L`autotutela tributaria come strumento per il

L’autotutela tributaria come strumento per il contribuente
Sommario: Premessa – 1.1 Aspetti generali - 1.2 L’autotutela tributaria: profili
introduttivi - 1.3 L’autotutela dell’Ufficio e la tutela del contribuente - 1.4 Collocazione
normativa - 1.5 Autotutela ed atti definitivi – 1.6 Ratio iuris – 1.7 Profili applicativi 1.8 L’autotutela in sede contenziosa - 1.9 Il diniego di autotutela.
Premessa
Per quanto ampi, diversificati e socialmente rilevanti possono essere i fini che un
moderno Stato di diritto può perseguire, esiste un dato ineliminabile che è in grado di
contribuire, consentire e permettere il soddisfacimento del pubblico interesse, vale a
dire la disponibilità di risorse materiali impiegabili per la sua realizzazione. Il prelievo
tributario costituisce lo strumento attraverso cui lo Stato riesce sia ad autoalimentarsi
sia a creare e a sostenere attività giuridiche e sociali volte al soddisfacimento degli
interessi della collettività imponendo alla stessa degli oneri di contribuzione a tal
riguardo.
Le prestazioni imposte di accezione tributaria sono, in ogni caso, presidiate da principi
garantistici sia sotto il profilo della giustizia sostanziale, intesa nel senso che tutti
devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva,
sia sotto il profilo della garanzia formale con riferimento al rispetto del principio di
legalità, nonché di imparzialità e di buona amministrazione da parte
dell’amministrazione finanziaria. Le sfide delle moderne società civili, in termini di
nuove e sempre crescenti esigenze di benessere sociale, impongono agli stati che a
ciò ambiscono di massimizzare le proprie risorse evitando sia gli sprechi sia i fenomeni
dell’evasione e dell’elusione dell’imposizione tributaria. Tali fattori costituiscono il vero
male incurabile degli stati moderni che logorano i cittadini che adempiono il loro
dovere a fronte di quella gran fetta della popolazione che in diversi modi e tempi
riesce a trovare la scappatoia per non pagare tasse e imposte.
Il mal costume che coinvolge anche e soprattutto il nostro Paese ha ormai una portata
diffusissima al punto che autorevole dottrina definisce l’Italia come “il paradiso del
sommerso e l’inferno dell’emerso”. Di fronte a tutto ciò, l’amministrazione finanziaria,
chiamata in causa quale unico attore deputato alla lotta contro l’evasione e l’elusione
fiscale, spesso si trova paralizzata nel riuscire a perseguire gli artefici degli illeciti a
causa anche e soprattutto della carenza degli strumenti giuridici e operativi idonei e
sufficienti a tal proposito. Il mal costume diffusosi da decenni ormai, si regge sull’idea
della furbizia dell’evasore e della stoltezza del ligio contribuente e ciò non fa altro che
alimentare sfiducia e disinteresse nei cittadini nei confronti dell’importanza dell’attività
giuridica e del ruolo sociale dello Stato.
Eppure, oggi la pubblica amministrazione reagisce a tutto ciò raffinando i principi della
sua linea di condotta e semplificando i suoi profili organizzativi. Sono stati raggiunti
importanti traguardi sotto il profilo della lotta alla cattiva gestione della cosa pubblica
attraverso gestioni ragionate e meticolose delle spese nonché con la eliminazione di
servizi ed enti inutili. Subentra nell’agire amministrativo la necessità di efficienza,
efficacia ed economicità attraverso l’individuazione di precise responsabilità di risultato
senza le quali si delineano inevitabili mutamenti nel vertice della direzione
amministrativa. La pubblica amministrazione prende maggiormente coscienza di se e
del suo ruolo sociale che consiste nel gestire le risorse della collettività per la
soddisfazione dei suoi bisogni. Lo Stato, inoltre, avverte di non essere più solo, bensì
di essere integrato in uno spazio comune ad altri Stati, non solo per questioni di
mercati comuni, ma anche per la crescita e condivisione di una cultura giuridica e
sociale improntata al bene e allo sviluppo comune.
Il nostro Paese, dunque, subisce anche un effetto concorrenziale che evidenzia ancor
più quelli che sono i suoi pregi e difetti e che fa aumentare ancor più il livello di
esigibilità delle prestazioni sociali attese dai cittadini rispetto a quelle che i cittadini di
altri paesi della comunità europea ottengono. La lotta all’evasione, dunque, implica la
crescita dell’intero Paese non solo sotto il profilo della maggiore disponibilità di risorse
finanziarie da destinare alla collettività ma anche e soprattutto sotto il profilo della
maggiore fiducia che il cittadino può riporre nello Stato che diviene soggetto equo e
giusto le cui leggi vanno rispettate e non evase o eluse. Oltre all’annoso problema
dell’imperfetta contribuzione fiscale che rimane comunque sempre attuale ed aperto,
c’è un altro ambito in cui l’amministrazione finanziaria si pone in un’ottica volta alla
partecipazione del cittadino nell’affrontare e risolvere i problemi di esatta
determinazione della pretesa tributaria.
In ossequio al principio cardine del suo agire, vale a dire al principio di legalità,
l’amministrazione finanziaria persegue solo ed esclusivamente fini collettivistici
facendosi giustizia da sé nel momento i cui riscontra un suo errore. Questa è l’essenza
dell’autotutela che vede sempre e comunque l’amministrazione finanziaria quale
soggetto portatore del potere pubblicistico d’imposizione tributaria rispetto al quale il
cittadino è titolare di un interesse legittimo. Ma esistono anche ambiti in cui la pretesa
tributaria da autoritativa diviene concordata in ossequio più che a un vero e proprio
rispetto dell’interesse procedimentale del cittadino, ad esigenze di rapido e certo
recupero del credito d’imposta in situazioni in cui si prospettano difficili margini di
successo in sede contenziosa. Ecco allora che l’amministrazione finanziaria dà vita a
dei veri e propri accordi sostituitivi del provvedimento impositivo, arrivando a definire
ma mai a contrattare e a negoziare col contribuente, la pretesa tributaria il cui credito
è, e resta indisponibile.
1.1 Aspetti generali
Il naturale dispiegarsi ed ancor più l’intensificarsi della pretesa tributaria, grazie ai
nuovi strumenti predisposti dal legislatore, ha come suo naturale corollario il dato di
fatto che le controversie tra amministrazione finanziaria e contribuenti hanno
raggiunto una consistenza numerica di notevole entità. A tal proposito, nell’ultimo
decennio è stata data ancor più enfasi all’utilizzabilità degli strumenti normativi volti
ad evitare controversie inutili e dispendiose, soprattutto a seguito dell’introduzione
della norma in base alla quale, in sede di contenzioso tributario, tutte le spese del
giudizio sono a carico della parte soccombente[1]. Talvolta, è la stessa l’incertezza
che circonda la determinazione dell’imposta che finisce con l’essere risolta attraverso
soluzioni concordate[2] analogamente a quanto avviene in altri settori del diritto
come, ad esempio, nel caso del patteggiamento nel diritto processuale penale[3].In
molti paesi, dunque, l’amministrazione finanziaria e i contribuenti addivengono alla
definizione concordata degli aspetti controversi inerenti l’ammontare dell’imposta
dovuta[4]. Nell’ordinamento italiano, questi istituti sono stati reintrodotti di recente e
sono oggi disciplinati dal D.Lgs. n. 218 del 19/06/1997: tale reintroduzione è
avvenuta dopo circa un ventennio da quando la riforma fiscale del 1973 ha soppresso
analoghi istituti fino ad allora esistenti che venivano correntemente definiti con
l’espressione concordato fiscale[5].
A titolo meramente esemplificativo, gli strumenti cosiddetti anti-lite possono
ricondursi alle seguenti tipologie[6]: l’autotutela che interviene in linea di principio
prima che l’accertamento diventi definitivo e/o atto impositivo; l’acquiescenza[7],
regolamentata dall’art. 15 del D.Lgs. n. 218 del 1997, consistente nell’accettazione da
parte del contribuente[8] di un atto impositivo attraverso la sua definizione in via
amministrativa[9]; l’interpello, in vigore dal 1° agosto 2000, che consente di
conoscere preventivamente l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate su un
determinato atto o vicenda[10];
1.
l’accertamento con adesione, che previene la lite dopo la notifica di un avviso
di accertamento;
2.
la conciliazione giudiziale, che fa estinguere la lite allorquando essa sia sorta.
1.2 L’autotutela tributaria: profili introduttivi
Prima di approfondire l’istituto dell’autotutela dal punto di vista dogmatico ed
operativo, si rende necessario effettuare una precisazione in ordine alla posizione
giuridica soggettiva che il contribuente vanta nei confronti dell’amministrazione
finanziaria rispetto all’attività da questa posta in essere. Secondo autorevole dottrina,
i profili problematici afferenti tale inquadramento sono scaturiti dalla coesistenza tra la
disciplina legale della prestazione e i poteri dell’amministrazione finanziaria[11].
Nell’ambito di un’attività amministrativa in cui si intrecciavano profili autoritativi e
paritetici, la dottrina tributaristica, la magistratura, gli organi consultivi hanno dovuto
elaborare concetti e formule con cui spiegare in termini generali gli istituti del diritto
tributario e le relative direttive del Ministero delle Finanze utilizzando a tal proposito
modelli e istituti tratti da altre discipline amministrativistiche o privatistiche[12] con
risultati spesso insoddisfacenti[13]. Il risultato si è tradotto spesso in equivoci in
punto di motivazione degli avvisi di accertamento, di onere della prova, di presunzione
di legittimità degli atti amministrativi, di solidarietà tributaria, di diritto soggettivo e di
interesse legittimo, di fonte legale e provvedimentale dell’obbligazione tributaria[14].
Al fine di inquadrare giuridicamente la situazione soggettiva del contribuente rispetto
alla posizione vantata dall’amministrazione finanziaria, autorevole dottrina traccia un
discrimen a seconda se ci troviamo nell’ambito della determinazione dell’imposta o
meno. Ebbene, nel primo caso in mancanza di poteri discrezionali al riguardo si
esclude che si possa parlare di una supremazia dell’amministrazione sul contribuente:
entrambi i soggetti si trovano rispetto alle norme sostanziali sulla determinazione
dell’imposta su un piano di parità in quanto il rapporto tra loro non è influenzato
dall’esercizio di un potere amministrativo ma dall’interpretazione di norme legislative e
dalla determinazione precisa di circostanze di fatto[15]. Sulla base di tale posizione di
sostanziale pariteticità, la giurisprudenza[16] ha collocato il contribuente in una
posizione di diritto soggettivo rispetto all’amministrazione[17].
Nel caso in cui non si ponga una quaestio in ordine alla determinazione del tributo,
invece, l’azione dell’amministrazione finanziaria ritorna ad essere caratterizzata, come
quella di qualsiasi autorità amministrativa, da scelte di opportunità su profili divergenti
in cui viene in considerazione l’interesse pubblico e talvolta anche la valutazione di
interessi privati[18]. A tal proposito, può trattarsi di scelte meramente interne alla
sfera dell’amministrazione come nel caso di decidere di orientare gli accertamenti su
determinate tipologie di contribuenti piuttosto che su altre oppure per la scelta di
esercitare il controllo su un contribuente indagando in una certa direzione anziché in
un’altra: in queste ipotesi sembra difficile individuare posizioni del privato
giuridicamente tutelabili[19].
In altre ipotesi, può trattarsi di valutazioni che coinvolgono anche il contribuente e
l’ufficio deve limitarsi a scegliere correttamente il modo in cui bilanciare diversi
interessi pubblici come nel caso del contemperamento tra la funzione giustiziale
dell’amministrazione, caratterizzata dall’esigenza di obiettiva applicazione della
normativa, e la massimizzazione dell’imposta accertata alla luce delle prospettive del
contenzioso, il tutto tenendo conto dell’esigenza di stabilità dei rapporti giuridici e di
economicità nell’azione amministrativa. In questi casi, il contribuente ha interesse ad
un’oggettiva valutazione da parte degli uffici fiscali di tutte queste esigenze ma non
può addurre proprie situazioni personali estranee alla fondatezza delle tesi in merito al
calcolo dell’imposta dovuta[20].
Secondo autorevole dottrina, infine, un interesse legittimo del contribuente può
sussistere, anche se non necessariamente, oltre che in materia di poteri istruttori
dell’amministrazione altresì ai fini della valutazione della sospensione della riscossione
o dell’esercizio dei poteri cautelari, in tema di accertamento con adesione, di
autotutela[21] ed in altre situazioni in cui ricorrono anche valutazioni ulteriori rispetto
all’interpretazione della legislazione e alla valutazione dei fatti[22]. Con specifico
riferimento alla posizione giuridica soggettiva del contribuente in termini di aspettativa
a vedersi annullare o revocare un atto illegittimo da parte dell’amministrazione
finanziaria, la dottrina è concorde nell’escludere che si configuri un diritto
soggettivo[23].
1.3 L’autotutela dell’Ufficio e la tutela del contribuente
Il diritto tributario è un insieme intricato di norme e di direttive, alcune volte in
contrasto fra loro, le cui particolarità rispetto ai principi generali del diritto
amministrativo afferiscono la disciplina legale della prestazione tributaria sul cui
ammontare l’amministrazione fiscale non può esercitare valutazioni di opportunità e
convenienza[24]. In ogni caso, esso offre la possibilità di cautelarsi nei confronti di tali
norme, laddove si riscontri un comportamento illecito o un provvedimento illegittimo
da parte dell’amministrazione finanziaria[25]. Quest’ultima, in quanto pubblica
amministrazione, ha il potere di emanare provvedimenti e, come conseguenza, di
annullare, revocare o sospendere[26] gli stessi, qualora li reputasse illegittimi in base
ad una valutazione compiuta ex post[27], fermo restando che il soggetto passivo di
imposta può, in ogni caso, adire le vie della giurisdizione tributaria avverso i
provvedimenti che egli stesso reputasse illegittimi[28].
Nel primo caso si parla di autotutela dell’amministrazione finanziaria[29],
identificata nel potere di salvaguardare l’azione amministrativa degli uffici finanziari
attraverso strumenti di difesa e di prevenzione del contenzioso, come l’annullamento,
la rinuncia o la revoca dei propri atti riconosciuti illegittimi[30]. Nel caso, invece, in cui
sia il cittadino a difendersi dai provvedimenti che violano le norme tributarie, si tratta
di una vera e propria tutela[31], senza che l’ufficio che ha emanato l’atto possa
disporre il ritiro dello stesso[32].
1.4 Collocazione normativa
Il regolamento di attuazione del potere di autotutela[33] si trova nel Decreto
ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37, che fa seguito all’articolo 2 quater della legge n.
656 del 30 novembre 1994[34], mentre il potere discrezionale di cui trattasi è stato
sancito dall’articolo 68 del D.P.R. n. 287 del 27 marzo 1992 concernente il
regolamento del personale del Ministero delle finanze dove si recita “salvo che sia
intervenuto giudicato, gli uffici dell’amministrazione finanziaria, possono procedere
all’annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati con
provvedimento motivato notificato al contribuente”[35]. In quest’ultimo caso, in
ossequio ai principi di cui all’art 1 della legge 241/1990 in materia di azione
amministrativa[36], gli uffici possono annullare i propri atti, dopo averli ritenuti
infondati o illegittimi, al fine di evitare un contenzioso già avviato dal contribuente,
destinato a terminare negativamente[37].
1.5 Autotutela ed atti definitivi
Esiste la possibilità, nemmeno tanto remota, che il contribuente lasci scadere i termini
per poter impugnare l’atto dell’amministrazione finanziaria[38]. A questo punto,
sorge, per l’ente che ha emanato l’atto, il problema di dover scegliere tra l’esercitare il
potere di autotutela oppure l’esimersi, approfittando della posizione di vantaggio
acquisita con la mancata impugnazione[39]. Tuttavia, gli uffici finanziari hanno doveri
di imparzialità e di correttezza che, in questi casi quasi impongono di esercitare il
potere di autotutela: ovviamente, si tratta di un potere quanto mai discrezionale[40].
In tal caso, l’ufficio dovrà valutare se l’atto illegittimo non sia stato impugnato per
caso fortuito o errore scusabile da parte del contribuente. Il citato Decreto ministeriale
n. 37/1997 indica alcuni casi, non tassativi, come l’errore di persona o il pagamento
duplicato, in cui l’esercizio dell’autotutela è addirittura dovuto, seppure a seguito di
atti divenuti definitivi per mancata impugnazione[41].
Secondo una parte della dottrina, nonostante il quadro normativo venutosi a delineare
in materia di autotutela, essa continua ad essere ritenuta, anche da autorevoli
appartenenti all’amministrazione, una sorta di optional[42], come può evincersi dal
fatto che si continua a negare che essa costituisce un autentico diritto del
contribuente[43].
1.6 Ratio iuris
Nell’ambito della dottrina sono discussi sia il fondamento sia la natura del potere di
autotutela dell’amministrazione finanziaria. Secondo una parte della dottrina, infatti,
nell’autotutela tributaria non si ravvisano i caratteri propri dell’autotutela
amministrativa alla luce del principio dell’indisponibilità del tributo e della natura
vincolata della funzione impositiva[44]. A tal proposito, si è delineata una ratio
giustiziale dell’istituto in quanto esso tende a realizzare un’opportuna mediazione degli
interessi pubblici in conflitto rappresentati, da un lato, dall’interesse alla certezza e
stabilità dell’imposizione tributaria e, dall’altro, dall’interesse pubblico a fornire
un’immagine dell’amministrazione corretta e di comportamento giusto, mantenendo e,
se del caso, recuperando la fiducia del contribuente[45].
Secondo altra parte della dottrina, l’autotutela dovrebbe essere considerata
espressione dello stesso potere impositivo trovando la sua ratio nel fatto che le
funzioni amministrative non possono non comprendere in sé, accanto alla possibilità di
fare, anche quella di eliminare ciò che non doveva farsi. Se si colloca, invece,
l’autotutela all’esterno della funzione impositiva si finisce col configurare l’imposizione
tributaria come ingiusta delineandosi dei rimedi extra ordinem per il contribuente che
non ha tempestivamente impugnato l’atto in sede giurisdizionale[46].
A sostegno della pretesa diversità tra l’autotutela amministrativa e quella tributaria,
si pone l’ulteriore valutazione secondo cui in relazione agli atti tributari che incidono
negativamente nella sfera giuridica soggettiva del contribuente non sono configurabili
situazioni di controinteresse all’annullamento del provvedimento diverse da quelle
riferibili all’interesse dell’erario ad incamerare gli importi accertati: l’unico interesse
che potrebbe muovere l’annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari è quello al
ripristino della legalità violata il che implica che l’autotutela dell’amministrazione
finanziaria è priva di discrezionalità avendo essa carattere vincolato[47].
Mancano, dunque, in quella tributaria gli estremi che caratterizzano l’autotutela
amministrativa tanto che si reputa più appropriato il ricorso alla più asettica nozione di
ius poenitendi[48]. L’annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari trova, in
realtà, il suo referente nell’esigenza di buon andamento dell’azione amministrativa,
frutto non di discrezionalità ma di mediazione di interessi propri dell’amministrazione
tanto che in capo al contribuente sarebbero configurabili soltanto interessi di mero
fatto[49].
1.7 Profili applicativi
Nell’ambito del diritto tributario il termine autotutela non è impiegato per significare
in senso ampio il potere dell’amministrazione di realizzare i propri fini a prescindere da
un eventuale intervento giudiziale, bensì, in un’accezione più ristretta, il ritiro di atti
illegittimi[50]. In particolare, l’istituto dell’autotutela consiste nel potere
dell’amministrazione finanziaria di agire motu proprio o su istanza del
contribuente[51] laddove si accerta di averlo danneggiato in modo illegittimo in ordine
a qualsiasi atto compresi quelli della riscossione[52]. Più precisamente, l’autotutela
può riguardare[53]:
§
avvisi di accertamento e/o di rettifica, di liquidazione, di contestazione e di
irrogazione sanzioni;
§
atti di recupero crediti di imposta indebitamente fruiti anche in compensazione;
§
iscrizioni a ruolo e cartelle di pagamento;
§
atti di diniego di agevolazioni fiscali o di rimborso di imposte indebitamente
richieste.
Si può arrivare, non solo ad annullare, revocare o rinunciare all’imposizione[54], ma
anche a sospendere gli effetti di un atto[55]. In ordine, alla possibilità
dell’esercitabilità dell’autotutela nei confronti di un’altra pubblica amministrazione la
giurisprudenza di legittimità ne ha sancito l’esclusione statuendo che “l’autotutela
della P.A. è espressione della sua supremazia e, conseguentemente, può essere
esercitata solo nei confronti di soggetti privati non anche nei confronti di soggetti che
fanno parte anch’essi della P.A. e che, in quanto tali, sono nella medesima condizione
giuridica”[56].
Il potere di autotutela spetta all’ufficio locale che ha posto in essere l’atto poi ritenuto
illegittimo o l’ufficio competente per gli accertamenti d’ufficio[57]. Quando si è di
fronte ad un’inerzia piuttosto grave[58] da parte dell’ufficio che dovrebbe provvedere,
può procedere direttamente la Direzione Regionale da cui l’ufficio stesso dipende[59].
In presenza di istanza da parte del contribuente, questa deve essere indirizzata
all’ufficio competente per territorio e per materia, mentre se la richiesta è diretta ad
un ufficio incompetente, quest’ultimo è tenuto a trasmetterla all’ufficio competente,
dando comunicazione allo stesso contribuente[60]. È necessario, inoltre, il parere
preventivo e vincolante, della Direzione Regionale cui fa capo l’ufficio competente a
decidere quando l’importo della pretesa fiscale supera 516.456,90 euro, soltanto,
però, nel caso in cui l’ufficio sia determinato ad annullare o revocare il proprio atto e
non in caso di diniego di autotutela[61]. L’istanza del contribuente non induce l’ufficio
ad emettere obbligatoriamente un atto di annullamento o revoca[62]; inoltre,
l’amministrazione può decidere anche in senso diverso da quello indicato dal
contribuente con l’istanza[63]. Tuttavia, per motivi di opportunità, convenienza e
trasparenza, gli uffici sono invitati a comunicare agli interessati l’esito delle istanze,
anche in caso di diniego motivato delle stesse[64].
L’autotutela d’ufficio, cioè senza richiesta da parte del contribuente, si ha nella
seguente casistica:
•
errore di persona;
•
evidente errore logico o di calcolo;
•
errore sul presupposto dell’imposta;
•
doppia imposizione;
•
mancata considerazione dei pagamenti di imposta, eseguiti regolarmente e
tempestivamente;
mancata documentazione sanata in un momento successivo, entro i termini di
decadenza;
•
•
sussistenza dei presupposti
agevolazioni in precedenza negati;
errore
materiale
dall’amministrazione.
•
per
del
aver
diritto
contribuente,
a
deduzioni,
facilmente
detrazioni,
riconoscibile
Le situazioni sopra richiamate, contenute nel D.M. 37/97, non sono tassative, anche
perché la casistica non può essere così limitata. Si dà maggior rilievo, naturalmente, a
quelle fattispecie che possono portare ad un enorme contenzioso o addirittura ad una
vertenza che poi risulterà sfavorevole per l’amministrazione, poiché risulta
maggioritaria la giurisprudenza contraria alle tesi degli uffici finanziari.
1.8 L’autotutela in sede contenziosa.
Gli uffici possono ricorrere allo strumento dell’autotutela anche quando ci siano
pendenze del giudizio[65] o sentenze che sono inoppugnabili: scadenze dei termini
per ricorrere o impugnare, atti non impugnabili, etc.. Con riferimento all’ipotesi
dell’autotutela posta in essere in caso di ricorso pendente, essa ha una duplice ratio
consistente sia nell’evitare un contenzioso destinato a chiudersi negativamente sia
nella prospettiva di dover rimborsare al contribuente vittorioso le spese di lite[66].
Tale tipologia di autotutela ha una sua collocazione normativa nella possibilità di
annullare d’ufficio le iscrizioni a ruolo ex art. 36bis e nella possibilità di modificare a
favore del contribuente l’accertamento parziale: si tratta di atti modificabili d’ufficio
ove il contribuente ha fornito ulteriore documentazione ex articolo 3, comma 6, della
legge n. 331 del 12/11/1992 secondo cui “l’accertamento parziale è annullato
dall’ufficio emittente se dalla documentazione prodotta dal contribuente risulta
infondato in tutto o in parte”; in materia di I.V.A., una norma analoga si trova nell’art.
54, D.P.R. n. 633 del 26/10/1972[67].
Non si può agire in autotutela, invece, in presenza di sentenze passate in giudicato
favorevoli all’amministrazione finanziaria e che si siano pronunciate sul merito della
vertenza anziché su questioni di mero rito come: pronunce di inammissibilità,
improcedibilità, irricevibilità, difetto di giurisdizione, incompetenza, ecc.[68]. Si può
annullare o revocare l’atto, in casi simili, per motivi di illegittimità dell’atto diversi da
quelli oggetto della sentenza. Così, quando esiste una sentenza seppure passata in
giudicato che accerti l’esistenza di cause pregiudiziali, come un ricorso irricevibile,
oppure l’incompetenza a decidere della questione, o ancora l’inammissibilità dell’atto
introduttivo nel processo tributario, non sussistono ostacoli all’intervento in autotutela
degli uffici[69].
Infine, il potere di autotutela non conosce limiti temporali in quanto può essere
esercitato sempre, anche se sono trascorsi decenni dall’emanazione dell’atto, non
essendoci ragioni di decadenza dell’azione amministrativa o di prescrizione
dell’esercizio del diritto da parte del cittadino[70]. L’ufficio che ha esercitato il potere
di autotutela deve dare comunicazione dell’esito al contribuente, all’organo
giurisdizionale dinanzi a cui è pendente l’eventuale contenzioso e all’ufficio che ha
emanato l’atto, nel caso di annullamento deciso con potere sostitutivo[71]. Quando un
atto di accertamento viene annullato o revocato, anche gli atti successivi e
conseguenti, come le cartelle di pagamento, si annullano automaticamente,
comportando per l’amministrazione il dovere di rimborsare quanto indebitamente
riscosso[72].
Di rilievo è, altresì, ricordare che l’autotutela può originarsi anche attraverso istanze
telefoniche da parte del contribuente verso i nuovi centri di assistenza telefonica, attivi
dal luglio 2000. Infatti, per i casi più semplici, questi centri sono in grado di annullare
o rettificare le comunicazioni e gli avvisi inviati a seguito della liquidazione
automatizzata delle dichiarazioni ex articolo 36 bis del D.P.R. 600/1973 e articolo 54
bis del D.P.R. 633/1972. Le varie circolari relative alle competenze dei call center
sopra richiamati riportano i casi in cui i consulenti telefonici possono intervenire: errori
di compilazione della dichiarazione facilmente riconoscibili, eccedenze di imposte non
confermate dal sistema informativo, versamenti non abbinati, nonché correzione di
detrazioni o ritenute di acconto a seguito di acquisizione di documenti probatori,
inviati anche tramite fax.
1.9 Il diniego di autotutela
In conclusione, degno di nota è l’orientamento espresso da autorevole dottrina volto
ad individuare un rimedio a favore del contribuente in ordine all’ipotesi del mancato
esercizio dell’autotutela[73] sub specie di diniego o inerzia, fermo restando che
rispetto agli atti impositivi o al diniego di rimborso, il giudice tributario ha cognizione
piena e conosce l’intero rapporto tributario, verificando la corrispondenza ai modelli
legali dei presupposti di fatto e di diritto, su cui si fonda l’obbligazione tributaria che
incide sui diritti soggettivi patrimoniali che si asseriscono violati[74]. Sul punto,
considerato che nella prassi non vi è allo stato attuale un orientamento costante,
occorre far riferimento ad una recente pronuncia a sezioni unite della Suprema
Corte[75] che ha confermato alcuni orientamenti della giurisprudenza di legittimità
che individuavano nel giudice tributario l’autorità competente in materia[76]. La tutela
residua, invece, viene individuata sulla base della situazione giuridica soggettiva
spendibile in sede di giudizio, vale a dire l’interesse legittimo al corretto esercizio di un
potere discrezionale che trova la sua collocazione in sede di giudizio
amministrativo[77]: il giudice sarebbe chiamato a stabilire se l’amministrazione ha
conciliato in modo razionale e non arbitrario gli interessi in gioco[78]. La valutazione
del giudice amministrativo non può invadere l’ambito giurisdizionale delle commissioni
tributarie, ergo deve limitarsi a stabilire se l’amministrazione sia illegittimamente
rimasta inerte o se ha motivato in modo inadeguato la propria decisione[79]. Il
risultato finale è, dunque, una nuova decisione, più congruamente motivata, ma che
non assicura la diretta realizzazione, su iniziativa del giudice amministrativo, della
pretesa del contribuente[80].
Più delicato, però, è l’aspetto attinente l’esaurimento dei rimedi giurisdizionali da parte
del contribuente, a causa di atti sia impositivi sia dinieghi di rimborsi, divenuti
definitivi per mancata impugnazione entro il termine di decadenza legale[81].
Autorevole dottrina ravvisa un’evidente incongruenza logico-giuridica nell’attribuire ad
un’autorità giudiziaria, a prescindere da quale sia, il potere di riesaminare un atto
impositivo o un diniego di rimborso, asseritamene illegittimo, laddove il contribuente
abbia inutilmente lasciato trascorrere i termini perentori per l’impugnazione degli atti.
In altri termini, se si ammette la possibilità per il giudice tributario di conoscere un
provvedimento di diniego di autotutela ed, indirettamente, del rapporto giuridico
tributario sottostante, si creerebbe una seconda possibilità, incompatibile con
l’inderogabilità dei termini decadenziali, posti a tutela del superiore interesse pubblico
alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici[82]. Pertanto, non pare proprio che nel
caso di impugnazione del diniego di annullamento in autotutela la cognizione del
giudice possa estendersi al rapporto tributario in quanto non è di quello, ormai, che si
controverte[83].
A sostegno di tale assunto, occorre considerare che con l’esercizio del potere di
autotutela l’amministrazione non accerta né in tutto né in parte l’obbligazione
tributaria in quanto si tratta di un atto a contenuto discrezionale con cui l’ufficio, dopo
aver ponderato le diverse esigenze in gioco, quali la certezza e stabilità dei rapporti, il
profilo della buona fede del contribuente, la gravità del vizio denunciato etc., decide,
facendosi carico di una funzione in senso ampio giustiziale ed in ossequio al principio
di capacità contributiva oltrechè a quelli di buona fede, imparzialità e buon andamento
dell’amministrazione, se procedere o meno al ritiro di una pretesa già esternata e
divenuta definitiva per mancata impugnazione. Secondo autorevole dottrina, è proprio
perché il potere/dovere di riesame di cui è espressione l’autotutela non appartiene alla
funzione impositiva di primo grado che possono essere superate le principali obiezioni
alla giustiziabilità del rifiuto di autoannullameto[84]. Pertanto, l’attribuzione sul rifiuto
di autotutela alle commissioni tributarie, cioè allo stesso giudice competente
sull’impugnazione della pretesa, non significa introdurre un’inammissibile doppia
tutela giurisdizionale, poiché la struttura logica e l’oggetto del giudizio sul diniego di
autotutela sarebbero comunque diversi da quello relativo alla pretesa fiscale
sottostante e molto simili al tipo di giurisdizione di legittimità affidato ai TAR e al
Consiglio di Stato[85].
A fini di mera esaustività, infine, di notevole rilievo è il recente orientamento della
Cassazione a Sezioni unite che ha chiarito come le controversie di risarcimento danni
per comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria dello Stato appartengono
alla giurisdizione del giudice ordinario. Con la sentenza n. 15 del 2007, le Sezioni unite
hanno precisato che tale controversia non può sussumersi in una delle fattispecie
tipizzate di cui all’articolo 2 del D.Lgs. n. 546 del 31/12/1992 attributive della
giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie. Al giudice ordinario, quindi,
spetta accertare se vi è stato da parte della P.A., anche in ambito tributario, un
comportamento colposo che ha determinato la violazione di un diritto soggettivo[86].
Conclusioni
In via conclusiva, una semplice considerazione è da farsi sull’accezione contenziosa
delle controversie tra contribuente e amministrazione finanziaria rispetto alla quale, a
parere di chi scrive, non bisogna ritenere di assistere ad una lite tra due soggetti rivali
e portatori di interessi contrapposti. Infatti, se da un lato esiste l’interesse del
cittadino a non pagare più di quanto è tenuto a fare alla luce della sua capacità
contributiva, dall’altro esiste l’interesse superiore dello Stato a che tutti contribuiscano
alle spese pubbliche per costruire un benessere collettivo e non certo di parte.
Dunque, un fine comune rispetto al quale il legislatore ha ritenuto opportuno delineare
degli strumenti volti a creare un punto di incontro che può sfociare tanto
nell’ammissione di un errore da parte dell’amministrazione finanziaria, in sede di
autotutela, quanto in una maggiore imposta concordata col fisco tenuto conto di
opportune e valide giustificazioni fornite dal contribuente, e quanto, infine, nel
perseguimento fino all’ultimo grado di giudizio dell’interesse pubblico all’esatta e
corretta riscossione delle imposte evase o eluse, nel caso in cui non vi sono margini
per giustificare la diversità del maggior importo determinato in sede di accertamento
tributario rispetto a quello riscontrato nella realtà dei fatti.
Di Lauro Giovanni
[1] Sul punto, occorre fare una precisazione anche in ordine all’ipotesi di cessazione
della materia del contendere nel giudizio tributario, ex art. 46 del D.Lgs. n. 546 del
31/12/1992, alla luce della recente pronuncia della Consulta. Il comma 1 dell’art. 46,
infatti, prevede che il giudizio si estingue, in tutto o in parte, nei casi di definizione
delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della
materia del contendere. Il successivo comma 3 disponeva, invece, che le spese del
giudizio estinto a norma del comma 1 restano a carico della parte che le ha anticipate,
salvo diverse disposizioni di legge. A tal proposito la circolare n. 98/E del 23/04/1996
del Ministero delle Finanze, ha evidenziato a titolo esemplificativo che costituiscono
ipotesi di cessazione della materia del contendere “la fattispecie della definizione delle
pendenze tributarie, cosiddetto condono, o quando viene ritirato o viene annullato
l’atto impugnato da parte dello stesso ufficio che lo ha emesso”.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 274 del 12/07/2005 ha dichiarato
“l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del D.Lgs n. 546 del 31/12/1992,
nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere
diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge”. In
particolare, la Corte ha evidenziato che “il processo tributario è in linea generale
ispirato, non diversamente da quello civile o amministrativo, al principio di
responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano l’art. 15 del D.Lgs. n. 546
del 1992, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese,
salvo il potere di compensazione della commissione tributaria a norma dell’art. 92,
secondo comma, del codice di procedura civile, e l’art. 44 del medesimo decreto
legislativo, secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che rinuncia deve
rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro”. Partendo da tale
premessa, la sentenza ha statuito che “la compensazione ope legis delle spese nel
caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si
traduce, dunque, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un
comportamento, come il ritiro dell’atto nel caso dell’amministrazione o l’acquiescenza
alla pretesa tributaria nel caso del contribuente, di regola determinato dal
riconoscimento delle altrui ragioni e, corrispondentemente, in un bel pari ingiustificato
pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella
nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e,
quindi, costretta a ricorrere alla mediazione onerosa di un professionista abilitato alla
difesa in giudizio”. Ha concluso, quindi la Consulta che “l’art. 46, comma 3, del D.Lgs.
n. 546 del 1992 risulta in definitiva lesivo, sotto l’aspetto considerato, del principio di
ragionevolezza, riconducibile all’art. 3 della Costituzione, e ne va di conseguenza
dichiarata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di
cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze
tributarie previste dalla legge dovendo, pertanto, in tali ipotesi la commissione
tributaria pronunciarsi sulle spese ai sensi dell’art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del
1992”. Corte costituzionale, sentenza n. 274 del 12/07/2005. La sentenza si applica a
tutti i rapporti non esauriti a decorrere dal giorno successivo alla sua pubblicazione
nella Gazzetta ufficiale, prima serie speciale, n. 29 del 20/07/2005. Sul punto:
Risoluzione n. 2/E del 03/01/2005.
Dal punto di vista operativo dell’amministrazione finanziaria, l’intervento della
Consulta accresce l’esigenza di:
§
verificare in modo sempre più rigoroso la legittimità, fondatezza e sostenibilità in
contenzioso degli atti impugnabili, prima della notifica ai contribuenti;
§
ricorrere agli strumenti deflativi del contenzioso, in particolare, accertamento con
adesione, conciliazione giudiziale ed autotutela tributaria, tutte le volte in cui ne
sussistano i presupposti;
§
esaminare e provvedere sollecitamente in merito alle richieste di rimborso.
“Con circolare n. 198/S del 1998, l’amministrazione sembra ritenere che, in caso
di autotutela intervenuta nel corso del giudizio le spese processuali rimangono a suo
carico. In tale direzione si erano orientate alcune Commissioni di merito assimilando
tale fattispecie al ricorso ex art. 44 del D.Lgs. n. 546/1992 partendo dal presupposto
che l’annullamento sia consequenziale ad un errore dell’amministrazione stessa. L’art.
46, sulla cui costituzionalità si è pronunciata positivamente la Corte Costituzionale,
prevede l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere con integrale
compensazione delle spese processuali e su tale posizione si è allineata la Cassazione
con sent. n. 16987 del 12/11/2003”. Daniela D’Agostino, Autotutela tributaria,
excursus normativo, giurisprudenziale ed effettiva applicazione dell’istituto, in Il Fisco
n. 32/2006, ETI - De Agostini editore, pag. 4993.
[2] “L’indisponibilità da parte dell’amministrazione finanziaria degli interessi
economico-sostanziali connessi alla determinazione delle imposte si inserisce in uno
sfondo che resta saldamente pubblicistico. Ciò per l’evidente considerazione che il
pagamento dei tributi, quantunque autoliquidati dagli stessi contribuenti, avviene in
un assetto non sinallagmatico bensì nella prospettiva, si pure eventuale, di controlli e
sanzioni in caso di inadempimento. Il dato nuovo del diritto tributario negli ultimi
decenni è l’affermarsi di un’analitica disciplina legale dell’imposta di cui sono entrati a
far parte in larga misura anche concetti civilistici finalizzati a misurare gli imponibili in
modo analitico. Occorre però sempre tener presente che i concetti privatistici
dell’obbligazione ex lege si sono innestati in un solco che per gli altri aspetti resta
pubblicistico e non viceversa. La particolarità del diritto tributario rispetto al diritto
pubblico complessivamente inteso, caratterizzato dai poteri dispositivi d’interessi, è
proprio nella posizione paritetica tra amministrazione finanziaria e contribuente di
fronte alla disciplina legale della prestazione tributaria. Intorno a questa posizione
paritetica ruotano però i più volte menzionati poteri pubblicistici ai quali si
accompagna un dovere di imparzialità e correttezza da parte dell’amministrazione che
va ben al di là di quello tipico del diritto privato”. Raffaello Lupi, Trattato di diritto
amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza
pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, seconda edizione, Giuffrè 2003, pagg.
2651-2652.
[3] “In virtù del patteggiamento, l’imputato si accorda con il pubblico ministero per
stabilire la pena da applicare allo stesso. Quest’istituto giuridico rappresenta una sorta
di legittimazione del privato all’esercizio del potere giudiziario, previsto e consentito
per ragioni di celerità ed efficienza del sistema dell’amministrazione della giustizia.
Esso, pertanto, sembra rispondere a ragioni analoghe a quelle che hanno portato alla
previsione di accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo”. G. N.
Carungno – P. Gianandrea, Lineamenti di diritto amministrativo, Master edizioni,
2000, pag. 110. Tra gli accordi sostitutivi del provvedimento amministrativo tributario,
sub specie di avviso di accertamento, possiamo sicuramente annoverare anche
l’accertamento con adesione.
[4] “Mancano nell’ordinamento comunitario regole in ordine alla disciplina delle
sanzioni amministrative o penali da irrogare per eventuali illeciti di carattere
tributario. Parimenti sono assenti norme riguardanti la disciplina del contenzioso
tributario e la tutela del contribuente rispetto alle pretese fiscali. Per entrambe le
tematiche trovano al più spazio regole di carattere generale enucleabili tra i principi
fondamentali dell’ordinamento comunitario, come il principio di proporzionalità nella
pena rispetto all’illecito, la necessità di garantire un’effettiva difesa alle parti di un
procedimento giudiziario, il diritto ad una ragionevole durata del processo per
assicurare l’effettività della tutela dei diritti. Tale mancanza di regolamentazione
appare peraltro coerente con la fiscalità negativa rilevata in ambito comunitario: il
riconoscimento della competenza normativa agli Stati membri in un settore
determinante per assicurare il concreto perseguimento degli obblighi tributari, quale è
il settore delle sanzioni e del contenzioso fiscale, vale in sostanza ad ammettere il
distacco dell’ordinamento comunitario rispetto all’effettivo funzionamento del sistema
fiscale”. Pietro Boria, Diritto tributario europeo, Il Sole 24ore, 2005, pagg. 159-160.
[5] Lupi, Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo
terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag.
2682.
[6] Autorevole dottrina individua tra gli istituti volti alla definizione agevolata dei
conflitti anche il condono fiscale quale misura di carattere eccezionale alla quale il
legislatore fa talora ricorso nell’intento di alleggerire l’attività dell’amministrazione dei
giudici tributari, ed in parte anche per ottenere rapidamente ricorse che i normali
tempi lunghi della giustizia tributaria non consentirebbero di realizzare facilmente. I
tratti caratterizzanti questo tipo di definizione possono essere ravvisati nei seguenti
tre aspetti:
•
“la tassativa predeterminazione legale sia delle pendenze definibili che dei
termini sostanziali della definizione medesima;
l’estensione della possibilità di definizione non solo alle controversie pendenti ma
anche alle situazioni suscettibili di controllo e rettifica;
•
l’essere rimessa la definizione ad una unilaterale ed irrevocabile scelta del
contribuente, da manifestare in forme e termini di volta in volta precisamente
stabiliti”. Salvatore La Rosa, Principi di diritto tributario, Giappichelli editore, 2004,
pagg. 250-251.
•
[7] “Nel diritto amministrativo, l’acquiescenza è l’istituto che indica la rinuncia alla
tutela giurisdizionale a seguito dell’accettazione di un provvedimento amministrativo
da parte di un soggetto che abbia subito, per effetto di quest’ultimo, la lesione di un
proprio interesse sostanziale”. Gianfranco Antico – Fabio Carriolo – Valeria Fusconi –
Giuseppe Tucci – Antonio Zappi, L’accertamento fiscale, Il Sole 24ore, 2005, pag. 362.
[8] “L’acquiescenza può venir prestata esplicitamente rendendo una specifica
dichiarazione ovvero compiendo atti chiari e concordanti che mettano in evidenza la
volontà del soggetto di accettare gli effetti del provvedimento, come pure ponendo in
essere atteggiamenti integralmente incompatibili con la volontà di impugnare il
provvedimento dinanzi al giudice competente. A differenza della consolidazione,
conseguente all’inoppugnabilità, si deve riconoscere all’istituto una natura sostanziale,
giacchè l’adesione al provvedimento amministrativo comporta il riconoscimento della
legittimità dell’operato dell’amministrazione e, quindi, la rinuncia all’interesse legittimo
che il soggetto avrebbe potuto fare valere attraverso il ricorso o l’azione
giurisdizionale. Analoga diversità si rileva rispetto alla sanatoria perché l’acquiescenza
anziché operare erga omnes produce soltanto l’effetto di rendere l’atto inattaccabile
da parte del soggetto che l’abbia prestata”. Antico – Carriolo – Fusconi – Tucci –
Zappi, L’accertamento fiscale, pag. 362.
[9] Tale definizione, ancora più conveniente quando l’accertamento emesso dall’ufficio
è fondato su dati difficilmente contestabili davanti al giudice tributario, comporta per il
contribuente notevoli vantaggi che si sostanziano, principalmente, nell’abbattimento
delle sanzioni irrogate. Definire l’atto per acquiescenza consente, infatti, di pagare
solo un quarto delle sanzioni amministrative indicate nell’atto. Detta riduzione spetta a
condizione che:
•
si rinunci ad impugnare l’avviso di accertamento;
•
si rinunci a prestare istanza di accertamento con adesione;
si effettui il pagamento, entro il termine di proposizione del ricorso, del totale
della somma richiesta.
•
L’acquiescenza non è prevista per ottenere una riduzione delle sanzioni applicate
in sede di liquidazione delle dichiarazioni ex art. 36bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e ex
art. 60 del D.P.R. n. 633 del 1972, e per quelle riguardanti la mancata, incompleta o
non veritiera risposta alle richieste formulate dall’Ufficio. A tal proposito si ricorda che
quando dall’attività di liquidazione della dichiarazione emerge una maggiore imposta,
al contribuente viene notificata una comunicazione di irregolarità in cui sono indicate
le maggiori somme dovute con le relative sanzioni e interessi: anche in questo caso si
può usufruire di una riduzione delle sanzioni, pari ad un terzo o due terzi a seconda
del tipo di controllo effettuato, se entro 30 giorni si effettua il pagamento. Codice della
riforma tributaria, a cura di Tommaso Lamedica, IPSOA, 2002, pagg. 1822-1823.
“Non ogni comportamento adesivo costituisce
necessaria la sussistenza dei seguenti requisiti:
acquiescenza,
rendendosi
esistenza di un provvedimento amministrativo, non potendosi prestare
acquiescenza ad un semplice comportamento, commissivo od omissivo, da parte
dell’amministrazione;
§
la conoscenza dell’atto, seppure non necessariamente formale, da parte
dell’interessato;
§
l’esplicita accettazione attraverso un comportamento non equivoco, dovendo
risultare in maniera inequivocabile, attraverso manifestazioni espresse o atti
concludenti;
§
la spontaneità del comportamento, non derivato da esigenze di carattere
economico o dalla stessa natura esecutoria del provvedimento”. Antico – Carriolo –
Fusconi – Tucci – Zappi, L’accertamento fiscale, pag. 363.
§
[10] Di grande rilievo è la facoltà, sancita con legge ex articolo 11 della legge
212/2000, di interrogare l’amministrazione finanziaria per conoscere il suo parere su
casi singoli e di natura controversa, così da poter essere certi in via preventiva di
come verranno disciplinate alcune fattispecie e comportarsi di conseguenza. La facoltà
di cui si tratta è il diritto di interpello che consiste nell’inoltrare per iscritto
all’amministrazione finanziaria, che risponde entro centoventi giorni, specifiche istanze
riguardo l’applicazione di disposizioni tributarie a casi concreti e singoli, laddove vi
siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle norme
stesse. La risposta dell’amministrazione finanziaria deve essere motivata, scritta e
disciplina solo la fattispecie descritta nell’istanza di interpello e in relazione solo al
richiedente. Se l’ufficio non risponde entro centoventi giorni dalla presentazione
dell’istanza, si presume che l’amministrazione concordi con il parere formulato dal
contribuente nell’interpello. Ilario Scafati, L’interpello del contribuente all’agenzia delle
entrate, II edizione, Master edizioni, 2002, pag. 24 e ss..
Gli atti, anche impositivi o che contengano sanzioni, emanati in difformità dalla
risposta data, anche se desunta per silenzio-assenso, risulteranno nulli. Qualora il
contribuente non riceva risposta entro centoventi giorni dalla presentazione
dell’istanza, non possono essere irrogate sanzioni nei suoi confronti riguardo alla
questione oggetto di interpello. L’amministrazione può rispondere in modo collettivo, a
più contribuenti che formulano un’istanza simile o un’istanza che contenga analoghe
questioni, tramite una circolare o una risoluzione tempestivamente pubblicata. Il
diritto di interpello funziona, poiché molti contribuenti ne hanno usufruito e
l’amministrazione finanziaria sta dando parecchio risalto alle istanze, rispondendo il
più delle volte con delle risoluzioni che vengono tempestivamente pubblicate. Gli
effetti della risposta dell’amministrazione sono relativi al contribuente che ha
formulato l’istanza e alla questione contenuta nella stessa; tuttavia una risoluzione
fornisce chiarimenti anche riguardo all’indirizzo che gli uffici seguono o seguiranno in
situazioni simili o analoghe. Scafati, L’interpello del contribuente all’agenzia delle
entrate, pag. 30 e ss.. Sul punto cfr. altresì Circolari ministeriali 11 luglio 2000, n.
143/E e 6 dicembre 2001, n. 103/E, Circolare dell’Agenzia delle Entrate 31 maggio
2001, n. 50 e 12 febbraio 2002, n. 18.
[11] Lupi, Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo
terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag.
2653.
[12] Con riferimento all’istituto dell’obbligazione, “la dottrina amministrativistica ha
definitivamente chiarito che esso non ha, nel diritto pubblico, natura ed effetti diversi
dalla corrispondente figura di diritto privato e che rispetto a questa varia soltanto la
fonte che nel diritto pubblico è costituita dal provvedimento amministrativo. Nel diritto
tributario dove manca ogni discrezionalità e dunque la degradazione dei diritti
soggettivi in interessi legittimi, lo schema norma-fatto fa sì che le obbligazioni
nascano appunto da fattispecie previste dalla legge, tali essendo considerati anche gli
atti della fase di accertamento, Se dunque è vero che nel nostro settore le obbligazioni
tributarie sorgono dalle fattispecie della riscossione e quindi la disciplina civilistica,
sottesa al concetto di obbligazione, subentra solo nella fase estintiva e subisce ampie
limitazioni è da dubitare che l’adozione della figura dell’obbligazione comporti il rinvio
senza residui alla disciplina dettata per questa dal codice civile. La dottrina ha così
individuato diverse possibili combinazioni tra la disciplina civilistica e quella speciale
tributaria e propende piuttosto per ritenere che la più recente evoluzione della
materia, imperniata sulla unificazione della disciplina della riscossione sul modulo già
vigente per le imposte dirette, confermi l’ipotesi di un sistema tendenzialmente chiuso
intorno alle norme tributarie rispetto alle quali le norme civilistiche forniscono soltanto
i criteri generali per colmare eventuali lacune”. Augusto Fantozzi, Diritto tributario,
UTET, 1991, pagg. 424-425.
[13] “Le norme costituzionali che pongono principi e limiti in materia di prestazioni
imposte, ovvero di tributi, appartengono certamente al diritto costituzionale per
quanto riguarda la collocazione nel sistema delle fonti e al diritto tributario per quanto
riguarda l’oggetto. Al diritto amministrativo appartengono le numerose norme
sull’organizzazione e l’agire dell’amministrazione finanziaria nonché sull’impugnazione
dei suoi atti. Particolarmente delicati sono i rapporti tra il diritto privato ed il diritto
tributario che sono stati tradizionalmente individuati sia nell’utilizzazione da parte del
secondo di strumenti ed istituti privatistici quanto alla definizione dei profili oggettivi e
soggettivi del rapporto intercorrente tra ente impositore e soggetti passivi, sia
nell’individuazione da parte del diritto tributario di istituti privatistici da assumere quali
fattispecie imponibili: quali fatti o atti giuridici cui ricollegare il tributo”. Fantozzi,
Diritto tributario, pag. 7. Nel senso della non omogeneità del diritto tributario è anche
il Tesauro. Francesco Tesauro, Compendio di Diritto tributario, UTET, II edizione,
2004, pag. 7.
[14] Un esempio di equivoco e di acritica trasposizione in materia tributaria di schemi
ammnistrativistici si ha nel richiamo alla cosiddetta presunzione di legittimità degli atti
amministrativi quale parametro cui ancorare la fondatezza e la legittimità degli avvisi
di accertamento. Tale problematica è stata ormai superata dalla giurisprudenza di
legittimità conciliando con l’utilizzazione di atti autoritativi categorie giuridiche tipiche
di atti paritetici come quella dell’onere della prova attribuito all’amministrazione. Sul
punto: Cass. n. 5336 del 12/10/1981.
[15] In tal senso il Cassese il quale precisa ulteriormente che “Di fronte alla legge,
amministrazione finanziaria e contribuenti si trovano sullo stesso piano e nella stessa
posizione sostanziale che caratterizza creditore e debitore di un rapporto civilistico
tanto più se quest’ultimo è nato dalla legge e non da un contratto”. Lupi, Trattato di
diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici.
Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag. 2653. Secondo il Lupi, “Nel
contesto attuale di autodeterminazione dei tributi al contribuente è riconosciuta, per
quanto riguarda la determinazione dell’imposta, una posizione di diritto soggettivo.
Quando invece l’iniziativa di determinare le imposte era affidata alle già indicate
valutazioni di equità-efficienza degli uffici, poteva parlarsi di interesse legittimo del
contribuente ad una corretta determinazione dell’imposta da parte degli uffici.
Secondo una terminologia amministrativa, l’interesse del contribuente è oppositivo e
non pretensivo, ed egli si trova nella posizione di qualsiasi altro debitore che rivendica
un diritto soggettivo a non pagare più di quanto sia dovuto, in base alla corretta
interpretazione della legge e valutazione dei fatti”. Il Lupi precisa, inoltre, che
“l’interesse oppositivo è quello di contrastare un intervento dell’amministrazione che
potrebbe provocare diminuzioni della sfera patrimoniale del privato, mentre l’interesse
pretensivo è quello ad un intervento dell’amministrazione che accrescerebbe la sfera
patrimoniale del privato medesimo”. Raffaello Lupi, Diritto tributario parte generale,
VIII edizione, Giuffrè editore, 2005, pag. 57.
[16] La configurazione del contribuente come titolare di una posizione di diritto
soggettivo quando si controverte sulla determinazione dell’imposta è assolutamente
data per pacifica in giurisprudenza in termini di “diritto soggettivo a non essere
obbligato a prestazioni patrimoniali all’infuori dei casi contemplati dalla legge”: Cass.
n. 2290 del 30/03/1983; Cass. n. 1677 del 17/02/1988; Cons. Stato, sez. IV, n. 907
del 13/11/1990; Cass. n. 13635 del 23/12/1992; Cass. n. 9126 del 04/11/1994;
Cass. n. 1443 dell’08/02/1995; Cass. n. 8676 dell’08/08/1995; Cass. Sez. un., n.
9493 del 23/09/1998. Posizioni di interesse legittimo sono state invece giustamente
individuate con riferimento alle delibere istitutive dei tributi locali o modificative delle
relative aliquote: Tar Veneto, sez. II, n. 2991 del 14/04/1992; Tar Valle d’Aosta, n. 36
del 31/03/1992; Tar Lombardia, sez. I, n. 62 del 26/02/1992; Tar Lazio, sez. Latina,
n. 832 dell08/10/1990. La distinzione è pienamente comprensibile e condivisibile in
quanto nei casi indicati per ultimi ci troviamo di fronte all’esercizio da parte dell’ente
locale di un potere di scelta politica attribuitogli dal legislatore.
[17] Secondo il Lupi, “non deve apparire improprio parlare di diritto soggettivo a
proposito di un debitore, titolare secondo una terminologia amministrativa di un
interesse oppositivo e non pretensivo. Di fronte a questo particolare provvedimento
ablatorio, in cui l’amministrazione è priva di poteri discrezionali in punto di
determinazione della prestazione, il contribuente è nella posizione di qualsiasi altro
debitore, che rivendica un diritto soggettivo a non pagare più di quanto sia dovuto in
base alla corretta interpretazione della legge e della valutazione dei fatti”. Lupi,
Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I
servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag. 2654.
[18] “Si pensi, ad esempio, alle scelte di convenienza in termini di efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa, quando si tratta di scegliere i contribuenti da
controllare o i poteri istruttori da utilizzare o agli equilibri di interessi pubblici e di
interessi privati dei contribuenti, diversi da quelli alla corretta determinazione
dell’imposta che sussistono invece quando si tratta di sospendere la riscossione in
pendenza di ricorso, di concedere rateazioni dei maggiori tributi da pagare, di
intromettersi nella sfera personale del contribuente durante perquisizioni fiscali
domiciliari, ecc. Talvolta, profili di convenienza emergono con riferimento alla
sostenibilità in sede contenziosa di una determinata pretesa fiscale, per decidere se e
in quali termini, addivenire all’accertamento con adesione o alla conciliazione
giudiziale”. Lupi, Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale,
Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese,
pag. 2654.
[19] In tal senso Lupi, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo
speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino
Cassese, pag. 2655.
[20] In tal senso Lupi, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo
speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino
Cassese, pag. 2655.
[21] Secondo autorevole dottrina, “è possibile inquadrare l’esercizio del potere di
annullamento nell’ambito della potestà discrezionale della P.A. che non va intesa come
arbitrarietà delle scelte, bensì come facoltà di scelta tra più comportamenti
giuridicamente leciti, per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il
perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato. A fronte
dell’attribuzione di una potestà discrezionale, il contribuente risulterebbe titolare di
una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo e, quindi, della pretesa a che
l’amministrazione eserciti il potere nel rispetto del principio di legalità”. Laura Pirrello Dario Stevanato – Raffaello Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria, in
Dialoghi di diritto tributario, CIC edizioni, n. 2 del 2006, pag. 165.
[22] Lupi, Diritto tributario parte generale, pag. 57.
[23] “Parte della dottrina sostiene la mancanza di qualsiasi obbligo per
l’amministrazione finanziaria di provvedere in sede di autotutela e la correlata
inesistenza, in capo al contribuente, di un interesse giuridicamente protetto
all’annullamento d’ufficio dell’atto impositivo illegittimo che lo riguarda, con la
conseguenza che l’interesse all’applicazione dell’autotutela viene identificato,
puramente e semplicemente con quello non sostanziale all’osservanza da parte degli
uffici finanziari dei principi di giustizia, legalità e buona amministrazione. Altra parte
della dottrina, invece, movendo da premesse opposte, sostiene la doverosità
dell’esercizio del potere, pur sempre discrezionale, di autotutela, riconoscendo al
contribuente la titolarità di un interesse giuridicamente protetto, quindi interesse
legittimo, e come tale suscettibile di tutela giurisdizionale; ciò in quanto
l’amministrazione finanziaria è in dovere di annullare un atto illegittimo e infondato
per ragioni di giustizia sostanziali, al fine di ripristino di una tassazione conforme alla
capacità contributiva e del rispetto delle esigenze di stabilità e di certezza dei rapporti
tributari”. Bruno Patrizi – Gianluca Marini – Gianluca Patrizi, Accertamento con
adesione, conciliazione e autotutela, Giuffrè editore, 1999, pagg. 200-201.
[24]
“In prima battuta il diritto tributario si avvicina sotto numerosissimi profili a
quello amministrativo e ciò è anche confermato dalla genesi storica di questa materia
che non si è differenziata in modo apprezzabile rispetto al diritto amministrativo fino a
che non si sono gradualmente affermate, per ragioni di carattere economico-politiche,
la disciplina legale della prestazione tributaria e l’applicazione dei tributi col criterio
dell’autoliquidazione da parte degli stessi contribuenti. Con l’affermarsi della disciplina
legale dell’imposta e, quindi, della non disponibilità da parte dell’amministrazione degli
interessi economico-sociali coinvolti nel prelievo, parte della dottrina ha dubitato che
ci si trovi di fronte all’esercizio di poteri pubblici alla luce della carenza di
discrezionalità nella determinazione dell’imposta. All’amministrazione finanziaria non è
insomma dato considerare ai fini della determinazione dell’imposta convenienze
sociali, economico e di occupazione, le condizioni personali e familiari del contribuente
o la rilevanza sociale dell’attività da esso svolta: solo in linea di mero fatto il
funzionario può essere indotto a tener conto di questi aspetti che non potranno però
assurgere formalmente a giustificazione ufficiale delle sue decisioni”. In tal senso il
Lupi, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo:
I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, pagg. 2648-2649. “…se l’interesse
pubblico posto a salvaguardia dell’autotutela amministrativa è rappresentato dall’art.
97 Cost. in campo tributario l’istituto è posto a tutela di un ulteriore principio
costituzionale, rappresentato dal principio di capacità contributiva”. Antico – Carriolo –
Fusconi – Tucci – Zappi, L’accertamento fiscale, pag. 337.
[25] “…Ove l’illegittimità andrebbe intesa ai sensi della disciplina generale in termini di
vizi di incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge, mentre il termine
infondatezza appare di incerta interpretazione non avendo espresso riscontro nella
nomenclatura tecnico-giuridica del diritto amministrativo. Peraltro, per la sua
ampiezza e genericità potrebbe abbracciare sia vizi di merito, cioè inopportunità, non
convenienza, inadeguatezza, che di legittimità, in particolare eccesso di potere, come
è per esempio il travisamento dei fatti: figura sintomatica dell’eccesso di potere e vizio
di merito in caso di valutazione discrezionale dei fatti diversa dal ricorrente”.
Santamaria, Diritto tributario, pag. 151.
[26] In merito all’ambito di applicazione dell’istituto della sospensione amministrativa
della riscossione di cui all’art. 39, comma 1, D.P.R. n. 602/1973, L’Agenzia delle
Entrate ha chiarito che la facoltà in oggetto può essere esercitata dall’amministrazione
finanziaria, non soltanto per le somme iscritte a ruolo a seguito di liquidazione della
dichiarazione ex art. 36bis, D.P.R. n. 600/1973, ma anche per le somme iscritte a
ruolo a seguito di avviso di accertamento. Il potere di sospendere l’efficacia dell’atto è,
però, strumentale a quello di annullamento e, dunque, prima di accordare la
sospensione della riscossione, che deve essere richiesta nell’ambito della procedura di
autotutela, gli Uffici sono tenuti a valutare le concrete possibilità che l’atto che ha dato
origine all’iscrizione al ruolo sia revocato o annullato in via amministrativa o
contenziosa: valutazione del fumus boni juris. Inoltre, occorre, valutare il pericolo per
il contribuente di subire un danno grave ed irreparabile a seguito della riscossione
coattiva: cosiddetto periculum in mora. Risoluzione Agenzia delle Entrate n. 21/E del
07/02/2007.
[27] La rimozione dell’atto da parte dell’amministrazione rientra nell’ambito del potere
di riesame attraverso un procedimento di secondo grado. “L’amministrazione ha la
facoltà di correggersi, ovvero di procedere alla rimozione degli atti illegittimi per i
seguenti fini:
§
realizzare l’interesse pubblico;
§
ripristinare la legalità;
ricercare nello stesso ordine amministrativo una soluzione alle potenziali
controversie insorte evitando il ricorso a mezzi giurisdizionali in ossequio al principio
dell’economia dei mezzi giuridici;
§
migliorare il rapporto con i cittadini favorendo, in sede di riesame dell’atto, quel
contraddittorio che può essere mancato in sede di deliberazione dell’atto impugnato”.
D’Agostino, Autotutela tributaria, excursus normativo, giurisprudenziale ed effettiva
applicazione dell’istituto, pag. 4988.
§
“Gli atti di ritiro, vale a dire annullamento, revoca e abrogazione, emanati in via
di autotutela sono caratterizzati dall’esecutorietà, cioè dalla particolare efficacia in
base alla quale gli atti possono essere non solo eseguiti ma anche eliminati
direttamente ed autonomamente dalla pubblica amministrazione senza richiedere
l’intervento dell’autorità giurisdizionale. In genere nell’esercizio del potere di ritiro, la
pubblica amministrazione dispone di un’ampia discrezionalità esercitabile da parte
dell’organo che ha emanato l’atto e di quello gerarchicamente sovraordinato, salvo la
competenza esclusiva del primo. Da tale discrezionalità deriva che non può
configurarsi rifiuto impugnabile il rigetto di istanza del privato volta ad ottenere
l’annullamento dell’atto non impugnato in via di autotutela. Baldassarre Santamaria,
Diritto tributario, V edizione, Giuffrè, 2006, pagg. 149-150.
“In dottrina si ritiene prevalentemente che il potere di autotutela abbia natura
discrezionale essendo in ultima analisi fondato sui principi costituzionali di capacità
contributiva e di imparzialità/buon andamento della pubblica amministrazione”.
Manzoni – Modolo, Manuale breve di diritto tributario, pag. 100. In tal senso anche
Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pag.
179.
[28] “Nel suo significato più ampio, l’autotutela equivale a farsi giustizia da sé nei
rapporti con i terzi. Infatti, essa presenta due aspetti complementari: il primo è
costituito dall’esecutorietà dell’atto amministrativo; il secondo è costituito dalla
possibilità del suo autoannullamento. Il diritto amministrativo, che ha la stessa età
dell’amministrazione, ha registrato fin dall’inizio la possibilità o di imporre la propria
volontà oppure di modificarla o anche di cancellarla manifestando in pieno la sua
competenza fino alla più totale realizzazione. Il diritto tributario, scaturito per
partenogenesi dal primo, ma tra mille difficoltà concettuali e pratiche, ha tardato ad
inglobare, almeno formalmente e con carattere di generalità, disposizioni da sempre
presenti nell’ordinamento positivo”. G. Giuliani, Diritto Tributario, terza edizione,
Giuffrè, 2002, pag. 25.
[29] Autorevole dottrina propone un’accezione in senso ampio di autotutela per
indicare:
“la possibilità per l’amministrazione di esercitare quei poteri di supremazia in
tema di atti d’imposizione;
§
la possibilità per il fisco di riscuotere coattivamente i propri crediti con una
procedura speciale;
§
§
la possibilità del fisco di sanare i propri atti viziati, annullandoli e riemettendoli
privi del vizio che avevano precedentemente: cosiddetta autotutela sostitutiva
riguardante in genere vizi formali;
la possibilità dell’amministrazione di annullare atti che risultino illegittimi o
infondati, senza effettuarne alcuna sostituzione: cosiddetta autotutela non
sostitutiva”.
§
Raffaello Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, III edizione, IPSOA,
2001, pag. 164.
[30] “L’autotutela può essere esercitata attraverso l’istituto dell’annullamento ex artt.
21-octies e novies della legge 241/1990, modificata ed integrata dalla legge n. 15
dell’11/02/2005, laddove l’amministrazione riscontri la presenza di vizi di legittimità –
violazione di legge, eccesso di potere, ed incompetenza – del provvedimento adottato
o dei suoi precedenti atti o mediante la revoca ex art. 21-quinquies, laddove ritenga
che mutamenti dei presupposti di fatto o di diritto impongano una diversa
considerazione della cura dell’interesse pubblico. Un atto amministrativo illegittimo in
caso di annullamento perde la sia efficacia ex tunc, cioè dalla data della sua
emanazione e coinvolge tutti gli atti ad esso consequenziali; viceversa l’atto
amministrativo revocato per vizio di merito perderà la sua efficacia ex nunc cioè dal
momento della revoca. Un’ulteriore distinzione riguarda l’eventuale pregiudizio recato
agli interessati poiché l’amministrazione, per il mancato esercizio della revoca, ha
l’obbligo di disporre il pagamento di un indennizzo, per la cui determinazione è
consentito il ricorso al giudice amministrativo al quale è demandata la giurisdizione
esclusiva, mentre tale obbligo non è previsto in caso di annullamento. Gli strumenti
summenzionati presuppongono, in ogni caso, l’obbligo di motivazione, l’individuazione
delle concrete ragioni di pubblico interesse, la valutazione degli interessi privati
coinvolti, il rispetto delle regole del contraddittorio nel procedimento di rimozione e
l’espletamento di un’adeguata istruttoria”. ”In campo tributario, l’autotutela si
configura essenzialmente come annullamento poiché gli avvisi di accertamento sono
atti vincolati e non discrezionali, sui quali non è possibile esprimere valutazioni sul
merito. La revoca è ammessa, pertanto, solo per gli atti che riguardano agevolazioni,
autorizzazioni e altri atti che non comportino una ridefinizione della posizione fiscale
del
contribuente”.
D’Agostino,
Autotutela
tributaria,
excursus
normativo,
giurisprudenziale ed effettiva applicazione dell’istituto, pagg. 4989-4990.
Autorevole dottrina distingue l’ipotesi di annullamento di atti viziati riemessi privi del
vizio che avevano precedentemente, cosiddetta autotutela sostitutiva, e l’ipotesi
dell’annullamento senza effettuazione di alcuna sostituzione, cosiddetta autotutela non
sostitutiva. “L’autotutela sostitutiva consente agli uffici, prima della scadenza del
termine previsto per l’accertamento, di annullare d’ufficio gli avvisi affetti da vizi
formali, come nel caso di indicazioni prescritte a pena di nullità. Si pensi ad esempio
all’indicazione degli imponibili accertati e delle aliquote applicate; l’omessa indicazione
delle aliquote, ancorché facilmente desumibili dalla legge, ha spesso portato
all’annullamento degli avvisi di accertamento. L’autotutela non sostitutiva è
riconducibile alla più generale possibilità di qualsiasi amministrazione pubblica di
rimuovere o modificare d’ufficio gli atti che essa ritiene illegittimi o palesemente
infondati”. Lupi, Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale,
Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese,
pag. 2680.
A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “l’art. 43 del D.P.R. n.
600/1973, nella parte in cui consente modificazioni dell’avviso di accertamento
soltanto in caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte
dell’Ufficio, non opera con riguardo ad un avviso nullo alla cui rinnovazione ex nunc
l’amministrazione è legittimata in virtù del potere che le compete di correggere gli
errori dei propri provvedimenti nei termini di legge”. Cass. n. 4303 dell’08/04/1992 e
n. 2531/2002. Da ultimo la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la possibilità
di ricorrere all’autotutela sostitutiva attraverso la rinnovazione ex tunc dell’atto
viziato, individuando i limiti entro cui può essere esercitata tale facoltà. È stato al
riguardo precisato che la rinnovazione:
•
deve essere preceduta dall’annullamento del precedente atto impositivo;
•
presuppone il mancato decorso del termine di decadenza;
non può costituire elusione del giudicato, pertanto, l’atto può essere riproposto
solo con una diversa motivazione rispetto all’avviso originario.
•
Sul punto: Cass. n. 11114 del 16/07/2003.
Il Consiglio di Stato con sentenza n. 789 del 22/06/1997, non ha mancato di
rilevare che la notificazione del ricorso ha “proprio la finalità di esercitare lo ius
poenitendi dell’amministrazione nella direzione richiesta dal gravame” e la
Commissione Tributaria Centrale con decisione n. 2909 del 04/06/1997 ha ritenuto
che “l’emissione di un nuovo avviso di accertamento comporta l’automatico
annullamento dell’avviso originario, in quanto deve ritenersi che l’ufficio si sia avvalso
del potere di autotutela, in quanto lo stesso ha il potere di integrare o modificare gli
accertamenti entro i termini di decadenza, oltre che in base alla sopravvenuta
conoscenza di nuovi elementi, solo nell’esercizio del potere di riesame del proprio
operato”. Sul punto conformi C.T.C., decisione n. 1154 del 18/03/1995; n. 2197
dell’08/05/1977; n. 4183 del 07/04/1983.
[31] La richiesta del privato deve riportare i motivi di contestazione e, in relazione al
contenuto della stessa, può essere corredata dalla documentazione di supporto a
sostegno delle tesi esposte. Può essere accompagnata da una richiesta di sospensione
dell’atto o della cartella di pagamento.
“Il fine dell’autotutela è quello di realizzare l’interesse pubblico e mai quello di
garantire al cittadino un’ulteriore mezzo di difesa, oltre a quelli previsti dal sistema
giuridico; in nessun caso essa può essere confusa con l’istituto della tutela”. Patrizi –
Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pag. 179.
“Dunque, il fine dell’istituto è quello di realizzare l’interesse pubblico e non di garantire
al cittadino un ulteriore mezzo di difesa, oltre a quelli assicurati dal sistema
giurisdizionale: pertanto come ha ben precisato la stessa amministrazione finanziaria
e, successivamente, confermato la Cassazione, l’autotutela non deve essere confusa
con la tutela, per cui il mancato esercizio di detto potere non è sindacabile in sede di
contenzioso tributario”. Antico – Carriolo – Fusconi – Tucci - Zappi, L’accertamento
fiscale, pag. 338. Cass., sez. trib. n. 13412 del 09/10/2000. Detti principi si
rinvengono tra l’altro nelle circolari n. 195/E/1998 e 198/E/1998, con le quali è stato
precisato che il potere discrezionale riconosciuto agli uffici finanziari, competenti ad
annullare l’atto illegittimo o infondato, deve intendersi non come mera facoltà di agire,
bensì quale potere dovere di attivarsi per assicurare i dettati costituzionali di
imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
[32] Secondo il Tesauro, “nel potere di emettere un atto è insito anche quello di
ritirarlo o di emendarlo quando appaia alla stessa autorità che l’ha emanato, in tutto o
in parte viziato: ciò è espressione del potere di autotutela della pubblica
amministrazione la quale in ossequio al principio di legalità e di buona fede ha il
dovere di eliminare i vizi che rendono illegittimo un atto e di ritirare gli atti illegittimi”.
Tesauro, Compendio di diritto tributario, pag. 84.
[33] A fini di mera esaustività, autorevole dottrina osserva che se è vero che
l’autotutela è approdata con il suo nome nel diritto tributario soltanto nel 1994, essa
era presente, anche se in forma per così dire mascherata, almeno dal 1923. Infatti,
nella legge del registro di tale anno, che è stata poi la madre di tutte le leggi
d’imposta, era prevista la facoltà di moderazione dell’accertamento definitivo che
risultasse manchevole o erroneo ex art 34. Proprio grazie a tale disposizione,
numerose risoluzioni ministeriali a partire dal 1976 avevano sempre dichiarato
ammissibile, in una forma o nell’altra, il potere di autoannullamento. Così, per
esempio, era stato riconosciuto che l’amministrazione può riesaminare un
accertamento divenuto definitivo, ancorché siano stati pagati tributi, quando sia
erroneamente denunciato un cespite non appartenente al de cuius: sul punto cfr.
Risoluzione ministeriale n. 271988 dell’8/01/1980. Per converso veniva ritenuto
modificabile un provvedimento dell’intendente di finanza, adottato a seguito di
riesame di un accertamento di valore resosi definitivo, allorquando risultino essere
stati erroneamente omessi, nel provvedimento, beni assoggettati a tassazione: sul
punto cfr. Risoluzione ministeriale 280984 del 28/08/1994. Giuliani, Diritto tributario,
pag. 26. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e
autotutela, pag. 192.
[34]Esso recita testualmente “Con decreti del Ministero delle Finanze sono indicati gli
organi dell’amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati. Con gli stessi decreti sono definiti i
criteri di economicità sulla base dei quali s’inizia o si abbandona l’attività
dell’amministrazione”.
[35] “…l’applicazione dell’autotutela secondo le indicazioni dell’art. 68 può essere
senz’altro riduttiva e per certi versi fuorviante, laddove viceversa possono essere
individuati ben altri e più consistenti margini di intervento per gli uffici finanziari, sulla
scorta di precedenti norme operative. Intendiamo riferirci, in primo luogo e forse
anche per tutti i successivi interventi, vista la loro esaustività, al contenuto degli artt.
79 e 80 del D.M. 07/04/1888, recanti istruzioni per la contabilità demaniale, tuttora in
vigore per gli uffici contabili che amministrano denaro versato a titolo di tasse ed
imposte dirette sugli affari. In forza di detti articoli viene stabilito che i crediti erariali
in tutto o in parte insussistenti sono da annullarsi, con la specificazione che
l’annullamento per insussistenza si ha quando il credito iscritto sia stato riconosciuto
legalmente estinto o indebitamente e/o erroneamente liquidato e ciò va portato a
legale conoscenza del contribuente attraverso le forme di notificazione degli atti
impositivi”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e
autotutela, pag. 191.
[36] “L’art. 1, comma 1, della legge 241/1990, afferma che l’attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai criteri di economicità, di efficacia
e di pubblicità. L’individuazione delle modalità di applicazione di tali principi e criteri è
rimessa non solo alla legge 241 del 1990 medesima, ma ance ad altre disposizioni sui
singoli procedimenti, le quali possono dunque porre una disciplina differente dal
modello generale.
L’azione è economica quando il conseguimento degli obiettivi avvenga con il minor
impiego possibile di mezzi personali, finanziari e procedimentali. Il principio può
essere impiegato anche nelle ipotesi in cui residuino spazi di scelta discrezionale in
capo all’amministrazione, ovviamente in quanto la scelta economica sia compatibile
con l’interesse pubblico. L’economicità si traduce nell’esigenza del non aggravamento
del procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo
svolgimento dell’istruttoria: art. 1, comma 2, legge 241/1990
L’efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati e obiettivi conseguiti ed esprime la
necessità che l’amministrazione, oltre al rispetto formale della legge, miri anche e
soprattutto al perseguimento nel miglior modo possibile delle finalità ad essa affidate.
La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura pubblica
dell’amministrazione. Questo modo d’essere della pubblica amministrazione da un lato
implica la necessaria preordinazione della sua attività alla soddisfazione di interessi
pubblici e dall’altro richiede la trasparenza dell’amministrazione stessa e della sua
azione agli occhi del pubblico: applicazione concreta del principio di pubblicità è
costituita dal diritto di accesso ai documenti amministrativi e, in senso lato, anche gli
istituti della partecipazione al procedimento amministrativo e della motivazione del
provvedimento.
La legge non richiama il concetto di efficienza, vale a dire il rapporto tra mezzi
impiegati e obiettivi conseguiti. Vi sono, tuttavia, numerose altre disposizioni
normative che, oltre a confermare i tre suddetti principi introducono altresì il canone
dell’efficienza e si preoccupano di garantirne la vigenza e l’applicazione: si veda, per
esempio, il D.Lgs. 286 del 1999 in tema di controlli interni”. Elio Casetta, Manuale di
diritto amministrativo, II edizione, Giuffrè, 2000, pagg. 375-376. In tal senso anche
Francesco Caringella, Corso di diritto amministrativo, Tomo II, seconda edizione,
Giuffrè editore, 2003, pagg. 1349-1351.
“I termini gestione, efficacia, economicità ed efficienza sono utilizzati con significati
vari ma nel linguaggio tecnico assumono contenuti concettuali ben precisi. L’economia
d’azienda definisce:
§
la gestione, il sistema delle operazioni simultanee e successive che
dinamicamente si dispiega, finché l’azienda ha vita, per il raggiungimento dei fini della
medesima;
§
l’efficacia, l’idoneità della gestione a conseguire gli obiettivi prefissati: art. 1,
legge n. 241/1990;
§
l’economicità, mette in relazione risorse impiegate e risultati conseguiti e consiste
nell’utilizzo dei mezzi meno onerosi per il raggiungimento degli obiettivi aziendali
traducendosi, quindi, in una misura della redditività dell’azienda: art. 1, legge n.
241/1990;
§
l’efficienza, attiene al rapporto che intercorre tra beni e servizi prodotti,
cosiddetto output, e fattori primari impiegati per produrli, cosiddetti input”.
Carlo Manacorda, Contabilità pubblica, G. Giappichelli editore, 2001, pagg. 9-10.
[37] Enrico De Mita, Principi di diritto tributario, III edizione, Giuffrè, 2002, pag. 37 e
ss..
[38] “Per quanto riguarda il concetto di definitività dell’accertamento, con esso deve
intendersi semplicemente la perdita per il contribuente della possibilità di agire il
giudice….In caso di definitività dell’atto e di presentazione di istanza di autotutela da
parte del contribuente il funzionario può, infatti, procedere a delle valutazioni
autonome che solo eventualmente possono coincidere con quelle che potevano essere
fatte dal privato in sede giurisdizionale”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con
adesione, conciliazione e autotutela, pag. 209.
[39] Secondo il Tesauro, “L’utilità pratica dell’autotutela, per il contribuente che abbia
ricevuto un atto illegittimo emerge soprattutto quando l’atto è divenuto definitivo
perché non impugnato o perché il ricorso proposto non ha raggiunto il risultato
richiesto. Nessuna norma impedisce, infatti, l’autotutela nei riguardi di un atto non
impugnato”. Tesauro, Compendio di Diritto tributario, pag. 85.
Dottrina e giurisprudenza hanno chiarito due capisaldi che presiedono all’attuazione
dell’istituto nell’ordinamento tributario:
“la discrezionalità dell’amministrazione nel valutare l’esistenza o meno delle
condizioni di legge che consentono l’applicazione dell’autotutela, quindi la libertà del
volere dell’amministrazione nel pronunciarsi sulla questione controversa;
•
l’inesistenza di un termine finale per l’esercizio dell’autotutela, per cui non è di
impedimento alla stessa la definitività dell’atto impositivo, avutasi per acquiescenza,
cioè per mancata opposizione o per esaurimento dei mezzi di impugnazione, non
potendosi concettualmente far discendere dalla definitività l’immodificabilità dell’atto
da parte della stessa P.A.”. Giancarlo Settimio Toto, Giudicato tributario e autotutela,
in Tributi n. 11/12 – 2001, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, pag. 655.
•
[40] “Gli uffici fiscali, a differenza dei soggetti privati, hanno il dovere di agire con
imparzialità e oggettività e devono, pertanto, rinunciare ad una posizione di
vantaggio, quando essa appaia oggettivamente ingiusta anche se il contribuente è
decaduto dalla possibilità di attivare gli ordinari rimedi giurisdizionali. Questi doveri di
imparzialità e correttezza costituiscono il naturale contraltare di quella posizione
pubblicistica che giustifica l’attitudine degli atti impositivi a rendersi definitivi se non
impugnati: se da un lato il potere pubblicistico caratterizza gli atti
dell’amministrazione e li rende suscettibili di consolidarsi se non impugnati, dall’altro
lato impone agli uffici un dovere di correttezza ed imparzialità molto più penetrante
rispetto a quanto accade nei rapporti tra privati”. Trattato di diritto amministrativo,
Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e
privata, a cura di Sabino Cassese, pagg. 2680-2681. In tal senso anche: Lupi,
Manuale giuridico professionale di diritto tributario, pagg. 166-167.
[41] In tal senso anche Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di Diritto
amministrativo, pagg. 151-153 secondo i quali ai sensi della regolamentazione in
materia di autotutela “il potere di annullamento d’ufficio può essere esercitato in tutte
le ipotesi di illegittimità dell’atto sub specie di errore di persona, evidente errore logico
o di calcolo, errore sul presupposto dell’imposta, doppia imposizione etc., anche se
esso sia divenuto definitivo per decorso dei termini per ricorrere, anche se vi è
pendenza di giudizio ed anche se non sia stata prodotta alcuna istanza da parte del
contribuente”. Inoltre, “Di fronte ad un accertamento divenuto definitivo perché non
impugnato nei termini l’intervento dell’amministrazione, diretta a rimuovere in via di
autotutela l’atto illegittimo, ancorché inoppugnabile, risponde all’esigenza di
assicurare la corretta esazione del tributo effettivamente dovuto e la correttezza dei
comportamenti dell’amministrazione finanziaria, la quale deve evitare di penalizzare il
contribuente che ha sostanzialmente ragione, ma ha omesso di impugnare
tempestivamente l’atto. Solo così, infatti, può mantenere inalterata quella fiducia
reciproca su cui si basa l’attuale sistema fiscale, sempre più ispirato allo spontaneo
adempimento del contribuente. In tale logica, potrebbe condividersi l’idea che
l’autotutela tributaria risponda non solo e non tanto ad una funzione giustiziale o di
mera imparzialità, quanto all’obiettivo di assicurare il buon andamento e, dunque,
l’efficienza del sistema fiscale”.
[42] Contra Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e
autotutela, pag. 202, secondo cui: “…essendo previsto in caso di grave inerzia
dell’ufficio che ha emanato l’atto l’intervento dell’autorità sovraordinata, vale a dire la
Direzione Regionale delle Entrate, è evidente che l’esercizio tempestivo e corretto
dell’autotutela viene considerata dall’amministrazione non certo una specie di optional
che si può attuare o non attuare a propria discrezione, ma come una componente del
corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e, quindi, anche come un elemento di
valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale”.
[43] Giuliani, Diritto Tributario, pag. 26.
[44] Nell’ambito del diritto amministrativo, “l’autotutela è il potere in base al quale
l’amministrazione interviene unilateralmente in modo caducante su un assetto di
interessi già valutato e definito con un proprio atto, al fine di prevenire o risolvere
conflitti. Per procedere a tale verifica va preliminarmente considerato se
effettivamente sussistono i presupposti, così come individuati da dottrina e
giurisprudenza, alla cui contestuale presenza è subordinato l’esercizio di tale potere.
Viene in primo luogo in rilievo l’illegittimità acclarata del provvedimento. In seconda
battuta, occorre che la caducazione dell’atto risponda ad un interesse pubblico attuale
e concreto che non si esaurisca nell’interesse a ristabilire la legalità Infine, deve
essere operato un attento bilanciamento tra l’interesse dell’amministrazione alla
rimozione dell’atto e l’interesse alla conservazione di cui sono titolari soggetti diversi
dalla P.A., generalmente privati. Quest’ultimo è di certo il punto più delicato, posto
che occorre un’attenta valutazione degli effetti già prodotti dall’atto e del loro
consolidamento, nonché del conseguente affidamento ingenerato nei soggetti toccati
da tali effetti. Naturalmente la valutazione deve essere tanto più accorta e meditata
quanto più ampio è il lasso di tempo di applicazione dell’atto e, correlativamente,
tanto più dettagliata deve essere la motivazione in sede di adozione del
provvedimento di autotutela”. Caringella, Corso di diritto amministrativo, pagg. 17111712. In tal senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione,
conciliazione e autotutela, pag. 180 e ss..
[45] Sul punto: Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di Diritto amministrativo, pag.
151.
[46] Sul punto: Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di Diritto amministrativo, pag.
151.
[47] “In mancanza di un interesse pubblico diverso da quello ad un’imposizione
conforme a legge, in carenza di controinteressati al provvedimento di annullamento,
in presenza di un’attività impositiva totalmente vincolata e soggetta al principio di
capacità contributiva, l’esercizio del potere di autotutela deve obbligatoriamente
concludersi, dopo la constatazione dell’illegittimità del provvedimento impositivo, con
il suo annullamento”. In tal senso Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di Diritto
amministrativo, pag. 152.
[48] “Lo ius poenitendi della pubblica amministrazione si manifesta attraverso
provvedimenti tipici dell’annullamento, revoca e abrogazione degli atti invalidi,
inopportuni o non più rispondenti all’interesse pubblico. L’interesse pubblico in materia
tributaria che deriva dal combinato disposto di norme primarie dettate dall’art. 53,
capacità contributiva, e 97, buon andamento e imparzialità della pubblica
amministrazione, della Costituzione, consiste nella corretta e giusta esazione delle
imposte da parte dell’amministrazione finanziaria che così agendo dà di sé
un’immagine di correttezza ed un comportamento equo e giusto. Pertanto, l’attività
degli uffici deve mirare non alla massimizzazione del gettito ma all’applicazione delle
giuste imposte in base al principio della capacità contributiva, nonché ad improntare le
proprie azioni ai principi di imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost.”. Santamaria, Diritto tributario, pag. 150. In tal
senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e
autotutela, pag. 190.
In tal senso altresì D’Agostino, Autotutela tributaria, excursus
giurisprudenziale ed effettiva applicazione dell’istituto, pag. 4988.
normativo,
[49] “In verità, non sembra che l’annullamento dell’accertamento tributario risponda
esclusivamente all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, dovendo
l’amministrazione tenere conto, nell’esercizio del relativo potere di autotutela, di altri
ben più significativi interessi. Così, ove l’autotutela venga esercitata in pendenza di un
giudizio sull’atto di accertamento, instaurato dal contribuente a mezzo ricorso alle
commissioni tributarie, è possibile ritenere che essa risponda ad una logica di
economicità, corrispondente all’esigenza di evitare esborsi inutili e, talvolta, anche
consistenti a seguito e per effetto della condanna al rimborso delle spese processuali
sostenuto dal contribuente per il giudizio dinanzi alle commissioni tributarie davanti al
quale l’atto impositivo illegittimo era stato impugnato”. In tal senso Carugno e
Gianandrea, in Lineamenti di Diritto amministrativo, pag. 152.
Secondo il Tesauro, “In diritto amministrativo, ove i provvedimenti sono solitamente
espressione di discrezionalità, l’annullamento d’ufficio dell’atto deve essere
giustificato, oltre che dalla sua illegittimità anche da un interesse dell’amministrazione
all’annullamento. In diritto tributario, invece, non essendovi discrezionalità, l’esercizio
dei poteri di autotutela non presuppone valutazioni di convenienza: il ritiro o la
correzione dell’atto viziato vanno compiuti in applicazione della regola di buona fede,
cui deve attenersi l’amministrazione; la correzione presuppone dunque il vizio e
null’altro, ossia è giustificato soltanto dal dovere di ogni pubblica amministrazione di
ripristinare la legalità”. Tesauro, Compendio di diritto tributario, pagg. 84-85.
[50] “Per consentire l’esercizio dell’autotutela occorre un vizio sostanziale rilevabile ab
externo in termini di irragionevolezza, contraddittorietà tra premesse e conclusioni,
travisamento dei fatti ecc.. Solo in concreto potrà stabilirsi se ad un vizio debbano
essere riconosciute queste caratteristiche che è sterile ed ingenuo tentare di fissare
una volta per tutte in una formula astratta da applicare poi meccanicamente”. Lupi,
Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I
servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag. 2681.
[51] “Ai fini dell’attivazione della procedura dell’autotutela riteniamo rivesta grande
importanza la figura del Garante del contribuente prevista nello Statuto dei diritti del
contribuente. Si tratta di una figura cui vengono attribuiti poteri di informazioni, volti
ad accertare l’eventuale lesione di un diritto, nonché poteri di persuasione e di
influenza, diretti ad imporre il riesame dell’atto da parte dell’Autorità amministrativa.
La legittimazione all’impulso nella procedura per l’autoannullamento è evidente nelle
seguenti funzioni attribuite al garante:
§
rivolgere richieste di documenti o chiarimenti agli uffici competenti che hanno
l’obbligo di rispondere entro trenta giorni;
§
rivolgere raccomandazioni ai dirigenti degli uffici;
§
individuare e segnalare le disfunzioni più ricorrenti e rilevanti;
Il collegamento tra le norme sull’autotutela e quelle sul Garante agevolerà
l’affermazione e la proficuità di entrambi gli istituti”. Patrizi – Marini – Patrizi,
Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pagg. 196-197.
[52] In tal senso: Tesauro, Compendio di diritto tributario, pag. 85. L’autotutela
tributaria
è
comunque
finalizzata
al
perseguimento
di
un
interesse
dell’amministrazione finanziaria volto a tutelare il principio di eguaglianza sostanziale
affinché il contribuente sia messo in condizione di concorrere alle spese pubbliche in
ragione della capacità contributiva e secondo criteri di progressività. L’eliminazione
dell’atto illegittimo, nonché dell’atto insufficientemente motivato può esplicare l’effetto
di superare disparità di trattamento: Cass. sent. n. 8854 del 21/08/1993.
Il Segretario Generale del Ministero delle Finanze con nota n. 4079 del 18/07/1994,
nel prendere atto che occorre evitare che vengano disapplicate norme specifiche con
le quali è sancito il potere-dovere degli uffici finanziari di correggere i propri atti
illegittimi o infondati, sussistendo un interesse pubblico rafforzato a ripristinare la
correttezza e l’equità dell’azione amministrativa, rileva che tra gli interessi pubblici
idonei a sorreggere, sul piano della legittimità, l’intervento in autotutela, è
sicuramente da annoverare anche l’esigenza che al contribuente non sia richiesto di
corrispondere al fisco più di quanto effettivamente dovuto in base alle norme in
vigore; cosa che altrimenti urterebbe contro i principi di trasparenza e di giustizia
sociale ormai riconosciuti come immanenti a qualunque attività della pubblica
amministrazione.
[53] “…un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza a
conclusione di una verifica fiscale, pur considerabile quale atto amministrativo, non
può formare oggetto di annullamento in sede di autotutela da parte della medesima
Guardia di finanza in quanto essendo deputata all’espletamento di funzioni di controllo
non ha anche funzioni di amministrazione attiva. L’autotutela in questo caso, si
esprimerebbe, tuttavia, in forma indiretta attraverso il non trasferimento dei contenuti
del verbale nell’atto di accertamento di competenza dell’ufficio finanziario. A tale
conclusione è pervenuta la stessa Amministrazione finanziaria che con la direttiva
ministeriale del 25/11/1996 in materia di semplificazione di rapporti con i contribuenti
(apparsa sulla Gazzetta Ufficiale n. 58 dell’11/03/1997) ha espressamente
riconosciuto che <dopo il rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da
parte degli organi di controllo, tra cui i militari della Guardia di finanza, il contribuente
può comunicare osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori prima
della emanazione degli avvisi di accertamento>. Oggetto dell’istanza di autotutela da
parte del contribuente può essere, quindi, anche il processo verbale di constatazione
della Guardia di finanza, ma competente all’annullamento dei rilievi in esso contenuti
sarà sempre e solo l’ufficio impositore, attraverso il mancato trasferimento di tali
rilievi nell’avviso di accertamento e/o rettifica”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento
con adesione, conciliazione e autotutela, pag. 204.
[54] Autorevole dottrina evidenzia come “l’ufficio impositore può esercitare
l’autotutela anche non emettendo l’avviso di accertamento ossia rinunciando
all’imposizione officiosa, alle medesime condizioni di diritto previste per l’autoannullamento degli atti impositivi ex artt. 1 e 2, D.M. n. 37/1997”. Manzoni – Modolo,
Manuale breve di diritto tributario, pag. 100.
[55] Il Tesauro individua tra i rimedi a disposizione dell’amministrazione oltre
all’annullamento totale o parziale dell’atto riconosciuto viziato anche:
§
la sostituzione dell’avviso di accertamento già emesso con un accertamento con
adesione;
§
in pendenza del giudizio di primo grado, la lite può essere composta con la
conciliazione;
§
nel gestire la lite, l’amministrazione può riconoscere la fondatezza del ricorso o
non impugnare la sentenza ad essa sfavorevole.
Tesauro, Compendio di Diritto tributario, pag. 84.
[56] Cassazione, sezioni unite civili, n. 1864 del 01/02/2005.
[57] Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela,
pag. 203.
[58] “Ci si deve chiedere, allora, quando l’inerzia dell’ufficio possa essere considerata
grave e consentire, quindi, l’intervento delle Direzioni regionali; si può ritenere che il
requisito della gravità debba essere valutato, in concreto, con riferimento
all’immediatezza ed alla rilevanza degli effetti dannosi, sia per il contribuente che per
la stessa amministrazione finanziaria, che possono essere casuati dal mancato
esercizio di tale potere da parte dell’ufficio competente: ad esempio quando sono in
corso gli atti esecutivi. Si può, inoltre, ritenere che è senz’altro grave l’inerzia
protratta nell’imminenza della formazione del giudicato. In tali ipotesi si potrà sempre
ricorrere al garante”. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione,
conciliazione e autotutela, pag. 203.
[59] D’Agostino, Autotutela tributaria, excursus normativo, giurisprudenziale ed
effettiva applicazione dell’istituto, pag. 4991. In via sostitutiva, in caso di grave
inerzia, è altresì competente la Direzione regionale sovraordinata, il cui parere è
peraltro obbligatorio per gli importi superiori a € 516.456,00 ex artt. 1 e a, comma 1,
D.M. n. 37/1997”. Enrico Manzoni – Adriana Modolo, Manuale breve di diritto
tributario, Giuffrè, 2006, pag. 99. “La previsione normativa della grave inerzia e la
legittimazione dell’intervento, in via sostitutiva, dell’organo gerarchicamente
sovraordinato sembrerebbe configgere con il principio generale secondo cui, nella
materia di autotutela, non esiste un obbligo dell’amministrazione di avviare il
procedimento di riesame”. Antico – Carriolo – Fusconi - Tucci – Zappi, L’accertamento
fiscale, pag. 342.
[60] “Sotto il profilo procedurale, l’autotutela non è subordinata ad istanze del
contribuente e potrebbe, a rigore, essere esercitata anche d’ufficio. In sostanza, una
richiesta del contribuente è però l’unico modo per avere la certezza che l’ufficio
finanziario attivi una procedura interna per esaminare l’ipotesi di esercitare
l’autotutela. È però bene sottolineare l’assenza di un obbligo di formale istanza; non ci
sono quindi termini di decadenza dalla presentazione di istanze, il cui mancato rispetto
potrebbe giustificare il mancato esercizio dell’autotutela. L’istanza potrà ad esempio
essere raccolta a verbale durante una audizione presso l’ufficio, ovvero essere
contenuta in un atto processuale attinente ad altra controversia con l’ufficio fiscale;
l’istanza ha quindi solo una sua utilità pratica, per costringere l’ufficio a prendere
formalmente in esame la questione”. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto
tributario, pag. 168. In tal senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con
adesione, conciliazione e autotutela, pag. 211.
[61] “La richiesta di parere all’organo sovraordinato, seppure obbligatoria e
vincolante, non modifica la competenza assegnata dal legislatore, perché sarà sempre
l’ufficio cha ha emanato l’atto ad essere deputato all’adozione del formale
annullamento, nel quale, comunque si farà menzione nell’intervento consultivo anche
nell’ipotesi di parere contrario alla proposta favorevole dell’ufficio al ritiro dell’atto.
Invece, l’intervento dell’organo superiore dovrebbe assicurare una più attenta e
ponderata valutazione della questione nel suo complesso, con l’opportunità di
individuare e selezionare i casi potenzialmente più complessi sì da fornire all’ufficio
competente all’adozione del provvedimento di annullamento un maggiore conforto in
ordine alle sue conclusioni ed approfondire gli aspetti legati all’eventuale rinuncia ad
ingenti risorse erariali”. Antico – Carriolo – Fusconi – Tucci – Zappi, L’accertamento
fiscale, pag. 340.
[62] “Il mancato esercizio dell’autotutela, oltre a provocare il pagamento delle spese
processuali, ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. n. 546 del 31/12/1992, viene considerato
come una componente del corretto comportamento dei dirigenti e, quindi, come
elemento di valutazione dal punto di vista disciplinare e professionale”. D’Agostino,
Autotutela tributaria, excursus normativo, giurisprudenziale ed effettiva applicazione
dell’istituto, pag. 4991.
[63] Sul punto cfr. Circolare ministeriale delle Entrate 195/1997 e Cassazione n.
13412 del 09/10/2000. Posto che non sussiste l’obbligo di procedere all’annullamento
dell’atto, occorre verificare se l’amministrazione è comunque tenuta a rispondere a
fronte di un’istanza di parte. Al riguardo si può affermare che, anche rispetto
all’autotutela tributaria, si applicano le norme contenute nella legge n. 241/1990 come
novellata dalla legge n. 15/2005 e dal D.L. n. 35 del 14/05/2005 convertito nella
legge n. 80 del 14/05/2005, le quali impongono all’amministrazione il dovere, in
presenza di un procedimento che consegua obbligatoriamente ad una istanza di parte
o anche d’ufficio, di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso
positivo o negativo e ciò anche per consentire all’interessato di ricorrere in via
giurisdizionale per la tutela delle proprie ragioni: Tar Salerno, sez. I, n. 674 del
03/07/2002; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3492 del 04/06/2004. “In caso di inerzia,
al contribuente dovrebbe essere consentito il ricorso al giudice amministrativo ai sensi
dell’art. 21-bis della legge n. 1034 del 06/12/1971 avverso il silenzio inadempimento
per ottenere una pronuncia di condanna dell’amministrazione ad emettere un
provvedimento espresso di accoglimento o di rigetto dell’istanza di autotutela. Tale
tutela è riconosciuta anche dall’art. 7, comma 4, legge 212/2000 sullo Statuto del
contribuente, per il quale la natura tributaria dell’atto non preclude agli organi di
giustizia amministrativa…”. D’Agostino, Autotutela tributaria, excursus normativo,
giurisprudenziale ed effettiva applicazione dell’istituto, pag. 4993.
[64] La giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’autotutela costituisce una facoltà
discrezionale il cui mancato esercizio non può essere oggetto di impugnazione: Tar
Toscana n. 767 del 22/10/1999; Cass. n. 13412 del 09/10/2000. In caso di diniego
espresso, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto nelle commissioni tributarie
l’organo competente in materia di autotutela mentre per quanto attiene l’oggetto la
Corte ha sancito che “la riforma del 2001 ha poi necessariamente comportato una
modifica dell’art. 19 del D.Lgs n. 546/1992; l’aver consentito l’accesso al contenzioso
tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi comporta, infatti, la possibilità
per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l’amministrazione
manifesti, anche attraverso la procedura del silenzio rigetto, la convinzione che il
rapporto tributario o relativo a sanzioni tributarie, debba essere regolato in termini
che il contribuente ritenga di contestare: in assenza di simile manifestazione di
volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in
giudizio ex art. 100 del codice di procedura civile”. Cass. sent. n. 16776 del 09/0610/08/2005. Analoga posizione era stata presa, peraltro, dalla Corte Costituzionale,
nella sentenza n. 313 del 06/12/1985, nella quale ha precisato che la sindacabilità di
un atto dinanzi al giudice tributario dipende dalla funzione assolta e dagli effetti
prodotti e non dalla sua inclusione nell’art. 19 sulla base del nomen iuris. Sul punto
conforme Toto, Giudicato tributario e autotutela, pag. 658.
[65] A seguito della sentenza n. 274 del 2005 della Corte Costituzionale, il totale
annullamento d’ufficio dell’atto impugnato non determina, di per sé, l’integrale
cessazione della materia del contendere, dovendosi procedere al regolamento delle
spese di lite in base alla cosiddetta soccombenza virtuale, che presuppone un esame
della fondatezza delle questioni introdotte nel giudizio e, quindi, l’individuazione
dell’ipotetico soccombente, anche per ragioni di natura solo processuale. In base ai
principi generali, per la condanna alle spese non è necessaria un’esplicita richiesta
della parte virtualmente vittoriosa. L’obbligo di statuizione sulle spese è escluso solo
in presenza di un’espressa rinuncia delle parti. In base alla suddetta sentenza, la
compensazione delle spese è ammessa anche quando il giudice dovesse convincersi
che avrebbe annullato l’atto impugnato. Inoltre, va tenuto presente che
l’autoannullamento dell’atto non implica necessariamente che l’esito della controversia
sarebbe stato favorevole al contribuente, posto che, fra l’altro, l’autotutela può
fondarsi anche su motivi diversi da quelli ritualmente dedotti in giudizio.
Conseguentemente, quando l’ufficio chiede che venga dichiarata la cessazione della
materia del contendere, occorre che prenda motivatamente posizione anche sulle
spese di giudizio, distinguendo le ipotesi in cui la compensazione continua ad operare
di diritto, ad esempio estinzione a chiusura della lite ai sensi dell’articolo 16 della
legge n. 289 del 27/12/2002, da quelle in cui è ammessa la condanna alle spese, ad
esempio estinzione conseguente ad autotutela. In caso di conciliazione, è opportuno
che venga inserito espressamente nell’atto di conciliazione e nel processo verbale
l’accordo sulla compensazione delle spese. L’articolo 92, secondo comma, del codice di
procedura civile, come modificato dall’articolo 2, comma 1, lett. a), della legge n. 263
del 28/12/2005, prevede che “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti
motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare,
parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
La recente modifica dell’articolo 92 citato impone l’esplicita indicazione nella
motivazione della sentenza dei giusti motivi che inducono a compensare le spese
giustiziali. In caso di autotutela è opportuno, quindi, fornire, al giudice elementi che
possano giustificare la compensazione delle spese. Al riguardo il giudice ha un ampio
potere, trattandosi di valutazioni essenzialmente equitativa; può quindi fondare su più
disparati elementi la sua decisione di derogare per quanto riguarda le spese di lite al
principio della soccombenza. Non è pertanto possibile una loro elencazione e
classificazione. In sede di statuizione sulle spese di lite, il giudice può tener conto del
comportamento delle parti sia prima che durante il processo. La stessa circostanza
dell’esercizio dell’autotutela, che fra l’altro ha l’effetto di ridurre i tempi e gli oneri del
processo, può essere invocata a favore dell’ufficio sul piano della correttezza e della
collaborazione col contribuente e col giudice.
[66] “Di fronte al rifiuto di esercitare l’autotutela quando l’atto è stato impugnato e
pende ricorso, appare superfluo immaginare rimedi giurisdizionali ulteriori: la tutela
giurisdizionale in questi casi è già in corso e basterà attendere l’esito del giudizio. Tale
esito assorbirà, in definitiva, anche la questione relativa all’esercizio dell’autotutela.
Non si possono invece escludere istanze di autotutela parallele al giudizio, ma per
motivi non fatti valere nel ricorso e che quindi non possono essere più introdotti nel
giudizio tributario”. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, pag. 166.
[67] Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, pagg. 165-166.
[68] Sul punto cfr. Circolare ministeriale del 5 agosto 1998, n. 198/S e circolare n.
195 dell’8 luglio 1997. In tal senso la dottrina, ex multis: Lupi in Trattato di diritto
amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo terzo: I servizi pubblici. Finanza
pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag. 2678.
[69] Sul punto cfr. Circolare 8 luglio 1997, n. 195/E. Secondo il Tesauro, “Neppure il
giudicato impedisce in assoluto l’autotutela, purché il ritiro dell’atto venga fatto per
motivi che non contraddicono il contenuto della sentenza passata in giudicato: ciò
discende dai principi ed, inoltre, è conforme al regolamento, ove è previsto che
l’ufficio non può annullare il suo atto per motivi sui quali sia intervenuta sentenza
passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria”. Tesauro, Compendio
di Diritto tributario, pag. 85. Toto, Giudicato tributario e autotutela, pagg. 656-657.
Angelo Buscema, Giudicato di merito della Commissione tributaria e autotutela del
fisco, in Il Fisco n. 13/1999, ETI – De Agostini, pag. 4471. Lupi, Manuale giuridico
professionale di diritto tributario, pag. 167. Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento
con adesione, conciliazione e autotutela, pag. 213.
“Motivi diversi da quelli prospettati in sede giurisdizionale e che non sono stati oggetto
di esame specifico da parte dell’organo giudicante, possono in ogni caso determinare
l’annullamento dei rispettivi rilievi, ove siano riconosciuti idonei dall’ufficio accertatore
che ha emanato l’atto”. Sul punto Segretario Generale del Dipartimento Entrate, nota
n. 4079 del 18/07/1994.
[70] Circolare n. 195/E dell’08/07/1997. In tal senso ex multis in dottrina: Patrizi –
Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pag. 209,
secondo cui “il nostro ordinamento non stabilisce alcun termine entro il quale il potere
sia da esercitare”. Secondo il parere n. 105547 dell’01/10/2003 dell’Avvocatura
Generale dello Stato, non è esercitatile il potere di autotutela dell’amministrazione
finanziaria nel caso di un diritto al rimborso di un credito d’imposta prescrittosi.
Autorevole dottrina, con riferimento all’ipotesi in cui il contribuente ha lasciato scadere
il termine per richiedere un rimborso cui, tuttavia, ha oggettivamente diritto, ritiene
che se è consentito rimuovere le decadenze dovute alla mancata impugnazione di un
atto, a maggior ragione deve essere consentito rimuovere quelle dovute alla mancata
richiesta di rimborso. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, pag.
172.
[71] “…pur riconoscendo all’ufficio la massima discrezionalità in ordine all’an, al
quando ed al quomodo per l’esercizio del potere di autotutela, talee discrezionalità
non può spingersi verso la mera facoltatività del riesame: se, quindi, non vi è alcun
obbligo di accogliere, in tutto o in parte, le ragioni del contribuente, deve comunque
ritenersi sussistere l’obbligo del riesame, con comunicazione alla parte degli esiti
negativi dello stesso. In mancanza, si concretizza da parte dell’ufficio l’ipotesi di
inerzia che assume la connotazione di gravità qualora il silenzio perduri anche dopo
reiterate ed inevase sollecitazioni, così giustificando l’intervento sostitutivo dell’organo
sovraordinato”. Antico – Carriolo – Fusconi – Tucci – Zappi, L’accertamento fiscale,
pag. 341.
[72] Sul punto cfr. Circolare ministeriale del 5 agosto 1998, n. 198/S.
“…in caso di annullamento in via di autotutela, anche se essa è espressione di un
potere caratterizzato da una discrezionalità amministrativa e cioè dalla possibilità per
l’amministrazione di scegliere se, quando e in che modo esercitarlo, la riconosciuta
illegittimità dell’atto presupposto e il relativo annullamento d’ufficio porta
necessariamente all’annullamento degli atti consequenziali”. Patrizi – Marini – Patrizi,
Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pag. 207.
[73] Sull’ipotesi di un giudizio risarcitorio ad opera della magistratura ordinaria sotto il
profilo risarcitorio: Salvatore La Rosa, Autotutela e annullamento d’ufficio degli
accertamenti tributari, in Rivista di Diritto Tributario, Giuffrè, 1998, pag. 1157.
[74] “Secondo questa impostazione il legislatore avrebbe dunque configurato il
processo tributario come un processo di impugnazione ma destinato all’accertamento
del rapporto giuridico di imposta, attribuendo al giudice la capacità di conoscere quel
rapporto obbligatorio,al fine di verificare eventuali lesioni della posizione giuridica di
diritto soggettivo del contribuente a non vedere vulnerati i propri diritti patrimoniali”.
Pirrello - Stevanato – Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria, pag.
162.
[75] Le sezioni unite, intervenute per dirimere un conflitto negativo di giurisdizione,
ex articolo 362, comma 2, del c.p.c., tra il TAR del Trentino Alto Adige e la C.T.P. di
Trento, hanno statuito: “…la natura discrezionale dell’esercizio dell’autotutela
tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice
naturale, la cui giurisdizione è ora definita mediante una clausola generale, per il sol
fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati. L’attribuzione al giudice
tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi non
incontra un limite nell’art. 103 Cost.. Infatti,, secondo una costante giurisprudenza
costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a
favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad
altri giudici ( da ultime ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006).
Con la conseguenza che il sindacato del giudice dovrà riguardare, non solo l’esistenza
dell’obbligazione tributaria (ove l’atto di esercizio del potere di autotutela contenga
una tale verifica), ma prima di tutto il corretto esercizio del potere discrezionale
dell’amministrazione, nei limiti e nei modi in cui l’esercizio di tale potere può essere
suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del
giudice all’amministrazione in valutazioni discrezionali, né – per i limiti posti dall’art. 4
della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E – l’adozione dell’atto di autotutela da parte
del giudice tributario.
…l’esercizio del potere in questione, che non richiede alcuna istanza di parte (art. 2 del
regolamento), non costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei
rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti, anche se lo stesso finisce con
l’incidere sul rapporto tributario e, quindi, sulla posizione giuridica del contribuente.
Dai principi sopra enunciati consegue, inoltre, che nel giudizio instaurato contro il
mero ed esplicito rifiuto di esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle
forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non
sulla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita
sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove l’atto di rifiuto
dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa
tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’amministrazione finanziaria dovrà
adeguarsi a tale pronuncia. In difetto potrà essere esperito il rimedio del ricorso in
ottemperanza di cui all’art. 70 del D.Lgs. n. 546 del 1992, con l’avvertenza che tale
norma, a differenza di quanto previsto per l’analogo rimedio dinanzi al giudice
amministrativo ex art. 27, n. 4, del T.U. sul Consiglio di Stato (R.D. 36/06/1924, n.
1054), non attribuisce alle commissioni tributarie una giurisdizione estesa al merito. Il
carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità
dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna
previsione normativa specifica in materia.
Per quanto attiene la problematica della riconducibilità dell’atto impugnato alle
categorie indicate dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, sulla quale la citata sentenza
delle Sezioni unite ha fornito alcune indicazioni, tale problematica, come affermato da
una consolidata giurisprudenza della Corte (da ultima, Sez. Un., ord. N. 22245/06),
non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda. Sarà, quindi,
compito della commissione tributaria verificare se l’atto in contestazione possa
ritenersi impugnabile nell’ambito delle categorie individuate dall’art. 19 del D.Lgs. n.
546 del 1992. In proposito, le Sezioni unite non possono non rilevare che la mancata
inclusione degli atti in contestazione nel catalogo contenuto in detto articolo
comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti
negli articoli 24 e 113 della Costituzione. Infatti, il carattere esclusivo della
giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano
devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della
giurisdizione (Sez. Un., ord. N. 13793/04).” Cass. civ. SS.UU. n. 7388/07.
[76] La giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso che la giurisdizione sul
diniego, espresso o tacito, di autotutela spetti alle commissioni tributarie: Cass. civ.,
sez. un., 16776/2005. “Ciò a seguito della nuova formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. n.
546 del 31/12/1996, come modificato dall’art. 12, comma 2, della legge n. 448 del
28/12/2001, che ad avviso dei giudici romani avrebbe fatto divenire la giurisdizione
esercitata dal giudice tributario “una giurisdizione a carattere generale, competente
ogniqualvolta si controverta di uno specifico rapporto tributario. La riforma del 2001
avrebbe, altresì, comportato una modifica dell’art. 19 del D.Lgs. 546/1992, tanto da
consentire l’accesso al contenzioso tributario di ogni controversia avente ad oggetto
tributi. Inoltre, si dovrebbe ritenere implicitamente abrogato, sulla base
dell’interpretazione della Suprema Corte, il terzo comma del medesimo articolo
secondo cui gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente, con
la conseguenza che l’elencazione degli atti impugnabili ivi contenuti non sarebbe più
tassativa”. Pirrello - Stevanato – Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione
tributaria, pag. 161. Secondo la Consulta, “solo formalmente il ricorso del
contribuente si indirizza contro gli atti dell’amministrazione finanziaria ma, in
sostanza, esso investe il presupposto su cui la detta amministrazione si fonda e cioè la
sussistenza e l’entità dell’obbligazione stabilita dalla legge. Trattasi, com’è stato
rilevato anche in dottrina, di giudizio sul rapporto e non di impugnazioneannullamento: correlativamente, la pronuncia del giudice, che provvede sulla
medesima,
consiste
fondamentalmente
nell’accertamento
della
sussistenza
dell’obbligazione tributaria e, in via consequenziale, nella pronuncia sulla legittimità
degli atti posti in essere dall’amministrazione finanziaria per provvedere alla
riscossione coattiva dell’imposta”: Corte Costituzionale n. 63 del 01/04/1982. Si deve
peraltro rilevare che la stessa Suprema Corte ha negato che si tratti di un atto
impugnabile, in quanto discrezionale: Cass. civ., sez. I, n. 13412/00; Cass. civ., sez.
trib. n. 1547/02. In tal senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con
adesione, conciliazione e autotutela, pag. 201.
Per quanto attiene la giurisprudenza di merito, occorre registrare un contrasto tra
quanto recentemente sancito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Brescia e da
quella di Sondrio. La sezione n. 3, della C.T.P. di Brescia, con sentenza n. 47,
depositata il 21/06/2006, ha sancito che l’esercizio dell’autotutela è una facoltà
dell’amministrazione e non fa sorgere alcun diritto azionabile con il ricorso. Quindi, la
Commissione ha ritenuto di dover pronunciare l’inammissibilità del ricorso proposto
contro il diniego poiché non rientra, peraltro, tra gli atti tassativamente indicati
dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e ciò a maggior ragione se il rapporto tributario
si è gia definito con l’emissione dell’avviso di accertamento non impugnato e, quindi,
definitivo. La sezione n. 2 della C.T.P. di Sondrio, con sentenza n. 41 del 06/11/2006,
ha stabilito, invece, il giudice può annullare il diniego di autotutela e rettificare la
somma richiesta dal Fisco al contribuente con cartella di pagamento.
[77] Il Consiglio di Stato, in netto contrasto con la Cassazione, ha affermato che il
controllo di legittimità sull’operato erariale deve essere esercitato dall’unico giudice a
ciò competente, e cioè il giudice amministrativo. Nel caso di specie, si discuteva del
diniego di sospensione, da parte di una Direzione Regionale, di una cartella di
pagamento, mentre era pendente il giudizio di appello avverso la sentenza di primo
grado che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso; il ricorrente aveva fatto
appello al T.A.R. che si era dichiarato incompetente. Ebbene, per i giudici del Consiglio
di Stato detto provvedimento è espressione non già del potere cautelare in senso
stretto, che accede alla tutela giurisdizionale completandola, bensì del potere
amministrativo di autotutela proprio della P.A.. Tale atto, che proviene dalla stessa
amministrazione finanziaria, mira ad evitare una riscossione che sia sostanzialmente
ingiusta o inopportuna, per l’esistenza di fatti o circostanze che sono oggetto di
esclusiva valutazione, tipicamente discrezionale, dell’amministrazione; poiché si è in
presenza di interessi legittimi, il sindacato sul predetto provvedimento non può che
spettare al giudice amministrativo. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6269 del
09/11/2005.
[78] Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, pag. 173. Manzoni –
Modolo, Manuale breve di diritto tributario, pag. 100.
[79] Sul punto, autorevole dottrina delinea anche dei profili di responsabilità penale e
patrimoniale: “ciò che più attiene l’esercizio del potere di autotutela è il reato previsto
dall’art. 238 del codice penale e, cioè, l’omissione, il ritardo od il rifiuto d’atti d’ufficio
che si configura quando il pubblico ufficiale indebitamente omette, rifiuta o ritarda un
atto dell’ufficio o del servizio…Un esempio di responsabilità patrimoniale
amministrativa è quella di un funzionario che non annulla subito un proprio atto
manifestamente illegittimo e che viene chiamato a rispondere delle eventuali spese di
giudizio poste a carico dell’amministrazione finanziaria”. Patrizi – Marini – Patrizi,
Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, pagg. 221-222.
[80] Lupi, Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo
terzo: I servizi pubblici. Finanza pubblica e privata, a cura di Sabino Cassese, pag.
2682. Sulla configurabilità di una tutela in capo al contribuente che si vede rifiutare
immotivatamente l’esercizio dell’autotutela cfr. TAR Toscana, n. 767 del 22/10/1999.
[81] “Il fondamento e la ragione della decadenza è ispirato unicamente dal fatto
oggettivo della mancanza di esercizio del diritto nel tempo stabilito ed è ispirato
dall’esigenza di limitare nel tempo l’esercizio di un diritto quando ciò sembri
conveniente ad un interesse superiore conseguendone che alla tutela di interessi
superiori tende, precipuamente se non esclusivamente, la decadenza legale in
contrapposizione alla decadenza negoziale che protegge interessi individuali”. Pirrello Stevanato – Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria, pag. 163.
[82] “La violazione da parte delle autorità fiscali, dei limiti legali posti all’esercizio del
potere di annullamento in autotutela, che non differiscono dai limiti posti alle attività
discrezionali della P.A. in generale, comporterebbe l’illegittimità dell’atto sotto il profilo
della violazione di legge, ed in particolare, dell’eccesso di potere. Pertanto, in tale
ottica interpretativa, il giudice non potrà conoscere del sottostante rapporto tributario,
divenuto definitivo, bensì potrà sindacare l’eventuale presenza di vizi nella
comparazione degli interessi in conflitto, effettuata dall’amministrazione. Interessi che
potrebbero essere tra l’altro individuati, in relazione alle caratteristiche del vizio
dell’atto impositivo, all’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici, al tempo trascorso,
nonché, al comportamento del contribuente”.Pirrello - Stevanato – Lupi, Il diniego di
autotutela e la giurisdizione tributaria, pag. 164.
[83] Pirrello - Stevanato – Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria,
pagg. 166-167. Secondo la giurisprudenza amministrativa: “l’indagine del giudice
amministrativo sulla ricorrenza dell’interesse pubblico che giustifica la revoca non può
spingersi oltre la palese erroneità in fatto o la macroscopica illogicità e sproporzione
nella nuova valutazione compiuta, perché resta riservata alla P.A. la scelta di merito
compiuta e la valutazione concreta dell’interesse pubblico tutelato, naturalmente con
l’onere di una puntuale motivazione” Tar Toscana, n. 2285 del 22/06/2004;
“l’esercizio del potere di autotutela richiede la valutazione dell’esistenza di un
interesse pubblico concreto all’annullamento, non identificabile nel mero ripristino
della legalità violata e la sua comparazione con gli interessi privati sacrificati”
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 803 del 30/07/1993; “tuttavia, concordemente si precisa
in giurisprudenza che il provvedimento di annullamento d’ufficio di un atto deve
essere motivato con riferimento all’interesse pubblico attuale solo quando, in relazione
al tempo trascorso dall’adozione dell’atto viziato, si siano consolidate, in concreto,
situazioni soggettive che al fine della loro rimozione necessitano dell’esistenza e
dell’esternazione di ragioni di pubblico interesse diverse da mero ripristino della
legalità” Consiglio di Stato, sez. VI, n. 634 del 27/07/1994.
[84] “Non si tratta, infatti, di postulare un nuovo giudizio sulla pretesa tributaria
divenuta inoppugnabile, con scardinamento dei termini di decadenza previsti per la
proposizione del ricorso, quanto di sindacare il corretto esercizio del potere
discrezionale di autotutela, attraverso un esame di come lo stesso è stato esercitato e
di come sono stati ponderati tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie: il tempo
decorso dalla raggiunta definitività della pretesa, l’esistenza di una vera e propria
patologia della pretesa tributaria, le ragioni che indussero il contribuente a non
proporre ricorso e la sua buona fede, etc.”. Pirrello - Stevanato – Lupi, Il diniego di
autotutela e la giurisdizione tributaria, pag. 170.
[85] “Ci si può invece chiedere se ad un sindacato di questo genere, in cui la posizione
del contribuente è di interesse legittimo e si deve verificare il corretto uso di un potere
discrezionale, non sia più adatto il giudice amministrativo. Mi sembra comunque che si
debba fare i conti con la tendenza giurisprudenziale, emergente anche in altre
vicende, ad allargare i tradizionali limiti della giurisdizione delle commissioni tributarie,
ritenendo in qualche modo superato il principio di tassatività degli atti impugnabili,
come dimostrano anche alcuna recenti sentenze sul fermo degli autoveicoli o in tema
di impugnazione dei rifiuti opposti dalle direzioni regionali alle istanze di
disapplicazione ex art. 37bis, ultimo comma, del D.P.R. n. 600/1973”. Pirrello Stevanato – Lupi, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria, pagg. 170-171.
Contra la giurisprudenza di merito secondo cui il ricorso avverso l’atto di diniego
parziale di autotutela è da ritenersi inammissibile in quanto l’atto non rientra tra quelli
tassativamente indicati dall’articolo 19 del D.Lgs. n. 546/1992. L’autotutela è una
facoltà della pubblica amministrazione che non fa sorgere alcun diritto azionabile con il
ricorso: CTP Brescia, sentenza n. 47/03/2006.
[86] Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 15 del 04/01/2007.