Di Fabrizio Ottaviani: L`ippogrifo e i fantasmi di San Clemente

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Io credea e credo, e creder credo il vero
(Ludovico Ariosto, L’Orlando Furioso) (1)
L’ippogrifo e i fantasmi
di San Clemente
A cavallo nel bosco di Tesserete per la festa medioevale di Redde,
con una descrizione sistematica della specie degli adolescenti
di Fabrizio Ottaviani
E
voi credete ai fantasmi? No?
Aspettate un momento e cambierete idea. Cominciamo spiegando
luoghi e tempi. I capriaschesi il
Carnevale ce l’hanno nel sangue, come i
bellinzonesi e altre popolazioni ticinesi.
I luganesi no; a parte il risotto in Piazza,
quei giorni da noi trascorrono normali, tra
timidi tentativi di ravvivare la festa, però
senza l’attesa spasmodica di quel periodo,
che altrove invece promette e permette
divertimento, grandi ciucche, vendette
e trasgressioni familiari. A Tesserete da
qualche anno esiste un’altra occasione
per mascherarsi: la festa medioevale di
Redde. Ma procediamo con ordine.
San Clemente e la torre di Redde
Tempo fa, prima dei lavori di canalizzazione dei fiumi e di bonifica delle terre, le
nostre piccole pianure erano zone ostili
e paludose: i meandri dei corsi d’acqua
occupavano il territorio, lo invadevano
con le piene ricorrenti e obbligavano
l’uomo a rifugiarsi altrove e a far correre
piú in alto, in zone piú sicure, le poche
vie di comunicazioni allora esistenti. Cosí
sulle colline tra Comano e Tesserete era
tracciata un’importante via di traffico che
collegava il lago di Lugano alle regioni a
settentrione. Lí, nel mezzo di quella che
oggi è una vera e propria foresta, era situato il paesino di Redde (o Rede). Il villaggio era edificato sulle alture a sud-est
Verso
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VIVERE LA MONTAGNA
la
Torre
di
Redde
dell’attuale comune di Vaglio, in una zona
ora boschiva, ma che allora era libera da
alberi e coltivata, come ben si può notare
dal terrazzamento del territorio. Aveva
una certa consistenza, posto cosí com’era
lungo una arteria importante per il commercio. Improvvisamente però il villaggio è svanito nel nulla, quasi per incanto.
Leggiamo in un bell’articolo di Ely Riva (2)
che “era dominato da una torre che esiste
tuttora. E nei pressi della torre sorge la
chiesa di San Clemente, che è citata nel
Liber Notitiae Sanctorum Mediolani del
XIII secolo: De sancto Clemente est ecclesia in loco retre plebis de Greviasca. Un
documento del 1310 attribuisce la torre al
casato dei Rusca di Como. Di Redde non
si ha piú notizia dal XVI secolo, ciò che fa
supporre la sua scomparsa prima ancora
della peste del 1583, forse probabilmente
ad opera dell’epidemia che ha colpito la
regione nel 1484.” . La torre è stata riattata ultimamente grazie all’opera della Fondazione che porta il suo nome, si sviluppa
su tre piani, i cui pavimenti non esistono
piú, è alta quindici metri e ha una pianta di
circa cinque metri per sette. Lungo le sue
mura si aprono finestre ad arco e feritoie,
mentre il tetto è crollato da tempo. Come
ci spiega ancora Ely Riva (2) “gli angoli e i
profili delle finestre e dell’entrata sono
A
sinistra: la
Torre
di
Redde.
di granito ben lavorato, mentre il grosso
delle mura, che alla base misurano un
metro di spessore, è fatto di pietre di provenienza locale.” Al giorno d’oggi si trovano ancora, oltre alla torre e all’oratorio,
anche le fondamenta di diverse case. La
chiesetta attuale risale in realtà al periodo
barocco, è stata ricostruita sopra quella
medioevale e si trova ai margini di una radura circondata da un bel bosco di faggi.
È dedicata al Papa Clemente I, un romano
discepolo di San Paolo, nominato vescovo
da San Pietro ed eletto al soglio pontificio
nell’88; questo santo è conosciuto per alcuni miracoli e per una lettera ai Corinzi,
il primo testo che afferma la superiorità
del vescovo di Roma su tutte le chiese
sparse per il mondo. Le abitazioni invece
sono sulla collina poco piú a nord, dove si
indovina la struttura dell’insediamento, i
cui bassi muriccioli superstiti sono ormai
tutti invasi dalla vegetazione. In questa foresta, magica per la sua storia e per il suo
aspetto, si intersecano numerosi sentieri
e tracce, ben conosciuti da chi approfitta
di questa natura singolare per effettuare
passeggiate, a piedi o a cavallo, per correre lungo il percorso-vita o per pedalare in
rampichino. Le nostre selve sono in gran
parte castagneti o sono miste, spesso
ripide, quasi sempre non curate, fitte e
con un sottobosco di cespugli e rovi impenetrabili. A Redde no, è tutto diverso: si
tratta in gran parte di una faggeta, leggermente collinare, che, tutta a dossi e avvallamenti, a secondo dello sporgere e del rientrare di quelli, viene, quasi ad un tratto,
a restringersi (per dirla alla Manzoni), ma
almeno nella parte centrale è piuttosto
larga e senza grossi dislivelli. Sembra la
foresta di Sherwood, quella di Robin Ho-
Campestro
Bigorio
Lopagno
ASCA
Lugaggia
Vaglio
Torre di
Redde
Carnago
cartina: Marina Susinno
C
RI
AP
Cagiallo
te
Tesserete
Fiume Cassara
Sala
Magiche
a tm o s f e r e t r a i f a g g i .
od. Il luogo è anche particolare per via di
certe leggende che vi aleggiano e di cui vi
dirò dopo. Negli ultimi tempi la zona è stata valorizzata (o banalizzata?) dalla costruzione di una strada forestale, larga e agevole, che da Vaglio sale dolcemente con
ampie curve e raggiunge la radura di San
Clemente, collegandosi alle altre vie, piú
antiche e modeste, che da qui si dipartono in varie direzioni. Tra le iniziative pensate per ravvivare e far conoscere questa
regione vi è anche l’organizzazione di una
festa campestre in settembre, a tema
storico, appunto la festa medioevale: tra
la chiesetta e la torre viene realizzato un
“villaggio” di legno, con portali d’ingresso,
cambiavalute (nel villaggio si paga con moneta locale, il “Redde”), bancarelle di prodotti vari, taverne, recinti con animali da
cortile e cavalli, carri e carrozze messi a
disposizione dei bambini e delle famiglie.
Sí, perché quella è anche la festa delle famiglie, per lo piú dei paesi circostanti, che
qui si radunano per trascorrere bellissimi
momenti in un mondo fatato.
I fantasmi di San Clemente
Anche noi abbiamo voluto essere della
partita, rinverdendo i ricordi della gioventú, quando quella foresta, non ancora
cosí conosciuta, era il nostro territorio
del tempo libero: di giorno a cavallo, ci
venivamo partendo dalla scuderia di Cureglia, di notte era il territorio di innocenti
scorribande, di campeggi disorganizzati e
di prove di coraggio. Ma soprattutto era lo
VIVERE LA MONTAGNA
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L’ippogrifo e i fantasmi di San Clemente
In
cima al
Sasso Scuro.
scenario di una leggenda – e forse anche
di qualcos’altro - assurta in quegli anni ad
una certa notorietà: la storia dei fantasmi
di San Clemente, che noi abbiamo vissuto piú volte in prima persona, nelle notti
di luna di alcuni decenni fa. Questo mito
è nato sulla scia di altre e piú note favole
locali, come quella della contessa Crassa
o del Gallo Basilisco; ma soprattutto pensando agli abitanti del villaggio cancellato
dalla peste, le cui anime forse si aggiravano ancora nei dintorni, si è cominciata
a diffondere la voce che in quei boschi, di
notte, succedevano fatti strani. E con il coraggio e la curiosità dell’età avevamo deciso di scoprire cosa ci fosse di vero, senza
sapere ancora quello che ci sarebbe presto successo. Spesso ci siamo addentrati
circospetti nella boscaglia, sperando, o
un po’ temendo, di incontrare qualcuno, sempre restando delusi. Finché una
notte... Ma vi lascio al resoconto di come
si svolgevano quelle spedizioni.
La serata iniziava in qualche ritrovo
pubblico, quasi sempre il Morandi di via
Trevano. Deciso che quella era la sera
giusta, un gruppetto di ragazzi partiva per
San Clemente, dove verso mezzanotte (e
a che ora, se no?) si arrivava guardinghi,
avvertiti di quello che – forse – si sarebbe visto e sentito. Già durante l’avvicinamento tra le piante buie, i rumori e i versi
degli animali notturni e l’idea del villaggio
distrutto dalla peste creavano l’atmosfera, caricata opportunamente dalla guida
del drappello di curiosi. A poco a poco
tra gli alberi appariva la torre di Redde,
alta e severa, suscitando già i primi patemi; superata quella, subito dopo, quando
i malcapitati arrivavano nei pressi della
radura della chiesetta, la luce della luna
illuminava la facciata bianca e contribuiva
alla drammaticità della scena. Dapprima
molto discreti, poi sempre piú marcati,
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VIVERE LA MONTAGNA
avvenivano i fenomeni: fugaci passi nella
notte, tonfi sordi, versi striduli; quando
l’ambiente era ormai pronto, ecco, inaspettati e inspiegabili, i lugubri rintocchi
della campana, i bagliori sinistri, e a volte
l’apparizione di una figura gigantesca, apparentemente un monaco con una lanterna, che usciva dall’edificio e spariva tra gli
faggi. I piú coraggiosi osavano avvicinarsi,
ma solo per constatare che non vi era nessuno, che la porta della chiesa era chiusa,
che nessuna corda pendeva dal campanile
per giustificare i rintocchi della campana.
Mistero assoluto, gran divertimento, timore dell’ignoto e del paranormale, sovente vere crisi di panico e di nervi dei piú
influenzabili. Il giorno dopo ci si riuniva,
ognuno raccontando quanto aveva vissuto.
Una, due , tre volte, la fama dei fantasmi
di San Clemente cresceva e si diffondeva, se ne parlava a scuola e nei gruppi di
giovani, molti andavano a vedere, ma non
era la sera “giusta” e non succedeva nulla.
Persino un gruppo di studenti nordalpini,
del Politecnico di Zurigo, aveva deciso di
risolvere il mistero, e si era accampato sul
posto, animato dalla razionalità dell’origine teutonica e dello studio intrapreso.
Armati di venti secoli di cultura occidentale, ma anche di randelli, perché non si sa
mai, gli studenti avevano a lungo inseguito
l’origine dei fenomeni, arrivando vicino
alla spiegazione, ma senza raggiungerla
veramente. Noi, giovani cavalieri latini,
qualche dubbio l’avevamo (o forse sapevamo qualcosa di piú... ?). Tornati a casa,
ci ripensavamo, combinando i ricordi delle vere cavalcate della giornata con i miti e
con le paure della notte, e avevamo visioni
di frati medioevali, di crociati, dello sceriffo di Nottingham e di cavalli alati.
Non è finto il destrier, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo; ... (3)
Alla festa medioevale
E cosí, a distanza di anni, per rivivere questi luoghi, nel settembre dell’anno scorso
abbiamo deciso di partecipare alla festa,
raggiungendo Redde a cavallo. Con parte della famiglia in sella e gli altri a piedi,
accompagnati da diversi altri ragazzi e ragazze che si alternavano in groppa, perché
ormai i figli senza amici non si muovono,
abbiamo iniziato questa avventura piena di
ricordi personali e di storia della regione.
Abbiamo trasportato i nostri “ronzini” dalla scuderia in Val Colla fino a Tesserete,
dove abbiamo parcheggiato nel posteggio della caserma. Scaricati i cavalli dal
rimorchio, li abbiamo preparati e sellati
con l’aiuto dello stuolo di ragazzini e siamo partiti. Dapprima abbiamo risalito la
nuova stradicciola che porta alla piscina
pubblica, siamo passati accanto al Sasso
del Diavolo (altra leggenda capriaschese,
I
magnifici faggi della zona di
Redde.
ta, una chiacchiera e vari incontri (la bella
giornata aveva convogliato in quel luogo
praticamente tutte le famiglie della zona
che conoscevamo), il tempo trascorreva e
occorreva metter fine ai giochi dei bambini e alle chiacchiere delle ragazze, prese
dai primi conflitti adolescenziali. Avete dei
figli teenager? Permettetemi perciò una
divagazione, una descrizione degli adolescenti, svolta con il metodo della tassonomia di Linneo, vale a dire il metodo di
classificazione degli esseri viventi.
La
piazza del villaggio.
su cui oggi non mi dilungo), poi nella campagna dietro a Vaglio abbiamo costeggiato
la fattoria protetta La Fonte; per complicarci la vita non abbiamo imboccato subito
la comoda strada forestale, ma abbiamo
divagato per il castagneto, dovendo evitare zone di cespugli inestricabili e superare alcune ripide scarpate. Dopo questa
deviazione durata pochi minuti (perché
il bosco, per quanto fra i piú estesi del
Sottoceneri, non è la foresta amazzonica), abbiamo raggiunto la strada sterrata,
lungo la quale scorreva un flusso ininterrotto di gitanti diretti alla festa, e abbiamo
oltrepassato molte famiglie con bambini e
passeggini. Prima dell’ultimo tornante siamo usciti dalla via maestra seguendo una
traccia che si inoltrava sotto rami bassi,
fino al Sasso Scuro, dove ci siamo concessi una breve pausa. Si tratta di una piccola
altura rocciosa, una specie di pulpito, d’un
lato appena rilevata, circondata dalla selva
castanile, ma da cui si gode una discreta
vista sulla valle del Cassarate. Il “proprietario” vi ha costruito una misera baracca
e un recinto di legno, ciò che fa assomigliare il posto ad un accampamento di un
vecchio cercatore d’oro o, per restare in
tema, di un eremita del Medioevo. In cima, tra le roccette, l’acqua piovana forma
delle piccole pozze e i cavalli allungavano
il collo per dissetarsi. Da giovane ci venivo
per trascorrere qualche momento di solitudine, con Gringo, il mio baio di allora,
mangiando un po’ di pane e formaggio.
Stavolta, scattata qualche foto, siamo subito rientrati sulla strada, ripercorrendo
la via dell’andata, ma l’abbiamo presto
riabbandonata per il sentiero che aggira a
oriente l’altura sovrastante la nostra meta
e, costeggiando le rovine del villaggio, ossia quei resti di muri di cui dicevo prima,
siamo scesi alla radura di San Clemente.
Era ormai l’una e sul posto una moltitudine di gente si affaccendava intorno alla
chiesa e per le vie del villaggio di legno,
accalcandosi ai banconi dove si servivano bibite e vivande, intenta ai giochi, alle
contese sportive come il tiro con l’arco,
il palio delle galline o i giretti sui pony o
in carrozza. Attraversata con prudenza
la piazza del villaggio, poco piú oltre abbiamo ideato un percorso ad ostacoli tra
gli alberi, con salti di tronchi e fascine di
rami. Quindi abbiamo dissellato i cavalli
e, sorvegliandoli a turni, ci siamo addentrati nel villaggio, sempre attorniati da
numerosissimi bambini, tra le bancarelle
che offrivano miele, marmellate, salumi e
formaggio, oltre a oggetti d’artigianato e a
bevande in quantità. Una lunga attesa ci ha
concesso infine delle ottime costine alla
griglia e addirittura il gelato. Tra una bibi-
La
chiesa di
San Clemente.
L’adolescente
L’adolescente è un animale antropomorfo, appartenente alla classe dei mammiferi, all’ordine dei primati e, anche se può
sembrare incredibile, alla famiglia degli
ominidi. Il corpo è bipede, implume, ritto,
di curvo dorso, di capo storto. Nel maschio
la testa è incappucciata e il tronco coperto
da un sacco increspato, ottuso-troncato,
imbutiforme, tranne alcune specie che
han testa, mani e piedi nudi. Il viso è senza barba, per lo piú punteggiato di punti
rossastri, corolla sformata, pelosa, continua, capello superiore arruffato di colore
bruno, inferiore piú chiaro. Porta brache
larghe, basse, a coprire garretti setoluti,
cappuccio lasso e largo, nero sopra e grigio sotto, negli esemplari piú giovani anche con sfumature di colore. È un animale
timido, pigro, sitibondo e spesso affamato, in ogni caso piú paziente di fame che di
fatica; difficilissimo nella scelta del vitto,
si ciba in certe circostanze di carne, ma
Robin Hood
a
San Clemente.
VIVERE LA MONTAGNA
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L’ippogrifo e i fantasmi di San Clemente
I
giovani partecipanti.
disdegna ogni pietanza che non conosce,
limitandosi a nutrirsi sempre di quei due
o tre alimenti che gli sono usuali, in particolare è ghiotto di una strana emulsione al
cacao e nocciole, che spalma e divora con
voluttà. All’uscita di scuola, al vespro o negli
esemplari piú maturi di notte, si riunisce
in branchi nei luoghi d’incontro, gridando
e schiamazzando senza ritegno, con voce a
volte profonda, a volte stridula. Nella tana,
invece, codesto ragazzone è molto legato
alla madre, alla quale si rivolge per qualsiasi minimo bisogno, anche inutile, sapendo
che otterrà servizievole e devoto aiuto. Ha
andatura ingobbita, lenta e ciondolante e se
non viene pungolato trascorre le giornate
nell’ozio o nel gioco virtuale. La femmina
somiglia al maschio, fuorché ha testa con
capello lungo, castano, diritto, con ciocche
tinte di chiaro. Ha mani, addome e reni nudi, piedi altocalzati, bianchi; fronte, gote e
mento punteggiato, in certi soggetti naso
forato e corpo sovente cosparso di tatuaggi, dei quali presto si pente. Presenta corti
indumenti sulla parte superiore del corpo,
da cui fuoriesce il ventre, soprattutto nei
soggetti piú dotati di grasso, brache strette
e basse a cingere la parte inferiore. Quando piove si copre con bizzarri indumenti
che si inzuppano velocemente, mentre con
la canicola soffre pur di non vestirsi diversamente dalle altre. Chiacchiera di continuo, soprattutto se in compagnia numerosa; adotta il metodo del cosiddetto “cerca e
sparla”, che consiste nel riunirsi in stormi
di coetanee, ma subito dopo bisticciare
e separarsi, a coppie o gruppetti, parlando male delle altre. In vicinanza di giovani
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VIVERE LA MONTAGNA
maschi cambia condotta, assume movenze
simili a quelli di un noto pennuto bianco, alza la voce e irrita le amiche. Non si distacca
mai da uno strano aggeggio munito di tastiera, con il quale condivide ogni attimo della
giornata. Picchietta velocemente con le dita
sui tasti, comunica con le compagne, anche
presenti, tramite messaggi scritti, scambia
in continuazione melodie e immagini. Se ha
in mano tale apparecchio, perde la facoltà
di raccontare a voce. A differenza del maschio è in maggioranza erbivora. Manifesta
un atteggiamento estremamente possessivo in relazione a persone, animali o oggetti,
che ritiene di suo esclusivo dominio. Non
ha mezze misure, è facile ai cambiamenti di
umore e di affetti. È piú svelta del maschio
e se si accorge di essere osservata si mette
in posa all’istante. Ha andatura veloce, serpeggiante e procede appaiata, soprattutto
per recarsi in bagno. (4)
Ecco, questa è la descrizione dei nostri ragazzi. A parte gli scherzi, è davvero un’esperienza particolare quella di un padre confrontato con il comportamento delle figlie
in crescita. Ora fan le grandi, ora sono proprie delle bambine; vogliono stare tra di loro senza genitori, ma presto hanno bisogno
di aiuto e appoggio. Mostrano gli atteggiamenti tipici della femminilità tradizionale,
come le infinite discussioni sulla bellezza
o la gelosia per amici e anche cavalli. In fin
dei conti, restando in compagnia dell’Ariosto, avrei potuto intitolare questo scritto:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le
cortesie, l’audaci imprese io canto (5) oppure, con un po’ di ironia maschilista: A donna
non si fa maggior dispetto, / che quando o
vecchia o brutta le vien detto (6), e mi sarei
ritrovato in pieno Medioevo, con i Paladini
di Carlo Magno.
Il ritorno e il rientro a casa
Invece eravamo nel 2008, a pomeriggio
inoltrato, in mezzo al bosco. Si avvicinava infatti l’ora del rientro: radunati tutti i
nostri giovani accompagnatori (compito
questo tutt’altro che facile) e sellati gli
ippogrifi, pardon, i cavalli, siamo ripartiti
aggirando ancora piú ad est la zona, ossia
tornando dal percorso-vita (è vero, non
si potrebbe, ma ormai eravamo finiti lí e
ritornare era piú arduo ancora). Lungo il
sentiero, ormai battuto e scavato dal passaggio delle biciclette (che anche loro in
realtà non potrebbero circolare su quella
via), abbiamo affrontato diversi passaggi
rocciosi o con molte radici affioranti e
abbiamo dovuto superare tre o quattro
stretti ponticelli di legno, con gli oli santi
in tasca per le assi che si piegavano sotto
il peso dei nostri quadrupedi. Ho già scritto prima che quella di San Clemente non
è la foresta tropicale, ma non è nemmeno
troppo piccola; soprattutto è un reticolo
di sentieri ingannatori, che si intrecciano
e che facilmente ti portano a Lugaggia,
mentre tu volevi andare a Vaglio. Per fortuna i ricordi del tempo passato ci hanno
aiutato almeno a non sbagliare direzione;
poi, grazie anche alle indicazioni di un gentilissimo anziano jogger, siamo finalmente
sbucati dagli alberi poco sopra la piscina
e siamo rapidamente scesi al posteggio.
Ricaricati i cavalli sul trailer, dopo i saluti
e le foto di gruppo, siamo ripartiti con il
nostro convoglio, riportando i destrieri
in scuderia. La sera a casa, a letto, i pensieri si accavallavano (e che altro verbo
dovrei usare?) nelle nostre menti, e dinanzi ai nostri occhi ritornavano la Torre,
il villaggio, i cavalli, i frati, il basilisco e i
fantasmi degli abitanti di Redde.
Ma... ma... cos’è questo scricchiolío che
si sente? E quel verso? Sembra provengano dalla camera accanto. Ma no, non
è possibile, non ci credo. La maniglia si
abbassa, la porta si schiude lentamente
cigolando, il cuore procede a tuffi. Attenti, sta entrando qualcuno, o qualcosa.
Un’ombra, la porta è quasi aperta, ecco,
lo sto per vedere, è proprio lui, è il...
Un urlo. Poi piú nulla, il silenzio ripiomba
improvviso nella stanza.
s
Note
Da L’Orlando Furioso, di Ludovico Ariosto, 9° canto, 23a ottava.
Articolo apparso sulla Regione del 29 agosto 2008, per la serie “Alla scoperta del territorio”.
(3)
L’Orlando Furioso, 4° canto, 18 a ottava
.
(4)
Cfr. Giovanni Fisiofilo, La monacologia, ossia Descrizione metodica dei frati, Le edizioni de Gli antipodi, Roma.
(5)
Sempre L’Orlando, i primissimi versi del poema.
(6)
Medesimo poema, canto 20°, 120a ottava.
(1)
(2)
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