SLEGARE IL TERZO SETTORE (*) Stefano Zamagni 1. Motivazione e introduzione Il Terzo settore italiano è a tutt’oggi, in buona parte, un Prometeo incatenato, per usare l’efficace espressione dello storico americano David Landes. Non ritengo probabile, e tanto meno auspicabile, che il potenziale di sviluppo di questo straordinario mondo vitale rimanga ancora a lungo così inespresso come è stato finora. Bisogna dunque adoperarsi per slegare questo Prometeo e per riuscire nell’impresa è urgente liberarlo da lacci e costrizioni varie di natura sia giuridiconormativa sia economico-organizzativa ed anche, e forse in prevalenza, di natura culturale. In questo capitolo introduttivo discuterò delle condizioni da soddisfatte e dei nodi che devono essere sciolti se si vuole che il Terzo settore della post-modernità possa adempiere al suo compito primario che è quello di concorrere a forgiare il carattere umano e così di contribuire ad assecondare il progresso morale e civile del paese. Per paradossale che ciò possa apparire, è la penna di un grande studioso di management – l’americano Peter Drucker – a ricordarcelo in un saggio di oltre un ventennio fa: “Non a scopo di lucro, non imprenditoriale, non governativo sono tutte definizioni negative, ed è impossibile definire qualcosa dicendo ciò che non è. Cosa fanno, dunque, tutte queste istituzioni? Innanzitutto, ed è una scoperta recente, hanno in comune l’obiettivo di “cambiare” gli esseri umani: il prodotto di un ospedale è un paziente curato, quello di una Chiesa è una vita nuova, quello dell’Esercito della Salvezza è un derelitto che finalmente diventa un cittadino…. Il nome più giusto sarebbe dunque istituzioni per il cambiamento umano. Ogni paese industrializzato espleta questo tipo di funzione, ma quasi sempre lo fa per mezzo di enti statali centralizzati. Ciò che distingue gli Stati Uniti è che tali funzioni vengono esercitate all’interno e da parte della comunità e, nella grande maggioranza dei casi, da organizzazioni autonome, autogovernate e locali” (Economia, politica, management, Milano, Etas, 1993). Le idee qui sviluppate e le proposte avanzate, pur impegnando unicamente l’autore, sono il frutto maturo dell’intensa frequentazione con i colleghi del Consiglio dell’Agenzia per il Terzo Settore e con tutti i componenti della struttura durante gli anni della sua seconda consigliatura. Lo spirito da “collegio invisibile” che, sin da subito, si è instaurato all’interno dell’Agenzia ha fatto sì che la benefica diversità di opinioni e di punti di vista generasse una vera convergenza verso l’unità di visione e di azione. Di questo desidero dare piena testimonianza ed esprimere a ciascuno sincera gratitudine. * 1 Chiaramente, all’illustre economista d’impresa sfugge che non gli Stati Uniti ma l’Italia dell’Umanesimo civile è il luogo in cui hanno preso avvio ed hanno iniziato ad operare quelle “istituzioni per il cambiamento umano” che oggi chiamiamo Terzo settore. E’ a partire, infatti, dal XIV secolo che inizia a prendere forma quel modello di civiltà cittadina per il quale l’Italia è giustamente famosa nel mondo. (Per i riferimenti puntuali e per una storia di lungo periodo delle organizzazioni della società civile, rinvio a L. Bruni, S. Zamagni, Economia Civile, Bologna, Il Mulino, 2005). Il fine ultimo al quale mirano queste pagine è quello di portare argomenti a sostegno della seguente tesi. Come oltre due secoli fa, al tempo della prima rivoluzione industriale, fu la nascente classe borghese ad inaugurare la nuova stagione, rompendo il vecchio equilibrio sociale centrato sull’aristocrazia e sulla classe dei rentiers, così oggi sarà una nuova classe di imprenditori sociali e civili e il complesso dei soggetti della società civile portatori di cultura a trovare la soluzione ai nuovi problemi dell’attuale fase di sviluppo. Penso, in particolare all’aumento scandaloso delle disuguaglianze che procede di pari passo con l’aumento della ricchezza; al paradosso della felicità – il fatto cioè che al di sopra di un certo livello di reddito pro-capite, ulteriori aumenti dello stesso provocano una diminuzione dell’indice aggregato della felicità pubblica; alle difficoltà crescenti per risolvere il problema dei commons (i beni di uso comune); alla divaricazione in aumento continuo tra mercato e democrazia. Si pensi anche al nuovo welfare di cui tanto si va parlando di questi tempi: esso non verrà né dal privato for profit né dagli apparati politico-amministrativi della sfera pubblica, ma dalla fioritura dell’area del civile la quale però dovrà conquistarsi quello spazio che ancora non occupa. Il Novecento ha cancellato la terziarità nella sua furia costruttivista. Tutto doveva essere ricondotto o al mercato o allo Stato o tutt’al più ad un mix di queste due istituzioni basilari a seconda delle simpatie ideologico-politiche dei vari attori societari. E’ oggi diffuso il convincimento secondo il quale il paradigma bipolare “stato-mercato” abbia ormai terminato il suo corso storico e che ci si stia avviando verso un modello di ordine sociale tripolare: pubblico, privato, civile. Una conferma autorevole ci viene dalla riforma del 2001 del Titolo V della nostra Carta Costituzionale, laddove si afferma esplicitamente che anche i singoli cittadini e i corpi intermedi della società (art.2) hanno titolo per operare direttamente a favore dell’interesse generale e dunque devono essere posti nelle condizioni concrete di poterlo fare. La modernità si è retta su due pilastri: il principio di eguaglianza, garantito e legittimato dallo Stato; il principio di libertà, reso fattivamente possibile dal mercato. La post-modernità ha fatto emergere l’esigenza di un terzo pilastro: il principio di reciprocità, che è la cifra delle organizzazioni della società civile, cioè del Terzo settore. 2 In quel che segue, mi occuperò dapprima della questione definitoria: quale definizione adottare per il Terzo Settore se si vuole che esso svolga i compiti suggeriti dalla tesi di cui sopra. Passerò poi a trattare il tema dell’identità specifica del volontariato e del suo compito primario. Successivamente, volgerò l’attenzione alle implicazioni che discendono dal visualizzare il Terzo settore come fenomeno emergente anziché come realtà additiva. Da ultimo, mi soffermerò sulla questione dell’ancoraggio etico del Terzo settore e sulla necessità di arrivare a definire una metrica per misurare il valore aggiunto sociale. Non scenderò in questa sede sulle implicazioni di ordine pratico che discendono dai vari argomenti sviluppati, né mi attarderò più di tanto sulle proposte operative che un Libro Bianco sempre deve offrire. Ad entrambi gli scopi provvedono i capitoli del presente volume, ai quali farò rinvio di volta in volta. 2. La questione definitoria 2.1 E’ noto che le tante definizioni di Terzo settore riscontrabili nella letteratura dell’ultimo quarto di secolo fanno quasi tutte esclusivo riferimento a tre termini, che costituiscono altrettanti elementi di distinzione: chi; cosa; perché. Quanto a dire che i vari enti non profit si differenziano tra loro o per l’elemento soggettivo (chi sono gli attori) o per l’elemento oggettivo (la specifica attività svolta o il settore di intervento) o per l’elemento teleologico (il fine particolare che l’ente si propone di conseguire) oppure ancora per una combinazione di tutti e tre gli elementi. Ciò che questa prassi classificatoria lascia in ombra è un quarto termine: come; vale a dire il modo in cui il soggetto di cui trattasi cerca di conseguire il fine che dà senso alla sua missio nel particolare settore di intervento in cui ha deciso di operare. Eppure, in un mondo come quello del Terzo settore, il come si produce (o si opera) è altrettanto importante del cosa e del perchè si produce. Per rendersene conto, valga il seguente esperimento mentale. Si ponga a confronto l’attività di una fondazione con quella di una associazione di promozione sociale. Può accadere, come è dato di osservare, che entrambe le figure giuridiche si rivolgano agli stessi portatori di bisogni, si occupino di fornire i medesimi servizi e siano costituite dalla stessa tipologia di persone. Dove risiede allora la differenza? Nel come i due tipi di enti operano nel concreto: mentre l’associazione agisce sulla base del principio di democraticità – l’associazione, infatti, è un libero coerire di persone che si organizzano per raggiungere un fine comune – la fondazione non consente la partecipazione democratica e ciò per l’ovvia ragione che la fondazione è un fondo di risorse (monetarie e non) per uno scopo, gestito secondo regole fissate dal fondatore (privato o pubblico che sia). Un Terzo settore costituito esclusivamente (o anche prevalentemente) di soggetti 3 fondazionali non costituirebbe certo un avanzamento sul fronte del progresso civile di una comunità, anche se sul fronte dell’efficienza e dell’efficacia il modello fondazionale potrebbe assicurare risultati superiori a quello associativo. La democrazia, infatti, è un valore finale, un valore cioè che appartiene all’ordine dei fini; l’efficienza invece è un valore strumentale che appartiene all’ordine dei mezzi. Non è dunque lecito istituire trade-off tra democrazia e efficienza: la logica dello scambio ha senso ed è ammissibile solamente se applicata a termini che appartengono al medesimo ordine di cose. La conseguenza che traggo da quanto precede è che la pluralità delle figure giuridiche nel Terzo settore è un bene che il legislatore deve difendere ad ogni costo, anche contro i tentativi, di tanto in tanto ricorrenti, di procedere ad una sorta di reductio ad unum. Il modo di agire (il come) di fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative, cooperative sociali, imprese sociali è necessariamente diverso l’uno dall’altro ed è questa diversità ad assicurare la spinta propulsiva del Terzo settore. Guai dunque a lasciarsi abbacinare da quel pensiero unico che, in nome di un’errata concezione del principio di efficienza, suggerisce di procedere a cosiddette semplificazioni del quadro normativo operando per mezzo degli incentivi fiscali o di strumenti regolamentari. Ciò costituirebbe un pericoloso regresso, dal momento che se si guarda alle origini e agli sviluppi delle organizzazioni della società civile (OSC), è possibile individuare, all’interno di questo vasto mondo una pluralità di modelli identitari, che a loro volta determinano logiche diverse di funzionamento e di gestione. Tenere conto di ciò è rilevante, oltre che ai fini della governance interna, anche in riferimento al tipo di relazioni che i soggetti del Terzo Settore intrattengono con le altre sfere della società. Tre sono, in particolare, i modelli identitari che è possibile individuare (Cfr. S. Zamagni, Il Terzo settore nel nuovo welfare, Reggio Emilia, Diabasis, 2010). Il modello di più antica apparizione, vede le OSC come espressione diretta della società civile, cioè come libera adesione di persone ad un progetto da realizzarsi in comune per perseguire interessi collettivi, ancorche’ non universalistici. Al fondo di tale modello troviamo l’accettazione esplicita della sussidiarietà orizzontale, così come questo principio ha iniziato ad affermarsi all’epoca dell’Umanesimo civile (XV secolo) per poi trovare una prima sistemazione formale in Ugo Grozio oltre che in Luis Althusius già nel 1615. Un secondo modello che vede le OSC come emanazione e supporto della sfera pubblica (da non confondersi con la sfera politica). Rientrano in tale quadro le realtà nonprofit create da soggetti collettivi/categoriali istituzionalizzati (es. il sindacato che crea cooperative sociali; Enti Locali che promuovono la nascita di ONP; enti pubblici locali trasformati in fondazioni di partecipazione etc.). Il principio regolativo di tale modello è il decentramento, cioè la sussidiarietà verticale: “Non faccia lo Stato ciò che possono fare gli enti di livello inferiore e i 4 soggetti della società civile”. Si noti la differenza: mentre con la sussidiarietà verticale si ha una cessione di quote di sovranità, con la sussidiarità orizzontale si ha una condivisione di sovranità. Infine, il modello di più recente affermazione vede il Terzo settore come espressione diretta del settore for profit. Rientra in questo ambito la recente e diffusa pratica di creazione di ONP specialmente di fondazioni di impresa- da parte di imprese for profit. Si pensi al corporate philanthropy che si sta diffondendo anche nel nostro paese. Alla base di tale modello troviamo il “principio di restituzione”: il soggetto for profit “restituisce” alla società una parte del profitto conseguito, perché quest’ultimo è stato ottenuto anche grazie alla esternalità che la società è stata in grado di porre a disposizione dell’impresa. Un esempio recente e notevole di tale modello è costituito dal progetto “giving pledge” (impegno di dare) promosso negli USA da Bill Gates e Warren Buffet, finora sottoscritto da una cinquantina di miliardari che si sono impegnati a devolvere fino al 50% del loro patrimonio a favore di cause socialmente rilevanti. L’indagine storica delle dinamiche di ibridazione dei tre modelli identitari, per un verso, ci testimonia una contaminazione reciproca degli stessi, e per l’altro verso, dice dell’esigenza di comprendere il senso, cioè la direzione del movimento. La legislazione comunitaria europea viene assumendo sempre più, negli ultimi anni, un ruolo cruciale per lo sviluppo e la diffusione delle OSC, sancendo opportunità di crescita e ponendo inevitabili vincoli organizzativi, che vanno ad incidere, in maniera, a volte massiccia, sull’identità dell’organizzazione stessa. La questione cruciale con cui è urgente fare i conti è allora decidere se si vuole che i diversi modelli si pongano tra loro in modo conflittuale così che alla fine un solo modello sarà nei fatti destinato a prevalere, oppure si vuole che essi possano coesistere. (Cfr. P. Donati (a cura di), Verso una società sussidiaria, Bologna, Bononia University Press, 2011). 2.2 Non è difficile cogliere le implicazioni delle due alternative. Scegliere la prima significa, di fatto, favorire la dominanza, a lungo andare, del terzo modello identitario. Ora, chi ritiene – e chi scrive è tra questi – che vi siano ragioni forti per ritenere non desiderabile un esito del genere deve esprimersi a favore della seconda alternativa. Ma quali sono queste ragioni forti? Ne indico due. La prima di queste chiama in causa quel principio personalista che l’Assemblea Costituente volle porre a fondamento della nostra Carta Costituzionale, preferendolo sia al principio individualista sia a quello collettivista. Fu Giuseppe Dossetti con un ordine del giorno del 9 settembre 1946, nella prima sottocommissione della Commissione dei Settantacinque a ottenere il consenso su tale principio. Conviene riportare il brano di straordinaria chiarezza e lungimiranza: “La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei 5 diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri ad una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali, ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche cui il nuovo statuto dell’Italia debba soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana… rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità… e quindi per tutto ciò in cui tutte quelle comunità non bastino, lo Stato; c) che perciò affermi sia l’esistenza dei diritti fondamentali delle persone sia dei diritti della comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”. Come si può intendere, si tratta di parole che si commentano da sole e che dicono quanto distanti siano tra loro spirito e lettera del Libro I, Titolo II del Codice Civile del 1942 e quelli della Costituzione. Basterebbe questa osservazione per giustificare l’urgenza della riforma del Codice Civile, rimasto ancorato ad una impostazione di natura concessoria. La seconda ragione ha a che vedere con la dimensione giustificativa delle OSC. Come noto, il proprium di queste organizzazioni è quello di creare valore sia strumentale misurato dai beni e servizi prodotti – sia espressivo – le OSC consentono a coloro che in esse operano di esprimere la propria identità attraverso le opere. Il valore strumentale è misurato in termini di efficienza e di efficacia; il valore espressivo (o simbolico) delle OSC è misurato, invece, dalla loro capacità di produrre significati e di soddisfare il bisogno di riconoscimento delle persone; dalla capacità cioè di generare relazionali interpersonali. In altri termini, il Terzo settore non si limita alla semplice cura delle persone portatrici di bisogni, ma ambisce a curarle in modo relazionale. E’ questo che fa la differenza tra un servizio di cura offerto – poniamo – del Comune e il medesimo servizio offerto da un ente non profit. Ecco perché qualità strumentale e qualità espressiva devono marciare assieme nel Terzo settore, proprio come ci ricorda la celebre metafora di Platone nel Fedro: “Il solco sarà diritto se i due cavalli che trainano l’aratro avanzano alla medesima velocità”. In caso contrario, il solco piegherà a destra o a sinistra ed il raccolto sarà modesto. Ebbene, qualora fosse il terzo modello identitario ad affermarsi in modo egemonico è chiaro che il valore espressivo delle ONP verrebbe sacrificato a vantaggio di quello strumentale. Ma di un non profit tutto sbilanciato sul lato della sola efficienza (allocativa) non è che se ne avverta una grande necessità – soprattutto nell’epoca presente. La posizione da favorire è dunque quella di un non profit plurale, all’interno del quale possono convivere liberamente i tre modelli identitari di cui si è detto, lasciando ai cittadini la scelta dell’opzione che più ritengono adeguata, tenendo conto del 6 contesto ambientale e del quadro istituzionale. (Cfr. G. Moro, Cittadini in Europa, Roma, Carocci, 2009). 2.3 Chiudo con una considerazione di carattere generale. Il fatto che a tutt’oggi non si sia addivenuti ad una definizione univoca di Terzo Settore – non così invece per le altre due grandi formazioni sociali e cioè lo Stato e il mercato – non deve meravigliarci, né tanto meno preoccuparci. Il nostro Gianbattista Vico ci ha insegnato che nomina sunt consequentia rerum (i nomi sono conseguenza delle cose); è dunque illusorio pensare di poter catturare entro i confini fissati da una definizione – per quanto elaborata essa sia – la varietà delle forme espressive dei soggetti del Terzo settore. Mai potrà esistere una teoria generale delle OSC e ciò per la fondamentale ragione che il Terzo settore è un tipico fenomeno morfogenetico: una realtà cioè che muta sia per spinte endogene sia per le trasformazioni dell’ambiente circostante. Il legislatore saggio farà allora bene a non cadere nella trappola definitoria; a non lasciarsi cioè prendere dalla mania di porre limiti alla fantasia creatrice della società civile organizzata. Per l’importanza che riveste, conviene chiarire meglio il punto toccato. Come si sa, la definizione corrente di Terzo settore lo vede come la sfera cui afferiscono tutti quei soggetti che non hanno titolo per rientrare né nel mercato (primo settore) né nello Stato (secondo settore). Si noti subito l’asimmetria: mentre la distinzione tra Terzo Settore e Stato si appoggia su un fondamento oggettivo, quale è quello basato sulla dicotomia pubblico-privato, la distinzione tra Terzo Settore e mercato – entrambi enti di diritto privato - postula, per avere senso, che il mercato venga considerato come lo spazio occupato esclusivamente da agenti che sono motivati all’azione dal fine lucrativo. Solo così, infatti, si possono tenere tra loro separati soggetti – pensiamo ad una cooperativa sociale e ad un’impresa commerciale – che appartengono al medesimo universo giuridico (quello di enti privati) ma che perseguono obiettivi diversi. E’ per questa ragione che, negli ambienti anglosassoni, le organizzazioni di cui qui si tratta vengono preferibilmente indicate con l’espressione di enti non profit, per sottolineare appunto il fatto che la loro specificità sta nel rispetto del vincolo di non distribuzione degli utili. Ora, se le organizzazioni della società civile – ovvero le organizzazioni delle libertà sociali come le ha chiamate Gustavo Zagrebelski - appartengono alla sfera del privato ma non a quella del mercato, ne deriva che la loro distintività non può essere posta su un particolare modo di fare economia, ma va ricercata sul piano del sociale. Ecco perché, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, tali organizzazioni vennero opportunamente indicate con l’espressione di “privato sociale”. (Cfr. P. Donati, La teoria relazionale della società, Milano, Angeli, 1991; Id. “La qualità civile del sociale” in P. Donati e I. Colozzi, (a cura di) Generare il civile, Bologna, Il Mulino, 2002). Ebbene, 7 mentre allora tale espressione rappresentava fedelmente ed efficacemente la realtà del tempo, le cose sono andate progressivamente mutando in seguito all’affermazione in senso quantitativo e alla diffusione su tutto il territorio nazionale, di soggetti imprenditoriali connotati da due elementi specifici. Primo, una organizzazione produttiva del tutto simile a quella delle imprese for profit (e dunque connotata da elementi quali professionalità, attenzione all’efficienza, continuità produttiva, capacità di competere, innovatività); secondo, il perseguimento di interessi collettivi o la tutela di interessi generali affatto analoghi a quelli perseguiti da associazioni (di volontariato; di promozione sociale, ONG) e da fondazioni (di impresa; di comunità). Si pensi alle cooperative sociali e alle neonate imprese sociali: si tratta di soggetti che stanno nel (cioè dentro il) mercato, pur non accettando il fine dell’agire capitalistico che è quello del profitto. In quanto operanti con sistematicità e regolarità nel mercato, tali soggetti sono simili alle società commerciali e dissimili da fondazioni e associazioni; in quanto non mirano al profitto, essi sono simili a fondazioni e associazioni e dissimili dalle società di cui al Libro V del Codice Civile. E’ noto che la vera novità dell’ultimo trentennio sul fronte del Terzo settore è proprio l’irrompere nella nostra società di questa nuova tipologia di soggetti imprenditoriali (Cfr. C. Borzaga e L. Fazzi, “Processes of institutionalization and differentiation in the Italian Third sector”, Trento, EURICSE DP, Nov. 2010). Figure simili alle attuali associazioni e fondazioni esistono da secoli. Basti pensare alle Misericordie e alle varie confraternite le cui radici affondano nel tardo Medioevo. Ecco perché l’auspicata riforma del Libro I, Titolo II del Codice Civile dovrà sciogliere il nodo della configurazione concettuale di quei soggetti del Terzo settore (fondazioni operative, cooperative sociali, imprese sociali) che, in analogia ai soggetti del privato sociale (volontariato, associazioni, comitati), potremmo chiamare del privato civile per distinguerli appunto dai soggetti del privato commerciale. La duplicità di codici simbolici – quello del mercato e quello della socialità – che contraddistingue l’identità di questi veri e propri Giano bifronte è ciò che li rende un unicum. (Si rammenti che la figura della cooperativa sociale è un’invenzione tipicamente italiana; mentre a Inghilterra e Francia si deve l’invenzione della impresa cooperativa). (Per approfondimenti rinvio a Stefano e Vera Zamagni, La cooperazione, Bologna, Il Mulino, 2009). Ma tale duplicità è anche ciò che rende ardua la loro governance. Infatti, quando diviene dominante il codice del mercato, i soggetti del privato civile divengono indistinguibili da una qualsiasi altra impresa commerciale; quando diviene dominante il codice della socialità, essi conoscono il declino. In entrambi i casi, e non solo nel primo – si badi - l’impresa sociale o la cooperativa sociale si snaturano perdendo la propria identità. (Cfr. L. Fazzi, Governance per le imprese sociali e il non profit, Roma, Carocci, 2007). Riuscire a tenere in equilibrio dinamico i due codici, facendo sì che marcino assieme come i cavalli di Platone, così che dalla loro contaminazione reciproca discendano 8 complementarità strategiche è la vera grande sfida che il legislatore riformatore del Codice Civile dovrà raccogliere e saper vincere. 3. Dell’identità propria del volontariato 3.1 Se le considerazioni svolte nella sezione precedente valgono in generale per tutto il Terzo settore, esse richiedono una puntualizzazione ulteriore quando si volge l’attenzione a quella sua fondamentale espressione che è il volontariato. Intorno al quale così tanto è stato scritto che non mette conto aggiungere altro. Le ricerche di tipo empirico, che sono ormai schiera, ci raccontano una realtà in grande espansione, anche organizzativa. (Cfr. E. Alecci, M. Bottaccio (a cura di), Fuori dall’angolo. Idee per il futuro del volontariato e del terzo settore, Napoli, L’Ancora, 2010). Conviene allora spendere qualche riga su una questione assai meno dibattuta, eppure di grande rilevanza. Si tratta di questo. Due sono le concezioni di volontariato presenti nel dibattito pubblico, oltre che in letteratura – concezioni entrambe legittime, beninteso, ma con implicazioni affatto diverse sul piano del modello di ordine sociale che si ha in mente di realizzare. La prima concezione, che possiamo chiamare additiva, vede il volontariato come un settore societario che si aggiunge agli altri già in esistenza, tanto che più di uno studioso ha avanzato la proposta di dare vita ad un “quarto settore” distinto sia dal primo (mercato), sia dal secondo (Stato), sia dal Terzo settore (cooperative sociali, imprese sociali, fondazioni). I volontari andrebbero così ad occupare una nicchia ben circoscritta della società, una nicchia che manterrebbe bensì rapporti di buon vicinato con gli altri tre settori, ma da essi separata. La seconda concezione, invece, è quella emergentista, secondo cui quella del volontariato è una forma di agire che, una volta raggiunta la massa critica, va a modificare anche le relazioni già in esistenza tra le altre sfere della società. L’immagine che subito viene alla mente è quella del lievito che, una volta aggiunto alla massa di pasta, la fermenta tutta quanta e non solo una sua parte. Per la concezione emergentista – che è quella accolta da chi scrive – missione specifica e ad un tempo fondamentale del volontariato è quella di costituire la forza trainante per cambiare il modo di funzionare delle istituzioni sia politiche sia economiche. Di operare cioè per la propagazione, nelle sfere sia politica sia economica, di una concezione non individualistica dell’identità personale secondo la quale l’altro non è una mera proiezione del mio io, un qualcosa di cui posso fare l’uso che voglio. A tale concezione, il volontariato oppone l’idea di una identità in relazione con l’altro, per la quale l’io si produce solo attraverso un processo di relazione con l’altro. Per gli “additivisti”, invece il volontariato potrebbe accontentarsi di svolgere ruoli di supplenza o di supporto dei compiti affidati 9 alle pubbliche istituzioni. Ma se così accadesse sarebbe difficile che esso possa scongiurare una graduale perdita di legittimazione sociale. E ciò per l’ovvia ragione che per assolvere a tali compiti bastano – e avanzano - la filantropia organizzata, per un verso, e lo Stato benevolente, per l’altro verso. Il limite più serio della concezione additiva è quello di esporre il volontariato ad un duplice “strattonamento”, quello che gli viene dal pensiero neoliberista e quello che gli viene dalla posizione neostatalista, sebbene con motivazioni e argomenti tra loro diversi. I neoliberisti si appellano all’azione volontaria per portare sostegno alle ragioni del loro “conservatorismo compassionevole” al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state da essi invocato lascerebbe altrimenti senza copertura alcuna. Ma ciò genera un paradosso a dir poco sconcertante. Come si fa a parlare in favore di comportamenti di tipo filantropico, come si fa cioè a incoraggiare lo spirito donativo quando la regolazione dell’attività economica attraverso il mercato viene basata esclusivamente sull’interesse proprio e sulla razionalità strumentale, vale a dire sull’assunto antropologico dell’homo oeconomicus? Solamente se la società fosse composta di individui schizofrenici ciò sarebbe possibile – individui talmente dissociati da seguire la logica del self-interest quando operano nel mercato e la logica della gratuità quando vestono i panni del filantropo o dell’operatore sociale. Non intendo affatto negare che talvolta ciò possa accadere – come in effetti accade – ma nessun ordine sociale può durare a lungo se i suoi membri mantengono un codice dicotomico di comportamento, tenendo separate le sfere di vita personale. Il volontariato autentico risolve questo paradosso perché ci mostra che l’attenzione a chi è nel bisogno non è oggettuale, ma personale. L’umiliazione di essere considerati “oggetti” sia pure di filantropia o di attenzione compassionevole è il limite grave della concezione neo-liberista. Il volontario che dona il suo tempo sconvolge invece la logica dell’efficienza, come essa viene tradizionalmente intesa. Le ore trascorse con il portatore di bisogni potrebbero – secondo quella logica - essere dedicate a produrre un reddito che il volontario potrebbe poi destinare a suo favore, mediante l’azione filantropica. Per una chiara dimostrazione pratica di dove può condurre una tale linea di pensiero rinvio alla ricerca della United Nations Volunteers pubblicata in occasione dell’anno internazionale dei volontari e condotta dalla organizzazione statunitense Independent Sector. Se si legge il rapporto di Kofi Hannan alla 56° Assemblea Generale delle Nazioni Unite (5 dicembre 2001) si troverà l’icastica affermazione, basata su quella ricerca, secondo cui “il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo”. Come a dire che il volontariato tanto più vale quanto maggiore è il valore aggiunto mercantile che esso genera. Una linea di pensiero questa che L. Salamon e H. Anheier, nel 10 loro ben noto volume Global Civil Society (Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1999), avevano caldeggiato parlando del volontariato come “fattore di riserva” a disposizione degli altri settori della società. Non diverso è lo “strattonamento” che viene al volontariato dal pensiero neostatalista. Anch’esso genera un paradosso analogo, sia pure simmetrico. Presupponendo una forte solidarietà dei cittadini per la realizzazione dei diritti di cittadinanza, lo Stato Sociale rende obbligatorio il finanziamento della spesa sociale. Ma in tal modo, esso spiazza il principio di gratuità, negando, a livello di discorso pubblico, ogni valenza a principi che siano diversi da quello di solidarietà, ad esempio al principio di fraternità. Ma una società che elogia a parole il volontariato e poi non riconosce il valore del servizio gratuito nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contraddizione con se stessa. Se si ammette che il volontariato svolge una funzione profetica o – come è stato detto – porta con sé una “benedizione nascosta” e poi non si consente che questa funzione diventi manifesta nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti pensa lo Stato Sociale, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è lo spirito del dono non potrà che registrare una lenta atrofia. Non si dimentichi infatti che la virtù, a differenza di una risorsa scarsa, si decumula con il non uso. L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della “dipendenza riprodotta”. Sono dell’idea che il volontariato debba opporre resistenza a queste due contrapposte sirene, pena la sua progressiva irrilevanza e uscita di scena. La sfida che esso deve raccogliere è quella di battersi per restituire il principio del dono come gratuità alla sfera pubblica. Per dirla in altro modo, il contributo più significativo che, per gli “emergentisti”, il volontariato può dare alla società è quello di affrettare il passaggio dal dono come atto privato compiuto a favore di parenti o amici ai quali si è legati da relazioni a corto raggio, al dono come atto pubblico che interviene sulle relazioni ad ampio raggio. A ciò devono mirare l’advocacy (cioè la denuncia di quel che non va) e il counselling (cioè il coraggio di avanzare proposte concrete di intervento) che sono le modalità primarie, anche se non uniche, dell’azione volontaria. Il volontariato autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano e non solamente in una nicchia particolare. Questo sempre che si vogliano ricercare i modi per civilizzare il mercato, per superare cioè quella visione polemologica del mercato che, a fronte di costi umani inaccettabili, non riesce più a soddisfare i canoni della stessa razionalità economica. 3.2 Quali conseguenze di ordine pratico discendono dall’accoglimento della concezione emergentista del volontariato? Ne scelgo alcune soltanto per evidenti ragioni di spazio. In primo 11 luogo, occorre prendere atto dei mutamenti del quadro normativo a livello costituzionale intervenuti dopo l’entrata in vigore della legge n. 266/1991. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inciso in maniera molto significativa sul contesto ordinamentale in cui si colloca la disciplina del volontariato. Infatti va rilevata e sottolineata l’innovazione rappresentata dal riconoscimento, all’art. 118, comma 4, del principio di sussidiarietà “orizzontale” – principio che in nessuna altra Costituzione appare in modo così esplicito. Tale riconoscimento ha un’evidente ricaduta sulla legittimazione del ruolo delle organizzazioni di volontariato, che operano nello svolgimento di “attività di interesse generale”. Inoltre, il riconoscimento in capo alle Regioni della competenza legislativa in parecchie delle materie in cui si svolge l’attività di volontariato ha messo gli enti territoriali in condizione di incidere, anche attraverso l’esercizio della loro funzione programmatoria, sulla delineazione della cornice entro cui devono muoversi le organizzazioni stesse. Va ricordato, tuttavia, che la sentenza n. 75/1992 della Corte Costituzionale ha chiarito inequivocabilmente che il volontariato non è una materia, ma “un modo di essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali”, che può realizzarsi “all’interno di qualsiasi campo materiale della vita comunitaria”, costituendo “la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale”. E’ dunque urgente ripensare la ripartizione delle competenze, in tale ambito, tra Stato e regioni e ciò soprattutto in vista della trasformazione in senso federalista del nostro Stato unitario. In secondo luogo, occorre trovare il modo di precisare, con grande cura, cosa debba intendersi per gratuità delle prestazioni. Vuol forse dire che il volontario non riceve remunerazione alcuna né in denaro né in natura? Non basta. Infatti, non pochi sono i casi di persone che decidono di svolgere gratuitamente una certa attività per un determinato lasso di tempo presso una organizzazione di volontariato (OV) in cambio della promessa, ovviamente non formalizzata, di una sistemazione lavorativa successiva. E che dire delle situazioni, tutt’altro che infrequenti, del professionista (avvocato, commercialista, notaio, medico, ecc.) che si avvale dell’attività svolta gratuitamente in qualità di volontario presso una OV come forma di investimento specifico in reputazione? Come si sa, la reputazione è un vero e proprio asset patrimoniale che può essere accumulato o decumulato e che conferisce al suo possessore la possibilità di godere di una specifica rendita di posizione. Non è difficile comprendere come in casi del genere la non rimuneratività possa diventare facile paravento per fini non propriamente disinteressati. In buona sostanza, il non pagamento delle prestazioni non assicura, di per sé, la gratuità, la quale è prima di tutto una precisa disposizione d’animo. Mi spiego con un esempio. Se un certo numero di persone ben intenzionate e ben disposte verso gli altri, cioè altruiste, decidono di dare vita ad un’organizzazione alla quale forniscono 12 gratuitamente risorse di vario tipo per “fare cose” a favore di determinate tipologie di portatori di bisogni, questa sarà un’organizzazione filantropica, certamente benemerita e socialmente utile, ma non ancora per ciò stesso una OV. La specificità di quest’ultima, infatti, è la costruzione – come si è detto - di nessi di relazionalità fra persone. Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, l’OV fa con gli altri. E’ proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente volontaria, tipica delle OV, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato – così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – ma nella speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone. In altri termini, mentre la filantropia genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, il volontariato autentico genera invece reciprocità e quindi libera colui che è il destinatario dell’azione volontaria da quella “vergogna” di cui parla Seneca nella X Lettera a Lucilio: “La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcuno diventa pericolosissimo: costui, infatti, perché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Non c’è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio”. Non è propriamente volontaria l’azione di chi, al di là delle intenzioni soggettive, non consente al beneficiario di porre in essere un contro-dono. Se chi riceve gratuitamente non viene posto nelle condizioni concrete di reciprocare, in qualche misura e in qualche forma, costui finirà per sentirsi umiliato e alla lunga finirà con l’odiare il suo benefattore, come appunto ci ricorda Seneca. Ciò in quanto il dono, per sua natura, provoca sempre l'attivazione del rapporto di collaborazione sociale per eccellenza, che è quello di reciprocità. Perché è importante definire la gratuità del volontariato nei termini di cui sopra? Per la ragione che, come la scuola francese del MAUSS (Cfr. A. Caillè, Il terzo paradigma: antropologia filosofica del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998), ha chiarito a tutto tondo, c’è una concezione del dono tipica della premodernità, che però continua a sussistere ancora in alcuni strati nelle nostre società contemporanee, secondo cui il dono va ricondotto sempre ad una soggiacente struttura di scambio. E’ questa la concezione del dono come munus, come regalo, come strumento per impegnare l’altro, fino ad asservirlo. Per una concezione del genere, si ha che il dono diventa, paradossalmente, un obbligo per preservare il legame sociale: la vita in società postula di necessità la pratica del dono, la quale diventa per ciò stesso una norma sociale di comportamento, vincolante al pari di tutte le norme di tale tipo. Non ci vuol molto a comprendere come una tale concezione del dono non salvi né la spontaneità né la vera gratuità dell’azione donativa. Eppure, per strano che ciò possa apparire, è un fatto che ancora molto radicata è l’idea in base alla quale il volontariato genuino è quello che si appoggia sulla nozione di dono come munus, come regalo. 13 Come darsi conto della difficoltà culturale a comprendere che l’autentica gratuità è quella del dono come reciprocità? Duplice la risposta. La prima è che la relazione di reciprocità continua ad essere confusa con quella di scambio di equivalenti. Il fatto è che la nostra cultura è talmente intrisa di economicismo che ogni qualvolta sentiamo parlare di relazione biunivoca tra due soggetti siamo istintivamente portati a leggervi un sottostante, sia pure indiretto, rapporto di scambio di equivalenti. E’ questa una delle pesanti eredità intellettuali della modernità. “Perché vi sia dono – scrive Jacques Derrida – bisogna che il dono non appaia, che non sia percepito come dono” (Donare il tempo e la moneta falsa, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p.18). Ma un tale dono non può esistere, è impossibile - secondo Derrida - perché l’uomo è un essere ontologicamente autointeressato, cioè egocentrico. La cultura dominante vede dunque il dono come una sorta di assoluto che, proprio perché tale, essa stessa dichiara impossibile attuare. E' la questione - centrale nel dibattito filosofico contemporaneo - della "sospettabilità" del dono quale gesto che pretenderebbe di essere gratuito e che tuttavia appare costantemente attraversato da elementi di interesse che ne inquinano la purezza. L’unico atteggiamento possibile è allora quello della beneficenza privata, cioè della filantropia, che, come si è detto, è perfettamente compatibile con l’assunto antropologico del self-interest. La seconda risposta all’interrogativo sopra posto è che si stenta ancora ad afferrare che la categoria del dono ricomprende al suo interno la dimensione dell’interesse. Invero, il termine interesse – dal latino “inter-esse” – significa propriamente “essere in mezzo” e ciò a significare che per perseguire un interesse bisogna interagire con l’altro, utilizzandosi reciprocamente perché ne derivino frutti a entrambi. Eppure, la concezione oggi dominante di interesse si è talmente allontanata dal suo significato originario che quando questo termine viene usato esso viene quasi sempre inteso con connotazioni negative sotto il profilo morale. In realtà il dono non è affatto incompatibile con l’interesse del donante, se questo viene inteso come interesse a stare nella relazione con l’altro. Il filantropo, invece, non ha questo interesse, tanto è vero che il filantropo puro (quello che vuole conservare l’anonimato) neppure vuol conoscere l’identità di coloro ai quali la sua beneficenza si indirizza. E non v’è dubbio che l’atto filantropico sia un atto gratuito nella accezione volgare di cui si è detto sopra. Invero, è proprio l’esistenza di un forte interesse a dar vita alla reciprocità tra donante e donatario a costituire l’essenza dell’azione volontaria. Perfino nel cosiddetto dono ad estranei c’è restituzione, cioè contro-dono: questo risiede nel valore di legame. Nonostante la pervasività di una certa vulgata economicistica, non v’è da pensare che solo due siano le categorie di valore: valore d’uso e valore di scambio. Esiste anche il valore di legame: la relazione tra persone, tra loro in qualche modo “col-legate”, è di per sé un bene che, in quanto tale, genera valore. In definitiva, la 14 differenza ultima tra la gratuità del volontario e la gratuità del filantropo (o dell’altruista puro) sta in ciò che il volontario non pretende la restituzione, accetta l’asimmetria, rinuncia all’equivalenza, ma tutto ciò non implica affatto che il volontario non coltivi un interesse: l’interesse per l’altro (e non già all’altro) che nasce dal desiderio del legame. Un’idea questa che venne magistralmente compresa e illustrata da G. B. Vico quando previde che il declino di una società inizia nel momento in cui gli uomini non trovano più dentro di sé la motivazione per legare il proprio destino a quello degli altri; quando cioè viene a scomparire l’inter-esse. Alla luce di ciò si può dire che, tra tutte le strutture di interazione personale, il volontariato è quella che con più forza e incisività contrasta la riduzione del legame sociale al cash nexus. Terzo, è necessaria una più ampia libertà della configurazione giuridica della OV, ammettendo, ad esempio, la possibilità di deroghe al requisito della democraticità (come, peraltro, stabilito dalla legge 383/2000 sull’associazionismo di promozione sociale). Non è un astratto principio di democraticità in senso formale a garantire l’efficacia dell’azione del volontariato. Talvolta è di fondamentale importanza che nelle organizzazioni di volontariato possa essere tracciata una linea guida, che poi viene seguita dai rappresentanti che compongono i consigli direttivi delle organizzazioni ad opera di soggetti promotori / ispiratori (Si pensi al parroco in quelle associazioni che operano nell’oratorio o alle associazioni scoutistiche). Il punto qualificante che assicura la piena democraticità di una organizzazione è il modo in cui vengono prese le decisioni, più ancora che il modo in cui vengono nominati o eletti coloro che entrano a far parte dell’organo direttivo. In buona sostanza, si tratta di andare oltre una definizione meramente procedurale di democrazia per indirizzarsi piuttosto verso una qualche versione di democrazia deliberativa. (Cfr. E. Rossi, “Proposte dell’Agenzia per le ONLUS per una riforma organica della legislazione sul Terzo settore”, Aretè, 3, 2009). Un tale avanzamento consentirebbe anche di avviare a soluzione sia il problema del riconoscimento delle organizzazioni di volontariato di secondo livello che operano su base nazionale, sia il problema di consentire alle OV una più ampia libertà di scelta dei settori di intervento. In particolare, l’espressione “fine di solidarietà” deve essere intesa anche nel senso di ammettere che le OV possano devolvere il proprio patrimonio, in caso di scioglimento, non solo ad altre organizzazioni di volontariato, ma ad una più ampia categoria di enti senza scopo di lucro. Come l’evidenza fattuale suggerisce, spesso realtà che nascono come organizzazioni di volontariato, crescendo, trovano questa veste giuridica non più adeguata a interpretare la propria missione. È importante allora che le eventuali trasformazioni – sempre che si materializzino entro il Terzo settore e con la giusta attenzione a impedire operazioni fiscalmente elusive – non trovino sbarramenti o impedimenti di sorta. Ad esempio, se una associazione di volontariato ritiene di dover 15 dare vita ad una fondazione oppure ad una impresa sociale, la devoluzione del patrimonio, in tutto o in parte, non deve andare soggetta a restrizioni irragionevoli. Guardare al volontariato come ad un fenomeno emergente implica infatti che si rafforzi e non che si indebolisca la sua capacità di contagio nei confronti sia del mercato sia dello Stato. A quest’ultimo riguardo, è urgente andare oltre l’impianto della L.266/1991 che – come noto – si limita a disciplinare i rapporti tra organizzazioni del volontariato e istituzioni pubbliche. È necessario considerare tutti i tipi di rapporto che le OV intendono stringere con soggetti vari, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano soggetti pubblici o meno. Vanno dunque regolati anche i rapporti che possono intercorrere tra associazioni di volontariato e istituzioni private, siano esse profit o non profit. Si pensi alle forme, in costante diffusione nel nostro paese, del cosiddetto volontariato d’impresa. (Si veda l’articolata e minuziosa analisi in ASTRID, Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore, Firenze, Passigli, 2008). Infine, la semplificazione amministrativa è una richiesta che il mondo del volontariato da tempo avanza, ma con scarso successo. Nello snellimento delle procedure bisogna però seguire un criterio di ragionevolezza, per tener conto della consistenza dimensionale dei soggetti e degli ambiti di intervento. Non si possono imporre le stesse procedure amministrative e contabili alla grande e alla piccola OV (Cfr. Propersi, cap. VIII). Pure urgente è la revisione del rapporto tra Fondazioni di origine bancaria – enti nati dopo il 1991 e quindi successivi alla legge 266 – e Comitati di Gestione regionali che ricevono i fondi destinati alle OV dalle prime per poi distribuirli ai Centri di Servizio per il Volontariato. Se si vuole andare nella direzione qui auspicata occorre intervenire sull’attuale legislazione che, oltre ad essere fonte di conflittualità tra grandi e piccole organizzazioni di volontariato, induce a inefficienze sistemiche. A tale riguardo va osservato che poiché le associazioni di volontariato sono ONLUS di diritto, (ex D. Lgs.460/1997), è auspicabile un maggior coinvolgimento dell’organo di controllo e di vigilanza, cioè dell’Agenzia per il Terzo Settore, la quale deve essere chiamata in causa in modo costruttivo; per esempio, prevedendo che i pareri che attualmente essa rilascia diventino vincolanti (e non solo obbligatori come è ora), ogniqualvolta essi abbiano ad oggetto OV. Un tale provvedimento permetterebbe che il punto di giudizio non rimanesse solo ed esclusivamente quello fiscale-tributario come fino ad oggi è stato. C’è infatti un disperato bisogno di un soggetto terzo capace di tener conto, nei suoi pronunciamenti, del valore aggiunto sociale creato dal volontariato, e non soltanto del rispetto formale delle norme di legge. Chiudo questo paragrafo con una considerazione di natura generale. Una lettura, anche superficiale, dell'attuale passaggio d'epoca ci obbliga a prendere atto che i tratti antisociali del comportamento economico hanno ormai raggiunto livelli di intensità preoccupanti. E' ampiamente riconosciuto che lo star-bene (well-being) delle persone è associato non solamente al 16 soddisfacimento dei bisogni materiali e immateriali, ma anche a quello dei bisogni relazionali. Ed è altresì noto che, mentre le nostre economie avanzate sono diventate "macchine" straordinariamente efficienti per soddisfare bisogni della prima categoria, non altrettanto si può dire di esse per quanto attiene i bisogni relazionali. La ragione è che questi ultimi non possono essere adeguatamente soddisfatti con beni privati, quale che ne sia il volume e la qualità. Piuttosto, essi richiedono beni relazionali, beni cioè la cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle sue caratteristiche intrinseche e oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti. Charles Taylor – il celebre filosofo canadese - ha tracciato la distinzione tra "beni convergenti", che possono essere prodotti solo dall'unione degli sforzi, ma che sono poi goduti individualmente, e "beni comuni" che richiedono un'azione comune anche nel momento finale della loro fruizione. I beni relazionali appartengono a quest'ultima categoria. Ora, il punto è che la produzione di beni relazionali non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni privati. Né può avvenire secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato - la coercizione e il principio burocratico annullano o neutralizzano la relazionalità – anche se hanno tratti comuni con i beni pubblici (sono consumati, e prodotti, insieme). Ecco perché se si vogliono scongiurare i rischi devastanti di trappole di povertà sociale, dovute alla crescita ipertrofica della sfera "privata" dell'economia, le nostre società hanno bisogno di far posto a soggetti capaci di fare il “salto della gratuità” suscitando così rapporti nuovi, rapporti di reciprocità. Ce lo ricorda, in modo esemplare, la penna brillante di uno scrittore assai noto, Antoine de SaintExupery, quando al suo “Piccolo principe” fa dire: “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già confezionate. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici”. L’amicizia – si rammenti - è il prototipo di bene relazionale. (Cfr. L. Becchetti, Il denaro fa la felicità?, Roma, Laterza, 2007). 4. Terzo settore e costituzionalizzazione del civile 4.1 Quanto precede mi porta ad affrontare, per così dire, la questione delle questioni. Se non si desidera che il Terzo settore si limiti a svolgere funzioni meramente redistributive di una ricchezza prodotta da altri soggetti ovvero che esso si limiti a compiti di supplenza di quanto non riescono a fare il mercato e/o lo Stato, a cos’altro il Terzo settore può mirare? Non esito a rispondere che nelle attuali condizioni storiche compito primario e, ad un tempo, esclusivo del Terzo settore è quello di soggetto facilitatore della transizione nella nostra società dall’ordine di tipo bipolare fondato sulla diade pubblico-privato ad un ordine sociale tripolare fondato sulla triade pubblico-privato-civile. 17 Per afferrare di che si tratta è necessario un inquadramento, sia pure breve, della nascita e dell’evoluzione di quell’istituzione così centrale nelle nostre società che è il mercato. E' alla scuola di pensiero francescana che si deve principalmente, a partire dal XIV secolo, l'invenzione e la creazione di quel modello di ordine sociale che chiamiamo "economia di mercato", un modello che ha avuto la sua culla in terra di Toscana e Umbria. Quattro sono i pilastri di tale modello, che valgono a farci intendere la differenza tra economia di mercato in senso proprio e attivazione di un insieme di mercati per facilitare gli scambi. (Si rammenti che già nell'antichità esistevano mercati). Il primo pilastro è la divisione del lavoro, ideata per dare a tutti, anche ai meno dotati in senso fisico e psichico, la possibilità concreta di lavorare. (Già nel Trecento, l'omiletica francescana diffondeva il seguente pensiero: "L'elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere; perché vivere è produrre e l'elemosina non aiuta a produrre"). Dal principio della divisione del lavoro discende poi quello della necessità dello scambio di mercato e da quest'ultimo l'idea per cui l'altro non è il nemico da vincere, ma un soggetto delle cui abilità e professionalità ho bisogno per soddisfare le mie esigenze. Il primo grande autore ad intendere questa notevole conseguenza pratica del principio in questione fu Erasmo da Rotterdam il quale nel suo Enchiridion Militi Christiani del 1503 anticipa quella che diverrà la nota tesi di Kant sul nesso tra pace e scambi commerciali. Il secondo pilastro è la nozione di sviluppo, ignota nelle epoche precedenti: "s-viluppo" significa, letteralmente, "togliere i viluppi" e dunque dilatare gli spazi di libertà dei singoli e delle comunità. Proprio come ha titolato A. Sen il suo celebre saggio del 2000: "Sviluppo è libertà". Cosa implica l'accettazione dell'idea di sviluppo? L'accumulazione di beni e risorse; cioè a dire il processo di produzione non deve arrestarsi nel momento in cui si è prodotto quanto è necessario ai bisogni della generazione presente. Si deve pensare, infatti, anche ai bisogni delle generazioni future, accantonando, cioè risparmiando, risorse non solo per far fronte a imprevisti e calamità naturali, ma anche per contribuire al benessere di chi viene dopo. Chiaramente, questa concezione dell'accumulazione è legata alla nozione di tempo come kairos, e non già come chronos. Il terzo pilastro di un'economia di mercato è la libertà di impresa: chiunque ha i talenti (propensione al rischio; capacità innovativa; ars combinatoria) e il desiderio di fare l'imprenditore, deve essere lasciato libero di perseguire il proprio beruf (avrebbe poi scritto Max Weber), senza dover chiedere l'autorizzazione ad alcuna autorità, religiosa o civile che sia. E' l'emergenza della figura carismatica dell'imprenditore a rompere l'ordine feudale fondato sulla triade: oratores, bellatores, laboratores. E' vero che le parole impresa e imprenditore sono introdotte nel lessico economico, per la prima volta, dall'economista irlandese Richard Cantillon in un saggio del 1730, ma i concetti che quelle parole esprimono si concretizzano a far tempo dall'Umanesimo Civile. Dal 18 principio della libertà di impresa discende, come logica conseguenza, quello di competizione, la cui funzione basilare è quella di portare in equilibrio domanda e offerta. Con la libertà di impresa, infatti, non può esserci, alcun controllo a monte dei livelli di produzione delle varie categorie di beni. Ciascun imprenditore porta al mercato le quantità di beni che ha congetturato (o sperato) di poter vendere. La competizione serve allora a selezionare tra i produttori quelli più bravi; quelli cioè che offrono la merce al migliore rapporto qualità-prezzo; gli altri dovranno cambiare linea di produzione oppure scegliersi altri luoghi in cui esercitare la propria attività. (Chiaramente, in un'economia centralmente pianificata non v'è bisogno alcuno di competizione). L'ultimo pilastro dice del fine che un'economia di mercato deve proporsi di perseguire. Storicamente, questo fine è stato dapprima il bene comune, inteso come produttoria dei beni individuali. E' precisamente il fine del bene comune a qualificare l'economia di mercato di prima generazione come economia civile di mercato. L'aggettivo "civile" rinvia alla civitas romana, un modello di organizzazione sociale assai diverso da quello della polis greca. La civitas, a differenza della polis, è una società includente di tipo universalistico. (Si rammenti che nell’agorà della polis non tutti erano ammessi: donne, servi, incolti vi erano esclusi). Non deve dunque sorprendere se le prime forme di welfare si siano realizzate in parallelo con la diffusione dell'economia civile di mercato, come traduzione pratica del principio del bene comune. Si pensi alle gilde, alle corporazioni di arti e mestieri, alle confraternite che gestivano ospedali e case di ricovero, alle Misericordie (che sono state le prime organizzazioni di volontariato), ai Monti di Pietà dei francescani nel Quattrocento italiano che combattevano, con i fatti, l'usura facilitando l'accesso al credito dei non abbienti; e così via. La stagione dell'economia civile di mercato è stata però di breve durata. In Italia, essa è continuata, ma a tassi progressivamente decrescenti, fino al periodo dell'Illuminismo di marca sia milanese (Verri, Beccaria e poi Romagnosi) sia napoletana (Genovesi, Galiani, Dragonetti, Filangieri). Già a partire dal Seicento le cose iniziano a mutare. Decisiva a tale riguardo è stata l'influenza del pensiero di Hobbes (1651) e dell'antropologia negativa che da esso prende avvio. Con l'arrivo poi del contributo di Mandeville (1713) e soprattutto di Bentham (1789), il creatore dell'utilitarismo, si realizza la svolta: il fine cui tende l'economia di mercato non è più il bene comune, ma il bene totale, inteso - come Bentham aveva scritto - quale sommatoria dei beni individuali. Accade così che i primi tre pilasti che sorreggono l'economia di mercato restano nominalmente gli stessi; quel che muta è la loro interpretazione. La divisione del lavoro, nata per includere tendenzialmente tutti gli uomini nell'attività lavorativa, diviene strumento per escludere i meno dotati e soprattutto gli inefficienti; l'accumulazione, introdotta come espressione di solidarietà intergenerazionale, viene invocata per accrescere la produzione di profitto; la competizione, pensata 19 come un cum-petere, si trasforma in concorrenza, per dare corpo all'aforisma hobbesiano "mors tua, vita mea". Con l'avvento della rivoluzione industriale, infine, l'economia civile di mercato scompare completamente dall'orizzonte per lasciare posto all'economia capitalistica di mercato. E la disciplina stessa dell’“economia civile" diviene "economia politica". (Si noti: civile rinvia a "civitas", così come politica rinvia a "polis"). Adam Smith - il cui impianto filosofico è quello dell'etica delle virtù di derivazione aristotelica, di cui dirò nel prossimo paragrafo - è il primo a rendersi conto della "grande trasformazione". Geniale e ammirevole il suo tentativo di far stare assieme sotto il medesimo tetto concettuale le due versioni dell'economia di mercato, quella civile e quella capitalistica. Invero, il senso profondo del teorema della mano invisibile è tutto qui: se ciascun agente persegue razionalmente l'interesse proprio - come vuole la linea di pensiero Hobbes-Mandeville-Bentham sotto ben specifiche condizioni la mano invisibile del mercato trasforma gli egoismi individuali in bene comune, proprio come gli umanisti civili volevano che il mercato facesse. Oggi sappiamo perché quelle condizioni non possono mai darsi nella realtà, e quindi perché quel teorema è divenuto di fatto inservibile per lo stesso pensiero neoliberista. La principale di tali ragioni è che il teorema in questione funziona solamente quando si ha a che fare con i beni privati e quando non esistono rilevanti esternalità pecuniarie (da non confondersi con le esternalità tecnologiche e con quelle posizionali). Con beni pubblici e soprattutto con i commons (beni di uso comune) – beni la cui rilevanza si accresce man mano che un paese avanza lungo il sentiero dello sviluppo – il teorema della mano invisibile cessa di funzionare. In situazioni del genere, la smithiana virtù della prudenza non basta più; bisogna attivare le virtù relazionali, la più importante delle quali è la reciprocità. Il tentativo riconciliatorio smithiano ha vita breve. Già a partire dai primi decenni dell'Ottocento diviene a tutti evidente cosa comporta il passaggio dalla logica del bene comune a quella del bene totale. Interessante, al riguardo, è la posizione di Marx. Non conoscendo la distinzione tra mercato civile e mercato capitalistico e identificando l'economia di mercato con il sistema capitalistico tout court, Marx non può che vedere nell'eliminazione del mercato il rimedio allo sfruttamento e all'alienazione allora galoppanti. (Come si legge nel volume II de Il Capitale, il mercato - la cui radice latina, mereo, rinvia a prostituzione - va tuttavia eliminato per via evolutiva e non già rivoluzionaria, come farà poi Lenin in Russia. Si badi anche che il sottotitolo dell'opera principe di Marx è: "Per la critica dell'economia politica"). Il mondo democratico non può certo accogliere una prospettiva di discorso del genere. Sulla scia di importanti suggestioni, dapprima, di J.S. Mill e poi di A. Marshall l’alternativa che viene avanzata è quella del welfare state, quale si realizzerà appieno nel Novecento. Per comprendere 20 perché il welfare state viene da subito salutato con favore occorre considerare che, come già Aristotele aveva anticipato, la democrazia presuppone un certo grado di uguaglianza tra i cittadini per poter funzionare. Pertanto, delle due l'una: o si riducono le diseguaglianze oppure si riduce la pratica democratica. James Madison nei Federalist Papers aveva preferito questa seconda soluzione; ma nel XX secolo continuare in quella direzione sarebbe stato troppo pericoloso, e pour cause. Ebbene, il senso ultimo del welfare state è stato quello di aver reso socialmente e politicamente accettabile l'economia capitalistica di mercato. Riduzione delle diseguaglianze e riconoscimento dei diritti di cittadinanza è ciò che serve alla bisogna; quel che serve cioè per garantire la crescita senza eccessive tensioni sociali. Alla mano invisibile del mercato si sostituisce così la mano visibile (e pesante) dello Stato e quella riconciliazione che non era riuscita a Smith riesce alfine a J.M. Keynes. (Per approfondire, si veda L. Becchetti, L. Bruni, S. Zamagni, Microeconomia. Scelte, Relazioni, Economia Civile, Bologna, Il Mulino, 2010). 4.2 L'arrivo della globalizzazione, a partire dalla fine degli anni 70 del secolo scorso - è infatti con il primo summit del G.6 a Rambouillet (Parigi) nel novembre 1975 che ha "ufficialmente" inizio il processo di globalizzazione - modifica radicalmente il quadro. Le diseguaglianze aumentano più che proporzionalmente rispetto all'aumento del reddito a livello sia transnazionale sia intranazionale. (Cfr. Angus Madison, 2003). E tutto ciò senza che la spesa sociale pubblica sia diminuita. Anzi. (Si pensi che in Italia, oltre il 50% del PIL è ancor'oggi generato dal settore pubblico e la stessa spesa pubblica per il sociale è andata aumentando negli ultimi decenni, eccetto che negli ultimissimi anni). Cosa c'è dunque alla radice del "fallimento" (nel senso di failure) del welfare state? C'è che questo modello si regge su un presupposto fallace; vale a dire sulla logica dei due tempi di ascendenza kantiana: "facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia". E' da qui che discende la ben nota divisione di ruoli: al mercato (capitalistico) si chiede di produrre quanta più ricchezza possibile, dato il vincolo delle risorse e della tecnologia, e senza soverchie preoccupazioni circa il modo in cui questa viene ottenuta (perché "business is business" e "competition is competition" – come a dire che la dimensione etica nulla ha a che vedere con l'agire economico); allo Stato poi il compito di provvedere alla redistribuzione secondo un qualche criterio di equità, quale quello di Rawls o di altri ancora. Eppure già il grande economista francese Leon Walras, alla fine dell'Ottocento, aveva provveduto a "rispondere" a Kant scrivendo: "Quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande". Il limite notevole del vecchio welfare state è quello di accettare, più o meno supinamente, che il mercato capitalistico segua appieno la sua logica, salvo poi intervenire post-factum, mediante 21 interventi ad hoc dello Stato, per mitigarne gli effetti indesiderati, ma lasciando intatte le cause. Si osservi che il modello dicotomico di ordine sociale stato-mercato ha prodotto conseguenze nefaste anche a livello culturale, facendo credere a studiosi e policy-makers che l'etica, mentre avrebbe qualcosa da dire per quanto concerne la sfera della distribuzione della ricchezza, nulla c'entrerebbe con la sfera della produzione, perché quest'ultima sarebbe governata dalle “ferree leggi del mercato”. Aver legittimato politicamente la separazione (e non già la distinzione) tra sfera economica e sfera sociale, attribuendo alla prima il compito di produrre ricchezza e alla seconda il compito di ridistribuirla è stata la grande "colpa" del welfare state. Perché ha fatto credere che una società democratica potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell'efficienza - che basterebbe a regolare i rapporti entro la sfera dell'economico - e il codice della solidarietà che presiederebbe ai rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. Donde il paradosso che affligge le nostre società: per un verso, si moltiplicano le prese di posizione a favore di disabili, di poveri di vario tipo, di chi resta indietro nella gara di mercato. Per l'altro verso, tutto il sistema di valori (i criteri di valutazione dell'agire individuale, lo stile di vita) è centrato sull'efficienza, sulla capacità cioè di generare valore aggiunto mercantile. E’ oggi a tutti chiaro il contrasto fondamentale su cui si è retto finora il welfare state. Si tratta del contrasto tra il rispetto dovuto alle persone in quanto individui – e quindi essenzialmente diversi – e il rispetto dovuto alle stesse in quanto esseri umani – e quindi essenzialmente eguali. Come ha scritto un liberal-democratico di rango, Michael Ignatieff (I bisogni degli altri, Il Mulino, 1986): “Avremmo dovuto aspettarci che con la sanzione di una visione del bene comune nel welfare state ci saremmo avvicinati gli uni agli altri. Il welfare state ha cercato di realizzare la fraternità, dando a ciascun individuo il diritto di attingere alle risorse comuni. Tuttavia, anche se si soddisfano i bisogni fondamentali di ognuno, non si soddisfa necessariamente il bisogno di solidarietà sociale” (sic!, p. 133). Non ci si deve allora meravigliare se oggi non solamente le diseguaglianze continuano ad aumentare ma addirittura gli indicatori di felicità pubblica registrano diminuzioni costanti. Né c'è da meravigliarsi se il principio di meritorietà viene confuso (maldestramente) con la meritocrazia, come se si trattasse di sinonimi. (E dire che Aristotele fu il primo a scrivere che la meritocrazia è pericolosa per la democrazia). Infine, non c’è da meravigliarsi se la reciprocità viene confusa con l’altruismo e se i beni comuni vengono confusi con i beni pubblici. La crisi fiscale dello Stato e l'allargamento della forbice tra risorse disponibili e ampliamento della gamma dei bisogni - entrambi i fenomeni conseguenza sia della globalizzazione sia della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche - ha reso palese a tutti la crisi entropica (e non già congiunturale) del welfare state. Ebbene, è in questo quadro che si 22 spiega la ripresa di interesse al modello civile di welfare, un modello che affonda le sue radici, come si è detto, nell'economia civile di mercato. Oggi, sono soprattutto le c.d. scarsità sociali e non tanto quelle materiali a fare problema nelle nostre società. Si pensi ai commons, beni di uso comune come l'aria, l'acqua, le foreste, la conoscenza, ecc. Sappiamo che lo Stato non è attrezzato per risolvere questo tipo di scarsità, come già F. Hirsch nel suo famoso libro del 1976 (I limiti sociali allo sviluppo, Milano, Bompiani, 1986), aveva ampiamente dimostrato. E sappiamo anche che non tutti i bisogni possono essere espressi in forma di diritti politici e sociali. Bisogni quali quello di felicità, dignità, senso di appartenenza, di riconoscimento ecc., non possono essere rivendicati come diritti di cittadinanza. Mai lo Stato potrà mettersi a capo di processi di aggregazione della domanda che, soli, possono sortire l'effetto desiderato per rispondere alle nuove scarsità. D'altro canto, anche le virtù tipicamente individuali (come la ricerca prudente del proprio interesse) non danno la garanzia di saper affrontare la sfida dei beni comuni - come già Katharine Coman aveva anticipato nel suo saggio sull'American Economic Review del 1911. Per raccogliere e vincere tali sfide ci vogliono virtù di reciprocità, che esprimano da subito un legame tra le persone. La prima di tali virtù è la fraternità. Si badi che mentre libertà e uguaglianza sono valori individuali, la fraternità è un valore essenzialmente relazionale. Senza riconoscimento dei legami che uniscono gli uni agli altri non si supera la "tragedy of commons" nel senso di R. Hardin. Il welfare state, attribuendo al solo ente pubblico il compito di farsi carico della giustizia distributiva, ha finito per creare un cuneo tra fraternità e solidarietà, e ora se ne vedono le conseguenze. 4.3 Il nuovo welfare, che chiamo civile - e che ha poco a che spartire con la tedesca economia sociale di mercato – deve allora recuperare ciò che durante l'ultimo secolo si è lasciato per strada. Non ci sono solamente i beni privati e i beni pubblici; ci sono anche i beni comuni di cui si avverte un crescente bisogno. Ecco perché accanto al principio dello scambio di equivalenti e al principio di redistribuzione – bisogna dare spazio al principio di reciprocità, che né il nostro Codice Civile né la nostra Carta Costituzionale prendono in considerazione. Quest'ultima ha bensì incorporato nel 2001, nel Titolo V, il principio di sussidiarietà, ma se non si consente al principio di reciprocità di trovare un suo spazio di azione entro il mercato - e non già fuori di esso, come oggi avviene salvo rare eccezioni - la sussidiarietà continuerà a rimanere lettera morta. Tutt’al più, essa prenderà la forma della compassione, pubblica o privata che sia. Eppure i nostri Costituenti avevano ben compreso il punto qui sollevato. Ad esempio, l'art.42 della Costituzione sancisce che la proprietà è o pubblica o privata. Ma l'articolo seguente riconosce che comunità di lavoratori o di utenti possano intestarsi 23 proprietà comuni; quanto a dire che si ammette la terza tipologia di proprietà – quella appunto comune. In buona sostanza, la transizione dal welfare state al welfare civile postula che si passi dal binomio "pubblico e privato" al trinomio "pubblico, privato e civile", intervenendo con urgenza sull'assetto istituzionale a livello sia giuridico (riforma del Libro I, titolo Il del Codice Civile; legge quadro degli enti di terzo settore; riforma della normativa sulle mutue, ecc.) sia economicofinanziario (introduzione di strumenti finanziari per il civile; adeguamento delle regole di funzionamento della concorrenza; creazione di una borsa sociale). A ben considerare, il senso ultimo del nuovo Titolo V della nostra Carta Costituzionale e in particolare dell’art.118, è quello di parlare a favore della costituzionalizzazione del civile. Invero, la distinzione, introdotta nella modernità, tra pubblico e privato non fa più presa sulla realtà non solamente perché essa lascia fuori segmenti importanti della società – come appunto non pochi dei soggetti del Terzo settore – ma anche perché c’è conflazione tra le due sfere. Come osserva il costituzionalista tedesco G. Teubner, (La cultura del diritto nell’epoca della cooperazione. Le costituzioni civili, Armando, Roma, 2005.), la conflazione deriva dalla circostanza che il contratto – che è lo strumento principe che muove la sfera del privato – deve sempre più includere i problemi di carattere pubblico che esso provoca. Ciò in quanto la contrattazione privata produce sempre esternalità pecuniarie (positive o negative a seconda dei casi) che ricadono in capo a soggetti terzi rispetto alle parti in causa. La ricerca di Teubner ci conferma che la società odierna può darsi ordini di tipo costituzionale che emergono dalla società civile, e non solo dal corpo politico. Chiaramente, se si desidera che il civile possa svolgere questa funzione integratrice, esso non può non porsi il problema dei modi della propria rappresentanza, come sostengono E. Rossi et Al. nel cap.II. In buona sostanza, chi ritiene che il modello di ordine sociale basato sulla dicotomia pubblico-privato continui ad essere valido non ha bisogno di porsi il problema della rappresentanza del civile, dal momento che quest’ultima viene, per così dire, incorporata ovvero sussunta nella rappresentanza politica. Proprio come ancor oggi accade: il sistema politico vede il Terzo settore come forza di sostegno agli attori politici in campo e non già come espressione di una modalità nuova e originale di realizzare opere che hanno bensì ricadute sul pubblico, ma sono di natura civile. Chi invece riconosce al Terzo settore un “potere istituente”, (M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Roma, Laterza, 2005), ed è convinto che, nelle attuali condizioni storiche, esso già abbia acquisito la capacità di mirare ad un assetto costituzionale, deve ammettere che la questione della rappresentanza non può essere ulteriormente procrastinata. Su quale base poggia una tale preoccupazione? Sulla constatazione che il sistema politico non riesce più ad assolvere il compito della rappresentanza dell’intera area del sociale. Infatti, la 24 crescita rapida del pluralismo sociale è oggi tale che gli individui non possono più dirsi rappresentati da una sola organizzazione – fosse pure un grande partito oppure un grande sindacato. E’ il fatto della pluriappartenenza, il fatto cioè che le persone nella società odierna possono scegliere la propria identità come risultato di appartenenze plurime, a far sì che il tradizionale sistema della rappresentanza non sia più sufficiente a coprire tutti gli ambiti in cui si esprime l’esistenzialità delle persone. Posso anche aderire ad un partito politico ed essere iscritto ad un sindacato, ma questi due luoghi istituzionali non mi bastano più per dare piena espressione alla mia identità; oltre che piena tutela ai miei interessi. Fino ad un passato recente, al tavolo della decisione pubblica partecipavano solo coloro che avevano titolo, vale a dire coloro che potevano dimostrare di rappresentare interessi organizzati di gruppi o di categorie di cittadini. Lo spiazzamento del civile ad opera del pubblico che ne è derivato ha fatto sì che fino a tempi recentissimi la società fosse organizzata attorno a pochi attori sociali e nella quale la capacità di azione collettiva era controllata da alcuni grandi partiti che operavano in collegamento con reti di associazioni collaterali. Tanto è vero che per i soggetti della società civile portatori di cultura avere accesso alla sfera pubblica significava, basicamente, far eleggere alcuni dei propri membri in questa o quella organizzazione partitica. Nulla di più. (Cfr. S. Zamagni, Non profit come economia civile, Bologna, Il Mulino, 1998). Ebbene, la novità importante di questo nostro tempo è la presa d’atto della inefficienza oltre che della inadeguatezza democratica che il modello fordista di organizzazione sociale ci ha lasciato in eredità. E’ quando ci si confronta con i problemi connessi ai nuovi rischi sociali, alla nuova configurazione del mercato del lavoro, ai conflitti identitari, ai paradossi della felicità, e così via, che si inizia a percepire cosa significa aver lasciato ai margini il civile, impedendogli di fatto di esprimere tutta la sua carica progettuale. E’ motivo di soddisfazione sapere che il Consiglio d’Europa, nel febbraio 2011, ha avviato il progetto denominato “Responsabilità Sociale Condivisa” rivolto al mondo delle imprese nel quale si riconosce il ruolo coessenziale dei soggetti di Terzo settore nella implementazione della “governance multistakeholder”. 5. L’ancoraggio etico del Terzo settore e la metrica del valore aggiunto sociale. 5.1 Di un ultimo argomento desidero qui trattare, anche se in breve. Come si sa, parecchie sono le matrici etiche che dirigono l’azione dei singoli e delle varie formazioni sociali. Ognuna di queste ha la sua propria storia e le sue proprie radici filosofiche e ideologiche. Quelle più rilevanti nella stagione della modernità sono l’utilitarismo legato soprattutto all’opera di Jeremy Bentham (1789) 25 la cui prima parola è utilità; il contrattualismo hobbesiano rinverdito da John Rawls (1971) la cui prima parola è giustizia; il deontologismo kantiano la cui prima parola è dovere; l’etica delle virtù, di ascendenza aristotelica, e sviluppata nel Novecento dal personalismo filosofico la cui prima parola è bene. (Per una illustrazione delle principali differenze tra le quattro matrici, rinvio al mio saggio,”La critica delle critiche alla CSR e il suo ancoraggio etico”, in L. Sacconi (a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa, Roma, Bancaria Ed. 2005). Chiaramente, l’adozione dell’una o dell’altra teoria etica comporta conseguenze di rilievo non solamente sul piano dei comportamenti individuali, ma anche sul disegno dell’assetto istituzionale, in particolare giuridico, della società. Ciò vale, e a fortiori, per il Terzo settore: vi sono soggetti e organizzazioni che privilegiano l’ancoraggio utilitaristico; altri quello neo-contrattualista e così via. Tutte tali opzioni sono legittime, perché fanno parte della visione del mondo che ciascuno deve essere lasciato libero di abbracciare. Ma una condizione sempre deve essere soddisfatta: che ci si renda conto delle conseguenze che ne derivano e soprattutto che si faccia conoscere a coloro con i quali si entra in dialogo la propria scelta. Per quanto mi riguarda, la mia scelta è per l’etica delle virtù, perché ritengo che questa sia la matrice filosofica maggiormente afferente ad un tipo di agire come quello proprio dei soggetti del Terzo settore. Cerco ora di darne ragione. Come Adam Smith, sulla scia della linea di pensiero inaugurata dagli umanisti civili italiani del XV e XVI secolo aveva compreso, l’assetto istituzionale di una società che desidera progredire deve essere forgiato in modo tale da favorire la diffusione tra i cittadini delle virtù civiche. Se gli agenti economici – si legge nella Teoria dei Sentimenti morali (1759) - non accolgono già nella loro struttura di preferenze quei valori che si vuole vengano affermati nella società non ci sarà molto da fare. Per l’etica delle virtù, infatti, l’esecutorietà delle norme dipende, in primo luogo, dalla costituzione morale delle persone; cioè dalla loro struttura motivazionale interna, prima ancora che da sistemi di enforcement esogeno, come possono essere gli schemi di incentivo o le norme di legge. Il punto che merita una sottolineatura è che la cifra dell’etica delle virtù è la sua capacità di risolvere, superandola, la contrapposizione tra interesse proprio e interesse per gli altri, tra egoismo e altruismo. E’ questa contrapposizione, figlia della tradizione di pensiero individualista, a non consentirci di afferrare ciò che costituisce il nostro bene. Una delle false necessità cui quella tradizione di pensiero ci ha abituati è il vedere i termini che descrivono le coppie indipendenzaappartenenza, efficienza-equità, autointeresse-solidarietà come alternativi. Ogni rafforzamento del senso di appartenenza viene visto come una riduzione della sfera di libertà; ogni avanzamento sul fronte dell’efficienza come una minaccia all’equità o alla solidarietà; ogni miglioramento dell’interesse individuale come un affievolimento di quello generale. Occorre liberarsi di queste 26 antinomie perché false: entrambi i termini di queste coppie devono stare assieme, al modo dei cavalli di Platone. La vita virtuosa è la vita migliore non solo per gli altri ma anche per se stessi. E’ in ciò il significato proprio della nozione di bene comune, il quale non è riducibile – come si è detto - alla mera sommatoria dei beni individuali. Piuttosto, il bene comune è il bene dello stesso essere in comune. Cioè il bene dell’essere inseriti in una struttura di azione comune, quale è, in generale, l’azione dei soggetti del Terzo settore. Si noti che mentre pubblico è contrario di privato, comune è contrario di proprio. Al tempo stesso, però, il bene comune non è dissociabile dal bene individuale. Il bene del singolo non scompare, in modo indifferenziato, all’interno di una grandezza che è la sommatoria dei beni dei singoli. E’ in ciò la differenza profonda tra bene comune e bene totale. Il guadagno specifico che ci offre l’etica delle virtù è quello di indicarci che il bene è qualcosa che avviene, che si realizza mediante le opere. Qui sta la chiave per dare risposta alla domanda riguardante il motivo per “essere etici”. Infatti, se non è bene per se stessi comportarsi in modo etico, perché non fare ciò che è bene per sè, anziché fare ciò che è raccomandato dall’etica? D’altro canto, se è bene per sè “essere etici”, che bisogno c’è di offrire incentivi ai soggetti economici perché facciano ciò che è nel loro stesso bene fare? La soluzione al problema della motivazione morale dell’agente non è quella di fissargli vincoli (o dargli incentivi) per agire contro il proprio interesse, ma di offrirgli una più completa comprensione del suo bene. Solo se l’etica cessa di essere considerata come puro insieme di regole, (come esige il deontologismo) quello della motivazione morale cessa di essere un problema, dal momento che siamo automaticamente motivati a fare ciò che crediamo sia bene per noi. (Cfr. L. Bruni, A. Smerilli, La leggerezza del ferro. Una teoria economica delle organizzazioni a movente ideale, Milano, Vita e Pensiero, 2011). Ecco perché coltivare virtù come quella della reciprocità è compito irrinunciabile non solamente dal punto di vista della cittadinanza – cosa da tempo risaputa – ma anche da quello dell’economia. Poiché le istituzioni economiche influenzano – e tantissimo – i risultati economici, occorre fare in modo che l’assetto economico-istituzionale della società incoraggi – e non penalizzi, come oggi stoltamente avviene – la diffusione più larga possibile tra i cittadini delle pratiche di reciprocità. I risultati poi seguiranno, nonostante quel che pensano gli scettici di varia appartenenza filosofica. Il segreto dell’azione reciprocante sta tutto qui: essa ci aiuta a rovesciare la tradizionale (e diciamolo pure, spesso consolatoria) etica della filantropia privilegiata dagli utilitaristi, portandoci a riflettere intorno alla essenzialità del principio di reciprocità in qualunque momento dell’esperienza umana, e dunque anche in quella economica. La quale se non è certamente l’unica, neppure può essere considerata una dimensione di secondaria importanza. Se è vero – come a me pare – che la 27 reciprocità può essere pensata come la cifra della condizione umana, allora essa deve caratterizzare il modo di essere anche dell’economicità. Far comprendere come sia possibile fare economia, ottenere risultati di rilievo stando nel mercato, senza recidere il rapporto con l’altro, è il grande contributo di un Terzo settore che pone il proprio fondamento valoriale nell’etica delle virtù. Un tale Terzo settore non si accontenta dell’orizzonte dell’economia solidale, ma mira all’economia fraterna, che include, senza negarla, la prima, mentre non è vero il contrario. Infatti, mentre quello di solidarietà è il principio di organizzazione della società che tende a rendere eguali i diseguali, il principio di fraternità consente a persone che sono già riconosciute eguali di esprimere la propria diversità, di affermare cioè la propria identità. 5.2 Come accade per ogni altro sistema di pensiero, anche l’etica delle virtù va coltivata e sostenuta, intervenendo sia sul piano propriamente culturale sia su quello giuridico-istituzionale. A seconda che si sostenga l’etica utilitarista o una delle altre matrici sopra ricordate si avranno conseguenze diverse e di grande momento. Per cogliere le implicazioni pratiche di tale asserto volgiamo l’attenzione ai sistemi motivazionali che troviamo all’origine dei comportamenti degli individui. Si distingue tra motivazioni estrinseche (compio una certa azione per il vantaggio, monetario o di altro tipo, che ne traggo); intrinseche (la mia azione ha per me un valore non strumentale, ma finale; vale a dire ha un valore in sè); trascendenti (realizzo una certa opera perché desidero che altri ne traggano vantaggio; in altro modo, perché voglio coscientemente produrre esternalità positive a favore di altri). Dalla prevalenza nelle persone dell’uno o dell’altro tipo di motivazione discendono i comportamenti che si osservano nella realtà: antisociali (è tale, ad esempio, il comportamento dell’invidioso che trae vantaggio dalle disgrazie altrui e che è pertanto disposto a sostenere costi specifici pur di conseguire un tale scopo); asociali (quello dell’homo oeconomicus che intende né danneggiare né avvantaggiare gli altri; avendo preferenze individualistiche, è interessato solamente al proprio io); prosociali (l’altruista più o meno estrenìmo; l’homo reciprocans; chi pratica il dono come gratuità e così via). Come la storia insegna e l’esperienza quotidiana conferma, i tre tratti comportamentali sono sempre presenti nelle società di umani, quali che esse siano. Quel che muta da una società all’altra è la loro combinazione: in alcune fasi storiche prevalgono comportamenti antisociali e/o asociali, in altre quelli prosociali, con esiti sul piano economico e su quello del progresso civile che è facile immaginare. (Per fare un esempio di grande attualità, si pensi al modello della commons-based peer production, di cui la forma più nota è quella del progetto Wikepedia, un fenomeno di cooperazione sociale il cui successo sarebbe stato impossibile immaginare ancora una decina di anni fa. La produzione tra pari è un modello sociale di produzione caratterizzato da due elementi. Il primo è la 28 decentralizzazione; il secondo è che non sono i prezzi né i comandi ad indurre all’azione una pluralità di soggetti partecipanti, ma le motivazioni intrinseche e trascendenti). Si pone la domanda: da cosa dipende che in una data società, in una data epoca storica, la combinazione dei tratti comportamentali sia dell’un tipo o dell’altro? Il fattore decisivo, anche se non unico, è, per un verso, il modo in cui si fanno le leggi; per l’altro verso, il modo in cui si organizza il processo lavorativo. Mi soffermo sul primo elemento. Se il legislatore, facendo propria una antropologia di tipo hobbesiano, secondo cui l’uomo è un ente malvagio fin nello stato di natura e quindi è un soggetto tendenzialmente antisociale, confeziona norme che caricano sulle spalle di tutti i cittadini sanzioni e punizioni pesanti allo scopo di assicurarne la esecutorietà, è evidente che i tipi prosociali, che non avrebbero certo bisogno di quei deterrenti, non riusciranno a sopportare a lungo il peso conseguente e quindi, sia pure obtorto collo, tenderanno a modificare per via endogena il proprio sistema motivazionale. E’ questo il cosiddetto meccanismo del crowding out (spiazzamento): leggi di marca hobbesiana tendono a far aumentare nella popolazione la percentuale delle motivazioni estrinseche e quindi ad accrescere la diffusione dei comportamenti di tipo antisociale. Proprio perchè i tipi antisociali non sono poi così tanto disturbati dal costo dell’enforcement delle norme legali, dal momento che cercheranno in tutti i modi di eluderle. Ebbene non v’è chi non veda come il punto sollevato trovi piena e concreta applicazione al Terzo settore. Troppo spesso accade di imbattersi in leggi e regolamenti che con l’intenzione lodevole di colpire comportamenti illeciti (che talvolta si annidano nel variegato mondo del Terzo settore) finiscono con il fiaccare la spinta motivazionale della stragrande maggioranza di chi vi opera, spegnendone la passione civile. Non possiamo non ricordare, a tal riguardo, la posizione dell’illuminista napoletano Giacinto Dragonetti, autore nel 1766 del celebre Delle virtù e dei premi: “Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare le virtù. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dalle Accademie ai discopritori di utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbero altresì le azioni virtuose? La moneta dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore”. E’ difficile trovare, nel XVIII secolo, pensatori più lucidi e lungimiranti del Nostro sul tema in discussione. Si confronti tale brano con quello corrispondente di Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene del 1765: “Le leggi sono condizioni colle quali uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità”. E’ agevole verificare l’applicazione, in tale brano,della linea di pensiero hobbesiana quale emerge sia dal De Cive (1642) 29 sia dal Leviatano (1651), le due grandi opere del filosofo inglese Thomas Hobbes. In definitiva, il punto importante da sottolineare è che una società che offre opportunità per facilitare l’esercizio di comportamenti virtuosi è una società che favorisce concretamente la proliferazione dei soggetti del Terzo settore. E viceversa. L’argomentazione di cui sopra abbisogna tuttavia di una qualificazione importante. Si tratta della distinzione tra premio e incentivo. Nonostante la confusione di pensiero che, complice un certo modo di fare comunicazione, continua a dominare, notevoli sono le differenze tra questi due concetti che troppo spesso vengono presi come equivalenti. (Si tenga presente che anche una sanzione o una punizione sono un incentivo ma col segno meno, cioè un disincentivo). Ne indico alcune, quelle più significative ai fini del presente discorso. Primo, con l’incentivo il principale di una qualsivoglia relazione di agenzia induce il suo agente – si pensi al rapporto tra proprietà e dirigenti di un’impresa; tra il responsabile di una organizzazione e i suoi stretti collaboratori; tra un genitore e il figlio – ad operare nell’interesse privato del principale. In altro modo, fine ultimo dello schema di incentivo è quello di allineare l’interesse dell’agente con quello del principale. Nel caso dell’impresa, questo significa assumere che l’interesse personale del dirigente coincida con quello di coloro per conto dei quali egli agisce (cioè i proprietari). Non così con il premio, che, invece, mira al bene comune. “Il premio – scrive Dragonetti – è il vincolo necessario per legare l’interesse particolare col generale, e per tenere gli uomini sempre intenti al bene”. In secondo luogo, la struttura formale dell’incentivo è quella di un contratto che, una volta sottoscritto dalle due parti di una relazione di agenzia, diviene vincolante per entrambe anche se è vero che l’agente cercherà di manipolare gli incentivi per trarne vantaggio. Esso è dunque ex-ante rispetto allo svolgimento dell’azione, e ciò nel senso che i termini contrattuali devono essere noti all’agente prima ancora che questi si ponga all’opera. Al contrario, il premio è ex-post, essendo un atto volontario del principale che, in quanto tale, non istituisce un’obbligazione in capo alle parti. La natura del premio è dunque quella del dono, mentre quella dell’incentivo è l’attribuzione all’agente di parte del valore aggiunto che questi ha creato. Ne deriva che la pratica, su larga scala, e per lunghi periodi di tempo, degli schemi di incentivo, tende a lungo andare ad affievolire nella comunità lo spirito del dono, dato che si fa solo ciò per cui è previsto un incentivo. Terzo, uno degli effetti maggiormente indesiderati dell’impiego degli incentivi è l’erosione del rapporto di fiducia tra principale e agente. Pensiamo ad un qualsiasi esempio di contratto incentivante. E’ inevitabile che, prima o poi, l’agente si chieda perché mai il suo principale gli offre l’incentivo. Infatti, delle due l’una: se quel che viene chiesto all’agente rientra nei compiti specificati nel contratto di lavoro (o nel contratto d’opera), l’offerta dell’incentivo costituisce il prezzo che il principale paga per la mancata fiducia nell’integrità morale del suo agente; se invece 30 all’agente si chiede di fare di più rispetto a quanto previsto dal contratto o dall’accordo oppure si chiede di fare qualcosa che viola il codice di moralità dell’agente, allora l’incentivo si configura o come forma di parziale sfruttamento dello sforzo extra compiuto dall’agente – nel primo caso – oppure come il pagamento versato per indurre l’agente a vincere le sue resistenze morali – nel secondo caso, che è quello oggi più frequente. (Si pensi all’incentivo rappresentato dalla corresponsione di stock options ai top manager dei grandi istituti finanziari per indurli a fare ciò che diversamente mai farebbero, come la recente crisi ha dimostrato ad abundantiam). In entrambi i casi, quel che si va a produrre è una perdita dell’autostima da parte dell’agente – il manager di una banca che per incassare l’incentivo inganna il cliente che gli chiede consiglio circa l’acquisto di prodotti finanziari, perde la stima in sé e dopo un pò anche il proprio benessere spirituale. Nulla di tutto ciò accade col premio che, invece, accrescendo l’autostima, rafforza il legame sociale. (Il figlio che, impegnandosi molto nello studio, riceve, alla fine del percorso scolastico, il premio del genitore rafforza la fiducia in sé e quindi sarà pronto per ulteriori sfide. Non così, invece, il giovane che “negozia” col genitore l’incentivo in una forma del tipo “se sarai promosso con una certa media, otterrai X; con un’altra media, otterrai Y”. Il giovane attribuirà verosimilmente l’offerta dell’incentivo al fatto che il proprio genitore conosce la sua indole pigra oppure la sua modesta capacità di apprendimento. In situazioni del genere, l’effetto indiretto negativo dell’incentivo, che opera sul sistema motivazionale del giovane oppure sulla sua costituzione morale, dominerà l’effetto diretto positivo che invece opera sullo sforzo profuso nello studio: il giovane studia di più, ma impara di meno, perché come ricordava Goëthe “si apprende solo ciò che si ama”). Di un’ultima differenza tra incentivi e premi mette conto di dire. E’ vero che nel breve periodo l’uso di incentivi può aumentare la produttività e può comportare un abbassamento dei costi di gestione. Un esempio proposto da Dari-Mattiacci e De Greet in un recente studio fa al caso in questione. (Citato in E. Carbonara, “Incentivi e premi”, in L. Bruni e S. Zamagni, Dizionario di Economia Civile, 2009). Un dittatore tiene sotto scacco la popolazione del suo paese con la minaccia (incentivo negativo) assicurata dalla possibilità di impiego di un solo proiettile: il primo che oserà ribellarsi verrà ucciso. Con il costo di un solo proiettile, il dittatore riesce pertanto a conservare il proprio potere. Cosa succederebbe, invece, se, anziché l’incentivo (negativo), il dittatore volesse adottare un sistema di premi a favore di tutti coloro che, non ribellandosi, accettano la perdita della democrazia? Che il costo di implementazione di un tale sistema diverrebbe proibitivo. Di qui la conclusione sopra riferita: i premi sono troppo costosi da gestire. E’ questa mentalità che spiega ad esempio, perché l’Italia occupa, tra i paesi avanzati, l’ultimo posto nel ranking del numero dei premi pro-capite. Mi limito a pochi dati: il Canada è il primo paese con 31 6,82 premi a testa; poi viene l’Inghilterra con 6,78; la Polonia con 6,16; l’Australia con 5,66. Gli USA registrano un 3,80; la Francia 3,60 e l’Italia 1,96.! (Cfr. B. Frey, “Abundant but neglected: awards as incentives”, Economists’ Voice, Feb.2009). Cosa rispondere all’argomento di cui sopra? Per un verso, che il modello elaborato dagli autori si regge sull’assunto antropologico secondo cui tutti i soggetti sono individualisti ed edonisti. Il che non è, perché, come sopra suggerito, non è empiricamente vero che tutti gli individui sono mossi all’azione da motivazioni estrinseche. Come la storia del Terzo settore indica sono milioni nel nostro paese coloro che agiscono con motivazioni intrinseche e trascendenti. Per l’altro verso, che è proprio l’impiego a lungo andare di incentivi a modificare, in una certa direzione, la struttura motivazionale delle persone, cambiandone il sistema di valori. L’uomo, ci confermano le neuroscienze, è l’animale più capace di adattamento all’ambiente in cui vive: se questo è “tenuto su” con gli incentivi è ovvio che, a lungo andare, anche la sua mente comincerà a funzionare secondo un meccanismo omeostatico di adattamento. Un punto questo che il grande economista Alfred Marshall aveva già compreso alla fine dell’Ottocento, quando osservava che l’impresa, prima ancora di essere luogo di produzione di beni e servizi, è luogo di formazione del carattere di chi in essa lavora: a seconda di come l’impresa viene organizzata, si formeranno uomini di un tipo o dell’altro. Gli incentivi creano sempre, tanto o poco, dipendenza – ed è per questo che sono inflazionistici: basti guardare alle remunerazioni del top management di oggi e confrontarle con quelle del top management di alcuni decenni fa – e abbassano i costi personali della tentazione – ed è per questo che generano effetti perversi. Non è così con i premi. Ecco perché Dragonetti può scrivere: “Essendo le virtù un prodotto non del comando della legge [né del contratto], ma della libera nostra volontà, non ha su di esse la società diritto veruno. La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altrui sudore”. (Corsivo aggiunto). Non v’è chi non veda come queste parole sembrano pronunciate apposta per il nostro Terzo settore. 5.3 Sorge spontanea la domanda: poiché per assegnare premi occorre stilare un ordinamento di meritori età, quale metrica adottare per valutare il merito delle varie realtà del terzo settore? E’ questo l’Hic Rhodus, hic salta del Terzo settore. Perché mai il principio della massimizzazione del profitto, nelle sue molteplici varianti, è diventato così onnipresente nelle nostre società, giungendo ad invadere sfere ben lontane da quella commerciale? Per la semplice ragione che il profitto è un efficace segnalatore di successo non solo di un’impresa, ma di una qualsiasi altra organizzazione. Il 32 non profit non ha un segnalatore equivalente di successo – si sostiene. Possiede bensì leve motivazionali – si ammette – ma non di performance. Bisogna riconoscere che la sfida è seria e non può non essere raccolta. Però può essere vinta. Ma perché – ci si può chiedere - sarebbe così rilevante arrivare ad un ordinamento di meritorietà dell’attività svolta dai soggetti del Terzo settore? Non è forse vero che questi soggetti hanno già dato e continuano a dare prova della loro meritorietà? Si possono certo capire, ma non giustificare, perplessità del genere. La ragione è presto detta. Infatti, se è vero che la cifra di tali soggetti è la qualità relazionale, è del pari vero che l’attività da essi svolta richiede pur sempre investimenti specifici e nel momento stesso in cui si parla di investimento sorge la necessità di disporre di un criterio sulla cui base procedere alla allocazione dei fondi. Si badi che il problema non si porrebbe se il Terzo settore fosse chiamato a svolgere funzioni meramente redistributive ovvero di supporto agli altri due settori. In tale caso, il finanziamento prenderebbe l’una o l’altra delle tante forme delle erogazioni liberali o della filantropia d’impresa (corporate philantropy), per un verso. Come ben sanno gli esperti di fund-raising, il filantropo o il donatore non hanno certo bisogno di un giudizio di carattere comparativo e controfattuale quando vanno a porre mano al proprio portafoglio. Per l’altro verso, quando il Terzo settore agisce per conto delle pubbliche amministrazioni, sono queste ultime a formulare un giudizio di meritori età sul suo operato. Ma nel momento in cui il Terzo settore si dichiara pronto (e desideroso) di spiccare il salto verso una piena autonomia e indipendenza – come qui si auspica – è evidente che il problema di arrivare a definire un ordinamento (ranking) di meritorietà non può più essere eluso. Si pensi solo a quel che succederà quando cooperative sociali, imprese sociali e fondazioni avranno accesso a capitali di rischio. In buona sostanza, c’è oggi nella nostra società una domanda crescente di valutazione del valore aggiunto sociale (VAS) e ciò per un duplice ordine di circostanze. In primo luogo, perché sempre più forte dai cittadini sale la richiesta di accountability: non si chiede solamente il rispetto degli adempimenti formali nell’uso delle risorse disponibili, ma anche che si dia conto dei risultati ottenuti. In secondo luogo, perché la diffusione sempre più ampia a livello popolare del principio di sussidiarietà orizzontale esige che, nella erogazione dei fondi, soprattutto pubblici, i criteri basati su regole procedurali vengano almeno affiancati, se non proprio sostituiti, da criteri che tengano conto dell’impatto sul ben-essere delle persone del modo in cui i cosiddetti servizi sociali vengono erogati. Non è difficile darsene conto. Mentre per i meccanismi allocativi basati sul principio di gerarchia bastano le procedure burocratico-amministrative, quelli fondati sul principio di sussidiarietà non possono non tenere conto delle esternalità positive che enti come le cooperative sociali, le imprese sociali, le fondazioni sono in grado di generare. 33 Ma è possibile valutare – molti si chiedono - cioè dare un valore alla qualità? In altri termini, è possibile esprimere un giudizio argomentato razionalmente intorno ad un oggetto quale la qualità tacita (o relazionale), considerato che non può darsi un’unità di misura riconosciuta universalmente, e perciò univoca, per un attributo basicamente qualitativo? Si tratta di questione antica e intrigante quanto poche. Conosciamo tutti la risposta dell’epistemologia neo-positivista secondo cui solamente le quantità possono essere misurate; ma già il grande matematico francese Emile Borel, nel suo trattato Space and Time del 1926, aveva provveduto a porre le basi di una risposta alternativa. La tesi che vi viene discussa è che tutta la conoscenza, tutta la scienza e tutta la matematica sono prodotti della coscienza umana e, come tali, devono essere visti come strutture intellettuali relative alla posizione degli esseri umani entro l’universo. Scrive il celebre scienziato: “Il valore della scienza non è in alcun modo diminuito dall’osservazione che essa è relativa all’uomo. Quale interesse potremmo avere in una conoscenza non connessa a noi stessi – sempre che il concetto stesso di una conoscenza del genere possa risultare non contradditorio?” (p.42). Secondo Borel, le incomprensioni nascono dall’equivoco secondo cui il misurabile viene identificato con la dimensione del quantitativo – una idea questa che trae origine dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo e dalla coupure epistemologica che ne è derivata. Col risultato che i numeri presero ad essere considerati non soltanto come entità in sé, ma anche come “nomi” per altre realtà, una volta che queste fossero state sottoposte ad un processo di quantificazione. Ma ciò non implica affatto che attributi qualitativi come la relazionalità, la reciprocità, il VAS non possono essere misurati. E’ dal contributo di Borel che è derivata la nozione di oggettività posizionale, come categoria di pensiero per così dire intermedia tra quella di oggettività e quella di soggettività. Come spiega Amartya Sen – lo studioso che più di ogni altro si è avvalso nel proprio lavoro scientifico della oggettività posizionale - non ci sono solamente verità soggettive e verità oggettive ma anche proposizioni il cui status di verità “dipende dalla nostra posizione rispetto all’oggetto di osservazione”. E aggiunge: “La visione posizionale dell’oggettività considera la dipendenza parametrica delle osservazioni, delle credenze, delle decisioni riguardanti gli aspetti posizionali degli individui. Essa conduce ad una visione dell’oggettività che contraddice la formulazione classica dell’invarianza necessaria nell’oggettività. L’approccio suggerito riguarda l’invarianza personale senza, al tempo stesso, formulare una domanda generalizzata di invarianza posizionale”. (La ricchezza della ragione, Bologna, Il Mulino, 2005, p.322). Come si comprende, l’idea è in sé semplice. Una volta fissati i parametri di giudizio che il valutatore ritiene di dover adottare e dunque una volta scelta la prospettiva di sguardo sulla realtà, è possibile procedere a valutare in modo posizionalmente oggettivo la performance di quegli enti che costituiscono il Terzo settore. Ripeto, la valutazione di meritorietà e il conseguente ordinamento 34 saranno oggettivi rispetto alla posizione scelta dal valutatore, cambiando la quale muterà anche la misurazione del VAS. Ma ciò non costituisce affatto problema, come il caso della misurazione del PIL (prodotto interno lordo) chiaramente indica. Si tenga presente, infatti, che pure la metodologia di calcolo del PIL si appoggia sulla nozione di oggettività posizionale. Eppure, nessuno oggi pone in discussione tale metrica. Al solo scopo di fissare le idee, mi limito qui ad indicare alcuni parametri di giudizio sulla base dei quali costruire degli indicatori di successo dei vari enti . Un primo parametro è certamente la reputazione acquisita dall’ente nel corso di un prefissato periodo di tempo. Come noto, il capitale reputazionale è figlio di storie di successo che dicono della trasparenza, della affidabilità e della professionalità del soggetto in causa e dunque della fiducia che ha saputo guadagnarsi. Bisogna essere depositari di tanta fiducia se si vuole riuscire nel proposito di aggregare la domanda dei portatori di bisogni. E che ci sia oggi urgente necessità di aggregare la domanda per sollecitare i soggetti di offerta a corrispondervi ci viene rivelato da una pluralità di indagini empiriche. Un secondo parametro deve misurare la capacità di sospingere all’esterno la frontiera delle opportunità di scelta delle persone. Perché si tratta di qualcosa di importante? La tradizione del welfarismo ci ha indotto a pensare che le opzioni debbono essere valutate sulla base del grado in cui le preferenze individuali sono soddisfatte. Ma in tal modo essa non dà adeguata rilevanza alla libertà di scelta. Il che è particolarmente grave in periodi, come l’attuale, caratterizzati da forte evoluzione dei bisogni. Ora, se si ammette – come penso si debba – che la libertà di scelta è un elemento importante del benessere individuale, indipendentemente da ciò che viene poi scelto, allora una dilatazione del campo di scelta è qualcosa di intrinsecamente buono, che in quanto tale merita di essere premiato. Terzo, la capacità di accrescere il pluralismo dei soggetti di offerta di un determinato servizio e/o bene. E’ noto che uno dei principali impedimenti all’accumulazione del capitale sociale è il cosiddetto group-think (pensiero di gruppo) secondo la definizione che ne ha dato L. Janis (Victims of group-think, Boston, Houghton, 1972), l’autore che per primo lo ha introdotto. Il pensiero di gruppo- da non confondersi con il conformismo – è il modo di pensare di coloro che, fortemente coinvolti in un gruppo coeso, posti di fronte ad una decisione da prendere desiderano – senza peraltro esserne costretti – raggiungere l’unanimità dei consensi e di conseguenza rinunciano ad ascoltare altre voci e a narcotizzare il conflitto interno al gruppo. Pertanto, quanto più un ente di Terzo settore si struttura in modo da scongiurare il rischio del group-think, tanto più meritoria sarà la sua attività, perché tanto più sarà in grado di fornire risposte a gruppi minoritari di persone, le cui esigenze raramente riescono ad entrare nei programmi standard di intervento. E’ noto, infatti, che il 35 cosiddetto universalismo selettivo tende a ridurre sempre più, per le note ragioni di bilancio, la platea degli aventi diritto. Quarto, l’effetto moltiplicatore sullo sviluppo locale. In breve, si tratta di questo. La globalizzazione, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, ha fatto rinascere l’importanza della “città”, cioè del territorio, come spazio non solo civile, ma anche economico e sociale. Sono le cosiddette economie di agglomerazione a rendere le città attrattori sempre più credibili delle attività di impresa. E’ un fatto che le attività produttive ad alta intensità di conoscenza sono basicamente attività cittadine. Questo significa che le “industrie creative” tendono a raggrupparsi attorno a quelle città che sanno offrire opportunità culturali adeguate. E’ la città il luogo per eccellenza in cui si forma e si rafforza l’identità culturale di una comunità di persone e dove si coltivano le virtù civiche. Per sua natura, il Terzo settore è un generatore di economie di agglomerazione. Ecco perché una città senza soggetti di Terzo settore è come se avesse ali tarpate e quindi è meno capace di osare vie nuove. Infine, non si può non tenere conto della capacità effettiva di networking, la capacità cioè di fare rete con altri soggetti (pubblici o privati) per il raggiungimento di obiettivi comuni, promuovendo quel modello di sussidiarietà che chiamo circolare e che costituisce, oggi, la versione più avanzata e più promettente di risultati positivi del principio di sussidiarietà. L’idea, basicamente, è di mettere in interazione i tre vertici del triangolo magico: enti pubblici; mondo delle imprese; società civile organizzata per arrivare a dare corpo a quel modello di amministrazione condivisa che, a tutt’oggi, solo pochissime realtà territoriali sono riuscite ad attuare. Ebbene, non v’è bisogno di grande esperienza per comprendere che solo il Terzo settore può svolgere il ruolo di attivatore e facilitatore di tale interazione. Un’ultima osservazione. Si badi, che è lo stesso Terzo settore che deve arrivare a proporre la propria metrica; non può delegare ad altri, per quanto esperti, un tale compito. Mai si dimentichi, infatti, che quel che si misura determina, alla lunga, quel che si fa e come lo si fa. 6 Al posto di una conclusione “Non dobbiamo essere come una voragine, che prende senza restituire, ma dobbiamo restituire ciò che ci è stato dato” (Dante, De Monarchia). Come il Poeta aveva chiaramente compreso, è l’agire reciprocante il cemento duraturo della società; e il Terzo settore ne è il principale produttore. Ma a quale condizione esso riesce a svolgere con successo un tale compito? Alla condizione di riuscire a far marciare assieme, alla medesima velocità, i due cavalli della 36 celebre metafora platonica di cui si è ripetutamente scritto nelle pagine precedenti: efficienza e solidarietà; produzione e distribuzione della ricchezza; libertà e responsabilità; spontaneità e professionalità; pensiero calcolante (quello che insegna a risolvere problemi) e pensiero pensante (quello che sa indicare la direzione). Queste coppie di termini sono applicabili a contesti diversi, come si è visto in questo saggio, ma il messaggio è sempre lo stesso: i soggetti del Terzo settore fioriscono quando riescono a mantenere in equilibrio i due termini di ciascuna coppia. Diversamente, lo snaturamento, nell’un caso, ovvero l’involuzione regressiva, nell’altro, diverrebbero una triste conseguenza. Questo comporta che quello del Terzo settore è un pensiero che non può che essere ellittico, vale a dire un pensiero che ruota attorno a due fuochi in maniera tale che la distanza da entrambi rimane sempre la stessa quale che sia il punto dell’ellissi nel quale ci si trova. Da ciò discende una precisa responsabilità in capo al legislatore, nazionale o regionale che sia. Si consideri infatti che tre sono i tipi di norme che stanno al fondamento dell’ordine di qualunque società: le norme legali; le norme sociali; le norme morali. Le prime sono espressione del potere coercitivo dello Stato e la loro esecutorietà è legata a ben definiti sistemi di punizioni; le norme sociali, invece, sono il precipitato di convenzioni e tradizioni di più o meno antica data, e la loro esecutorietà dipende dalla vergogna che sempre accompagna la stigmatizzazione di comportamenti devianti da parte della comunità (perdita di status e discriminazione sociale); le norme morali, infine, sono associate alla prevalenza di ben definite matrici culturali (di tipo religioso e non), e la loro violazione fa scattare negli individui il senso di colpa. (Per una ricostruzione storica dei tre tipi di norme e del loro significato pratico, rinvio al mio Avarizia. La passione dell’avere, Bologna, Il Mulino, 2009). Quale il nesso fra le tre tipologie di norme? Che se le leggi che vengono promulgate “marciano contro” le norme sociali e, ancor più, contro le norme morali prevalenti nella società, non solamente le prime non produrranno i risultati desiderati, perché non saranno rispettate - non è certo possibile sanzionare tutti i violatori - ma quel che è peggio andranno a minare la credibilità e/o l’accettabilità delle altre due categorie di norme, minacciando così la stabilità dell’ordine sociale stesso. E’ quel che succede con quelle che la letteratura giuridica chiama “inexpressive laws”, cioè leggi che non riescono ad esprimere quei valori che configurano l’architettura di una determinata società. Ecco perché sarà bene che il Terzo settore vigili con grande accortezza affinchè le imminenti leggi di riforma che lo riguardano direttamente non abbiano a prendere la forma di leggi non espressive. Meglio allora sarebbe non fare alcunchè. Chiudo con un’immagine che prendo a prestito da Fiori del male di Charles Baudelaire: l’immagine dell’albatros, un uccello che, al contrario del calabrone, possiede ali amplissime e zampe corte e sottili, comunque di dimensioni non proporzionate all’apertura alare. Quando si 37 impadronisce delle correnti ascensionali dell’aria, l’albatros vola con tale agilità e con così stupenda maestà da sembrare che il suo volo non gli richiede grande sforzo. Non appena si posa a terra, però, diventa maldestro, sgraziato e incapace, senza l’aiuto del vento, di spiccare il volo. Più agita le sue grandi ali, più appare goffo: e il risultato è che non sa fare altro che ridicoli balzi in avanti. Il Terzo settore è un po’ come l’albatros: quando vola alto riceve consenso e ammirazione; quando si posa a terra, e non tende le ali al vento, svela una certa impotenza, perché “a terra” è molto più facile scontrarsi (e per ragioni quasi sempre meschine) che non “in cielo”. E’ bene allora che il Terzo settore non presti ascolto a chi gli suggerisce di volare basso; si acconci piuttosto per intercettare le correnti ascensionali dell’aria. 38