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LETTERATURA LATINA II
(MONOGRAFICO I E II SEMESTRE A.A. 2011-12)
PROF. LUIGI PIZZOLATO
A.A. 2011-12
Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Lettere e Filosofia
Introduzione
Il corso di Letteratura latina II è tenuto nell’anno accademico 2011-12 dal professor Franco Luigi
Pizzolato e si articola in due semestri, ciascuno da 6 cfu. Oltre alle lezioni del professore, fanno
parte dell’esame i corsi di Lingua latina II, alcune letture domestiche e le esercitazioni in vista della
versione, tutti elementi che quivi non sono trattati. Il corso propriamente tenuto a lezione dal
professore è un unico monografico che si basa esclusivamente sugli appunti, con accanto dei testi di
supporto scaricabili dalla sua aula virtuale, ma manca qualsiasi libro, quindi è assolutamente
necessario frequentare. Il primo semestre ha avuto come argomento il discorso sulla felicità nel
mondo antico, passando in rassegna il pensiero delle varie scuole filosofiche e di alcuni autori del
mondo greco e latino. In suo supporto sono presenti alcuni “testi sussidiari” (si scaricano nella
pagina web del docente sotto le voci Didattica > Programma 2011-12 > testi). Il secondo semestre
ha avuto come argomento un preciso autore latino che ha trattato della felicità in una sua opera, cioè
Seneca nel suo “De Vita Beata”, così il professore a lezione ha fornito un profilo dettagliato
dell’autore, della sua opera, del suo stile e del suo pensiero, e poi ha letto, tradotto e commentato il
“De Vita Beata”.
Il materiale qui dispensato contiene gli appunti completi di tutte le lezioni del professor Pizzolato,
sia del primo sia del secondo semestre, quindi comprende le lezioni dedicate al pensiero filosofico
sulla felicità, la traduzione ed il commento dei testi sussidiari (ma non i testi in sé, da scaricare
dall’aula virtuale sopradetta), l’introduzione a Seneca e traduzione e commento del “De Vita
Beata”. Alcuni punti sono meno commentati non per carenza, bensì per scelta personale del
professore.
L’esame è molto lungo e difficile, va preparato in maniera seria e rigorosa in tutte le sue parti
(prova scritta, esame di lingua, esame di letteratura istituzionale ed esame di letteratura
monografico, questi ultimi due tenuti contemporaneamente). Qui è presente tutto ciò che serve per il
corso propriamente monografico (per l’istituzionale si rimanda al volume suggerito in bibliografia,
il Conte - Pianezzola). Il professore all’esame è molto severo e fa una domanda teorica sul pensiero
antico sulla felicità e poi tradurre e commentare una parte del testo senecano, e lo stesso fa il
professor Massimo Rivoltella che, essendo Pizzolato andato in pensione, ha ormai preso il suo
posto nel valutare gli studenti.
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I semestre: il discorso sulla felicità nel mondo antico
(comprensivo dei testi sussidiari)
Termine eudaimonia
- Felicità in greco è eudaimonia, cioè bene e demone, ossia un demone favorevole, un buon dio.
Esso rappresenta il fine dell’etica-morale greca, cioè ci si comporta bene per raggiungere la felicità.
A partire da Kant c’è però stato un cambiamento, perché il Tedesco dice che chi agisce bene solo
per la felicità è un utilitarista, dunque Kant adotta l’etica del dovere, l’imperativo categorico, perché
il fine dell’etica-morale è per lui l’esser virtuosi, la virtù, dunque bisogna agire bene perché si deve,
tuttavia, così facendo, viola quella che Aristotele chiama l’“eroticità” del bene, ossia l’amabilità, il
fatto che il fine piaccia, essendo la felicità.
- Nel mondo antico, la felicità ha coinciso con la ricchezza materiale. Eppure eudaimonia differisce
dall’eutychia, la buona sorte, perché questa è casuale, invece l’eudaimonia è un demone favorevole,
un buon dio che ci aiuta se siamo noi a comportarci bene, non in maniera casuale. Va dunque ad
assumere un valore religioso.
- Con Socrate, il dio esterno religioso che ci aiuta se ci comportiamo bene, che ci dà la felicità, si
laicizza ed interiorizza, ossia diventa parte della nostra coscienza, diviene il daimon socratico al
nostro interno. Dunque il daimon mette all’interno di noi il fine della nostra essenza, e solo se si
comprende e realizza quella si è felici. Allora la felicità diviene il conoscere la propria essenza (la
natura) e vivere in armonia con essa. Ecco perché ha importanza in Socrate la sentenza delfica
“gnòthi seauthòn”, ossia nosce te ipsum, conosci te stesso, perché solo se si conosce la propria
natura (l’essenza) e si vive in armonia con essa, si può raggiungere la felicità.
Parole di felicità in greco
- Màkar, più classico (da qui il “macarismo”, cioè la figura retorica in cui c’è un’apostrofe che loda
la felicità di una categoria di persone o cose). È un appellativo spesso degli dei, perché sono felici in
quanto non lavorano e non muoiono, come in Omero nell’“Odissea”. In Esiodo, “Opere E Giorni”,
l’epiteto è degli uomini che muoiono e raggiungono le isole dei beati, divenendo come gli dei.
- Makàrios, più tardo (da cui “magari”, cioè una felice eventualità). Platone lo riferisce agli abitanti
della repubblica ideale. Aristotele lo riserva ancora ai soli dei. Nella traduzione greca dell’antico
testamento, parte della “Bibbia”, sia il “Siracide” sia i “Salmi” invitano a non dire nessuno beato
fino alla fine della sua vita, come se la felicità stesse nell’aldilà, e non sulla terra, o come se la vita
andasse prima vissuta del tutto, per poi poter giudicare. Non si usa il termine dàimon poiché
richiama ai demoni pagani.
- Òlbios è più poetico e più raro.
- Eudàimon, più usuale e trovabile, di origine filosofica. Manca in Omero. In Esiodo è presente.
Platone, nell’“Apologia Di Socrate”, racconta che Socrate non sale mai all’areopago a dare consigli
pubblici in politica, ma va in giro per la città a dare consigli: il motivo di questo è che il suo buon
demone, appunto eu-daimon, gli consiglia di non fare politica (il daimon socratico è la voce della
sua coscienza, ma gli consiglia che cosa non fare, e mai che cosa fare: è dunque un demone
negativo). Nel “Timèo”, Platone indica con demone la ragione umana.
- Eraclìto, in una celebre sua massima, dice invece che il carattere di un uomo è il suo stesso destino
(dove con destino intende proprio daimon), già facendo ottenere sfumatura intima ed interiore a tale
lemma, quasi la felicità provenisse da dentro.
- Eutykès. È il felice in quanto detentore di una buona sorte, ma fatto molto casuale, dunque è più
fortunato che felice.
Parole di felicità in latino
- Beatus. Beo significa propriamente stare a bocca aperta dalla meraviglia, ed è il termine della
felicità del latino classico. Ulpiano, giurista sotto i Severi, collega nei “Digesta” l’etimo di beatus a
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qualcosa di bonus. Orazio nei “Carmina” parla di muse che estasiano, cioè rendono beati. Durante
l’integrazione della filosofia ellenistica a Roma, ci si sforza di tradurre termini tecnici, così grazie a
Cicerone con beata vita si traducono sia eudaimonia sia makariotes. Rari sono gli usi di beatitas e
beatitudo, quest’ultimo comune nel mediolatino dei cristiani.
- Fortunatus. Fortuna è una vox media, indica sia la buona sia la cattiva sorte, poi s’è avvicinato alla
buona sorte ed ha assunto le fattezze della dea bendata, così nelle lingue romanze indica fatti
positivi. Dalle “Tusculanae Disputationes” di Cicerone esce già l’antinomia tra fortuna e virtù. Nel
liber II spiega come non tanto la fortuna, quanto l’intelletto, aiuti gli audaci. Dal liber III spiega
come la forza della fortuna non può soffocare del tutto la forza della virtù interiore. Dal liber V,
Teofrasto afferma che è la fortuna, non la sapienza, a guidare l’esistenza: Cicerone la pensa al
contrario, ma non dà torto a Teofrasto nel pensare ciò, poiché tutte le cose da cui dipende la fortuna
dell’uomo sono beni esterni, concreti e materiali, dunque è normale che sia la fortuna, qualcosa di
esterno all’uomo, a prendersene gioco, mentre l’uomo vero non è soggetto alla fortuna perché i suoi
beni sono interiori, e sono gestiti solo e soltanto dall propria virtù.
- Felix. Fa parte del lessico agreste. Plinio il Vecchio riporta come felix l’Arabia della mezzaluna
fertile, la valle mesopotamica tra Tigri ed Eufrate, ed anche è felix il dio Vertumno, dio dei campi,
di origine etrusca. Persino Silla si farà chiamare felix. Catone nel “De Agri Cultura” pensa che felix
derivi dalla fertilità del suolo.
- Manca dunque nella terminologia e nell’etimologia latina la ricchezza contenutistica della lingua
greca.
Origine della ricerca della felicità
- Il discorso sulla felicità si pone come problema quando si passa ad analizzare dal mondo all’uomo,
cioè si passa dalla fisiologia di milesi, eleati e pluralisti (coloro che cercano l’archè o gli archài),
che è incentrata sulla cosmologia e sulla fisica, le quali spiegano il mondo, alla filosofia di sofisti e
Socrate, che è incentrata sull’antropologia etica, che spiega l’uomo.
- La ricerca della felicità diventa il tema chiave soprattutto in età ellenistica, dopo la triade di
Socrate, Platone ed Aristotele, per due motivi. Da un lato, cadono le città-stato greche, liberali, e si
instaurano le diadochie monarchiche, tiranniche, così l’uomo passa da cittadino attivo a suddito
passivo. Dall’altro, le leggi della città sono sempre state le norme etiche dell’uomo in quanto civis,
ma ora non ci sono più, così l’uomo riscopre la propria interiorità e la propria dimensione privata,
dato che non sono più evidenti i valori etici di comportamento, e dunque si sente infelice, spaesato
ed isolato. Ecco l’instaurarsi canonico della ricerca della felicità.
Presocratici
- Prodico di Ceo, sofista greco del V aC, scrive un perduto e frammentario “Su Eracle”. Famoso di
tale opera è l’apologo di Eracle al bivio, riportato dai “Memorabili” di Senofonte. Eracle, da
grandicello, è al bivio tra la vita viziosa o la vita virtuosa. Gli appaiono due donne, una apollinea,
magra ed elegante, ed una dionisiaca, corpulenta ed estrosa (quasi l’amor sacro e l’amor profano).
La seconda promette una strada facile e felice, senza guerra, con cibo e bevande e musica e sesso,
senza alcuno sforzo per raggiungerla; spiega che chi la ama la chiama felicità (eudaimonìa), chi la
odia la chiama viziosità (kakìà). La prima afferma di conoscer lui e la sua famiglia, e lo invita a
comportarsi bene per accrescere la sua gloria di donna, promettendo di non ingannarlo con falsi
piaceri, ma di rivelargli come gli dei fanno girare il mondo: gli dei non concedono nessun bene
pregiato (kalòs kai agathòs, sia bello sia buono) senza fatica (pònos), dunque lo invita a lavorare per
amici, famiglia, città, gloria, denaro, spiegando come bisogna allenare il corpo a servire la mente, al
fine di vivere bene con se stessi e gli altri. La viziosità (kakìa) allora sfigura davanti ad Eracle il
personaggio della virtù (aretè), così la virtù sbotta ed inizia ad argomentare per insultarla, rivelando
alla fine che, se Eracle la seguirà, otterrà la felicità più beata (makariotàten eudaimonìan).
- Secondo le modalità dei sofisti, uno fa un discorso, l’altro ne fa un altro, per convincere
retoricamente l’interlocutore. È un procedere retorico per singoli discorsi, che si contrappongono
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antiteticamente, non un dialogo come in Socrate, dove le due parti sono congiunte alla ricerca
maieutica di una comune verità. Il bivio non è tra felicità ed infelicità, ma è tra viziosità e virtù per
perseguire la felicità, la quale è dunque lo scopo. Eppure Kakìa si maschera dietro il nome della
felicità, quando al massimo potrebbe essere il mezzo per raggiungerla, ma proprio non può essere la
felicità. Al contrario, Aretè non si sedice quale felicità, ma si dichiara apertamente il mezzo corretto
per raggiungerla.
- Eracle è allora emblema non della forza bruta, bensì della forza educata, ha cioè una formazione,
appunto quella della virtù (l’aretè greca), che gli fa accettare di superare le fatiche per raggiungere
poi il proprio scopo (sarà poi protagonista delle celebri “Dodici Fatiche”). Lo stoicismo antico
infatti assume Eracle quale simbolo dei propri ideali filosofici.
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