LA LUNA SU OSTIA Visita al centro storico di Ostia Lido verso Ponente Introduzione (partenza da Piazza Anco Marzio in direzione via Lucio Coilio) Il percorso che si propone è incentrato sull’interpretazione della storia architettonica di Ostia, una storia particolare che rappresenta un unicum urbanistico di inizio Novecento e che in parte si è persa a causa dell’enorme e selvaggia speculazione edilizia che ha radicalmente trasformato il territorio a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta. Nel tracciare questo percorso che va idealmente dal 1904, anno in cui viene istituito il Comitato Nazionale Pro Roma Marittima, ed il 1944, l’anno successivo alla distruzione del più famoso e lussuoso tra gli stabilimenti ostiensi, il Roma, fatto saltare dai tedeschi, lasceremo in secondo piano la storia più antica del litorale romano così come la grande e coraggiosa campagna di bonifica dei ravennati di fino Ottocento, per concentrarci unicamente su questo lasso di tempo che ha visto la nascita ex novo di un nuovo quartiere e le sue vicissitudini costruttive. Per orientarci dal punto di vista cronologico partiamo proprio da quell’anno 1904 in cui, primariamente per iniziativa dell’ing. Paolo Orlando, venne fondato il Comitato Nazionale Pro Roma Marittima con lo scopo di provvedere alla realizzazione di un porto per la capitale d’Italia e di migliorare o ripristinare la navigazione del Tevere e del fiume Nera. Chi faceva parte di questo Comitato? Attori privati, società industriali medie e grandi (si pensi alla Anglo-Romana, la società che fino al 1923 riforniva la città di Roma di gas), imprenditori singoli spesso appartenenti alle grandi famiglie nobiliari romane. Che scopo aveva il comitato e perché negli studi affrontati si decise in ultima analisi di individuare Ostia come sito privilegiato per la costruzione del porto? Lo scopo del Comitato era quello di favorire l’industrializzazione e lo sviluppo della città di Roma, entrambi raggiungibili soltanto dotando l’Urbe di un porto che le permettesse di rendersi autonoma dal punto di vista dei rifornimenti industriali e che potesse renderla lo scalo portuale principale del centro Italia. Il territorio di Ostia apparve a tal fine il sito più idoneo per svariate ragioni: innanzitutto si trattava della fascia marittima più vicina e facilmente raggiungibile da Roma, distando dalla prevista zona industriale, che si stava realizzando intorno alla basilica di San Paolo fuori le mura, soltanto 25 km; e poi si poneva come limite estremo di una linea di collegamento che, sin dalle origini, era stata prevista come nuova direttrice edilizia della città di Roma, tanto più che pochi anni prima si era proceduto con la bonifica dell’intera zona intorno allo stagno ostiense, dove erano così stati recuperati ettari destinati all’agricoltura (si pensi alla nascita del Borgo Acilio nel 1912, prima borgata rurale). Se il nobile fine di industriali ed imprenditori aderenti al Comitato (che aveva avviato un’intensa opera di propaganda organizzando manifestazioni e conferenze al fine di premere sulle istituzioni e convincere l’opinione pubblica della bontà dell’investimento) era incentrato sulla costruzione del porto, un altro spirito animava una parte del Comitato e l’Associazione Artistica tra i Cultori di architettura, fondata nel 1890 da uomini di spicco dell’ambiente professionale ed artistico romano con il fine di promuovere lo studio e il prestigio della più nobile fra le arti, l’architettura. Questi avevano infatti espresso la precisa volontà di realizzare la stazione balneare della capitale. Nelle intenzioni di questi urbanisti e architetti vi era l’idea di sfruttare la costa ostiense bagnata dal Tirreno allo stesso modo in cui già si era fatto in altre località marittime italiane (si pensi a Viareggio, che è forse l’esempio più famoso), traendone abbondanti benefici economici. Le località di mare tra la metà dell’Ottocento e il Novecento erano state ovunque sede di ingenti investimenti non soltanto perché si era da poco riscoperta la grande portata delle cure del sole e dello iodio (i bagni di sole e di mare che già gli antichi romani utilizzavano come rimedi medici) ma anche perché grazie all’introduzione e alla diffusione dell’elettricità si era reso possibile “popolarizzare” il divertimento notturno, destinato in precedenza alla sola classe aristocratica, attraverso l’apertura di caffè, sale da ballo, cinematografi. Potere curativo del mare, divertimento, villeggiatura sono le parole chiave per comprendere l’idea della creazione di una “ridente cittadina balneare”, che fosse al tempo stesso popolare e signorile. Su questa scia si procedette nel 1906 alle prime richieste di acquisizione delle aree su cui far sorgere Ostia Nuova, procedimenti burocratici andati a buon fine con grande dispendio di energie poiché tutta la fascia litoranea apparteneva in parte al Vescovado, in parte al demanio, in parte a privati cittadini (esponenti delle famiglie nobiliari romane). Nello stesso 1906 venne poi allungato il tracciato della via Ostiense per permettere collegamenti veloci fra la città e il mare, impiegando quegli stessi operai romagnoli che avevano strappato alla palude e alla malattia un’ampia fascia di terreni tra Ostia e Roma. Detto ciò andiamo a capire attraverso degli esempi precisi come si improntarono le prime costruzioni di Ostia e come cambiarono fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Prima tappa - Villino in Via Lucio Coilio (1923) Piazza Anco Marzio-Via Lucio Coilio Il villino rappresenta una delle testimonianze più eloquenti di quella che doveva essere Ostia durante i “ruggenti anni Venti”, quando tutta la zona era soggetta ad una fervente attività edilizia. Il villino si trovava sin dalle origini nella parte centrale di quella che era ancora concepita come stazione balneare. Per questa ragione non deve stupirci che l’edificio fosse adibito ad attività commerciale: qui si trovava una delle più apprezzate e rinomate pasticcerie di Ostia: l’Impero di Traiano. Qui vi si riunivano tutti quei villeggianti appartenenti alla borghesia romana medio-alta che avevano acquistato un lotto di terra e fatto costruire il proprio villino. Venivano a sorseggiare pregiati liquori, tra i quali il più richiesto era il mandarinetto, o a consumare dolci e gelati nella stagione estiva e tè importati dall’Inghilterra in quella invernale. Dobbiamo infatti ricordare che le stazioni marittime non chiudevano con la conclusione dell’estate, ma aprivano la nuova stagione invernale. Il villino risale al 1923 quando era ancora forte nei progetti degli architetti l’influenza del cosiddetto Barocchetto romano. Si tratta di uno stile diffusosi proprio a inizio Novecento, denominato in questo modo in riferimento alle architetture delle città-giardino che allora venivano costruite in vari settori della città (in particolare la Garbatella di Gustavo Giovannoni) caratterizzato da notevole eclettismo e ridondanza nello stile. L’architetto di questo villino, il Travaglio, apparteneva perciò a quella generazione di progettisti legati ad una concezione romantica ed estetica dell’urbanistica, i canoni su cui si era fondato uno dei primi piani regolatori di Ostia elaborato dai Cultori di architettura nel 1916. Per questi era di fondamentale importanza realizzare una cittadina improntata al decoro e alla bellezza, rispettando la morfologia del territorio, le prospettive naturali e il verde circostante: progettare e costruire un sobborgo marittimo che esprimesse nelle proprie forme architettoniche ed urbanistiche la qualità del vivere. I primi villini risalenti agli anni Venti si collocano in questo contesto progettuale che venne successivamente ampiamente stravolto (si pensi all’assetto viario previsto dal Piano Regolatore del 1916 che prevedeva l’apertura di pochi lunghi rettifili per lo scorrimento veloce e di una rete viaria secondaria composta da strade strette e sinuose, come l’odierna Via Claudio). Caratteristici sono in questo villino le sovrabbondanti decorazioni in stucco, il bow-window (il balconcino sporgente), la lavorazione a finta roccia tipica dei ninfei cinquecenteschi, la facciata che si sviluppa in contrasti di concavità e convessità, che il Travaglio sembra aver mutuato dal più celebre degli architetti del barocco romano, Francesco Borromini. Vedremo già con la nostra prossima tappa come ben presto questo primo piano del 1916 sarebbe stato stravolto dalle necessità del regime fascista. Seconda tappa - Ufficio Postale, A. Mazzoni (1934) Piazzale della Posta Dalle atmosfere di un elegante caffè degli anni Venti passiamo invece ad un edificio pubblico di primaria importanza progettato dall’architetto Angiolo Mazzoni nel 1934, che risponde a logiche altre rispetto a quelle che avevano informato il piano del 1916. Cosa era accaduto nel frattempo? Perché lo stile architettonico era cambiato in maniera così incisiva? La marcia su Roma del 1922 e le elezioni del 1924 avevano decretato la nascita del regime fascista, realtà che si rese ben presto concreta e tangibile sul tessuto urbano romano grazie all’ambiziosissimo proposito di realizzare, sotto gli auspici di un nuovo impero la Terza Roma, la Roma fascista. Gli sventramenti, le demolizioni, le borgate invivibili e le baraccopoli sono forse l’aspetto più negativo della politica urbanistica mussoliniana. Ma la retorica della rinascita dell’impero romano, la grandiosità dell’Italia fascista dovevano trovare un’attuazione visiva, a tutti immediatamente identificabile. Nacquero così i nuovi progetti architettonici dedicati alla monumentalità, alla reinterpretazione del passato classico in una chiave modernissima ed imponente. Della nuova politica edilizia mussoliniana entrò così a far parte anche Ostia che da “ridente località marittima” venne individuata dal nuovo Piano Regolatore del 1926-1929 come l’area su cui far sorgere un vero e proprio quartiere della rinata Urbe, nell’ottica di un nuovo dominio del Mediterraneo. L’Ostia dei Cultori di architettura fu rivoluzionata allo scopo di rendere il quartiere la nuova meta abitativa dei romani, qualificandola definitivamente come quartiere residenziale. L’ufficio postale di Ostia si inserisce esattamente in questo contesto. Originariamente l’edificio delle poste era stato previsto in Piazza Giuliano della Rovere in una porzione di terreno poco adatta ad ospitare l’ufficio postale di un quartiere densamente abitato, quale Ostia stava diventando. Mazzoni aveva già partecipato al precedente concorso presentando un primo progetto che per affinità architettonica con il Palazzo del Governatorato del 1926 progettato da Vincenzo Fasolo, aveva caratteristiche classicheggianti. Accertata l’infattibilità della costruzione presso il primo sito si individuò il nuovo spazio ospitante all’incrocio tra il Viale Regina Margherita (odierna Corso Duca di Genova) e la Via del Mare, inaugurata nel 1928. L’apertura della Via del Mare, prima autostrada pubblica di Italia, comportava una generale risistemazione della piazza già esistente al fine di rendere lo slargo degnamente conclusivo di un’arteria stradale veloce e moderna. Così in accordo con il gusto tipico dell’epoca si procedette allo sventramento della spina di villini che oscurava la visuale diretta verso il mare per poter creare un ideale fondale scenico che fungesse da coronamento dell’autostrada con l’erezione di un nuovo pontile, il Pontile Littorio. La sfida che Angiolo Mazzoni doveva affrontare era particolarmente complicata: costruire un ufficio postale dalle forme monumentali che si adattasse al nuovo disegno della piazza e fungesse da simbolo del regime in quanto edificio pubblico su un lotto dalla particolare forma esagonale. La strategia architettonica scelta da Mazzoni fu originalissima. La pianta dell’edificio è in parte circolare in parte ortogonale. Circolare è infatti il corpo principale adibito al transito del pubblico e agli sportelli. In questa parte dell’edificio Mazzoni rievocò, trasponendoli in chiave moderna, elementi desunti dall’architettura classica: lo stilobate del tempio greco rielaborato nella scalinata continua che introduce all’interno ed il cortile a peristilio delle domus romane come è ben evidente nel porticato circolare con fontana centrale (attraverso il quale gli utenti entravano nel settore dei servizi i cui uffici erano disposti a raggera seguendo un criterio di funzionalità per lo smistamento e smaltimento veloce delle file). A questo cortile centrale si accedeva (ed attualmente ancora si accede) tramite un diaframma porticato esterno, che seguendo la circolarità della pianta, donava all’intero edificio postale dinamicità architettonica ed effetto chiaroscurale grazie ai giochi di luce ed ombra. In questo modo il portico con vasca si qualificava come elemento generatore dell’intera fabbrica. Ma la grande qualità architettonica dell’ufficio postale si comprende pensando anche alla destinazione di questo spazio semiaperto, riservato alla sosta, al refrigerio o al riparo dei cittadini. Collegata a questa parte era la porzione lineare dell’edificio, innestata perpendicolarmente sul resto del corpo architettonico in cui Mazzoni ricavò gli spazi di servizio non accessibili al pubblico. L’ufficio si concludeva con l’elemento di testata costruito da un corpo rettangolare smussato circolarmente all’esterno che ospitava i locali delle caldaie e l’alloggio del ricevitore. Tutto l’edificio è improntato ad uno stile grandioso ed ampio (il senso di spazialità dilatata viene conferito grazie all’altezza delle colonne del diaframma esterno e dall’elemento di testata decorato con tre lunghi fasci littori originariamente dotati di asce di rame) senza tralasciare l’eleganza innovativa affidata a dettagli come i mattoni di vetro di Murano azzurri della fontana, il gruppo scultoreo con due sirene di Napoleone Martinuzzi (quello odierno è un calco dall’originale in sbalzo di rame perduto), le lampade a bulbo blu all’interno e bianche all’esterno. Terza tappa - Scuola Fratelli Garrone, I. Guidi (1932-1934) Corso Duca di Genova, 137 La scuola Garrone rappresenta un altro esempio di architettura fascista, o meglio detta razionalista-funzionale di Ostia, che ben esemplifica il cambiamento radicale a cui era stata sottoposta a partire dai tardi anni Venti la cittadina ostiense. In accordo con la crescita demografica del quartiere, attraverso il moltiplicarsi di residenti stabili, si rese necessario provvedere alla costruzione di una scuola, di cui i piani regolatori precedenti erano del tutto mancanti. Il progetto fu curato dall’architetto Ignazio Guidi cui si prospettava un importante compito: non solo realizzare la prima scuola di Ostia Lido ma anche strutturare un edificio capace di ospitare un refettorio e tre indirizzi scolastici, 10 classi ginnasiali, 10 classi di avviamento professionale e 24 classi elementari. Lo spazio a disposizione era ampio così fu possibile all’architetto realizzare un complesso unitario dal punto di vista architettonico, senza corpi di fabbrica separati nonostante i tre indirizzi avessero ognuno un’entrata ed un settore dedicato del complesso. Negli spazi di risulta del lotto furono previsti e creati i campi all’aperto per la pratica dello sport, uno dei cardini dell’educazione fascista. La funzionalità era il canone primario a cui il Guidi si era ispirato, creando un edificio scolastico scevro da decorativismi e ridondanze costruttive ma perfetto sotto il punto di vista della distribuzione degli spazi. L’aspetto più interessante a ben vedere non è sicuramente quello di un’estetica ricercata o di una spettacolarizzazione architettonica (così come sarà invece per l’Ufficio Postale, coevo) bensì la funzionalità. Il suo articolarsi per blocchi geometrici sfalsati, oltre a costituire l’unico elemento intrinsecamente ornamentale dell’edificio, fu previsto per sopperire ad una cruciale necessità: permettere che ciascun settore della scuola fosse giustamente posizionato al fine di ricevere sole ed aria a sufficienza, per permettere una buona illuminazione naturale e il fondamentale ricambio di aria. I tre indirizzi avevano ciascuno un ingresso autonomo, quello di avviamento professionale presso una via secondaria mentre quelli ginnasiale ed elementare presso la principale arteria dell’odierna Corso Duca di Genova ma rialzati sopra una sorta di piazzola per non creare intralci al passaggio stradale. Il complesso era inoltre dotato di un presidio di pronto soccorso che all’occorrenza rimaneva funzionante anche durante i giorni di chiusura della scuola per assolvere alle necessità mediche del quartiere. Il progetto della scuola e la sua realizzazione avevano destato nei contemporanei così tanta ammirazione che alla scuola Garrone valse l’elogio sulla rivista “Architettura” del 1934 proprio per la studiata ed attenta impostazione razionale ed efficiente dell’edificio. Si pensi che il Guidi aveva anche predisposto che tutte le tubature dovessero essere realizzate esternamente per rispettare i criteri igienico-sanitari e di sicurezza. Quarta tappa - Lotti numero 1 e 2 dell’Istituto Case Popolari, C. Palmerini (1926) Corso Duca di Genova, 34 Lasciando la scuola Garrone e procedendo per qualche metro lungo il Corso Duca di Genova in direzione dell’idroscalo si giunge presso uno dei luoghi più pittoreschi di Ostia, spesso dimenticato e nascosto dalle brutture moderne. Si tratta dei due lotti fatti costruire nel 1926 dall’ICP (Istituto Case Popolari) in un settore del quartiere che sin dai primi piani regolatori era stato individuato come “quartiere popolare”, affidando il progetto ad un celebre architetto: Camillo Palmerini, esponente di quella generazione di professionisti attivi a Roma negli anni Venti, legati ad una concezione classica ed estetica dell’architettura. Palmerini si era infatti formato presso l’Accademia di Belle Arti di Via Ripetta, dove insegnò disegno architettonico prima di iniziare la sua fruttuosissima collaborazione con l’ICP che lo portò dapprima a lavorare al fianco dei più importanti progettisti dell’epoca (Giovannoni, Piacentini, Sabbatini) in grandi cantieri che lo videro impegnato nella realizzazione delle componenti di decorazione architettonica, e successivamente ad essere egli stesso a capo di numerose commissioni. Una breve menzione merita il ruolo che l’ICP svolse nell’intera città di Roma a partire dal 1903, anno della sua fondazione, dal momento che alcuni tra i quartieri più caratteristici dal punto di vista architettonico si devono proprio all’ente. L’Istituto Case Popolari era nato per assolvere all’urgente necessità di dotare di alloggi dignitosi tutta quella compagine sociale composta da operai, piccoli artigiani, ceto impiegatizio minore, che si trovava sprovvista di una stabile abitazione (durante i primi anni del Novecento a causa dell’esponenziale arrivo nella capitale di lavoratori in cerca di occupazione, negli anni Venti per rimediare agli sventramenti fascisti che avevano raso al suolo interi quartieri del centro città). La politica dell’ICP fu sempre molto chiara, la finalità dell’ente era di edificare delle abitazioni che rispecchiassero il sentimento delle classi diseredate, che fossero improntate al decoro e rispondenti a tre principi cardine mutuati dal lessico vitruviano: utilitas, venustas e firmitas. Quartieri come San Saba (Pirani), Trionfale II (Sabbatini), Garbatella e Montesacro (Giovannoni) vennero progettati seguendo queste linee guida e divennero luoghi simbolo dell’architettura romana, che stava ideando in quegli anni il famoso Barocchetto romano. A questi stessi criteri risposero anche i due lotti di Palmerini, che aveva già lavorato nel territorio ostiense edificando la serie di palazzine a schiera su Viale dei Romagnoli all’altezza di Ostia Antica. Dei tre edifici previsti sull’ampio lotto di terra che aveva a disposizione ne vennero realizzati soltanto due: il lotto 1 a ovest (in direzione dell’idroscalo) ed il lotto 2 a est. Gli ingressi dei due edifici si trovavano lungo la strada principale snodando una facciata quasi continua e simmetrica. Non erano però simmetriche le planimetrie, dal momento che il lotto 1 si articolava come una serie di fabbriche autonome collegate da bassi corpi mentre il lotto 2 era costituito da un unico blocco attorno ad una corte interna centrale (così come il primo lotto rispecchiando l’adesione di Palmerini ad un modello tipico dell’architettura popolare, diffusosi a Roma a partire dalla piemontesizzazione). La firmitas, la solidità degli edifici, era stata perseguita dall’architetto mediante la riproposizione delle tecniche costruttive romane, in particolare dell’opus listatum in tufo. La venustas, la bellezza dell’architettura, era stata assicurata grazie alla formazione accademica del Palmerini. Allineandosi al gusto tipico del Barocchetto romano i due lotti sono decorati con stucchi dai più svariati motivi: dall’onnipresente tematica marina con serpenti marini, pesci, vascelli con le navi spiegate che nelle intenzioni del progettista dovevano incarnare lo spirito marittimo del luogo, a motivi desunti dal passato come le pigne a decorare i vertici e gli angoli delle costruzioni, ricorrenti nell’architetture dei giardini romani del Cinquecento o i balconcini a conchiglia tipici delle atmosfere settecentesche. Ma sono gli stessi elementi architettonici a richiamare le tradizioni passate: le loggette che concludono in alto le palazzine, ascendenza quattrocentesca, le torrette medievaleggianti, i coronamenti a timpano della classicità. Grazie a questi accorgimenti sapientemente amalgamati gli uni con gli altri, Palmerini riuscì a conferire agli edifici un’eleganza sobria nonostante la loro destinazione ad alloggi popolari. L’utilitas vitruviana trovava in queste architetture di edilizia popolare degli anni Venti una delle sue massime realizzazioni. Il principio base che ispirava tutti questi progettisti era quello di realizzare edifici che assolvessero in maniera efficiente ed ordinata alle funzioni per cui erano stati previsti. Ma un’attenzione particolare in fase progettuale era riservata anche alla vita che vi si doveva svolgere intorno e all’interno. Per questa ragione fulcro degli edifici era la corte centrale, spazio in cui i bambini potevano giocare, si poteva godere del refrigerio durante le sere estive, condividere la quotidianità tra vicini di casa e creare una piccola comunità di mutua assistenza. Sono soprattutto questi gli elementi che sancirono la grande qualità architettonica delle imprese edilizie di questi anni. Quinta tappa - GIL, P. Benadusi (1934-1936) Corso Duca di Genova, 82 Continuando sul Corso Duca di Genova si giunge davanti ad un edificio ormai oscurato dalla folta vegetazione, odierna sede di un complesso scolastico ma originariamente ospitante la Casa del Balilla. L’Opera Nazionale Balilla (la cui particolare denominazione deriva da uno degli eroi-simbolo della retorica fascista, il genovese Giovanni Battista Perasso detto il Balilla che nel 1746 aveva dato inizio alle rivolte contro il dominio asburgico) era stata fondata nel 1926 come ente parascolastico per la formazione ed educazione morale e fisica della gioventù e si stava imponendo in quegli anni come veicolo privilegiato per la fascistizzazione della società impiantando le proprie sedi in tutti i più importanti centri urbani. Ad Ostia, che nelle intenzioni del regime doveva espandersi esponenzialmente nei futuri anni a venire, non poteva di certo mancare una consona sede che ospitasse le attività dell’ONB. Seguendo le linee dettate dal piano regolatore del 1933 la costruzione dell’edificio era stata prevista in quel settore del quartiere che si stava “specializzando” come luogo degli edifici pubblici destinati alla formazione e all’assistenza (si pensi alla scuola Garrone e alla colonia marittima Vittorio Emanuele III). La Casa del Balilla venne edificata su un ampio lotto di terra prospiciente il Viale Regina Margherita, a quel tempo circondato da poche altre strutture già edificate ed immerso nel paesaggio dunare, sul progetto mai completato di Paolo Benadusi. Secondo il progetto il terreno di forma rettangolare doveva essere occupato da corpi di fabbrica su tre lati mentre nel resto dello spazio era stato programmato un enorme campo sportivo capace di ospitare le attività ginniche e paramilitari dei ragazzi dell’ONB. Dei tre edifici ne furono costruiti soltanto i due principali, quello ospitante gli uffici e le sale di rappresentanza lungo il lato di Corso Duca di Genova e quello degli enormi dormitori perpendicolare al primo. La Casa del Balilla, altrimenti nota come GIL (Gioventù italiana del littorio che nel 1937 aveva assorbito tutte le organizzazioni giovanili fasciste), svolgeva infatti funzioni diverse. In quanto sede dell’ONB il compito primario assegnato al complesso si concretizzava nel fornire spazi consoni a tutte le attività dell’organizzazione: dagli allenamenti ginnici che dovevano preparare bambini e ragazzi alla vita e alla disciplina militare, ai corsi professionali e di economia domestica per le fanciulle del littorio. Ma la Casa accoglieva anche le delegazioni provinciali soprattutto per consentire a ragazzi e bambini di godere della salutare aria marittima. In questo senso il GIL assolveva anche al ruolo di colonia marina, attraverso l’assegnazione all’organizzazione di una porzione di spiaggia. Benadusi doveva ben tenere conto di questo doppio ruolo del GIL e dunque realizzò un complesso unitario dal punto di vista architettonico ma estremamente funzionale nella disposizione degli spazi interni. Il prospetto lungo il viale principale constava di due elementi: un edificio contenuto in altezza, quasi un semplice e compatto parallelepipedo, all’interno del quale erano stati ricavati gli uffici amministrativi ed un salone di rappresentanza (dunque la parte pubblica del complesso); ed un secondo edificio quasi ad angolo con Via delle sirene che rappresentava una sorta di cerniera, di elemento di mediazione con la parte più schiettamente pratica legata al soggiorno dei giovani. E’ questa seconda struttura a rappresentare un interessante episodio architettonico, risentendo fortemente dello stile razionalista imperante in quegli anni. L’edificio si presenta come un alto semicilindro la cui parte circolare si impone come prospetto scenico principale sull’antico Viale Regina Margherita. Spiccano, nel confronto con gli altri edifici, la purezza della linea geometrica, la compattezza slanciata e simbolica. Nessun orpello decorativo, solo il semplice intonaco a ricoprire la struttura in cemento armato e muratura. Le uniche note di vivacità sono il portico a pilastri del piano terra, la bassa balaustra a coronamento dell’edificio ma soprattutto le lunghe finestre laterali che ne sottolineano la linea snella. Nei corpi di fabbrica sul lato orientale (Via delle sirene) erano stati ricavati i dormitori in grado di ospitare fino a trecento ragazzi, gli alloggi del personale, l’infermeria, la lavanderia ed altri ambienti di servizio. Su questo settore si concentrò lo studio di Benadusi sull’orientamento degli edifici e sulla disposizione degli spazi interni. In ottemperanza alle teorie funzionaliste che affermavano la necessità di progettare gli spazi residenziali orientandoli verso est, nelle camerate aggettanti verso levante vennero aperte finestre su tre lati in modo tale da garantire in qualsiasi momento della giornata il giusto ricambio di aria ed apporto di sole. Sesta tappa - Colonia Marina Vittorio Emanuele III, V. Fasolo (1927-1930) Lungomare Paolo Toscanelli, 186 Dalla Casa del Balilla procediamo imboccando Via delle sirene in direzione del Lungomare Paolo Toscanelli (già Viale della Marina) per concludere il nostro tour presso la colonia marina Vittorio Emanuele III, un altro vanto architettonico della cittadina ostiense, prima di trasformarsi in luogo di abbandono e degrado negli anni più recenti. La colonia venne realizzata negli ultimi anni Venti per vedere l’inaugurazione il 24 gennaio del 1932 al cospetto del re Vittorio Emanuele III a cui la colonia era stata intitolata per celebrare il venticinquesimo anno di regno ma anche e soprattutto per testimoniare il grande impegno della famiglia reale, in particolare della regina Elena, nella lotta antitubercolare. Ostia era stata individuata sin dai tempi della sua prima urbanizzazione come stazione balneare curativa e non deve perciò stupire che tra i primi edifici ad essere costruiti vi fu l’ospizio marino realizzato da Marcello Piacentini nel 1920. Dunque già il piano regolatore del 1916, ideato dall’Associazione artistica tra i cultori di architettura, aveva individuato come necessità primaria la creazione di una struttura pubblica in cui ospitare i giovani in pericolo tubercolare ed aveva predisposto la costruzione dell’edificio nel settore di ponente, all’interno del “quartiere popolare”. L’edificio di Piacentini, che si trovava in prossimità dell’arenile, dove oggi sorge un distaccamento degli uffici municipali, aveva linee molto classiche ed eleganti ed era in grado di ospitare una cinquantina tra bambini e ragazzi. Inoltre l’ospizio era stato concepito anche come ricovero diurno così che fu attivato un servizio di trasporto gratuito dalla stazione di San Paolo ad Ostia. Con l’avvento del regime fascista e la politica sanitaria inaugurata dalle istituzione si rese necessario ampliare questo primo impianto dando soluzione anche all’annoso problema delle frequenti mareggiate che erano in grado di arrivare fino alle fondamenta dell’ospizio di Piacentini. Fu perciò acquistato un nuovo ed ampio lotto di terra dalla conformazione allungata sul Viale della Marina ed il progetto fu affidato ad una grande personalità artistica del tempo, Vincenzo Fasolo. Fasolo aveva già lavorato per importanti committenze ad Ostia (Palazzo del Governatorato 1924-1926) e a Roma (Caserma dei vigili del fuoco in Via Marmorata 1926-1928) ed aveva elaborato uno stile peculiare, molto legato ai canoni estetizzanti e romantici della scuola accademica romana. L’architetto-ingegnere, dalmata di natali e trasferitosi a Roma nel 1900, si formò dapprima come ingegnere civile ma presto rimase affascinato dalla disciplina del disegno e della grafica (ne divenne anche professore) e dall’architettura della quale esplorò lungo tutto l’arco della sua vita l’aspetto più propriamente storico. Grazie a questa sua formazione profondamente imbevuta della tradizione architettonica romana e alla collaborazione con i più interessanti e celebri architetti dell’epoca (Giovannoni, Piacentini, Milani), Fasolo sviluppò ben presto un lessico peculiare, ricco di rimandi storicistici riletti in chiave romantica e di combinazioni stilistiche innovative. Queste sue caratteristiche si riflettono con evidenza nella realizzazione della colonia marina per la quale il Fasolo fu attento non solo all’aspetto estetico ma anche alla funzionalità dell’intero complesso. Il lotto di forma allungata costrinse l’architetto ad ideare un edificio dallo sviluppo parallelo alla spiaggia ma ciò non determinò in alcun modo difficoltà tecniche nella disposizione degli spazi. La colonia fu idealmente divisa dall’architetto in due settori, uno di ponente ed uno di levante, congiunti mediante un breve corridoio che contribuiva a mettere in risalto la diversa destinazione d’uso delle componenti. Il settore di levante (in direzione del pontile ostiense) era quello riservato agli uffici amministrativi, ai refettori (due amplissimi invasi rettangolari posti ad angolo retto), ai parlatori (i luoghi in cui i visitatori potevano incontrare gli ospiti), agli altri ambienti che ospitavano le attività quotidiane. L’ala dei refettori affacciava direttamente su un ampio giardino dedicato ai bambini mentre gli altri spazi si articolavano intorno ad un cortile centrale (posto alle spalle del dormitorio ovest, dietro la cappella) la cui idea era stata ispirata al Fasolo proprio grazie all’attento studio delle tipologie architettoniche del passato. Si trattava infatti del riadattamento del tipico chiostro monastico con il luogo di culto accessibile anche dall’esterno (il Fasolo aveva infatti previsto che la chiesa fosse a disposizione dell’intera cittadinanza). Percorrendo lo stretto corridoio si arrivava al settore di ponente in cui si aprivano i sette enormi dormitori capaci di contenere 420 bambini. Questi avevano la tipica disposizione a pettine delle grandi strutture curative (i sanatori). La disposizione delle camerate era stata efficacemente studiata e realizzata allo scopo di ottenere, durante l’intero arco della giornata, quanta più luce ed aria possibile. In questo stesso settore al piano seminterrato si trovavano gli ambienti di servizio: le lavanderie, le cucine, le caldaie e i magazzini; negli altri spazi un museo, un piccolo teatro, una biblioteca ed aule per le attività scolastiche. Era infatti previsto che i bambini ospitati nella colonia (spesso per lungo tempo), accanto alle cure elioterapiche e dello iodio, potessero godere anche della continuità scolastica. Questi avevano età compresa tra i 5 ed i 12 anni ed erano scelti in base al grado di rischio di contagio a cui erano sottoposti nell’ambiente familiare. Molto spesso alloggiavano nella colonia bambini nelle cui famiglie già si erano manifestati casi di tubercolosi ed in tali eventualità venivano allontanati fino alla cessazione del pericolo o fino al dodicesimo anno di età, dopo il quale erano spostati in altre strutture. Nella colonia la giornata era scandita dalle cure a base di bagni di mare e sole che si svolgevano negli ambienti del vecchio ospizio marino di Piacentini, ancora funzionante, dalle lezioni scolastiche e da corsi tematici (attività sportive, di artigianato, di cucito). Quattro volte al giorni i bambini ricevevano abbondanti e nutrienti pasti e le norme di igiene erano rigidamente rispettate: le camerate erano provviste di lavabi interni per la pulizia dei piedi dopo le attività marittime ed i servizi erano dotati di numerose docce. Dal punto di vista stilistico emergono da questo complesso i tratti caratteristici dell’architettura del Fasolo, depurata dal monumentalismo delle commissioni pubbliche più importanti. A cominciare dall’ingresso all’atrio posto sul lungomare il cui accesso è inquadrato dall’ordine architettonico tuscanico, ascendenza del tempio etrusco che viene ricordato anche dallo spiovente retto dal portico a colonne; continuando con i coronamenti a timpano classico delle facce dei dormitori, con i cornicioni rinascimentali a scandire le superfici dell’edificio, con le forme neogoticheggianti della cappella. Conclusioni La storia urbanistica di Ostia, come abbiamo osservato, è stata il frutto degli sconvolgimenti dei piani regolatori susseguitisi nel tempo ma è stata soprattutto costituita da episodi architettonici importantissimi, progettati e realizzati da alcune delle personalità artistiche più celebri ed innovative del tempo. Palmerini, Fasolo, Mazzoni sono soltanto alcuni tra i grandi architetti che contribuirono a donare alla cittadina fondata ex novo per volontà di Paolo Orlando un aspetto peculiare ma sempre fortemente legato alla sua principale ed imprescindibile vocazione: quella marittima. Durante gli anni Venti e Trenta poter lavorare su progetti destinati all’urbanizzazione di Ostia rappresentava per questi professionisti non soltanto una palestra (pensiamo alle imprese concorsuali di Adalberto Libera nel quadrante orientale di Ostia) ma anche e soprattutto un privilegio. Il privilegio di poter progettare in un luogo vergine, non edificato né pianificato, secondo i criteri più innovativi e moderni, per fare della cittadina il simbolo della Roma marittima. Ripercorrendo la sua storia, Ostia nacque con la precisa volontà di dotare l’Urbe del primo vero porto dall’antichità. Nelle atmosfere del progresso scientifico, economico, artistico e mondano degli anni Venti il principale proposito del Comitato pro Roma marittima venne abbandonato in favore della creazione di un elegante centro balneare, destinato alla villeggiatura e ai divertimenti, tanto dei ceti popolari quanto di quelli signorili. La lottizzazione del territorio aveva visto la nascita e il tripudio della tipologia edilizia forse più rappresentativa del quartiere, quella dei villini, le cui architetture furono declinate nei più svariati modi, sempre aderenti alla corrente stilistica del Barocchetto romano. Con l’instaurazione del regime fascista Ostia divenne un quartiere a tutti gli effetti, fu dotata dei necessari edifici pubblici, fu individuata come centro di architettura sperimentale e come l’affaccio principale del regime sul Mediterraneo. Nei tempi più recenti il quartiere ha vissuto e vive ancora la più cupa delle crisi identitarie, stretta fra la morsa del suo spirito marittimo e del suo esponenziale e disordinato accrescimento edilizio. Bibliografia F. Coppola, G. Fausti, T. Romualdi, La città interrotta: Ostia Marittima 1904-1944, Centro studi Sinesi, Roma 1997 L. Creti, Il Lido di Ostia,Libreria dello Stato, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2008 D. Pasquinelli D’Allegra, La forma di Roma: un paesaggio urbano tra storia, immagini e letteratura, Carocci, Roma 2006