tali da una forza
specifica, la rimozione (è quel meccanismo psichico che
rimuove cioè allontana dalla coscienza le nostre esperienze e
i nostri pensieri, soprattutto se sono spiacevoli; è dunque in
pratica un meccanismo di difesa), e che possono tornare consci
solo con grande sforzo e con tecniche analitiche apposite. Si badi
: allontanare dalla coscienza non vuol dire però annullare del
tutto il ricordo delle esperienze traumatiche, ed è qui che
possono sorgere problemi; se vi è stata un’esperienza traumatica,
essa può infatti, prima o poi, "tornare a galla", ed in modi più o
meno spiacevoli (ad es. nel caso dell’isteria i sintomi somatici
della malattia sono appunto ciò che è stato rimosso).
Il preconscio comprende l’insieme dei ricordi, rappresentazioni,
desideri, insomma dei fattori psichici che, pur essendo
momentaneamente inconsci, possono, in virtù di un piccolo
sforzo, diventare consci.
Il conscio si identifica con la nostra coscienza o, meglio, con la
nostra attività diurna e consapevole, ed è, per forza di cose,
una situazione alquanto fluida : quando mai, infatti, siamo
perfettamente consapevoli di tutto quello che facciamo e che
vogliamo? quando mai facciamo completa attenzione a ciò che
viviamo?
LA PSICOANALISI. Come è possibile forzare la barriera
costituita dalla rimozione, accedere all’inconscio, ricostruendo il
passato rimosso e curare, ad es., una nevrosi? Secondo Freud la
via di accesso è data dalla psicoanalisi. Essa non usa l’ipnosi
(anche se Freud stesso in un primo tempo la usò) perché
conoscere la causa di un trauma non riesce ancora a riequilibrare
le forze psichiche in conflitto. Né fa uso di elettroterapia o dei vari
farmaci della medicina ufficiale. Essa è una cura con le parole
(talking cure), che analizza i sogni e usa il metodo delle libere
associazioni. Questo metodo consiste nel mettere il paziente in
uno stato di rilassamento (da qui il divano su cui l’analizzando si
sdraia) in modo che egli possa abbandonarsi al corso dei propri
pensieri che vengono espressi ad alta voce. L’analizzando è
invitato a dire tutto quello che gli passa per la testa, senza
nessuno scrupolo di ordine religioso, morale, sociale, e senza
omettere nulla, neppure quello che può sembrargli irrilevante,
ridicolo o sgradevole. Lo scopo è appunto quello di eliminare il più
possibile quelle resistenze, quelle selezioni più o meno
volontarie dei propri pensieri che sono messe in atto dal
"paziente". Accade però che il fluire delle parole abbia a volte un
blocco improvviso : è qui che si avverte che c’è qualcosa che non
va, che è stato probabilmente rimosso, cioè tenuto lontano dalla
coscienza per evitare le sofferenze del ricordo. Compito
dell’analisi è ricostruire ciò che non va e scoprirne le cause per
poi riequilibrare le forze psichiche in conflitto. Con questo
metodo, la persona non è più il destinatario passivo della terapia
(come nella medicina comune in cui il medico dice e il paziente
ascolta e segue i suoi consigli) ma diventa essa stessa colei che si
"cura", colui che vuole "guarire". Freud evidenzia l’importante
ruolo rivestito dalla relazione affettiva che si instaura (si deve
instaurare) tra l’analizzando e l’analista, ossia dal transfert (=
trasferire sull’analista stati d’animo ambivalenti di amore e di odio
provati dal "paziente"). grazie al transfert, il "nevrotico" è indotto
gradualmente ad abbandonare le sue resistenze, ossia tutto
quello che nei suoi discorsi e nei suoi atti gli impediva di accedere
a quei conflitti psichici di cui non era conscio ma che producevano
la sua nevrosi. Ciò porterà sulla buona strada per la guarigione.
NEVROSI E PSICOSI. Le nevrosi sono forme di "malattia"
senza alterazioni anatomiche, in cui il soggetto mantiene il
contatto con la realtà : in altri termini, sa di avere qualcosa che
non va ma non riesce a capire il perché e, a parte qualche
disturbo, per il resto conduce una vita "normale". Si tratta in
genere di ansietà, fobie, idee fisse, certe forme di asma e di
allergia ecc. Le psicosi sono invece malattie molto più gravi, in
cui vi è una alterazione profonda della personalità e l’individuo
non ha più coscienza della gravità del suo male per cui ha perso il
contatto con la realtà. Si tratta di quei fenomeni definiti in termini
psichiatrici come la schizofrenia (che porta dissociazione,
autismo, allucinazioni, deliri) e la psicosi maniaco-depressiva o
ciclotimia (fasi cicliche di depressione e di esaltazione).
IL SOGNO. Il sogno rappresenta per Freud "la via regia che porta
alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica". Durante il
sonno, la censura, che durante il giorno era stata
particolarmente attiva e non aveva permesso la manifestazione di
quei contenuti psichici ritenuti inaccettabili per motivi morali o
patologici, è indebolita e pertanto l’inconscio, con i suoi desideri
rimossi, preme con maggiore intensità e produce tensioni. Il
sogno allora, presentando all’immaginazione come realizzati quei
desideri inconsci, rende possibile lo scaricarsi della tensione. In
questo senso il sogno è definito da Freud come l’appagamento
di un desiderio. tale realizzazione avviene però in maniera
allucinatoria, attraverso mascheramenti e deformazioni operati
dalla censura (=meccanismo che blocca la realizzazione dei
desideri), la quale, si ricordi, pur affievolita, non è mai del tutto
scomparsa. lo scopo di queste deformazioni o stranezze è quello
di rendere accettabile alla coscienza i contenuti rimossi. in ciò
consiste il lavoro onirico (=del sogno). Ogni sogno ha così un
contenuto manifesto, che è quello che viene ricordato al
risveglio cioè il racconto che possiamo fare del sogno; ed un
contenuto latente cioè nascosto, che rappresenta il vero
significato del sogno. Per interpretare correttamente un sogno,
Freud ha scoperto cinque "regole" che permettono, nel corso
dell’analisi, di venire gradualmente a capo del contenuto dei
sogni. Si badi : ogni sogno è a sé, non esistono regole applicabili
indistintamente ad ogni persona, per cui non hanno alcun senso i
vari "manuali" dei sogni con le varie interpretazioni già date
preconfezionate. detto questo, la logica dei sogni è del tutto
autonoma rispetto alle solite categorie spazio-temporali della vita
cosciente (ricordate? lo dicevamo già a proposito delle
caratteristiche dell’inconscio). Le cinque regole sono : la
condensazione (cioè la tendenza ad esprimere in un unico
elemento più elementi collegati tra loro); lo spostamento (che
consiste nel trasferimento di interesse da una rappresentazione
ad un’altra); la drammatizzazione o alterazione di situazioni; la
rappresentazione per opposto, in cui un elemento può
significare il suo opposto; la simbolizzazione, in cui un
elemento sta al posto di un altro. Tenendo dunque conto di tute
queste regole, l’analisi può arrivare a decifrare il sogno, e ciò è
particolarmente utile nel caso di "pazienti" nevrotici.
LA METAPSICOLOGIA. Tale termine fu coniato da Freud nel
1915 per designare la dimensione più propriamente teorica della
nuova disciplina. La psicoanalisi, nata come terapia per malattie
nervose, amplia il suo terreno originario e si presenta
gradualmente come una nuova disciplina in grado di accedere ad
una nuova conoscenza dell’uomo in genere e non solo in
condizioni patologiche. Alla base dei fenomeni psichici vi è il
principio del piacere che ha la funzione, come suggerisce il
nome, di evitare il dispiacere e la sofferenza. Esso provvede a ciò
scaricando le varie tensioni e ristabilendo uno stato di equilibrio
mediante l’appagamento dei desideri, anche se ciò non avviene
quasi mai per via diretta bensì per via allucinatoria, grazie a
soddisfazioni sostitutive rispetto a quelle reali. Questa situazione
genera inevitabilmente disillusione, in modo che viene a
costituirsi e ad operare un secondo principio, il principio di
realtà, che cerca il soddisfacimento in relazione alle condizioni
imposte dalla realtà, anche se questa si può presentare come
spiacevole. Il principio del piacere tende ad ottenere tutto
immediatamente, mentre il principio di realtà può differire la
soddisfazione in vista di una meta possibile, ritenuta più sicura e
meno illusoria. Vi è qui la sublimazione, che consiste in breve
nel reagire positivamente ad una situazione spiacevole, in modo
da ottenere in qualche modo un soddisfacimento anche se non è
proprio quello che si voleva.
Tale dualismo verrà ulteriormente precisato e corretto in Al di là
del principio del piacere (1920), un saggio nel quale Freud,
accanto alle pulsioni (non istinti!) sessuali, chiamate Eros,
riconosce l’esistenza di una pulsione di morte, Thanatos, ossia
di una tendenza distruttiva inerente alla vita stessa. Egli giunge a
questa
conclusione
dall’osservazione
dei
comportamenti
caratterizzati dalla coazione a ripetere, quando il soggetto
ripete ossessivamente operazioni anche spiacevoli e dolorose che
riflettono, in modo più o meno mascherato, elementi di conflitti
passati. Secondo Freud, tali comportamenti mettono in
discussione il primato che in genere si dà al principio del piacere,
ed introducono l’ipotesi di una seconda tendenza originaria, la
quale è portata verso la scarica totale delle pulsioni, ossia verso
un principio di morte. Quando le pulsioni distruttive o di morte
sono rivolte verso l'interno della persona, esse tendono
all’autodistruzione, quando sono rivolte verso l’esterno assumono
la forma di pulsioni di aggressione e di distruzione. Nella realtà
psichica, le pulsioni si presentano sovente come ambivalenti,
caratterizzate cioè dalla compresenza dei due principi di vita e di
morte; anche la sessualità presenterebbe tale ambivalenza sotto
forma di amore e di aggressività.
LA SECONDA TOPICA. Nell’opera L’Io e l’Es del 1923, Freud
individua tre istanze dell’apparato psichico che non chiama più
conscio, preconscio e inconscio come aveva fatto nella prima
topica, ma Io, Es e Super Io. Attenzione : non corrispondono
alle tre componenti della prima topica! Freud riprende il termine
Es, pronome neutro nella lingua tedesca, da un libro di Georg
Groddeck, il quale scrisse appunto un’opera intitolata Il libro
dell’Es(1923), per indicare il "serbatoio" dell’energia psichica,
l’insieme delle espressioni dinamiche inconsce delle pulsioni, le
quali sono in parte ereditarie ed innate e in parte rimosse e
acquisite. L’Es è retto dal principio del piacere, mentre l’Io è retto
dal principio di realtà e deve mediare tra le richieste pressanti
dell’Es e quelle altrettanto pressanti del Super Io (che è in breve
la coscienza morale, la quale si forma in seguito all’educazione e
all’ambiente in cui si vive, e nasce al termine del complesso
edipico. Ma su ciò vedi oltre, la parte dedicata alla sessualità). Il
Super Io fa le funzioni del giudice e del censore nei confronti
dell’Io (nell’Io, la percezione inconscia delle critiche del Super Io
si esprime nel senso di colpa). Insomma, dice Freud, "spinto così
dall’Es, stretto dal Super Io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per
venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra
le forze e gli impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi
comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere
l’esclamazione : la vita non è facile!" (cfr. Introduzione alla
psicoanalisi, 31^ lezione).
LA SESSUALITA’. L’interpretazione dei sogni dei "pazienti"
condusse Freud a scorgere in essi la presenza di desideri sessuali
risalenti all’infanzia. La scoperta della sessualità infantile fu una
delle cose più scioccanti della psicoanalisi! Fino ad allora si
identificava la sessualità con l’attività genitale dell’adulto. Freud
invece non restringe la sessualità a mera genitalità bensì la
intende come la ricerca del piacere corporeo e dunque, da
questo punto di vista, è presente in tutte le età della vita umana;
inoltre non ha più senso una distinzione netta tra
eterosessualità che rappresenta la norma ed omosessualità
che rappresenta la perversione. "Coloro che si definiscono
omosessuali sono gli invertiti consci e manifesti". in realtà,
impulsi omosessuali o, meglio, bisessuali, sono presenti in tutti
gli esseri umani. Ciò non deve stupire, se si tiene conto che la
sessualità è finalizzata alla ricerca del piacere.
Il bambino è dunque un essere che vive una sua vita sessuale
completa. Freud lo definisce perverso polimorfo nel senso che il
bambino ricerca forme di godimento senza tenere in alcun conto
del fine riproduttivo della sessualità (ecco la perversione, che
non ha dunque nessuna connotazione morale negativa), e ricerca
inoltre il piacere attraverso i vari organi corporei, (ecco il
polimorfismo), nelle diverse zone erogene (parti del corpo che
sono fonti di piacere). Freud distingue nello sviluppo della
sessualità cinque fasi, ognuna delle quali è caratterizzata
dall’organo che vi è privilegiato nella ricerca del piacere.
La prima è la fase orale, che va dalla nascita ai due anni circa ed
in essa la libido (così Freud chiama l’energia sessuale) si
concentra nella bocca (la bocca è la prima zona erogena) : il
bambino prova piacere portando qualunque cosa alla bocca, dal
seno della mamma agli oggetti che trova a parti del proprio corpo
(dito, piede ecc.). Tale modo di fare è anche il suo primo modo di
conoscere il mondo : in altri termini, portando qualcosa alla bocca
il bambino comincia a capire che cos’è, lo distingue da altre cose
ecc.
La seconda fase è chiamata fase anale, va dai due ai quattro
anni circa, e durante essa il bambino prova piacere nel trattenere
e nel rilasciare gli sfinteri anali : è collegata agli inviti materni o
famigliari ad espellere o a ritenere le feci ("l’educazione al
vasino"), che assumono quindi carattere ambivalente, buono e
cattivo al tempo stesso. E’ anche il periodo del no, in cui il
bambino inizia ad essere autonomo e vuole appropriarsi sempre
di più della sua raggiunta autonomia.
La terza fase è ancora più importante e viene chiamata fase
fallica (va dai quattro ai sei, sette anni circa) perché indica la
scoperta del proprio organo genitale e la sua diversità da quello
dalla sorellina o dal fratellino. In questa fase vi è la paura da
parte del maschietto di perdere il proprio organo (complesso di
castrazione: poiché il maschietto ha qualcosa più visibile e la
bambina no, il maschietto crede che la bambina sia stata punita
col taglio del suo organo sessuale e teme anche lui di fare la
stessa fine) e l’invidia del pene da parte della femminuccia, che
non ha quella cosa che il maschietto ha. Durante questa fase
nasce il complesso d’Edipo, che indica la normale crisi emotiva,
in genere a livello di fantasie più o meno inconsce, provocata dai
desideri sessuali del maschietto verso la madre e la gelosia nei
confronti del padre; analogamente succede nella bambina (è il
periodo in cui, in breve, il bambino vuole sposare la mamma e la
bambina vuole avere un figlio dal papà). Questo periodo è
superato in genere col processo di identificazione nel genitore
del proprio sesso, che è un processo importantissimo: visto che il
bambino si rende conto di non potere sposare la mamma, che è
già sposata col papà, allora impara ad assumere i vari
atteggiamenti tipici del maschio adulto nella società in cui vive,
identificandosi appunto nella figura del padre; analogamente
succede con la bambina, che imparerà a diventare una "piccola
donna" per far piacere al papà. E’ in questa fase che si impara a
diventare maschi o femmine, nel senso che si identifica il proprio
sesso biologico con le tendenze sessuali psicologiche e con le
tendenze sessuali considerate "normali", mentre prima si era
ancora "bisessuali". Ecco perché, secondo Freud, se il complesso
edipico non viene superato normalmente, possiamo, nell’analisi,
far risalire a questo periodo le origini di tendenze omosessuali
(ad es. in comportamenti ambigui da parte dei genitori nei
confronti del bambino, oppure nel rifiuto del bambino perché si
preferiva una bambina ecc.) e addirittura di comportamenti
delinquenziali : in quest’ultimo caso, ciò accade perché la fase
fallica segna anche l’inizio della socializzazione e della formazione
della coscienza morale, con la graduale introiezione delle norme
morali (nasce il Super Io, cioè il bambino impara che cos’è giusto
e che cos’è sbagliato e lo interiorizza), e quindi, se al bambino
non viene insegnato chiaramente che cosa è bene e che cosa è
male, può credere che sia bene fare il male e viceversa. Il che
non
fa
che
ribadire
l’importanza
fondamentale
dell’educazione famigliare nei primi anni di vita del
bambino!
Dopo queste prime tre fasi, caratteristiche della sessualità
infantile, vi è una quarta fase, detta fase di latenza (latenza
perché la sessualità è in questo periodo nascosta, latente,
rispetto al resto), che corrisponde all’incirca all’ingresso del
bambino nel mondo della scuola (dai sei agli undici anni).
Quest’epoca segna una relativa "tregua" delle pulsioni sessuali
perché adesso il bambino entra nell’ordine sociale e culturale del
suo ambiente e quindi i suoi interessi principali sono ora
focalizzati a vivere bene questo periodo : il bambino ci tiene ad
andare a scuola, a diventare adulto, ad essere all’altezza di quello
che gli altri si aspettano da lui (ecco perché un insuccesso
scolastico è a volte così condizionante!) ecc.
Infine vi è la fase genitale vera e propria, che, come si vede,
non è che l’ultima nello sviluppo della sessualità e corrisponde
all’epoca della pubertà e della adolescenza, durante la quale si
forma in maniera definitiva la propria personalità sessuale (con
tutti i fenomeni connessi : la crescita, la prima mestruazione e la
prima polluzione, lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari come
peli, barba, seno ecc.) che preluderà al "normale" rapporto adulto
eterosessuale.
LA RELIGIONE. Freud ha affrontato le tematiche religione in
diverse opere (Totem e tabù, L’uomo Mosè e la religione
monoteistica ecc.). In particolare, ne L’avvenire di una
illusione (1927), egli critica la religione definendola appunto una
illusione, nel senso che è un appagamento illusorio dei desideri
più antichi dell’umanità (la felicità, l’immortalità, la giustizia,
l’amore ecc.). La stessa figura di Dio, visto come un Padre sia
amato che temuto, non sarebbe altro, per Freud, che la
proiezione dei rapporti psichici ambivalenti che l’uomo ha col suo
padre terreno. Con tutto ciò, comunque, Freud non intende dire
che la religione sia necessariamente falsa, ma ribadisce che
contiene in sé elementi di illusione, che ne fanno qualcosa di
indimostrabile e, per ciò stesso, di inconfutabile. Egli auspica
comunque che l’umanità futura possa vivere senza religione visto
che essa, secondo Freud, non ha adempiuto al suo compito, cioè
non è riuscita a rendere felice la maggior parte degli uomini e gli
uomini non sono cambiati. Essa dunque può essere abbandonata
e ciò segnerà il passo verso una maggiore maturità spirituale
dell’umanità.
IL DISAGIO DELLA CIVILTA’. In un saggio del 1929, Il
disagio della civiltà, Freud ritiene che la civiltà sia una tappa
necessaria nel divenire dell’umanità ma che essa comporti
inevitabilmente un certo grado di infelicità. Essa infatti
obbliga l’uomo ad inibire molti desideri e pulsioni (in tedesco la
parola "pulsione" è Trieb, che è diversa dall’istinto ereditario e si
riferisce a processi psichici dinamici) e a rinunciare al
soddisfacimento di molte esigenze, a meno che non le possa
deviare verso delle mete socialmente e moralmente accettabili
(ecco la sublimazione, di cui abbiamo già accennato ). Le
ragioni che inducono una società a reprimere la libido sono chiare
: da un lato essa deve neutralizzare una forza che opera in modo
individualistico e amorale(si ricordi l’Es, il principio del piacere
ecc.), minando i presupposti stessi della convivenza civile (ecco il
perché del tabù dell’incesto!); dall’altro la società non può fare a
meno delle forze e dell’energia dei suoi membri e dunque deve
obbligare ciascuno di essi ad "investire" l’energia libidica (che
altrimenti ognuno di noi investirebbe in altri passatempi molto più
piacevoli : ecco il perché dei vari divieti e regole sessuali in tutte
le società) in prestazioni di tipo socialmente accettabile. Se del
resto fosse permesso all’uomo di dare libero sfogo ai suoi desideri
e istinti, la società decadrebbe e … a quest’ora non ci sarebbe più
nessuno vivo! Vi è quindi la necessità di reprimere gli istinti
distruttivi, e la civiltà lo fa attraverso norme, divieti e permessi,
metodi educativi all’interno della famiglia e poi nella scuola, nella
società ecc. Però, visto che è impensabile il dominio assoluto del
Super Io sull’Es, allora un certo grado di disagio, di infelicità, di
sofferenza, di nevrosi è inevitabilmente connesso con la civiltà
stessa. insomma, l’uomo non può sopravvivere senza civiltà ma
nella civiltà non può mai vivere del tutto felice. L’uomo potrà
trovare, tra le pressioni delle varie passioni e la necessità di
costringerle, soltanto una tregua ma non la serenità completa.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Sigmund Freud nacque a Freiberg, in Moravia, allora sotto
l’impero absburgico, il 6 Maggio 1856, da una famiglia di ebrei
commercianti che, qualche anno dopo, si stabilì definitivamente a
Vienna. Laureatosi in medicina nel 1881, freud lavorò per un po’
nel laboratorio di neurofisiologia diretto da Brücke. Nel 1882, per
ragioni economiche, abbandonò la ricerca scientifica e si dedicò
alla professione medica, specializzandosi in neurologia. Nel 1885
ottenne una borsa di studio e andò a Parigi, alla scuola di
neuropatologia della Salpetrière, diretta da Charcot, che lasciò
una profonda impressione sul giovane studioso (anche se Freud
non accettò le conclusioni di Charcot, il quale considerava l’isteria
una malattia dovuta a cause organiche e la paragonava ad uno
stato di ipnosi; fece però sua una osservazione che per Charcot
era marginale : la connessione tra isteria e sessualità). Nel 1886
si sposò con Martha Bernays, da cui ebbe sei figli (la più famosa
tra loro fu Anna Freud, che continuò le ricerca del padre
nell’ambito della psicoanalisi infantile). nel 1889 Freud passò un
periodo di studio a Nancy, dove studiò l’ipnosi presso una scuola
in aperto contrasto con Charcot. Tornato a Vienna, si dedicò
completamente alla professione di neurologo. Nel frattempo
strinse amicizia con Josef Breuer, con cui pubblicò nel 1895 gli
Studi sull’isteria e con cui iniziò l’avventura e la scoperta della
psicoanalisi. Breuer, infatti, utilizzando l’ipnosi, era riuscito a far
ricordare ad una sua paziente, Anna O., gli eventi traumatici
connessi con l’insorgere dell’isteria. Avvertendo però che nella
paziente si stava sviluppando una forma di amore e di dipendenza
nei suoi confronti (quel fenomeno che poi sarà chiamato
transfert), Breuer aveva interrotto la terapia e aveva affidato la
paziente a Freud. Freud riuscì, grazie ad un nuovo metodo, la
talking cure, la cura con le parole, come l’aveva chiamata la
stessa Anna O., a guarire la giovane. Era nata la psicoanalisi!
Nel 1899 (ma con data simbolica del 1900) Freud pubblicò
L’interpretazione
dei
sogni
(Traumdeutung),
opera
fondamentale che segnava l’inizio di una nuova epoca del
pensiero occidentale! da allora in poi Freud si dedicò
completamente ad approfondire i fondamenti della sua scoperta,
che ebbe, all’inizio, moltissimi denigratori e critici (soprattutto nei
confronti della teoria freudiana della sessualità infantile). Nel
1908 vi fu il primo Congresso della Società psicoanalitica
Internazionale, che vide presenti, tra gli altri, Jung (il quale si
staccherà poi da Freud, così come farà Adler, e darà origine ad
una forma diversa di psicologia del profondo, la psicologia
analitica; mentre Adler chiamerà la propria teoria psicologia
individuale).
Nel 1933 a Berlino i nazisti bruciarono , in un rogo tristemente
famoso, anche le opere dell’ebreo Freud. Egli cercò di resistere il
più possibile all’avanzare della barbarie nazista ma nel 1938
Freud fu costretto ad andarsene e si trasferì a Londra. Lì vivrà
ancora un anno e poi morirà, per un cancro alla mascella, il 23
Settembre 1939.
HENRI
BERGSON
(18591941)
Henri Bergson è stato considerato il filosofo francese più
importante del suo tempo. Il suo influsso è stato notevole
sulla filosofia del primo Novecento ed anche in campo più
genericamente culturale (si pensi a Proust e alla concezione
del tempo): è stato il primo filosofo che ebbe il Nobel per la
letteratura nel 1928. Il pensiero di Bergson ha come suo
presupposto la ridefinizione dei rispettivi ordini di competenza
della scienza e della filosofia. Egli dichiara infatti che il suo
tentativo è duplice : da un lato quello di purificare la scienza
dallo scientismo, ossia da una metafisica che si maschera da
conoscenza scientifica positiva, e dall’altro quello di liberare la
filosofia da una concezione di se stessa che non ne salva
l’originalità, in quanto la riduce ad una sorta di super-scienza,
il cui compito si risolverebbe nel sintetizzare i risultati delle
scienze positive, portandoli ad un livello di generalizzazione.
Negli anni giovanili, Bergson si entusiasmò per la teoria
evoluzionistica di HERBERT SPENCER (1820-1903), al
punto che egli non voleva far altro che perfezionare e
consolidare i Primi principi (1862) di Spencer (è il primo
volume dell’opera Sistema di filosofia sintetica, in cui la
teoria dell’evoluzione è presentata come una grandiosa
metafisica dell’universo, che dà luogo ad una concezione
ottimistica del divenire, visto come un inarrestabile
progresso). Ma fu proprio riflettendo su queste tematiche che
Bergson si accorse che il Positivismo non mantiene affatto la
promessa di fedeltà ai fatti, come appare ad es. nella
trattazione del problema del tempo.
LA CONCEZIONE DEL TEMPO. Alla concezione scientifica,
meccanica sfugge il tempo dell’esperienza concreta. Nel
Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson
sostiene che il tempo è considerato dalla meccanica come una
serie di istanti uno accanto all’altro : è un tempo
spazializzato ed anche reversibile, perché possiamo tornare
indietro e ripetere infinite volte lo stesso esperimento. Inoltre
per la meccanica ogni momento è esterno all’altro ed è
uguale all’altro : un istante si sussegue ad un altro, e non c’è
un istante più intenso o più importante di un altro. Il tempo
vissuto invece dall’esperienza concreta è totalmente diverso.
Se la spazialità è la caratteristica delle cose, la durata è la
caratteristica della coscienza. Durata vuol dire che l’io vive
il presente e nel presente con la memoria del passato e
l’anticipazione del futuro. Passato e futuro possono vivere
soltanto in una coscienza che li salda nel presente. La durata
vissuta non è quindi il tempo spazializzato della meccanica. Si
badi : il tempo spazializzato funziona bene per le finalità
pratiche della scienza, ma la scienza è del tutto inadeguata
per l’esame dei dati concreti della coscienza.
LA LIBERTA’. all’idea della durata, quale fondamentale
caratteristica della coscienza, Bergson lega la sua difesa della
libertà e la sua critica al determinismo, se esso presume di
poter spiegare la vita della coscienza. La vita della coscienza
non è divisibile in stati separati e distinti, l’io è una unità in
divenire. E quindi dove nulla vi è di identico, non vi è nulla di
prevedibile. Se la vita dell’io è presa nel suo flusso
ininterrotto, allora si può scorgere che alcuni atti nascono dalla
totalità della personalità e, proprio per questo, sono liberi :
"Siamo liberi quando i nostri atti scaturiscono da tutta la
nostra personalità, quando la esprimono, quando hanno con
essa quella indefinibile rassomiglianza che si trova talora tra
l’artista e la sua opera". La libertà non è quindi definibile,
giacché ogni definizione è il risultato di un’analisi, la quale
implica la trasformazione di un processo in una "cosa"; mentre
la libertà è qualcosa di cui noi siamo immediatamente
consapevoli ma che non può essere dimostrata. Siccome poi
essa è propria dell’io profondo, non sempre noi siamo
veramente liberi nel nostro agire, anzi spesso è l’io superficiale
che predomina : l’io cioè che subisce le varie determinazioni,
tra le quali hanno particolare incidenza le pressioni sociali.
MEMORIA, RICORDO, PERCEZIONE. In Materia e
memoria (1896), Bergson cerca di "cogliere più chiaramente
la distinzione del corpo e dello spirito e di penetrare più
intimamente nel meccanismo della loro unione". Contro quelli
che riducono lo spirito a materia o che considerano gli stati
mentali e quelli cerebrali come due diversi modi di riferirsi allo
stesso processo, Bergson ribadisce che il cervello non spiega
lo spirito e che "in una coscienza umana c’è infinitamente
di più che nel cervello corrispondente". Egli distingue a
questo proposito tra memoria, ricordo e percezione. La
memoria coincide in pratica con la stessa coscienza e non può
essere collocata spazialmente nel cervello. La memoria, per
realizzarsi, ha bisogno dei meccanismi legati al corpo, ma essa
è indipendente dal corpo stesso, così che ad es. una lesione
del cervello non colpisce propriamente la coscienza ma i
ricordi, i collegamenti tra la coscienza e la realtà (la coscienza
resta intatta anche se perde il contatto con le cose). Da questa
memoria spirituale, che è la durata della coscienza, si
distingue appunto il ricordo. La funzione del cervello consiste
nel far filtrare solo quei ricordi che possono interessare
l’azione da compiersi. Il cervello, in altri termini, passa solo
una parte molto piccola di quello che è il processo della
coscienza. La percezione è, per Bergson, "l’azione possibile
del nostro corpo sugli altri corpi". Con tale definizione egli
intende dire che la percezione non ha un carattere puramente
conoscitivo ma pratico, operativo perché percepire significa
modificare la realtà materiale in base alle esigenze del
nostro corpo, cioè in pratica agire.
L’EVOLUZIONE CREATRICE. Ne L’evoluzione creatrice
(1907), Bergson elabora una "visione del mondo" che
sintetizza il suo pensiero. Al pari della vita della coscienza, la
vita biologica non è una macchina che si ripete, sempre
identica a se stessa, bensì è continua ed incessante novità, è
creazione, imprevedibilità, è vita sempre nuova che,
inglobando e conservando l’intero passato, cresce su se
stessa. La nozione di evoluzione creatrice permette a
Bergson di andare al di là del meccanicismo e del finalismo,
giacché la vita è vista come "una realtà che si stacca
nettamente sulla materia bruta". La vita – abbiamo detto – è
creazione libera e imprevedibile, è slancio vitale, mentre la
materia non è altro che il momento dell’arresto di quello
slancio vitale. La vita è continua creazione di forme, dove quel
che viene dopo non è una semplice ricombinazione degli
elementi che c’erano prima; essa è azione che di continuo si
crea e si arricchisce, mentre la materia è azione che si
dissolve e si logora, che si depotenzia e si degrada. In altri
termini, la materia è slancio vitale degradato, slancio che ha
perduto di creatività; è un riflusso dello slancio vitale che, a
partire da una originaria unità, si irraggia e ricade in una
molteplicità di elementi, il cui slancio e creatività vanno
spegnendosi. L’evoluzione creatrice, dunque, non è un
processo uniforme. Essa dà origine alla vita vegetale, a quella
animale e a quella razionale. Non si tratta di tre gradi
successivi di una medesima tendenza, ma di tre tendenze
divergenti, di una attività che si è divisa nel suo sviluppo : il
mondo vegetale è caratterizzato dalla fissità e dalla
insensibilità, mentre nel mondo animale si trovano la mobilità
e la coscienza, con prevalenza della vita istintiva di alcune
specie e di quella intelligente in altre. Anche se Bergson
considera praticamente ogni animale dotato della coscienza
("Sarebbe assurdo rifiutare la coscienza ad un animale, perché
non ha cervello, quanto dichiararlo incapace di nutrirsi perché
non ha stomaco"), vi sono naturalmente molte differenze tra
l’uomo e gli altri animali, ed una non trascurabile è quella tra
istinto e intelligenza.
ISTINTO, INTELLIGENZA E INTUIZIONE. L’istinto, dice
Bergson, è necessariamente specializzato, non essendo che
l’utilizzazione di uno strumento determinato; in altre parole, è
la facoltà di usare e anche di costruire strumenti organici cioè
che sono parti dell’organismo stesso. L’intelligenza è invece
la facoltà di riuscire a fabbricare oggetti artificiali, in
particolare degli utensili per fare degli altri utensili, e di
variarne indefinitamente la fabbricazione, il che gli animali non
riescono a fare. Così l’uomo, per Bergson., prima di essere
sapiens, è soprattutto homo faber. Se l’intelligenza è
consapevole, conosce i rapporti tra le cose, distaccandosi dalla
realtà immediata, può anche prevedere quella futura. Per
ragioni pratiche, dunque, l’intelligenza analizza e astrae,
classifica, distingue e frantuma la durata reale. Però "mille
fotografie di Parigi non sono Parigi". Dunque né l’intelligenza
né tantomeno l’istinto ci danno la vera realtà : "ci sono cose
che soltanto l’intelligenza è capace di cercare, ma che da sé
non troverà mai; soltanto l’istinto potrebbe scoprirle, ma esso
non le cercherà mai". Fortunatamente per l’uomo, egli
possiede anche l’intuizione : essa è immediata come l’istinto
e consapevole come l’intelligenza. L’intuizione è "la visione
dello spirito da parte dello spirito". L’intelligenza gira attorno
all’oggetto, ma non entra in esso, come fa l’intuizione. Ed è
sempre l’intuizione che ci svela la durata della coscienza e il
tempo reale, e che ci rende consapevoli di quella libertà che
siamo noi stessi.
SCIENZA E FILOSOFIA. Ora, la scienza usa come strumento
l’intelligenza, e proprio per questo mira al controllo
concettuale e pratico dell’ambiente in cui l’uomo vive. La
filosofia, al contrario, intesa come metafisica, si serve
dell’intuizione e "riserva per sé lo spirito". Non si tratta di
svalutare la scienza a favore della filosofia, ma di tenere
presente che esse ci offrono due mondi diversi : la scienza ci
dà un mondo costruito in forma di simboli, senza del quale
non si potrebbe vivere, giacché si può agire solo in un mondo
in cui le cose sono distinte; la filosofia ci dà la coscienza della
realtà, come continuo flusso del divenire; essa intuisce e così
ci fa entrare in contatto diretto con le cose e con quell’essenza
della vita che è la durata. D’altronde entrambe sono in
relazione tra loro : la scienza può fornire verifiche per la
metafisica, mentre quest’ultima può, proprio perché basata
sull’intuizione, aiutare la scienza a correggere i suoi errori. Né
tutto nella filosofia si riduce ad intuizione, giacché uno sforzo
di riflessione rimane necessario per afferrare il contenuto
dell’intuizione stessa. Per questo la filosofia non può fare a
meno del lavoro di concettualizzazione e del linguaggio, ed
essa si instaura proprio sul continuo rimando tra intuizione ed
espressione. Anche nella forma più alta di intuizione come
quella di cui godono i mistici, l’uso del linguaggio, anche se
immaginoso, diviene la via più appropriata per comunicare
qualche cosa agli altri delle esperienze avute.
SOCIETA’ E RELIGIONE. E proprio al tema della creatività
morale e religiosa dell’uomo. Bergson dedica la sua ultima
opera, Le due fonti della morale e della religione (1932).
Le norme morali hanno due origini : o la pressione sociale
oppure lo slancio d’amore. Nel primo caso, le norme sono
appunto il frutto della pressione sociale, esprimono le esigenze
della vita associata. L’individuo, in genere, segue la via che
trova già battuta dagli altri e codificata nelle norme della sua
società; si adegua alle regole di questa, ne esalta gli ideali e
cerca di conformarvisi. Alla base della società c’è solo
l’abitudine di contrarre abitudini. Questa morale
dell’obbligazione è tipica di una società chiusa, dove
l’individuo agisce come parte di un tutto, e questo tutto è un
gruppo determinato come la nazione, la famiglia o il club.
Esiste poi anche la morale della società aperta. E tale è la
morale del cristianesimo, dei saggi della Grecia e dei profeti di
Israele. tale morale è l’opera creatrice di eroi morali che vanno
al di là dei valori del gruppo cui appartengono per guardare
all’uomo in quanto uomo, all’intera umanità. Il fondamento
della morale aperta è la persona creatrice; il fine ne è
l’umanità; il suo contenuto è l’amore verso tutti gli uomini; la
sua caratteristica è l’innovazione morale, capace di rompere
gli schemi fissi delle società chiuse.
Anche nella vita religiosa Bergson distingue una religione
statica e una religione dinamica. La religione statica è
quella basata su miti e favole. Essa, con le sue favole, miti e
superstizioni, rafforza i legami sociali tra l’uomo e i suoi simili;
inoltre dà la speranza nell’immortalità, offre all’uomo l’idea di
una difesa contro l’imprevedibilità e la precarietà del futuro, gli
dà il senso di una protezione soprannaturale e la credenza di
poter influire sulla realtà, specialmente quando la scienza e la
tecnica risultano impotenti. Ma non è l’unica forma di
religione. Vi è anche la religione dinamica o aperta, che è
quella dei mistici. Il misticismo è "una presa di contatto e, di
conseguenza, una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore,
che la vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio
stesso… Dio è amore ed oggetto di amore : qui è tutto il
misticismo". L’esperienza del divino come amore deve tradursi
in una operosità che mira a promuovere la creatività dell’uomo
e l’amore per i propri simili. Di qui, a giudizio di Bergson, la
differenza tra misticismo orientale e quello cristiano. Mentre il
primo è contemplativo e non crede all’efficacia dell’azione, il
secondo (quello di San Paolo, S. Francesco, S. Teresa, S.
Caterina, S. Giovanna d’Arco ecc.) è un superiore punto di
slancio per l’azione del mondo. L’amore di Dio diventa, così,
amore per tutta l’umanità. Oltre a ciò, è solo l’esperienza
mistica, secondo Bergson, che può fornire l’unica prova per
dimostrare l’esistenza di Dio : l’accordo tra i mistici delle varie
religioni indica appunto l’esistenza reale di quell’essere col
quale l’estasi mistica mette in contatto. L’umanità odierna,
conclude Bergson, ha urgente bisogno di genî mistici. Il potere
dell’uomo sul mondo, grazie alle scienze, si è ingrandito a
dismisura. Ebbene, tutto ciò "attende un supplemento di
anima e la meccanica esigerebbe una mistica", visto che
l’universo ha come sua funzione essenziale quella di essere
una macchina per fare dèi.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Henri Bergson nacque a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea.
Studiò alla Scuola Normale e conseguì il dottorato in filosofia
nel 1889 con due dissertazioni, una in latino e l’altra in
francese. Quest’ultima, il Saggio sui dati immediati della
coscienza, fu pubblicata nello stesso anno ed ebbe un grande
successo. La seconda opera importante, Materia e memoria,
apparve nel 1896 ed ebbe una notevole influenza su William
James (del pragmatismo americano) e su Marcel Proust (di cui
Bergson sposò una cugina). Tre anni dopo, Bergson venne
chiamato ad insegnare al Collège de France. Il filosofo
continuò a scrivere e a mietere successi : Introduzione alla
metafisica (1903), L’evoluzione creatrice (1907), Durata
e simultaneità (1922). Divenuto accademico di Francia, nel
1928 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua
ultima opera importante è del 1932 : Le due fonti della
morale e della religione.
Negli ultimi anni di vita egli si avvicinò al cattolicesimo, senza
tuttavia abbracciarlo ufficialmente per solidarietà con la
comunità ebraica ormai oggetto delle persecuzioni naziste.
Morì a Parigi, ancora occupata dai Tedeschi, nel 1941.
JEANPAUL
SARTRE
(19051980)
Sartre è stato il maggiore rappresentante dell’esistenzialismo
francese (insieme ad Albert Camus e a Simone de Beauvoir).
Poligrafo, si è trovato a suo agio nei più diversi generi letterari
: dal saggio al romanzo, dal teatro alle grandi opere filosofiche
all’articolo giornalistico. Nel 1964 gli fu assegnato il premio
Nobel per la letteratura che però Sartre rifiutò. E’ morto a
Parigi, nel quartiere latino, al numero 47 di rue Bonaparte, nel
1980.
Sartre iniziò la sua attività di scrittore con studi di psicologia
fenomenologica, in opposizione alle concezioni contemporanee
che erano dominate da una visione naturalistica dei fatti
psichici e dal primato assegnato al problema della conoscenza.
Sartre ritiene che la fenomenologia di Husserl permetta di
cogliere i significato autentico dei vari fenomeni psichici,
grazie al concetto di intenzionalità, che consente di evitare la
riduzione sia del soggetto all’oggetto e sia dell’oggetto al
soggetto, ossia gli scogli opposti di realismo-materialismo e
idealismo. A differenza di Husserl poi, Sartre ritiene che il
rapporto tra la coscienza ed il mondo non sia di tipo
soprattutto conoscitivo. L’ego è soltanto una delle modalità
della coscienza, la modalità riflessa, che è secondaria rispetto
alla modalità irriflessa, mentre le emozioni sono delle modalità
essenziali e non secondarie nelle quali la coscienza si rapporta
al mondo e gli conferisce un significato. Meglio ancora, l’ego
non è "nella coscienza, ma è fuori, nel mondo : è un ente del
mondo come l’io di un altro". Il che vuol dire che l’uomo è
quell’essere la cui apparizione fa sì che esista un mondo. E’
l’uomo che dà senso al mondo, mentre il mondo, di per sé,
non ha alcun senso.
Quest’ultima tesi viene rielaborata in forma letteraria nel
famoso romanzo La nausea (1938), in cui si narrano le
vicende di un certo Antoine Roquentin, il quale, riflettendo
sulle ragioni della propria esistenza e del mondo che lo
circonda, ha l’esperienza rivelatrice della nausea. La nausea è
il sentimento che ci invade quando si scopre l’essenziale
assurdità e contingenza della realtà. Leggiamolo dalle
parole stesse di Sartre. Ecco un brano :
"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva
nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né
come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva
senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non
c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un
momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto
questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione
perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile
che non esistesse. Era impensabile : per immaginare il nulla
occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi
spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea
esistente, fluttuante in quella immensità : quel nulla non era
venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e
apparsa dopo molte altre".
Scoprire che il mondo non ha senso, che è assurdo, provoca la
nausea. Sartre scrive ancora :
"L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione,
l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì,
semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare
ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha
compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa
contingenza inventando un essere necessario e causa di sé.
orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare
l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza,
un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per
conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo
giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di
rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a
fluttuare … ecco la Nausea".
La vita di Roquentin si scopre dunque priva di senso; nessun
scopo riesce più ad orientarla; egli esiste come una cosa,
come tutte le cose che emergono, nell’esperienza della
nausea, nella loro gratuità ed assurdità. "Ogni esistenza nasce
senza ragione, si protrae per debolezza e muore per
combinazione".
Ne L’essere e il nulla (1943), Sartre giustifica le stesse idee
in un saggio filosofico di ampio respiro che esprime i concetti
che diverranno famosi di un clima esistenziastico del
Dopoguerra : assurdità, non senso, nulla ecc.
La coscienza – dice Sartre – è sempre coscienza di qualche
cosa, e di qualche cosa che non è la coscienza : questo essere
è definito da Sartre come l’essere-in-sé o, brevemente, l’insé. In altri termini, sono tutte le cose che non sono la
coscienza, gli oggetti che incontriamo ecc. L’essere-in-sé è ciò
che è, non è possibile né necessario, è semplicemente. La
coscienza viene invece definita da Sartre come l’essere-persé o, brevemente, per-sé, che indica che essa è presenza a
sé stessa. In altri termini : io ho coscienza degli oggetti del
mondo, ma nessuno di questi oggetti è la mia coscienza. Se
poi la coscienza è presenza a se stessa, questa presenza a se
stessa implica una sorta di scissione, di separazione interiore
nell’essere della coscienza perché essa fonda se stessa in
quanto si determina perpetuamente a non essere l’in-sé. La
realtà umana è quindi, per Sartre, nullificazione, mancanza di
essere. Il nulla, nel linguaggio sartriano, è la condizione
necessaria del per-sé, cioè della coscienza umana, che fa
sempre l’esperienza del nulla in ogni atto dell’esistere e
dell’agire. Questo è dimostrato ad es. dal desiderio : esso non
è forse un bisogno di completamento poiché desidero ciò che
mi manca, ciò che non ho ? Ma non solo : si pensi alla figura di
un cerchio incompiuto, ad un quarto di Luna : essi non
mancano forse qualcosa per la coscienza, la quale si aspetta o
pretende il loro completamento, e cioè quello che non è?
Analogamente, tutti i tratti della realtà umana sono visti da
Sartre come rapporti di nullificazione : ad es. la conoscenza è
tale perché l’oggetto si presenta alla coscienza come ciò che
non è la coscienza; oppure gli altri, le altre persone : l’altra
esistenza è tale in quanto non è la mia, anzi qui la negazione è
reciproca.
Il nulla è dunque intrinsecamente legato all’essere, ma non è
generato dall’essere, bensì dall’essere della coscienza che,
come abbiamo già detto, si perpetua a non essere l’in-sé. Ma,
per potere fare ciò, per poter decidere continuamente di non
essere l’in-sé, la coscienza vivere in una condizione
particolare, deve cioè essere libera. E in effetti, per Sartre, la
coscienza è assolutamente libera. E per libertà Sartre intende
proprio quella possibilità di nullificazione o rottura del mondo
che è la struttura stessa dell’esistenza umana. L’uomo è
inoltre perpetuamente minacciato dalla nullificazione della sua
scelta attuale, è, in altri termini, perpetuamente minacciato di
scegliersi, quindi di diventare altro da quello che è. L’uomo,
dice Sartre, è "condannato ad essere libero" nel senso che
è "condannato" perché non si è creato da sé, ma, una volta
nato, è però responsabile di tutto quello che fa, del suo
progetto fondamentale, della sua vita e di quella degli altri.
Dunque tutto ciò che accade all’uomo dipende dalla libertà e
dalla responsabilità della scelta originaria. Da questo punto di
vista, nulla di ciò che accade all’uomo, per quanto terribile sia,
può essere detto inumano, poiché tutto è dipeso dall’uomo. E
nessuno ha scuse : se si fallisce, si fallisce perché si è scelto di
fare fallimento. Cercare delle scuse significa essere in
malafede: la malafede presenta infatti il voluto come fosse
una necessità inevitabile.
L’uomo quindi si sceglie. La sua libertà è incondizionata
(perché egli può mutare in ogni istante, l’abbiamo già detto, il
suo progetto fondamentale). E come la nausea costituiva
l’esperienza metafisica che rivelava la gratuità e l’assurdità
dell’esistenza e delle cose, così l’angoscia è l’esperienza
metafisica del nulla, cioè della libertà incondizionata
dell’uomo, che può ad ogni momento cambiare ciò che è e
diventare qualcos’altro.
Se le cose del mondo sono gratuite, prive di senso e di
fondamento, allora è solo l’uomo che può dare ad esse un
valore e un senso. L’uomo è quindi l’essere "per cui i valori
esistono". Una volta stabilito questo, però, per Sartre bisogna
riconoscere che, in fondo, tutte le attività umane sono
equivalenti e che tutte sono votate per principio allo
scacco (ecco il tanto contestato pessimismo sartriano ) ! "E’
la stessa cosa – scrive Sartre – in fondo, ubriacarsi in
solitudine o condurre i popoli. L’uomo è una passione
inutile".
L’uomo cerca indubbiamente di porre rimedio a questa
situazione : l’uomo è infatti quell’essere che … progetta di
essere Dio! Tuttavia, l’uomo non può che essere un Dio
mancato. L’uomo si proietta sempre al di là di se stesso,
ricerca sempre un valore fondato e fondante, mentre, deve
ammettere, prima o poi, lo scacco finale : le attività umane
sono tutte equivalenti perché tendono a sacrificare l’uomo per
far nascere la causa di sé, Dio, ma poiché questo è
impossibile, tutte sono votate allo scacco. Anche perché c’è
sempre un altro a contrastare questo progetto. L’altro, dice
Sartre, è colui che mi fissa e mi paralizza col suo sguardo;
mentre, fino a quando l’altro non c’era, io ero completamente
libero, ero cioè soggetto e non oggetto. Quando appare l’altro,
nasce il conflitto. Ecco perché "l’inferno sono gli altri" (A
porte chiuse, 1945).
Ne L’esistenzialismo è un umanismo (1946), Sartre cerca
di smorzare il pessimismo delle sue tesi precedenti. Anzi si
dichiara apertamente per l’esistenzialismo e lo considera una
dottrina dell’impegno e della responsabilità. L’esistenzialismo
viene da lui definito come quella dottrina per la quale
"l’esistenza precede l’essenza", nel senso che l’uomo, in
primo luogo esiste, cioè si trova nel mondo, e dopo si
definisce per quello che è o vuole essere. Se dunque
l’esistenza precede l’essenza, non sarà mai possibile spiegarla
in riferimento ad una natura umana data e immodificabile. In
altre parole, non c’è determinismo, l’uomo è libero, l’uomo è
libertà. E se l’uomo è libero, è anche responsabile di quello
che fa. Così, dice Sartre, il primo passo dell’esistenzialismo è
di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far
cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E
quando l’uomo sceglie, sceglie anche per tutti gli uomini. Così
la nostra responsabilità è molto più grande di quello che
potremmo supporre, poiché essa obbliga l’umanità intera. "Se
Dio non esiste – scrive Sartre – non troviamo davanti a noi dei
valori o degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta.
Così non abbiamo … delle giustificazioni o delle scuse. Siamo
soli, senza scuse. E’ ciò che esprimerò con le parole che
l’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non
si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una
volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa". In
conclusione, l’esistenzialismo è una dottrina ottimistica
perché afferma che il destino dell’uomo è nelle mani dell’uomo
stesso e che l’uomo non può nutrire speranza se non
nell’azione.
Nell’ultima sua grande opera di contenuto teoretico, la Critica
della ragione dialettica (1960), Sartre presenta la teoria
dell’azione e della storia come una reinterpretazione originale
dei rapporti tra esistenzialismo e marxismo. In primo luogo la
libertà, che nelle opere precedenti era stata considerata da
Sartre come assoluta e incondizionata, viene adesso
ridimensionata. L’uomo è sempre dichiarato libero ma la sua
libertà dipende anche dagli altri e dal contesto sociale in cui si
trova. "Dire di un uomo ciò che egli è, significa dire ciò che
egli può e reciprocamente : le condizioni materiali della sua
esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità … così il
campo del possibile è lo scopo verso il quale l’agente
oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua
volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica".
Perciò Sartre dice di accettare la concezione materialistica di
Marx, per cui "il modo di produzione della vita materiale
domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e
intellettuale". Egli rifiuta però nettamente il materialismo
dialettico di Engels. Sartre rifiuta in primo luogo le leggi della
dialettica della realtà proposte appunto da Engels dicendo che
"questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna
riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova". Egli
insomma non accetta le leggi proposte da Engels come regole
che guiderebbero lo sviluppo della natura, della storia e del
pensiero. L’ammissione di quelle leggi, secondo Sartre,
implicherebbe un "beato ottimismo" che proclama un finalismo
di tipo hegeliano e, cosa ancora più inammissibile, ridurrebbe
l’uomo ad un semplice strumento passivo della dialettica,
incapace di sottrarsi al più rigido determinismo. La dottrina
della dialettica – nota Sartre – è diventata oggi una sorta di
dogma per cui il marxismo odierno "non sa più di nulla : i suoi
concetti sono Diktat; il suo fine non è più di acquistare
cognizioni, ma di costituirsi a priori come sapere assoluto". E
poiché il marxismo ha dissolto gli uomini "in un bagno di acido
solforico", l’esistenzialismo ha potuto invece "rinascere e
mantenersi perché affermava la realtà degli uomini".
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Jean-Paul Sartre nacque a Parigi il 21 Giugno 1905. Studiò alla
Scuola Normale, dove trovò amici quali Paul Nizan, MerleauPonty e Raymond Aron, che gli fa conoscere Husserl e
Heidegger. Nel 1929 conosce Simone de Beauvoir, che sarà
sua compagna per tutta la vita. Dopo aver insegnato filosofia
al liceo di Le Havre, Sartre usufruisce di una borsa di studio
presso l’Istituto francese di Berlino e intraprende lo studio
della fenomenologia di Husserl. Sotto la sua influenza e anche
sotto quella del pensiero di Heidegger, escono i suoi primi
studi : L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria
delle emozioni (1939), L’immaginario (1940), nonché il
romanzo La nausea (1938) e la raccolta di racconti Il muro
(1939). Richiamato alle armi, nel giugno del 1940 è fatto
prigioniero dei Tedeschi, ma è poi liberato e torna a Parigi. Nel
1943 pubblica la sua opera filosofica più impegnativa,
L’essere e il nulla, e il suo primo lavoro teatrale, Le
mosche. Terminata la guerra, Sartre dà inizio ad una serie di
romanzi intitolata I cammini della libertà e, in
collaborazione con altri, fa uscire la rivista "Les temps
modernes". In risposta agli attacchi della sua opera filosofica
da parte di marxisti e di cattolici, pubblica nel 1946 il breve
saggio L’esistenzialismo è un umanismo. Egli si avvicina
quindi ai comunisti francesi ma i fatti del 1956 come il
rapporto Kruscev e la repressione della rivolta in Ungheria
sono l’occasione per la pubblicazione dell’articolo Il fantasma
di Stalin, che segna il distacco di Sartre dai comunisti. Egli
intraprende quindi una riflessione sul marxismo che darà luogo
al saggio Questioni di metodo, comparso in una rivista
polacca nel 1957 e poi incluso, come prima parte, nella
Critica della ragione dialettica (1960). In seguito pubblica
l’autobiografia Le parole (1963), e l’anno dopo riceve il Nobel
per la letteratura, da lui però rifiutato. In ultimo si dedica ad
una imponente biografia su Flaubert che uscirà col titolo
L’idiota di famiglia (1971-72). Sempre in prima linea nel
prendere posizione sui problemi politici del suo tempo, Sartre
si schiera contro la politica francese in Algeria, entra a far
parte del Tribunale Russell contro i crimini americani nel
Vietnam e nel 1968 appoggia il movimento studentesco. E’
morto a Parigi il 15 Aprile 1980.
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