L’apparato normativo e strumentale volto a sostenere l’eguaglianza uomodonna nel lavoro: verso un’authority contro le discriminazioni? Fausta Guarriello Punto di partenza ineludibile per inquadrare le problematiche di genere nel diritto del lavoro è l’art. 37 della Costituzione, che afferma il principio di parità retributiva tra uomo e donna a parità di lavoro svolto, ma altresì di salvaguardia dell’essenziale funzione familiare della donna, con le possibili tensioni che possono nascere dalla speciale protezione della donna in relazione alla maternità e al lavoro di cura rispetto a una concezione paritaria nel mondo del lavoro. A dieci anni di distanza, l’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE ha dato al principio di parità salariale tra uomo e donna uno svolgimento più rigoroso e coerente attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia e il diritto derivato, che ha esteso il principio di parità dalle retribuzioni all’accesso al lavoro e alle condizioni di lavoro, ai regimi di sicurezza sociale, al lavoro autonomo, vietando le discriminazioni dirette e indirette in ragione del sesso e introducendo facilitazioni sul piano probatorio per assicurare una efficace tutela in giudizio contro le discriminazioni. La parità uomo-donna nel lavoro ha avuto nel diritto comunitario la sua forza trainante non solo in virtù del primato del diritto comunitario sul diritto interno, ma anche dell’evoluzione dei princìpi, dalla parità di trattamento alle pari opportunità, sino alla conciliazione tra vita familiare e professionale, all’assimilazione della molestia alla discriminazione, al riconoscimento delle discriminazioni di carattere collettivo e alla previsione della legittimazione collettiva in capo ad associazioni ed enti che abbiano interesse al contrasto delle stesse e all’istituzione di appositi organismi di parità volti a promuovere l’eguaglianza di genere e la lotta alle discriminazioni. Il percorso normativo è stato lungo e costante, caratterizzato da una notevole innovazione sotto il profilo della strumentazione giuridica utilizzata e da una meritoria attenzione alla effettività dei dispositivi introdotti, attraverso un monitoraggio della situazione di fatto che -soprattutto in anni recenti- non ha mancato di segnalare lo scarto tuttora esistente tra previsioni normative molto avanzate e la realtà del mondo del lavoro, che ancora in molti casi penalizza la componente femminile (tetto di cristallo, segregazione professionale, gender pay gap, tassi di occupazione femminile meno elevati di quelli maschili in molti paesi europei, percentuale più elevata di donne tra i cd. lavoratori poveri o a rischio di povertà). In un periodo nel quale l’appartenenza all’Unione europea non sembra più costituire una barriera contro il ridimensionamento delle conquiste sociali realizzate negli scorsi decenni, su un punto l’Unione europea è rimasta ferma: la promozione dell’eguaglianza uomo-donna nel lavoro e nella vita sociale. Il che, coi tempi che corrono e con la brutale aggressione all’emancipazione femminile e ai diritti delle donne perpetrata in tante parti del mondo, rappresenta un segno fondamentale di civiltà. Verso tale obiettivo l’Unione europea ha mobilitato una vasta gamma di strumenti1: non solo i diritti fondamentali previsti dalla Carta di Nizza (artt. 21 e 23), ma princìpi e norme dei trattati (da ultimo, l’art. 10 del trattato di Lisbona sul mainstreaming di genere) e il diritto derivato (il corpus di direttive comunitarie in materia di parità uomo-donna è il più vasto in campo sociale), atti non vincolanti come raccomandazioni (v. la raccomandazione, poi divenuta proposta di direttiva nel 2012 sulle cd. quote rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate e delle società pubbliche) e programmi di azione, una ricchissima casistica giurisprudenziale, la destinazione di significative quote dei fondi europei a obiettivi di riequilibrio di genere, specifici pilastri e linee-guida degli orientamenti europei per l’occupazione e per l’inclusione sociale, il metodo di rilevazione statistica disaggregato per sesso, così da verificare l’impatto differenziato delle diverse misure su uomini e donne. E’ quindi importante tenere presente non solo la matrice comunitaria delle discipline interne in materia di parità uomo-donna, ma anche il costante stimolo proveniente dall’Unione europea in direzione dell’aggiornamento e dell’avanzamento delle frontiere della parità2: una battaglia culturale che, pur con qualche battuta d’arresto (come la sentenza Kalanke del 1995 sulle quote in favore delle donne nelle assunzioni e promozioni nell’impiego pubblico)3, ha sempre visto l’Europa in prima fila. Al riguardo, giova ricordare che la legge italiana di parità uomo-donna n. 903 del 1977 è non solo legge di attuazione del dettato costituzionale, ma anche di trasposizione sul piano nazionale delle direttive comunitarie sulla parità retributiva (n. 75/117) e sulla parità di trattamento nell’accesso al lavoro e nelle condizioni di lavoro (n. 76/207). Come noto, la legge 903 ha affermato il principio di parità con riguardo all’accesso al lavoro, alla formazione e all’orientamento professionale, alla retribuzione e alle altre condizioni di lavoro, prevedendo un’azione in giudizio individuale contro le discriminazioni perpetrate anche in 1 Roccella M., Treu T., Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2012, p. 288. Barbera M. (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Milano, Giuffrè, 2007 . 3 Scarponi S. (a cura di), Le pari opportunità nella rappresentanza politica e nell’accesso al lavoro. I sistemi di “quote” al vaglio di legittimità, Università degli Studi di Trento, 1997. 2 via indiretta, disciplinando però in maniera differenziata il ricorso al lavoro notturno per uomini e donne, in particolare stabilendo un divieto relativo di lavoro notturno per le donne addette al settore industriale, divieto rimuovibile ad opera della contrattazione collettiva, e un divieto di adibizione a mansioni pesanti, come individuate dalla contrattazione collettiva. Nel 1991 la Corte di giustizia ha dichiarato illegittima la disparità di trattamento riguardo al lavoro notturno, imponendo un trattamento indifferenziato con riguardo al genere, ma attento all’esercizio di funzioni genitoriali da parte di lavoratori dell’uno o dell’altro sesso. All’eguaglianza formale affermata dalla legge n. 903 si è affiancata nel 1991 l’innovativa legge n. 125 sulle azioni positive che, inaugurando il filone del cd. diritto diseguale4, riconosce la legittimità di misure a carattere temporaneo volte a rimuovere gli ostacoli di fatto che impediscono la piena realizzazione dell’eguaglianza di genere e ad assicurare pari opportunità in favore delle donne, misure basate sull’art. 3, 2° comma della Costituzione. L’obiettivo perseguito dalle azioni positive, di favorire il cambiamento organizzativo e sociale per dare alle donne reali opportunità di inserimento nei settori e nei livelli professionali in cui sono sottorappresentate, per favorire lo sviluppo delle carriere femminili, il lavoro autonomo e imprenditoriale, una diversa gestione degli orari di lavoro e dei servizi, la conciliazione tra lavoro di cura e lavoro professionale e la redistribuzione dei compiti familiari, viene sostenuto dal cofinanziamento pubblico ai progetti di azione positiva, realizzato attraverso il Comitato nazionale di parità. La legge 125 ha inoltre fornito la nozione di discriminazione indiretta, provvedendo all’inversione dell’onere della prova per chi agisca in giudizio, in ciò anticipando sulla scorta della giurisprudenza comunitaria la direttiva n. 97/80, ha introdotto la prova statistica nonché l’azione collettiva esercitata dalla consigliera regionale di parità. Di notevole rilievo tanto dal punto di vista pratico che sistematico appare la previsione, introdotta dalla legge 125, riguardante l’obbligo per le aziende con più di cento dipendenti di redigere un rapporto periodico a cadenza biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, che evidenzi l’andamento nel tempo delle assunzioni, promozioni, conversioni, numero di contratti flessibili, licenziamenti, retribuzioni ecc. così da mettere a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere di parità regionali i dati conoscitivi indispensabili per intervenire con proposte di azione positiva adeguate al contesto di 4 Gaeta L., Zoppoli L. (a cura di), Il diritto diseguale. La legge sulle azioni positive, Giappichelli, Torino, 1992; Treu T., Ballestrero M.V.(a cura di), Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, in Le nuove leggi civili commentate, n. 1, 1994, pp. 1 ss.; Garofalo M.G. (a cura di), Lavoro delle donne e azioni positive. L’esperienza giuridica italiana , Cacucci, Bari, 2002. riferimento, ovvero per munire queste ultime del necessario supporto statistico per esercitare l’azione in giudizio quando vengano ravvisate discriminazioni a carattere seriale. Gli organismi di parità istituzionali, articolati a livello centrale e periferico, e quelli previsti dai contratti collettivi, frutto di una considerevole stratificazione normativa e contrattuale, hanno funzioni promozionali della parità uomo-donna nel lavoro, ma anche -per quanto riguarda le consigliere di parità- funzioni di garanzia, attraverso la legittimazione loro conferita ad agire in giudizio contro le discriminazioni individuali o collettive (v. infra). Una svolta importante si è avuta con l’approvazione del d. lgs. n. 196 del 20005, con il quale è stato creato l’apposito fondo per l’attività delle consigliere di parità. Il contesto istituzionale di quegli anni aveva visto l’istituzione del ministero delle pari opportunità nel 1996, sotto il primo governo Prodi, e il dipartimento per le pari opportunità presso la presidenza del Consiglio, in attuazione degli obiettivi delineati dalla conferenza di Pechino delle Nazioni Unite del 1995, miranti a riconoscere figure e organismi che facessero avanzare gli obiettivi di uguaglianza di genere, secondo le parole d’ordine del mainstreaming e dell’empowerment, organismi che mirassero a rendere la prospettiva di genere trasversale a tutti i processi decisionali. In attuazione dell’obiettivo delle Nazioni Unite è stato istituito il ministero delle pari opportunità come ministero senza portafoglio, con funzioni di coordinamento di tutte le politiche del Governo in materia. L’apporto più significativo della riflessione di quegli anni è stato il riconoscimento di risorse dedicate al funzionamento degli uffici delle consigliere di parità e il loro collegamento attraverso la rete nazionale, coordinata dalla consigliera nazionale, con obbligo di riunirsi due volte l’anno e con funzioni di scambio di informazioni e di monitoraggio dell’attività svolta. Né la disciplina del lavoro pubblico si è sottratta al ruolo esemplare che la pubblica amministrazione deve svolgere nei confronti del datore di lavoro privato: così nelle procedure di selezione e nei concorsi pubblici la legge impone che almeno un terzo dei componenti le commissioni appartenga al sesso sottorappresentato, e che nelle promozioni interne si tenga conto dell’equilibrio di genere in tutti i settori e livelli professionali, assumendo come equilibrata la presenza di almeno un terzo di appartenenti al sesso sottorappresentato. Laddove la presenza del sesso sottorappresentato in un settore o livello professionale sia inferiore ad un terzo, nelle promozioni deve essere data preferenza a parità di requisiti professionali al candidato del sesso sottorappresentato, mentre la scelta di un candidato 5 Barbera M. (a cura di), La riforma delle istituzioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità,in Le nuove leggi civili commentate, n. 3, 2003, pp. 623 ss. appartenente al genere sovra-rappresentato necessita di specifica e adeguata motivazione. Allo stesso tempo, le pubbliche amministrazioni sono tenute alla presentazione di piani triennali di azioni positive - misura che resta invece facoltativa per il datore di lavoro privato volti a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità tra uomini e donne. Un ruolo consultivo e propositivo importante è svolto in materia dai comitati pari opportunità previsti dai contratti collettivi di comparto, ora sostituiti dai comitati unici di garanzia (Cug) ai sensi dell’art. 21 del collegato lavoro del 2010. La più recente stagione normativa in materia appare caratterizzata da un lato dalla redazione di una (peraltro impropria) codificazione del consistente apparato normativo e istituzionale pregresso, il cd. codice sulle pari opportunità (decreto legislativo n. 198/2006); dall’altro dal costante adeguamento delle nozioni ivi adottate al diritto antidiscriminatorio europeo di nuova generazione6, frutto delle direttive di genere n. 2002/73 e 2006/54. In particolare, è stata modificata la nozione-base di discriminazione diretta, oggi intesa come qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando una persone in base al sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra persona in situazione analoga; e di discriminazione indiretta come situazione nella quale una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (art. 25 codice p.o.). Alla nozione di discriminazione viene assimilato l’ordine di discriminare, nonché la molestia, intesa come comportamento indesiderato connesso al sesso, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità della persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo; e la molestia sessuale, configurata come comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità della persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 26 codice p.o.). Frutto di adeguamento al diritto europeo appaiono anche le previsioni riguardanti la cd. vittimizzazione, ossia la protezione di 6 persone nei cui confronti siano posti in essere AA.VV., Il nuovo diritto antidiscriminatorio, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 99/100, 2003, pp. 341 ss.; De Simone G., Dai principi alle regole. Eguaglianza e divieti di discriminazione nella disciplina dei rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2001; Izzi D., Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Jovene, Napoli, 2005; Lassandari A., Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, Cedam, Padova, 2010. comportamenti ritorsivi in reazione a un’attività diretta a ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento (ad es. colleghi che hanno testimoniato in giudizio in favore del soggetto discriminato), nonché le disposizioni riguardanti il dialogo sociale e il dialogo con organizzazioni della società civile per favorire la sensibilizzazione su questioni legate alla parità uomo-donna, affidate alle competenze del Comitato nazionale di parità. Le nuove nozioni di discriminazione, nonché gli strumenti rimediali adottati (individuali e collettivi, ordinari o d’urgenza, a carattere ripristinatorio e risarcitorio) ispirati al principio di effettività, proporzionalità e dissuasività imposto dal diritto europeo per l’apparato sanzionatorio a presidio dei divieti di discriminazione, costituiscono un sistema normativo complesso e sofisticato, fortemente esposto ai mutamenti normativi e giurisprudenziali e alla lettura che le corti danno del principio antidiscriminatorio qualunque sia il fattore di svantaggio preso in considerazione. Va tuttavia criticamente segnalato come il diritto antidiscriminatorio costituisca un apparato concettuale ancora relativamente poco conosciuto e praticato nel nostro paese, dove alle sofisticate tecniche antidiscriminatorie si sono sinora preferite forme di tutela sostanziale ritenute più solide e meno aleatorie. La situazione è però in corso di progressivo mutamento in considerazione dell’allentamento delle tradizionali garanzie che hanno sinora presidiato il rapporto di lavoro subordinato, in particolare con riguardo alla disciplina del licenziamento. Il passaggio della tutela reale da regola ad eccezione, applicabile nel solo caso di licenziamento discriminatorio o nullo, certo porterà a riconsiderare l’importanza di questo modello di tutela e ad impadronirsi delle sue tecniche argomentative e probatorie. Un profilo di particolare e rinnovato interesse nel panorama del diritto antidiscriminatorio è quello degli organismi di parità posti a presidio della effettività del principio di parità di trattamento e del divieto di discriminazioni basate sul sesso. La nuova stagione del diritto antidiscriminatorio europeo ha accentuato l’esigenza di istituire appositi organismi per promuovere l’eguaglianza di opportunità e la lotta alle discriminazioni, prevedendo che essi debbano possedere requisiti di indipendenza a garanzia di terzietà nell’affrontare questioni relative a casi segnalati di discriminazione, nonché nel riferire a istanze sovranazionali circa l’applicazione del principio fondamentale di non discriminazione. Sul punto l’ordinamento italiano versa in situazione di palese inadempimento agli obblighi comunitari, come evidenziato dalla procedura di infrazione mossa contro l’Italia. Vediamone i presupposti. Il quadro nazionale degli organismi di garanzia del diritto alla parità di trattamento e alla promozione di pari opportunità uomo-donna appare il frutto di una folta stratificazione normativa che, nel corso degli anni, ha moltiplicato il numero di organismi operanti sia a livello nazionale che territoriale. Questa logica incrementale però, lungi dal fornire una strumentazione adeguata a rafforzare il perseguimento di obiettivi di promozione di pari opportunità, ha finito per indebolirne l’azione complessiva a causa della sovrapposizione di funzioni, di poteri poco incisivi e della scarsa disponibilità di risorse. L’assunzione di obiettivi di promozione dell’eguaglianza di genere nel nostro paese, infatti, ha prodotto una sedimentazione alluvionale di commissioni e comitati dotati di innocui poteri propositivi o consultivi a tutti i livelli, a cui sopravvenute esigenze di riordino e di razionalizzazione della spesa pubblica hanno finito nel tempo per ridurre i poteri e tagliare le già scarse risorse. In tale quadro di pluralismo istituzionale7 spicca la figura della consigliera di parità, che si distingue per struttura agile e diffusa a livello territoriale e per incisività di poteri, che ne fanno un unicum nel panorama normativo italiano. Alla Consigliera di parità è attribuita una serie di funzioni rilevanti, che spaziano dalla legittimazione processuale mediante l’azione in giudizio, esercitata sia in proprio, che in via sostitutiva o mediante l’intervento in giudizio a sostegno delle vittime di discriminazioni; alla conciliazione di controversie individuali e collettive; alla verifica dell’esistenza di squilibri di genere nelle politiche del personale di imprese pubbliche e private; alla partecipazione alle istanze di concertazione territoriale, funzioni che hanno connotato la figura come una sorta di difensore civico delle donne. Proprio in ragione della titolarità di funzioni di garanzia di un diritto fondamentale, la Consigliera di parità è stata positivamente riconosciuta come l’organismo antidiscriminatorio di genere prescritto dal diritto comunitario nel decreto legislativo n. 5/2010, di recepimento della direttiva n. 2006/54, che ha attribuito alla Consigliera nazionale di parità anche poteri di inchiesta indipendente e di formulazione di pareri indipendenti e di raccomandazione in materia di discriminazioni, come previsto dalla direttiva. Malgrado l’attribuzione di funzioni di alto profilo, a presidio dell’effettività di princìpi di rilevanza costituzionale e comunitaria, la debole strutturazione dell’organismo e il suo incardinamento presso la pubblica amministrazione hanno evidenziato i limiti di una concezione puramente ornamentale della figura, posta nella concreta impossibilità di esercitare il nucleo essenziale delle sue prerogative, rappresentato dalla funzione 77 Guarriello F., Il ruolo delle istituzioni e della società civile, in Barbera M., Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 675 ss.; La Rocca D., Il fondo nazionale per l’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità, in Le nuove leggi civili commentate, n. 3, 2003, p. 670. antidiscriminatoria. In altre parole, malgrado l’incremento formale dei compiti, alla Consigliera è toccata una sorte non diversa da quella riservata ad altre istituzioni di parità, considerate alla stregua di inutili orpelli dell’amministrazione e, in quanto tali, eliminate, ridotte, accorpate, burocratizzate nella composizione e sottoposte a stringenti controlli nell’attività, tollerate solo come espressione collaterale dell’agire amministrativo, secondo le valutazioni proprie del potere politico. Si è così acuita nel tempo la crisi del modello italiano delle istituzioni di parità, basato su organismi collegiali e su uffici della P.A. in luogo di un’autorità indipendente, dotata di poteri, risorse e autorevolezza tali da incidere realmente sulla realtà economica e sociale al fine di prevenire ed eliminare le discriminazioni. La proposta di istituire un’authority in questo campo, avanzata dalla titolare del neo-istituito ministero delle Pari opportunità sotto il primo governo Prodi e destinata a rimanere lettera morta, rappresenta la classica occasione perduta di dare autorevolezza alle politiche di pari opportunità nel nostro Paese. La soluzione normativa adottata, di semplice adeguamento degli organismi preesistenti, dovuta ad una certa pigrizia intellettuale o a cautela nell’affrontare una questione, come quella del riequilibrio di genere, mai veramente entrata nell’agenda politica del nostro paese, nel lungo periodo ha evidenziato i propri limiti: penuria di risorse, sovrapposizione e frammentazione di compiti, mancata autonomia dalla P.A. I risultati non sono stati migliori: malgrado l’attività profusa dagli organismi di parità nella loro ormai trentennale attività: i dati riguardanti la presenza delle donne sul mercato del lavoro italiano segnalano un abissale ritardo rispetto agli altri paesi europei, a riprova della scarsa incidenza strutturale dei meccanismi di riequilibrio di genere sperimentati nel nostro paese. La stessa azione in giudizio contro le discriminazioni collettive - il potere più incisivo attribuito alla Consigliera di parità - è stata utilizzata con cautela dalle Consigliere regionali di parità e tentata solo in casi sporadici (e risalenti) dalla Consigliera nazionale, mentre la funzione di conciliazione delle controversie collettive - che ha un impatto più forte sul tessuto economico-sociale - ha evidenziato la necessità di forte sintonia con gli uffici del ministero che detengono il potere di mediazione delle controversie di lavoro, per avere qualche chance di successo. Il dilemma in cui si imbatte la figura della Consigliera di parità appare quello di essere una figura bifronte che, soprattutto per quanto riguarda le funzioni di garanzia, avendo compiti di attuazione di normative nazionali e comunitarie, viene concepita come figura unitaria a livello nazionale, il che ne giustifica la nomina ed il finanziamento da parte dei due Ministri. Per quanto attiene, invece, alle funzioni promozionali sul mercato del lavoro, come ad esempio la promozione degli obiettivi di genere nella concertazione territoriale e nelle politiche del lavoro, essa ha un assetto funzionale assai più legato alle autonomie territoriali e ai diversi caratteri dei mercati del lavoro locali. Si tratta quindi di una figura-cerniera sia dal punto di vista funzionale che strutturale, cui competono tanto funzioni promozionali che di garanzia, le prime connesse alle competenze territoriali in materia di governo del mercato del lavoro, le seconde collegate all’esercizio indivisibile di diritti civili. Il problema più evidente posto da questo assetto è dato dalla struttura dell’organismo: domiciliato presso gli assessorati al lavoro e/o alle pari opportunità di Regioni e Province, e presso il Ministero del lavoro a livello centrale, gode di autonomia funzionale per legge, sicché le amministrazioni competenti sono tenute a fornire sedi, attrezzature, personale per garantire in regime di autonomia funzionale l’espletamento dei suoi compiti. Ma l’autonomia funzionale costituisce il tallone d’Achille dell’organismo e la vicenda che ha portato alla revoca, sulla base della legge n. 145/2002, della Consigliera nazionale di parità appare in proposito emblematica della debolezza strutturale della figura. L’autonomia funzionale costituisce infatti un problema spinoso, da sempre croce e delizia degli uffici delle Consigliere di parità. Infatti, mentre in molte situazioni il rapporto instaurato tra Consigliera e amministrazione ospitante ha consentito di risolvere correttamente la questione delle risorse per il funzionamento dell’organismo; in qualche caso le Regioni hanno tentato di sottrarre tali risorse al vincolo di destinazione (o a non procedere al riparto tra Province) imposto per legge proprio al fine di garantire il funzionamento dell’organismo. L’assetto della figura crea inoltre notevoli problemi riguardo alle autorizzazioni di spesa. A tutti i livelli un dirigente risponde formalmente del controllo di legittimità della spesa della Consigliera di parità, il che nei fatti sovente si traduce in situazioni in cui l’ufficio della Consigliera di parità non ha piena e pronta disponibilità dei fondi per l’espletamento dei suoi compiti, dovendo ottenere l’autorizzazione preventiva del dirigente del Ministero, della Regione o della Provincia, autorizzazione sottoposta a vincoli burocratici defatiganti. Tale assetto funzionale costituisce un notevole appesantimento per l’attività dell’organismo, perché i compiti della Consigliera richiedono di essere espletati con tempestività e con un certo grado di indipendenza, e non possono tollerare sistematici intralci, omissioni o ritardi, soprattutto allorché si tratta di assicurare assistenza legale alle vittime di discriminazioni. Questo ha rappresentato un primo grosso problema per l’operatività dell’organismo. Un altro profilo di criticità attiene alla complessa procedura di nomina, che avviene su designazione del competente organo delle Regioni e delle Province, da parte del Ministro del lavoro di concerto con il Ministro delle pari opportunità. La concezione dell’organismo come dotato di elevata caratura tecnica postula il possesso di requisiti tecnici in capo alla persona da nominare e un regime di pubblicità degli stessi attraverso la pubblicazione del curriculum in Gazzetta ufficiale. La legge sanziona l’inosservanza dei requisiti tecnici ad opera degli organi designanti affidando al Ministro il potere sostitutivo di designazione e nomina di persone provviste di tali competenze. Il potere sostitutivo è stato tuttavia esercitato in rare occasioni dal Ministro del Lavoro: trattando di figura destinata ad operare sul territorio, il potere di nomina è stato avocato solo in casi clamorosi di designazione di persone che non possedevano alcuna competenza in materia di politiche del lavoro, legislazione del lavoro e normativa antidiscriminatoria. Il mancato rispetto dei requisiti tecnici comporta infatti l’impossibilità pratica di svolgere le funzioni richieste dalla legge, che sono di elevata specializzazione. Per la difesa in giudizio, ad esempio, la Consigliera può certamente avvalersi di avvocati del libero foro, ma poiché in genere gli avvocati non hanno grande dimestichezza con il diritto antidiscriminatorio, è importante che l’organismo di parità sia tecnicamente attrezzato per poter guidare il processo di diffusione di una cultura di pari opportunità anche sul piano giudiziario. Il quadro normativo in materia è significativamente mutato dopo il 2002, dacché l’istituzione di uno o più organismi antidiscriminatori (equality body), sino ad allora rimessa alla libera determinazione degli Stati, è divenuta oggetto di un preciso obbligo imposto dal diritto comunitario. La direttiva n. 2002/73 prevede, infatti, che gli Stati membri istituiscano organismi specializzati in materia di promozione della parità di trattamento e lotta alle discriminazioni di genere, obbligo già presente nella direttiva n. 2000/43 con riguardo alle discriminazioni per razza e origine etnica. La soluzione adottata dal legislatore italiano per quanto riguarda le discriminazioni di genere è stata quella di ritenere, nella fase di recepimento della direttiva, che l’ordinamento italiano fosse già dotato di organismi di parità conformi a quanto richiesto dal diritto comunitario, sicché non ci fosse bisogno di adeguare le normative interne rispetto all’obbligo traspositivo. Per quanto riguarda le discriminazioni etniche e razziali, ove siffatti organismi non erano invece presenti, in sede di recepimento della direttiva 2000/43 ad opera del d. lgs. n. 315/2003, è stato istituito ex novo un apposito ufficio di contrasto alle discriminazioni razziali (UNAR) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento Pari Opportunità. Ma se si presta attenzione al contenuto dell’obbligo comunitario, come emerge dalla identica formulazione presente nelle due direttive sul punto, si evince che, ferma restando la discrezionalità degli Stati nella strutturazione di tali organismi, singoli o plurimi, eventualmente facenti parte di “agenzie incaricate a livello nazionale della difesa dei diritti umani o della salvaguardia dei diritti individuali”, quel che si chiede agli Stati è di assicurare che tra le competenze di tali organismi rientrino: a) l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle denunce da esse inoltrate; b) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazioni; c) la pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni (art. 20, direttiva n. 2006/54; art. 13, direttiva n. 2000/43). La reiterata sottolineatura del carattere indipendente dell’organismo di parità nell’esercizio della funzione antidiscriminatoria costituisce il nodo critico fondamentale dell’istituzione e dell’attività di tali organismi. Il requisito di indipendenza sembra costituire il tratto distintivo tra organismi di parità purchessia, di cui esiste ampia proliferazione nel nostro ordinamento, e gli organismi qualificati dal carattere indipendente imposti dal diritto comunitario. Una procedura di infrazione è stata avviata dalla Commissione contro l’Italia a motivo della mancata indicazione di quale fosse, tra i molti esistenti, l’organismo indipendente tenuto a esercitare le funzioni antidiscriminatorie essenziali prescritte dalla direttiva. Al parere motivato della Commissione è stata data risposta con il d.lgs. n. 5/2010 di recepimento della direttiva di rifusione 2006/54, che ha implicitamente individuato tale organismo nella Consigliera nazionale di parità, alle cui competenze si è limitato ad aggiungere lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazioni (nel lavoro), la pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di raccomandazioni (v. art. 1, lett. l), che aggiunge il comma 1-bis all’art. 15, d. lgs. n. 198/06, cd. codice pari opportunità). Al riguardo, val la pena evidenziare come la soluzione rinvenuta all’interno degli organismi esistenti configuri un adeguamento puramente formale al dettato comunitario, non risultando l’assetto della figura della Consigliera di parità rispondere al requisito di indipendenza posto dalla norma comunitaria, giacché non ne viene modificata la disciplina pregressa, che si limita a garantire alla Consigliera un più limitato regime di autonomia funzionale 8. A ciò si aggiunga il vulnus gravissimo arrecato alla configurazione della Consigliera nazionale di parità come organismo indipendente dalla revoca posta in essere nel 2008 dal Ministro del lavoro sulla base del meccanismo di spoils system, che ha gettato un’ombra definitiva sull’indipendenza dell’organismo, essendo oltretutto la revoca motivata dall’asserita mancanza di sintonia con l’indirizzo politico di governo. Ma, prima di passare ad illustrare i tratti salienti della vicenda, che sancisce in modo inequivoco l’impossibilità di conciliare 8 Da intendersi nel senso che la consigliera deve poter svolgere in modo indipendente le sue funzioni, stabilendo in piena autonomia le proprie priorità di azione, secondo il parere espresso dal Ministero del lavoro l’assetto interno dell’organismo, come ereditato dal passato, con le condizioni poste dal diritto comunitario, appare dirimente soffermarsi su tali condizioni, giacché la matrice comunitaria degli istituti in questione impone di indagare su quali siano i tratti di indipendenza richiesti dal diritto comunitario. L'obbligo di istituire appositi organismi (specialized bodies) risponde all'esigenza di promuovere l'effettività dei diritti, nonché di migliorare attraverso modalità sperimentali la governance di realtà complesse, nelle quali il decisore pubblico deve dar conto (ai Parlamenti, a istituzioni sovranazionali) dello stato di applicazione di discipline che implicano l'attivo coinvolgimento di una vasta rete di soggetti della società civile portatori di interessi specifici, attraverso meccanismi di monitoraggio o di peer-review9. Ciò è tanto più vero per gli organismi chiamati a operare in settori sottoposti alle spinte armonizzatrici del diritto comunitario, come quello dei diritti fondamentali o dei diritti umani 10. Ma se il quadro comunitario non prescrive l'adozione di specifici modelli organizzativi, lasciando agli Stati membri ampia discrezionalità, l'accento posto sul carattere indipendente delle funzioni deve valere come principio esegetico generale per verificare il grado di conformità con gli indirizzi europei. In effetti, la questione dell'indipendenza degli organismi di parità costituisce uno dei problemi più spinosi, sia con riguardo agli organismi nazionali, preesistenti o istituiti in fase di recepimento del diritto comunitario, sia con riguardo agli organismi di nuova istituzione sul piano europeo. Essa ha costituito infatti oggetto di procedure di infrazione mosse contro alcuni Stati, tra cui l'Italia. Sul punto, la soluzione adottata nel nostro paese si discosta da quella di altri ordinamenti, che hanno affidato ad autorità indipendenti la funzione di prevenzione e contrasto del fenomeno discriminatorio riguardo a ciascuno o a tutti i fattori di rischio considerati (ad es. l'Haute Autorité pour la lutte aux discriminations et pour l'égalité -HALDE- francese). Nel nostro ordinamento gli organismi di parità sono incardinati presso la pubblica amministrazione, dotati di "autonomia funzionale" e di risorse dedicate. La scelta dell'ufficio come articolazione organizzativa dell'amministrazione, se appare segno dell'assunzione degli obiettivi antidiscriminatori al più alto livello dell'azione politica e amministrativa del governo, si presta tuttavia a notevoli riserve in ordine al reale grado di autonomia e indipendenza di questi organismi. La loro natura ibrida, a cavallo tra politica e amministrazione, sembra 9 European Union Agency for Fundamental Rights (FRA), National Human Rights Institutions in the EU Member States. Strengthening the Fundamental Rights Architecture in the EUI, Luxembourg 2010; Towards the uniform and dynamic implementation of EU anti-discrimination legislation: the role of specialized bodies, Report of the seventh experts meeting, hosted by the Equality Commission for Northern Ireland, 17-18 june 2004. 10 De Schutter O., Alston P. (eds.), Monitoring Fundamental Rights in the EU, Hart Publishing, Oxford and Portland, 2005. privarli di quella indipendenza che costituisce il tratto caratteristico delle autorità amministrative indipendenti, apparendo non idonea ad assicurare un esercizio delle funzioni libero da condizionamenti esterni, soprattutto di tipo politico11. Connesso con la garanzia di indipendenza è il problema della perdurante limitatezza di poteri e risorse, che li rendono delle "autorità minori"12, a discapito dell'efficacia operativa e della consapevolezza del loro ruolo da parte dei soggetti tutelati. La stessa istituzione del Dipartimento per le pari opportunità e la prassi di conferimento della delega al coordinamento degli organismi nazionali all'omonimo Ministro ha reso vieppiù manifeste esigenze di riordino degli stessi a fini di semplificazione, di contenimento della spesa pubblica e di miglioramento della efficienza amministrativa. Il precedente costituito dal riordino (ex art. 29, d.l. 233/2006, convertito in legge n. 248/2006), da realizzarsi anche mediante soppressione o accorpamento delle strutture, della Commissione nazionale di parità -organismo con competenze nei settori della vita politica, economica e sociale- ne ha accentuato il carattere tecnico-consultivo, di supporto al Ministro e al Dipartimento per le pari opportunità, in una logica tutta interna alla pubblica amministrazione. Anche l’attività di riordino degli organismi nazionali di parità nel lavoro, realizzata con il d. lgs. n. 5/2010, ha seguito la stessa impostazione13 di appesantimento del Comitato nazionale di parità e pari opportunità, di cui è stata accentuata la componente di estrazione burocratica e a cui sono state riconosciute le ulteriori funzioni di sensibilizzazione previste dalle direttive europee. La decisione del giudice amministrativo sulla vicenda della revoca della Consigliera nazionale di parità, pubblicata e ampiamente commentata dalla dottrina14, ha confermato l’impostazione del Ministero del lavoro, fondata sulla necessità di un nesso fiduciario tra Ministro nominante e Consigliera di parità nominata, trascurando le funzioni di garanzia assolte dall’organismo sia sul piano del diritto interno che del diritto comunitario, laddove una lettura comunitariamente orientata delle disposizioni nazionali (in ordine all’autonomia funzionale della figura, al perseguimento di compiti fissati per legge, al possesso di elevati 11 Palici di Suni E., Gli organismi di parità in Italia, in Fabeni S., Toniollo M.G. (a cura di), La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, Ediesse, Roma, 2005, p. 262 ss. 12 Barbera M., Introduzione, in Le nuove leggi civili commentate, n. 3, 2003, pp. 632 ss. 13 Calafà L., Il codice delle pari opportunità dopo il recepimento della direttiva n. 2006/54, in Nuove leggi civili commentate, n. 1, 2010. 14 Gottardi D., Lo statuto delle Authorities in una prospettiva europea: il caso delle consigliere di parità, in www.europeanrights.eu; Corazza L.-Mattarella B.G., Tempi di spoils system, in nelMerito.com, Pubblica Amministrazione, 29 settembre 2009; C. Tubertini, Lo spoils system si applica agli organismi di garanzia? Una risposta (deludente) da parte del giudice, ivi, e, Organismi di garanzia e confini del c.d. spoils system, in Giornale di diritto amministrativo, n. 4, 2009; G. D’Auria, Consigliere di parità e rapporto (inesistente) di fiducia col governo, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, II, n. 4, 2009; Gardini G., La rimozione della consigliera nazionale di parità per dissenso con le politiche di governo: lo strano caso dell’”Ombudsman sfiduciato”, in Lavoro e diritto,n. 4, 2010, pp.461 ss. requisiti tecnici, all’autodeterminazione delle modalità con cui realizzarli, alla durata del mandato sganciata da quella degli organi che procedono alla designazione e alla nomina, alla sola ipotesi di decadenza prevista dalla legge) avrebbe portato ad accentuare il carattere di indipendenza della figura, sì da sottrarla al potere revocatorio del Ministro. Rispetto a una lettura compatibile con il diritto comunitario, il giudice amministrativo ha invece ribadito che non si tratta di un organismo indipendente, ma soggetto al potere di conformazione del Ministro, che lo nomina e lo può revocare, addirittura in qualsiasi momento (sic!): nessuno si era spinto a tanto, ma è con questa realtà giuridica che bisogna fare i conti: la Consigliera di parità non è l’organismo indipendente imposto dal diritto comunitario, malgrado la legge gliene attribuisca le funzioni! La sentenza del Consiglio di Stato conferma quindi nella sua rozzezza l’impostazione fiduciaria del rapporto che deve sussistere tra Ministro e Consigliera di parità, ponendo in maniera quanto mai esplicita il problema della mancata indipendenza dell’organismo e costringendo l’interprete a dover prendere atto che il nostro ordinamento non è in linea con le previsioni comunitarie. Sicché, proprio sulla base della pronuncia, è stata riaperta la procedura di infrazione contro l’Italia avente ad oggetto la revoca della Consigliera nazionale di parità in base alla motivazione che postula la necessità di un rapporto fiduciario tra Consigliera di parità e Ministro che procede alla nomina, motivazione che appare intrinsecamente in contrasto con il carattere di indipendenza richiesto dal diritto comunitario a tali organismi nell’esercizio delle loro funzioni, in particolare nella delicatissima funzione di assistenza alle vittime di discriminazioni. La vittima di una discriminazione verosimilmente non si rivolgerà infatti ad un organismo di parità che non appaia indipendente dal potere politico e da altri gruppi di pressione e che, al contrario, riceva istruzioni da questi, non sentendosi garantita da un soggetto che non si ponga in posizione di terzietà e di neutralità rispetto ai delicati interessi in gioco. L’esperienza dimostra, tra l’altro, che discriminazioni di genere (e non solo) sono spesso perpetrate da amministrazioni pubbliche (in qualità di datori di lavoro o di erogatori di servizi), il che evidenzia la necessità di sganciare tale organismo di garanzia dalla soggezione al potere politico per traghettare questa figura, anche in virtù dell’obbligo comunitario, verso una più chiara strutturazione come organismo indipendente vero e proprio, non ignorando peraltro che anche le autorità amministrative indipendenti hanno una serie di problemi, ma ponendo con forza la questione di come strutturare gli organismi che hanno funzioni di garanzia di diritti fondamentali in modo che possano svolgere in maniera indipendente i loro compiti nell’interesse dei titolari di tali diritti. Né la questione dell’indipendenza degli organismi preposti all’attuazione di un diritto fondamentale riguarda solo le discriminazioni di genere. Il necessario ripensamento circa le modalità per assicurare tutela alle vittime di discriminazioni, che talora assumono carattere istituzionale, in quanto poste in essere proprio dai poteri pubblici (si pensi alle discriminazioni etniche e razziali realizzate attraverso provvedimenti della pubblica autorità: bandi per l’assegnazione di alloggi popolari, accesso a servizi mensa, ad asili-nido, ordinanze di sgombero, ecc.), è un tema da porre all’ordine del giorno nel nostro paese. La questione dell’indipendenza degli organismi ad esso preposti, la necessaria dotazione di risorse, l’autorevolezza di cui devono godere, sono temi dibattuti in sede europea, cui gli Stati vengono sollecitati a dare risposte. In attesa di soluzione, soluzione necessitata dalla condanna dell’Italia a seguito della procedura di infrazione, continua la lenta e costante erosione degli organismi di parità: la delega contenuta nella legge 183/2014 in materia di semplificazione e riordino degli organismi di parità nel lavoro mira a razionalizzare la presenza delle consigliere di parità, sostituendo alle consigliere provinciali le consigliere di città metropolitana o di area vasta, demandando a un futuro decreto la determinazione di tali entità territoriali, a ridurre le componenti del Comitato nazionale di parità e del collegio istruttorio e ad affidare a un’apposita commissione tecnica l’approvazione dei progetti di azione positiva, a sottoporre a più rigida tempistica l’approvazione del programma-obiettivo in materia di azioni positive, a ridurre la durata del mandato e dei rinnovi delle Consigliere di parità, a ribadirne la sottoposizione agli indirizzi generali di governo, a confermarne la strutturazione interna al Ministero del lavoro e agli assessorati competenti in sede decentrata, a invarianza delle risorse assegnate. Una conferma, quindi, dell’incardinamento delle consigliere in uffici amministrativi sottoposti agli indirizzi politici di governo, da un lato; della necessità di provvedere ad istituire un organismo realmente indipendente in materia di lotta alle discriminazioni, dall’altro.