Compendio di Diritto tributario Raffaello Lupi in questa collana: Compendio di Diritto Penale – Parte Generale Compendio di Diritto Penale – Parte Speciale Compendio di Diritto Costituzionale Compendio di Ordinamento e Deontologia Forense Compendio di Diritto dell’Unione Europea Compendio di Diritto del Lavoro Compendio di Diritto Civile Compendio di Procedura Civile Compendio di Diritto Internazionale Privato Compendio di Diritto Amministrativo Compendio di Procedura Penale Compendio di Diritto Ecclesiastico Compendio di contabilità di Stato e degli enti pubblici © Copyright – DIKE Giuridica Editrice, S.r.l. Roma La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i film, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservate per tutti i Paesi. Copertina Chiara Damiani Realizzazione editoriale Studio Editoriale Cafagna, Barletta Finito di stampare nel mese di giugno 2014 Indice generale Premessa I due volti della tassazione,tra aziende e uffici tributari......... XI parte prima DETERMINAZIONE TRIBUTARISTICA DELLA RICCHEZZA TRA ISTITUZIONI, AZIENDE E INDIVIDUI Capitolo 1 PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI NEL FINANZIAMENTO DELLA SPESA PUBBLICA: IMPOSTE E DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA TRA UFFICI TRIBUTARI E AZIENDE...............................................3 1.1. Fiscalità e tassazione dalle “entrate patrimoniali” ai tributi................................3 1.2. La finanza tributaria: il riferimento delle “imposte” alla ricchezza e le sue esigenze logiche di determinazione...........................................................4 1.3. Uffici pubblici e gruppi intermedi nella valutazione preindustriale della ricchezza .......................................................................................................6 1.4. Segue: la determinazione ragionieristica della ricchezza attraverso le aziende ..........................................................................................................7 1.5. Segue: differenza tra tassazione attraverso le aziende e c.d. “autotassazione”............8 1.6 Segue. Disorientamento tributario e bagaglio economico-sociale di pub blica opinione e classi dirigenti........................................................................9 1.7. Segue. Le divagazioni sul rapporto “stato –mercato” e sugli effetti eco nomici dei tributi: “pressione fiscale”, “redistribuzione” e determina zione della ricchezza.....................................................................................10 1.8. Determinazione della ricchezza tra diritto ed economia: beneficio sacrificio, redditi, consumi e costi..................................................................11 1.9. Determinazione della ricchezza tra esigenze logiche e gettito........................13 1.10.Tipologie economico-giuridiche di imposte e relativo gettito........................14 1.11. Segue. Tipologie di tributi e criteri di determinazione della ricchezza.............14 IV Compendio di Diritto Tributario Capitolo 2 RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE NELLA DETERMINAZIONE TRIBUTARISTICA DELLA RICCHEZZA .................................................16 2.1. La funzione organizzativa e garantistica della legislazione tributaria (ri serva di legge e statuto del contribuente) ......................................................16 2.2. Il richiamo alla determinazione della ricchezza nell’art. 53 della Costi tuzione e l’equivoco della “capacità contributiva globale individuale”.............19 2.3. Tassazione attraverso le aziende come illusione di poter amministrare per legge: il diritto tributario sostanziale........................................................21 2.4. Segue: la sopravvalutazione della legislazione nell’autotassazione.....................23 2.5. Determinazione della ricchezza e controllo della Corte costituzionale ..........25 2.6. Libertà comunitarie, vincoli al legislatore tributario e determinazione della ricchezza..............................................................................................26 Capitolo 3 DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA TRA TASSAZIONE ATTRAVERSO LE AZIENDE E AUTOTASSAZIONE (PUNTI FORTI DELL’ADEMPIMENTO E DELL’EVASIONE)..................................................................................................................29 3.1. Le aziende come “corpi sociali intermedi” nella determinazione della ricchezza .....................................................................................................29 3.2. Rigidità gestionali come strumento di determinazione della ricchezza attraverso le aziende......................................................................................31 3.3. La riutilizzazione di documenti contabili per la determinazione tri butaristica della ricchezza..............................................................................35 3.4. Ulteriori adempimenti esclusivamente tributari: scontrini, dichiarazioni e versamenti..................................................................................................37 3.5. Tassazione attraverso le aziende di ricchezza di terzi:“contribuenti di diritto” e “di fatto” tra rivalse, ritenute, segnalazioni e controversie pri vate con oggetto tributario............................................................................41 3.6. Segue. Il sostituto d’imposta come strumento di tassazione delle somme erogate a terzi (ritenute alla fonte tra funzione esattiva e segnaletica)..............43 3.7. La ricchezza fiscalmente non registrata, a beneficio dei titolari di orga nizzazioni aziendali (ipotesi sulla “grande evasione”)......................................47 3.8. Costo dei tributi, “cunei fiscali”, concorrenza sleale e ricchezza non re gistrata per finalità aziendali..........................................................................51 3.9. Qualificazione giuridica della ricchezza registrata e logiche dell’inter pretazione nella tassazione attraverso le aziende (le “simmetrie concet tuali” tra soggetti diversi e tempi diversi) ......................................................54 3.10. Segue: Evasione interpretativa, pianificazione fiscale ed elusione come ti pici comportamenti aziendali (rinvio alle contestazioni interpretative co me “diversivi istituzionali”)...........................................................................58 3.11. Evasione internazionale tra contestazioni interpretative e ricchezza non registrata.......................................................................................................63 indice V 3.12.Riepilogo: simmetrie della tassazione attraverso le aziende ed “arbi traggi”, tra correttezza sistematica, elusioni e frodi.........................................64 3.13. Dove le aziende non arrivano: l’inutile “ragionierizzazione” dei lavora tori indipendenti (il diversivo della “contabilità fiscale”) ................................66 3.14.Mancata registrazione degli incassi nel lavoro indipendente verso con sumatori finali...............................................................................................68 3.15. La crescente “ricchezza non osservabile”, discontinua, collaterale, anche di sopravvivenza............................................................................................70 3.16. Professionisti tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici: prospettive per un loro uso più efficiente.......................................................73 Capitolo 4 Determinazione della ricchezza, studiosi, pubblica opinione e spiegazioni dell’evasione fiscale................................77 4.1. Conferme macroeconomiche della prevalenza dell’evasione da ricchez za non registrata............................................................................................77 4.2. Utilità della propaganda nell’autotassazione ed esagerazioni controproducenti.........................................................................................................79 4.3.Mancata spiegazione della determinazione della ricchezza ai fini tri butari: lo “pseudonormativismo” accademico................................................81 4.4. Segue: impossibilità di avere spiegazioni organiche da altri studiosi so ciali, dai professionisti, dalle istituzioni, dai mezzi di informazione..................91 4.5. I riferimenti sensati, ma semplicistici, al “senso civico”, alle “aliquote”, al “contrasto di interessi”, alla “ragionierizzazione delle stime”.......................94 4.6. Segue: le spiegazioni politicamente strumentali e socialmente laceranti ..........97 4.7. Spiegazioni istituzionalistiche in una cornice di unità del diritto e col legamento con altre scienze sociali.............................................................. 100 Capitolo 5 LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE TRA RICCHEZZA NON REGISTRATA E CONTESTAZIONI INTERPRETATIVE ........... 105 5.1. Poteri amministrativi ed entrate pubbliche (tariffe, tasse in senso stretto, monopoli, contributi, imposte etc...) ........................................................... 105 5.2. Le istituzioni tributarie (Agenzia delle Entrate – Guardia di Finanza – uffici comunali – concessionari, etc.) .......................................................... 108 5.3. Le amministrazioni tributarie tra immagine istituzionale e protezione del singolo.................................................................................................. 110 5.4. Le istruzioni ai contribuenti come funzione amministrativa tributaria (modulistica, assistenza e interpretazioni amministrative).............................. 114 5.5. L’acquisizione delle dichiarazioni, e il loro controllo di correttezza for male e documentale.................................................................................... 116 5.6. Indagini interne e internazionali, relativi vizi e poteri di verbalizzazio ne amministrativa........................................................................................ 117 VI Compendio di Diritto Tributario 5.7. Gestione dei dati e finalità del controllo valutativo degli uffici: la “tax compliance” ............................................................................................... 121 5.8. Empirismo probabilistico e valutativo nella determinazione della ric chezza non registrata. (Le questioni di fatto nel diritto tributario)................ 125 5.9. Segue: necessità di coordinamento tra controlli contabili e valutativi: gli “indizi contabili”.................................................................................... 126 5.10. Stima della ricchezza non registrata, discrezionalità e “indisponibilità” del credito tributario................................................................................... 128 5.11. Segue. I sospetti di connivenza o negligenza come ostacolo a una sere na valutazione della ricchezza...................................................................... 130 5.12. Segue. Inadeguatezze della normativa sulla prova della ricchezza non registrata (ambiguità dei concetti di accertamento analitico contabile e induttivo extracontabile)............................................................................. 133 5.13.Valutazione amministrativa della ricchezza non registrata, tra indizi fisi co-economici e studi di settore (rinvio agli indizi finanziari al par. 5.16).......... 135 5.14.Tenore di vita e spesa “privata” come indizio di ricchezza non registra ta (accertamenti “sintetico-redditometrici”)................................................. 140 5.15. Quale intervento amministrativo su manifestazioni collaterali o spora diche di ricchezza?...................................................................................... 142 5.16. Incroci, banche dati, e tracciabilità: illusioni e realtà su altri “indizi contabili”.......................................................................................................... 145 5.17. Le aziende come paradossale capro espiatorio dei malesseri creati dal loro ruolo di “esattori del fisco” ................................................................. 146 5.18.Richiami ed esemplificazioni sulle contestazioni interpretative: la dif ficile difesa contro “l’inferno del dichiarato”................................................ 148 5.19. Segue: il controproducente controllo obbligatorio delle grandi aziende: quando i controlli fiscali “si sprecano”......................................................... 151 5.20. La tassazione per condono: una conferma della tendenza ad “ammi nistrare per legge”....................................................................................... 154 Capitolo 6 SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO E GIURISDIZIONALE ................................................................................................................. 157 6.1. I provvedimenti amministrativi degli uffici tributari..................................... 157 6.2. Segue: motivazione e prova della richiesta dei tributari................................. 160 6.3. Provvedimenti degli uffici tributari verso coobbligati solidali e con tribuenti di fatto......................................................................................... 162 6.4. Il contenzioso amministrativo: accertamento con adesione, conciliazio ne giudiziale, “mediazione” e prospettive..................................................... 164 6.5. Segue. Inadeguatezze del ricorso in opposizione e necessità di ulteriori livelli di responsabilità: prospettive della “mediazione tributaria” .................. 167 6.6. Le varie funzioni del ritiro degli atti in autotutela, tra correzione, abbat timento e definitivo abbandono.................................................................. 170 indice VII 6.7.Il contenzioso giurisdizionale: controllo dell’istituzione amministrati va o suo motivo di paralisi?......................................................................... 170 6.8. Segue: reclutamento dei giudici e avvio del processo.................................... 173 6.9. La procedura: difficile coesistenza tra sostanza impugnatoria ed ispira zione civilistica........................................................................................... 177 6.10. Il fallimento della “via giurisdizionale alla determinazione della ricchez za”: ostacoli al funzionamento degli uffici e possibili vie di uscita................. 182 6.11.Riscossione coattiva ed evasione da riscossione (l’esattore – Equitalia come diversa autorità amministrativa esattrice delle imposte)....................... 186 6.12. La “sicurezza della riscossione” e la sua celerità in pendenza di ricorso......... 189 6.13. Impossibilità di rimpiazzare con inasprimenti sanzionatori l’insuffi cienza dei controlli 1) le sanzioni amministrative......................................... 191 6.14. Segue: 2 Il confuso palliativo penaltributario tra mancata registrazione della ricchezza e contestazioni interpretative................................................ 195 PARTE SECONDA IL REGIME DELLA RICCHEZZA REGISTRATA Capitolo 7 I REDDITI E I CONSUMI DETERMINATI UNITARIAMENTE ATTRAVERSO LE AZIENDE ............................................................................... 201 7.1. La determinazione unitaria dei consumi e dei redditi nella tassazione attraverso le aziende: Iva e imposte dirette................................................... 201 7.2. Imposte sui consumi: dalla visibilità materiale delle merci a quella con tabile del “valore aggiunto” (l’IVA).............................................................. 203 7.3. Segue: le tecniche per raggiungere il consumo tra detrazione e “non imponibilità”................................................................................................... 205 7.4. L’IVA nei rapporti internazionali e intracomunitari..................................... 208 7.5. Il concetto di “impresa fiscale”, tra aziende, “lavoratori indipendenti” ed enti “no profit”....................................................................................... 210 7.6.Operazioni attive “tipiche” (“cessioni di beni” e “prestazioni di servi zi”) tra “volume d’affari” (o di ricavi) e “valore aggiunto”............................ 212 7.7. Supporti documentali delle operazioni attive, dei costi e dei consumi (registrazioni, fatture, scontrini, note di credito)........................................... 213 7.8. Segue: dai documenti ai libri contabili (richiami e integrazioni rispetto ai paragrafi 3.3-3.4)..................................................................................... 216 7.9. L’inerenza nelle imposte sui redditi e nell’IVA: 1) la distinzione tra costi e consumi................................................................................................... 219 7.10. Segue: 2) Inerenza e operazioni attive non soggette a tributo – deduzio ne interessi passivi....................................................................................... 221 7.11. Principali elementi rilevanti ai fini della dell’IVA e principio di onni comprensività delle imposte sui redditi........................................................ 223 VIII Compendio di Diritto Tributario 7.12. Il momento impositivo nella tassazione attraverso le aziende (cassa, competenza, irrilevanza delle mere valutazioni: rinvio alle operazioni straordinarie)............................................................................................... 224 7.13. Il valore fiscalmente riconosciuto e l’esposizione in bilancio dei beni di impresa, tra criteri patrimoniali e reddituali ................................................ 226 7.14.Valutazioni fiscali di fine esercizio e rapporti col bilancio............................. 229 7.15. Le valutazioni del patrimonio di fine esercizio 1) ammortamenti e accantonamenti.............................................................................................. 232 7.16. Le valutazioni di fine esercizio: 2) rimanenze di beni e servizi...................... 233 7.17. Coordinamento tra tassazione delle società e dei soci................................... 234 7.18. I criteri di collegamento della ricchezza al territorio nazionale.................... 237 7.19. Segue: simmetrie fiscali e rapporti internazionali, concorrenza fiscale dannosa, transfer price, cfr............................................................................ 238 7.20.Realizzo e neutralità nelle operazioni straordinarie d’impresa...................... 241 7.21. Determinazione tributaristica della ricchezza e procedure concorsuali......... 243 Capitolo 8 ATTIVITÀ “NON AZIENDALI”: PROFESSIONI LIBERALI, LAVORO DIPENDENTE, AGRICOLTURA, FABBRICATI, RISPARMIO E ATTI OCCASIONALI.................................................................................................. 246 8.1. Le modeste specificità rispetto all’impresa del lavoro autonomo “professionale”................................................................................................... 246 8.2.Ricchezza agricola tra catasto e IVA (tracce di forfettizzazione nella tas sazione attraverso le aziende?)...................................................................... 247 8.3.Tassazione ragionieristico-documentale del lavoro dipendente..................... 249 8.4.Redditi dei fabbricati e fiscalità immobiliare: l’importanza delle se gnalazioni dell’inquilino.............................................................................. 251 8.5.Tassazione attraverso le aziende di redditi di capitale e plusvalenze finanziarie..................................................................................................... 252 8.6. Le principali ipotesi residuali (“redditi diversi”)........................................... 255 Capitolo 9 REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI: DAL RISULTATO DELLE ATTIVITÀ ALLE IMPOSTE DOVUTE ............................................................ 256 9.1. I flussi reddituali nell’IRES, nell’IRPEF e nell’IRAP................................... 256 9.2.Realità e personalità dei tributi: concetti generali........................................ 257 9.3. La personalità dell’IRPEF: riporto perdite, oneri deducibili, detrazioni e “contrasto di interessi”.............................................................................. 258 9.4. Segue. Calcolo dell’imposta, progressività delle aliquote e personalità del tributo.................................................................................................. 260 9.5. Limitata rilevanza della pluriennalità dei redditi ai fini della limita zione della progressività .............................................................................. 261 9.6. L’IRAP come esempio di tassazione attraverso le aziende............................ 262 indice IX Capitolo 10 “TRIBUTI MINORI” TRA TASSAZIONE ATTRAVERSO GLI UFFICI E LE AZIENDE.............................................................................................. 265 10.1.Una geografia dei “tributi minori”............................................................. 265 10.2. I tributi sugli atti giuridici solenni o visibili................................................ 266 10.3. Istituzioni e organizzazioni nella tassazione dei documenti giuridici (bollo e concessioni pubbliche).................................................................. 268 10.4. “Ricchezza patrimoniale”e difficoltà di una sua gestione “attraverso le aziende” ................................................................................................ 269 10.5. Successioni e donazioni: una difficile determinazione di ricchezza pa trimoniale, senza l’aiuto delle aziende......................................................... 271 10.6.Altri tributi speciali su consumi di determinati beni e servizi (inclu so accise e dogane)..................................................................................... 273 10.7. La metamorfosi comunitaria dei tributi doganali......................................... 274 10.8.Tributi locali tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uf fici: aspetti tributari del “federalismo fiscale”............................................... 275 10.9. La tassazione patrimoniale locale sugli immobili (ICI e IMU)..................... 277 10.10. Aspetti concettuali di altri “tributi minori”................................................. 278 Premessa I due volti della tassazione, tra aziende e uffici tributari Q uesto volume cerca di non appiattirsi sulla “legislazione tributaria” e gli altri “materiali normativi”, ponendosi nell’ottica classica del diritto come studio di istituzioni pubbliche. Sotto questo profilo la particolarità del diritto tributario degli ultimi decenni è proprio la provenienza della maggior parte del gettito attraverso un coinvolgimento “solo potenziale” degli uffici tributari. Si tratta della “tassazione attraverso le aziende”, cioè dell’’utilizzazione in chiave tributaria della contabilità gestionale delle organizzazioni aziendali. Facendo leva sui documenti e le registrazioni contabili, lo stato determina senza fatica la ricchezza che transita attraverso le aziende. Si tratta soprattutto di ricchezza di consumatori, collaboratori dipendenti e autonomi, ovvero risparmiatori, di gran lunga prevalenti rispetto alla ricchezza dei titolari dell’azienda, cioè i profitti. Attraverso questo caso tipico di esternalizzzione di pubbliche funzioni (come la determinazione della ricchezza ai fini tributari) viene però individuata solo una parte della ricchezza. Il tradizionale intervento valutativo degli uffici tributari resterebbe infatti necessario per la sostanziosa quota di ricchezza che non transita dalle aziende, ma resta di “lavoro indipendente verso consumatori finali”, oppure che viene acquisita direttamente dal titolare dell’azienda, che scavalca a danno del fisco le procedure da lui stesso dettate per controllare i dipendenti. Si crea in questo modo non solo una falla economica nel gettito, ma anche una falla politica perché la pubblica opinione avverte una sperequazione fiscale, non voluta e incontrollata, collegata alla diversa visibilità delle forme di ricchezza. E’ un fenomeno che la pubblica opinione, senza punti di riferimento tra gli studiosi, neppure riesce a mettere a fuoco, divagando su spiegazioni confuse, come gli effetti economici dei tributi, la disonestà e l’onestà, l’eccessività delle aliquote, l’inefficienza della spesa pubblica, fino al fantomatico “partito degli evasori”. Nessuno capisce che, molto serenamente, la causa principale è la diversa esposizione della ricchezza al più efficiente esattore del fisco, cioè le organizzazioni aziendali. Ne nascono sperequazioni, recriminazioni e polemiche, alla base di inconcludenti e pluridecennali interventi legislativi, che riflettono la confusione delle classi dirigenti e delle istituzioni. La diversa determinabilità della ricchezza dovrebbe essere fronteggiata dagli uffici tributari, il cui compito è però ostacolato sia dalle drammatizzazioni suddette sia dal mancato coordinamento teorico tra i già indicati criteri ragionieristici e la secolare tradizione estimativa. Persino la definizione del sistema come ”autotassazione” è riduttiva rispetto alla sostanza del fenomeno, perché non valorizza l’importanza di un intervento valutativo degli uffici, adeguatamente sistematico, sulla ricchezza non intercettata dalle aziende. Questo spiega la necessità di un volume “di diritto” , che eviti da un lato la parafrasi normativa e dall’altro la dispersione nella casistica professionale, inquadrando per gli operatori del diritto i veri problemi della determinazione dei tributi. Il primo capitolo del volume innesta la suddetta utilizzazione delle aziende sugli aspetti strutturali, storici, stabili, della tassazione come esercizio di potere “politico-amministrativo” ; rispetto XII Compendio di Diritto Tributario a quest’ultimo è importante la prospettiva del legislatore, cioè della politica, su cui si sofferma il capitolo secondo: in quella sede emerge che la preoccupazione della politica non è sistematizzare i concetti della determinazione tributaristica della ricchezza, ma perseguire al meglio gettito, consenso, coesione sociale, principi costituzionali e obblighi europei. Seguono (capitolo terzo) i comportamenti delle istituzioni private (aziende) e degli individui, sulle decisioni di quanta parte della ricchezza registrare fiscalmente e come inquadrarla giuridicamente. Inizia al capitolo quarto l’esame di come le istituzioni, gli studiosi, le classi dirigenti, le associazioni di categoria, gli organi di informazione, e più in generale la pubblica opinione reagisce ai problemi indicati sopra. Questa reazione, confusa e disorientata, è il punto di riferimento delle istituzioni di settore, analizzate al successivo capitolo quintoLa valutazione, da parte del fisco, della ricchezza non registrata, è ostacolata dal diffuso preconcetto che essa debba svolgersi con la precisione ragionieristica tipica delle aziende. Vi contribuisce una degenerazione del principio di legalità, che spinge i pubblici uffici a non assumersi iniziative né responsabilità di stima della ricchezza, mentre la determinazione della ricchezza non dichiarata è strutturalmente valutativa. Sono deficit culturali che rendono poco sistematico, e dispersivo, l’intervento degli uffici. Che preferiscono le contestazioni interpretative su come i contribuenti hanno inquadrato la ricchezza registrata. Da questi fattori emerge un contenzioso enorme, che dovrebbe essere gestito più in via amministrativa che giurisdizionale, conformemente alla matrice della materia. Nella parte seconda si esamina il sistema delle imposte, sotto il profilo del regime della ricchezza fiscalmente registrata, trattando in parallelo la tassazione dei redditi e dei consumi (IVA) attraverso le aziende. Il libro non si dirige ai casi particolari dei professionisti, e proprio per questo può servire anche a loro, nonché a tutti gli operatori del diritto, come premessa per comprendere i nodi reali della tassazione in generale, ed in Italia in particolare. Dove le spiegazioni legalistico-processuali hanno portato il settore nel caos più totale, rendendo necessario per la pubblica opinione e le classi dirigenti un nuovo punto di riferimento “amministrativistico-economico”; in cui cioè il diritto amministrativo si intreccia con l’oggetto economico della determinazione della ricchezza. La riscoperta e la valorizzazione della matrice amministrativistica del diritto tributario è infatti uno degli obiettivi cui questo testo vuole contribuire, assieme ai siti internet www.giustiziafiscale.com e www.fondazionestuditributari.com. parte prima DETERMINAZIONE TRIBUTARISTICA DELLA RICCHEZZA TRA ISTITUZIONI, AZIENDE E INDIVIDUI Capitolo 1 PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI NEL FINANZIAMENTO DELLA SPESA PUBBLICA: IMPOSTE E DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA TRA UFFICI TRIBUTARI E AZIENDE Sommario: 1.1. Fiscalità e tassazione dalle “entrate patrimoniali” ai tributi – 1.2. La finanza tributaria: il riferimento delle “imposte” alla ricchezza e le sue esigenze logiche di determinazione – 1.3. Uffici pubblici e gruppi intermedi nella valutazione preindustriale della ricchezza – 1.4. Segue: la determinazione ragionieristica della ricchezza attraverso le aziende – 1.5. Segue: differenza tra tassazione attraverso le aziende e c.d.“autotassazione” – 1.6 Segue. Disorientamento tributario e bagaglio economico-sociale di pubblica opinione e classi dirigenti – 1.7. Segue. Le divagazioni sul rapporto “stato –mercato” e sugli effetti economici dei tributi: “pressione fiscale”, “redistribuzione” e determinazione della ricchezza – 1.8. Determinazione della ricchezza tra diritto ed economia: beneficio-sacrificio, redditi, consumi e costi – 1.9. Determinazione della ricchezza tra esigenze logiche e gettito – 1.10.Tipologie economicogiuridiche di imposte e relativo gettito – 1.11. Segue. Tipologie di tributi e criteri di determinazione della ricchezza 1.1. Fiscalità e tassazione dalle “entrate patrimoniali” ai tributi I tributi riguardano, da millenni, l’attività dei pubblici poteri, cioè dell’espressione politica di un gruppo sociale che, attraverso suoi funzionari o suoi incaricati chiede una prestazione agli individui, direttamente o attraverso altri gruppi sociali “intermedi”. L’intervento, attuale o potenziale, di autorità amministrative, o loro incaricati, è quindi strutturale, caratterizzante, della materia. Si può anche fare a meno dei tributi quando la spesa pubblica (difesa, sicurezza, infrastrutture, sanità, etc.) può essere finanziata con altri tipi di entrate, derivanti da un patrimonio pubblico, come l’affitto delle terre, lo sfruttamento delle miniere, frequente nei moderni paesi petroliferi. Anche per questo la tassazione è solo una parte della fiscalità, costituita dall’insieme delle entrate e delle spese pubbliche. Alla fiscalità, più che alla tassazione (che potrebbe come detto anche mancare) si addice l’aforisma di Beniamino Franklin, secondo cui nulla è certo, meno la morte e le tasse. 4 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Oltre che dal suddetto sfruttamento di un “patrimonio pubblico”, entrate possono derivare dalla remunerazione di servizi specifici resi agli utenti di servizi pubblici (tariffe, secondo il principio del beneficio, di cui già al par. 1.8 e quindi 5.1), dall’esercizio di funzioni pubbliche (tasse in senso stretto par. 5.1), e infine dalle vere e proprie “imposte”, collegate a manifestazioni di ricchezza (ed oggi prevalente fonte di entrata). Lo sfruttamento del patrimonio comune era, nell’area soggetta al controllo del gruppo, il primo nucleo della “finanza patrimoniale”; si pensi all’uso collettivo delle risorse naturali come la cacciagione e i corsi d’acqua, poi la legna, ed infine i terreni agricoli, le miniere, i pascoli, le infrastrutture stradali o portuali; questo patrimonio comune, gestito attraverso la politica, era chiamato “erario” o “fisco”. Dal suo sfruttamento derivavano entrate, che consentivano di accumulare metalli preziosi, anch’essi appartenenti al “tesoro”. Questo patrimonio, tipico della c.d. “finanza patrimoniale”, e non ancora “tributaria”, poteva alimentarsi in molti altri modi, tutti in ultima analisi basati sulla forza del gruppo; c’erano anche prede belliche, tributi imposti ai popoli vinti, riscatti di nemici catturati, concessioni per attività economiche, come i commerci d’oltremare, confische a individui o sottogruppi caduti in disgrazia, sanzioni per piccole irregolarità, contributi spontanei di personaggi illustri o facoltosi, destinati a conseguire titoli nobiliari, investiture religiose o visibilità politica. Costituiva una fonte di finanziamento anche il monopolio della monetazione, un tempo attraverso la diminuzione del contenuto di metallo prezioso, e oggi – semplicemente – stampando moneta per finanziare la spesa o emissioni di debito pubblico; quest’ultimo può anche essere alimentato mediante prestiti c.d. forzosi. La “forza”, connessa all’autorità politico-amministrativa, caratterizza la maggior parte di queste entrate, prima di tutto verso il nemico esterno, ma anche all’interno del gruppo. Già nella finanza patrimoniale emergono i profili autoritativi e amministrativistici tipici della tassazione. Se persino i patrimoni privati esistono in base a un riconoscimento della collettività, quello “pubblico” appartiene “alla collettività”, ed è utilizzato nelle forme tipiche del diritto amministrativo, come la “concessione”. A maggior ragione il potere amministrativo caratterizza le confische, le espropriazioni, le sanzioni e la monetazione, come pure quelle organizzazioni di servizi pubblici cui si connettono le entrate “tariffarie” (par. 5.1). 1.2. La finanza tributaria: il riferimento delle “imposte” alla ricchezza e le sue esigenze logiche di determinazione La finanza patrimoniale, descritta al paragrafo precedente, era insufficiente a coprire le spese pubbliche, si era costretti ad introdurre “imposte”, cioè tributi commisurati a manifestazioni di ricchezza. Emerge quindi il carattere “socialmente residuale”. Per questo, se da un lato al pubblico potere piace avere margini di intervento (quindi spendere) al tempo stesso le imposte sono politicamente sgradite alla base CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 5 consensuale del potere politico, salva la percezione di necessità gravi, come guerre o altre calamità. Al diritto tributario interessano soprattutto i criteri giuridici per determinare le imposte, commisurate per natura a manifestazioni di ricchezza. Quest’ultima deve prima di tutto essere determinata, il che è sempre tradizionalmente avvenuto, da parte di pubblici uffici o di loro emissari, con metodi tradizionalmente valutativi. Ciò può avvenire solo attraverso un’iniziativa concreta sufficientemente sistematica, anche se non diretta a tutti, secondo un filo conduttore del testo, ripreso al par. 1.5. La richiesta dell’imposta, infatti, non può fare leva sulla mancata erogazione di un servizio pubblico agli inadempienti, e deve quindi prevedere una richiesta autoritativa, da parte delle pubbliche autorità. La coercizione amministrativa è meno importante nei piccoli gruppi sociali dove le necessità collettive sono avvertite, ci si osserva reciprocamente, e ci si chiede cosa fa ognuno per il gruppo. L’intervento di pubblici uffici diventa sempre più importante nella misura in cui il gruppo diventa più numeroso, e gradualmente si attenua la percezione dell’utilità del tributo per il bene comune. Possono esserci anche contributi personali all’organizzazione sociale, e questo spiega le esenzioni fiscali esistenti, nelle società preindustriali, per i guerrieri e i dirigenti politico-religiosi, dediti all’organizzazione della collettività. Le stesse ragioni, all’inverso, spiegavano i maggiori oneri tributari a carico di categorie sociali esonerate dal servizio militare per ragioni, ad esempio, etniche o religiose. Questi privilegi e aggravi tributari divennero gradualmente anacronistici col passare del tempo; con l’illuminismo, la rivoluzione francese e l’età liberale si affermò sempre più l’idea di una tassazione commisurata alla ricchezza nelle sue varie manifestazioni, su cui già il prossimo paragrafo 1.3. Qui parleremo di “ricchezza” per indicare “entità economicamente valutabili”, intese in senso aggregato, non riferito a singoli individui, riferibile quindi anche ai magri consumi dell’indigente che acquista un po’ di cibo al supermercato, al salario di un operaio o al modesto reddito di un artigiano. La maggior parte della ricchezza di un paese, da sempre, si distribuisce sulla massa della popolazione, in gran parte povera, ma presso cui si colloca la maggior parte della ricchezza liquida del paese (vedremo ai par. 7.13 e 7.20 che l’avviamento delle aziende non è invece liquido, rappresentando l’attualizzazione di redditi futuri). La determinazione della ricchezza è quindi il principale passaggio che giustifica concettualmente il diritto tributario come disciplina giuridica; la decisione sulla parte di ricchezza da prelevare a titolo di imposta è infatti più “politica” che “giuridica” e dipende da un articolato insieme di variabili che non dipendono dai tributaristi. La determinazione della ricchezza accompagna logicamente la richiesta delle imposte. Nel termine imposta è contenuta l’idea di un potere, di qualcuno che “imponga” di pagare, con una richiesta autoritativa legittimata dalla presenza di ricchezza. La determinazione della ricchezza comporta una serie di esigenze come la precisione, la snellezza, la semplicità, l’effettività, ed altre, da riferire alle informazioni disponibili sulla ricchezza di riferimento. 6 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui La “precisione” spinge a valorizzare al meglio le informazioni disponibili, che possono essere economico-materiali o giuridico-contabili, nei termini indicati al prossimo paragrafo, per l’era preindustriale, nonché ai paragrafi 1.4.-1.8.-1.10 per i giorni nostri. La precisione va però contemperata con la semplicità e la sistematicità, necessarie a perseguire la perequazione tributaria, cioè una tassazione non troppo squilibrata su contribuenti diversi e ricchezze similari. Su questo sfondo si inseriscono ulteriori esigenze, più giuridiche (anche se non legislative), come la certezza e stabilità dei rapporti, intesa come prevedibilità dei comportamenti delle istituzioni, la possibilità dei privati di interloquire con gli uffici tributari, e – se necessario – di difendersi davanti a giudici, le cautele contro evasioni e stratagemmi per ridurre il carico tributario. Su questi “principi di settore”, derivanti dalla forza delle cose, si inseriscono poi gli effetti economici delle imposte, sul piano politico del gettito, della sopportabilità dei tributi, della promozione dell’attività economica (definita variamente in termini di “sviluppo” e “crescita”), del sostegno ad attività o servizi socialmente meritevoli. Quello degli effetti delle imposte è chiaramente un momento logico successivo a quello della determinazione della ricchezza. 1.3. Uffici pubblici e gruppi intermedi nella valutazione preindustriale della ricchezza Incrociando le esigenze indicate al paragrafo precedente (precisione, semplicità, etc.) si possono capire e spiegare tutte le fasi della tassazione nel tempo, iniziando dall’economia agricolo-artigianale (preindustriale). In quest’epoca la ricchezza era prodotta essenzialmente attraverso l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato. La tassazione delle attività agricole comportava la stima diretta dei relativi frutti, ovvero un più sofisticato censimento e misurazione del territorio e delle coltivazioni (lo ritroveremo al par. 8.2 per l’attuale catasto). Era anche relativamente agevole la tassazione della movimentazione delle merci, trasportate attraverso luoghi presidiabili, come porti, ponti, mercati (su questi antenati dei tributi sui consumi vedi il par. 7.2, introduttivo all’imposta sul valore aggiunto). In altri casi la ricchezza diventava visibile proprio per la solennità degli eventi giuridici in cui si manifestava, come la cessione della proprietà fondiaria, la successione ereditaria (par. 10.2 sull’imposta di registro), la liberazione di uno schiavo. L’individuazione e determinazione della ricchezza era qualche volta troppo complessa per gli scarni apparati burocratici dell’epoca, e quindi ci si serviva di corpi sociali intermedi (territoriali) oppure di “appaltatori delle imposte”, cui veniva demandato l’esercizio di pubblici poteri, con rischi di abusi e favoritismi. I corpi sociali intermedi della società “agricolo-artigianale”, erano territoriali (cittadine, feudi, aree rurali), etnico religiosi o professionali (corporazioni artigianali), ed erano destinatari di richieste complessive di imposte basate sulla stima della ricchezza complessiva facente capo ai loro membri. Queste richieste venivano poi, all’interno del gruppo, ripartite CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 7 sulle famiglie o sugli individui in base a una stima delle loro condizioni economiche individuali, in un sistema denominato “a ripartizione”, tipico di antichi tributi, come il focatico e il testatico. Qui la ricchezza non era determinata “in assoluto”, ma era idealmente comparativa rispetto agli altri individui e alle altre famiglie del gruppo, per ripartire proporzionalmente la somma richiesta, secondo un criterio simile a quello dell’odierno condominio. Qui era possibile tener conto della complessiva posizione personale e familiare dei singoli (oggi invece velleitaria, come vedremo al par. 2.2 sulla capacità contributiva). Le incertezze e i favoritismi di queste ripartizioni, nonostante la forte conoscenza reciproca interna al gruppo, provocarono penalizzazioni o favoritismi, talvolta in parte fronteggiati elaborando “catasti” (da non confondere con quelli indicati sopra per l’agricoltura), diretti a schedare le complessive situazioni economiche come punto di riferimento per la determinazione valutativa e personalizzata. 1.4. Segue: la determinazione ragionieristica della ricchezza attraverso le aziende Col graduale passaggio dalla produzione agricolo-artigianale a quella di serie attraverso le “aziende tecnologiche” (capitolo 3) divenne possibile la determinazione contabile della ricchezza; la documentazione aziendale, come descritta ai paragrafi 3.3-3.5, consentiva una “visibilità giuridica della ricchezza”, per certi versi analoga a quella indicata al paragrafo precedente per gli “atti solenni”. Le aziende come organizzazioni pluripersonali (par. 3.1) erano un nuovo “corpo sociale intermedio”, analogo a quelli indicati al termine del paragrafo precedente, per la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Attraverso le aziende, la tassazione viene esternalizzata, rispetto ai pubblici uffici, e la contabilità aziendale crea una nuova opportunità di determinazione della ricchezza, che il fisco non si è fatto sfuggire, e su cui ha fatto, anzi, un affidamento eccessivo e disordinato instaurandola anche dove le aziende non esistevano o non ne avevano bisogno (par. 3.13 sulla ragionierizzazione degli artigiani e dei piccoli commercianti, e 4.5 sulla c.d. ragionierizzazione delle stime). Come tutti gli operatori economici, le aziende filtrano la ricchezza acquisendo consumi e restituendo redditi, lasciandone traccia nelle relative registrazioni contabili, cui solo le aziende, come organismi pluripersonali, hanno interesse per ragioni gestionali. Il fisco vi si inserisce per tassare consumatori da una parte e beneficiari del reddito dall’altra. Attraverso la contabilità delle aziende, si colpisce quindi la ricchezza che viene a contatto con esse: cioè i consumi che acquisiscono e i redditi che erogano, al netto dei passaggi intermedi, per retribuzioni, interessi, canoni di locazione o dividendi. L’intervento delle aziende nella tassazione di ricchezza altrui crea una sorta di “cuneo fiscale”; nella tassazione dei consumi si tratta di una differenza tra la somma sborsata dal consumatore e il ricavo aziendale; inversamente, per la tassazione “in uscita” il “cuneo fiscale” consiste nella differenza tra costo dell’azienda e reddito del percettore (è frequentemente menzionato in proposito il “cuneo fiscale” sul lavoro). Vedremo al 8 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui par. 3.8 gli espedienti fraudolenti per ridurre questi onerosi differenziali, rendendo più competitiva l’azienda, in una sorta di concorrenza sleale tributaria. La tassazione attraverso le aziende sfrutta le informazioni gestionali da esse acquisite nell’ordinario, tipico, ciclo amministrativo: i clienti delle imposte sui consumi sono quindi conosciuti solo per quanto riguarda la relativa solvibilità, quando le vendite avvengono a credito; le vendite con strumenti di pagamento affidabili sono invece anonime, perché l’azienda si concentra sulla “bontà” del pagamento, ed è impensabile imporle ulteriori obblighi di identificazione fiscale del cliente. Nella tassazione “in uscita” il fornitore è invece per altri versi conosciuto, soprattutto nel caso dei lavoratori indipendenti e dei risparmiatori, il che consente al fisco di accedere alle relative informazioni, come vedremo al capitolo terzo per le ritenute alla fonte. Le aziende non hanno altra conoscenza formale, e quindi giuridicamente gestibile, di ulteriori informazioni rispetto a quelle necessarie per la gestione dei rapporti economici con le controparti. Per questo, la tassazione attraverso le aziende, efficientissima finché asseconda l’operatività gestionale degli uffici contabili, si blocca non appena la legislazione fiscale pretende informazioni ulteriori, rilevanti solo ai fini fiscali, e che l’azienda non ha modo, né poteri, di controllare. Dalle statistiche si comprende che il gettito tributario italiano proviene in massima parte da qualche migliaio di “aziende di grandi dimensioni”, con una presenza insufficiente dell’amministrazione tributaria sulla ricchezza non determinabile attraverso le aziende, soprattutto lavoro indipendente, materiale (d’impresa) e intellettuale (professioni liberali par. 8.1). Proprio la precisione contabile della determinazione della ricchezza attraverso le aziende crea paradossalmente gli squilibri, che ci accompagneranno in tutto il testo (qui par. 1.6, infra cap.4) rispetto alla tradizionale tassazione valutativa, ancora fondamentale per la ricchezza non intercettata dalle aziende. Coordinare queste diverse modalità di determinazione della ricchezza è la principale giustificazione del diritto tributario in quanto scienza sociale, come vedremo al par. 4.3. L’obiettivo è evitare le sperequazioni politicamente non giustificate, connesse solo alla diversa determinabilità della ricchezza, e che ci accompagneranno nel corso del testo. 1.5. Segue: differenza tra tassazione attraverso le aziende e c.d. “autotassazione” La determinazione “ragionieristica” della ricchezza, attraverso le rigidità contabili delle organizzazioni aziendali è molto efficiente, se sussistono le condizioni, dando quasi l’impressione di un sistema in grado di funzionare da solo. Dove però le aziende non arrivano, occorre mantenere la tradizionale determinazione valutativa della ricchezza, descritta al paragrafo 1.3 per i tributi del passato. Per coordinare queste due modalità di determinazione della ricchezza fu elaborato il fuorviante concetto di “autotassazione”, estendendo forzatamente agli individui la richiesta di tributi per legge, concepibile per le aziende; era un’espressione fuorviante CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 9 perché confondeva la tassazione attraverso organismi pluripersonali privi di bisogni personali (aziende) e individui, provvisti invece di tali bisogni, e quindi tendenti ad evadere. Per questi ultimi la richiesta delle imposte per legge funziona efficacemente solo se accompagnata da una richiesta concreta sufficientemente sistematica, tale da indurre a pagare, di propria iniziativa, molti soggetti cui in concreto gli uffici non si rivolgeranno mai. Serve però un intervento degli uffici abbastanza esteso per farne percepire la presenza anche ai contribuenti non controllati, inducendoli a una credibile autodeterminazione del tributo. L’“autotassazione” è diversa dalla tassazione attraverso le aziende, e rappresenta un adeguamento della secolare tradizione valutativa della tassazione (par. 1.3); l’autotassazione non si dirige alle aziende, ma agli individui, con una sfera personale cui il pagamento dei tributi sottrae risorse; in questo caso la tassazione non è mai “auto”, ma è sempre “etero”, cioè provocata da un impulso esterno, ancorché potenziale. Senza un adeguato intervento degli uffici, l’autotassazione è quindi una contraddizione in termini, contraddicendo la già indicata necessità che “le imposte siano imposte”, anche solo potenzialmente, ma con sistematicità. In una certa misura l’autotassazione è sempre esistita, in quanto una “cooperazione coatta” dei contribuenti col potere tributario è ineliminabile. Nella società moderna la richiesta della collaborazione del contribuente è resa più agevole dalla rapidità di circolazione delle informazioni, delle comunicazioni e di una serie articolata di servizi di trasmissione e consulenza. Un intervento amministrativo adeguatamente diffuso resta però fondamentale, nonostante gli effetti di annuncio mediatici (par. 4.2) e la prospettiva di sanzioni (par. 6.13). Per questo gli interventi degli uffici tributari devono essere sistematici, nel senso di riguardare un numero di contribuenti sufficiente a spingere la massa ad un adempimento credibile. All’autotassazione si addice quindi la teoria degli economisti, secondo cui la ricchezza dichiarata dipende da una combinazione di “aliquote sanzioni e controlli”. Le aliquote, a parità di sanzioni, esprimono il vantaggio immediato dell’evasione tributaria, le sanzioni – unite alle aliquote – esprimono l’ipotetico pregiudizio futuro dell’evasore, la cui probabilità dipende però dall’intensità dell’intervento amministrativo. 1.6 Segue. Disorientamento tributario e bagaglio economico-sociale di pubblica opinione e classi dirigenti Dovrebbe essere a questo punto già abbastanza chiaro che lo squilibrio della tassazione italiana sulla determinazione della ricchezza attraverso le aziende non deriva da un consapevole e programmato disegno. È stata, piuttosto, istintivamente colta dalle istituzioni l’opportunità di determinazione della ricchezza attraverso la contabilità aziendale, di cui empiricamente sono stati cercati surrogati dove le aziende non arrivavano; del resto, come vedremo al par. 4.3, non è compito delle istituzioni, politiche o amministrative, teorizzare fenomeni complessi, come le varie forme di determinazione della ricchezza. 10 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Il disorientamento della pubblica opinione e della classe dirigente in materia tributaria riguarda non solo e non tanto “la maggioranza numerica delle persone o dell’elettorato” quanto piuttosto la “classe dirigente”, che opera nella politica, nelle istituzioni, nella rappresentanza dei ceti produttivi, nell’alta burocrazia, nei mezzi di informazione, nella cultura, influenzando le tendenze della collettività. Sulla tassazione si riflette l’inadeguatezza del bagaglio socioeconomico complessivo della pubblica opinione, sulle cui ragioni storico-formative si veda il mio compendio di scienza delle finanze sempre della Dike. In materia tributaria, sul concetto stesso di azienda, si ritrovano gli ostacoli derivanti dalle vicissitudini storiche italiane degli ultimi secoli, e gli ostacoli a una serena sedimentazione spontanea di un bagaglio culturale sull’organizzazione sociale in genere e pubblica in particolare; verso le istituzioni la storia italiana ha infatti generato un diffidente, superficiale e opportunistico alternarsi di aspettative miracolistiche e critiche distruttive (par. 2.4).Vi si aggiungano le tensioni sociopolitiche create dall’industrializzazione, che hanno reso imbarazzante affrontare questi temi nelle scuole e nelle università, dando luogo a una forte arretratezza socioculturale, non contrastata dall’insieme delle c.d. “scienze sociali”. La conseguente confusione di idee sulla ricchezza, spesso vista come qualcosa da spartire e non “da produrre”, si riflette sulla sua determinazione ai fini tributari. Classe dirigente e pubblica opinione sono attente agli squilibri sociali connessi a una sperequata allocazione dei carichi tributari, ma non ne capiscono le ragioni, fantasticando di disegni politici complessi e occulti, senza capire l’importanza della determinazione della ricchezza ai fini tributari, come vedremo al capitolo quarto. 1.7. Segue. Le divagazioni sul rapporto “stato –mercato” e sugli effetti economici dei tributi: “pressione fiscale”, “redistribuzione” e determinazione della ricchezza Una reazione ai disorientamenti accennati al paragrafo precedente consiste nelle divagazioni sull’utilità dei tributi, avventurandosi sul rapporto tra “mercato e stato, lo sviluppo, la solidarietà, etc... Si tratta però di un problema generale, diverso dalla determinazione dei tributi. È certo che l’intervento pubblico non poteva che crescere nell’“era aziendale”, come ho rilevato nel compendio di scienza delle finanze. Il problema è piuttosto l’efficienza della sua gestione, relativa ormai alla più grande azienda nazionale, coi suoi oltre tre milioni di addetti, che solo di stipendi assorbono la maggior parte della spesa. Se si aggiungono gli interessi passivi sul debito si capisce la rigidità della spesa pubblica, in gran parte politicamente e giuridicamente obbligatoria. Le esigenze di cassa per coprirla diventano quindi una specie di “variabile indipendente” rispetto alle decisioni politiche del breve periodo (vedi infra par. 1.9), di cui è inutile che discutano i tributaristi. CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 11 Brusche riduzioni delle spese pubbliche, diminuendo così le imposte, non sono quindi praticabili, e questo elimina sul nascere tanta propaganda estemporanea. La sfida di una società complessa non è quella di vivere senza macchina pubblica, ma di vivere con una macchina pubblica efficiente, anche sul piano della determinazione tributaristica della ricchezza; vedremo che i già individuati squilibri non dipendono da distorsioni private, ma da disfunzioni pubbliche, a loro volta dovute alla mancanza di adeguate spiegazioni sul tema (par. 5.3). Un altro diversivo ricorrente riguarda la pressione fiscale, concetto tecnico che può essere chiarito subito. Si tratta infatti solo di un rapporto numerico tra gettito tributario e PIL, che esprime la percentuale di ricchezza nazionale assorbita dai tributi, per decenni attorno al 43 percento e oggi leggermente aumentata; indirettamente la pressione fiscale esprime l’intensità del suddetto intervento pubblico in economia, senza però fornire alcuna indicazione sulla qualità e quantità dei servizi pubblici forniti a fronte dei tributi. La pressione fiscale si riferisce quindi al PIL (reddito nazionale) e non al’impatto dei tributi per tipologie di individui, ad esempio “la famiglia media”, con un certo reddito, un certo assetto patrimoniale, etc. La pressione fiscale non ha poi nulla a che vedere con l’equilibrio nella distribuzione del carico tributario tra le varie categorie di contribuenti e le varie tipologie di ricchezza; la pressione fiscale può essere bassa e squilibrata o alta, ma equilibrata. Un diversivo ancora più estraneo alla determinazione della ricchezza riguarda la sua “redistribuzione”, cui qualche volta i tributi vengono ideologicamente finalizzati. Far “pagare i ricchi” è un diversivo demagogico, perché avranno anche tanto, ma sono pochi, perché in genere possiedono prevalentemente il valore di avviamento delle loro aziende (che non è “liquido” come vedremo al par. 7.13), mentre immobili e investimenti finanziari sono relativamente minori. Non è che “i ricchi” siano intoccabili, ma occorre sostituirli nell’organizzazione sociale, altrimenti la “redistribuzione” rischia di portare all’“uguaglianza nella povertà”, dove non si toglie al ricco per dare al povero, bensì per il parassitismo “politico-burocratico”. La redistribuzione è importante in società statiche, man mano che i ricchi sono tali per rendite di posizione dei loro antenati, dove il consumo pubblico può essere più efficiente di quello privato. Tutto dipende però dalla qualità della burocrazia, aspetto solo limitatamente collegato alla determinazione della ricchezza ai fini tributari. 1.8. Determinazione della ricchezza tra diritto ed economia: beneficiosacrificio, redditi, consumi e costi La determinazione della ricchezza, ai fini della finanza pubblica, è rilevante anche quando le spese sono fronteggiate col c.d. criterio “del beneficio”, cioè facendole pagare a chi trae vantaggio dai relativi servizi; la determinazione della ricchezza in questi casi rileva indirettamente, come giustificazione di riduzioni ed esoneri, come vedremo al par. 5.1, in materia di tariffe e “tasse in senso stretto”. 12 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Le “imposte” sono invece riferibili a tre concetti economici di fondo, espressivi di ricchezza cioè consumi, patrimonio e reddito. Quest’ultimo è però fondamentale, in quanto le imposte, anche se applicate alla ricchezza che si manifesta in occasione di un consumo o di una eredità, sono sempre pagate “coi redditi”, in quanto frutto dell’attività economica. Se non ci sono attività produttive, da cui derivino redditi, il consumo è finanziato da debiti o da trasferimenti gratuiti di altri, ed anche i valori patrimoniali diminuiscono. È un punto su cui gli economisti concordano, riferendosi a risparmi di redditi passati, prospettive di redditi futuri, trasferimenti di altri individui, e credito che qualcuno è disposto a riconoscerci a fronte di redditi futuri. Il collegamento col reddito conferma che la ricchezza non è qualcosa di statico, una specie di tesoro nascosto da spartire al meglio (cfr. il concetto di redistribuzione di cui al precedente paragrafo 1.6), ma va riprodotta nel tempo, con contributi variamente remunerati, che continuamente si intrecciano, si producono e si rinnovano; non può essere insomma “redistribuita” una ricchezza che non si produce attraverso prestazioni, e creazioni di reddito. Quest’ultimo è una astrazione che misura capacità di soddisfare bisogni, sia in proprio (autoconsumo) sia attraverso rapporti con altri soggetti, cioè diritti di proprietà e di credito. Il reddito non è suscettibile di acquisizione fisica, che riguarda invece denaro o crediti, cui si riferiscono anche eventuali ammanchi o furti. L’“astrazione reddito” deriva a sua volta dalla somma algebrica tra due astrazioni, cioè le entrate e le spese necessarie alla relativa attività economica; in gergo contabile le suddette astrazioni, da cui deriva differenzialmente il reddito, sono, come vedremo al paragrafo 7.6, i ricavi e i costi. Proprio quest’elevata astrazione del concetto di reddito ne limitò per molti secoli l’uso tributario alle attività agricole, cui del resto si dedicava la maggior parte degli individui, mentre i redditi non agricoli (artigianali, commerciali, professionali) furono tassati come tali soltanto in epoca moderna (vedremo subito a partire dall’inizio dell’ottocento); essi furono definiti appunto “redditi mobiliari” per contrapporli alla rendita fondiaria, proveniente da beni “immobili”. La tassazione generalizzata dei redditi “mobiliari” subentrò abbastanza tardi, nella Gran Bretagna delle guerre napoleoniche, avendo persino bisogno di una modifica costituzionale negli Stati uniti del primo novecento. I redditi “mobiliari” erano in precedenza tassati “indirettamente”, attraverso i consumi, i patrimoni o il tenore di vita dei titolari. La misurazione dei redditi è normalmente monetaria (i rari redditi in natura sono convertiti secondo il parametro monetario) e quindi al lordo dell’eventuale inflazione, oggetto solo di correttivi specifici e occasionali. Solo quando essa diventa macroscopica, come avvenuto in alcuni stati sudamericani, si introducono correttivi generali, assai complessi. Le manifestazioni di ricchezza suddette (redditi, consumi, costi e patrimoni) sono tra loro collegate, sia nel loro già indicato riferimento ultimo al reddito, sia nel rapporto tra “reddito” e “consumo”. Nelle prestazioni al consumo, il consumo del cliente concorre a formare il reddito del fornitore. Quando il fornitore effettua la prestazione a un altro operatore economico si hanno le c.d. operazioni “business to business”, dove l’acquirente non esprime un consumo, bensì “un costo”. CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 13 Oggi, la tassazione attraverso le aziende collega quindi la produzione e il consumo, col corrispettivo di vendita che esprime sia il reddito del fornitore sia il consumo per il cliente. I passaggi intermedi tra operatori economici idealmente si compensano e restano redditi e importazioni da un lato, e consumi, investimenti e importazioni dall’altro (operazioni business to business abbreviate in b2b). Le operazioni al consumo riguardano, ripetiamo, le prestazioni usate dall’acquirente per la propria sfera personale, familiare o istituzionale, indicate come “business to consumer” (abbreviazione b2c). 1.9. Determinazione della ricchezza tra esigenze logiche e gettito La determinazione della ricchezza non coinvolge, in prima battuta, valori morali e politici, ma questioni empirico-valutative, cioè “di fatto” (nel senso indicato al par. 5.8), nonché concettuali a proposito di concetti economicamente rilevanti, come consumi, redditi, ricavi, costi, etc. Queste questioni logico-conoscitive comportano anch’esse una serie di scelte, soprattutto riguardanti i tempi ed i costi connessi a diverse modalità di determinazione della ricchezza. Abbiamo già indicato al par. 1.2 i relativi valori di settore, cioè precisione, semplicità, etc... La mancata percezione, da parte della pubblica opinione (par. 1.6) del problema di determinare la ricchezza si riflette purtroppo sulle istituzioni, ostacolando il coordinamento delle relative esigenze nell’attività legislativa e in quella amministrativa. Molti obiettivi di perequazione tributaria non vengono quindi raggiunti perché neppure percepiti, persino dagli studiosi, come indicato al par. 4.3. Una volta determinata la ricchezza, con questi condizionamenti logici, la quota da prelevarne è una questione politica, estranea alle competenze specifiche dei tributaristi, come detto al par. 1.7.. Il disorientamento sulla determinazione tributaristica della ricchezza confonde i due suddetti profili. Spesso sono confusioni intenzionali, per non chiamare direttamente col loro nome agevolazioni e penalizzazioni, preferendo trincerarsi dietro motivazioni tecniche (razionalizzazioni nella determinazione della ricchezza), politicamente meno imbarazzanti. A rigore però si tratta di due livelli decisionali diversi, ancorché interdipendenti. In prima battuta, penalizzazioni o agevolazioni dovrebbero esprimersi attraverso le aliquote, con trasparenza, senza alterare la corretta determinazione della ricchezza. Le disposizioni di diritto sostanziale tributario (su questo concetto par. 3.9) devono prima di tutto avere un senso sul piano della determinazione della ricchezza, dopodiché subentrano, in seconda battuta, le scelte sul gettito e le disposizioni agevolative, punitive, dirette ad ottenere determinati effetti economicosociali attraverso le imposte. La determinazione della ricchezza non è un’approvazione o un biasimo di fatti noti, ma dipende dalla acquisizione e gestione di informazioni, rendendo del tutto naturale che alcune ricchezze siano determinate in modo più preciso (soprattutto attraverso le aziende) ed altre secondo stime ipotetiche. Non è una 14 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui violazione del principio di eguaglianza, come spesso si farnetica equivocando sulla capacità contributiva (par. 2.2), ma un riflesso di diversità conoscitive, gestibili, ma non eliminabili. 1.10.Tipologie economico-giuridiche di imposte e relativo gettito La principale preoccupazione delle classi dirigenti è il gettito, e la sua composizione, non la determinazione della ricchezza, che sfugge persino agli studiosi. Quindi i tributi sono classificati riferendoli alle già identificate astrazioni economiche di reddito consumo e patrimonio, trascurando le modalità di determinazione delle ricchezza, profilo che del resto la pubblica opinione e gli studiosi del settore neppure riescono a cogliere. Le stesse informazioni, fisiche (un negozio al dettaglio o un laboratorio) o giuridico-contabili possono invece portare al tempo stesso alla determinazione di redditi e consumi, guardandole semplicemente dal punto di vista dei venditori (redditi), degli acquirenti (consumi) o dei proprietari (patrimonio). Per quanto riguarda il riferimento alle astrazioni economiche tutti i sistemi fiscali si basano su una combinazione di imposte sul reddito, sui consumi e sul patrimonio. Il gettito complessivo, rispetto al PIL, non ha grandi variazioni nel tempo, ed è sufficiente, ai fini di questo volume, un ordine di grandezza comparativo, anziché un millimetrico computo ragionieristico. Nel complesso le entrate tributarie statali del 2010 ammontavano a circa 410 miliardi di Euro più 70 miliardi circa di tributi regionali e comunali, inclusa l’IRAP. Le principali, incrociando gettito e riferimento economico, sono le imposte sui redditi delle persone fisiche (165 milioni), uniti a 37 miliardi di imposte sul reddito delle persone giuridiche (sul relativo coordinamento par. 7.17), e circa 7 miliardi di imposte sostitutive sulle rendite finanziarie. Per quanto riguarda la tassazione del consumo, l’IVA totalizza circa 100 miliardi, mentre le altre imposte su specifici consumi (c.d. “accise”, par. 10.6) fruttano circa 30 miliardi. Gli esempi più significativi di tassazione del patrimonio e degli atti giuridici riguardano le imposte comunali sugli immobili (circa 20 miliardi) e le imposte di bollo e registro (circa 15 miliardi). Sul piano delle relative informazioni, la maggior parte del gettito suddetto deriva dalla ricchezza visibile in modo contabile attraverso le aziende. Quando esamineremo altre “imposte minori”, al capitolo 10, daremo altre indicazioni sul relativo gettito. 1.11.Segue. Tipologie di tributi e criteri di determinazione della ricchezza Sul piano giuridico, della determinazione della ricchezza, ripetiamo che i dati indicati al paragrafo precedente mostrano che le principali imposte sui redditi e sui consumi derivano da un’unica determinazione contabile della ricchezza attraverso le aziende. Il grosso del gettito arriva dalla ricchezza determinata con criteri “amministrativo-contabili”, mentre quelli “estimativo – valutativi”, fondati sul- CAPITOLO 1 – PATRIMONIO, TARIFFE E TRIBUTI 15 la visibilità “materiale” della ricchezza (terreni, laboratori, stabilimenti, palazzi, etc.), sono secondari. Lo stesso per la provenienza da catasti pubblici, oppure atti giuridici solenni. Tuttavia – come vedremo ai par. 3.13 e 4.2 – il contributo dei lavoratori indipendenti è proporzionalmente superiore alla sistematicità della richiesta concreta delle imposte nei loro confronti, smentendo anche sotto questo profilo i laceranti luoghi comuni sulla disonestà fiscale degli italiani (par. 4.5). La tipologia economica dei principali tributi vigenti nei paesi sviluppati non è molto dissimile, confermando che il successo o il fallimento di un sistema tributario dipende dalla capacità di valorizzare, sul piano gestionale e amministrativo, le informazioni esistenti sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari. Gli stati con minori necessità finanziarie, comunque, confermano l’evoluzione descritta, dal punto di vista storico, al paragrafo 1.3, secondo cui la rilevanza generale dei redditi da attività “non agricola” (c.d. “mobiliare” par. 1.8) subentra abbastanza tardi. I processi di tassazione si innescano infatti sui consumi, e su determinate tipologie di “affari”, come le imposte di registro o di bollo. Man mano che aumentano le necessità finanziarie, gli stati si organizzano con un sistema di determinazione della ricchezza, in ultima analisi dipendente da come le classi dirigenti e la pubblica opinione (par. 1.6) percepiscono questo problema (par. 5.3). L’utilizzazione di varie tipologie di tributi deriva anche da ragioni di perequazione fiscale, essendo difficile evitare tutte le forme di prelievo. Anche chi riesce a nascondere al fisco i propri redditi subisce infatti tributi sui consumi, acquista merci al supermercato, paga utenze, consuma benzina, utilizza conti correnti bancari, magari fuma o gioca alla lotteria, compra casa, pagando le relative imposte sui consumi o sugli atti giuridici. La pluralità di tributi limita quindi le evasioni fiscali, anche se aumenta il carico tributario su chi non riesce a sfuggire ad alcun tributo. Ne derivano esasperazioni e recriminazioni analizzate al capitolo quarto. Capitolo 2 RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE NELLA DETERMINAZIONE TRIBUTARISTICA DELLA RICCHEZZA Sommario: 2.1. La funzione organizzativa e garantistica della legislazione tributaria (riserva di legge e statuto del contribuente) – 2.2. Il richiamo alla determinazione della ricchezza nell’art. 53 della Costituzione e l’equivoco della “capacità contributiva globale individuale” – 2.3. Tassazione attraverso le aziende come illusione di poter amministrare per legge: il diritto tributario sostanziale – 2.4. Segue: la sopravvalutazione della legislazione nell’autotassazione – 2.5. Determinazione della ricchezza e controllo della Corte costituzionale – 2.6. Libertà comunitarie, vincoli al legislatore tributario e determinazione della ricchezza 2.1. La funzione organizzativa e garantistica della legislazione tributaria (riserva di legge e statuto del contribuente) Calcolare e riscuotere i tributi è una delle tante funzioni pubbliche, come difendere il territorio, amministrare la giustizia, l’ambiente, le infrastrutture, l’istruzione, la sanità, etc. Tutte queste funzioni sono svolte da istituzioni (par. 5.3); in una prima fase esse si fanno direttamente interpreti dei valori del gruppo, facendo riferimento ai valori e con criteri in senso ampio “politici”. Man mano che la politica esprime istituzioni organizzate, si sviluppa l’area del diritto, gestibile oltre che in base ai “valori”, anche con “regole formali”, importanti per evitare abusi e favoritismi, soprattutto nella funzione pubblica di amministrazione della giustizia; alla valutazione personale del giudice sugli interessi in conflitto si cercano di imporre criteri prestabiliti, il che ha portato a una sopravvalutazione delle “regole formali”, rispetto ai valori e rispetto al diritto come studio di “istituzioni” (par. 4.3). Si è così creato, con riferimento a queste valutazioni del giudice, l’equivoco mito dell’onnipotenza legislativa, fuori luogo sia nella “funzione di giustizia”, ma soprattutto negli altri “pubblici poteri”, come difesa, sicurezza, infrastrutture, sanità, ambiente, etc,. Qui è auto evidente che la legge “non governa”, ma è uno strumento del “governo degli uomini”, per stabilire i compiti di ciascuno. Nel nostro caso non è certo la legge a determinare la ricchezza ai fini tributari, ma è utile per organizzare, nei limiti delle rispettive possibilità, gli uomini e i mezzi necessari allo scopo. CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 17 Al di là di queste funzioni organizzative, la legislazione indica anche alcuni compiti dei vari uffici, nonché nel nostro caso le principali caratteristiche della ricchezza da tassare, le modalità per reagire contro negligenze e abusi. L’insieme di questi aspetti è stato definito “potestà normativa tributaria”, come potere politico di imporre tributi attraverso organismi titolari della distinta potestà amministrativa di imposizione. Questa distinzione dell’apparato amministrativo tributario dal potere politico è una necessità organizzativa che prescinde dalla forma di stato e di governo, democratico, autoritario o addirittura totalitario. Anche quest’ultimo lascia agli uffici tributari il compito di determinare i tributi, perché in concreto non se ne può fare a meno, come pure non si può fare a meno dei giudici per la soluzione delle controversie. Queste esigenze organizzativo-politiche emergono nell’art. 23 della costituzione, non riferito alla sola materia tributaria, ma a tutte le prestazioni personali o patrimoniali, che riprenderemo al paragrafo 5.1 sulla comune matrice amministrativa di tutte le entrate pubbliche. Sul piano organizzativo viene così demandata all’autorità politica di vertice, espressione del gruppo nel suo insieme, anche nei regimi dittatoriali, la scelta di chi tassare; se questa scelta fosse infatti attribuita agli uffici tributari, questi potrebbero alleggerire o appesantire la tassazione, intromettendosi senza controllo nei più vari settori della vita sociale. In un regime “democratico parlamentare” l’art. 23 garantisce, “a monte” dell’introduzione di una prestazione imposta, un atto del potere politico, cioè un “avallo parlamentare”. In questo modo si assicura più direttamente la rappresentanza dei cittadini nel loro complesso. Se infatti legiferasse il governo a maggioranza, potrebbero essere imposte leggi fiscali con il 51 percento del 51 percento dei consensi popolari. Inoltre, su problemi particolarmente delicati, la stessa maggioranza potrebbe dividersi, ed alcuni parlamentari dei partiti di governo potrebbero votare assieme alle opposizioni. Questo avallo parlamentare può avvenire sia con le leggi in senso formale, sia con decreti legge, decreti legislativi, emanati dal governo in base a previa legge delega, con principi e criteri direttivi (art. 76 Cost.). Rispettano la riserva di legge anche i tributi introdotti con leggi regionali, costituzionalmente previste, ma poco frequenti, in quanto la maggior parte dei tributi locali, a favore dei comuni, sono previsti con leggi statali (cfr. il par. 10.8, sui tributi locali). A parte gli aspetti di ampia rilevanza politico-mediatica, come la decisione di tassare o meno certe manifestazioni di ricchezza, la tipologia di tributo, le aliquote, le esenzioni, come pure alcuni dettagli di forte visibilità, l’organo politico di vertice (nel nostro caso il parlamento) ha scarsa capacità e poco interesse alla determinazione della ricchezza ai fini tributari. La possibilità di un completamento “non legislativo” della disciplina dei tributi trova riscontro nella natura “relativa” della “riserva di legge” in esame, differente da quelle “assolute”, ad esempio in materia penale, dove l’intera disciplina deve trovarsi nella legge. Con la riserva di legge in esame sono quindi compatibili atti normativi secon- 18 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui dari (in senso ampio «atti regolamentari»), per disciplinare i numerosi dettagli della determinazione della ricchezza, soprattutto quando avviene “attraverso le aziende”. Si ripropone anche qui la differenza tra atti normativi regolamentari, approvati in Italia previo parere del consiglio di stato, e atti amministrativi generali, come ad esempio quelli di approvazione dei modelli per gli adempimenti amministrativi tributari (dichiarazioni, versamenti ed altri indicati al par. 3.4). Perché sia rispettata la riserva di legge, gli atti legislativi devono tuttavia indicare alcuni elementi minimi, come la tipologia di ricchezza colpita dal tributo, i suoi debitori, i criteri-guida per la determinazione dell’imponibile, i criteri per determinare l’imposta, cioè l’aliquota o una fascia di aliquote. Si tratta degli aspetti politicamente più delicati dei tributi, come la scelta se istituire o meno una nuova imposta, tassare o non tassare determinate forme di ricchezza, le modalità di massima con cui determinare la base imponibile, le aliquote (paragrafo 9.4), eventuali inasprimenti o agevolazioni. La riserva di legge sulle sanzioni deriva, oltre che dall’art. 23, anche dall’art. 25 della costituzione, riferita anche alle sanzioni amministrative, non solo a quelle penali. Gli squilibri della tassazione attraverso le aziende (par. 1.5.-1.7.) generano, negli stessi settori dell’opinione pubblica, reazioni contraddittorie e confuse, che in Italia hanno anche dato luogo a reazioni legislative con lo “statuto dei diritti del contribuente” (legge 212 del 2000). Quest’ultimo si compone di una carrellata di disposizioni un po’ dispersive, enfatiche e rigide, mostrando gli inconvenienti delle “leggi manifesto”, sbilanciate su un valore (tutela del contribuente) che invece dovrebbe essere tenuto presente in tutta la legislazione tributaria, contemperandolo con le altre esigenze, sia politiche sia tecniche, indicate in questo manuale, comprese le drammatizzazioni antievasione (par. 1.1.2 e 4.6). Tecnicamente lo statuto è privo di rango costituzionale, e quindi derogabile da leggi ordinarie, ma comunque ha costituito, negli ultimi decenni, un appiglio normativo per molte interpretazioni sensate, magari raggiungibili comunque, ma cui giovava un fondamento legislativo; mi riferisco ad alcuni principi di buonsenso, tra cui la buona fede, il contraddittorio, la motivazione, la mancanza di danno per l’erario. Erano conclusioni comunque raggiungibili anche attraverso la riflessione, spesso sostituita dal riferimento allo statuto. Sotto questo profilo, anche quando lo statuto ha contribuito ad avallare conclusioni sensate, il suo impatto è stato negativo, perché la soluzione non è infatti giunta a seguito di un ragionamento, ma di un riferimento normativo. Il formalismo dello statuto ne comporta la frequente utilizzazione strumentale, da parte dei contribuenti, per invalidare atti impositivi su aspetti di dettaglio, come la sottoscrizione del responsabile del procedimento, il termine per le deduzioni difensive, la durata della verifica. Lo statuto è un indizio ulteriore dell’illusione di poter “amministrare per legge” (par. 2.4). La mancanza di consapevolezza sulla determinazione tributaristica della ricchezza rende lo statuto inadeguato su aspetti fondamentali come gli effetti del comportamento procedimentale, le conse- CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 19 guenze delle invalidità, le rimessioni in termini, e tutta la dialettica tipica di una funzione amministrativa, regolata col decreto 241 del 1990 in materia di procedimento amministrativo, invalidità degli atti e simili. La geografia legislativa tributaria segue le varie tipologie di tributi indicate al paragrafo 1.10, essendo influenzata anche dalle modalità con cui le varie forme di ricchezza si manifestano. I due principali tributi che caratterizzano la tassazione attraverso le aziende, cioè IVA e imposte sui redditi, hanno disposizioni procedurali distinte, ma abbastanza ben coordinate. Altre disposizioni tributarie, relative anch’esse alla tassazione attraverso le aziende, sono sparse in leggi a sé stanti, ad esempio l’IRAP, la tassazione delle rendite finanziarie, l’IVA intracomunitaria. Ci sono però le numerosissime imposte estranee alla tassazione attraverso le aziende (capitolo decimo), riferite a forme di ricchezza peculiari, per le quali il ruolo delle istituzioni pubbliche è diverso e quindi inadatto ad una codificazione omogenea. Riferire quest’ultima a tutti i tributi, compresi quelli ispirati al principio del “beneficio” (par. 1.8 e 5.1) appiattirebbe fenomeni diversi in una disciplina unitaria. Codificare la legislazione non equivale infatti a padroneggiare il diritto, presupposto necessario a riequilibrare tassazione contabile attraverso le aziende e valutativa attraverso gli uffici. Un presupposto della codificazione è chiarirsi le idee sul settore, nel nostro caso sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari. Chi invece si aspetta la soluzione dal legislatore, come vedremo al par. 4.3, non è per definizione in grado di codificare alcunché. 2.2. Il richiamo alla determinazione della ricchezza nell’art. 53 della Costituzione e l’equivoco della “capacità contributiva globale individuale” Lo statuto del Regno d’Italia, redatto nel 1848 (c.d. “statuto Albertino”, dal sovrano che l’aveva promulgato) conteneva un’enunciazione di principio sul dovere di concorrere alle pubbliche spese in proporzione agli “averi”, espressione equivalente a quella di “ricchezza”; era una innocua enunciazione di principio, che la commissione sui rapporti economici per la redazione dell’attuale costituzione propose addirittura di non riprodurre, e che fu inserita nell’ultima fase di discussione in aula. Trattandosi tutto sommato di una questione di secondo piano agli occhi di una assemblea agitata da ben altri problemi, gli interventi ruotarono anche attorno all’esigenza di non tassare il c.d. “minimo vitale”, trovando una convergenza sull’attuale formula. Che sostituì il vecchio riferimento agli “averi”, diretto ancorché grossolano, con la “capacità contributiva”; anche questa volta, secondo una caratteristica tipica della legislazione, una espressione ellittica, ambigua e un po’ tautologica, consentiva di trovare il consenso. L’eliminazione di un diretto riferimento alla ricchezza non era il miglior punto di partenza per inquadrare i relativi problemi di determinazione, e la ricerca di compromessi tra i relativi valori, indicati al par. 1.7 (precisione, semplicità, controllabilità, etc). All’art. 53, che ribadisce un principio abbastanza pacifico, l’ambien- 20 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui te normativista (par. 4.3) fa oggi dire di tutto, anche in senso opposto, per lo stato o per il mercato, a seconda delle rispettive tesi. Si presuppone anche una fantomatica capacità contributiva globale dei singoli individui, che già all’epoca della costituzione era ingestibile ai fini pratici, e dopo lo è diventata ancora di più. Neppure la costituzione può esprimere formule magiche per aggregare, ai fini della determinazione della ricchezza, informazioni che nessuno possiede, contrastando la tradizionale, storica, individuazione della ricchezza, in modo disaggregato tra varie forme di consumo, di reddito e di patrimonio. Il principio di capacità contributiva ci ricorda quindi solo il riferimento della tassazione a manifestazioni di ricchezza, determinate senza discriminazioni o favoritismi. Ripetiamo che questo richiamo costituzionale non elimina la differente visibilità e determinabilità della ricchezza ai fini tributari, con la necessità dei noti compromessi tra precisione, semplicità, cautela contro le evasioni e le scappatoie, certezza dei rapporti giuridici, effettività etc... Invece, non appena qualcuno prova a ragionare sulla determinazione della ricchezza, viene subito accusato di parlare di una questione che nella costituzione non esiste. Un fantomatico schedario (tipo “tabella condominiale”) da usare come parametro per la divisione delle spese pubbliche risolverebbe tutti i problemi di diversa determinabilità della ricchezza, lasciando solo le questioni interpretative e le scelte politiche sul collegamento tra spese pubbliche e tributi (par. 1.7).. Sarebbe bello, ma non può essere, checché ne dica la costituzione. Anche il minimo vitale, su queste premesse, è poco gestibile: ad esempio, la tassazione dei consumi avviene inevitabilmente senza poter considerare se l’acquirente è un mendicante che acquista un po’ di cibo spendendo le elemosine, oppure un ricco possidente: la cassiera del supermercato vede solo uno che sta facendo la spesa, e non può certo indagare sulle condizioni economiche della gente in fila alle casse. Le condizioni patrimoniali generali, al fine di esoneri da ticket, sussidi e altre provvidenze, sono accertate da indicatori non tributari, che si portano in parte dietro tutta l’incertezza sulla determinazione tributaristica della ricchezza (cfr. l’ISEE, in cui riemerge la rilevanza “in negativo” della determinazione della situazione economica, al fine di confermare una povertà e non di tassare la ricchezza). L’articolo 53 è l’utile ripetizione dell’ovvia rilevanza della ricchezza ai fini tributari, e consente di raggiungere più rapidamente alcune soluzioni altrimenti raggiungibili facendo leva sui principi di ragionevolezza ed uguaglianza, ad esempio vietare costituzionalmente tassazioni retroattive, riferite cioè a ricchezza ormai venuta meno al momento di pagare il tributo, il cumulo dei redditi tra coniugi, o la tassazione come redditi di fonte patrimoniale di redditi che tali non erano (ILOR sul lavoro autonomo, per chi ricorda la vicenda). Tuttavia, in questi casi, la ricchezza di riferimento, cioè una “capacità contributiva” c’era, ma era trattata in modo irragionevolmente discriminatorio rispetto ad altre. L’articolo 53 non entra, né è utilizzabile, nelle polemiche tra “stato e mercato” indicate al par. 1.7, in quanto non prende posizione su quali spese debbano essere “pubbliche”; questa scelta casomai dipende da altre disposizioni costituzionali CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 21 “di settore”, come quelle sulla “scuola pubblica”, la “sanità pubblica”, l’“assistenza pubblica” etc... Il principio di capacità contributiva non è neppure un argomento per coprire le spese pubbliche con le imposte, anziché con tasse e tariffe, secondo il principio del beneficio, di cui al par. 1.8. Desumere dall’art. 53 soluzioni preconfezionate a temi di politica tributaria, come i fantomatici “limiti costituzionali all’imposizione fiscale” è ingenuo o mistificante, come all’opposto far leva sull’art. 53 per divagare su “limiti costituzionali all’imposizione fiscale”. Senza divagare sul ruolo dello stato e del mercato, ripetendo i diversivi criticati al par. 1.7, l’art. 53 è conforme a un clima sociopolitico ben diverso da quello di un secolo prima, quando era stato varato lo statuto Albertino, ma questo riguarda tutta la costituzione; a questi valori è conforme il riferimento alla progressività, dei cui problemi parleremo al par. 9.4. Ci si può richiamare all’art. 53 anche per sostenere l’effettività della ricchezza ai fini della tassazione, il che non vuol dire determinazione contabile e documentale. Gli indizi materiali e gli altri elementi di stima (par. 5.9) indispensabili per valutare la ricchezza dove le aziende non arrivano, con le loro stime, valutazioni, presunzioni, servono anch’essi a perseguire un’effettività “pragmaticamente praticabile”. L’articolo 53 conferma anche l’inaccettabilità politica di tassare qualcuno su ricchezza inesistente, presunta dalla legge, solo perché qualcun altro, con lo stesso criterio, viene esonerato dal pagamento di tributi su ricchezza esistente. Per questo le forfetizzazioni (come quella catastale di cui al par. 8.2) sono praticabili, soprattutto in un contesto di tassazione ragionieristico-documentale solo se non ci rimette nessuno, o ci rimettono in pochissimi. Per questo tutte le tassazioni “forfettarie”, dal catasto agli studi di settore “si tengono basse”, in modo da ridurre proteste e recriminazioni “interne” ai settori della società su cui sono applicate. Il principio di capacità contributiva ha anche l’inconveniente di generare, nell’opinione pubblica e negli studiosi sociali, la sensazione fuorviante che il dovere tributario scatti, in base all’art. 53, solo perché si è titolari di qualche forma di ricchezza; una previsione legislativa è invece necessaria sia per motivi logici sia per il già ricordato art. 23, e non costituisce “un optional”, secondo una tendenza che qualche volta emerge anche in sede amministrativa e giurisprudenziale; non a caso l’articolo 53 è stato usato dalla corte di cassazione come retroterra argomentativo per introdurre nell’ordinamento (peraltro comprensibilmente) un divieto di abuso del diritto di origine giurisprudenziale (infra par. 3.10). 2.3. Tassazione attraverso le aziende come illusione di poter amministrare per legge: il diritto tributario sostanziale Nella tassazione attraverso le aziende, come vedremo al cap.3, il pubblico potere si rivolge a una organizzazione (appunto “l’azienda”), che in quanto tale, non avendo una sfera privata (par. 3.1) non ha alcun motivo di mentire al fisco; tale menzogna comporterebbe infatti una responsabilità personale cui gli individui coinvolti vanno 22 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui incontro solo nell’interesse proprio, come nell’esempio classico del titolare dell’azienda, che non nasconde ricchezza “per l’azienda”, ma la nasconde per sé. Nella misura in cui la ricchezza viene fatta emergere contabilmente dalle organizzazioni aziendali, il legislatore può rivolgersi direttamente alle aziende, in una sorta di “partita a due”. Una volta determinata affidabilmente la ricchezza in modo ragionieristico, a cura degli uffici di contabilità aziendale, il legislatore tributario può sbizzarrirsi nell’indicarne alle aziende la qualificazione tributaria. Ciò avviene con la “legislazione tributaria sostanziale”, riguardante l’inquadramento giuridico della ricchezza, successivo alla sua determinazione materiale. Questo inquadramento riguarda dapprima i modi, i tempi, la collocazione nello spazio, l’imputazione soggettiva della ricchezza, la distinzione tra costi e consumi. Momenti logici ancora successivi, sempre del diritto tributario sostanziale, riguardano le aliquote di imposta, compresi tutti i regimi, premiali e talvolta punitivi, indirizzati agli effetti economici delle imposte, ivi compresi quelli agevolativi. Con le disposizioni organizzative di cui al par. 2.1, nonché quelle procedurali delle aziende, dei professionisti e delle istituzioni, si completa la panoramica della legislazione tributaria. È un meccanismo prodottosi in modo spontaneo, per intuizioni delle classi dirigenti, inconsapevoli che le aziende odierne erano lo strumento con cui il pubblico potere “Imponeva le imposte”. La possibilità di chiedere per legge le imposte, attraverso le aziende, così come ieri le si chiedevano attraverso comunità intermedie, rurali, territoriali, religiose, feudali, economiche (par. 2.3), è stata seguita, ma non è stata razionalizzata e interiorizzata; per questo, come vedremo, in una specie di delirio di onnipotenza legislativa, è stata istintivamente estesa dove non ne sussistevano i presupposti, cioè su ricchezza non raggiunta dalle aziende. Si è in questo modo autoalimentato il preconcetto di una fantomatica onnipotenza legislativa, come se la legge potesse trovare la ricchezza non registrata; l’evidente insuccesso di questo fantomatico “potere” era addebitato al capro espiatorio di imprecisati “evasori”, secondo un filo conduttore del testo, emergente al capitolo quarto. Il tentativo di governare la fiscalità “per legge” si è inserito sulla tendenza generale ad “amministrare per legge”, assecondata dalla deresponsabilizzazione amministrativa, diffusa in tutti i settori della macchina pubblica, nei termini indicati al par. 5.3. È stata così messa in secondo piano la valutazione amministrativa che caratterizza da sempre la richiesta delle imposte, e il cui cattivo funzionamento produce gli squilibri avvertiti dalla pubblica opinione. Determinare la ricchezza ai fini tributari, dove le aziende non arrivano, è una funzione pubblica non effettuabile per legge, come educare i giovani, curare i malati, dirigere il traffico, smaltire i rifiuti, difendere i confini, gestire i flussi migratori (l’unica funzione pubblica effettuabile per legge, e neppure tanto, è infatti quella di giustizia, una volta accertati i fatti). A questa sopravvalutazione della legge si è accompagnato il mito della dell’onnipotenza della politica e la deresponsabilizzazione degli uffici, che ha rapidamente condotto agli inconvenienti di cui al capitolo quarto, superficialmente imputati alle perversioni private di fantomatici “evasori”, oppure ad altrettanto fantomatiche vessazioni poste in essere dagli uffici tributari. Nessuno si è accorto che il problema è teorico metodologico in tema CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 23 di determinazione della ricchezza. Anticipiamo al prossimo paragrafo, visto che qui parliamo di fonti normative, gli equivoci che ne sono derivati sul ruolo della legislazione. 2.4. Segue: la sopravvalutazione della legislazione nell’autotassazione L’illusione di poter determinare la ricchezza “per legge” è stata alimentata da vari altri fattori, di ordine generale, che si aggiungono alla possibilità, descritta al paragrafo precedente, di dirigere la tassazione attraverso le aziende mediante la legislazione. L’idea di cambiare il mondo attraverso le leggi cerca di influire, dai tempi della rivoluzione francese, sul comportamento del “servizio giustizia”, cercando di predeterminarne il più possibile il contenuto. Vi contribuiva l’esigenza di certezza e prevedibilità dei rapporti privati, tipica di una società complessa, come pure il ruolo organizzativo della legislazione in un intervento pubblico ormai esteso in tutti i settori, ben al di là dell’amministrazione della giustizia. L’importanza della legislazione nella funzione pubblica di giustizia, l’ha fatta sopravvalutare negli altri settori del diritto contribuendo al paralizzante pseudonormativismo di cui al par. 4.3. Già discutibile nella “funzione giustizia”, questa pretesa onnipotenza diveniva paradossale negli altri “pubblici poteri”, come difesa, sicurezza, infrastrutture, sanità, ambiente, etc,. Quest’onnipotenza diventava anzi un ostacolo al buon funzionamento di istituzioni pubbliche, composte da uomini che si fanno interpreti delle proprie funzioni, secondo un misto di regole, valori, opportunità e gestione pragmatica delle contingenze (par. 4.3 e par. 5.10 sulla discrezionalità). Rispetto alla varietà di funzioni pubbliche, non certo limitate all’amministrazione della giustizia, come la sicurezza, la sanità, l’istruzione, l’ambiente, i beni culturali, la ricerca, l’integrazione etnica, compresa la determinazione della ricchezza ai fini tributari, il mito del “governo della legge” alimenta la tendenza (par. 5.3) ad “essere a posto”, proteggersi da critiche, non mettersi in gioco, non cercare la soluzione di volta in volta più opportuna nell’interesse generale; è una comoda deresponsabilizzazione, o una strumentalizzazione per convenienze, pigrizie o scambi di favori. La sopravvalutazione della legislazione crea una specie di schizofrenia sociale, con aspettative esagerate, seguite da delusioni, cui corrispondono altalenanti invocazioni e denigrazioni del potere politico, confuso con antiche mitiche entità sovrumane. I politici alimentano queste aspettative, magari compiacendosene e diventando inconsapevolmente ostaggi della pubblica opinione e delle conferenze stampa. Il timore di perdere consenso e di togliere un punto di riferimento alla “pubblica opinione”, trattiene spesso la politica dallo sconfessare le aspettative in essa riposte. Ne discende un frenetico interventismo normativo, che asseconda diverse e contraddittorie emotività intrecciate nella pubblica opinione, in modo inevitabilmente ambiguo e spesso con una mera finalità “mediatica”. La legislazione sulla determinazione della ricchezza viene ispirata anche dalle categorie economiche coinvolte, per quanto riguarda gli adempimenti, le modalità di 24 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui determinazione della ricchezza di terzi, l’utilizzazione e integrazione fiscale di adempimenti documentali, eventuali provvedimenti agevolativi di settore. Si tratta in genere di “micro-interventi”, molto di dettaglio, tipici della tassazione attraverso le aziende; le riduzioni indirette dell’ordinario carico fiscale sono imputate al termine, vagamente spregiativo, di “lobbismo”. Anche le istituzioni fiscali (agenzia delle entrate e Guardia di finanza) promuovono spesso disposizioni legislative, per chiudere in via legislativa specifici problemi operativi. La politica, in quanto emanazione del gruppo sociale, ne riproduce il disorientamento sulla determinazione della ricchezza, e cerca empiricamente di massimizzare l’impatto dei propri interventi in materia in termini di consenso e coesione sociale. Si alimenta così la già indicata strutturale ambiguità normativa, dove aspetti diversi dei medesimi interventi legislativi lanciano messaggi diversi ai settori della pubblica opinione in tutto o in parte coinvolti; mi riferisco ai sindacati dei lavoratori, alle associazioni di categoria di commercianti e imprenditori, alle istituzioni europee, ai mercati finanziari, agli enti locali, alle associazioni di consumatori, ai proprietari di immobili. Oltre a questi interessi organizzati ci sono anche le varie tendenze della pubblica opinione che indicheremo al capitolo 4 sulle varie ricette spontanee contro l’evasione fiscale, e sulla posizione dei mass media in merito. L’ambiguità legislativa è quindi uno strumento per gestire la coesione sociale e il consenso, e cresce in proporzione al disorientamento su un determinato tema (come la determinazione tributaristica della ricchezza), in modo da avere qualcosa da dire in tutte le sedi suddette, anche a prezzo di fortissime incoerenze, nel c.d. “effetto di annuncio”, fatto di discussioni effimere, di conferenza stampa e titoli di apertura dei giornali, di espressioni ambigue, dove conta inevitabilmente più l’apparenza che la sostanza. Quest’ultima diventa comprensibile solo nel lungo periodo, mentre l’opinione pubblica è volubile, distratta, presa dai propri problemi, inevitabilmente miope, e smemorata al tempo stesso; i comunicatori più smaliziati sanno bene che, quando l’effetto di annuncio sarà smentito dai fatti, a distanza di tempo, nessuno lo ricorderà più, o potrà essere liquidato con qualche immaginifica trovata. Da questa mancanza di comprensione e di spiegazioni sulla determinazione dei tributi deriva il numero e l’ambiguità delle leggi, con “disposizioni manifesto”, finalizzate a massimizzare l’effetto di comunicazione politica, anche a costo di dispersioni e contraddittorietà, come l’intreccio tra istanze di riforma e di tregua normativa. Intervenire senza capire stratifica “effetti di annuncio”, che non risolvono i problemi, ma li creano, a causa di una legislazione fatta per dire qualcosa in conferenza stampa. Essa magari resta inerte dove dovrebbe intervenire, e interviene dove ne manca qualsiasi necessità. Si autoalimenta il circolo vizioso secondo cui difetti delle vecchie normative innescano la produzione di nuove, su questioni che magari in altri paesi si risolvono con una banale circolare amministrativa; l’insieme della legislazione vive di vita propria e, come il letame, più si rivolta e più puzza, cioè diventa indecifrabile. Per venirne fuori bisogna comprendere che la soluzione non sta nelle leggi, ma nelle istituzioni, a loro volta dipendenti, come vedremo al par. 5.3, da come la pubblica opinione percepisce il settore. CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 25 Il vizio sta nell’atteggiamento verso le leggi, nell’illusoria aspettativa di risolvere per legge i problemi della determinazione della ricchezza ai fini tributari, anziché nelle leggi “in sé”. Ci ritorneremo al par. 4.7, coordinando determinazione tributaristica della ricchezza ed effetti sociopolitici dei tributi, concettualmente non demandati ai tributaristi. 2.5. Determinazione della ricchezza e controllo della Corte costituzionale Il diritto è emanazione del gruppo sociale, la cui organizzazione “politica” può essere talmente sofisticata da prevedere addirittura un “giudice della politica”, operante anche sulle leggi tributarie. Si tratta delle corti costituzionali, collocate in una zona intermedia tra politica e diritto, densa di scelte “valoriali”; esse servono soprattutto a sovraintendere al contemperamento, da parte del legislatore, dei valori “politicamente caratterizzati” indicati dalla costituzione, piuttosto che ai valori neutri, come la determinazione della ricchezza ai fini tributari, di cui ci occupiamo in questo libro. I valori rilevanti ai fini della determinazione della ricchezza, coi compromessi concettuali tra precisione, semplicità, stabilità dei rapporti e altri, sfuggono alla maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti, e non si acquisiscono certo con la nomina a giudice costituzionale; si tratta in genere di uomini di legge, provenienti dalla magistratura, dalla dottrina, dalla carriera forense nelle più svariate discipline, sforniti di molti concetti necessari alla comprensione della determinazione tributaristica della ricchezza (in particolare quelli economici e aziendali, secondo la combinazione descritta più volte in questo testo, in particolare al paragrafo 1.5/1.6). Anche per i giudici costituzionali, i più vicini alla politica, vale un denominatore comune, ricorrente in questo testo e che ritroveremo per la generalità dei giudici, concepiti per risolvere controversie, non per sistematizzare i concetti (vedi anche par. 4.4 e 6.7). È normale che cerchino di svolgere questo compito nel modo più elegante, meno imbarazzante, cioè meno esposto a potenziali obiezioni. Essi non possono quindi portare sistematicità e razionalità nella determinazione della ricchezza ai fini tributari, e si trincerano legittimamente dietro formule stereotipe (par. 4.3), come riduttivi riferimenti a un generico «interesse fiscale», all’«esigenza di garantire la riscossione dei tributi». Talvolta vengono salvate alcune soluzioni legislative ispirate non tanto al contrasto di evasioni o abusi, ma alla mera comodità operativa degli uffici tributari; altre volte vengono dichiarate incostituzionali norme con una loro logica sul piano della determinazione della ricchezza. Da un certo punto di vista, se critiche si possono fare alla prassi della Corte Costituzionale degli ultimi decenni, non riguardano tanto il dispositivo delle sentenze, quasi sempre di rigetto, quanto la relativa motivazione. Che risente di ordinanze di rimessione, formulate in modo confusionario e mal impostate da giudici tributari sbrigativi e eterogenei, come vedremo al paragrafo 6.7 ss.;; anche per questo le pronunce di rigetto diventano quasi automatiche, con motivazioni spesso stereotipe e travolgendo magari quei pochi casi che poteva- 26 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui no avere un fondamento. È quindi comprensibile la suddetta cautela da parte della Corte, che respinge la maggior parte delle questioni sottopostele, non tanto per timore di contraccolpi sulla finanza pubblica, ma per la sensazione di mettere le mani su un oggetto misterioso, temendo oltre tutto di scompaginare l’organizzazione degli uffici finanziari. Per una serie di questioni esaminate dalla corte vedi i riferimenti al precedente par. 2.2 sulla capacità contributiva. 2.6. Libertà comunitarie, vincoli al legislatore tributario e determinazione della ricchezza Le logiche della determinazione tributaristica della ricchezza attraverso le aziende vanno inserite in un contesto comunitario, che condiziona il potere legislativo anche in materia tributaria; il meccanismo costituzionale è quello, consueto, secondo cui l’art. 11 della costituzione consente «limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni». L’appartenenza alle comunità non interferisce però sulle combinazioni tra spese e tributi che ciascuno Stato decide di scegliere, come indicato al par. 1.7 a proposito del rapporto tra “stato e mercato”. Possono quindi far parte della Comunità stati con diversissime combinazioni tra organizzazione pubblica e organizzazione di mercato della convivenza sociale; nella comunità possono coesistere stati con poche imposte, pochi servizi pubblici e più «mercato» (relativamente «liberisti»), e stati con più imposte, più servizi pubblici e quindi meno mercato (relativamente «socialdemocratici»). Nello spirito di libera circolazione cui è improntata la Comunità, questi due modelli competeranno in relazione alla maggiore efficienza raggiunta in concreto da ciascuno di essi, combinando “stato” e “mercato”. Le imposte non devono quindi distorcere il mercato, favorendo merci o industrie residenti rispetto a merci o industrie di altri paesi comunitari; la stessa distorsione ci sarebbe attirando investimenti stranieri con regimi di favore destinati soltanto ad essi, e cioè “selettivi”. Queste penalizzazioni o questi favoritismi, finirebbero per alterare, all’interno del territorio comunitario, una concorrenza basata sull’efficienza economica delle aziende private e delle macchine pubbliche. Per questo sono vietate sin dall’inizio le imposte doganali tra paesi dell’unione, imponendone la riformulazione nei rapporti esterni al territorio comunitario di cui riparleremo al par. 10.5;; anche ogni altro tributo indiretto ad effetto equivalente a quelli doganali fu proibito. Dato che i diversi meccanismi tecnici per portare tassazione del solo consumo, descritti al par. 7.2, avrebbero potuto intralciare gli obiettivi suddetti, è stata imposta l’IVA come modello generale europeo di tributo sui consumi. Per queste imposte si può parlare di “armonizzazione comunitaria” (imposte armonizzate). Sono vietate anche le agevolazioni fiscali in grado di condizionare la neutralità nell’allocazione degli investimenti all’interno dell’Unione Europea; molte agevola- CAPITOLO 2 – RUOLO E LIMITI DELLA LEGISLAZIONE 27 zioni fiscali, prime tra tutte quelle territoriali, devono quindi essere soggette ad autorizzazioni degli organi dell’Unione Europea. Anche per le imposte “non armonizzate”, come quelle sui redditi, non regolate dai trattati delle Comunità Europee, sussistono i suddetti divieti generali di discriminazione e di aiuti di stato, che riguardano prima di tutto il sistema delle aliquote, il carico tributario, e non la determinazione della ricchezza; tuttavia anche le regole sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari possono incappare nei divieti comunitari; molto spesso, infatti, tali regole presuppongono interdipendenze tra regimi fiscali, di contribuenti diversi e tempi diversi (c.d. “simmetrie fiscali” di cui al paragrafo 3.9), con una giustificazione solo all’interno dello stesso sistema tributario. Tuttavia, quando le controparti risiedono in altri paesi comunitari il principio di “non discriminazione” impedisce di negare pregiudizialmente il regime tributario altrimenti applicabile se tali eventi avvenissero in patria. È insomma comunitariamente vietato “fare figli e figliastri”, nel senso di dover riconoscere anche le “simmetrie” avvenute in altri paesi comunitari. Qualche distinzione è legittimata talvolta dalla Corte di Giustizia in base al concetto di «coerenza del sistema fiscale», che riconosce il diverso peso delle solite esigenze (come precisione, semplicità etc.) da coordinare nella determinazione tributaristica della ricchezza. È per certi versi ammirevole il modo in cui la corte di giustizia europea, non specializzata in materia tributaria, con giudici di decine di paesi diversi, abbia saputo destreggiarsi con buonsenso in simmetrie giuridico-contabili molto specialistiche; evidentemente, in sede europea, si procede più per concetti che per “documentazione normativa”, modalità del resto impossibile data la mole del materiale interno e comunitario di riferimento (par. 4.3). Parleremo più avanti (paragrafo 7.19) anche dell’abuso delle libertà europee da parte di piccoli stati membri che mettono a disposizione di altri non già reali prestazioni economiche, ma “protezioni legislative” per regimi finanziari o fiscali di favore, indifferenti sul piano interno e che danneggiano la sfera di sovranità tributaria di altri stati comunitari. Un vincolo indiretto, per i paesi appartenenti all’euro, è quello di limitare i deficit di bilancio, e quindi di “non poter consumare a debito”, di non poter “svalutare la moneta”, né “stampare moneta unilateralmente”. Oltre ai trattati istitutivi, già citati, la normativa comunitaria è composta prevalentemente da regolamenti e direttive. I regolamenti comunitari sono atti delle Comunità, direttamente esecutivi nel nostro ordinamento, indipendentemente da un recepimento da parte delle singole legislazioni nazionali; questa diretta esecutività pone problemi molto delicati, che hanno indotto a limitare l’utilizzo dei regolamenti a settori dove è maggiore il grado di internazionalizzazione, come quello doganale e dei traffici comunitari (par. 10.5). Le direttive Europee, a differenza dei regolamenti, non hanno efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, essendo dirette agli organi legislativi dei singoli stati, che devono recepirle negli ordinamenti nazionali, spesso con significativi margini di discrezionalità per effettuare tale recezione. 28 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Quando però le direttive sono sufficientemente dettagliate, incondizionate (nel senso di non lasciare margini di discrezionalità al legislatore nazionale) ed è scaduto inutilmente il termine previsto per il relativo recepimento, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione, avallata dai giudici nazionali, ha reagito all’inadempimento dei singoli stati affermando la diretta applicabilità, in tali casi, delle direttive negli ordinamenti interni. È ormai affermato, dalla giurisprudenza interna e comunitaria, l’obbligo delle istituzioni nazionali di disapplicare il diritto interno in contrasto con le suddette disposizioni comunitarie. Ove non sia chiaro se questo contrasto sussista, il giudice nazionale dovrà trasmettere gli atti del processo alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che si pronuncerà in proposito. Quanto indicato sopra rileva non solo per i giudici, ma anche per le amministrazioni, comprese quelle tributarie. È noto, infatti, che non esiste una pubblica amministrazione della comunità europea, che agisce invece attraverso le amministrazioni degli stati membri. Anche le nostre pubbliche amministrazioni, sempre preoccupate di avere una “copertura normativa”, si trovano quindi davanti a convergenze confusionarie di disposizioni interne e comunitarie, con ulteriori disorientamenti, equivoci e inutili cautele. Capitolo 3 DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA TRA TASSAZIONE ATTRAVERSO LE AZIENDE E AUTOTASSAZIONE (PUNTI FORTI DELL’ADEMPIMENTO E DELL’EVASIONE) Sommario: 3.1. Le aziende come “corpi sociali intermedi” nella determinazione della ricchezza – 3.2. Rigidità gestionali come strumento di determinazione della ricchezza attraverso le aziende – 3.3. La riutilizzazione di documenti contabili per la determinazione tributaristica della ricchezza – 3.4. Ulteriori adempimenti esclusivamente tributari: scontrini, dichiarazioni e versamenti – 3.5. Tassazione attraverso le aziende di ricchezza di terzi:“contribuenti di diritto” e “di fatto” tra rivalse, ritenute, segnalazioni e controversie private con oggetto tributario – 3.6. Segue. Il sostituto d’imposta come strumento di tassazione delle somme erogate a terzi (ritenute alla fonte tra funzione esattiva e segnaletica) – 3.7. La ricchezza fiscalmente non registrata, a beneficio dei titolari di organizzazioni aziendali (ipotesi sulla “grande evasione”) – 3.8. Costo dei tributi,“cunei fiscali”, concorrenza sleale e ricchezza non registrata per finalità aziendali – 3.9. Qualificazione giuridica della ricchezza registrata e logiche dell’interpretazione nella tassazione attraverso le aziende (le “simmetrie concettuali” tra soggetti diversi e tempi diversi) – 3.10. Segue: Evasione interpretativa, pianificazione fiscale ed elusione come tipici comportamenti aziendali (rinvio alle contestazioni interpretative come “diversivi istituzionali”) – 3.11. Evasione internazionale tra contestazioni interpretative e ricchezza non registrata – 3.12. Riepilogo: simmetrie della tassazione attraverso le aziende ed “arbitraggi”, tra correttezza sistematica, elusioni e frodi – 3.13. Dove le aziende non arrivano: l’inutile “ragionierizzazione” dei lavoratori indipendenti (il diversivo della “contabilità fiscale”) – 3.14. Mancata registrazione degli incassi nel lavoro indipendente verso consumatori finali – 3.15. La crescente “ricchezza non osservabile”, discontinua, collaterale, anche di sopravvivenza – 3.16. Professionisti tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici: prospettive per un loro uso più efficiente 3.1. Le aziende come “corpi sociali intermedi” nella determinazione della ricchezza Le aziende utilizzabili per la determinazione ragionieristica della ricchezza, come indicato già al paragrafo 1.4, sono pluripersonali, ed autosufficienti rispetto all’opera di uno dei loro singoli componenti, compreso il titolare; in questo senso, le aziende non sono entità “senzienti”, antropomorfiche, ma “corpi sociali”, da non confondere coi “lavoratori indipendenti”, cioè tendenzialmente artigiani e piccoli commer- 30 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui cianti; la cosiddetta “azienda” del lavoratore indipendente, è infatti tale solo nel diverso senso “materiale”, di insieme di beni necessari all’attività. L’azienda pluripersonale è invece una organizzazione di individui con una divisione di compiti, separazioni di responsabilità e necessità di rendicontazione, prima di tutto interna. Come per tutti i gruppi sociali intermedi, quali associazioni politico-sindacali, comunità religiose, gruppi sportivi, enti pubblici “settoriali” etc, l’azienda è priva di bisogni personali in nome dei quali nascondere ricchezza al fisco. L’azienda è un gruppo sociale a base economica, nel senso di essere tenuto assieme dalla produzione di beni e servizi per il mercato. Come organismo pluripersonale, l’azienda non si preoccupa dei bisogni personali del titolare, ma dell’equilibrio, che dipende dalla remunerazione di tutti gli elementi dell’organizzazione attraverso il concetto di “valore aggiunto” (par. 7.2). Il “tornaconto” dell’imprenditore come persona, se l’azienda crea valore, sussiste anche senza profitto, a differenza di quanto accade per il lavoratore indipendente. Un’altra confusione, che ritroveremo al par. 7.5, è tra “azienda”, in senso pluripersonale o al limite “materiale” (insieme di beni di un unico lavoratore indipendente), e “società”, come forma giuridica, anche priva di operatori economici al suo interno. Gli equivoci generali sull’idea di azienda, e le carenze di formazione economico-sociale di cui al par. 1.6, hanno ostacolato la percezione del suddetto suo ruolo ai fini della determinazione tributaristica della ricchezza. Si tratta di una “esternalità positiva”, cioè di un contributo delle aziende alla convivenza sociale, che non è stata colta neppure da quanti vi operano, assorbiti dall’attività che tiene insieme l’azienda come gruppo, cioè produzione di merci e servizi, siano essi farmaci, calzature, comunicazioni telefoniche, trasporti e via enumerando; neppure gli operatori delle aziende capiscono la “tassazione attraverso le aziende”, e si spiega quindi il suo mancato riconoscimento da parte della pubblica opinione in genere; rinviamo ai paragrafi 5.17 e seguenti sull’incapacità delle aziende di rispondere, in materia tributaria, a una cultura di massa che non le comprende, e le colpevolizza come forma organizzativa. Insospettisce forse la “struttura proprietaria” caratterizza l’azienda rispetto ad altri “corpi sociali” intermedi, con base associativa (sindacati, partiti, gruppi religiosi, etc.) ovvero istituzionale, come i corpi militari, la magistratura, etc... Quest’appartenenza privata, con matrice “non democratica”, dell’azienda ha provocato una serie di equivoci e tensioni sociali di vario tipo.Tali equivoci hanno innescato un circolo vizioso col ruolo operativo della proprietà nelle piccole aziende italiane, poco organizzate al vertice, venate di paternalismo e invidie, che contribuiscono ulteriormente a confondere il gruppo sociale “azienda” con il suo titolare. Sono facilissimi gli equivoci tra l’“azienda a conduzione familiare”, dove coniugi o figli prestano materialmente la loro opera, spesso con altri collaboratori, e “azienda a proprietà familiare”, magari con centinaia di operai e impiegati. Anche per via di questo “capitalismo familiare”, l’immagine dei piccoli commercianti e degli artigiani si proietta sulle aziende, come se avessero i bisogni personali e familiari di lavoratori indipendenti “troppo cresciuti”. Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 31 Per questo, in Italia, a differenza di altri paesi dove non c’è diffidenza per le organizzazioni, le aziende non riescono ad evolversi verso un assetto istituzionale in cui la proprietà si frammenta in una governance tra molteplici investitori istituzionali e risparmiatori. La determinazione tributaristica della ricchezza, tuttavia, trae vantaggio dalle necessità contabili e documentali che sussistono, anche per le aziende a proprietà familiare, come per tutti i corpi sociali. Grazie a tali rigidità amministrative aziendali la tassazione arriva sulla ricchezza che passa attraverso l’azienda, relativa ai consumatori, ai collaboratori (dipendenti o autonomi), ai risparmiatori e infine agli stessi titolari dell’azienda. Queste necessità ragionieristico-contabili delle aziende private sono determinanti per l’attuale gettito tributario, e la loro utilizzazione va coordinata con la tradizionale determinazione estimativa e valutativa, dove le aziende non arrivano. La tassazione attraverso le aziende non è limitata a quelle produttive e private, ma utilizza tutti i corpi sociali, comprese le aziende pubbliche “di erogazione” indicate sopra, soprattutto quando esse pagano stipendi e altri compensi in veste di sostituto di imposta (par. 3.5). La macchina pubblica, destinataria del gettito dei tributi, partecipa quindi anch’essa alla tassazione attraverso le aziende quando essa eroga ricchezza a terzi; in questo caso, anzi, le rigidità amministrative che rendono affidabile il sistema sono massime. 3.2. Rigidità gestionali come strumento di determinazione della ricchezza attraverso le aziende Abbiamo già rilevato che le aziende, e gli operatori economici, acquisiscono consumi dall’insieme dei clienti, ed erogano redditi ai dipendenti, ai finanziatori ed all’imprenditore (ripartizione del “valore aggiunto” come indicato al par. 7.6 sull’IVA e 9.1 sull’IRAP). L’azienda acquisisce i consumi in veste di fornitore, ed eroga i redditi in veste di “cliente-datore di lavoro”: è lo stesso grande filtro rappresentato dall’attività economica in genere, solo che qui viene svolto da organizzazioni con la già indicata rigidità amministrativa, punto di forza per il fisco. Quest’ultimo inserisce quindi tributi sui flussi in entrata e in uscita suddetti, come avviene nell’IVA, sulle entrate rappresentate da consumi (par. 7.2 ss);; lo stesso avviene per le ritenute sulle uscite, rappresentate da redditi (stipendi, compensi professionali, interessi, dividendi, par. 3.6). In questo modo la ricchezza, già visibile ai fini amministrativi, lo diventa anche ai fini tributari; alcuni di questi istituti, che riprenderemo ampiamente, esauriscono l’imposizione, come l’IVA o i tributi sostitutivi sui redditi finanziari (par. 8.5); altri sono “provvisori”, come le c.d. “ritenute d’acconto”, ma spingono l’interessato a completare l’autotassazione (par. 3.6). Emerge così anche la ricchezza facente capo all’azienda, soprattutto il suo reddito (cfr. capitolo 7), di cui però l’azienda non è la consumatrice definitiva, in quanto essa è un luogo di produzione, non di consumo. Rispetto a questa 32 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui massa di ricchezza, che transita presso l’azienda, ma non è dell’azienda, la ricchezza riferibile ai titolari delle aziende (il profitto) è ben poca cosa; per questo sarebbe riduttivo parlare di “tassazione delle aziende”, mentre l’espressione “tassazione attraverso le aziende”, ne mette in risalto l’oggettiva funzione di moderni esattori del fisco. Ricordiamo che, in quanto “gruppi sociali”, e non persone fisiche, le aziende – nelle persone dei loro impiegati – non hanno motivo di nascondere ricchezza al fisco, assumendosi la responsabilità di eventuali sanzioni, ed esponendosi alle conseguenti critiche da parte degli altri membri dell’azienda. Prendersi la responsabilità di violazioni tributarie non porterebbe ai funzionari aziendali vantaggi personali se tutto fila liscio, mentre l’eventuale scoperta della violazione, con connesse sanzioni, sarebbe loro addebitata all’interno dell’azienda. Quando la proprietà aziendale (par. 3.7-3.8) impone ai contabili di non registrare fiscalmente quote di ricchezza, essi sono imbarazzati dalla necessità di manovrare risorse “fuori bilancio”, mentendo quindi “per conto terzi”, ed esponendosi a pagare di persona, col rischio di essere “scaricati” dall’organizzazione se la vicenda fosse scoperta. Da questo desiderio di ripararsi da responsabilità estranee al proprio compito nasce la tendenza delle organizzazioni a rispettare le leggi, che non dipende da intrinseca “onestà o disonestà”; ritroveremo questa tendenza comportamentale anche per le istituzioni pubbliche al paragrafo 5.3. Il principale punto di forza del fisco sono infatti le esigenze, tra gli individui operanti nell’azienda, di controllo reciproco, coordinamento e documentazione; la spersonalizzazione, e la complessità amministrativa, della gestione aziendale, creano contrasti di interessi tra gli individui operanti nell’azienda. Man mano che i diversi settori aziendali si irrigidiscono, a seconda delle merci vendute, della tipologia di prestazioni, dei mezzi di pagamento, il fisco usa queste rigidità per una affidabile determinazione tributaristica della ricchezza. Questa necessità di delegare funzioni a collaboratori non si presenta tuttavia ugualmente per tutte le operazioni aziendali, ma soprattutto per quelle numerose e ripetitive, mentre altre continuano a essere gestibili direttamente in prima persona dal titolare. Nella medesima azienda possono quindi coesistere aree amministrative di grande rigidità, molto affidabili ai fini della determinazione tributaristica della ricchezza, e aree dove al titolare restano margini per nascondere ricchezza al fisco; vedremo al paragrafo 3.7 quali altre operazioni, più rare, restano ancora gestibili dall’imprenditore o da suoi fiduciari, con residue possibilità di evadere le imposte. Per ora l’importante è capire che lo stesso organismo aziendale può essere, al tempo stesso, un ausiliario del fisco nell’emersione di alcuni tipi di ricchezza, ed un ausiliario del titolare che invece vuole nasconderne una quota a proprio uso e consumo. Il principale punto di rigidità è il ciclo delle vendite, quando esse sono verso altre aziende oppure verso una pluralità di consumatori finali, da parte di un’organizzazione amministrativa complessa e per piccoli importi. Nel primo caso la documentazione è richiesta dal cliente, mentre se gli acquirenti sono consumatori finali, la difficoltà nel nascondere ricchezza al fisco sta nella ripetitività e nel numero delle Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 33 operazioni sottostanti, individualmente di piccolo importo. La registrazione ripetitiva di tante prestazioni modeste è il principale presidio della relativa determinazione trbutaristica della ricchezza, perché non è verosimile che il titolare scavalchi i propri dipendenti, facendosi individuare mettendosi a rischio di ammanchi o pressioni. A questa registrazione dei ricavi si collega, in capo alle controparti, la tassazione del consumo dell’acquirente, come vedremo a proposito dell’IVA e delle altre imposte sui consumi (paragrafi 7.2 e 10.6), e la rilevazione del valore aggiunto, e quindi del reddito, dell’azienda. Il ciclo amministrativo di rilevazione dei costi è molto più vario di quello dei ricavi. Abbiamo costi per le materie prime, per energia, per il personale dipendente e autonomo, per servizi di impresa (trasporto, manutenzione etc.), per servizi immobiliari e finanziari. Alcuni costi presentano talvolta caratteristiche di serialità e forti contrasti di interessi (lavoro dipendente), che li rendono rigidi, difficili da “gonfiare” in modo da far uscire denaro per il titolare; altre tipologie di costi possono però offrire notevoli possibilità di manipolazione, con le possibili infedeltà fiscali di cui al par. 3.7. L’affidabilità delle procedure contabili aziendali dipende molto dalla serialità, dalla conflittualità potenziale con le controparti, dalla loro possibilità di connivenza, sia in acquisto sia in vendita. Questa conflittualità potenziale rende rigido il lavoro dipendente, nei termini indicati al paragrafo 3.8, sui “fuori busta” e 8.3 sull’utilizzabilità del “lavoro totalmente nero” come arma di pressione del lavoratore verso il datore di lavoro; analoga rilevanza del contrasto d’interessi sarà indicata al par. 8.4 sulle locazioni abitative “in nero” (il tema delle segnalazioni sarà ripreso anche al par. 9.3, sulla deduzione di spese di consumo per innestare un “contrasto di interessi” rispetto ai consumatori finali). Si tratta di aree amministrative diverse, che si creano man mano che l’azienda si sviluppa, di solito da un’attività di lavoro indipendente che gradualmente “si ingrandisce” attraverso collaboratori “tecnico-produttivi”, poi “commerciali” (addetti alla vendita:marketing) e quindi “amministrativi”. Con l’aumento delle dimensioni aziendali, il titolare si concentra sugli affari, delegando all’amministrazione contabile di registrarne i risultati, e i documenti. Al personale amministrativo l’imprenditore attribuisce funzioni in precedenza svolte da lui personalmente, dove la componente fiduciaria è fondamentale; lo scopo è di evitare frodi o negligenze, cioè assicurarsi che tutti i ricavi siano stati registrati, e tutti i crediti incassati, pagando solo i debiti effettivi, ed evitando di farlo due volte. In questo compito, fondamentale per la determinazione della ricchezza, la creatività, la fantasia, sono secondarie, e la radice del termine “ragionieria” non riguarda il “ragionamento”, ma il termine latino “rationem”, riferito appunto al “fare conti”. Si tratta di emettere ordinatamente documenti di incasso, e poi classificare documenti di spesa, da registrare su libri contabili e conservare, con una serie di operazioni elementari e ripetitive, dove la meticolosità e lo scrupolo sono le doti più importanti. È questo il segreto del successo delle aziende come esattori del fisco, più che come ausiliari della mancata registrazione di ricchezza da parte del titolare. 34 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Concettualmente si tratta di annotazioni identiche, quale che sia l’importanza dell’evento da registrare, dall’acquisto milionario di un impianto a quello di un po’ di carta per le fotocopie. Non a caso si teorizzava la quadratura come strumento di controllo, dove anche minime differenze potevano indicare errori macroscopici parzialmente compensati: l’uguaglianza costante tra “dare e avere” era un indizio della mancanza di errori. Oggi questa preoccupazione dei “conti che non tornano” è stata eliminata dai computers, e il contabile deve preoccuparsi soprattutto della aggregazione e classificazione dei documenti, dei passaggi procedurali di controllo, che si ingigantiscono, e si irrigidiscono, con le dimensioni aziendali. All’interno dell’amministrazione aziendale si crea quindi un enorme contrasto di interessi, dove il contabile disonesto può anche frodare il suo datore di lavoro, che si preoccupa più dell’onestà dei dipendenti che della propria evasione fiscale. Mentre il lavoratore indipendente può omettere la registrazione fiscale della ricchezza in proprio, facendo tutto da solo, l’imprenditore in genere deve esporsi, cioè deve dare ordini parzialmente in controtendenza rispetto alle proprie necessità di trasparenza e controllo amministrativo; è il “management overriding”, cioè lo scavalcamento delle procedure amministrative da parte della proprietà-dirigenza, oppure di suoi fiduciari, che si è disposti a far diventare quasi complici. Questa difficoltà, unita alle condizioni economiche personali, generalmente floride, dei titolari di aziende pluripersonali, rendono meno probabile la mancata registrazione fiscale della ricchezza, su cui comunque torneremo al par. 3.7.. Questo uso fiscale della contabilità non deve far dimenticare che la sua funzione è prima di tutto aziendale, e non fiscale. La contabilità può essere utilizzata fiscalmente, quando c’è e fin dove arriva, tenendo conto che serve al controllo interno, a non dimenticarsi di chiedere e incassare i ricavi, a non pagare per prestazioni mai ricevute; l’azienda non nasce però per svolgere funzioni di polizia tributaria, ma per produrre e vendere sul mercato. Non possono quindi esserle delegate eccessive funzioni improprie tributarie, troppo lontane dall’attività tipica. Va bene utilizzare a vantaggio del fisco le rigidità amministrative dove ci sono, ma dove mancano non possono essere create ad arte. Il legislatore può quindi fare affidamento sulle rigidità amministrativo-contabili, e trasformare gli organismi aziendali in una specie di “sostituti del fisco”, al punto che da essi viene una percentuale altissima del gettito tributario (le prime 4000 grandi aziende portano circa il 60 percento del gettito, su oltre 5 milioni di operatori economici!). Non è una questione di onestà o disonestà, sentimenti umani, fuori luogo per corpi sociali come le aziende. Si tratta piuttosto di rigidità, di contrasti di interessi, derivanti dall’inevitabile ripartizione dei compiti all’interno dell’azienda; l’esigenza extrafiscale di controllo reciproco apre la via alla visibilità contabile della ricchezza, già indicata esternalità positiva della tassazione attraverso le aziende. Di cui vedremo adesso l’aspetto documentale. Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 35 3.3. La riutilizzazione di documenti contabili per la determinazione tributaristica della ricchezza La base documentale della tassazione attraverso le aziende consiste nei documenti e nelle registrazioni utilizzate in prima battuta dalla stessa azienda per le proprie finalità informative interne; su tali documenti si innesta, in seconda battuta, la determinazione tributaristica della ricchezza. Qualche volta esiste solo una registrazione, come per gli incassi da parte di clienti consumatori finali, ed altre volte esistono documenti, riepilogati a loro volta in registrazioni sui libri contabili, per gruppi omogenei. Il libro contabile, quindi, enuncia eventi aziendali elementari, come gli incassi, o riepiloga documenti sottostanti; sia le registrazioni sia i documenti riguardano i rapporti interprivati interni all’azienda, rilevanti ai fini dei rapporti con clienti e fornitori, nonché per il controllo interno degli incarichi attribuiti ai vari dipendenti. Anche qui la tassazione si innesta sulla documentazione “amministrativo-contabile” dei rapporti economici interprivati, in cui si forma e circola la ricchezza; il diritto amministrativo dei tributi si inserisce quindi sul diritto dei privati, riutilizzandone, e parzialmente condizionandone, meccanismi e documentazione.; documenti, nati per fini contabili e civilistici vengono integrati con informazioni ulteriori, di valenza esclusivamente tributaria; si tratta spesso di informazioni irrilevanti per gli ordinari rapporti di diritto civile e commerciale tra le parti, ma che occorre inserire per disposizioni tributaristiche, spesso tendenti a contrastare l’evasione, talvolta con gli adempimenti superflui di cui al par. 4.5. Sono documenti civilisticamente e aziendalisticamente molto informali, che si trasfigurano in strumenti di diritto amministrativo tributario, per determinare la ricchezza, propria e di terzi, clienti, fornitori, risparmiatori, consumatori finali; un documento emblematico, tanto per fissare questa riutilizzazione tributaria, è la fattura, di cui anticipiamo alcune caratteristiche, comprensibili anche prima di aver esposto, al paragrafo 7.3, il meccanismo dell’imposta sul valore aggiunto. La fattura è un tipico documento commerciale, ripreso ai fini tributari (paragrafo 7.3); con esso il fornitore manifesta al cliente non solo l’IVA, ma anche le proprie richieste contrattuali, in esecuzione dei precedenti accordi, spesso solo verbali. La valenza tributaria della fattura si inserisce quindi su quella commerciale, che le preesiste, nei rapporti tra le parti. In questo solo documento si fondono gli adempimenti amministrativi, nei confronti del fisco, e le comunicazioni commerciali, nei confronti della controparte privata; la fattura, conformemente alla prassi contabile, è un documento non sottoscritto dall’emittente, ma semplicemente redatto su sua carta intestata, e diretto al destinatario, di cui riporta le generalità. La sua legittimazione probatoria, come vedremo spesso, e anche in questo paragrafo, non deriva quindi da un suo formalismo intrinseco, ma nell’inserimento in una attività aziendale e da una sua verosimiglianza economica. In prima battuta si potrebbe affermare che la tassazione attraverso le aziende determina la ricchezza in modo “contabile”, ma la contabilità è solo una procedura di organizzazione di informazioni su quelle relazioni giuridiche, tra fornitori e clienti, 36 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui attraverso cui si forma la ricchezza. Per interpretare e contestualizzare la documentazione aziendale occorre calarla nel contesto della snella formalizzazione corrente dei rapporti giuridici di impresa; le parti, a seconda del tipo di cliente, del rapporto più o meno fiduciario, o delle caratteristiche qualitative e quantitative dell’operazione, redigono la documentazione ritenuta più opportuna, contemperando la tracciabilità documentale, le esigenze di cautela verso la controparte e la snellezza gestionale. La registrazione aziendale dei ricavi ha una rilevanza “confessoria”, secondo cui se il contribuente ha registrato un ricavo vuol dire che c’è, salve eccezionali ragioni che rendessero conveniente affermare un ricavo fittizio; il problema – per il fisco – sono invece ulteriori ricavi non registrati, ma ne riparleremo al par. 3.14, nonché 5.13. L’idoneità probatoria nella documentazione dei costi deve essere invece contestualizzata rispetto alla prassi commerciale dell’azienda, dove sono rari i contratti solenni; al contrario, la prassi aziendale delle vendite al dettaglio è ispirata agli scambi informali di “cosa contro prezzo”; i rapporti tra operatori economici, come la generalità degli acquisti aziendali, sono formalizzati con fatture passive, spesso precedute da moduli prestampati per ricevere gli ordini; tali ordini contengono clausole standard, continuamente “personalizzate” in base agli accordi fiduciari, specie con controparti conosciute o affidabili., L’adeguatezza probatoria della documentazione aziendale va quindi riferita agli eventi concreti da rappresentare; astratti formalismi documentali sono infatti fuori luogo per realtà dinamica come le aziende; la credibilità probatoria della documentazione aziendale dipende da valutazioni di normalità aziendale, di “id quod plerumque accidit” sul comportamento degli operatori economici di una determinata dimensione, anche in relazione alla tipologia di rapporto da registrare, alla natura dell’acquisto, alla relazione col fornitore, alle modalità di pagamento, etc. In genere, è sufficiente una fattura passiva, accompagnata dalle prove del pagamento, e da un riscontro dei beni ricevuti, se esistono. Qualche volta neppure si può pretendere una fattura, ad esempio per documenti “anonimi” come biglietti ferroviari, ricevute autostradali, scontrini per piccole consumazioni, spese sostenute in contesti ambientali (paesi esteri) dove la documentazione è molto più informale che da noi. Questo relativismo documentale emerge anche per le c.d. “fatture per operazioni inesistenti”, cioè documenti materialmente o ideologicamente falsificati. Riassumendo, la “prova” delle vicende economiche, sia generali sia corredate da indizi contabili, è strutturalmente presuntiva (par. 5.8); la sua valutazione, nelle aziende, dipende dagli eventi da descrivere e dai controlli interni e i “contrasti di interesse” tipici delle catene di comando delle organizzazioni. Un filo conduttore del testo è che la prova, da parte del fisco, della ricchezza non registrata, è una “prova economica”, cioè di un evento con rilevanza economica su cui, a maggior ragione, non si possono trasferire i formalismi civilistici degli “atti solenni”. Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 37 3.4. Ulteriori adempimenti esclusivamente tributari: scontrini, dichiarazioni e versamenti Le riutilizzazioni tributarie dei documenti civilistici, naturale riflesso della tassazione attraverso le aziende, si completano con adempimenti esclusivamente tributari, come la contabilità dei piccoli commercianti, professionisti e artigiani (par. 3.13), quella di magazzino o lo scontrino e la ricevuta fiscale (par. 7.7). L’adeguamento fiscale della documentazione aziendale, e la creazione di nuova documentazione solo fiscale devono tener presente l’impossibilità di esportare la tassazione attraverso le aziende dove l’organizzazione amministrativa manca, e non ha senso ricrearla per decreto; se un documento è “aziendale” deve giustificarsi con esigenze gestionali e non fiscali. Esclusivamente tributari sono invece le dichiarazioni fiscali e i versamenti dei tributi, oltre che le già indicate contabilità dei piccoli imprenditori e dei professionisti, previste solo fiscalmente. Il versamento delle imposte è il più elementare adempimento verso “l’ente creditore”; non basta però pagare, perché l’amministrazione finanziaria, in quanto organizzazione, ha spesso bisogno di informazioni su chi ha pagato determinati tributi e chi no, in modo che gli inadempienti siano potenzialmente individuabili. La maggior parte dei pagamenti è quindi accompagnata da alcune informazioni all’amministrazione finanziaria, che servono anche come “ricevuta di pagamento” per il contribuente, di cui in genere indicano le generalità. Ciò avviene in una prima fase attraverso i documenti di versamento; si pensi ad esempio ai bollettini di conto corrente postale, ai pagamenti presso i concessionari (ad es. tabaccai) dei circuiti telematici Lottomatica e simili, fino ai modelli unificati bancari (F24) con cui si pagano i principali tributi vigenti, inserendo nel modulo i relativi codici. In questo modo, l’acquisizione diretta di denaro, assegni o altri titoli di credito, da parte degli uffici tributari si è ridotta fino ad essere del tutto soppressa, con l’eliminazione (alla fine degli anni novanta del secolo scorso) degli uffici di cassa presso gli uffici tributari. È un altro riflesso non solo della (positiva) aziendalizzazione e proceduralizzazione della funzione tributaria, ma anche della sua esternalizzazione su circuiti finanziari esterni, che è un sintomo di rigidità. La tempistica del pagamento è abbastanza ravvicinata rispetto al momento in cui i debiti tributari sono determinabili. È quindi del tutto logico che le ritenute, o l’IVA mensile, debbano essere versate entro il 16 del mese successivo, in quanto sono determinazioni circoscritte, ormai compiute, salvo conguagli e correzioni, che sono sempre ammessi (la prima quindicina del mese successivo dovrebbe essere sufficiente, come periodo cuscinetto, per organizzare i relativi dati e versare il 16). Sulle imposte da calcolarsi nelle dichiarazioni ci soffermeremo più avanti, a proposito dei sistemi di “saldo e acconto”. In questo capitolo ci fermiamo alla tempistica “fisiologica” di pagamento, mentre i ritardi e le omissioni saranno trattate al paragrafo 6.11, sulla riscossione coattiva. 38 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui I modelli di versamento qualificano l’imposta pagata, e indicano le generalità del contribuente, ma spesso non è ancora una informazione sufficiente, e subentrano le già indicate “dichiarazioni fiscali”. Di esse si sente il bisogno man mano che la determinazione del tributo diventa più complessa, influenzata da numerose variabili; gli esempi che molti conoscono sono la dichiarazione annuale dei redditi, nonché dell’IVA, dell’ICI-IMU, ed altre, vigenti a proposito dei tributi più diversi, ecc. La dichiarazione è un classico adempimento di diritto amministrativo, come i già indicati documenti con funzione esclusivamente tributaria (ricevute fiscali), i moduli di versamento etc... Essa va indirizzata all’ufficio tributario competente per territorio, in relazione alla residenza anagrafica delle persone fisiche o alla sede legale delle società ed enti. È quindi manifestamente fuorviante analizzare le dichiarazioni tributarie con chiavi di lettura di diritto civile e commerciale, radicate cioè nel diritto dei privati. Questa natura di adempimento amministrativo delle dichiarazioni fu per lungo tempo trascurata dalle spiegazioni riferite alle categorie concettuali civilistico-privatistiche, delle dichiarazioni di volontà o delle dichiarazioni di scienza, della confessione e simili; era un riflesso della fuorviante trascuratezza verso la matrice “amministrativistico-economica della tassazione. Volendo restare alle soluzioni di matrice civilistica, cui è oggi legata la prassi, la “dichiarazione di scienza” è la meno insoddisfacente perché esclude il contenuto negoziale della dichiarazione. Il riferimento pecca però di semplicismo, perché si addice a eventi elementari, e trascura la pluralità di operazioni di registrazione, rendicontazione e soprattutto di qualificazione giuridica presupposte dalle dichiarazioni in esame. È quindi più appropriato inquadrare le dichiarazioni nell’ambito del diritto amministrativo dei tributi, in particolare come manifestazioni di giudizio, con una componente materiale ed una di qualificazione giuridica (cfr. al paragrafo 3.10 la funzione anche interpretativa demandata ai contribuenti nella tassazione attraverso le aziende). Sullo sfondo amministrativistico vanno inquadrate anche le opzioni, ad esempio tra vari regimi di determinazione della ricchezza, il rimborso o il riporto in avanti dei crediti di imposta, etc... Si tratta di scelte, demandate al contribuente, e per questo a prima vista simili a quelle negoziali, ma in un contesto diverso da quello dei rapporti con un altro contraente, di cui occorre salvaguardare la buona fede, l’affidamento, i preparativi per eseguire una controprestazione. La destinazione delle dichiarazioni non è una controparte specifica, ma un archivio di milioni di documenti, che nessuno esamina per molto tempo dopo la scadenza del termine per l’opzione. Che non ha quindi alcun motivo per essere guardato come un feticcio rispetto a successive correzioni. Che non sono “ripensamenti”, come potrebbero essere definiti quelli di un accordo contrattuale. Le opzioni, con le loro possibilità di scelta, si inseriscono infatti in doveri amministrativi previsti “ex lege”. Dove sono normali le distrazioni, le ansie da scadenza, gli equivoci, una cui correzione non lede affatto le esigenze erariali. Anche qui però sembra riflettersi la schizofrenia sospettosa che pervade tutto il volume, Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 39 con le amministrazioni pubbliche, preoccupate di essere accusate di fare eccessive concessioni, che si ritengono in dovere di essere al tempo stesso formaliste e sostanzialiste “pro fisco”. Il principale terreno pratico, in cui si inserivano le fuorvianti spiegazioni della “natura della dichiarazione”, riguardava le integrazioni, gli errori, di cui indicheremo subito l’assetto attuale. Il contribuente può ritrattare in tutto o in parte la dichiarazione, in quanto errata per eccesso; questa ritrattazione è condizionata a limiti ed esigenze di diritto amministrativo, come la stabilità del riscosso e la snellezza dell’attività amministrativa e dei controlli (il termine è quello della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello di riferimento, ai sensi dell’art. 2, comma 8-bis, d.P.R. 322/98). Entro questo termine il contribuente può direttamente auto-liquidare, a proprio favore, le rettifiche rispetto alla dichiarazione originaria. Dopo questo termine restano le istanze amministrative di rimborso al fisco (art. 38 d.P.R. 602 del 1973 su cui par. 6.7); vanno segnalate, nell’interpretazione amministrativa e giurisprudenziale, striscianti tendenze restrittive verso queste rettifiche della dichiarazione, come se il problema della tassazione fosse chi “dichiara troppo e ci ripensa” anziché chi non dichiara affatto, o dichiara percentuali irrisorie, senza ovviamente ripensarci. Anche la possibilità di dichiarare somme ulteriori rispetto a quelle in precedenza dichiarate, per “ravvedersi” e sanare precedenti dimenticanze o consapevoli evasioni, conferma quest’ottica amministrativistica; è un istituto generale applicabile anche ai ritardi dei versamenti e di altri adempimenti (art. 13 D.P.R. 472 del 1997 sulle sanzioni tributarie); il contribuente deve non solo pagare l’imposta, o regolarizzare l’adempimento omesso, ma anche “autosanzionarsi” e liquidare anche eventuali interessi, per beneficiare di sanzioni più miti di quelle ordinarie. Equiparare il ritardo alla omissione indurrebbe infatti il contribuente a non far nulla, confidando nella bassa probabilità di essere controllato. L’intuitiva condizione per questa procedura è che non siano iniziati controlli fiscali nei confronti dello specifico contribuente, altrimenti sarebbe troppo comodo evadere pensando di «ravvedersi» dopo l’inizio di un controllo. La finalizzazione all’attività di autorità amministrative emerge chiaramente dai “modelli di dichiarazione”, che hanno l’importantissima funzione organizzativa di «filtrare» in schemi omogenei l’enorme massa di dati annualmente forniti all’amministrazione finanziaria e da immagazzinare nelle banche dati del fisco, anche ai fini di un efficiente uso ai fini degli “incroci” tra informazioni diverse (ad es. tra dichiarazione del cliente sostituto di imposta e del fornitore). All’interno delle dichiarazioni si trovano dei singoli prospetti (denominati «quadri»), ciascuno destinato ad essere utilizzato per un determinato tipo di ricchezza o di elemento rilevante per la determinazione del tributo. Tutti parlano di “dichiarazione dei redditi”, spesso rilevando che il relativo modulo è di oltre cento pagine considerando le istruzioni. Gli interessati devono però compilare solo i riquadri relativi ai tipi di reddito di cui sono titolari, ad esempio di lavoro dipendente o autonomo, dei fabbricati, d’impresa, nonché quelli di riepilogo per la condizione perso- 40 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui nale o familiare rilevante ai fini della determinazione dell’imposta (spese mediche, figli a carico, e altri elementi indicati al par. 9.3). L’autorità amministrativa, nel predisporre i quadri delle dichiarazioni, cerca di acquisire i dati nel modo più proficuo per la sua attività conoscitiva ed operativa; l’obiettivo è quello di conoscere le tipologie di ricchezza nel modo ritenuto più utile per la gestione amministrativa e statistica, anche ai fini degli interventi di politica tributaria. Le principali dichiarazioni fiscali sono ormai inoltrate per via telematica, tramite intermediari abilitati, (aziende di credito, dottori commercialisti e altri professionisti, associazioni di categoria e centri di assistenza fiscale su cui par. 3.16); redatte su schemi conformi a quelli approvati dall’autorità fiscale, le dichiarazioni acquisiranno consistenza cartacea soltanto con la stampa. Quando la documentazione contabile era esclusivamente cartacea, né le imprese né i lavoratori autonomi hanno mai dovuto allegare alla dichiarazione i documenti giustificativi dei vari elementi del reddito d’impresa o di lavoro autonomo, come ad esempio le fatture passive che documentano i costi sostenuti. Con la presentazione telematica delle dichiarazioni, nessun allegato cartaceo ad esse è più richiesto né concepibile. Potrebbe farsi strada, invece, a causa delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia, l’invio al fisco di documenti, persino dell’intera contabilità aziendale, su supporti ottici. Tendono ad essere dichiarate con maggiore frequenza, soprattutto da individui non organizzati, le somme segnalate al fisco da terzi, come i sostituti di imposta. Vedremo infatti (par. 4.6) che l’evasione diminuisce quanto più aumenta la consapevolezza di una presenza effettiva del fisco, e di una sua possibilità di intervento; quest’ultimo può essere anche potenziale, ma deve essere percepibile e sistematico. Le dichiarazioni più conosciute, come quelle in materia di imposte sui redditi, costituiscono anche la sede per determinare l’imposta dovuta. In questo caso, quindi, la dichiarazione contiene sia l’autodeterminazione (autoliquidazione) del tributo, sia un conguaglio con le anticipazioni, come le ritenute d’acconto e gli acconti, versate in precedenza. Qualche volta, come accade per la dichiarazione dei sostituti d’imposta o per la dichiarazione IVA, la dichiarazione serve solo a riepilogare adempimenti che (di regola) devono essere stati effettuati in precedenza in modo del tutto autonomo (versamenti mensili o trimestrali IVA e versamenti delle ritenute alla fonte da parte dei sostituti d’imposta); la dichiarazione dei sostituti d’imposta serve anche a segnalare i percettori al fisco, inducendoli a dichiarare, come vedremo al successivo par. 3.6. La dichiarazione è spesso usata come base per versamenti provvisori, c.d. acconti di imposta,tra cui segnaliamo quelli da effettuare entro i mesi di maggio e di novembre, commisurandoli alle imposte dovute per l’anno precedente; la dichiarazione dei redditi contiene sempre un prospetto espositivo di questi acconti e dei successivi conguagli; si noti che primo versamento deve avvenire, entro il 20 giugno, anche se il termine di presentazione della dichiarazione scade successivamente, entro il 30 settem- Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 41 bre; ciò comporta un calcolo dell’imposta ai soli fini del versamento e lascia margini temporali, prima della dichiarazione, per dedicarsi agli aspetti formali, ad esempio le indicazioni statistiche, estranee al calcolo dell’imposta, sia per “aggiustare il tiro” dei calcoli del tributo. Se infatti, redigendo più correttamente i calcoli, emerge un versamento eccessivo, questo sarà evidenziato, nella dichiarazione, come un credito compensabile coi successivi versamenti; se invece il versamento è carente “per difetto” potrà essere integrato col già indicato “ravvedimento operoso”, che comporta una riduzione della sanzione per omesso o tardivo versamento, indicata al par. 6.13 e pari al 30 percento della relativa imposta (art. 13 del d.lgs. n. 472/1997). Il versamento può avvenire al netto di crediti di imposta, ed anche per contributi sociali, anche relativi ad altri tributi e contributi. Nell’esternalizzazione della tassazione su aziende e privati, costoro possono trovarsi a credito per un tributo, e a debito per altri, con facoltà di “compensazione amministrativa”, da esercitare unilateralmente nei modelli di versamento dei tributi. Anche se denominata “compensazione”, questa facoltà non deve essere confusa con la compensazione civilistica, che avviene davanti al giudice, in via di eccezione, all’interno di una controversia. Nel nostro istituto amministrativistico non c’è una controversia, ma un coordinamento tra debiti e crediti relativi a una pluralità di tributi diversi, applicati per di più con continuità nel tempo. Per evitare abusi, da parte di chi fa valere crediti fittizi, sono previste una serie di cautele, la cui trattazione (tecnicistico-professionale) esorbita dai limiti del presente manuale. Il contribuente che si trovi in difficoltà finanziarie, può chiedere la rateazione automatica di quanto dovuto, a tassi di interesse e per periodi massimi previsti dalla legge, che riprenderemo al par. 6.11. 3.5. Tassazione attraverso le aziende di ricchezza di terzi:“contribuenti di diritto” e “di fatto” tra rivalse, ritenute, segnalazioni e controversie private con oggetto tributario La tassazione attraverso le aziende riguarda prevalentemente a ricchezza di terzi, anche perché le aziende non hanno un proprio patrimonio personale; esse tassano chi ha a che fare con loro, in quanto consumatore, lavoratore, risparmiatore, o persino titolare-imprenditore.; basti pensare alle ritenute fiscali alla fonte per i lavoratori ed all’IVA applicata ai consumatori, che vedono entrambi l’azienda come strumento del fisco. La “tassazione attraverso le aziende” si ricollega in questo alle tassazioni del passato (par. 1.3), quando si utilizzavano i corpi sociali per colpire chi vi apparteneva, o i commercianti per tassare i consumi; ciò conferma la tendenza del potere amministrativo tributario di chiedere le imposte concentrandosi nei punti in cui la ricchezza, è individuabile, con minore sforzo. Rispetto al passato, quando era necessario un forte impulso amministrativo, la tassazione di terzi attraverso le aziende “funziona da sola”, almeno nella misura in cui le aziende sono complesse, organizzate e quindi affidabili. 42 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Emerge quindi la frequente differenza tra chi ha rapporti con l’amministrazione finanziaria, denominato “contribuente di diritto” (tipicamente “l’azienda”), e il titolare della ricchezza colpita dal tributo, cioè il contribuente di fatto, senza rapporti, o con rapporti residuali, con l’amministrazione tributaria, come il consumatore, il risparmiatore o per molti versi (vedi infra) il lavoratore. È la conferma di un tradizionale sfasamento tra la controparte giuridico-amministrativa degli uffici tributari, identificata in base alla concentrazione della ricchezza, e i soggetti, molto più numerosi e frammentati, cui tale ricchezza si riferisce. Sia ai “contribuenti di diritto”, sia ai “contribuenti di fatto”, manca qualcosa rispetto al contribuente in senso pieno, cui è al tempo stesso riferibile la manifestazione di ricchezza e l’obbligo di pagare il tributo al fisco, essendo soggetto direttamente (e non attraverso terzi) a controlli in caso di inadempienza. L’espressione “contribuente (soltanto) di diritto” già sottintende che il soggetto non è anche “contribuente di fatto”, cioè titolare della ricchezza cui il tributo si riferisce; l’espressione “contribuente di fatto” spiega ancora più facilmente che egli sopporta solo il carico economico del tributo, senza esser direttamente gravato da adempimenti verso il fisco né intrattenere relazioni dirette con esso. Le espressioni “contribuente di fatto” e “di diritto”fanno pensare solo al pagamento del tributo, in quanto furono coniate prima della tassazione attraverso le aziende, e prima dell’esternalizzazione, sui contribuenti, della penetrante serie di obblighi di diritto amministrativo descritti ai paragrafi 3.3-3.6, non riconducibili al solo “pagamento del tributo”. Oggi vi si sono aggiunti altri adempimenti come segnalare al fisco le generalità dei fornitori, nella dichiarazione dei sostituti di imposta (paragrafo successivo), le certificazioni delle ritenute, ed altri obblighi di diritto amministrativo (come era già dall’origine il pagamento del tributo). Il fornitore al consumo finale, ad esempio il venditore per l’IVA, è “contribuente di diritto” (cioè interagisce col fisco) in luogo del cliente consumatore finale, come nei modi indicati in questo paragrafo. Chi eroga invece somme rilevanti ai fini del reddito di propri fornitori, soprattutto di lavoro (dipendente o autonomo, cioè in senso ampio collaboratori) è contribuente di diritto per le “ritenute alla fonte”, di acconto o di imposta, che approfondiremo al prossimo paragrafo su “sostituto” e “sostituito”. In entrambi i casi siamo di fronte a istituti di diritto amministrativo, impossibili da sistematizzare con spiegazioni civilistiche. Quest’ottica “civilistico-processuale”, trascurò la spiegazione più a portata di mano del sostituto e del responsabile di imposta, cioè quella di soggetti tenuti ad adempimenti di diritto amministrativo, imposti dalla legge in relazione a determinate operazioni economiche di diritto privato; tali adempimenti di diritto amministrativo si insinuano nei rapporti civilistici tra clienti e fornitori, finendo in parte per condizionarli nei modi che diremo. Un primo condizionamento si ritrova nei meccanismi con cui il contribuente di diritto si rivale, sul contribuente di fatto, per l’ammontare del tributo. I meccanismi per trasferire sui contribuenti di fatto il peso economico delle imposte, appartengono alla categoria generale della «traslazione». Mentre la traslazione è Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 43 un concetto economico, la richiesta dell’imposta al contribuente di fatto è denominata giuridicamente “rivalsa”; civilisticamente sarebbe una forma di “regresso”, con cui chi paga una somma a beneficio economico di altri, chiede loro di essere rimborsato, ovvero la acquisisce in anticipo, inglobata nel proprio corrispettivo, come vedremo al par. 7.3 per l’IVA. Un concetto giuridico di diritto amministrativo, come l’imposta, entra quindi a far parte di negoziazioni tra i privati, condizionate da profili tributari. La rivalsa può essere talvolta solo economica, come nel caso delle imposte di fabbricazione, fino al diritto (talvolta persino obbligo!) di rivalsa giuridica, come nell’imposta di registro dovuta dal notaio o nell’IVA. Nella traslazione economica, che tutti hanno sperimentato almeno per la benzina, l’imposta entra a far parte indistintamente del prezzo, attraverso il quale viene messa a carico del consumatore. In questi casi il fornitore, che agisce nel ciclo delle vendite, dovrà attivarsi per ottenere, dal contribuente di fatto (in genere un consumatore finale), l’importo dell’imposta – ad esempio sul valore aggiunto – dovuta al fisco. Non è solo il caso dell’IVA o delle imposte sui consumi, ma può essere anche quello dell’imposta di registro dovuta dal notaio, o dell’imposta di bollo dovuta dalla banca. In tutti questi casi possono esserci contrasti tra contribuente di diritto e contribuente di fatto sul regime fiscale applicabile all’operazione. Analoghe controversie possono verificarsi quando il contribuente di diritto deve effettuare, in qualità di “sostituto d’imposta”, ma ne parleremo al prossimo paragrafo nei dettagli.. Il caso più uniformemente risolto in giurisprudenza riguarda l’IVA, dove il cliente, intenzionato a contestare l’imposta addebitatagli dal fornitore, ad esempio perché ritiene applicabile una esenzione o una aliquota inferiore, deve resistere davanti al giudice civile, cui può anche chiedere la restituzione di IVA che, a suo avviso, il fornitore ha erroneamente applicato. Già intravediamo rischi di contrasto tra giudizio civile e tributario, che ritroveremo per i rapporti tra sostituto e sostituito nelle imposte sui redditi (dove esiste una situazione giurisprudenziale altalenante di cui diremo al prossimo paragrafo). L’atteggiamento giurisprudenziale univoco, nell’IVA, che nega la possibilità del cliente di rivolgersi al fisco, si spiega col tentativo di concentrare sul solo fornitore i rapporti con l’amministrazione finanziaria. 3.6. Segue. Il sostituto d’imposta come strumento di tassazione delle somme erogate a terzi (ritenute alla fonte tra funzione esattiva e segnaletica) Esiste però anche il ciclo inverso a quello (tipico delle imposte sui consumi) descritto al paragrafo precedente, in quanto le aziende (paragrafo 3.1) non solo acquisiscono consumi, ma restituiscono elementi di reddito ai rispettivi fornitori. Qui il contribuente di diritto, tipicamente l’azienda, ha ricevuto una prestazione da quello “di fatto” (tipicamente il dipendente), verso il quale è debitore. Si inserisce a questo punto la legislazione tributaria, imponendo al debitore di saldare una parte del proprio 44 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui debito non già al creditore, ma al fisco. Emerge così la figura del “sostituto d’imposta”, come debitore di somme costituenti reddito per il percettore, denominato «sostituito», come vedremo più avanti; Il sostituto, per esercitare la rivalsa, “non ha bisogno di chiedere”, perché può direttamente trattenere, “alla fonte”, cioè in sede di pagamento del proprio debito, la somma che deve versare al fisco. Che appunto si chiama «ritenuta alla fonte», attraverso la quale viene esercitata la già indicata rivalsa sul contribuente di fatto. Il sostituto d’imposta si colloca generalmente nell’ambito dei tributi sui redditi, erogati dal sostituto medesimo. Il sostituto, nella tassazione attraverso le aziende ed in un’ottica amministrativistica, “sostituisce il fisco”, che gli “chiede di chiedere le imposte” ai percettori di somme da lui stesso erogate, e che concorrono a formare il reddito dei beneficiari. Sulle somme erogate al percettore (“sostituito”), e che concorrono a formarne il reddito, il sostituto deve operare le ritenute alla fonte, che possono essere – come vedremo subito – d’imposta o d’acconto. La ritenuta alla fonte era originariamente, in un sistema di imposte “reali” (paragrafo 9.2), a titolo definitivo, chiamata oggi “a titolo d’imposta”, come è ancora per molti redditi finanziari (par. 8.5); questa ritenuta “definitiva”, esaurisce il prelievo tributario, e sotto certi profili costituisce una vera e propria «imposta sostitutiva». Anche se il sostituto avesse, di fatto, omesso l’applicazione della ritenuta medesima, il fisco recupererà perciò, insieme alle sanzioni e agli interessi, solo l’importo della ritenuta evasa, ma non le imposte ordinarie. Se effettuata invece “a titolo d’acconto”, la ritenuta alla fonte costituisce, come emerge dalla sua stessa denominazione, un prelievo provvisorio; in buona sostanza si tratta di una anticipazione rispetto alle imposte dirette (IRPEF od IRES, capitolo 9), dovute sul complesso dei redditi del percettore (c.d. “sostituito”). I relativi proventi concorrono perciò a formare il reddito secondo le regole generali, al lordo della ritenuta, poi confrontata con l’imposta complessiva, con diritto al rimborso delle eventuali eccedenze o versamento delle ulteriori imposte dovute (è la tipica operazione definita «di conguaglio» tra le anticipazioni e l’imposta definitivamente calcolata, cfr. paragrafo 3.4). Le ritenute a titolo di acconto nacquero, trasformando alcune precedenti ritenute a titolo di imposta, con l’obiettivo di realizzare la “tassazione personale progressiva” di cui al già indicato par. 9.2. Esse ebbero però effetti ulteriori, che nessuno aveva adeguatamente previsti. Le ritenute d’acconto sui redditi di lavoro dipendente aumentarono a dismisura il numero delle dichiarazioni tributarie da gestire, soprattutto con riferimento ai lavoratori dipendenti con “altri redditi ed oneri deducibili” (par. 3.4, 3.16 sull’assistenza professionale e 5.5 sul controllo di correttezza formale). La ritenuta d’acconto, inoltre, segnalava all’autorità fiscale il reddito che vi era assoggettato, dissuadendo il percettore dall’ometterne la dichiarazione; la ritenuta d’acconto è diventata così, forse casualmente, un’architrave della tassazione attraverso le aziende. In genere le ritenute sono applicate con aliquote proporzionali, differenziate per tipologia di redditi (lavoro autonomo 20%, capitale 15% etc.), mentre Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 45 per i redditi lavoro dipendente, dove il rapporto con l’erogante è continuativo, la ritenuta d’acconto è infatti progressiva tentando di farla coincidere con l’imposta dovuta, in assenza di altri redditi, consentendo di non presentare alcuna dichiarazione (i dati affluiranno all’anagrafe tributaria attraverso la già indicata dichiarazione del sostituto d’imposta). Per questo, alla fine dell’anno il sostituto dovrà effettuare (art. 23 comma 3) il conguaglio tra le ritenute operate mensilmente e quelle dovute sui complessivi compensi del periodo. La ritenuta progressiva è basata quindi sulle aliquote IRPEF, ragguagliando al periodo di paga (ad es. il mese) i relativi scaglioni annui e le detrazioni d’imposta. La ritenuta resta comunque di acconto come conferma l’ipotesi in cui il percettore abbia altri redditi, oneri deducibili, etc. Tra i redditi soggetti a ritenute definitive d’imposta ricordiamo gli interessi bancari ed obbligazionari percepiti da persone fisiche (paragrafo 8.5) nonché i redditi erogati a soggetti non residenti, per redditi che si considerano prodotti in Italia, secondo quanto rilevato al paragrafo 7.18. Sono considerati sostituti di imposta tutti gli operatori economici, in forma individuale o societaria, più le organizzazioni non commerciali (art. 23 comma 1 d.P.R. 600/1973. Anche piccoli commercianti, artigiani, e professionisti, spesso senza alcuna organizzazione, devono quindi svolgere tutti gli adempimenti del sostituto d’imposta, magari solo per lo stipendio erogato all’unico commesso, alla cassiera o all’apprendista, se non addirittura per la parcella erogata al commercialista che li assiste. Prima di tutto il sostituto deve effettuare la ritenuta (attraverso la quale adempie anche il già indicato obbligo di rivalsa sul sostituito), da versare entro brevi termini all’erario, indicando poi nella dichiarazione dei sostituti d’imposta le generalità dei percettori di somme soggette a ritenute di acconto, segnalati così all’amministrazione finanziaria; ciò induce i percettori a dichiarare a loro volta, anche per scomputare le relative ritenute.. Le ritenute devono essere effettuate al momento del pagamento del corrispettivo e seguono quindi il criterio di cassa, che ritroveremo per l’imputazione della ricchezza al periodo di imposta. In relazione a tale momento sono individuati anche il versamento della ritenuta e l’indicazione del provento nella dichiarazione dei sostituti d’imposta. Ai fini dello scomputo della ritenuta di acconto da parte del sostituito non rileva, invece, il relativo versamento da parte del sostituto. Il percettore viene infatti privato delle relative somme con la rivalsa e non può essergli addebitato il successivo omesso versamento del sostituto, che tra l’altro egli non può controllare. Le ritenute effettuate devono essere versate cumulativamente per tipologia, tramite delega bancaria (il c.d. modello amministrativo f24) entro il 16 del mese successivo a quello di effettuazione. L’omessa applicazione di ritenute definitive di imposta è sanzionata solo sul sostituto, con una responsabilità solidale del percettore, ove la ritenuta non sia stata neppure versata. L’omessa applicazione della ritenuta d’acconto comporta invece intrecci complessi tra la posizione del sostituito e quella del sostituto, tra i quali non c’è una coobbliga- 46 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui zione solidale, trattandosi di importi e di titoli di pagamento diversi; tuttavia esistono modalità per evitare duplicazioni di prelievo. Il sistema basato sulle ritenute e le rivalse, tutto sommato, “funziona”, assicurando un gettito adeguato al bisogno della macchina pubblica italiana. Non ci si è però chiesti perché l’efficienza di, non si è accompagnata una analisi delle ragioni per cui era difficile trasferire l’efficienza di questi meccanismi su altre tipologie di ricchezza. Nessuno si è accorto della funzione segnaletica della ritenuta d’acconto, nella tassazione attraverso le aziende, è di come essa fosse stata intralciata proprio dalla originaria funzione esattiva delle ritenute d’imposta. Non sono stati quindi progettati strumenti per portare le segnalazioni al fisco su elementi reddituali dove la ritenuta non era praticabile, per le ragioni che diremo subito. La ritenuta d’acconto, soprattutto con le elevate aliquote inizialmente utilizzate, è infatti praticabile solo per attività ad elevato valore aggiunto, concetto intuitivo, ma comunque definito al paragrafo 7.6. La ritenuta può essere infatti commisurata solo al corrispettivo erogato dal sostituto, unico dato che l’erogante con certezza conosce. Per le attività a basso valore aggiunto, le ritenute d’acconto potrebbero sottrarre risorse finanziarie al sostituito, con ingenti crediti di imposta, ed immobilizzi finanziari. Per chi avesse un margine di utile del 20 percento rispetto ai costi, la ritenuta praticata sui corrispettivi lordi assorbirebbe l’intero reddito, trasformato in un credito verso il fisco, con grandi problemi finanziari e di rimborso. Per questo la ritenuta d’acconto è prevista solo su attività, ripetiamo “ad alto valore aggiunto”, dove i costi sono irrilevanti (lavoro dipendente e capitale) oppure sono solitamente modesti, come il lavoro artistico o professionale. Per le attività d’impresa, in genere a valore aggiunto più basso, la ritenuta fu invece tendenzialmente esclusa, senza però essere sostituita con altre segnalazioni al fisco. La cui mancanza di informazioni a riguardo rende abbastanza frequente, da parte di lavoratori indipendenti d’impresa (senza ritenuta) e piccole aziende padronali la mancata registrazione delle fatture emesse (è un filo conduttore che riprenderemo ai paragrafi 5.13 e 9.3 sul c.d. contrasto di interessi). Questa sostituzione delle segnalazioni alle ritenute, si è verificata solo episodicamente, attraverso gli elenchi clienti e fornitori (poi soppressi), nelle rare ipotesi di “contrasto di interessi”, e poi, recentemente e oltre una certa elevata soglia (3000 euro), per raccogliere dati finalizzati al c.d. “spesometro” (par. 5.14, in una sorta di elenco fornitori “oltre una certa soglia”). Comunque, fuori dal sistema delle ritenute d’acconto, mancano segnalazioni aggregate e mirate, idonee ad indurre ad una corretta autotassazione, facendo intravedere ai contribuenti un potenziale e sistematico intervento del fisco sul “lavoro indipendente d’impresa” (sull’utilità di una segnalazione sistematica del lavoro indipendente da parte delle aziende clienti vedi anche infra, par. 5.13). Veniamo alle liti tra sostituto e sostituito, che riprendono quelle, analizzate al precedente paragrafo, tra contribuente di diritto e di fatto. Il soggetto che subisce le ritenute alla fonte, d’imposta o d’acconto, ha la materiale possibilità di chiedere l’integrale pagamento del suo credito; il sostituto potrà eccepire di aver pagato il suo debito trattenendo e versando al fisco la ritenuta da lui considerata applicabile; potrebbe però Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 47 essere caduto in eccesso di zelo, ed assoggettare a ritenuta somme che – ad avviso del sostituito – non lo sarebbero state affatto. È stata qui concepita una azione civile del percettore (contribuente di fatto) verso il sostituto d’imposta (contribuente di diritto), chiedendo l’integrale pagamento del credito, ed investendo incidentalmente di una questione tributaria il giudice civile; quest’ultimo avrebbe dovuto interpretare la norma fiscale per stabilire se la ritenuta fosse applicabile o meno; il sostituto condannato dal giudice civile non necessariamente avrebbe prevalso nell’eventuale successiva lite con l’amministrazione finanziaria, nel qual caso si sarebbe trovato esposto a pagare due volte tale somma, una prima volta all’amministrazione e una seconda volta al sostituito. Ecco perché la giurisprudenza sul punto è stata altalenante, tendendo spesso a negare al percettore-sostituito, cui spetta per legge esplicita azione di rimborso verso il fisco, una parallela azione civile verso il sostituto; l’unico antidoto, contro ritenute cervellotiche avrebbe potuto essere un’azione di risarcimento danni nei confronti del sostituto che, per superficialità o eccessiva prudenza, fosse stato eccessivamente cauto, ferma restando la necessità di rivolgersi alle commissioni tributarie per ottenere il rimborso della ritenuta.Tuttavia di recente è riemersa una tendenza della cassazione ad ammettere l’azione civile suddetta, per l’integrale pagamento del credito del sostituito, da parte del sostituto, con possibile contrasto di giudicati. Tra le controversie private con oggetto tributario segnaliamo l’accollo contrattuale, o convenzionale, d’imposta; nei rapporti tra privat, cui è connesso un tributo, ciascuna delle parti può cercare di porlo a carico dell’altra. Ciò potrebbe avvenire tramite una mera maggiorazione di prezzo (c.d. «traslazione economica dell’imposta»), cui si accompagnano però, talvolta, pattuizioni specifiche, secondo cui civilisticamente le imposte ricadevano su una delle parti. Tali clausole, operando solo tra le parti, non limitano i poteri amministrativi del fisco, che potrà rivolgersi ai debitori indicati dalle leggi tributarie; tra le parti, tali clausole sono state considerate lecite dalla giurisprudenza maggioritaria, che le considera mere determinazioni del corrispettivo (sulle liti tra privati aventi ad oggetto “responsabilità di imposta” vedi invece il paragrafo 6.3). 3.7. La ricchezza fiscalmente non registrata, a beneficio dei titolari di organizzazioni aziendali (ipotesi sulla “grande evasione”) In quanto corpo sociale intermedio, come indicato al par. 3.1, le aziende sono prive di bisogni personali, cui destinare ricchezza fiscalmente non registrata. Anche affermare che la grande azienda è rigida, e quindi non nasconde ricchezza al fisco, benché esatto, è fuorviante, in quanto paragona individui e organizzazioni. Queste ultime invece non hanno una sfera privata, non mangiano, non si vestono, non hanno mogli, figli né hobbies; al limite le aziende nascondono ricchezza al fisco per i bisogni aziendali “non ufficiali”, non confessabili, indicati al prossimo paragrafo 3.8, tra cui corruzioni e tangenti. Le persone fisiche con un ruolo proprietario (soci di maggioranza della società che possiede l’azienda) hanno invece bisogni personali, 48 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui e spesso sono in grado di soddisfarli anche sottraendo ricchezza al fisco, a propri fini privati. La destinazione di entrambi questi fenomeni a persone fisiche conferma che anche la ricchezza non registrata, come tutta quella che transita per l’azienda, è destinata a persone, siano esse dipendenti, finanziatori, soci, locatori di immobili, etc. Le aziende seguono anche una evoluzione, verso la spersonalizzazione della proprietà, che però nel capitalismo italiano rimane personale e familiare, spesso in capo agli eredi del fondatore. Il fondatore gestisce l’azienda, e per definizione la conosce come le sue tasche, ma anche i successori hanno spesso, di diritto o di fatto, un ruolo organizzativo-direzionale molto intenso. Le procedure aziendali, in questa fase, sono spesso state disegnate, per evitare malversazioni e negligenze, dallo stesso titolare, che può scavalcarle abbastanza facilmente; dopotutto è verosimile che ex muratori o ex pasticceri, divenuti industriali delle costruzioni o imprenditori dolciari, cerchino di perpetuare comportamenti di quando erano “lavoratori indipendenti” (par. 3.13). È un fenomeno simile al “management overriding della teoria aziendalistica anglosassone, solo che qui il “titolare” ha, in quanto tale, un potere superiore a quello dei dirigenti. È quindi frequente che l’azienda sia un mezzo per la determinazione della ricchezza, verso consumatori, dipendenti, risparmiatori, etc., e un mezzo per nasconderla al fisco a beneficio del titolare. Se tutto il sistema si regge sulla “tassazione attraverso le aziende”, si può ipotizzare anche una “evasione” (cioè ricchezza non registrata) attraverso le aziende. È qui che, in termini di ricchezza non registrata, può innestarsi la “grande evasione”, che peraltro neppure compare nelle stime macroeconomiche, su cui par. 4.1. Forse il fenomeno è modesto, in termini macroeconomici in quanto questi individui sono pochi rispetto al totale degli operatori economici. Forse, per via dell’utilità marginale decrescente del denaro, al crescere dell’organizzazione, è possibile soddisfare adeguatamente le necessità personali (sia pure cospicue) pagando le imposte. L’azienda non è, per i soggetti in esame, un mezzo di sostentamento analogo alle attività di lavoro indipendente, giustificata solo se fonte di reddito per chi la svolge; il titolare di organizzazioni pluripersonali prima di tutto ha in genere risorse economiche adeguate al proprio mantenimento, e poi non svolge personalmente attività specifica, demandata al personale, ma si dedica all’azienda anche solo per salvaguardarrne il valore di avviamento (par. 7.13); per questo anche un pareggio fiscale o un reddito modesto appaiono verosimili, a differenza di quanto accade per un lavoratore indipendente. L’esame di ragionevolezza esterna, significativo per il lavoro indipendente (par. 5.13) non fornisce qui indicazioni particolari. Per quanto probabilmente poco diffusa, e forse irrilevante sul piano del gettito, quest’evasione ha una vasta portata simbolico-politica per le cifre che individualmente può coinvolgere. Sono ipotesi che generano imbarazzo, perché riguardano figure economicamente di rilievo, oggetto già di una certa invidia sociale, con riflessi di cui al capitolo 4.. Anche il solo sospetto di una quota apprezzabile di ricchezza non registrata da parte di chi è già visto come “ricco”, crea lacerazioni e recriminazioni da parte dei lavoratori indipendenti, che evadono “tanto di poco”, come sinteticamente Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 49 indicato sopra, sono una cospicua parte della pubblica opinione e si sentono “sotto accusa” (paragrafo 4.6 ss.). La geografia fiscale delle “organizzazioni aziendali” presenta 50 mila aziende da 20 a 50 addetti e 150 mila da 10 a 20 addetti. In questi casi è verosimile un forte coinvolgimento personale del titolare in ruoli direttamente operativi, anche se l’azienda ha ormai una certa autosufficienza. È abbastanza normale che costui non sia facile da tassare attraverso la sua stessa azienda, che invece tassa dipendenti e consumatori. Anche nelle 22 mila aziende da 50 a 250 addetti e nelle 3500 con oltre 250 addetti, il coinvolgimento operativo della proprietà è tutt’altro che raro, con margini di manipolabilità della ricchezza, anche se qui il c.d. “capitalismo familiare” è sempre meno bisognoso di questi artifici, e si affianca ad aziende controllate da gruppi multinazionali, enti pubblici o con una compagine sociale variegata, cioè con una certa dialettica societaria, magari due-tre gruppi di soci. Man mano che le dimensioni crescono, allontanano la proprietà dalla gestione, ostacolando ulteriormente i suddetti tentativi di scavalcare le procedure per nascondere ricchezza al fisco. In generale, anche dove ne esistono le condizioni, è ipotizzabile che non si tratti di quote significative di ricchezza anche perché, con il passaggio alle seconde, e terze, generazioni, gli eredi sono da un lato benestanti, senza particolare bisogno di nascondere ricchezza al fisco dall’altro hanno meno familiarità nella gestione e disponibilità a rischiare di esporsi col personale aziendale nel solito già indicato “management overriding”. Controllare la ricchezza non registrata in questa vasta area intermedia tra lavoro indipendente e azienda pienamente spersonalizzata richiede, da parte degli uffici tributari, capacità valutativa, disponibilità ad esporsi, e assunzione di responsabilità, le stime della ricchezza non registrata da parte di titolari di aziende “medio-piccole” non seguono infatti nozioni diffuse di esperienza comune, paragonabili a quelle formulabili per il lavoro indipendente, dove già gli uffici sono molto restii ad esporsi (par. 5.13); per questa ipotetica ricchezza non registrata, i margini di errore sono maggiori; è possibile cercare con esito negativo, salvo scoprire frodi per eventi fortuiti sopravvenuti; come disattenzioni fortuite dei contribuenti, legate a indagini bancarie estere, a liti familiari o societarie. È anche utile l’accertamento in base alla spesa, e al tenore di vita, quando i redditi palesi, pur apprezzabili, risultano palesemente insufficienti alle spese pazze cui spesso questi soggetti vanno incontro, come vedremo al par. 5.14. Anche qui, tuttavia, c’è timore di indagare verso la ricchezza non registrata, con argomenti anche qui presuntivi, indicati al par. 5.13. In caso di indagini infruttuose, infatti, una successiva emersione dell’evasione, per vicende familiari o societarie, farebbe nascere sospetti di negligenza, o peggio; questo rende riluttanti gli uffici tributari a indagare in questo senso, disperdendosi invece verso le inutili contestazioni interpretative, come vedremo al par. 5.18. Queste ultime sono il surrogato con cui le istituzioni cercano di rispondere alla diffusa sensazione della pubblica opinione secondo cui, anche all’interno dei ceti imprenditoriali del “capitalismo familiare”, sia frequente la ricchezza non registrata; magari non moltissima sul piano macroeconomico, ma con un forte valore simbolico sul piano politico-mediatico. 50 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Le possibilità del titolare di scavalcare, a proprio personale beneficio, le procedure aziendali dipendono dalla familiarità del titolare con l’azienda, ma anche dal suo settore operativo. In alcuni casi sarà possibile anche scavalcare la funzione di incasso dei ricavi aziendali. Benché questa funzione sia una delle prime a proceduralizzarsi, per esigenze di controllo, il titolare potrà mantenere margini quando l’azienda svolge poche prestazioni di rilevante valore unitario, ad esempio nell’edilizia di lusso o nella nautica. Può anche essere possibile agire in due tempi, dapprima controllando i dipendenti, assicurandosi che tutti gli incassi vengano registrati. Poi, quando il titolare o il suo fiduciario restano soli col contante, o con assegni, ne omettono parzialmente la registrazione. Per i pagamenti ricevuti con moneta elettronica (carte di credito) occorre studiare in quale misura possono essere utilizzati conti di appoggio “non ufficiali”. Non ci dilunghiamo su altre possibilità più rischiose e spregiudicate, di cui le cronache hanno offerto esempi concreti. Qualche volta la ricchezza non registrata “risale dal basso”, quando il cliente è un ambulante o un negoziante che a sua volta evade “al consumo finale”, e quindi cerca di non essere gravato da un’IVA sugli acquisti che non potrebbe detrarre, avendo intenzione di non registrare le proprie vendite; può accadere nei settori dei generi alimentari, dei prodotti tessili o per la casa, come vedremo al termine del par. 7.3. I ricavi sono parzialmente sottratti al fisco anche quando vengono interposte società intermedie, falsamente indipendenti, intestate a prestanome-fiduciari. Queste ultime concentrano presso di sé il profitto e quindi lo stornano all’imprenditore, in una posizione uguale e contraria alle analoghe interposizioni che vedremo tra un attimo per i costi. Talvolta è possibile “dirottare” sul titolare dell’azienda erogazioni straordinarie, come gli sconti dei fornitori, oppure pagamenti parziali da parte dei clienti a fronte di rinunce a crediti, per insolvenza, da parte dell’azienda. Non sempre, nelle organizzazioni, anche piccole, sussistono le suddette condizioni di omettere ricavi agendo “da sopra”; spesso infatti le relative procedure aziendali sono impossibili da “scavalcare” persino per una proprietà aziendale che non voglia destare sospetti; questo per l’elevata frammentazione delle vendite, la loro gestione seriale, etc... Questo spinge gli imprenditori intenzionati a nascondere ricchezza al fisco verso una via più rischiosa all’esterno, ma aziendalmente più gestibile, cioè la registrazione di costi totalmente o parzialmente fittizi; metaforicamente, agendo sui ricavi la ricchezza veniva tolta “da sopra”, mentre per i costi si tratta di farlo “da sotto”, con documenti di spesa in tutto o in parte fittizi; sono comportamenti che lasciano tracce in contabilità, e quindi fiscalmente più rischiosi, ma che interferiscono meno con le procedure gestionali dell’azienda. Mentre i ricavi provengono da prestazioni tipologicamente omogenee, e rigidamente proceduralizzate, le materie prime e i servizi necessari alla produzione sono più diversificati; al loro interno al titolare è più facile inserire eventuali documenti fittizi, purché verosimili; la struttura amministrativa, una volta liberata dal sospetto di negligenza verso l’azienda farà il proprio lavoro senza porsi domande di sorta, e senza Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 51 sospettare il già indicato “management overriding” del titolare. Per evitare questi sospetti del personale, il titolare deve astenersi da intromissioni in procedure standardizzate, come quelle relative alle materie prime, procedendo su altri acquisti meno consueti, non proceduralizzati; basta infatti la verosimiglianza del costo, e l’avallo del titolare, per mettere in pagamento la relativa fattura, non solo senza discutere, ma neppure senza sospettarne una totale o parziale fittizietà. Questa registrazione di spese fittizie spesso richiede una collaborazione esterna, cioè un percettore che poi lo retroceda alla proprietà aziendale. I sistemi possono essere differenti, a partire dalla complicità di fornitori “fidati”, che per loro motivi non pagano imposte, ad esempio perché “non commerciali, esteri, in perdita cronica o in regime forfettario; costoro possono gonfiare i prezzi di acquisto per importi successivamente retrocessi ai titolari dell’azienda, in modo riservato, dai contanti ai conti esteri. Senza affidarsi alla “riservatezza” di una controparte reale, che potrebbe un giorno usare queste informazioni per indebite pressioni (temute soprattutto da chi ha un certo prestigio imprenditoriale da salvaguardare), si creano società apparentemente indipendenti, interposte rispetto ai fornitori reali ed in mano a fiduciari o prestanome dell’imprenditore; queste società possono interporsi tra l’azienda e le controparti effettive, in genere fornitori, praticando un prezzo maggiorato rispetto a quello del fornitore. Gli uffici di contabilità aziendale non hanno motivi per ulteriori indagini a vantaggio del fisco: se i beni sono arrivati in magazzino, nella quantità indicata sulla fattura, nessuno entra nel merito della congruità del prezzo, rispetto a quanto si sarebbe potuto ottenere presso altri fornitori; non c’è poi motivo per simili domande, soprattutto se l’acquisto è stato gestito integralmente dal titolare, con controparti di fiducia. Mentre la ricchezza non registrata dai “lavoratori indipendenti” di cui al precedente paragrafo 4.1 viene in gran parte spesa per consumi, quella descritta in questo paragrafo viene anche “tesaurizzata”; buona parte di essa si forma direttamente all’estero, senza venirvi portata in un secondo tempo; i relativi fondi esteri potranno poi garantire, sempre dall’estero, finanziamenti o investimenti finanziari del titolare effettivo nelle aziende, in eventuali momenti di difficoltà. Rinviamo al paragrafo 6.12, sull’evasione da riscossione, le strategie evasive tendenti a rendersi nullatenenti, lasciandosi dietro, senza pagarli, i debiti fiscali e contributivi. 3.8. Costo dei tributi, “cunei fiscali”, concorrenza sleale e ricchezza non registrata per finalità aziendali Se le aziende sono “organizzazioni” prive di bisogni personali, a differenza dei loro titolari, non avvertono le imposte come costo in sè, secondo quanto indicato al par. 1.5 sulla differenza tra “tassazione attraverso le aziende” e “autotassazione”. Su questo presupposto occorre esaminare criticamente la diffusa affermazione secondo 52 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui cui molte aziende, se pagassero tutte le imposte, dovrebbero chiudere. Le imposte sul reddito dell’azienda non sono “un costo”, ma una quota di ricchezza determinata “al netto” dei costi, cui non è soggetto chi è in perdita o chiude a zero; questa affermazione in parte trasla sulle aziende, anche per le imposte sui profitti, l’atteggiamento dei lavoratori indipendenti, che valutano la convenienza del proprio lavoro in relazione al reddito al netto delle imposte. Il problema non sono le imposte sul reddito dell’azienda, dopotutto un anticipo di quelle dei suoi titolari (par. 7.17), ma quelle connesse alla funzione economica delle aziende come “filtro” della ricchezza, che acquisiscono consumi ed erogano redditi. Nel noto “filtraggio di ricchezza” le imposte provocano un “cuneo” tra l’azienda e i suoi interlocutori, come emerge dalla stessa espressione “cuneo fiscale”, diffusa nel dibattito politico-economico. Tra quanto spende il consumatore e il ricavo aziendale c’è una differenza (cuneo) rappresentata dall’IVA, e tra il “costo del lavoro” e il salario netto c’è il tipico “cuneo fiscale” (di contributi e ritenute) citato nel dibattito politico. Le imposte non sono quindi costi “in sé”, ma decrementi di ricavi o aggravi di costi. È un riflesso dell’utilizzazione dell’azienda come esattore su ricchezza economicamente riferibile a terzi, secondo quanto già anticipato ai par. 3.5-3.6 sul contribuente di fatto e di diritto. Le iniziative legislative sulla “riduzione del cuneo fiscale”, sono velleitarie in quanto, come rilevato al par. 1.3, la maggior parte della ricchezza fluisce alla maggior parte della popolazione, relativamente povera; tuttavia per l’equilibrio economico aziendale, o per mettere da parte risorse da attribuire ai proprietari delle aziende (paragrafo precedente), c’è la tendenza a “sabotare” i compiti esattivi delle aziende. Il meccanismo di “convergenza di interessi” più a portata di mano è con i lavoratori dipendenti; questi ultimi, nelle piccole organizzazioni, chiedono spesso di ricevere “in nero” lo straordinario e il lavoro festivo, semplicemente perché il maggior reddito verrebbe falcidiato dalle aliquote fiscali, e farebbe spesso superare le soglie reddituali cui sono condizionati gli esoneri da tickets, gli assegni familiari e altre provvidenze dello stato sociale. In questi casi i lavoratori dipendenti, nelle realtà paternalistiche del “piccolo capitalismo familiare” praticamente impongono la remunerazione degli straordinari “fuori busta”; l’alternativa, per pagare “in bianco” il dipendente, è tenerlo indenne dalle controindicazioni suddette, aumentando la remunerazione degli straordinari, con un costo aziendale proibitivo. Il bisogno di “pagare in nero” sorge anche per remunerare il “secondo lavoro” di pubblici dipendenti, non remunerabile come tale per via dell’esclusività del rapporto di pubblico impiego. Sono esempi di soggetti che effettuano prestazioni utili all’azienda, ma non possono o non vogliono comparire, e questo vale anche per divi dello spettacolo o rinomati calciatori, che un tempo pretendevano di essere pagati in modo occulto, o con sostanziose erogazioni “in natura” (case, autovetture, etc.). C’è anche chi, per abbassare i costi del lavoro dipendente spinge i dipendenti a costituire cooperative e consorzi, spesso promossi tra lavoratori senza nulla da perdere, che non versano contributi sociali né ritenute fiscali; è una via “fatta in casa” al taglio del costo del lavoro abbattendo gli oneri fiscali e contributivi. Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 53 Analogo schema serve a ridurre i costi di acquisto delle merci, attraverso le “frodi IVA” indicate al termine del par. 7.3, per rendere l’azienda molto più competitiva sui prezzo. A questa tipologia di erogazioni rispondono anche quelle “sollecitate” da manager di importanti aziende clienti, o personaggi pubblici, che non possono essere remunerati per varie ragioni; abbiamo qui un punto di contatto tra tassazione e corruzione, dove le tangenti devono essere “coperte” da giustificativi ricevuti a titolo diverso (è un altro caso di “evasione aziendale”, in cui l’organizzazione “paga” per essere avvantaggiata o “non sfavorita”). Si pensi a costi di consulenza, provvigioni, intermediazioni o sponsorizzazioni verso determinate controparti, con cui l’interlocutore dell’azienda è collegato, senza che l’azienda ne sappia nulla. A questo schema appartengono, al limite, anche le estorsioni di gruppi criminali, i quali tuttavia manifestano un sorprendente pragmatismo, visto che i giornali hanno parlato di cosche mafiose che, a fronte del “pizzo”, procuravano “regolari fatture”. Su scala molto più ampia, possono essere riportate a questa tipologia anche le sovvenzioni erogate, in molti paesi, da grandi società multinazionali, a gruppi politici, persino insurrezionali, ostili ad un governo ostile all’azienda. La necessità di “giustificare”, nella contabilità aziendale, queste erogazioni, con un motivo parzialmente diverso non deriva da esigenze fiscali, ma da un imbarazzo di immagine (si tratta anche qui di una genuina esigenza aziendale, che prescinde dal profilo tributario). Per i dirigenti aziendali coinvolti in questi flussi di ricchezza non registrata, costretti a mentire a beneficio di terzi, si creano gravi imbarazzi. Per loro il problema non è tanto la violazione fiscale, quanto il coinvolgimento nella manovra di risorse “fuori bilancio”, coi sospetti di vantaggi personali, il rischio di essere “scaricati” dalla loro stessa azienda, se qualcosa dovesse andare storto e mettere a repentaglio il suo buon nome. L’evasione dei redditi propri, o anche dell’IVA su ricavi modesti, derivanti in buon parte dal lavoro del titolare, altera la concorrenza in modo molto inferiore, perché qui non abbiamo “organizzazioni”, ma lavoratori indipendenti, per i quali le imposte in esame non sono “costi di produzione”, bensì “quote di valore aggiunto”. La mancata registrazione fiscale del profitto è “già profitto”, che si trova “a valle” della formazione del prezzo, per queste attività “flessibili”, dove i comportamenti sono tutti sostanzialmente omogenei, e quindi la “concorrenza sleale” da evasione non si avverte. Un idraulico che paga le tasse, e al tempo stesso vuole vivere decorosamente, dovrà fare prezzi maggiori di un idraulico che, per vivere decorosamente, nasconde ricchezza al fisco, solo che le differenze tendono a sfumare a parità di condizioni, in quanto tutti profittano della possibilità, se esiste, di nascondere un po’ di ricchezza al fisco. Se si omogeneizzano le attività economiche, la questione della concorrenza sleale da evasione si sdrammatizza fortemente. Perché i comportamenti tendono ad assomigliarsi tra operatori economici omogenei. Anticipando quanto diremo al par. 4.6, l’accusa di concorrenza sleale fa parte dell’uso ideologico-retorico dell’evasione fiscale come strumento denigratorio degli operatori economici e delle aziende; che in questo 54 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui modo vengono tendenziosamente accusati di non rispettare neppure i propri stessi valori di “libera concorrenza” e “competizione”, inquinandoli con la “concorrenza da evasione”. Tra settori dimensionalmente eterogenei non è detto che “l’evasore prevalga”, come dimostra la sconfitta di operatori flessibili, che facilmente potevano nascondere ricchezza, da parte di soggetti rigidi più efficienti con un peso dei costi fissi inferiore rispetto a un dettagliante. La fortuna economica può però girare, ed oggi, con la crisi e la proletarizzazione dei ceti medi, stanno riprendendo quota gli ambulanti, “i mercatini”, i “pakistani col transit”, totalmente in nero, senza costi di struttura e senza costi fiscali, che diventano competitivi anche con la grande distribuzione nella misura in cui riescono ad evitare di essere incisi dall’IVA, ma questo è solo uno spunto per altri approfondimenti. Appartiene invece all’evasione aziendale, in senso ampio e senza occultamento di imponibili, la violazione interpretativa cioè l’inquadramento giuridico di ricchezza registrata nelle forme più convenienti per l’azienda; ne parleremo ampiamente ai paragrafi successivi, a proposito delle “contestazioni interpretative”. 3.9. Qualificazione giuridica della ricchezza registrata e logiche dell’interpretazione nella tassazione attraverso le aziende (le “simmetrie concettuali” tra soggetti diversi e tempi diversi) La registrazione della ricchezza, da parte delle aziende e dei privati, comporta una qualificazione giuridico-tributaria di quanto registrato, anch’essa necessariamente svolta in prima battuta dai contribuenti. Anche qui c’è un margine di valutatività, che anche nei casi facili, risolti d’istinto in modo fulmineo, logicamente esiste benché impercettibile. Questi margini di valutatività dell’interpretazione variano con le solite graduali sfumature delle scienze sociali, dipendendo dall’applicazione della legislazione a un caso; l’incertezza non sta infatti nella regola giuridica, ma nella sua applicazione a un qualche caso; ogni disposizione legislativa di senso compiuto è almeno in un caso “chiarissima” e viceversa persino le disposizioni elementari possono dar luogo, in casi particolari, a disquisizioni interpretative interminabili. Su questo sfondo vengono allo scoperto gli argomenti interpretativi letterali e sistematici, fatti di logicità, coerenze spesso molto numerose, fino a creare quella che in altra sede ho definito “discrezionalità interpretativa”; si tratta di una mediazione complessa tra spunti letterali e logico-sistematici, dove non rilevano le priorità etico-politicosociali e contano profili concettuali, intellettivi, argomenti interpretativi letterali, sistematici, logici. Anche l’interpretazione è quindi “valutazione”, riferita però a fatti pacifici tra le parti, la cui controversia riguarda qui questioni di diritto, da risolvere con i suddetti argomenti interpretativi di natura letterale e sistematica, variamente combinati tra loro secondo le tecniche dell’ermeneutica; si tratta dei consueti parametri di fondatezza, Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 55 letterale e sistematica, tipici dell’interpretazione giuridica, spesso molto ingarbugliati e complessi. Con queste caratteristiche, l’interpretazione è abitualmente riferite a un organo indipendente, come il giudice, nel diritto dei privati; qui invece spetta anche all’autorità amministrativa, e prima ancora alle aziende e ai privati, nel contesto dell’autotassazione. I privati e gli uffici non sono però nella stessa posizione di indipendenza del giudice, ma esposti anche ad altre pressioni: i privati ad utilizzare i margini suddetti per avvalorare, nei limiti del possibile, le soluzioni in concreto più convenienti, sia sul piano del tributo, sia degli adempimenti amministrativi, del rapporto con le controparti, della snella gestione dell’azienda. È normale e legittimo che contribuenti, e uffici, davanti ai margini dell’interpretazione, tengano conto in una certa misura di convenienze personali, aziendali o istituzionali, come il “risultato di servizio” delle pubbliche amministrazioni; per entrambi non si tratta insomma di una interpretazione del tutto indipendente, “super partes”; l’importante è mantenere buona fede, senza forzature strumentali. Si intrecciano, in materia tributaria, due interpretazioni in un certo senso “di parte”, quelle dei contribuenti e degli uffici. Iniziamo dalla prima, rinviando la seconda al paragrafo successivo. La determinazione giuridica di concetti economici rappresenta quindi la prima “ratio legis” delle disposizioni tributarie che l’interprete deve tenere in considerazione. Questa specie di “stella polare” di tutte le questioni interpretative costituirà un filo conduttore del volume, su cui si innesta anche la valutazione dei termini civilistici in chiave economico-tributaria; la determinazione della ricchezza ai fini tributari, cioè la precisazione dei concetti economicamente rilevanti indicati al par. 1.8, passa anche per l’individuazione, attraverso la documentazione aziendale, di concetti giuridici civilistici, come “vendita”, «mutuo», «proprietà», «socio», diritto reale, «locazione»,”risarcimento del danno”, ecc.. Rapporti e concetti del diritto civile o di altri settori giuridici (anche di diritto dei poteri pubblici), regolati ai fini contrattuali “inter partes”, diventano strumenti per i concetti economici rilevanti ai fini della determinazione tributaristica della ricchezza. Da elementi di autonomia negoziale, cioè “atti di volontà”, diventano elementi della fattispecie economica cui si riferisce la normativa tributaria sulla determinazione tributaristica della ricchezza (si tratta della c.d. “digressione degli atti in fatti”, di cui parlava anche Massimo Severo Giannini). Quest’utilizzazione di termini civilistici da parte della legislazione tributaria si è generalizzata da quando la tassazione attraverso le aziende consente di analizzare, attraverso la documentazione contabile descritta ai primi paragrafi di questo capitolo, i rapporti giuridici di diritto sostanziale (ad esempio civile e commerciale). La finalità di questa analisi è però la determinazione tributaristica della ricchezza. Questo diverso contesto d’uso può influenzare l’interpretazione dei termini indicati sopra, in quanto le singole espressioni linguistiche vanno anche interpretate nel contesto in cui si inseriscono; questo non esclude la rilevanza interpretativa 56 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui del significato civilistico dei termini, da calare però nel contesto della determinazione tributaristica della ricchezza. Quest’interpretazione in funzione della determinazione della ricchezza non è “economicistica”, ma è pur sempre di diritto, però di “diritto tributario”. Sullo sfondo della determinazione della ricchezza si inserisce la solita dialettica tra argomenti interpretativi letterali e sistematici, desumibili dai valori rilevanti per la determinazione della ricchezza, indicati al par. 1.9, come precisione, semplicità, effettività, certezza dei rapporti, controllabilità, cautela contro gli abusi (par. 3.10). Quest’interpretazione economicistico-funzionale va quindi mantenuta nei limiti della legislazione, senza avallare estemporanee tassazioni senza base legislativa di qualche fenomeno per cui – nel caso singolo – le informazioni sussistono. Anche l’“interpretazione economico-funzionale” è infatti giuridica, e non può prescindere da come la legislazione ha cristallizzato le consuete esigenze sulla determinazione della ricchezza. Quanto precede vale non solo per i termini civilistici, ma anche per gli accordi contrattuali di ogni genere, le operazioni societarie, i bilanci aziendali, la collocazione di attività o società in un paese o in un altro, i concetti del diritto amministrativo generale, delle sovvenzioni pubbliche, delle disposizioni regolatorie, in materia di comunicazioni, trasporti, energia, sanità, istruzione, commercio internazionale e via enumerando. Tutti questi aspetti giuridici “extratributari” diventano, secondo la già indicata gianniniana digressione degli atti in fatti, nel nostro caso strumenti per la determinazione tributaristica della ricchezza. Vanno pertanto contestualizzate a questi fini le affermazioni della dottrina e la giurisprudenza civilistica, o comunque extratributaria, che originariamente, nella loro sede propria, si pongono sotto profili del tutto diversi da quelli della determinazione della ricchezza ai fini tributari. Mentre la ricchezza non registrata comporta “questioni di fatto” (par. 3.7 e 5.13) l’interpretazione costituisce “questione di diritto sostanziale”, attinente cioè al successivo inquadramento giuridico delle questioni di fatto; le questioni di diritto sostanziale tributario, quindi, attengono alla qualificazione della ricchezza registrata, o palese, ai fini della determinazione dei tributi. Sono le questioni cui si indirizza tutta la parte seconda del testo, più frequenti da quando sono aumentate, per via della tassazione attraverso le aziende, le questioni interpretative, un tempo frequenti soprattutto nei tributi sugli atti giuridici solenni (par. 1.3 e 10.2). In questa prima parte del testo, occorre però segnalare in generale un elemento comune all’interpretazione delle questioni di tassazione aziendale. Si tratta delle coerenze contabili tra soggetti diversi, come fornitori e clienti, nonché tra periodi di imposta diversi; mentre in passato, con la tassazione valutativa attraverso gli uffici (paragrafo 1.3), ogni contribuente andava per conto proprio, oggi tra contribuenti diversi e periodi di imposta diversi c’è una notevole interdipendenza dei meccanismi impositivi della tassazione attraverso le aziende. Molti regimi fiscali si spiegano Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 57 per la presenza di regimi fiscali passati o futuri, uguali e contrari, in capo agli stessi soggetti o alle loro controparti. Dalla sintesi di questi flussi di ricchezza emerge – per differenza – la ricchezza che giustifica l’imposizione fiscale, come reddito, consumo o valore aggiunto. Ne ritroveremo esempi nel regime dei beni di impresa, con le sue continuità e discontinuità, nel coordinamento tra tassazione di società e soci, nella neutralità dell’IVA rispetto al consumo, nell’imputazione a periodo, negli aspetti fiscali delle valutazioni di fine esercizio, nelle operazioni straordinarie, nella tassazione internazionale, tutti argomenti trattati al capitolo settimo. Queste simmetrie non vanno ovviamente assolutizzate, pretendendo che ogni regime fiscale sia giustificato da un simmetrico regime, uguale e contrario, applicabile alla controparte sullo stesso elemento di ricchezza. Ogni contribuente, infatti, ha un suo status soggettivo, che non può essere alterato da quello della controparte: ad esempio un costo di acquisto di gioielli e mobili antichi sarà deducibile, per un’impresa antiquaria, anche se il venditore è un privato che non realizza redditi, in base a quanto rilevato al par. 8.6 sui redditi diversi. Analogamente, il reddito di portinai, colf e badanti è imponibile anche se non è deducibile per il condominio o la famiglia erogante (lo stesso vale –su scala molto più ampia – per tutti gli stipendi dei pubblici impiegati). Il reddito – per il percettore – è imponibile anche se non dedotto dall’erogante. Le simmetrie sono molto più chiare quando il fornitore è un operatore economico, il cui ricavo è un consumo se il cliente non è un operatore economico, mentre se lo è rappresenta “un costo di produzione”. Di norma il costo o il consumo del cliente sono ricavi per il fornitore, ma ripetiamo che un costo resta deducibile anche quando il ricavo per il fornitore non rileva fiscalmente. Nell’interpretazione non ci sono solo i margini valutativi “ex post”, perché è possibile una “previsione interpretativa”, in cui determinati obiettivi economici vengono realizzati giuridicamente in uno tra vari modi possibili anche in funzione di una convenienza, personale o aziendale. Quest’ultimo profilo è importante per le aziende, organismi impersonali in cui le stesse ragioni che ostacolano la mancata registrazione di ricchezza ai fini tributari rendono importante la “pianificazione fiscale” di quella registrata, cioè la scelta di regimi che minimizzino il carico tributario. Per questo è del tutto normale che un certo obiettivo aziendale sia realizzato utilizzando consapevolmente “ex ante” determinati strumenti giuridici piuttosto che altri, anche in funzione della convenienza tributaria. All’interno dell’organizzazione, i responsabili della fiscalità devono contemperare due esigenze, cioè salvaguardare l’azienda da sanzioni (par. 6.13). È il riflesso della tendenza aziendale all’efficienza, che sussiste dalla produzione, al marketing, alla finanza, alla gestione dei rapporti fiscali. In parole povere, i managers aziendali temono di essere accusati dai loro colleghi, magari interessati a minarne la posizione aziendale, di aver pagato imposte eccessive rispetto a quelle legalmente dovute. Pur essendo una preoccupazione secondaria nelle aziende, rispetto al prodotto, l’ottimizzazione fiscale è importante in quanto si riflette appunto sulla convenienza della produzio- 58 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui ne, e sulle modalità organizzative. La degenerazione di questi comportamenti è la violazione dello spirito delle leggi, cioè l’elusione fiscale, di cui parleremo però al successivo paragrafo 3.10, anche a proposito delle “convenienze interpretative” degli uffici tributari. Ultimiamo ora le riflessioni generali sull’interpretazione, a proposito dell’analogia, che è una particolare forma di interpretazione, utilizzata quando esistono «lacune», cioè è impossibile «risolvere una controversia facendo riferimento a una specifica disposizione di legge» (art. 12 preleggi). Quando si tratta di «norme impositrici», sull’imponibilità o meno di un certo fenomeno, la soluzione a favore dell’intassabilità è obbligata, senza necessità di colmare lacune tramite l’analogia. La lacuna, in questi casi, non c’è, perché in mancanza di una disposizione la controversia è già risolta per la non tassabilità; i principi generali sull’analogia sono quindi sufficienti ad escludere la sua utilizzabilità per tassare fenomeni che non lo sono. Quando invece qualcosa è tassato, ma ci sono lacune sulle modalità di tassazione, come pure sulle relative procedure, l’analogia non trova ostacoli di sorta. 3.10.Segue: Evasione interpretativa, pianificazione fiscale ed elusione come tipici comportamenti aziendali (rinvio alle contestazioni interpretative come “diversivi istituzionali”) La ricerca dell’inquadramento giuridico-tributario più conveniente, da parte delle aziende e dei contribuenti in genere, qualche volta può portare a delle forzature. Dove cioè gli elementi dell’interpretazione, gli spunti letterali e logici indicati al paragrafo precedente sono combinati in modo discutibile, o addirittura forzato, cioè sostenibile, ma erroneo rispetto ad altre interpretazioni più rispondenti alla consueta combinazione di lettera e spirito delle norme. Ne risultano dubbi interpretativi che spaziano, secondo varie sfumature intermedie, da soluzioni “certamente esatte” a quelle altrettanto “certamente sbagliate”. Tra questi estremi si collocano le controversie interpretative tra fisco e contribuenti. È la c.d. “evasione interpretativa” connessa all’inquadramento giuridico di ricchezza registrata, o palese, senza occultamento di imponibili, ma con forzature intenzionali, o errori, di tipo interpretativo. Anche se è adottata, per convenienza tributaria, una interpretazione erronea, non viene qui materialmente occultata ricchezza; questi casi non rappresentano la realtà in modo distorto, ma tendenzialmente giocano a carte scoperte. Le loro forzature interpretative devono essere corrette, però non è questo, come indicato al par. 4.1, il problema della determinazione della ricchezza in Italia, perché l’allarme sociale deriva invece dalla ricchezza non registrata. Solo che, siccome quest’ultima è difficile e imbarazzante da trovare, le contestazioni interpretative diventano soluzioni di ripiego anche per gli uffici tributari, in vista della “copertura” e del “risultato di servizio”, parametri rilevanti per “l’immagine sociale” delle istituzioni, come Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 59 vedremo al par. 5.3; anche da queste contestazioni emerge infatti una “maggiore imposta accertata”, e sono più facili da formulare e meno responsabilizzanti sul piano della stima della ricchezza non registrata. Viene quasi il sospetto che qualche volta queste contestazioni per “questioni di diritto”, siano gradite a uffici che temono di esporsi nelle sfuggenti quantificazioni della ricchezza non registrata, o a imprenditori preoccupati della possibile scoperta di ben più gravi rilievi sul fronte della ricchezza non registrata. Per questo, come vedremo al capitolo 5 (spec.te par. 5.7, 5.11.5.17 ss.) molte risorse disponibili per i controlli sono state distolte dalla vera emergenza tributaria italiana, secondo le quantificazioni indicate al par. 4.1, cioè la ricchezza non registrata. L’interpretazione del fisco è imparziale, ma non indipendente, essendo influenzata dai parametri generali indicati al par. 5.3, e dalle tensioni sociali sull’evasione, indicate al capitolo 4. Ne derivano suggestioni e condizionamenti “ambientali”, in termini di “risultato di servizio”, con la solita esigenza di copertura individuale verso sospetti di negligenza e corruzione; ci sono poi convenienze operative, come l’impegno necessario a motivare una determinata pretesa la coerenza con altre soluzioni adottate in precedenza, le possibili discussioni con colleghi che, in casi simili, si comportano diversamente, etc... Le colpe della ricchezza nascosta ricadono quindi sulla reinterpretazione di quella registrata sempre riconducibile all’equivoco concetto di “governo della legge”, che asseconda il desiderio di “copertura normativa” (par. 5.3). Per questo gli uffici seguono, sulla ricchezza registrata, l’interpretazione “più fiscale”, come diversivo rispetto alle difficoltà valutative sulla ricchezza non registrata; questa inutile casistica di contestazioni interpretative assorbe una quota eccessiva delle risorse degli uffici tributari, come vedremo al par. 5.7. Inoltre molte contestazioni di diritto addirittura spesso dovrebbero finire “a somma zero”, quando le maggiori imposte accertate su un contribuente sono state pagate da altri, o lo saranno, a seguito delle simmetrie ragionieristiche indicate al paragrafo precedente (per esempi par. 5.18). Tra le contestazioni di diritto, spiccano quelle sull’“elusione fiscale”, dove le regole sono rispettate nella forma, ma violate solo nello spirito; è un’applicazione al diritto amministrativo dei tributi della figura generale della frode alla legge o dell’abuso del diritto, espressioni che in questa sede possiamo considerare analoghe; in entrambi i casi sostanzialmente si aggira lo spirito della legge, con scappatoie giuridiche, conosciute nel diritto privato soprattutto per tentativi di aggirare norme indisponibili a tutela delle c.d. “parti deboli”, ad esempio il lavoratore, il debitore, l’inquilino, etc. L’etimologia dell’elusione è proprio quella di “prendersi gioco” dello spirito del sistema. L’elusione consiste in un abuso (non a caso è chiamata anche “abuso del diritto”) delle lecite possibilità di scelta del contribuente, anche in funzione di convenienza fiscale, tra i regimi giuridici diversi offerti dall’ordinamento per inquadrare la ricchezza registrata. La legittima scelta del regime fiscale più conveniente degenera in elusione quando tradisce lo “spirito del sistema”,spesso profittando delle sim- 60 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui metrie e delle correlazioni tra regimi fiscali, di soggetti diversi, e di periodi diversi, che caratterizzano la tassazione attraverso le aziende. Questi artifici giuridici, effettuati alla luce del sole e senza alcuna falsità materiale o ideologica, possono essere contrastati prima di tutto con l’interpretazione sistematica economico-sostanziale; tale interpretazione considera, senza stravolgerle, le esigenze di determinazione della ricchezza, che ispirano la normativa tributaria, con i suoi compromessi tra precisione, certezza, semplicità, effettività, indicati al par. 1.9. In questo modo è spesso possibile contrastare il comportamento elusivo prima che nasca. Quando ciò non è possibile, tutti i paesi tendono a consentire all’autorità fiscale di disconoscere, in modo personalizzato, il vantaggio, formalmente legittimo, ma sostanzialmente indebito, conseguito dal contribuente attraverso le scappatoie suddette. In Italia una disposizione legislativa (l’art. 37-bis d.P.R. 600, introdotto nel 1997) si è sovrapposta ad una successiva tendenza giurisprudenziale, che ha considerato immanente nell’ordinamento una analoga possibilità (il c.d. “abuso del diritto”, vagamente giustificato in base ai principi costituzionali). Le tematiche elusive hanno carattere sostanziale, in quanto riguardano l’inquadramento giuridico di questioni materialmente rappresentate al fisco in modo fedele, ma inquadrate nella normativa tributaria forzandone la “ratio”, lo spirito. L’elusione resta, come tutte le questioni di diritto, una questione “sostanziale”, cioè sull’inquadramento della ricchezza registrata, in funzione di esigenze di semplicità/precisione/cautela fiscale, etc.; è una normale questione di diritto che involge lo spirito del sistema, e comporta valutazioni interpretative che non hanno nulla a che fare con quelle procedurali sull’impiego dell’attività degli uffici, tipiche delle disposizioni procedimentali. Nessuna disapprovazione sistematica è configurabile per la scelta delle possibilità strutturali e fisiologiche che il sistema tributario offre, tutte collocate su un piano di pari dignità. Ad esempio, se la legge vuole che un bene venga detenuto per un certo periodo di tempo per maturare un regime fiscale vantaggioso, venderlo un attimo dopo, anche se è stato fatto per motivi fiscali, rispetta la “ratio legis”, non la aggira, ma la rispetta, sia nella forma sia nella sostanza. Il vantaggio fiscale va considerato nel suo complesso, perché spesso, ad esempio guardando agli anni precedenti o successivi, o ad altri soggetti (paragrafo 2), apparenti vantaggi sono controbilanciati da corrispondenti pagamenti d’imposta. Si elude quindi un principio del sistema e per stabilirlo occorre una attenta valutazione comparativa dei principi, cioè dei bilanciamenti tra precisione, semplicità, cautela fiscale, certezza dei rapporti, e tutti gli altri profili variamente contemperati dalla legislazione fiscale di settore. L’applicazione di una disposizione antielusiva richiede una grande sensibilità e padronanza nell’estrarre un principio, dando valenza sistematica ad alcune disposizioni, come la tassazione delle plusvalenze latenti al momento della chiusura del ciclo fiscale d’impresa, il divieto di commercio delle perdite, il divieto di conseguire maggiori valori fiscali a fronte di operazioni societarie «neutre», etc... Nella misura in cui la padronanza condivisa delle logiche sistematiche è debole Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 61 e il clima è drammatizzato (par. 5.17) c’è il rischio di contestazioni grossolane, come la stravagante idea secondo cui il contribuente dovrebbe scegliere sempre il regime più oneroso, a meno di avere valide ragioni economiche per sceglierne uno più conveniente. Non è al momento agevole prevedere l’orientamento futuro dei giudici e degli stessi livelli più alti dell’amministrazione fiscale verso questa preoccupante degenerazione del concetto di elusione; è una degenerazione che si salda con la cultura del sospetto, indicata al paragrafo 5.17, verso le grandi organizzazioni: ci sono poi il disorientamento tipico degli uomini di legge verso gli equilibri numerici e concettuali degli uomini di azienda, e soprattutto la comodità di procedere a tavolino, semplicemente disquisendo sulle vicende dichiarate, e sulla possibilità di regimi giuridici alternativi, sollevando polveroni solo apparentemente di senso compiuto, ma proprio per questo paradossalmente difficilissimi da contestare (paragrafo 6.5). Per tutte le operazioni presenti nell’elenco di cui all’art. 37 bis comma 3, gli accertamenti sembrano far derivare una presunzione di elusione, per addossare subito al contribuente l’onere di provarne “valide ragioni economiche”, senza che il fisco adduca l’aggiramento dei principi del sistema, indicando quale sarebbe il vantaggio fiscale indebito. Le «valide ragioni economiche» sono invece una esimente, imitando le diverse strade seguite dalla giurisprudenza di «common law». Il concetto di «valide ragioni economiche», introdotto come ulteriore salvaguardia per il contribuente, sta diventando il punto di riferimento di improvvisate scorciatoie interpretative dove diventa elusivo tutto quello che dà l’impressione di non avere valide ragioni economiche alle spalle. Ne derivano, intuitivamente e da ambo le parti, atteggiamenti ipocriti, fortuiti e di facciata. Si mette in crisi in questo modo la stessa necessità che il contribuente, su cui è esternalizzata la tassazione, non solo registri la ricchezza, ma la qualifichi giuridicamente, nei termini indicati al par. 3.10. Questa esternalizzazione implica necessariamente la possibilità di scegliere, tra i vari regimi giuridici, anche in base alla convenienza fiscale, salvo tradire lo spirito del sistema. È un circuito distruttivo sulle organizzazioni aziendali, che strutturalmente mirano a conoscere le opportunità fiscali consentite, distinguendole da quelle elusive. Queste ultime non sono mai state un problema comparabile a quello della ricchezza non registrata e, come indicato al par. 4.1, neppure sono quantificate dalle stime dell’evasione. Tuttavia per alcuni anni il formalismo legalistico, unito alla mancanza di una disposizione legislativa antielusiva, spinse ad operazioni molto spregiudicate, proposte da banche d’affari e studi di consulenza, magari avallate da pareri pro veritate di studiosi che in pubblico predicavano rigorismi antievasione. A partire dal 2005, con riferimento a periodi d’imposta anteriori all’introduzione della già menzionata legislazione antielusiva, le censure amministrative verso queste operazioni furono avallate dalla cassazione con riferimento alla già indicata figura di “abuso del diritto”, anche non codificata; l’abuso del diritto non è che un altro modo per indicare i comportamenti elusivi senza esporsi all’obiezione secondo cui la legislazione ha vietato l’elusione solo successivamente. Da allora le operazioni di pianificazione fiscale aggressiva 62 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui sono rapidamente diminuite (anche se lo sarebbero state comunque, vista l’introduzione del già citato art. 37 bis), ma nelle aziende si è anche sparso un clima di grande incertezza del diritto, anche per operazioni pienamente conformi alla logica dei rispettivi sottosistemi tributari. Il fondamento dei vecchi fenomeni elusivi era tipicamente aziendale, e diverso dalla mancata registrazione fiscale della ricchezza, in quanto bisogna ricordare dal par. 3.7 che l’azienda non ha bisogni personali da alimentare con la ricchezza fiscalmente non registrata. La “molla” delle antiche elusioni era più la preoccupazione imitativa che altre aziende potessero trarne vantaggi finanziari e competitivi. Oggi l’elusione di fatto nelle aziende non è più di moda, mentre gli scavalcamenti delle procedure da parte dei titolari, desiderosi di risorse “in proprio” presumibilmente non accennano a diminuire. Ciononostante gli uffici tributari, desiderosi di fare, come vedremo al par. 5.7, “risultato di servizio” senza esporsi con la stima di ricchezza non registrata, inventano elusioni anche dove ormai non ci sono più. Ne riparleremo al par. 5.18 a proposito dell’inferno sulla ricchezza registrata, sui riflessi negativi per le aziende e l’economia di un paese sempre più in preda agli isterismi di cui al par. 4.5 ss. La stessa dialettica tra lettera e spirito della legislazione si ritrova nella disposizione (art. 37-bis comma 4) secondo cui il contribuente può chiedere la disapplicazione di disposizioni antielusive specifiche, quando nei casi di specie non ne sussiste la “ratio”; è una disposizione “di simmetria”, in cui è il contribuente, inversamente rispetto a quanto avviene in materia di elusione, a far valere lo spirito della disposizione contro il suo tenore letterale. È evidente, in entrambi i casi, che di “ratio legis” può parlarsi solo in quanto ci sia una “ratio”; quest’ultima consiste nella determinazione della ricchezza, con tutti i compromessi che essa comporta, tra precisione, semplicità, cautela fiscale, certezza, continuità, effettività, e vari altri valori ancora autonomi dal “gettito”. Se però neppure ci si è mai chiesti quale sia la ratio del diritto tributario sul piano della determinazione della ricchezza, parlare di elusione come “abuso del diritto” porta dritti verso confusioni, nocive soprattutto alle organizzazioni su cui si fonda la tassazione attraverso le aziende. Un altro caso di cerniera tra possibile “evasione interpretativa”, ed evasione materiale, è il c.d. comportamento “antieconomico”, che rende verosimile una economicità occulta, nascosta, dietro il comportamento che altrimenti non si spiegherebbe. È verosimile che il costo apparentemente troppo elevato, o il ricavo inverosimilmente troppo basso, sospettati di essere “antieconomici” siano in realtà parzialmente falsi, cioè il ricavo sia sottofatturato o il costo sia “gonfiato”, per avere poi una qualche retrocessione occulta degli stessi importi, a favore del titolare dell’azienda o di suoi beneficiari. In tutti questi casi, mancando la prova della ricchezza non registrata, della parte occulta dell’operazione, viene attaccata quella palese, in genere con argomenti insinuanti e fumosi (perché i reali motivi di sospetto non possono essere dimostrati). Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 63 3.11.Evasione internazionale tra contestazioni interpretative e ricchezza non registrata Le situazioni descritte ai precedenti paragrafi si possono intrecciare, soprattutto in un contesto economico globalizzato, con i rapporti commerciali con l’estero. Quest’ultimo, in una materia amministrativistica, è innanzitutto il luogo dove il potere delle pubbliche autorità non giunge, come pure il relativo prelievo tributario. Oltrepassata la frontiera il potere amministrativo viene sostituito da quello di un altro stato, in termini sia di uso della coercizione, sia di regimi tributari sulla ricchezza registrata, sia di capacità di individuare quella nascosta. L’espressione “evasione internazionale” può riguardare la ricchezza non registrata, e materialmente depositata in uno stato diverso, per sottrarla al fisco del paese dove si svolge l’attività del titolare; si tratta semplicemente di una “base estera” per frodi documentali a danno del paese dove l’attività economica è realmente basata. L’estero è infatti in molti modi una sponda per la ricchezza fiscalmente non registrata. La principale riguarda varie forme di dirottamento di una parte del prezzo, di acquisto o di vendita, su società estere interposte, riconducibili al titolare dell’azienda italiana. Non serve la collaborazione dell’effettiva controparte economica estera, che deve solo trattare, anziché con l’azienda italiana, con una diversa società estera, riconducibile al titolare dell’azienda italiana, che poi opererà col soggetto interposto. Le controparti estere sono infatti tendenzialmente fuori dalla sfera di indagini tributarie del fisco italiano, che ha difficoltà valutative nel controllare se, molto banalmente, le vendite sono fatturate a meno del valore normale, o gli acquisti – inversamente – sono sovrafatturati. Le somme accumulate nella società estera interposta sono poi a disposizione del titolare o di chi per lui. Su questi presupposti si comprende la disposizione (art. 110 del tuir) secondo cui i costi verso fornitori residenti in paesi a bassa fiscalità sono deducibili in presenza di condizioni più rigorose. Questa disposizione “antievasiva” presuppone sia il suddetto rischio di “ristorni in nero”, rafforzando però anche il controllo dei rapporti infragruppo; la disposizione richiede una attenta analisi del ruolo economico-tributario dell’entità estera, che potrebbe essere stata interposta dal fornitore effettivo ad un acquirente che le è totalmente estraneo (cfr. par. 7.19). C’è però anche una versione internazionale dell’“evasione interpretativa”, connessa alla qualificazione della ricchezza visibile, registrata o comunque palese; è un riflesso della qualificazione giuridico-tributaria della ricchezza, stavolta in relazione alla sovranità statale in cui essa si colloca sul territorio. Entro certi limiti questa collocazione riflette circostanze materiali genuine, ma poste in essere in funzione di una convenienza tributaria; si pensi alla dislocazione di una parte delle funzioni aziendali, ad alto valore aggiunto, per spostare la relativa tassazione dove le medesime sono ubicate. In molti di questi casi la convenienza tributaria passa attraverso la manovra può dei corrispettivi infragruppo come diremo al par. 7.19 a proposito del Transfer Pricing. Lo stesso accade quando l’allocazione della ricchezza dipende da elementi con un collegamento territoriale “debole”, come la proprietà intellettuale, i 64 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui marchi, i brevetti, la ricchezza finanziaria, il software, le provvigioni, di cui riparleremo al par. 7.19. In quella sede tratteremo anche l’esterovestizione, le CFC, o le stabili organizzazioni erroneamente definite “occulte”. Si tratta generalmente di contestazioni “interpretative”, facilmente individuabili. La liberalizzazione degli scambi, anche comunitari, di libertà “di circolazione” non è seguita da altrettanta libertà di controlli oltre confine, perché qui non si tratta di attività economiche, ma di un pubblico potere: ne riparleremo al par. 5.6. La ricchezza non registrata fiscalmente viene sempre meno “portata all’estero”, ma più spesso si forma direttamente all’estero nei modi sopra indicati (delocalizzazione di ricavi o fatture gonfiate). Il regime del c.d. “monitoraggio fiscale” delle attività estere è invece concepito per un problema diverso, cioè per evitare che i titolari di redditi finanziari trasferissero all’estero i relativi capitali per “detassarne il frutto”. È un meccanismo di segnalazione basato sulla cooperazione delle banche e sull’“autodichiarazione” del destinatario, accompagnato da sanzioni a prima vista fortissime. Il monitoraggio non è però accompagnato da una possibilità di investigare all’estero da parte del fisco, se non con richieste nominative ai paesi stranieri (ovviamente impraticabili su larga scala). È il già indicato meccanismo con la ricchezza non registrata che nasce all’estero, mentre le auto che vanno in Svizzera col bagagliaio pieno di contanti appartengono ormai a un folklore anni settanta. Su questo equivoco giocavano i vari “scudi fiscali”, che avevano un senso a fronte della mancata dichiarazione degli interessi, ma cui era stata aggiunta una sanatoria eccessivamente vantaggiosa dell’eventuale capitale (formato con ricchezza non registrata). Ne derivava, per chi aveva costituito i capitali esteri in evasione d’imposta, ancora accertabile, un’occasione troppo conveniente di condono fiscale (paragrafo 5.20). 3.12.Riepilogo: simmetrie della tassazione attraverso le aziende ed “arbitraggi”, tra correttezza sistematica, elusioni e frodi La tassazione attraverso le aziende, prima di giungere al “consumo finale”, coinvolge numerosi operatori economici con varie funzioni, in operazioni “business to business”, dove al ricavo del fornitore corrisponde un “costo” del cliente, a sua volta fiscalmente rilevante “a valle” (sulla distinzione tra “costi” e “consumo finale” par. 1.8). Quando un ricavo è soggetto a regime fiscale meno oneroso, ed il costo per la controparte rileva in regime fiscale ordinario, si crea un “arbitraggio fiscale”. Quest’ultimo può anche essere del tutto lecito, rispondente alla logica del sistema, persino previsto e voluto dal legislatore per “fare cassa “, anticipando imposte future, ad aliquote convenienti. Altre volte l’arbitraggio può essere il frutto di una forzatura interpretativa del contribuente (quindi “contra legem”) ed altre volte consistere in una scappatoia formalmente legittima, che tradisce lo spirito del sistema e quindi elusiva (par. 3.10). Anche la ricchezza non registrata “togliendo da sotto”, come la deduzione delle fatture fittizie, può essere riportata all’arbitraggio, in cui si inventa un costo dedotto a Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 65 fronte di un ricavo fittizio, mai dichiarato, o dichiarato senza pagare imposte. A questo concetto di “arbitraggio” in senso ampio appartiene anche l’interposizione di società, riconducibili al socio, nell’acquisto di materie prime o servizi dal fornitore effettivo, rivenduti alla società operativa con un margine positivo (par. 3.7). Ne riparleremo al par. 7.19, ma già da ora si può sistematizzare un concetto generale: la frammentazione dei flussi economico-finanziari tra soggetti diversi (le “simmetrie” della tassazione attraverso le aziende, già indicate anche al par. 3.11), ciascuno coinvolto in parte, ostacola la responsabilizzazione degli operatori economici per violazioni commesse dalle controparti. Il compratore non ha titolo per sapere se il venditore versa o meno l’IVA o le imposte sui redditi, o le ritenute sui dipendenti, o se ha realizzato dall’operazione una plusvalenza tassata in Italia. È una autonomia del tutto fisiologica, della quale però non bisogna abusare, montando di proposito operazioni in cui la parte meno visibile scompare senza onorare i debiti tributari, e l’altra si fa forte della propria autonomia. L’unica contromossa del fisco in questi casi è la dimostrazione dei titolari effettivi delle società “scatole vuote”, gli indizi di una spartizione avvenuta nell’ombra con una controparte indipendente, ovvero di una riconducibilità di venditore e acquirente a una stessa compagine sociale. Per dimostrarlo occorrono però indagini, valutazioni controverse, non riconducibili a una precisa disposizione di legge e ostacolate dai soliti equivoci dottrinali sulla vincolatezza dell’attività degli uffici, la legalità, l’indisponibilità del credito tributario, quasi che ogni azione amministrativa debba essere “sempre guidata, praticamente telecomandata, dalla legge”. Tutto questo apparato pseudo teorico alimenta la tendenza (inevitabilmente diffusa in tutti gli uffici tributari) a rimanere “al coperto”, concentrandosi sulle c.d. contestazioni interpretative (paragrafo 5.17), ivi compresi gli “arbitraggi alla luce del sole”; si tratta dei già indicati prezzi di trasferimento, degli aumenti dei valori fiscali in base a imposte sostitutive (par. 7.13), delle strutturali divergenze tra regimi fiscali; si pensi ai casi in cui il socio totalitario di una società, decide di percepire una remunerazione a titolo di interessi attivi, compensi di amministratore, corrispettivi per la vendita di beni anziché dividendi. Quello che conta, per lui, è il carico fiscale complessivo, dato dalla somma di tutti quelli delle varie parti coinvolte. Si tratta di una somma algebrica, dove il carico fiscale complessivo risulta dalla differenza tra elementi imponibili per il fornitore e deduzioni per la società cliente (il risultato netto, insomma, delle simmetrie fiscali suddette). Vedremo ai paragrafi successivi come questi meccanismi di sistema vengono attaccati dal fisco per le più varie alchimie di cui al par. 5.18, come l’abuso del diritto (o elusione: par. 3.10), la non inerenza (par. 7.9), la fantomatica antieconomicità (par. 5.17) o un loro incomprensibile miscuglio (par. 5.19 sulle rettifiche solo apparentemente provviste di filo conduttore). Sono episodi dell’inferno della ricchezza registrata, indotti dagli “opposti isterismi” di cui al par. 4.6, e di cui riparleremo al par. 5.18. 66 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui 3.13.Dove le aziende non arrivano: l’inutile “ragionierizzazione” dei lavoratori indipendenti (il diversivo della “contabilità fiscale”) La tassazione attraverso le aziende lascia scoperta la ricchezza da esse non raggiunta. Al di là di quella “evasa attraverso le aziende” (paragrafo 3.7), c’è la massa di lavoratori indipendenti, non particolarmente ricchi singolarmente, ma molto numerosi. Le rigidità organizzative delle aziende non esistono per due milioni e mezzo di operatori economici senza collaboratori (attività “monoaddetto”) e di un milione e mezzo da due a nove addetti, in cui rientrano tutte le attività svolte da coniugi, genitori e figli, a consistenza quindi esclusivamente familiare. Sono quattro milioni di posizioni IVA dove l’azienda esiste solo in senso materiale, di attrezzature o merci, non in senso personale. Qui non ci sono rigidità aziendali da scavalcare, perché i lavoratori indipendenti sono privi di una organizzazione, e trattano direttamente col consumatore finale. Il problema del mancato funzionamento, in questi casi, della tassazione attraverso le aziende, è stato eluso col solito artificio verbale tipico dei governanti italiani, cioè fingendo che i lavoratori indipendenti fossero anch’essi aziende. Essi sono stati così trasformati “per legge” in “aziende fiscali”, tenute ad una contabilità (fiscale) senza alcun retroterra di affidabilità gestionale. Siccome la tassazione attraverso le aziende è efficiente dove il fisco può far leva sulle rigidità aziendali, allora si cerca di crearle anche dove non ci sono. La definizione fiscale di impresa, fu ampliata fino al punto di accomunare fabbriche, ipermercati, artigiani e venditori ambulanti. Un imprenditore dolciario può così essere un pasticcere o la Ferrero, un imprenditore della ristorazione può essere un barista o Autogrill, un imprenditore dell’arredamento può essere un tappezziere o Natuzzi. Insomma, la definizione di impresa è stata talmente ampliata da diventare inservibile, sempre bisognosa di precisazioni per capire di cosa si sta parlando ed evitare equivoci. La trasformazione di milioni di piccoli commercianti ed artigiani in altrettanti “imprenditori fiscali”, avvenne attraverso una definizione fiscale di impresa che trascurava il requisito dell’organizzazione. L’assurdità di questa imposizione è confermata indirettamente dall’esclusione civilistica da obblighi contabili per le attività organizzate in prevalenza col lavoro proprio e della famiglia (piccoli imprenditori). Per le professioni liberali la contabilità era poi civilisticamente esclusa qualunque fosse la dimensione dell’attività (compreso quindi il grande studio legale o medico). Qualsiasi lettore può capire l’inefficienza di questa soluzione, anche solo pensando alla propria dichiarazione dei redditi, alla complessità di ritrovare i documenti necessari; già pochi pezzi di carta, tra spese mediche, certificati di versamento delle imposte, certificati dei sostituti di imposta, contributi della Colf, interessi passivi e poco altro, mandano rapidamente in confusione. Anche se la ragioneria è una partizione delle scienze umane, basta dover raccogliere e classificare anche pochi documenti per capire che è un lavoro grigio e preciso, del Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 67 tutto inutile dove manca la spersonalizzazione di una azienda fortemente pluripersonale (par. 3.1) cbe possa permettersi alcuni addetti “dedicati”. Gli adempimenti contabili dei lavoratori indipendenti senza organizzazione diventano così un inutile esorcismo di facciata, tenuto da un professionista esterno, che fa il direttore amministrativo per fini fiscali di tanti artigiani o piccoli commercianti, che lo pagano senza averne affatto bisogno, e senza avergli mai fatto vedere neppure la bottega o il laboratorio. Per le aziende pluripersonali gli uffici contabili sono una parte necessaria della gestione complessiva, imposta da genuine necessità organizzative, non dal fisco, anche se poi quest’ultimo vi fa affidamento. Se l’azienda esiste invece solo in senso materiale, consistendo solo di attrezzature, ma non di una pluralità di persone, che debbano darsi reciprocamente conto dei loro compiti, la contabilità è un fastidio inutile per chi dopotutto è solo un lavoratore indipendente, al tempo stesso proprietario, dirigente, operaio e fattorino della propria attività; ai piccoli commercianti e agli artigiani non serve un contabile per sapere quanto guadagnano, perché operando da soli (o quasi) sono i migliori conoscitori della loro attività. Vedremo anche al par. 3.16 che era inconcepibile affidare a questo contabile professionista, pagato dal cliente, mansioni di “polizia tributaria” a favore del fisco; se il cliente decide di rischiare, magari non registrando fatture o dichiarando cifre inferiori a quelle risultanti nelle scritture contabili, il professionista non ha motivi per opporsi, né può essere tenuto a delazioni di sorta agli uffici tributari. Abbiamo creato quindi centinaia di migliaia di strutture contabili inutili, disperdendo risorse dove non serviva, e creando lavoro inutile, mentre si perdevano occasioni di lavoro professionale utile al fisco. La tenuta della inutile contabilità assorbiva infatti tempi e risorse, in un lavoro ripetitivo e ottuso, mentre al cliente serve un ausilio in adempimenti burocratici amministrativo tributari, a partire dalle dichiarazioni fiscali, agli “studi di settore” (par. 5.13), agli adempimenti previdenziali, per i tributi comunali e tanti altri. Insomma, i professionisti esterni dei “lavoratori indipendenti” hanno dovuto accantonare, viste le ristrettezze di budget dei clienti, un insieme di importanti funzioni, diciamo così “consulenzialburocratiche”, per recitare l’inutile pantomima della contabilità fiscale. Che tuttavia gli organi professionali difendono perché temono che gli iscritti protestino, a loro volta nel timore di perdere lavoro, che invece non perderebbero, guadagnando anzi in qualità, come dimostra l’esperienza dei “minimi”, con la determinazione analitica senza contabilità (paragrafo 7.8). Tuttavia piccoli commercianti e artigiani sanno di essere fiscalmente visibili, perché in genere devono esserlo agli occhi della clientela, e non possono evitare di esserlo a quelli del fisco. Non è la contabilità che li rende visibili, ma il bisogno di interagire coi clienti; la loro ricchezza è visibile in modo “materiale”, “fisico”, non “contabile”. Sapendo di essere materialmente visibili, si registrano fiscalmente, prendono la partita IVA, e tengono la contabilità, evitando – in genere – rappresentazioni manifestamente non verosimili. Su questa premessa l’inutile “contabilità fiscale” viene tenuta, ma le cifre da scriverci sono nell’assoluto dominio del lavoratore indipendente. Che potrebbe comunque facil- 68 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui mente occultare ricchezza al fisco “a monte” della contabilità, registrando fiscalmente solo una parte dei propri introiti. Quando precede ha però portato l’autorità amministrativa sulla falsa pista della determinazione ragionieristica della ricchezza non registrata (parr.5.9/5.11), inutile dove manca un reale interesse aziendale alla contabilità. 3.14.Mancata registrazione degli incassi nel lavoro indipendente verso consumatori finali Per riequilibrare il sistema dovrebbe quindi tornare in gioco, su questa tipologia di ricchezza, una richiesta amministrativa delle imposte adeguatamente sistematica e inevitabilmente valutativa, cioè basata su stime per ordine di grandezza. A prima vista è una apparente anomalia rispetto alla determinazione ragionieristica della ricchezza, però è un riflesso della tradizione millenaria della tassazione, che si è sempre ispirata a criteri di stima, e rispetto alla quale la tassazione attraverso le aziende è – se si vuole – una eccezione, non la regola. Ci troviamo anche qui davanti a uno dei fili conduttori del testo, cioè il coordinamento tra moderna “tassazione ragionieristica”, basata sulle aziende, e tradizionale “tassazione valutativa”, basata sugli uffici: a tal fine, come rilevato al par. 1.5, è del tutto insufficiente il concetto di autodeterminazione dei tributi” o “autotassazione” (in versione inglese “tax compliance”, ma il concetto è lo stesso). L’abbiamo anticipato al par. 1.5, ma ripetiamo che “le imposte”, per definizione, devono essere “imposte” da qualcuno: dove non si riesce a farlo attraverso le organizzazioni aziendali devono tornare in gioco gli uffici tributari, in modo valutativo e con sufficiente sistematicità. Questo “lavoro indipendente”, sia commerciale, sia artigianale, sia professionale, rivolto alle persone fisiche consumatrici finali è la classica figura mediatica della ricchezza fiscalmente non registrata. Piccoli commercianti e artigiani non sono “aziende”, ma “persone”, con vita privata e famiglie, con necessità personali da soddisfare, a differenza delle aziende (par. 3.1). A queste necessità serve la ricchezza nascosta al fisco. Se si considera la ridottissima presenza valutativa degli uffici tributari sulla ricchezza non determinata dalle aziende, le somme dichiarate appaiono relativamente alte, sufficientemente per smentire i luoghi comuni sugli italiani come popolo di evasori. Non certo per una paradossale “onestà “di chi può nascondere ricchezza al fisco, ma per la propaganda di cui diremo al par. 4.2, che accredita l’immagine di uffici tributari molto più presenti di quanto siano realmente, sulla ricchezza non raggiunta dalle aziende. Il pasticcere, il carrozziere, il veterinario o l’oste, così spesso accusati di “non fare lo scontrino, la fattura o la ricevuta fiscale”, non hanno infatti alcuna necessità organizzativa di tali documenti, costituenti solo un “obbligo fiscale”; cioè un tentativo dello stato di portare la tassazione attraverso le aziende dove esse non esistono, trasformando in “azienda fiscale” una attività prevalentemente di lavoro, dove non c’è neppure l’ombra delle rigidità amministrative che caratterizzano le aziende, ed in cui il fisco si inserisce (par. 3.1). Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 69 Non c’è quindi alcun ostacolo gestionale, in questi casi a evitare la registrazione fiscale della ricchezza “togliendola da sopra”, cioè omettendo la registrazione degli incassi, con l’“occultamento dei ricavi”, detto anche “il nero”. Non si tratta, ripetiamo, di tutti i “lavoratori indipendenti”, ma di quelli operanti al consumo, mentre quelli segnalati dalle aziende (come i professionisti soggetti a ritenuta) hanno possibilità relativamente basse di nascondere ricchezza. Quando il cliente del piccolo commerciante è un consumatore finale le imposte non possono essergli “imposte” con la gazzetta ufficiale, perché incidono sul tenore di vita. Oltre alla massiccia offensiva mediatica di cui diremo più avanti, serve la percezione delle probabilità di richiesta (o di “controllo”); l’idea di “autodeterminazione delle imposte”, generata nella tassazione attraverso le aziende, crea l’equivoco secondo cui la richiesta delle imposte in concreto sarebbe superflua, come se ognuno fosse solo davanti alla legge in compagnia del proprio senso civico. Anche qui ritroviamo la confusione che mette sullo stesso piano, nell’equivoco concetto di “contribuente” le aziende e le persone, preparando le isterie sociali di cui diremo al capitolo quarto. Alla facilità di questa modalità di occultamento degli incassi, si accompagnano i riflessi sul tenore di vita degli interessati, come vedremo al par. 4.5, sulle motivazioni dell’evasione: chi lavora da solo, e non è tassato dalle aziende, nasconde con facilità la ricchezza al fisco, ma non ne crea molta col suo solo lavoro, e quindi è spinto ulteriormente a diminuire la quota dichiarata, per l’elevata utilità marginale del denaro. Le somme versate al fisco inciderebbero su aspetti relativamente importanti del suo tenore di vita, come le vacanze, alcuni divertimenti, le cene fuori, la seconda macchina, di persone che “al lordo delle tasse” guadagnano magari 100 mila euro, e per le quali dichiarare tutto, o dichiararne trentamila, comporta forti differenze in termini di reddito spendibile. Anche se da soli si evade bene, i guadagni restano modesti, finché non si organizza il lavoro degli altri, e quindi si è spinti a nasconderli al fisco. Al paragrafo 4.1, sulla stima dell’evasione, vedremo la verosimile prevalenza numerica di tanti “lavoratori indipendenti”, che nascondono al fisco una quota elevata di cifre relativamente basse Accanto a questa utilità marginale alta del denaro risparmiato, la mancata registrazione fiscale della ricchezza dipende dalla percezione, diretta e mediatica, dei controlli, di cui riparleremo al par. 4.5, sulle determinanti dell’evasione. Proprio le statistiche dei redditi dichiarati da queste categorie, incrociate con le dimensioni, lasciano presumere molta ricchezza non registrata; anche se le statistiche dovrebbero essere depurate dalle quote di reddito imputate ai collaboratori familiari (par. 7.17), delle attività appena iniziate, in liquidazione o esercitate part time, i dati fanno presumere che la ricchezza nascosta sia forte (cfr. par. 4.1). Anzi, se si ragiona freddamente, l’enfasi sulla “disonestà fiscale”, e la mancanza di senso civico, appare un diversivo, qualche volta usato in buona fede, qualche altra con una certa strumentalità politica (paragrafo 4.5) per sfruttare politicamente il disorientamento collettivo in materia di tassazione. Vedremo che l’ipotetica perversione privata dell’“evasore” è utilizzata come scusante per disorganizzazioni in tutta la macchina pubblica, a loro volta provocate da deficit culturali della pubblica opinione, più o 70 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui meno intensi a seconda dei vari settori d’intervento pubblico, come vedremo al par. 5.3. Uno dei settori dove il disorientamento è maggiore è proprio la determinazione della ricchezza ai fini tributari, dove la classe dirigente (par. 1.6) non si rende conto dello squilibrio tra calcolo ragionieristico “attraverso le aziende” e “autotassazione”, effettuata nella prospettiva di un intervento valutativo degli uffici. L’effetto propaganda è sufficiente a generare un livello di autotassazione non manifestamente indecoroso, se si considerano i redditi dei lavoratori indipendenti: ad esempio, un idraulico senza sede fissa che incassa 50 mila euro e ne dichiara 25 può quasi definirsi “credibile” (“onesto”?) rispetto all’attuale sistematicità dell’intervento del fisco sulla sua tipologia di ricchezza; vedremo a proposito del “senso civico” (par. 4.5) che non ha senso confrontare questo contribuente con l’impiegato di banca costretto, a parità di reddito, a dichiarare tutto dal datore di lavoro, ma che – a parti invertite – forse dichiarerebbe anche meno di quella somma. Quando si tratta di lavoratori indipendenti e di titolari di piccole organizzazioni, per cui il denaro ha una fortissima utilità marginale, la pressione mediatica aiuta ma non basta, e serve una credibile presenza valutativa del fisco sul territorio, nelle strade, presso conoscenti, nella cerchia, territoriale o economica di altri contribuenti. Torneremo al capitolo quarto sulla nocività delle drammatizzazioni sociali connesse alla ricchezza non registrata e alla lotta all’evasione in televisione, come pure alle strambe proposte mediatico politiche in merito; i risultati in termini di attività amministrativa saranno indicati ai paragrafi 5.7, sulla distribuzione degli interventi, nonché 5.13-5.14 sulle relative metodologie. 3.15.La crescente “ricchezza non osservabile”, discontinua, collaterale, anche di sopravvivenza Ai paragrafi precedenti abbiamo parlato in prevalenza di ricchezza non registrata in attività continuative, svolte da operatori economici stabilmente visibili. Cioè dotate di una sede fissa, o di beni strumentali da cui si potesse stimare l’intensità dello svolgimento dell’attività. Qui la ricchezza è visibile, anche se in modo fisicomateriale, non contabile. Ci sono però sia operatori economici privi di una sede fissa o di una struttura, come i venditori ambulanti, gli artigiani operanti a domicilio, elettricisti, idraulici, non a caso considerati per lunghi anni sinonimo di evasori fiscali. A questi operatori economici “sfuggenti”, neppure visibili sulla pubblica via, si aggiungono soggetti che non sono operatori economici. Mi riferisco alle “locazioni in nero”, agli affitti di stanze, ai bed and breakfast, ai secondi lavori “in nero” (coperti dalla presenza del primo lavoro “in bianco”,magari di dipendente pubblico), alle ripetizioni in nero di insegnanti, ai lavoretti in nero, ai subaffitti di stanze, al piccolo commercio di beni usati, agli ambulanti abusivi sul marciapiede e sulla spiaggia, ai posteggiatori abusivi, ai “servizi personali”, dalla colf in nero, al dog sitter, al trainer sportivo, ai posteggiatori abusivi fino all’accaparramento dei nu- Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 71 meretti elimina code all’ufficio postale. Si pensi anche alla prostituzione indipendente, tipico esempio di “servizio personale”, privo di strutture. La possibilità di tassare questo fenomeno, mediante una sua regolamentazione, e gestione imprenditoriale, come nei centri benessere tedeschi, costituisce una riprova della “tassazione attraverso le aziende”. Sarà sempre difficile tassare la prostituta indipendente, come è difficile tassare l’idraulico, mentre la “casa chiusa”, organizzata benché si chiami “bordello”, consente di applicare anche a questo tipo di ricchezza la consueta determinazione ragionieristica. Per la prostituta individuale, non organizzata, invece, l’accertamento in base alla spesa è tutto sommato il più efficiente, come per il fisioterapista (dopotutto sempre servizi personali sono!). Queste situazioni confermano che la mancata registrazione fiscale della ricchezza non dipende da intrinseche malvagità, bensì da un misto di necessità ed opportunità, connesse alla mancata richiesta delle imposte quale “disfunzione pubblica”, come tante altre. La ricchezza non registrata, “collaterale” ad altre attività tendenzialmente tassate, oppure occasionali, sporadiche, costituisce spesso un vero e proprio espediente di integrazione del reddito, e conferma la frammentarietà della determinazione della ricchezza. In Italia non abbiamo solo le grandi imprese che sono piccole rispetto a quelle europee, una enorme polverizzazione di lavoratori indipendenti “alla luce del sole”, ma anche tante persone che si arrangiano. Al par. 5.15 vedremo l’utilità di un certo controllo valutativo del territorio da parte del fisco, anche su queste aree. È ben vero che le difficoltà di determinazione della ricchezza per il lavoro indipendente, dove almeno esiste una visibilità statica della ricchezza (botteghe, laboratori, etc.) aumentano per queste attività sfuggenti. Neppure è agevole capire con quanta intensità sono esercitate le attività in esame, legate alle opportunità e ai bisogni, spesso schermate da un parallelo reddito di lavoro. Spesso il lavoro dipendente, ancorché modestamente retribuito è una entrata continuativa, sicura, cui non si vuole rinunciare, come in tanti impieghi pubblici o parapubblici. qualche volta l’attività da cui deriva il reddito “ufficiale” è anche generatrice di quello “occulto”, come nel caso delle già indicate ripetizioni degli insegnanti. Con la crisi economica ci sono anche attività collaterali alla percezione di una pensione o di una forma di sussidio, ad esempio la “cassa integrazione”. Accanto a questi modesti sussidi si sviluppa l’“arte di arrangiarsi”, necessaria a mantenere almeno in parte il tenore di vita anteriore alla crisi o al prepensionamento. All’insufficienza della remunerazione del lavoro principale si risponde, all’Italiana, con la moltiplicazione dei lavori, o più esattamente dei “lavoretti”. In entrambi i casi si tratta di riflessi dell’impoverimento della società, dell’appiattimento degli stipendi e della proletarizzazione dei ceti medi (parr. 9.2/10.4/10.5); è una specie di “economia di sussistenza” postindustriale, in cui riemergono aspetti importanti della società agricolo-artigianale, per non dire di quella, ancora anteriore, dei cacciatori raccoglitori, riferiti oggi a sfridi del sistema, dal riciclo di beni usati alla ricerca di alimentari scaduti, alla “banca del cibo”. È un contesto dove fioriscono nuove forme di baratto e la moneta di quartiere, piccole manutenzioni e 72 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui riparazioni, subaffitti, bed and breakfast. Non sono “start up” di aziende, ma tecniche di sopravvivenza “postaziendali”, da deindustrializzazione senza sbocchi. Finché erano situazioni marginali, le si potevano trascurare, ma oggi è un sottobosco vastissimo, fatto di milioni di persone. Al suo interno occorre distinguere le situazioni di effettiva difficoltà, che meritano di percepire sussidi, da quelle in cui redditi tassati forfettariamente (agricoltura par. 8.2) e redditi soggetti a imposta sostitutiva, magari grazie ad abitazioni di proprietà, riducono i bisogni o li soddisfano. Possono poi esserci anche sussidi pubblici non spettanti o rilevanti evasioni tributarie. Se si vedono le statistiche delle dichiarazioni dei redditi, queste situazioni riguardano gruppi troppo numerosi di contribuenti per essere del tutto ignorate, anche per evitare che il fenomeno si allarghi.Vedremo al par. 5.15 che non si tratta di interventi punitivo –fiscalistici, ma diretti semplicemente al monitoraggio di questa moderna e crescente forma di “economia di sussistenza”. Non si tratta cioè di tassare situazioni di disagio, ma di controllare il territorio per capire se apparenti morti di fame lo sono effettivamente. Man mano che dalle dichiarazioni dei redditi aumentano gli apparenti morti di fame, deve tornare in mente il già menzionato paradosso secondo cui bisogna “tassare i poveri, che hanno poco ma sono tanti”. Declinato correttamente, il paradosso si spiega con la necessità di non trascurare “la ricchezza dei poveri” o almeno di trattarla in modi non troppo sperequati, a seconda che gli interessati lavorino per organizzazioni rigide (che li tassano) o meno. Anche questo mostra l’insufficienza delle aziende ai fini della tassazione, e la necessità di una macchina pubblica valutativa ed efficiente, non solo per intervenire dove esse non arrivano, ma anche per permetterne la crescita oltre la dimensioni padronale, come vedremo al par. 5.18/5.19. La tassazione ragionieristica attraverso le aziende resta fondamentale per il gettito, ma deve essere integrata ai nostri fini, per evitare settori della società “senza Stato” (nel senso di “pubblico potere”), con la società che regredisce a una economia parallela “semitecnologica”, in cui si raccolgono fortunosamente residuati e rifiuti della produzione di serie, come nelle grandi discariche a cielo aperto del terzo mondo, o dentro i nostri cassonetti dei rifiuti, in uno scenario da “day after” post atomico. Man mano che procede la proletarizzazione dei ceti medi, e diminuisce l’importanza del reddito da stipendio rispetto alla situazione economica complessiva degli individui (paragrafi 2.2, 9.2, 9.3, 10.4), diventa sempre più insufficiente una tassazione ragionieristica basata solo sulle aziende, senza un sistematico intervento valutativo degli uffici tributari, di cui riprenderemo le fila, anche per queste attività, al par. 5.15. Anche per questo è importantissimo diffondere tra la pubblica opinione (par. 1.6) la praticabilità della determinazione degli imponibili per ordine di grandezza. Naturalmente deve restare ferma, per ragioni di continuità del gettito, la tassazione ragionieristica attraverso le aziende, sperando anche che esse riescano a mantenere le posizioni ed ampliarle, il che significherebbe progresso industriale del paese. La macchina fiscale può contribuirvi riducendo le sperequazioni tra odierna tassazione ragionieristica attraverso le aziende e tradizionale tassazione valutativa attraverso gli uffici. È un Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 73 circolo virtuoso su cui ritorneremo, sul piano del bagaglio culturale delle classi dirigenti (e del contributo della dottrina) al paragrafo 4.7. 3.16.Professionisti tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici: prospettive per un loro uso più efficiente La tassazione attraverso le aziende coinvolge una pluralità di addetti ai relativi uffici contabili interni, mentre l’autotassazione cerca di imitarla, e quindi coinvolge la pluralità di consulenti di piccoli commercianti, artigiani, e di semplici contribuenti tenuti ad adempimenti tributari che, come vedremo, sarebbe antieconomico svolgere da soli. Nelle aziende, i compiti in esame si innestano, come già visto al par. 3.3 e seguenti, sull’ordinaria tenuta della documentazione contabile, riutilizzata e integrata ai fini tributari. Questi servizi professionali non sono un’eccezione, esistendo in tutti i paesi sviluppati, soprattutto per la predisposizione e l’invio di dichiarazioni tributarie (par. 3.4), adempimenti contabili e consulenza. In molti paesi i professionisti sono l’anello di congiunzione tra operatori economici, soprattutto piccoli, e uffici tributari; attraverso di loro sono canalizzate le informazioni, organizzandole in modo gestibile dagli uffici; è una funzione sostanzialmente di assistenza-consulenza, talvolta di certificazione di alcuni aspetti esteriormente rilevanti dell’attività del contribuente, offrendo agli uffici elementi oggettivi per stimare la ricchezza determinabile solo in modo valutativo. La specializzazione dei compiti, nelle società moderne, rende sempre più rari gli individui che preparano e spediscono da soli le comunicazioni al fisco. il “cittadino contribuente” che bada da solo ai propri adempimenti fiscali è una figura retorica come quella dell’antico “cittadino soldato”; l’idea dell’ufficio tributario che invia bollettini precompilati al contribuente è evidentemente antieconomica, così come improvvisarsi fiscalisti solo per se stessi, informandosi e tenendosi aggiornati per gestire in autonomia solo la propria posizione. Oggi, anziché gestire da soli gli adempimenti, è sempre più importante coordinarsi con chi presta assistenza, sapendo bene “chi deve fare cosa”; l’invio di informazioni precompilate, da parte del fisco, è anche opportuno, purché coinvolga le strutture di assistenza, preparando loro il lavoro per le personalizzazioni successive, in base ad informazioni che solo il contribuente conosce. Le strutture professionali assorbono infatti il necessario investimento in conoscenze, distribuendolo su tutti i clienti, con intuitive economie di scala. I professionisti sono fondamentali sulla ricchezza dove le aziende non arrivano, per raccogliere e canalizzare, verso gli uffici tributari, informazioni provenienti da “lavoratori indipendenti” privi di qualsiasi struttura contabile, come visto al par. 3.13. È una attività simile, in piccolo, agli uffici di contabilità aziendale, senza però la corrispondente affidabilità, in quanto il professionista non vi è coinvolto direttamente, riceve le informazioni, e la remunerazione, direttamente dal titolare. Anche sui professionisti si riflettono però, come vedremo al termine di questo paragrafo, il disorientamento e la 74 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui drammatizzazione sulla determinazione tributaristica della ricchezza (capitolo 4), con adempimenti inutili, a partire dalla contabilità dei lavoratori indipendenti (par. 3.13), fino agli estenuanti contenziosi per pratiche “rinviate al giudice” (par. 6.6), e alla gestione delle contestazioni interpretative basate su litanie solo apparentemente pertinenti (par. 5.17 ss). La figura più diffusa è il commercialista del lavoratore indipendente, che si differenzia dal direttore amministrativo delle aziende in quanto è solo una sovrastruttura imposta dalla legge tributaria; questo professionista non ha alcun tornaconto personale a suggerire modalità per omettere la registrazione della ricchezza, anche perché il cliente, soprattutto se lavoratore indipendente al consumo finale, se la cava benissimo da solo. I professionisti hanno insomma un ruolo complessivamente marginale nella mancata registrazione tributaristica della ricchezza, conosciuta molto meglio dal contribuente. È quest’ultimo a decidere quanto nascondere e quanto dichiarare, e non a caso molti commercialisti confessano di aver imparato dai loro clienti i modi in cui i medesimi nascondevano la ricchezza al fisco. Il consulente tende piuttosto a “coprirsi le spalle”, rispetto a potenziali corresponsabilità verso il fisco per violazioni tributarie commesse dal cliente, nonché rispetto alla tendenza del cliente a prendersela col professionista per eventuali accertamenti tributari sopravvenuti.Vedremo che questa seconda eventualità spinge addirittura i professionisti a convincere i clienti ad adeguarsi agli studi di settore, nei modi e coi limiti di cui diremo al par. 5.13. Verso le poche decine di migliaia di aziende organizzate pluripersonali, che possono permettersi un ufficio contabile “in proprio”, il professionista si dedica all’inquadramento giuridico, di ricchezza registrata, cioè alle possibili contestazioni interpretative descritte al par. 3.9 e ss.. Il titolare di aziende che scavalca le proprie procedure contabili per nascondere ricchezza al fisco (par. 3.7) casomai si consulta col professionista a posteriori, ipotizzando la rilevabilità da parte del fisco di tali manipolazioni; queste ultime però sono effettuate in prima persona da chi conosce l’azienda meglio del suo consulente. C’è poi forse qualche “professionista dell’evasione”, procura ai clienti fatture false, prestanome o società “offshore”, ma si tratta verosimilmente di casi marginali. L’intervento professionale più diffuso è anche quello meno remunerativo, e riguarda le persone fisiche che non sono operatori economici, ma che devono “personalizzare” la tassazione documentale attraverso le aziende; queste ultime segnalano il reddito principale, ma i percettori devono aggiungere redditi ulteriori (ad es. immobiliari), oneri e detrazioni personali di cui al par. 9.3, scomputare acconti e ritenute. Per tutto questo, come per la tassazione immobiliare (ad es. IMU di cui al par. 10.9), serve assistenza, prestata a basso costo sia da professionisti sia da “centri di assistenza fiscale”, facenti capo ad associazioni sindacali e di categoria, patronati e simili; qui il contribuente presenta i documenti e fornisce sotto la sua responsabilità le relative informazioni, ricevendo i moduli per il versamento, da effettuare poi in banca. Gli intermediari o i professionisti possono essere chiamati ad una verifica della regolarità formale dei documenti alla base degli oneri detraibili o deducibili delle persone fisiche, di cui riparleremo al par. 9.3 Capitolo 3 – DETERMINAZIONE CONTABILE E VALUTATIVA DELLA RICCHEZZA 75 anche per il “contrasto di interessi” (cioè la deduzione a fronte di spese per consumi particolarmente “a rischio” di evasione da parte del fornitore). Ulteriori corresponsabilizzazioni dei professionisti sui dati rilevanti ai fini degli studi di settore (par. 5.13), sulla emissione delle fatture e la loro registrazione, e su altre incoerenze “professionalmente rilevabili”, sono ostacolate dal disorientamento imperante sulla determinazione tributaristica della ricchezza (capitolo 4). Alcuni ambienti sociali, soprattutto di economisti, collegano spesso il malessere fiscale italiano ad una specie di congiura degli esperti del settore, che avrebbero creato ad arte la confusione in cui ci si dibatte, per trarne vantaggio professionale. Un fondo di verità della critica si riferisce alle difficoltà progettuali dei giuristi, indicate al par. 4.3, incapaci di essere il riferimento di cui le istituzioni hanno bisogno. In generale però il professionista non crea, ma legittimamente sfrutta, come vedremo al par. 4.4, gli equivoci che lo studioso sociale dovrebbe siegare e contribuire ad eliminare. Anzi, la massa dei professionisti subisce gli effetti negativi dei disorientamenti e delle drammatizzazioni sul fisco, su cui capitolo 4. Ne derivano adempimenti contabili e dichiarativi inutili (par. 4.5), e rapporti difficili con gli uffici tributari; i relativi funzionari avvertono le drammatizzazioni sociali, e diventano più sospettosi e diffidenti, per timore di essere considerati negligenti o “malleabili” (par. 5.11); ostacoli vengono anche dalla parcellizzazione tra uffici diversi (ispettori, ufficio accertatore, giudici, Equitalia), ciascuno dei quali vede prevalentemente il proprio segmento di attività. Ciascun ufficio tende a liberarsi dei problemi difficili da risolvere, anche utilizzando legalismi, e spesso il giudice, come vedremo al par. 6.5, rappresenta una miope valvola di sfogo per non decidere. Resta un danno da incertezza che ricade sul professionista, in quanto difficile da ribaltare sul cliente, soprattutto per pratiche di modesto valore, riguardanti un gran numero di contribuenti medio-piccoli. Il lavoro intellettuale connesso alla determinazione tributaristica della ricchezza è infatti sostanzialmente indipendente dall’ammontare delle cifre coinvolte e quindi proporzionalmente maggiore sui piccoli contribuenti, senza margini per ripagare lo sforzo del professionista. Per questo la “ragionierizzazione forzata” (par. 3.13) della determinazione della ricchezza non raggiunta dalle aziende ha i suoi costi professionali. Anche le pratiche piccole diventano un dramma e diminuiscono sempre più, con la crisi economica, quelle di ammontare tale da consentire una adeguata remunerazione del professionista; quest’ultimo spesso tende giustamente a dimensionare la qualità e l’impegno nel lavoro rispetto a quanto il contribuente può pagare, con cadute di tutela e crisi di rigetto descritte al par. 4.6. La convenienza di trattare una pratica dipende ormai prevalentemente dalla rapidità con cui la si inquadra concettualmente, la si interiorizza e la si descrive efficacemente ad uffici e giudici, superando le difficoltà comunicative di avvocati e contabili. Altrimenti, ogni pratica diventa un dramma per il professionista, ed anche quelle verso aziende più strutturate richiedono spesso tempi ed energie sempre proporzionalmente eccessive rispetto al compenso sostenibile dal cliente. Ciò sia per la crisi economica sia per la tendenza delle pratiche a generarsi, complicarsi e vivere di vita propria, richiedendo un impegno spesso sproporzionato alle loro dimensioni economiche. 76 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Ne deriva un forte malessere dei circa 200 mila operatori delle aziende e degli studi professionali, impegnati in adempimenti tributari. Il mancato coordinamento “culturale”, di cui diremo al capitolo quarto, tra tassazione ragionieristica attraverso le aziende, e valutativa attraverso gli uffici, provoca adempimenti inutili, genera disguidi ed equivoci professionalmente logoranti, e non adeguatamente ripagati, nella confusione e nel disorientamento indicati al capitolo 4, e che intralciano l’operatività delle aziende ed i processi decisionali degli uffici (par. 5.3). Capitolo 4 Determinazione della ricchezza, studiosi, pubblica opinione e spiegazioni dell’evasione fiscale Sommario: 4.1. Conferme macroeconomiche della prevalenza dell’evasione da ricchezza non registrata – 4.2. Utilità della propaganda nell’autotassazione ed esagerazioni controproducenti – 4.3. Mancata spiegazione della determinazione della ricchezza ai fini tributari: lo “pseudonormativismo” accademico – 4.4. Segue: impossibilità di avere spiegazioni organiche da altri studiosi sociali, dai professionisti, dalle istituzioni, dai mezzi di informazione – 4.5. I riferimenti sensati, ma semplicistici, al “senso civico”, alle “aliquote”, al “contrasto di interessi”, alla “ragionierizzazione delle stime” – 4.6. Segue: le spiegazioni politicamente strumentali e socialmente laceranti – 4.7. Spiegazioni istituzionalistiche in una cornice di unità del diritto e collegamento con altre scienze sociali 4.1. Conferme macroeconomiche della prevalenza dell’evasione da ricchezza non registrata Nel precedente capitolo terzo abbiamo già analizzato, dal punto di vista delle aziende e degli individui, le varie forme di evasione tributaria. Prima di ipotizzarne una quantificazione, in questo paragrafo, cerchiamo di riepilogarne i diversi contenuti. L’evasione da ricchezza non registrata tende ad occultare la materia altrimenti imponibile, e si pone quindi sul piano delle questioni di fatto; queste ultime, rilevanti per il diritto nei modi che vedremo al par. 5.8, possono essere anche contabili e documentali (si pensi alla scoperta di un documento non registrato), in genere sono “presuntivo-valutative”. L’evasione interpretativa riguarda invece le maggiori imposte accertate per un diverso inquadramento giuridico di vicende comunque rendicontate, sul piano materiale, o comunque di dominio pubblico. In genere ciò non accade per disattenzione del contribuente, bensì a seguito di una scelta consapevole di convenienza o indifferenza tributaria. La sostenibilità di una determinata tesi è valutata anche in relazione alla sua onerosità tributaria (sulla diversa mediazione alla base delle contestazioni interpretative del fisco vedi par. 3.10 e 5.17 ss.); nell’ambito dell’evasione interpretativa si colloca anche l’elusione, dove ad essere violato è solo lo spirito del sistema, come indicato al par. 3.10. C’è poi l’“evasione da riscossione” (par. 6.11), basata sull’attribuzione di detrazioni, crediti e costi, da parte di chi omette di versare le corrispondenti imposte 78 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui (par. 7.3 per le frodi carosello IVA), violando le simmetrie della tassazione attraverso le aziende (par. 3.9). Vediamo quindi il rapporto tra questi fenomeni e le stime dell’evasione fiscale. La stima della ricchezza non registrata è metodologicamente complessa. Se persino il PIL “registrato” è stimato per ordine di grandezza, la ricchezza “non registrata” può essere solo oggetto di ipotesi, ancora più congetturali. La metodologia di stima più diffusa, alla base delle quantificazioni diffuse sui “media” è l’eccedenza tra chi si dichiara “occupato”, ipotizzandone un reddito medio di sussistenza, e gli occupati “ufficiali”, con relativo reddito dichiarato; vi si comprendono i “lavoratori indipendenti” che dichiarano redditi inferiori a livelli generali di credibilità, come indicato al par. 5.13. Ne deriva una ricchezza non registrata fiscalmente, stimata poco meno di 300 miliardi di euro (17 percento del PIL), cui corrispondono i circa 120 miliardi di imposte evase, di cui si parla ordinariamente sui mezzi di informazione. Questa stima non considera la ricchezza non registrata da chi dichiara comunque cifre superiori ai livelli di sussistenza, come chi dichiara cinquantamila euro, e ne evade altrettanti. Non è considerata neppure l’“evasione aziendale” (par. 3.8), tra cui i “fuori busta” dei lavoratori dipendenti, l’evasione da riscossione (frodi carosello etc...: par. 6.11), gli occultamenti collaterali di cui al par. 3.15. Queste stime non considerano neppure l’evasione interpretativa sulla ricchezza palese o registrata (par. .10 e 5.18), da cui viene una quota importante del gettito dei controlli (par. 5.7); queste ultime non sono cifre significative, né sono particolarmente insidiose per il fisco, perché non comportano occultamenti di sorta. Quanto sopra spinge a ritenere che ci sia una probabile sottostima dell’evasione, confermata dal numero ridottissimo di contribuenti con redditi dichiarati superiori ai centomila euro, il che stride rispetto alle abitudini di vita percepite in Italia. Anche se ci fosse una stima precisa del “nero”, sarebbe scorretto calcolare le imposte perdute applicando puramente e semplicemente a questa cifra le aliquote di imposta. L’importo sopra stimato (120 miliardi) deve infatti essere anche affinato sul presupposto che molte attività “precarie”, se dovessero pagare le imposte, puramente e semplicemente chiuderebbero, in quanto non più convenienti. Nel senso che la ricchezza residua, dopo quella prelevata dal fisco, non compenserebbe il rischio e la penosità del lavoro, salvi aumenti di prezzo che potrebbero non essere assorbiti dai clienti. Ad esempio, la baby sitter a sette euro l’ora, o il manovale a giornata per 50 euro, se dovessero pagare imposte e contributi, non lavorerebbero affatto, oppure aumenterebbero le tariffe; se però queste ultime non fossero sopportabili dai clienti, scatterebbero aggiustamenti nell’offerta di lavoro indipendente, con una reazione a catena difficile da stimare in questa sede. Si può ipotizzare che una parte delle attività sommerse sparirebbe, in quanto non più conveniente, una parte rimarrebbe perché troppo difficile da individuare, e una parte emergerebbe, a prezzi più elevati. Il dosaggio tra questi assestamenti dipende da una serie di variabili del contesto economico sociale, come le opportunità alternative di impiego e di offerta dei servizi oggetto dell’evasione. CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 79 Comunque, in ultima analisi, sarebbe probabilmente un circolo virtuoso per la coesione organizzativa nazionale, dove si creerebbe una macchina pubblica capace di stimare valutativamente la ricchezza, operatori economici più strutturati, una opinione pubblica più consapevole, mentre oggi le recriminazioni di cui al paragrafo successivo rischiano di portarci in direzione contraria. Bisognerebbe capire se nel calcolo suddetto confluisce l’attività economica “illegale”, data ad esempio dalla prostituzione, dalle scommesse clandestine, dal commercio di generi contraffatti o di contrabbando. L’economia criminale, basata su furti, estorsioni (il c.d. “pizzo”) e truffe, e quindi priva di un contenuto di scambio, neppure è attività “economica” ed è oggetto di stime a parte; quest’ultimo tipo di economia criminale non va certamente “tassata”, quanto piuttosto “estirpata”. 4.2. Utilità della propaganda nell’autotassazione ed esagerazioni controproducenti La percezione della richiesta delle imposte è il principale fattore su cui si fonda la c.d. ”autotassazione”, sulla cui diversità rispetto alla tassazione attraverso le aziende vedi par. 1.5. La percezione, da parte degli individui, di un intervento del fisco abbastanza sistematico, li spinge ad adempiere, anche sulla ricchezza non intercettata dalle aziende (le quali “impongono le imposte”, che si pagano quando qualcuno le richiede secondo l’etimologia stessa del termine “imposta”). Qualche volta però le aziende, oltre a “prelevare le imposte”, effettuano segnalazioni al fisco, che agli occhi dei soggetti segnalati ne rendono più probabile l’intervento, e li spingono ad adempiere. Questa percezione dei controlli è valutata anche in relazione all’utilità marginale del denaro, cioè al sostegno del tenore di vita, cioè svaghi, acquisto di una bella casa, di un’auto, etc., rispetto a un pagamento delle imposte, la cui richiesta è vista come “improbabile”. Per un artigiano o piccolo commerciante, a differenza del titolare di una organizzazione, evadere una percentuale consistente dei ricavi effettivi, comporta, come già rilevato, un aumento significativo delle risorse disponibili per i bisogni personali, e quindi del tenore di vita. Al deficit di presenza valutativa diretta sul territorio da parte degli uffici tributari cerca comprensibilmente di supplire la propaganda; quest’ultima è importante per “suscitare credenze”, in qualsiasi settore della convivenza umana. Nella vita sociale, comunicazione e contenuti sono interdipendenti, perché i primi vivono attraverso le persone che li conoscono, ed a questa conoscenza è strumentale la comunicazione. Anche sulla determinazione della ricchezza quindi occorre un equilibrio tra propaganda e sistematicità reale dell’azione pubblica. Nasce invece il fuoco di sbarramento mediatico che potremmo chiamare “lotta all’evasione in televisione”; in una certa misura, anche questa è una richiesta delle imposte, un invito pressante ad una corretta autotassazione. Si deve appunto alla propaganda se la ricchezza dichiarata nei settori non raggiunti dalla tassazione attraverso le aziende mantiene un minimo di credibilità. Mi riferisco so- 80 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui prattutto alla massa dei lavoratori indipendenti al consumo finale, cui da un lato sono ascrivibili la maggior parte degli imponibili non registrati, ma dall’altro dichiara cifre consistenti, se si considera il ridottissimo intervento valutativo concreto degli uffici tributari nei loro confronti. Questo da un lato smentisce le accuse di mancanza di senso civico (par. 4.5) fiscale, ma dall’altro non può accreditare elogi di “maggior onestà” rispetto alla media nazionale. È semplicemente l’effetto della propaganda, trasmesso anche attraverso i commercialisti, unito alla naturale tendenza a “salvare le apparenze”, apparendo credibili (nonostante l’evasione) rispetto alle caratteristiche esteriori dell’attività. Una volta salvate le apparenze, la propaganda non basta più e il contribuente deve percepire direttamente, nell’ambiente in cui opera, anche se non direttamente su di lui, una serena e sistematica attività valutativa degli uffici tributari. Altrimenti, una volta raggiunto un livello “minimo credibile” di ricavi, il lavoratore indipendente non è più disposto a dichiarare di più, intaccando il proprio tenore di vita; l’unica soluzione è avvertire la sistematicità dell’intervento del fisco, che non può essere sostituito con la propaganda. Se trasformata in violenza verbale, essa è controproducente sotto molti profili. I lavoratori indipendenti, chiamati “ladri” perché non dichiarano al fisco parte della ricchezza che si guadagnano, replicano rilevando quanti dipendenti (soprattutto pubblici) non si guadagnano la ricchezza su cui pagano le tasse. Si cominciano a vedere quindi i laceranti isterismi collettivi descritti ai par. 4.5-4.6. L’enfasi comunicativa rischia anche perdite di credibilità, quando la pubblica opinione avverte l’inadeguatezza della risposta al problema da parte della macchina pubblica, nel nostro caso a proposito di determinazione valutativa della ricchezza dove le aziende non arrivano; le generiche invettive contro l’evasione, senza una adeguata azione amministrativa sulla ricchezza non raggiunta dalle aziende, ricordano quel personaggio del cabaret che, dopo averle buscate in una rissa, dice “me le ha date, ma quante gliene ho dette”. Ma c’è di peggio perché l’eccesso di comunicazione si trasforma nel tentativo di risolvere a chiacchiere i problemi di bagaglio culturale e di intervento amministrativo indicati al par. 5.3. Al paragrafo 4.6 vedremo i diversivi, grossolani e opposti, di mettere sul banco degli accusati la tassazione in genere, oppure gli operatori economici, gli organizzatori della produzione del paese, i creatori di posti di lavoro, trasformati in una specie di “nemici pubblici”. In quest’ultima prospettiva l’enfasi verbale della c.d. “lotta all’evasione”, innesca un clima guerresco dove tutti si improvvisano generali, la confusione cresce, si parla per slogan, si smette di ragionare. L’“evasore” entra nel mito, diventa “un nemico”, viene strumentalizzato a fini politici, creando il fantomatico “partito degli evasori”di cui diremo al par. 4.6. Si crea così un circolo vizioso che ostacola l’attività degli uffici, nuoce alla società e paradossalmente spinge chi può a nascondere ricchezza al fisco secondo un filo conduttore del testo, su cui ampiamente paragrafi 4.6, 5.3 e 5.19. Il rimedio è lo studio della funzione pubblica di determinazione della ricchezza ai fini tributari, cui sono dedicati i paragrafi seguenti. CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 81 4.3. Mancata spiegazione della determinazione della ricchezza ai fini tributari: lo “pseudonormativismo” accademico Prima della tassazione attraverso le aziende, i tributi non ponevano autonomi problemi giuridici per giustificare un gruppo di studiosi loro appositamente dedicato; la determinazione valutativa della ricchezza, da parte di appositi pubblici uffici (par. par. 1.3) era spiegabile col bagaglio culturale generale degli operatori del diritto, mescolando principi di diritto comune e di diritto dei pubblici poteri. Con la tassazione attraverso le aziende e l’autotassazione (par. 1.4-1.5), questo bagaglio culturale è divenuto insufficiente a coordinare i noti criteri di determinazione della ricchezza, ragionieristici e valutativi. È stata quindi assecondata, a partire dagli anni settanta del ventesimo secolo, la formazione di una comunità accademica dedicata allo studio giuridico dei tributi, forte di circa 200 docenti, relativamente numerosi rispetto al diritto amministrativo, dove circa 400 docenti devono occuparsi di tutto il resto dei pubblici poteri; l’urbanistica, l’istruzione, l’ambiente, le infrastrutture, la sanità, l’immigrazione, l’arte e la cultura fanno tutte fanno capo al diritto amministrativo; la suddetta sproporzione di personale docente è solo in parte spiegata dall’insegnamento del diritto tributario anche nelle facoltà di economia, in modo molto più sistematico di quello del diritto amministrativo. Questa comunità scientifica, benché relativamente numerosa, non è tuttavia diventata un punto di riferimento, e di aggregazione, delle discussioni sulla determinazione tributaristica della ricchezza. Restano inevasi gli interrogativi delle classi dirigenti e della pubblica opinione (par. 1.6), che cerca di supplire nei modi grossolani indicati ai parr.4.5-4-6. Questo insuccesso non dipende da carenze personali degli appartenenti all’accademia, ma da un problema culturale del diritto in genere, particolarmente distruttivo, come vedremo, nelle materie complesse come la nostra. La causa ultima è l’imbarazzo del diritto, come tutte le scienze sociali, davanti al prestigio e all’oggettività delle scienze della materia. Gli studiosi sociali, consapevoli dell’indimostrabilità delle scelte di valore, secondo la nota “legge” denominata “di Hume”, intuivano l’affinità delle loro riflessioni con i discorsi comuni delle persone sugli stessi temi, senza un chiaro confine tra chiacchiere e “scienze”. Insomma, le scienze sociali, nel loro complesso, giuristi compresi, avvertivano un problema di legittimazione, davanti al quale, invece di una risposta unitaria, sono andate a gruppi in ordine sparso. Mentre l’economia si è legittimata con le sue formalizzazioni matematiche, i giuristi hanno risposto con varie idee di scientificità. Una di esse, il c.d. “normativismo” o “giuspositivismo” (Kelsen, Bobbio, etc.), si preoccupava di distinguere il diritto dai giudizi di valore, dalla politica, dalla morale, dalla religione e dalle altre scienze sociali; il normativismo si opponeva al fantomatico “diritto naturale”, incompatibile con la mutevolezza non solo del diritto, ma di tutte le “scienze sociali”. Anche il normativismo è perfettamente compatibile con la concezione del diritto come studio delle istituzioni del gruppo sociale, prospettiva di più ampio respiro, adeguata a calare il 82 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui diritto nel tempo e nello spazio, dando conto della sua natura di disciplina “umanisticosociale”. Nella prassi, però, il normativismo degli studiosi, è stato travisato in una banalizzazione diffusa, appiattendo il diritto sulla legislazione e gli altri “materiali normativi”; intendo per tali la legislazione, le sentenze, gli atti di organi interni e sovranazionali, persino le opinioni dottrinali, estrapolate dal contesto e ridotte ad oggetto, a “riferimento”. Nessun teorico “normativista” del diritto ha mai seriamente sostenuto il suddetto appiattimento sui “materiali”, visto che il normativismo teorico aveva gli altri obiettivi indicati sopra. Tuttavia una tendenza a considerare giuridici solo discorsi riferibili ai suddetti materiali normativi, si è autoprodotta, persino tra gli studiosi. A questa deriva, oltre che la comprensibile pigrizia mentale degli operatori pratici, hanno contribuito il mito dell’“onnipotenza legislativa” (par. 2.4), la figura del giudice (civile) come pietra di paragone delle istituzioni; nel contingente hanno contribuito le codificazioni ottocentesche, connesse al passaggio dal diritto romano, dove era più forte il ruolo dei “giuristi”, a quello legislativamente stabilito; la codificazione, utile a mettere ordine nel pensiero, che acquistava certezza, ma perdeva flessibilità è stata però ulteriormente travisata, nel periodo del trionfo delle scienze fisiche, dal suggestivo parallelismo tra il loro “dato naturale” e il c.d. “dato normativo”, davanti al quale il giurista si sarebbe dovuto porre come il biologo davanti ai microbi. La diffusione di questo preconcetto deriva però soprattutto da una caratteristica del diritto rispetto alle altre scienze sociali, come economia, storia, filosofia, sociologia, politologia, ed altre in cui domina lo studio, senza bisogni pratici, né operatori pratici; i relativi cultori sono intellettuali che si rivolgono all’opinione pubblica e alla classe dirigente, per certi versi “dilettanti” nel senso nobile del termine, appassionati delle loro ricerche e riflessioni. Nel diritto sono invece sempre stati dominanti “i professionisti”, che – come vedremo – non sono studiosi sociali, ma operatori pratici. La loro presenza è stata probabilmente decisiva per rispondere nel modo più comodo al suddetto problema di legittimazione delle scienze sociali rispetto a quelle fisiche. Lo pseudonormativismo ha semplicemente negato il problema ribaltandolo sulle istituzioni redattrici dei “materiali”, e appiattendo il diritto su di essi. I giuristi, sempre minoranza rispetto agli avvocati, sono stati in parte cannibalizzati culturalmente, appiattendoli sui “materiali”, e in parte ghettizzati in torri d’avorio prive di contatto con la realtà. Questo passaggio del diritto dall’analisi delle istituzioni a quella dei loro materiali era anche comodo per le istituzioni. Queste ultime hanno infatti il problema di una buona immagine e di gestire obiettivi pragmatici, come già visto per il legislatore al par. 2.4, ripeteremo al par. 5.3 per le istituzioni amministrative e al par. 6.7 per il giudice; l’appiattimento del diritto sui “materiali” è una scorciatoia per motivare decisioni sostanzialmente corrette nel merito e prese comunque in buona fede, ma dove una razionalizzazione compiuta dei passaggi logici appare troppo impegnativa, sia in termini di tempo sia in termini di rispondenza del risultato scritto alle intenzioni dell’istituzione redattrice. Riferire la decisione a una “volontà CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 83 estranea”, motivando mediante un “riferimento normativo”, è operativamente comodo, perché evita di mettersi in gioco, esponendo le scale di valori utilizzate, le sfumature del proprio ragionamento, evitando che esso possa essere decontestualizzato o criticato, magari creando un precedente, applicato a situazioni dove sarebbe criticato dal suo stesso redattore. I riferimenti ai “materiali”, gli stereotipi, le frasi solo apparentemente in tema e di senso compiuto, di cui diremo pi avanti in questo paragrafo, alleggeriscono molto queste preoccupazioni di essere criticati o travisati. È un espediente che snellisce il lavoro e consente di rispettare agevolmente gli obblighi motivazionali imposti per ragioni di controllo sociale sulle istituzioni. Ne discende un rafforzamento della posizione di supremazia della pubblica autorità. Non sono le istituzioni ad aver creato questa situazione, ma neppure hanno il compito di contrastarla, e legittimamente vi si adattano. Anche gli avvocati erano poi felicissimi di liberarsi da incombenze teorico scientifico progettuali, demandate alle autorità da cui provengono i materiali. Queste risposte praticoidi si sono in buona parte estese a chi avrebbe dovuto essere un teorico, soggetto però in tutto o in parte alla comoda e inconsapevole mutazione di molti giuristi in avvocati. Nascevano così, per comodità e strumentalità, gli inconvenienti metodologici del “normativismo teorico”, degenerato in pseudonormativismo. Il principale difetto è quello di parlare “per riferimenti”, cioè attraverso i materiali normativi, proprio per questo paradossalmente travisati, come vedremo. Questa rudimentale prospettiva pretenderebbe che qualsiasi riflessione sulle istituzioni, per essere giuridica, traesse spunto in qualche “dato normativo”, equiparato al dato naturale delle scienze fisiche; non ci si potrebbe cioè richiamare direttamente al bagaglio culturale degli ascoltatori, per proporre loro una riflessione, un’ipotesi su cui chiedere una verifica, ma servirebbe sempre e comunque l’intermediazione di un dato normativo”. Il dibattito si sposta così “dagli argomenti” ai “riferimenti”, e questo rappresenta il primo passo verso gli stereotipi apparentemente in tema e quindi verso la progressiva “morte mentale”; si comincia col sostenere le tesi non perché intrinsecamente convincenti, ma perché conformi, spesso fortuitamente, a un certo “materiale normativo”. Anche il pensiero di altri studiosi diventa un “materiale”, ed il loro pensiero viene ridotto ad “oggetto”. La ricerca di scientificità e di legittimazione sociale sostituendo il “dato naturale” col “dato normativo” è stata più dannosa, per il diritto, di quanto sia stata l’analoga ricerca, degli economisti, attraverso la “socio matematica” (Lupi, Manuale giuridico, cit., cap. 5). Sia pure con varie sfumature, da settore a settore, il diritto ha così perso terreno, in generale, rispetto alle altre discipline che analizzano la convivenza sociale. È diminuito agli occhi della pubblica opinione il prestigio dei giuristi come studiosi sociali, percepiti sempre più come avvocati, tecnici del dettaglio, senza visione di insieme. Si è bloccato il naturale ruolo dei giuristi come studiosi sociali delle istituzioni pubbliche, con un ruolo analogo a quello che, per il mercato, svolge l’economia. Gli economisti hanno anzi legittimamente invaso il campo di indagine dei giuristi con l’“analisi economica del diritto”, mentre l’intervento pubblico in 84 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui economia è in buona sostanza “diritto”. Studiando “i materiali”, anziché le istituzioni, il diritto si è invece inaridito rispetto alle altre scienze umane, senza avvicinarsi a quelle della materia, considerato né carne né pesce, a Dio spiacente e a li nimici sui. Il diritto si è così trasformato in una materia “professionale”, per fornitori di “servizi legali”, incapaci di trovare la propria collocazione tra gli “studiosi sociali”, e di difenderla dalle conseguenti incursioni di altri studiosi sociali, tendenti istintivamente a occupare lo spazio vuoto lasciato da altri. Con la trasformazione dei giuristi in avvocati, essi hanno perso la capacità di essere un punto di riferimento culturale per le “autorità”, redattrici dei “materiali normativi”; al massimo, sono rimasti a svolgere una funzione notarile, di segreteria legislativa, senza contenuti progettuali. La subordinazione dei giuristi all’autorità politicoistituzionale è un riflesso dello pseudonormativismo e della tendenza degli operatori del diritto ad attendersi passivamente le soluzioni dalla politica, oppure a gettare il cuore oltre l’ostacolo, ricadendo disordinatamente nelle divagazioni politico-valoriali cui il normativismo teorico intendeva rimediare. Il suddetto preconcetto di parlare per riferimenti ha appesantito la letteratura, giuridica, frammentando il diritto in tanti compartimenti stagni, ciascuno abbarbicato ai propri “materiali”. Parlare per riferimenti ha condotto ad una specializzazione esasperata, dove si sapeva sempre di più su sempre di meno, fino a redigere tomi su questioni liquidabili con una battuta. Questa frammentazione ha accentuato l’autoreferenzialità e gli aspetti relazionali nella selezione degli studiosi (infra), ostacolato il controllo reciproco dei giuristi, e il controllo sociale “sui giuristi”, con rischi di personalismi, inquinamenti carrieristici e varie forme di mistificazione. A questa avvocatizzazione dei giuristi corrisponde una burocratizzazione delle istituzioni, comprese quelle giudiziarie, con la necessità di superare sempre maggiori pastoie per raggiungere la soluzione di volta in volta più sensata. La tendenza a parlare per riferimenti, anziché analizzare direttamente le istituzioni ha appiattito il diritto sul presente, danneggiando anche le comparazioni tra società diverse, molto difficili accostando contingenti “materiali “. Benché il diritto, come modo di argomentare, sia unitario, le legislazioni sono “settoriali”, e quindi sono una zavorra per i confronti internazionali, la comparazione tra epoche diverse, il dialogo tra giuristi di settori appena un po’ differenti. Le ricadute sulla macchina pubblica, e sugli stessi operatori del diritto, che con essa interagiscono, sono state diverse, per nazione e per settore. La nazione ha i suoi bagagli cultuali storico –formativi (par. 1.6), che preesistono ai vari settori del diritto, sulle cui specificità il suddetto atteggiamento pseudonormativistico si inserisce. Nei settori del diritto più tradizionali, e accessibili al bagaglio culturale della classe dirigente, i danni sono relativamente limitati; la pubblica opinione qui ha necessità di specialisti solo come “tecnici”, che possono perciò dedicarsi a questioni sottili, ancorché poco rilevanti come peso sociale, oppure alla professione. Si tratta di una giuridicità che si esplica nel processo, e guarda al giudice, anche per casi rari, oltre che accessibili, come incidenti stradali, prestazioni mal eseguite, liti condominiali, recupero crediti e altri incidenti abbastanza occasionali. CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 85 Nelle funzioni pubbliche di giustizia, e in parte di sicurezza, inoltre, la politica è meno coinvolta ideologicamente, meno condizionata da aspettative del gruppo sociale e dalle necessità di rispondergli gli effetti di “comunicazione politica” di cui al par. 2.4, più attente ad una equilibrata sintesi delle tendenze della società. Comunque, benché la sostanza di queste materie sia raggiungibile attraverso i materiali, pur faticosamente, l’appiattimento su di essi è stato sempre criticato dai teorici. Lo pseudonormativismo è più dannoso quando la giuridicità si esplica prima del processo, come appunto in tutto il diritto dei pubblici poteri diversi dalla funzione pubblica di giustizia (dove anche il giudice è un funzionario pubblico, secondo il filo conduttore di questo volume, dove anche il diritto civile è in un certo senso amministrativo). Lo pseudonormativismo è devastante per le istituzioni pubbliche non chiamate a giudicare, bensì a “fare”, ad operare, come in materia militare, ambientale, sanitaria, urbanistica, infrastrutturale, di sicurezza, e tante altre, compresa la determinazione dei tributi. Lo pseudonormativismo mette in ombra ogni giuridicità “amministrativa”, tipica di questi settori, dove un giudice indipendente può anche mancare, persino in paesi pluralisti e democratici, come è stato per l’Italia (consiglio di stato a parte) fino alla seconda metà inoltrata del secolo scorso. Lo pseudonormativismo, comunque, produce ancora danni relativamente limitati quando i pubblici poteri sono alla portata del bagaglio culturale delle classi dirigenti, come accade per sicurezza, difesa, sanità, ambiente, istruzione, cultura, etc...; inconvenienti nel diritto tributario. La particolare pericolosità dello pseudonormativismo emerge invece per le materie amministrativistiche complesse, come la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Sono argomenti troppo sofisticati perché la sostanza delle questioni sia raggiungibile attraverso riferimenti “ai materiali”; questi ultimi, d’altra parte, sono prodotti da classi dirigenti cui manca il supporto esplicativo degli studiosi, indicato all’inizio del paragrafo. Ciò allontana i materiali dalla sostanza delle questioni, come indicato al par. 2.4. Arrivare alla sostanza attraverso “i materiali” è qui ostacolato anche dai complessi intrecci di segmenti di materie diverse, coordinabili solo in funzione della determinazione tributaristica della ricchezza. Oltre che più complesso, il diritto tributario è anche più diffuso, troppo diffuso per essersi esaurito nella già indicata dialettica civilistica “legge-giudice”; basta pensare che la maggior parte delle persone non varca la soglia di un tribunale nel corso di una intera vita, mentre le imposte sono dovute con ricorrenze infrannuali. Inoltre, il principale problema tributario agli occhi della pubblica opinione, cioè la ricchezza non registrata dove le aziende non arrivano, è prevalentemente “di fatto”, e quindi sfugge “ai materiali”. Da qui a non considerarlo problema “giuridico” il passo è breve, e lo conferma l’atteggiamento sul tema della maggior parte dei manuali universitari, che inconsapevolmente confondono la “giuridicità” con l’esposizione di “materiali”, e la ricerca dei contenuti attraverso di essi. Lo pseudonormativismo porta a zigzagare tra parafrasi dei materiali, collegate tra loro con espressioni apparentemente in tema, ma prive di un reale senso compiuto sul 86 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui piano della determinazione della ricchezza, condite però con le divagazioni politiche di cui diremo. Anziché accostare e coordinare riflessioni e pensieri, si parla attraverso terzi, perdendo pian piano la capacità stessa di pensare. Fino ad arrivare al punto di chiedersi “dove sta scritto” davanti a qualsiasi ragionamento sensato, nel nostro caso sulla determinazione tributaristica della ricchezza, con cui pian piano si perde il contatto. Come è puntualmente successo, tlo pseudonormativismo si è trasformato in una specie di ”oppio dei tributaristi”, che ne intacca la capacità stessa di esaminare la sostanza del proprio settore, facendoli superare da altri analisti, come vedremo al par. 4.5. I primi sintomi dell’indebolimento del pensiero si avvertono con la mancata contestualizzazione dei materiali, alcuni dei quali vengono momentaneamente sopravvalutati, poi dimenticati, altri messi in dubitative contraddizioni, altri del tutto ignorati; invece di coordinare, contestualizzandoli, gli spunti circolanti nel settore, l’accademia si presenta riportando i materiali di passaggio &&&&&&, restando sempre al punto di partenza. Senza avvicinarsi alla soluzione e senza neppure capire il problema, cioè la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Si doveva arrivare alla sostanza passando attraverso i materiali, e invece vi si passa attraverso per non arrivare da nessuna parte, ma con estenuanti serie di citazioni, che sembrano liste della spesa, adombrando imprecisate “verità nascoste” nei materiali, spesso per nascondere la mancanza di contenuti. A forza di scrivere in questo modo, di non poter richiamare il bagaglio culturale dei lettori, in funzione dei nostri ragionamenti e delle nostre intuizioni, viene meno la voglia stessa di scrivere. Dover “pensare attraverso i materiali” somiglia a una specie di divieto di pensare, e fa passare, alla lunga la voglia di scrivere e di riflettere. Un polverone ricopre così il settore tributario negli studi professionali (par. 3.16), nelle aziende, negli uffici, inceppando l’esame diretto della determinazione tributaristica della ricchezza. Si producono così litanie di stereotipi riproduttivi di materiali normativi o dottrinali, collegati da frasi di cerniera, che ammiccano a potenziali interpretazioni dei materiali, lasciate sullo sfondo in modo prolisso, tortuoso, sussiegoso, tendenzioso o deferentemente rispettoso, a seconda di come si colloca l’autore nella gerarchia accademica. Questo passaggio attraverso i materiali consuma quantità enormi di energie intellettuali, rendendo tortuoso il ragionamento, più di quanto avrebbe potuto essere andando direttamente alle questioni. La mancanza di un senso effettivo all’interno di questi scritti non è però immediatamente evidente. Si tratta quindi di opere difficilissime da contestare, proprio perché si presentano apparentemente in tema; non è facile dimostrare a terzi che in questi casi la sostanza è solo apparenza. Se nessun passaggio è convincente, ma nessuno è palesemente fuori tema, è sempre più facile difendersi da una critica. Se invece ci si richiama ai contenuti ci si espone, perché nessun discorso di sostanza analizza tutta la sostanza, né la potrebbe analizzare bene, esponendosi quindi alla critica proprio a causa della propria accessibilità. Le decine, o centinaia di pagine, omogeneamente prive di contenuto, ma apparentemente in tema, si difendono invece l’un l’altra. Sono falangi macedoni di stereotipi inattaccabili prendendone una parte e chiedendosi cosa voglia dire, in quanto tutta l’opera è chiusa a difesa, nella CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 87 propria ineffabile inaccessibilità. Che consente di replicare al critico di non aver capito il “senso complessivo dell’opera”. Questi discorsi ineffabili, fumosi ed ellittici, né giusti né sbagliati, sono una costante nelle relazioni sociali, e le motivazioni possono anche essere comprensibili e nobilissime, come vedremo al prossimo paragrafo. Se però i discorsi apparentemente in tema prendono piede presso uomini di sapere, le attenuanti svaniscono e ci troviamo davanti a una mistificazione dolosa, con l’unica scusante di essere in buona compagnia. Impostore è chi cerca di accreditarsi come possessore di conoscenze di cui è privo, e a questo scopo cerca legittimazione, disorientando l’interlocutore con sussiegosi discorsi apparentemente in tema. Per le istituzioni, usare stereotipi e frasi di circostanza è un legittimo strumento per gestire in modo efficiente una posizione di potere; per chi aspira a una posizione “di sapere”, parlare senza dire nulla significa oggettivamente usurpare ruoli, in una impostura più o meno consapevole, attenuata solo dalla sua diffusione. Davanti al problema di legittimazione delle scienze sociali (sopra), il sussiegoso sproloquio è una risposta subdola, che diventa mistificazione, autodifesa preventiva dalle accuse di essere un bluff, rintuzzate accusando i critici di “non capire la profondità del messaggio”. Gli impostori giocano appunto sulla difficoltà di distinguere discorsi provvisti di senso (infra) e discorsi solo apparentemente tali, dove però la mancanza di filo conduttore viene presentata come indizio di chissà quali significati reconditi. L’appiattimento sui materiali si diffonde infatti per contagio in un ambiente timoroso e imitativo, che conferma la frase esoterica abyssus abyssum vocat. Questi scritti facili da redigere, che non impegnano il pensiero, lo fanno svanire gradualmente e inconsapevolmente, conducendo pian piano in un “buco nero” senza contenuti, che per le scienze sociali è l’inverso della scientificità. Manca infatti la sensatezza, che nelle scienze sociali, è per molti versi l’equivalente della verificabilità o falsificabilità nelle scienze della materia. La sensatezza è un presupposto indispensabile per valutare un’opera, un articolo, un discorso, che si sottrae in partenza all’analisi se invece disorienta il destinatario, mettendolo in difficoltà e impedendogli un assenso o consenso consapevole. È infatti impossibile esaminare “nella sostanza” ciò che di sostanza è privo, ma che finge di esserne provvisto ed è quindi solo in apparenza provvisto di “sensatezza”, o significanza (Scarpelli); sensatezza vuol dire solo presenza di quel filo conduttore necessario ad una valutazione da parte di un uditorio. Una volta superata questa fase si può passare al merito, alla condivisione o alla disapprovazione, tenendo conto dell’indimostrabilità empirica dei giudizi di valore (legge di Hume). Su questa premessa le riflessioni “disapprovate” sono molto meno insidiose dei discorsi solo apparentemente sensati. Vediamo però gli interlocutori degli studiosi sociali, cioè in campi dove mancano i ristretti gruppi di specialisti delle scienze fisiche, dove il controllo sociale avviene attraverso i risultati; le scienze sociali dovrebbero invece offrirsi in modo trasparente, lineare, al bagaglio culturale di vasti gruppi di interlocutori, in gran parte pubblica opinione e classe dirigente (par. 1.6); lo confermano gli antichi filosofi, che non discutevano certo tra loro, ma con la classe dirigente, gli spiriti elevati, le elites dell’epoca. Complicare le cose semplici, legittimandosi abilmente come “esperti” è una facile scorciatoia per avere 88 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui un po’ di credito nelle scienze sociali; è sufficiente infatti complicate ad arte questioni semplici; a quelle complesse, semplificate male, spesso sfugge, ma ci si orienta subito tenendo presenti i requisiti della sensatezza e della accessibilità, tipici delle scienze umane, dove la complicazione consiste nel coordinare molti concetti semplici, senza perdere la sensatezza. Chi ci prova tentare di semplificare concetti complessi, si espone alle critiche, se si fallisce, ed alle gelosie, se si riesce; con varie combinazioni intermedie. Per questo i discorsi apparentemente in tema sono socialmente pericolosi non per il loro contenuto, il che presupporrebbe un giudizio di valore, ma per la loro consistenza piena di vuoto, intrisa di riferimenti e divagazioni prive di senso compiuto. Per questo la determinazione della ricchezza ai fini tributari diventerà scientifica solo quando si comincerà a non considerare scientifici tali scritti; queste tortuose litanie, scritte per sfondare a colpi di monografie le porte delle università, non sono un danno in sé, ma screditano tutti i libri; il loro dilagare ha infatti bloccato le riflessioni sulla determinazione tributaristica della ricchezza, destrutturato la pratica del settore (cfr. il prossimo paragrafo), lacerato di polemiche inutili la società (par. 4.6), a conferma che il sonno della ragione produce mostri. Scatta così la curiosa contraddizione di criticare “il legislatore”, invocandolo subito dopo, perché risolva problemi di cui lo pseudonormativismo neppure mette a fuoco i termini, per via dei suddetti preconcetti metodologici di pensare attraverso i materiali. Non ci si accorge di alimentare, in questo modo, il circolo vizioso di cui al par. 2.4, con leggi emanate per rispondere a queste “critiche-invocazioni”; queste “critiche – invocazioni” fondono la bestemmia e la preghiera, senza capire che i giuristi dovrebbero aiutarsi da soli. Viene così alimentato il circolo vizioso, già indicato al par. 2.4, delle leggi emanate per dire di aver fatto qualche cosa, creando più problemi di quelli che risolvono. Il pregiudizio di dover “pensare attraverso i materiali” impedisce agli studiosi di essere un punto di riferimento per le istituzioni nella materia loro affidata; ci si restringe quindi in un approccio praticoide avvocatesco, secondo cui i mali del diritto starebbero nella politica, senza rendersi conto che il malato è proprio il diritto, inteso come punto di osservazione della convivenza sociale e dell’intervento pubblico. Pensando attraverso “i materiali”, quelli che dovrebbero essere studiosi sociali, si impantanano in questioni di dettaglio che le classi dirigenti neppure prendono in considerazione, dalla loro prospettiva. Oppure divagano, come vedremo più avanti, su temi di politica generale, venendo meno appunto ai già indicati obiettivi “di rigore” proposti dal normativismo. Questa disaffezione priva la classe dirigente e le istituzioni dei punti di riferimento che avrebbero dovuto venire dall’accademia, e quindi i “materiali” tendono a peggiorare. Nella pubblica opinione di intrecciano e coesistono spunti, intuizioni, molteplici e scoordinati, sulla determinazione tributaristica della ricchezza, cui in modo estemporaneo di cerca confusamente di dare un qualche seguito, creando un ginepraio. Ne deriva un aumento quantitativo (par. 2.4) e un peggioramento qualitativo dei “materiali normativi”. Lo pseudonormativismo indirettamente provoca “cattivi materiali normativi”, in un circolo vizioso dove, attraverso di essi, è sempre più difficile com- CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 89 prendere la sostanza. Questo circolo vizioso condiziona la stessa attività legislativa, presa tra invocazioni e delusioni della pubblica opinione, indicate al par. 2.4. Appiattendosi sui “materiali”, l’accademia imputa il malessere al legislatore, invocandone al tempo stesso l’intervento per rimediarvi. Queste simultanee critiche e invocazioni al “potere” dimenticano che esso è solo l’espressione del gruppo sociale, con tutte le sue incertezze e contraddizioni. È paradossale che studiosi del diritto, benché appiattito sulla legislazione, confidino nella razionalità di politici selezionati per lo meno in modo estemporaneo. Se neppure gli studiosi hanno colto la determinazione tributaristica della ricchezza, è strano che se le attendano da una politica preoccupata di coesione e consenso sociale, non di sistematizzazione dei concetti, spettante invece agli studiosi (par. 2.4). Qualche volta, le crisi di rigetto dell’appiattimento sui materiali spingono a cadere nell’eccesso opposto, sconfinando nelle divagazioni politiche che il positivismo giuridico voleva combattere. Dal pregiudizio di subalternità del diritto verso la politica si cade nella pretesa di insegnare alla politica a fare il suo mestiere, divagando sull’effetto economico-sociale dei tributi, sulla crescita, lo sviluppo, lo stato e il mercato, in una prospettiva politico economica distinta da quella della determinazione dei tributi, come indicato al par. 1.7. Il rapporto poco sereno con la politica spinge molti studiosi sociali a “scendere” in una politica già pletorica, che invece ha bisogno di supporti esterni. Invece di analisi delle istituzioni e della determinazione della ricchezza, chi si allontana dai materiali normativi divaga genericamente su profili economico politici (una volta si diceva la “butta in politica”), confermando il rapporto poco sereno tra diritto e politica indicato al par. 2.4. Anche quando si rimane più sul piano concettuale, riferendosi a valori giuridici come contraddittorio, trasparenza, difesa, buona fede, codificazione, ed altri, essi vengono enunciati isolatamente ed enfaticamente (come se fossero “valori assoluti), eludendone il coordinamento, che è poi il vero compito dello studioso sociale. Attribuire ad un fantomatico “legislatore” le disfunzioni sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari, è per molti versi un alibi per esorcizzare i sensi di colpa derivanti dalla trasformazione dei giuristi in avvocati, venendo meno – come rilevato sopra – al loro ruolo di studiosi delle istituzioni sociali. È infatti normale l’estraneità del civilista rispetto alle patologie sociali oggetto del processo, trascurando che invece l’oggetto del suo studio è l’“istituzione-giudice”. In materia tributaria l’attenzione alla professione (processuale) anziché alle istituzioni (amministrative) è confermata dalle energie dedicate ad aspetti “di rito”, soprattutto processuali e professionali (consulenzial-avvocateschi) ed alle lucrose pratiche sul regime della ricchezza registrata (il diversivo delle contestazioni interpretative di cui al par. 3.10) anziché al tema strutturale della determinazione della ricchezza e di quella “non registrata” (che tanto turba la pubblica opinione). Questa deriva professionale è accresciuta dal notevolissimo lavoro di consulenza generato dalla confusione di cui stiamo parlando. È un lavoro socialmente inutile nel suo complesso, ma professionalmente profittevole per la mancanza di retroterra teorico, di cui stiamo parlando. Lo sbilanciamento degli avvocati rispetto 90 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui ai giuristi è fortissimo, anche se i due ruoli possono sovrapporsi, in capo agli stessi individui, con varie sfumature. Il giurista sistematizza le riflessioni della classe dirigente in un settore, mentre l’avvocato legittimamente gestisce le pratiche che gli sono capitate; la professione offre al giurista utili spunti, ma rischia la dispersione casistica, senza collegamenti di ampio respiro e sacrificando la sistematizzazione. Del tutto legittimo fare professione, ma il giurista si distingue per aver affinato la sistematizzazione e il collegamento. Soprattutto senza confondere la realtà professionale, rilevante per il cliente, con la realtà sociale, rilevante per le istituzioni e le classi dirigenti con necessità di punti di riferimento, spiegazioni e risposte. Ritorneremo però al prossimo paragrafo sull’equivoco della “cultura professionale” come supplenza della cultura istituzionale. È questa la radice della confusione sociale sulla determinazione tributaristica della ricchezza, priva di un punto di riferimento per la pubblica opinione e le classi dirigenti. Queste ultime infatti, di fronte alla mancanza di un’accademia in grado di far loro da guida, riprendendo e organizzando le loro riflessioni, non perdono tempo: si rendono conto dell’inadeguatezza e dell’inutilità dei discorsi dell’accademia, la ringraziano cortesemente e tentano poi di andare per proprio conto, improvvisando nei modi indicati ai prossimi paragrafi. Lo stesso distacco è manifestato, nel loro complesso, dagli operatori pratici di cui al par. 3.16; salva l’imitazione acritica di pochi, la maggioranza si fa una idea distorta e negativa della “teoria”, cadendo senza accorgersene nell’appiattimento sui materiali “in versione professionale”, di cui al prossimo paragrafo. Ne riparleremo al par. 4.7, mentre ora torniamo agli effetti di quanto precede sulla stessa comunità scientifica, dove il già indicato appiattimento sui “materiali” ostacola le cooptazioni sui contenuti. La già indicata “alienazione” sui “materiali” distrae rispetto alla determinazione tributaristica della ricchezza, alimenta parametri inevitabilmente relazionali, inevitabili in tutti gli ambienti scientifici, ma qui non più arginati dai contenuti. Smarrendo questi ultimi, l’accademia perde il senso della propria esistenza, diventando una “espressione burocratica ”, finalizzata alla spartizione di cattedre. Alle quali corrisponde una capacità di inquadramento della determinazione dei tributi inferiore a quella diffusa nelle classi dirigenti. Senza contenuti, in preda ai noti sproloqui pseudoscientifici, senza ruolo sociale, la comunità scientifica trova il proprio collante solo nella riproduzione accademica dei singoli. Come se l’importanza dei giuristi dipendesse dagli allievi piazzati ad occupare le università, non dalla riflessione sulle istituzioni. Anche le questioni dei concorsi universitari sono un corollario deprimente dello svuotamento sostanziale del diritto, e andranno a posto quando il pensiero riacquisterà importanza rispetto ai già indicati sussiegosi sproloqui sui “materiali”. In materia tributaria questo svuotamento dell’accademia crea i danni sociali indicati ai prossimi paragrafi, dove vedremo che nessuno riesce a sostituirsi a un gruppo di studiosi dedicati, come polo di aggregazione delle idee. Poi parleremo delle vie di uscita al par. 4.7. CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 91 4.4. Segue: impossibilità di avere spiegazioni organiche da altri studiosi sociali, dai professionisti, dalle istituzioni, dai mezzi di informazione La carenza di spiegazioni sulla determinazione della ricchezza, indicata al precedente paragrafo, genera un vuoto che molti cercano vanamente di riempire, per varie ragioni che indicheremo. In questo paragrafo parleremo di studiosi di altre scienze sociali, di professionisti, di associazioni di categoria e istituzioni. Nel prossimo parleremo delle spiegazioni spontaneistiche, che si autoproducono nella pubblica opinione. Gli economisti furono i primi studiosi sociali a dedicarsi ai tributi, ponendosi però dal punto di vista economico, degli effetti sulla produzione e gli scambi; in quest’ottica essi giustamente valutavano anche la qualità della spesa, come precisato all’inizio del par. 1.7; sono analisi estranee alla determinazione della ricchezza ai fini tributari, collocata invece nella cornice delle istituzioni “politico-amministrative”. Alla determinazione della ricchezza sono estranei anche i ragionamenti economicopolitici sull’equità sociale dei diversi tributi, la progressività etc., anch’essi diffusi tra gli economisti. Qualche volta viene lambito anche il nostro tema, che però non è “centrale” in questi studi, molto di sostanza, ma un po’ astratti, specie se accompagnati da formalizzazioni matematiche e grafiche. L’analisi economica, proprio in quanto elaborata sugli scambi di mercato, è infatti inadeguata da sola a spiegare i comportamenti delle istituzioni “politico-giuridiche”, su cui torneremo al par. 5.3. Pur potendo utilmente integrarsi coi giuristi, specie analizzando il “peso sociale” dei fattori che incidono sulla determinazione tributaristica della ricchezza, gli economisti non possono sostituirli. Se per gli economisti hanno difficoltà di supplenze per il diverso indirizzo della loro vocazione teorica, i professionisti hanno il problema opposto. Qui l’indirizzo sarebbe anche giusto, però manca la vocazione teorico-sistematica. L’ambiente dei professionisti, e delle loro associazioni di categoria, è più giuridico e aziendale, ma non è sistematico proprio in quanto “pratico”; legittimamente infatti la professione è priva di ambizioni concettuali, seguendo contingenze e preoccupazioni più immediate. Il professionista non è infatti uno studioso sociale, come l’economista o il giurista, ma un prestatore di servizi a pagamento. Il suo orizzonte non è l’elaborazione di una teoria aderente alla realtà, ma la soddisfazione di bisogni pratici. I professionisti non vedono le riflessioni delle classi dirigenti come un oggetto da sistematizzare, considerandole invece uno strumento legittimo per i propri obiettivi professionali di convincere una qualche istituzione. L’orizzonte professionale è infatti inevitabilmente quello della gestione del contatto col cliente,della “raccolta del mandato”, dell’espediente tattico, della valorizzazione del risultato. L’obiettivo dei professionisti è il caso singolo, non la sistematizzazione dei concetti, ed il loro dinamismo mentale è perciò distorto dalla questione specifica, e disperso su innumerevoli dettagli, specialistico nel modo effimero e casuale commentato al paragrafo precedente. Il professionista non ha motivo di imporsi gratis sforzi di astrazione, analisi degli spunti generali nati nella pubblica opinione e loro comunicazione. Il punto di 92 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui vista professionale è il servizio al cliente, e si può essere ottimi avvocati senza una visione sistematica di ampio respiro. I professionisti, specie se scrupolosi, hanno però spesso bisogno di riflettere e confrontarsi sulle loro questioni, ed anche di contestualizzare un minimo il proprio ruolo e le proprie priorità, nel contesto di confusione indicato al par. 3.16.Vista l’inadeguatezza della pubblicistica accademica rispetto a questa necessità sono nate una editoria e una convegnistica dirette ai professionisti. Anch’esse però hanno risentito sia pure in modo diverso degli inconvenienti indicati al paragrafo precedente. Operatori editoriali di vario tipo hanno infatti alimentato un appiattimento più schematico-praticoide cercando di riempire, rivolgendosi ai professionisti, lo spazio lasciato vuoto dall’accademia. Gli autori sono spesso dei professionisti, che da un lato amano scrivere e dall’altro si accreditano con la pubblicistica, alimentando il proprio sistema di relazioni coi clienti. È una pubblicistica virtuale, effimera, che riparte ogni giorno da zero, senza sedimentarsi: queste aziende editoriali, molto utili per le banche dati online e per i software per la tenuta di contabilità e altri adempimenti, sono estranee ai contenuti sostanziali della determinazione tributaristica della ricchezza. È una letteratura adatta a un pubblico aziendal-professionale, ma anch’essa appiattita sui materiali, senza ragionamento. La possibilità di queste organizzazioni di valutare solo indirettamente i contenuti ha dato luogo ad una serie di equivoci, che hanno bloccato il tentativo di riuscire dove gli studiosi avevano fallito; l’unico aspetto positivo di questa letteratura è forse che non si preoccupa di “mostrarsi scientifica” complicando sussiegosamente questioni semplici. Del resto, vista la sua finalità professionale, quest’editoria neppure si pone il problema di sostituirsi all’accademia nel coordinare e organizzare le riflessioni della classe dirigente sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari; ciò persino quando queste organizzazioni, come il sole24ore, cercano di creare una “accademia parallela”, a proprio uso e consumo. Un enorme polverone sensazionalistico-praticoide di materiali normativi, più o meno parafrasati e chiosati, si riversa quindi sugli addetti ai lavori, aumentando il disorientamento già indicato al par. 3.16. Per attrarre e vendere, queste pubblicazioni sostituiscono il ragionamento con l’“aggiornamento”, le “novità”, legislative, amministrative o giurisprudenziali; questo continuo aggiornamento del nulla ha creato uno stato di incertezza e confusione, dove quest’editoria cannibalizza se stessa. Gli operatori del settore infatti progressivamente si disaffezionano, sempre più consapevoli di avere i materiali alla loro portata con ricerche ipertestuali nelle banche dati. Alcune riviste continuano ad essere acquistate per abitudine, e lette solo se spinti da un interesse professionale; le vendite diminuiscono anche per la moltiplicazione dell’offerta a causa di internet, che scalfisce l’intermediazione editoriale. La conseguente moltiplicazione dell’offerta editoriale non si è accompagnata ad un corrispondente aumento del tempo disponibile per i lettori, cartacei e informatici. Quindi la quota di lettori per pubblicazione è inevitabilmente minore, con un eccesso di informazione che ostacola il ragionamento, e quindi la formazione. Anche qui la moneta cattiva, sovrabbondante, scaccia quella buona, come avevamo visto per la pubblicistica universitaria (par. 4.3). Quest’ultima è indotta anzi a rivolgersi “ai professioni- CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 93 sti” anziché alle classi dirigenti, perdendo ulteriormente la propria funzione di punto di riferimento settoriale per la pubblica opinione. Alla fine gli scritti incisivi e gradevoli si diluiscono, molti operatori smettono di leggere qualsiasi cosa per aver trovato troppi scritti che, anche qui, parlano senza dire nulla. Neppure le aziende possono paradossalmente colmare le carenze formative sulla tassazione ragionieristica di cui esse stesse sono parte essenziale; proprio in quanto gruppi sociali tenuti assieme dalle prestazioni per il mercato, le aziende sono incapaci di spiegare i fenomeni sociali, in quanto ciascuna è legittimamente assorbita dal proprio specifico “business”.Vedremo ai par. 5.17 e ss. che le aziende, incapaci di rendersi conto della “tassazione attraverso le aziende”, che pure le coinvolge direttamente, sono a maggior ragione incapaci di spiegarla alla pubblica opinione. Anche le associazioni di categoria delle aziende, o gli organi di informazione di loro proprietà (sole24 ore), sono comunque troppo assorbiti dalle contingenze per essere poli di aggregazione delle riflessioni sulla determinazione tributaristica della ricchezza. Maggiore concretezza emerge spesso in associazioni di categoria “minori”, ma con sensibilità mediatica, come la CGIA di Mestre, associazioni di consumatori, e simili. Questa elaborazione non compete neppure alle istituzioni politico-amministrative, Agenzia delle Entrate in testa, che pure capiscono molto di quanto descritto in questo testo. La loro dirigenza, negli ultimi decenni, è stata anche quella più reattiva e propositiva nel comprendere la determinazione tributaristica della ricchezza. Il che è apprezzabile se si considera la “comodità istituzionale” dello “pseudonormativismo”, indicata al par. 4.3, dove le istituzioni, in un contesto drammatizzato e di discorsi solo apparentemente in tema, vedono enormemente aumentare il loro potere e la possibilità di profittarne. Tuttavia le istituzioni non hanno modo di supplire al ruolo esplicativo di una comunità di studiosi, non solo perché devono rendere conto alla pubblica opinione nei modi indicati al par. 5.3, rispettando le diverse concezioni dell’evasione tributaria, diffuse nella cultura di massa, quantunque intrecciate e contraddittorie (par. 4.5/4.6). Nel contesto socialmente lacerato che circonda la determinazione della ricchezza ai fini tributari, un ruolo esplicativo delle istituzioni rischierebbe anche di innescare polemiche politiche. Infine, esse hanno anche poche energie per immaginare e proporre sistematizzazioni concettuali della determinazione tributaristica della ricchezza, dovendo mantenere sbrigare contingenze operative, autoamministrarsi, gestire la quotidianità comunicazionale, gli eventi di circostanza, etc... Dispersiva, non derivando da istituzioni stabilmente collegate alla materia tributaria, è anche l’analisi di organi privi di una tradizione istituzionale nel settore; ricordiamo i c.d. “ispettori tributari”, il soppresso “comitato per l’interpello antielusivo”, la scuola centrale tributaria (oggi scuola superiore dell’economia e delle finanze), la Corte dei Conti, con analisi che ogni tanto “bucano” i mezzi di informazione, i vari servizi studi, come quello di Banca d’Italia. Analogamente dispersive le varie commissioni di volta in volta istituite da questo o quel ministro; perché quando la politica comprende l’importanza di un problema su cui non vede soluzioni, prende legittimamente tempo e mostra attivismo istituendo una commissione. 94 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Una spiegazione non può venire neppure dai mezzi di informazione, che inevitabilmente risentono il disorientamento della pubblica opinione, amplificandolo; ne derivano riscontri altalenanti dei diversi atteggiamenti della pubblica opinione davanti al fenomeno, indicati al par. 4.5. I “media” devono poi ottimizzare spazi brevissimi interessando lettori e ascoltatori, alle cui ricettività ed attenzione devono relazionarsi. Più sono brevi i pezzi, più diminuiscono le ricadute formative dei “media” e si rischia di impantanarsi sui luoghi comuni. I mezzi di informazione sono tuttavia importantissimi, per l’efficienza delle istituzioni, proporzionale alla capacità di valutazione della pubblica opinione nei vari settori, come vedremo al par. 5.3. Le scienze sociali, del resto, a differenza di quelle della materia, non si spiegano coi loro obiettivi e risultati, ma devono relazionarsi a un numero indeterminato di interlocutori, seguendone il bagaglio culturale e l’attenzione. Anche la determinazione tributaristica della ricchezza può essere veicolata in “pillole di comunicazione”, adeguate alle diverse circostanze, senza sussiego professorale nè facile enfasi “pro fisco” o “antifisco” (par. 4.6). In quest’ottica studiosi capaci di comunicare dovrebbero interagire con l’informazione, desiderosa di contestualizzare le notizie, oltre che di “audience”. È un dovere civico per entrambi. 4.5. I riferimenti sensati, ma semplicistici, al “senso civico”, alle “aliquote”, al “contrasto di interessi”, alla “ragionierizzazione delle stime” Davanti a una disorganizzazione, apparentemente inspiegabile, della determinazione della ricchezza, la pubblica opinione reagisce per proprio conto in ordine sparso. Sono risposte inevitabilmente estemporanee, in quanto chi le elabora è dedicato ordinariamente ad altri compiti (si pensi ad esempio alla varietà di argomenti cui deve interessarsi un politico o un giornalista). È la sorte delle ipotesi formulate da chi affronta queste tematiche per una funzione istituzionale occasionale, come quella di alto magistrato, presidente di una commissione parlamentare, di un gruppo di ricerca, o di una istituzione di settore. L’interesse alla determinazione della ricchezza ai fini tributari è diffuso, ma variabile in relazione ai punti di vista: la politica guarda al consenso e alla coesione sociale (par. 2.4), l’amministrazione pubblica deve “coprirsi” rispetto alla legge e fare “risultato di servizio” (par. 5.3), il giudice deve risolvere una controversia nel modo più agevole e meno criticabile possibile (paragrafo 6.10), i professionisti sono ingolfati come indicato al par. 3.16, gli studiosi sono paralizzati dagli equivoci metodologici di cui al par. 4.3, i giornalisti devono riempire una pagina o un programma TV, gli studenti ingurgitano qualsiasi cosa serva a superare l’esame. Uno sfacelo, insomma, dove nessuno, isolatamente considerato, riesce a smuovere gli stereotipi, teorici o pratici, che ricoprono il settore e inceppano il pensiero. Il bagaglio culturale della classe dirigente consente a molti di capire che il problema è la ricchezza non registrata, e di intuire alcune linee di intervento a prima vista sensate, ma scoordinate e riduttive rispetto alla complessità del problema. Sulla determinazione della ricchezza si intrecciano infatti varie culture giuridiche, azien- CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 95 dali, economiche e politiche, rispetto alle quali il bagaglio delle classi dirigenti, con le carenze di cui al par. 1.6, non permette una visione d’insieme e un controllo sociale sufficiente (che invece è possibile, come abbiamo visto al par. 4.3, per altri settori del diritto strutturalmente più semplici, come quelli civili e penali). Molti economisti, politici, pubblicisti, giornalisti, scrittori, organi professionali e istituzioni, tentano comunque una supplenza davanti alle mancate risposte accademiche. Davanti ai noti squilibri nella determinazione della ricchezza, molti esponenti della classe dirigente forniscono, nella massima buona fede, ricette per salvare la Patria. Sono tentativi apprezzabili, ma discontinui, scollegati tra loro, inevitabilmente personalistici, dove idee semplicemente sensate, ma ancora limitate, sono presentate come una ricetta risolutiva. L’affinamento, il coordinamento e la valutazione di realizzabilità di questi spunti richiederebbe l’impegno costante di un gruppo di studiosi dedicati, capaci di padroneggiare la realtà. Altrimenti alla cortina fumogena dei “materiali parafrasati” si affianca quella dei discorsi sensati, ma scoordinati, e ripetuti ripartendo sempre da zero. Senza questo polo di aggregazione, questi tentativi sono destinati a rimanere isolati, perché i rispettivi promotori sono a loro volta impegnati in altre parallele incombenze, politiche, istituzionali o giornalistiche. Qualcuno tenta di spiegare l’evasione fiscale con le aliquote troppo alte; ne derivano proposte, a prima vista accattivanti, di “aumentare il gettito diminuendo le aliquote”.Visto che in sede di controllo è difficile chiedere, per le grandi imposte (tra aliquote, interessi e sanzioni), più della ricchezza evasa, aumentare le aliquote “toglie spazio” alla portata dissuasiva delle sanzioni. Gli automatismi ragionieristici della tassazione attraverso le aziende, funzionano invece a prescindere dall’eccessività delle aliquote, e la loro riduzione incide pochissimo sull’evasione, mentre incide negativamente sul gettito. Abbassare le aliquote per tutti provoca infatti una perdita di gettito sulla ricchezza raggiunta dalle aziende, lasciando sostanzialmente indifferente, in assenza di un sistematico intervento valutativo degli uffici, quella dove le aziende non arrivano. Qualche fortuna ha anche la spiegazione basata sul “senso civico”, già anticipata al par. 4.2 a proposito dell’impatto della propaganda sull’autotassazione, e delle sue ricadute in termini di lacerazioni sociali. Queste spiegazioni trascurano infatti che il senso civico risponde a una media nazionale, senza frammentarsi per categorie economiche, secondo la determinabilità della ricchezza di ciascuno. Non esiste cioè un senso civico “fiscale”, un senso civico “ambientale”, un senso civico “educativo”, un senso civico “sanitario”, un senso civico “culturale”, un senso civico “sportivo” e via enumerando. Il senso civico, quindi, non cambia a seconda della distanza delle varie forme di ricchezza rispetto alla tassazione attraverso le aziende. Il senso civico non cambia a seconda delle tipologie di ricchezza possedute o con cui si ha a che fare, come se esistesse un senso civico dei lavoratori indipendenti, uno degli impiegati, uno dei risparmiatori, uno dei proprietari di appartamenti, uno degli esercenti un secondo lavoro e così via. Ciascuna categoria economica e sociale include contribuenti più timorosi e più spregiudicati, ma i comportamenti di massa dipendono dalla determinabilità della ricchezza, e dalla percezione della propa- 96 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui ganda (par. 4.2). Per questo la ricchezza dichiarata dove le aziende non arrivano, pur sottodimensionata rispetto alla realtà, è maggiore di quanto sarebbe se i contribuenti considerassero la probabilità di un controllo del fisco solo in base alla loro esperienza diretta, trascurando l’impatto dei “mass media”. Se i lavoratori indipendenti al consumo finale, pur evadendo ampiamente, dichiarano – nell’insieme – cifre non manifestamente inverosimili, non dipende da un loro superiore “senso civico”, ma dall’impatto della propaganda di cui al par. 4.2. Per questo è opportuno smetterla di chiamare “ladro di tasse” o “parassita” chi non è raggiunto del tutto dalla tassazione attraverso le aziende, con gli effetti sociali laceranti connessi all’equivoco concetto di “lotta all’evasione”, già indicato al par. 4.2 e di cui riparleremo al prossimo capitolo a proposito delle polemiche sul fisco. Anche i confronti internazionali confermano che quando si tratta di determinazione della ricchezza ai fini tributari nessuno è patriota; dove la ricchezza non è determinabile attraverso le aziende, una presenza, sistematica e valutativa, del fisco, è necessaria alla credibilità della ricchezza registrata. Secondo studi economici recenti, persino i lavoratori indipendenti di paesi con forte senso civico, e dove il contante è scarsissimo (par. 5.16), tendono a omettere la registrazione fiscale di buona parte della ricchezza. Nonostante questa mancanza di punti di riferimento, la pubblica opinione, intuisce la tassazione attraverso le aziende, e istintivamente tende a trasferirla dove le aziende non ci sono. È un filo conduttore che lega numerosissimi fenomeni apparentemente diversi, dalla “contabilità fiscale” del lavoratore indipendente (parr. 3.13 e 7.8), al c.d. “contrasto d’interessi” (cfr. paragrafo 9.3), agli scontrini e le ricevute fiscali di artigiani e piccoli commercianti (par. 7.7), alla “tracciabilità”(par. 5.9 e 5.16), ai divieti di usare il contante (par. 5.16 in fine), all’anagrafe dei conti bancari (par. 5.16). A tutti questi documenti viene attribuita una valenza quasi magica, mentre essi non assicurano la registrazione e dichiarazione fiscale del provento sottostante; tuttavia possono essere utili indizi contabili per una determinazione valutativa, come indicato al par. 5.9. In generale, la pubblica opinione non si accorge che la determinazione ragionieristica della ricchezza si giustifica solo dove esiste una azienda pluripersonale, con necessità di controllo interno, che il fisco utilizza poi a proprio uso e consumo. Esportare la contabilità presso casalinghe, pensionati, artigiani, studenti e venditori ambulanti è velleitario un po’ come “esportare la democrazia” in contesti tribali e feudali. La contabilità infatti non ha senso dove manca il controllo reciproco dei membri di un gruppo sociale, con procedure di emissione e archiviazione dei documenti, uno scadenziario degli adempimenti, e tanti altri passaggi solo pallidamente imitati dai professionisti incaricati della inutile “contabilità fiscale” di cui al par. 3.13. Con questa tendenza a “estendere la tassazione contabile”, si intreccia quella parallela a “ragionierizzare le stime”, su cui è tradizionalmente basata la tassazione valutativa attraverso gli uffici tributari. Sono entrambi sintomi, uguali e contrari, di un desiderio di coordinamento, di una inconscia aspirazione all’omogeneità del sistema, ottenibile invece solo diventando consapevoli della diversa determinabilità della ricchezza. Altrimenti si innesca la tendenza, in un contesto di tassazione ragionieristica attraverso CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 97 le aziende, a “ragionierizzare le stime”, su cui si basava per secoli, e deve continuare a basarsi, la valutazione della ricchezza da parte degli uffici. Forzatamente si tende invece a omologare questa stima al contesto ragionieristico tipico della tassazione attraverso le aziende. Istintivamente, istituzioni senza punti di riferimento cercano di formalizzare le valutazioni degli uffici in passaggi predeterminati, come negli studi di settore (par. 5.13), nell’accertamento “sintetico di massa” (par. 5.14), nell’utilizzazione ragionieristica degli “indizi contabili” (par. 5.9 e 5.16). Sono due istintive aspirazioni estemporanee alla sistematizzazione della determinazione tributaristica della ricchezza, su cui si inseriscono curiosi effetti di annuncio, tipici della lotta all’evasione in televisione (par. 4.2), e leggende metropolitane, come quella della tracciabilità, della fatturazione elettronica, del computer che sa tutto, una specie di meccanico Golem della lotta all’evasione, come se il grande fratello fiscale informatico potesse sostituirsi alle aziende dove gli uomini hanno fallito. Sono illusioni cui si collegano dichiarazioni pubbliche, messaggi politici e leggi manifesto, generiche, enfatiche e contraddittorie. Nascono innumerevoli “trovate normative”, anche sensate, ma riduttive e scoordinate, che ogni governo si ritiene in dovere di esibire per mostrare di “fare qualcosa contro l’evasione”; nasce una emergenza permanente, e inconcludente, fatta di “opposti isterismi ”, spesso provenienti, a singhiozzo, dalle medesime aree politico-culturali, il cui risultato è la moltiplicazione di adempimenti e rituali inutili sulla ricchezza registrata. Tra i vari filoni di pensiero sull’evasione quest’ultima diventa così una specie di “colpa collettiva”, da espiare caricando di adempimenti inutili la ricchezza registrata, cioè scontrini, ricevute, scritture contabili, spesometri, tracciamenti, divieti di uso del contante, digitalizzazione, codici fiscali anche sulle lettere d’amore etc... Nasce così una specie di inutile “cilicio fiscale”, come se queste incombenze fossero la penitenza per determinare magicamente, ai fini tributari, la ricchezza che non passa attraverso le aziende. La percezione della classe dirigente, senza spiegazioni e sistematizzazioni, arriva fin qua: riesce a intravedere alcuni aspetti della determinazione tributaristica della ricchezza, ma in modo sfocato, come nella caverna platonica che studiavamo al liceo. È una confusione in cui si inseriscono le strumentalizzazioni politiche e le lacerazioni sociali di cui al prossimo paragrafo. 4.6. Segue: le spiegazioni politicamente strumentali e socialmente laceranti Le sperequazioni nella determinazione tributaristica della ricchezza sono strumentalizzate, sul piano del consenso mediatico-politico, a seconda delle ideologie e delle convenienze politico-elettorali; ci si disperde su questioni irrilevanti rispetto alla determinazione della ricchezza, divagando sul rapporto “stato mercato”, sulla elevata pressione fiscale “nominale” (par. 1.7), sull’evasione come “perversione privata”, anziché “disfunzione della macchina pubblica” (par. 3.14 e infra). Sono diversivi sensa- 98 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui zionalistici mediatico-comunicazionali, disorganizzati, inconcludenti, ma riportabili a due tendenze di fondo. Per il vasto, e trasversale, partito della spesa pubblica l’evasione fiscale è un diversivo contro le accuse, generalizzate, di inefficienza e di sprechi nella macchina pubblica, alla base di un debito pubblico enorme, di una pressione fiscale più che nordeuropea, ma con servizi da terzo mondo; rispetto a queste accuse di inefficienza, l’evasione è vista come un diversivo rispetto alla disorganizzazione sprecona dell’intervento pubblico in tanti settori, compresa la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Invece di ammettere un fallimento organizzativo, si utilizzano come capro espiatorio gli “evasori fiscali”. Alla cui fantomatica perversione privata viene data, probabilmente in buona fede (il che è anche peggio), la colpa di una gigantesca disfunzione pubblica. L’incapacità di determinare in modo adeguatamente sistematico la ricchezza non raggiunta dalle aziende è infatti una disfunzione della macchina pubblica, e della percezione della publica opinione. Sono fuori luogo, in un testo diretto alla determinazione tributaristica della ricchezza, interrogativi su cosa sarebbe successo se tutti avessero pagato le tasse, ma probabilmente ci sarebbe stata la stessa leggerezza nella spesa, e i conti pubblici non sarebbero migliori di oggi. Sono diversivi che cercano anche di far leva sull’invidia sociale, visto che le maggiori possibilità di evasione riguardano gli operatori economici, ed i lavoratori indipendenti; non c’è da stupirsi che la “lotta all’evasione”, di matrice burocraticosindacale, sia usata, ai fini del consenso politico, in una specie di istintiva e fantomatica “via fiscale alla lotta di classe”. Una tendenza uguale e contraria spiega invece i malesseri fiscali con un’eccessiva presenza dello stato, cavalcando la già indicata inefficienza di tante funzioni pubbliche; le accuse di evasione fiscale ai lavoratori indipendenti sono rintuzzate con riferimenti al “doppio lavoro” (spesso in nero) di tanti dipendenti, alla loro pretesa pigrizia (in realtà riflesso della disorganizzazione dei pubblici uffici), alla c.d. ”evasione di sopravvivenza”, dall’affermazione sensazione dell’inutilità dei tributi, infine dall’eccessività delle aliquote. Anche gli inutili rituali della “lotta all’evasione”, indicati al paragrafo precedente, diventano un motivo di polemica verso un fantomatico “stato di polizia tributaria”. Tra questi estremi ci sono poi infinite sfumature intermedie, a seconda delle contingenze, dello stato d’animo e di come si combinano di volta in volta diverse intuizioni e sensazioni; alla maggioranza della pubblica opinione, l’idea dell’evasione non piace, anche se ne coglie le opportunità quando gli capitano. La sintesi di questi atteggiamenti è non tanto la ritrosia a pagare, ma il timore di non approfittare di opportunità fruite da altri. Si oscilla tra l’“io pagherei se pagassero tutti”, e il “su questo non pago perché nessuno al posto mio lo farebbe”. Ce n’è abbastanza per escludere che l’opinione pubblica accetti l’idea degli “evasori per tendenza”, per carattere, per intrinseca disonestà, come pure la sua spiegazione come “perversione privata” dei contribuenti; la pubblica opinione intuisce che per molti versi l’evasione è causata dal cattivo funzionamento della macchina pubblica, e segue abbastanza, quando gli viene presentata, la spiegazione proposta in questo libro, sul mancato coordinamento CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 99 tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici; la pubblica opinione intuisce che, sulla ricchezza non raggiunta dalle aziende, l’apparato pubblico mostra inefficienze superiori a quelle percepite in altri settori, senza rendersi conto di quanto vedremo al par. 5.3, cioè che è proprio la sua vaghezza di idee sul tema, e quindi la sua scarsa capacità di valutazione, a rendere poco efficiente l’attività degli uffici tributari. La mancanza di punti di riferimento in materia tributaria della pubblica opinione (par. 4.3 e ss), e le suddette spiegazioni socialmente laceranti, ostacolano non solo la macchina pubblica del settore, ma creano polemiche inutili; ci si disperde in inconcludenti accuse reciproche, sofismi, pretesti, salti logici e cortine fumogene, diversivi sui “grandi evasori”, costi della politica, economia criminale, ricette miracolose e altre divagazioni non pertinenti.Vedremo al par. 5.18 come questa tensione si scarichi alla fine, attraverso il diversivo delle contestazioni interpretative, proprio su quanto le aziende registrano, in un circolo vizioso che ostacola lo sviluppo del paese e l’organizzazione sociale, contribuendo alla sua crescente burocratizzazione e povertà. Su questi sfondi si collocano i battibecchi, sterili sul piano della determinazione tributaristica della ricchezza, tra fantomatici “partiti delle tasse” e “partiti degli evasori”, che riflettono le eccessive aspettative e le esagerazioni sull’importanza della politica, di cui al par. 2.4. Nessuna parte politica cerca ovviamente consenso propagandando l’evasione, anche perché i lavoratori dipendenti, facilmente tassabili attraverso le aziende, sono ben più numerosi degli “autonomi”. C’è piuttosto un diverso atteggiamento verso l’evasione, in cui alcune forze politiche capiscono che la criminalizzazione degli “autonomi” è elettoralmente perdente. Semplicemente perché, pur essendo meno numerosi dei dipendenti, il consenso perso presso di loro è maggiore di quello acquisito presso i dipendenti. Se dal punto di vista del consenso politico è intuitivo l’errore dalla criminalizzazione degli autonomi, dal punto di vista della ricerca sociale è ancora più distruttiva la criminalizzazione delle aziende, nei modi indicati ai par. 5.17 e ss., cui rinviamo. Il partito degli evasori è piuttosto un diversivo rispetto all’inefficienza dell’intervento pubblico, sbrigativamente giustificata da una ipotetica mancanza di fondi, mentre deriva dai problemi, purtroppo molto più gravi, di mancanza di bagaglio culturale, di organizzazione e di iniziativa. In questa cornice, i sostenitori i “duri e puri” della spesa pubblica finanziata dai tributi, continuano (sempre meno numerosi) a spiegare i mali italiani con l’evasione come “perversione privata”, senza capire le mille ragioni della sua natura di “disfunzione pubblica”. Da qui ad accusare di intelligenza col nemico chiunque cerchi di capire il fenomeno rifiutando atteggiamenti manichei il passo è breve. Questa grossolana spiegazione non si rende conto che la possibilità di evadere riflette la disorganizzazione, prima di tutto mentale, della pubblica opinione in materia di determinazione tributaristica della ricchezza; non serve, quindi, ai titolari di ricchezza non tassata attraverso le aziende, una concessione politica per evadere, perché gli basta la confusione contingente, che si auto produce, anche se nessuno la vuole. La situazione è talmente drammatizzata e schizofrenica che i tentativi di riflessione sono accusati di debolezza e connivenza, vuoi verso le tasse, vuoi verso gli evasori, con 100 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui atteggiamenti allucinati e intransigenti, simili a quelli degli antichi inquisitori. La pacatezza della riflessione, la coesione sociale, la consapevolezza della pubblica opinione, e la serenità del lavoro degli uffici certamente non ci guadagnano. La sintesi di questo polverone confusionario è una strisciante crescita, negli ultimi anni, delle tendenze “antifisco”, dovute forse alla crescente percezione della quantità di spesa pubblica improduttiva, a prescindere dalla presunta perversione degli “evasori”. Si percepisce anche in quale misura la macchina fiscale riflette, come vedremo al par. 5.3, il disorientamento diffuso nel paese, finendo per funzionare male, al di là delle intenzioni. Cresce pian piano la consapevolezza che il problema è la “richiesta amministrativa delle imposte dove le aziende non arrivano. Anche per questo la pubblica opinione è sempre meno sensibile alle gogne mediatiche, per fantomatiche evasioni fiscali, di operatori economici che creano ricchezza e lavoro. Tuttavia la macchina pubblica, in una società complessa, non va smantellata, bensì fatta funzionare, anche a proposito della determinazione della ricchezza ai fini tributari. È questo il nucleo della funzione degli studiosi del diritto tributario, che dobbiamo riprendere al prossimo paragrafo. 4.7. Spiegazioni istituzionalistiche in una cornice di unità del diritto e collegamento con altre scienze sociali La mancata comprensione della determinazione tributaristica della ricchezza provoca danni sociali gravi, che occorre superare. Prima di tutto comprendendo che un settore oggettivamente meno semplice degli altri ha bisogno di una teoria fatta di ragionamenti, non di riferimenti ai “materiali normativi”. Il punto di partenza è capire di cosa stiamo parlando, cioè di determinazione dei tributi, e quindi della (spesso difficile) determinazione della ricchezza. È un punto da spiegare alla pubblica opinione e alla classe dirigente, perché qui – a differenza della sanità, dell’istruzione, dell’ambiente, dove la percezione sociale della funzione pubblica sottostante è chiara, qui sfugge persino il concetto di determinazione tributaristica della ricchezza. Superando il circolo vizioso tra parafrasi dei materiali e divagazioni politiche, ci si deve chiedere quali variabili influiscono sulla determinazione dei tributi, e come devono essere coordinate e contemperate, dando a ciascuna un peso specifico. Iniziamo dalle forze utilizzabili per teorizzare la determinazione della ricchezza ai fini tributari, che richiede uno sforzo affrontabile solo facendo appello alle energie mentali rimaste in tutti gli ambienti culturali indicati ai paragrafi precedenti, cioè accademico, professionale, istituzionale, dell’informazione e di settori contigui delle scienze sociali. Il punto di partenza è andare direttamente alle questioni, senza la mediazione dei “materiali”, secondo il concetto di “scientificità” illustrato al par. 4.3. È l’unico modo per contestualizzare i “materiali” in funzione delle istituzioni, og- CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 101 getto del giurista come scienziato sociale; in relazione alle istituzioni vanno poi organizzate le riflessioni diffuse tra le classi dirigenti e la pubblica opinione sulla determinazione della ricchezza. È questo il “dato sociale” da sostituire al “dato normativo”, nel ruolo del “dato naturale” delle scienze fisiche, su cui ci siamo soffermati al par. 4.3. La difficoltà è il coordinamento di molte riflessioni semplici, che gli interlocutori singolarmente intravedono, ma tra cui si disperdono, in quanto numerose, intrecciate e di diversa importanza. Lo studioso sociale deve solo metterle in ordine in modo sensato, mantenendole vitali, riadattandole ai diversi contesti, mantenendo l’interesse dell’interlocutore senza disorientarlo. La pietra di paragone è la semplificazione di intrecci complessi tra riflessioni semplici, non la complicazione di una riflessione semplice, resa esteriormente scientifica con divagazioni prolisse e pedanti. Si tratta piuttosto di mantenere la semplicità anche coordinando una pluralità di riflessioni sulla determinazione della ricchezza, come quelle già anticipate al par. 1.9; cioè la precisione, la semplicità, la snellezza amministrativa, la prevedibilità dei comportamenti, la cautela contro le evasioni. Tra queste ed altre esigenze le varie istituzioni cercano, dal loro punto di vista, di porsi come interpreti dell’interesse generale. Tra i profili appena accennati, nonostante lo pseudonormativismo di cui al par. 4.3, solo la prevedibilità dei comportamenti ha a che fare con i “materiali normativi”, rendendo ingiustificato, nonostante lo pseudonromativismo, l’appiattimento su di essi. Il criterio per considerare “giuridico” un ragionamento non è quindi il suo diretto riferimento a “norme”, bensì la sua idoneità a spiegare, con riferimento a “norme”, valori e buonsenso, il comportamento delle istituzioni (e degli individui con riferimento ad esse). Queste considerazioni giuridiche confinano con la politica, quando vengono in considerazione coesione e consenso sociale, e con l’economia, quando si tratta di scambi di merci e servizi (la sociologia è invece genericamente finalizzata a tutti i comportamenti dei gruppi sociali in genere). Con questa metodologia istituzionalista sarà finalmente possibile capire di volta in volta il peso dei “materiali” e riuscire a contestualizzarli, come indicato al par. 4.3; è così evitata l’incertezza del diritto di ritorno, cioè quella specie di anarchia dove tutti i materiali sono sullo stesso piano, e ognuno punta su quelli che ritiene più adatti alla tesi che ritiene più corretta, o che gli conviene. Si recupererebbe così, secondo il proposito della premessa, il “diritto tributario” rispetto alla “legislazione”, ormai del resto accessibile attraverso qualsiasi banca dati, mentre mancano i giuristi per contestualizzarla, coordinando le riflessioni della pubblica opinione sulla determinazione dei tributi. Quest’antico ruolo analitico-propositivo dei giuristi, in parte superato dalle codificazioni per la funzione di giustizia, deve essere trasferito nei nuovi spazi giuridici aperti dall’espansione dell’intervento pubblico, compresa la determinazione della ricchezza ai fini tributari, cui si riferisce questo libro. A tal fine sono necessari poli di aggregazione e di confronto, che saranno indispensabili finché durerà la tassazione attraverso le aziende, e quindi le aziende, cioè una società relativamente organizzata, con ruoli articolati. Se per ipotesi si dovesse 102 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui arretrare verso un’era analoga a quella “agricolo-artigianale”, cioè il medioevo post industriale di cui al par. 5.19, tornerà necessariamente centrale la tassazione valutativa attraverso gli uffici; a questo punto, probabilmente, una opinione pubblica imbarbarita non avrà più bisogno di un punto di riferimento per la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Un gruppo di studiosi sociali dedicati al tema può contribuire ad evitare questo epilogo; la politica deve infatti pensare alla coesione sociale e al consenso, i giudici a smaltire le pratiche, i pubblici uffici all’immagine e al “risultato di servizio” (par. 5.3), le aziende a produrre merci (par. 4.4), i giornalisti a fare audience (par. 4.4) etc... Nessuno di questi organismi ha compiti di formazione sociale, di spiegazione al resto della società, di cui essi stessi sono a loro volta emanazioni, facendovi corto circuito. Il coordinamento delle idee spetta quindi a un gruppo di studiosi, e sarebbe per certi versi più semplice trovare le energie necessarie in una accademia molto numerosa, rispetto alla settorialità della materia; bisognerà vedere se i danni metodologici indicati al par. 4.3 sono superabili, o se è preferibile costruire un polo di aggregazione nell’alveo del diritto dei pubblici poteri, come accaduto per le materie urbanistiche, ambientali, sanitarie, della sicurezza, dell’istruzione, della cultura, etc. La ridotta dimensione del settore scientifico è infatti forse una delle cause delle degenerazioni relazionali indicate al termine del par. 4.3, del suo ripiegamento sui dettagli professionali, dell’inadeguatezza del suo livello di comunicazione e padronanza del proprio settore rispetto a quello medio della classe dirigente che vi si dedica. Inoltre la tendenza all’unitarietà istituzionalistica del diritto si fa strada, ed è stata recuperata anche per altri campi del sapere giuridico, come quello agrario, quello delle procedure fallimentari, quello delle assicurazioni, quello della contabilità di stato. Ciò si inquadra perfettamente nel filo conduttore secondo cui il diritto è unitario, e solo “la legislazione” ha oggetti diversi. Studiosi incardinati in una comunità più generale di giuristi potrebbero forse valorizzare meglio la determinazione della ricchezza in una cornice amministrativistica, oggi messa in secondo piano dalle aziende, come organizzazioni incaricate della determinazione dei tributi. Staremo a vedere se l’accademia riscoprirà il proprio ruolo culturale, la propria giuridicità amministrativistica finalizzata alla determinazione della ricchezza anziché ai “materiali” e agli “effetti economico-sociali delle imposte”. In caso contrario bisognerà spiegare, ad una pubblica opinione desiderosa di un colpevole, che l’accademia continua ad essere, sia pure per disfunzioni metodologiche generali indicate al par. 4.3, il problema, anziché la soluzione. L’importante non è comunque l’etichetta o la geografia accademica, ma la serietà delle riflessioni, cui speriamo di contribuire anche con la rivista “dialoghi tributari” e i siti internet.La determinazione tributaristica della ricchezza deve essere analizzata andando al di là dei “materiali normativi”, e senza cadere nelle divagazioni politico-ideologiche che la corretta impostazione del normativismo voleva contrastare (par. 4.3). Trattandosi della determinazione della ricchezza ai fini tributari, l’impostazione sarebbe naturalmente “amministrativistico-economica” conformemente alla collocazione CAPITOLO 4 – DETERMINAZIONE DELLA RICCHEZZA... 103 della tassazione nell’ambito dell’attività dei poteri pubblici, esistenti sullo sfondo anche quando in concreto non intervengono. Il passaggio più complesso è la determinazione della ricchezza, utile a spiegare serenamente le apparenti sperequazioni e le possibilità di attenuarle, senza le laceranti criminalizzazioni e le fantomatiche disonestà, indicate al paragrafo 4.6. Il passo successivo, in questa cornice, è coordinare la tassazione ragionieristica della ricchezza attraverso le aziende e quella valutativa attraverso gli uffici. Questa spiegazione più serena riporterebbe la ragionevolezza negli uffici, superando le diffidenze e i timori di cui ai par. 5.3, 5.7, 5.11; svanirebbe così il timore di assumersi responsabilità, che spinge alla cautela e complica l’intervento degli uffici, riducendone l’impatto proprio per il loro timore di esporsi a critiche. Spiegando in modo sereno, e non “criminalistico”, la ricchezza non raggiunta dalle aziende, gli uffici si esporranno serenamente nella relativa stima per ordine di grandezza. Una volta capito l’obiettivo di perequata (per quanto possibile) determinazione della ricchezza, l’intervento degli uffici potrà così essere più sistematico, riconducendolo ad una ordinaria funzione pubblica, superando la mentalità dell’emergenza e le più volte indicate drammatizzazioni. Esse si collegano all’idea fuorviante di “lotta all’evasione”, che mette in ombra e disorienta la funzione pubblica di determinazione della ricchezza, come se la funzione educativa fosse chiamata “lotta all’ignoranza”, quella sanitaria “lotta alla malattia”, quella ambientale “lotta ai rifiuti”, quella della viabilità “lotta al traffico”, quella economica “lotta alla povertà” etc... Recuperare la serenità sociale sulla determinazione tributaristica della ricchezza è quindi il presupposto per interrompere il circolo vizioso in cui le colpe della ricchezza non registrata ricadono su quella palese, esposta alle pignolerie interpretative di cui al par. 5.17 ss., col boomerang sociale ivi indicato. L’aumento del controllo valutativo del territorio, secondo le modalità indicate al par. 5.7, si aggiungerebbe all’attuale impatto propagandistico indicato al par. 4.2, e consentirebbe di avvicinarsi al famoso obiettivo di “pagare meno pagare tutti”. Una volta spiegata, e sdrammatizzata, la determinazione tributaristica della ricchezza, tutti gli imbarazzi istituzionali, i disorientamenti, le strumentalizzazioni, i discorsi tortuosi svanirebbero. Non può esservi infatti semplificazione legislativa, nella determinazione della ricchezza, senza una semplificazione mentale. In questo settore, come in tutti gli altri, paragonando la società a un corpo umano, il funzionamento del cervello è la precondizione perché funzioni tutto il resto, e quindi occorre il coordinamento, qui sostenuto, tra determinazione contabile ed estimativa della ricchezza, evitando equivoci col diverso profilo degli effetti economici dei tributi. Su queste basi sarà possibile semplificare e sdrammatizzare, raggiungendo così serenità e certezza del diritto, che non si trovano nelle leggi, ma nelle istituzioni. A questo punto sarebbe possibile superare la situazione da incubo degli operatori del settore (par. 3.16), la maggior parte dei quali vuole solo fare un lavoro chiaro, guadagnarsi da vivere e tornare a casa tranquilla. Questo rasserenamento ambientale consentirebbe ai professionisti di superare l’attuale situazione da incubo descritta al par. 3.16, lavorando più sereni e vedendosi riconosciuto il proprio ruolo, a tutti i livelli. La pubblica opinione e 104 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui la classe dirigente, una volta tranquillizzate, inevitabilmente affideranno la determinazione tributaristica della ricchezza a chi se ne intende, cioè ai tributaristi, senza interferenze, faticose per chi le fa e per chi le subisce. Sarebbe così rilanciato, sul piano della determinazione tributaristica della ricchezza, anche il ruolo dei teorici. Che in un’ottica consulenziale sono tecnici di controversi dettagli, avvocati anziché coordinatori dei vari profili che influenzano la determinazione della ricchezza ai fini tributari. Ricordiamo infatti che, nei paesi tributariamente più sereni, gran parte degli aspetti tecnici, gestiti in Italia per legge (par. 2.3), sono affrontati col buonsenso di amministrazioni e organi professionali, in grado di sistematizzare il loro settore a beneficio delle classi dirigenti; le quali ricambiano con un riconoscimento di autorevolezza, e con la delega ad occuparsi degli aspetti specialistici. Questo supporto alle istituzioni e alla classe dirigente è la premessa, per la comunità degli studiosi del settore, di vedersi attribuita una “competenza riservata” sulla determinazione tributaristica della ricchezza, di cui la politica sarebbe ben felice di alleggerirsi, concentrandosi sugli effetti economici dei tributi e sulle aliquote. Gli studiosi della determinazione tributaristica della ricchezza, fornendo alle classi dirigenti lo strumento per esercitare il loro “controllo sociale” su questo aspetto, otterrebbero un po’ di voce in capitolo anche su quelli contigui, come gli effetti economici dei tributi. Solo dedicandosi alla determinazione tributaristica della ricchezza, anziché ai “materiali normativi”, ai dettagli professionali o alle divagazioni sociologiche, gli studiosi del settore potranno guadagnarsi una “competenza riservata “. È questa l’essenza del giurista come tecnico dedicato alle istituzioni di un determinato settore, con le istituzioni politiche in genere che ne ascoltano il parere, e l’opinione pubblica che valuta nel complesso gli effetti sociali dei tributi. Speriamo bene. Capitolo 5 LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE TRA RICCHEZZA NON REGISTRATA E CONTESTAZIONI INTERPRETATIVE Sommario: 5.1. Poteri amministrativi ed entrate pubbliche (tariffe, tasse in senso stretto, monopoli, contributi, imposte etc...) – 5.2. Le istituzioni tributarie (Agenzia delle Entrate – Guardia di Finanza – uffici comunali – concessionari, etc.) – 5.3. Le amministrazioni tributarie tra immagine istituzionale e protezione del singolo – 5.4. Le istruzioni ai contribuenti come funzione amministrativa tributaria (modulistica, assistenza e interpretazioni amministrative) – 5.5. L’acquisizione delle dichiarazioni, e il loro controllo di correttezza formale e documentale – 5.6. Indagini interne e internazionali, relativi vizi e poteri di verbalizzazione amministrativa – 5.7. Gestione dei dati e finalità del controllo valutativo degli uffici: la “tax compliance” – 5.8. Empirismo probabilistico e valutativo nella determinazione della ricchezza non registrata. (Le questioni di fatto nel diritto tributario) – 5.9. Segue: necessità di coordinamento tra controlli contabili e valutativi: gli “indizi contabili” – 5.10. Stima della ricchezza non registrata, discrezionalità e “indisponibilità” del credito tributario – 5.11. Segue. I sospetti di connivenza o negligenza come ostacolo a una serena valutazione della ricchezza – 5.12. Segue. Inadeguatezze della normativa sulla prova della ricchezza non registrata (ambiguità dei concetti di accertamento analitico contabile e induttivo extracontabile) – 5.13.Valutazione amministrativa della ricchezza non registrata, tra indizi fisico-economici e studi di settore (rinvio agli indizi finanziari al par. 5.16) – 5.14. Tenore di vita e spesa “privata” come indizio di ricchezza non registrata (accertamenti “sintetico-redditometrici”) – 5.15. Quale intervento amministrativo su manifestazioni collaterali o sporadiche di ricchezza? – 5.16. Incroci, banche dati, e tracciabilità: illusioni e realtà su altri “indizi contabili” – 5.17. Le aziende come paradossale capro espiatorio dei malesseri creati dal loro ruolo di “esattori del fisco” – 5.18. Richiami ed esemplificazioni sulle contestazioni interpretative: la difficile difesa contro “l’inferno del dichiarato” – 5.19. Segue: il controproducente controllo obbligatorio delle grandi aziende: quando i controlli fiscali “si sprecano” – 5.20. La tassazione per condono: una conferma della tendenza ad “amministrare per legge” 5.1. Poteri amministrativi ed entrate pubbliche (tariffe, tasse in senso stretto, monopoli, contributi, imposte etc...) Le varie entrate pubbliche, con le loro diverse sfumature già indicate al capitolo 1, devono qui essere collegate col ruolo delle pubbliche autorità, che in questa materia sussiste sempre, ed il cui contenuto è spesso intuitivo, altre volte complesso. Tale ruolo sussiste non solo per le imposte, ma anche per le tariffe, per molti aspetti puri e semplici “prezzi”. 106 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Le c.d. “tariffe”, riferite a servizi idrici, elettrici, di trasporto, sono però corrispettivi un po’ diversi dal prezzo di un bene qualsiasi, come un vestito o una bicicletta, perché dipendono da un ruolo regolatorio o concessorio delle pubbliche autorità. In un ruolo di concessione, supervisione e controllo è infatti in genere presente un’autorità amministrativa, spesso regolatrice del servizio; l’autorità analizza il modello aziendale di fornitura del servizio per premiare l’efficienza col profitto; la già indicata matrice amministrativa non riguarda quindi tanto il rapporto tra utente e fornitore, quanto nell’assetto organizzativo di cui il fornitore fa parte, con i già menzionati interventi pubblici di regolamentazione del servizio e di controllo. È un compromesso tra stato e mercato, che reciprocamente interagiscono, secondo il solito gradualismo delle scienze sociali, prive di compartimenti stagni. Il relativo finanziamento avviene grazie ai corrispettivi degli utenti, esempio classico del c.d. “principio del beneficio” (anticipato ai paragrafi 1.2 e 1.8). In tale sede abbiamo visto che col principio “del beneficio” la spesa pubblica è posta in prima battuta a carico di chi si serve del relativo servizio, organizzato direttamente o indirettamente dall’autorità pubblica. Biglietti di trasporto, allacci fognari, utenze idriche, occupazioni di aree pubbliche, sono “servizi divisibili”, cui è possibile collegare una tariffa. Chi se ne serve paga una somma, calcolata dal pubblico potere simulando per quanto possibile criteri “di mercato”; ciò dovrebbe portare a maggiore efficienza, ed è compatibile con sovvenzioni per consentire ai più bisognosi di ottenere servizi essenziali, per i quali non possono pagare. Per molti versi le tariffe pongono problemi di incasso coattivo, da parte dell’ente pubblico o del suo concessionario, con strumenti di coercizione diretta amministrativa (è una “zona grigia” tra pubblico e privato su cui sarebbero opportuni approfondimenti, anche se appare abbastanza chiara l’irrilevanza delle tariffe ai fini del calcolo della c.d. “pressione fiscale” di cui al paragrafo 1.7). Le c.d. tasse in senso stretto rientrano invece già tra i tributi, in quanto percepite da un soggetto che esercita non solo “un servizio”, ma “una funzione” pubblica; all’esercizio di tale funzione corrisponde la richiesta di una somma (tassa) al destinatario della rispettiva competenza funzionale. Le istituzioni esercitano qui le loro funzioni secondo criteri che neppure simulano quelli di mercato, come avviene invece per le tariffe; si pensi ad aspetti dell’organizzazione sociale di stretta competenza pubblica, come l’anagrafe e lo stato civile, la giustizia, l’urbanistica, la sanità, l’istruzione, etc... Sono interventi necessari per finalità generali, secondo l’assetto politico di volta in volta dominante, ma che costituiscono anche il presupposto della richiesta di contribuzione; si pensi a ticket sanitari, tasse scolastiche, contributi di urbanizzazione, varie forme di diritti “anagrafici” o “di giustizia”, oppure “di trasporto”, come le “tasse di imbarco” aeroportuali”, per il rilascio di licenze, documenti o certificati. In tutti questi casi il potere politico di vertice decide di istituire una determinata funzione pubblica, sostenendone le spese, ma richiedendo anche un contributo a chi interagisce con esse. La giustizia, la sanità, l’urbanistica, l’istruzione, sono funzioni che il pubblico potere decide di allestire indipendentemente dalle contribuzioni di chi interagisce con esse. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 107 Qui non c’entra l’economicità del servizio, come nelle tariffe, né la ricchezza, come vedremo per le imposte; per questo, giustamente, la corte costituzionale ha escluso l’applicabilità alle tasse dell’art. 53. Nelle tariffe e nelle tasse, quindi, la ricchezza potrebbe rilevare “alla rovescia” rispetto alle imposte, nel senso che dovrebbero essere previste delle esenzioni a favore dei soggetti bisognosi; è un terreno scivoloso per via delle incertezze sulla valutazione dello stato di bisogno, indicate al paragrafo 2.2 a proposito dell’ISEE. Trattandosi in genere di importi modesti, non si giustificano i costi fissi di un contenzioso, e per questo sono casi rari, a quanto ora mi risulta; sarebbe da approfondire, ma non me ne constano esempi, l’eventualità di un contenzioso tra l’ente pubblico, che rifiuta l’esercizio della funzione, ove sia omesso il pagamento della tassa (o della tariffa), ed il privato che la ritiene non dovuta. Quanto precede costituisce un ostacolo alla tendenza degli ultimi anni a trasformare molte tasse in “tariffe”, la cui finalità è consentire il controllo della qualità del servizio da parte dei clienti, introducendo parametri di efficienza aziendale, secondo il principio del beneficio, su cui par. 1.8; l’apparato pubblico quindi si aziendalizza, e sbiadiscono i ricordi di quando erano militarizzati, e in divisa, persino netturbini, portalettere e bigliettai del tram. Questa tendenza a trasformare le tasse in prezzi è ostacolata dalla difficoltà di “”misurare” il godimento di taluni servizi, come quello di smaltimento dei rifiuti (paragrafo 10.10). Si parla di «contributi» per definire entrate pubbliche di diversa natura, e costituisce un sinonimo per qualsiasi “tributo”, attraverso cui genericamente si contribuisce alle pubbliche spese. Ci sono poi i “contributi previdenziali”, percepiti da un ente pubblico (prevalentemente l’INPS) a tal fine dotato di poteri autoritativi; il collegamento col beneficio specifico rappresentato dalla pensione è il motivo per cui non lo si inserisce a pieno titolo nel concetto di “tributo”. Ci sono poi i contributi a carico degli appartenenti a una certa collettività, indistintamente beneficiaria di un’attività dell’ente percettore, come i contributi di urbanizzazione o di bonifica. Per reperire entrate, il pubblico potere ha spesso riservato a sé stesso alcune attività particolarmente profittevoli, in regime di “monopolio”. La storia ci ricorda esempi generali di antichi monopoli, come quello del sale, quello delle banane, oppure quello dei tabacchi e del gioco d’azzardo. In alcuni casi, come quello del sale, la produzione veniva gestita da aziende statali, ma è più frequente la concessione a privati, come accade per i suddetti monopoli dei tabacchi e del gioco d’azzardo. L’affidamento in concessione, attraverso gare trasparenti e aperte a tutti, è l’unica modalità di esercizio del monopolio compatibile coi principi comunitari (par. 2.6). Le entrate pubbliche sopra indicate esprimevano in varia misura una correlazione con una qualche attività verso il soggetto chiamato a pagare, e quindi col cosiddetto “principio del beneficio”; quest’ultimo cerca di mettere la spesa pubblica a carico di chi utilizza le relative attività pubbliche, mentre il grosso delle entrate pubbliche è coperto con le imposte, a fronte delle quali non si riceve direttamente nulla e che quindi rendono necessaria una attività amministrativa di “richiesta”; l’espressione “le tasse si pagano quando qualcuno le richiede” utilizzata spesso in questo libro, si ri- 108 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui ferisce tecnicamente alle “imposte”, dove l’espressione stessa richiede qualcuno “che ne imponga” il pagamento ai titolari delle relative manifestazioni di ricchezza. L’imposta prescrive quindi “un sacrificio” alle manifestazioni di ricchezza, e il “principio del sacrificio” si contrappone nella letteratura economica a quello del “beneficio” indicato sopra. Il beneficio imita maggiormente criteri di mercato, responsabilizzando sia l’utenza sia i centri di spesa pubblica, per ragioni esposte in altra sede. La natura tributaria, o meno, delle suddette entrate pubbliche, rileva soprattutto sotto il profilo processuale, indicato al successivo paragrafo 6.7. Esaminando, in quest’ottica di “riparto di giurisdizione” le varie entrate pubbliche suddette va registrata una tendenza ad ampliare la nozione di tributo, inserendovi anche contributi a consorzi, quote di iscrizione ad albi professionali, diritti aeroportuali di imbarco dovuti dalle compagnie aeree alle società di gestione degli aeroporti, operanti in regime di concessione, le quote di iscrizione alla camera di commercio, la TIA (tariffa per lo smaltimento dei rifiuti) ed altre entrate caratterizzate da una imprecisata “coattività”. Quest’ultima viene riferita anche a casi dove manca una amministrazione pubblica, ed un atto autoritativo. Persino le quote di iscrizione ad albi professionali e alle camere di commercio sono state ritenute “tributi”; lo stesso per le decurtazioni stipendiali per alti dirigenti pubblici e magistrati, palesemente riduzioni stipendiali, finalizzate al contenimento ex lege della spesa pubblica. È un aspetto di un più generale disorientamento concettuale, che ci accompagna in tutto il testo, e che solo punti di riferimento teorici possono contrastare (par. 4.7). 5.2. Le istituzioni tributarie (Agenzia delle Entrate – Guardia di Finanza – uffici comunali – concessionari, etc.) Anche in materia di tributi, le autorità amministrative esercitano poteri unilaterali autoritativi, come vedremo al par. 6.1 per gli atti impositivi, le indagini inquisitorie, i poteri certificativi (par. 5.6 sulle verbalizzazioni, che fanno fede fino a querela di falso), la possibilità di infliggere sanzioni, e molte altre prerogative esercitabili senza l’ausilio del giudice; non si tratta di scelte legislative contingenti, ma di un riflesso delle istituzioni amministrative come emanazione del gruppo sociale, investite di poteri esercitabili in via di autotutela amministrativa. Il giudice subentra se richiesto dai privati contro abusi e negligenze dell’autorità amministrativa; esso è, come in tutte le articolazioni del diritto amministrativo, una seconda istituzione pubblica, con funzioni di controllo della prima (capitolo sesto). La giuridicità del diritto tributario è prima di tutto amministrativa, nonostante il diffuso preconcetto processualistico, secondo cui fisco e contribuente andrebbero spiegati come due “parti che litigano” tra cui il giudice decide a chi dare ragione. Vedremo al capitolo sesto in quale misura questa concezione “processualistica” danneggi il contribuente, inducendo gli uffici, a seconda delle convenienze, a comportarsi come pubbliche autorità o come “parti processuali” (cfr. anche il par. 6.2 sull’onere della prova). Anche nel presente capitolo, ai paragrafi da 5.8 a Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 109 5.10, vedremo altresì in quale misura il preconcetto “legalistico.processuale” ostacoli la ricerca della ricchezza non registrata dove le aziende non arrivano, che è questione strutturalmente empirica. Questi grossolani preconcetti, secondo cui solo il giudice sarebbe sinonimo di “giuridicità” e di applicazione della legge, generano un ibrido socialmente dannoso per tutti, ostacolando l’efficienza dell’azione amministrativa, oltre che la comprensione del ruolo del legislatore (par. 2.4) e del giudice (facilmente inquadrabili invece nell’intuitiva spiegazione amministrativisticoeconomica, proposta al par. 4.7). La più importante istituzione pubblica in materia tributaria è l’Agenzia delle Entrate, generata a inizio secolo dallo scorporo degli uffici del ministero delle Finanze, dedicati alla gestione dei tributi e articolata in uffici centrali e locali, che gestiscono il rapporto con i singoli contribuenti; a tali scopi sono utilizzati circa 45 mila dipendenti, considerando anche quelli provenienti dall’agenzia del territorio, dedicata alla fiscalità immobiliare e recentemente accorpata con quella delle entrate. Resta autonoma l’agenzia delle dogane. Conformemente alla matrice amministrativistica del diritto tributario, le Agenzie suddette sono istituzioni pubbliche, per le quali valgono i relativi doveri di imparzialità, trasparenza etc., ma dotate di forti poteri di “auto-organizzazione” rispetto alle amministrazioni facenti capo ai tradizionali ministeri. Il passaggio alle Agenzie si inquadra comunque in una evoluzione di tutte le amministrazioni pubbliche che, dopo secoli in cui furono ispirate a un modello gerarchico militare, perseguono – almeno nelle intenzioni – un modello aziendalistico-manageriale. Vedremo al prossimo paragrafo le difficoltà di trapiantare il modello aziendale in una realtà “intermediata”, senza “clienti che pagano”, ma al massimo “utenti”, che ricevono servizi pagati dai contribuenti o comunque con risorse generali della collettività. La trasformazione in agenzia, ha avuto fortissimi vantaggi sul piano dell’“auto-organizzazione”, e va considerata irreversibile; forse però ha generato una necessità di immagine, di visibilità statistica esterna, che ha ancorato maggiormente l’Agenzia ai disorientamenti tributaristici della pubblica opinione, secondo i legami indicati al prossimo paragrafo 5.3. A parte questo buon argomento per una tesi di dottorato, siamo davanti a un’amministrazione pubblica dove si ritrovano, sia pure in modo particolare, le deresponsabilizzazioni, i desideri di copertura normativa, e le esigenze di immagine tipiche della più grande azienda italiana, cioè di un settore pubblico in bilico tra la prestazione di servizi alla società, la percezione di sussidi sotto forma di stipendi e la produzione di visibilità mediatica per giustificare il proprio ruolo. La gravità e le sfumature di queste disfunzioni in materia tributaria sono un ulteriore riflesso della mancata spiegazione da parte degli studiosi, della determinazione della ricchezza ai fini amministrativo-tributari. Sulle agenzie vigila il ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite il dipartimento delle Politiche fiscali, con una attività di coordinamento politico e di alta amministrazione; il ministero promuove anche la redazione di normativa regolamentare, e l’effettuazione di studi di politica tributaria. 110 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui In Italia i controlli tributari sono svolti anche dalla Guardia di Finanza, corpo militare cui competono poteri amministrativistici di indagine, e anche compiti di polizia giudiziaria, sotto la direzione della magistratura inquirente (procura della repubblica). Il potere di valutare i risultati delle indagini della Guardia di finanza ai fini dell’accertamento tributario spetta all’Agenzia delle entrate, cui vengono trasmessi i risultati delle indagini dei finanzieri, cioè i processi verbali di cui diremo al par. 5.6. Il dualismo tra agenzia delle entrate e guardia di Finanza richiede un coordinamento, che dovrebbe tendenzialmente basarsi sull’attribuzione all’Agenzia delle valutazioni empiriche sui lavoratori indipendenti e delle questioni di diritto, mentre le frodi contabili, ramificate sul territorio, e che richiedono indagini articolate, anche antifrode, dovrebbero spettare alla Guardia di Finanza, come polizia economica. Analoghi poteri amministrativistici, senza particolari problemi di coordinamento, spettano anche agli uffici tributari degli enti locali, per i tributi di loro competenza, nonché alle società per la riscossione dei tributi (Equitalia) di cui diremo al paragrafo 6.11. 5.3. Le amministrazioni tributarie tra immagine istituzionale e protezione del singolo Le istituzioni fiscali fanno parte della pubblica amministrazione, l’organizzazione di maggiori dimensioni, con oltre tre milioni di addetti; le sue articolazioni funzionali, dalla difesa, alla giustizia, alla sicurezza, alla determinazione della ricchezza ai fini tributari, alla sanità, all’istruzione, alla cultura, hanno spesso più dipendenti delle maggiori aziende operanti sul mercato. Su queste premesse, la matrice, inizialmente politica, delle istituzioni, rapidamente si colora di diritto, per quelle che – in ultima analisi – sono burocrazie, nel senso buono del termine, proprio in quanto non operanti sul mercato. L’antenato più remoto dell’apparato pubblico era l’esercito, inteso in senso ampio come apparato destinato alla difesa/conquista del territorio e alla sicurezza interna; successivamente l’era aziendale ha provocato la dilatazione dell’apparato pubblico, che vive di vita propria, indipendentemente da una misurazione “di mercato”. Sono istituzioni che, per molti versi, ricordano le aziende come corpi sociali intermedi; anch’esse si compongono di una pluralità di individui come abbiamo detto al par. 3.1. per l’azienda. Al loro interno troviamo la stessa suddivisione dei compiti, senza però i parametri di controllo del mercato e del fatturato. Manca quindi per l’azienda pubblica, la necessità di un equilibrio di mercato, col relativo bisogno di efficienza, tipico dell’azienda privata. L’azienda pubblica partecipa invece all’esercizio del potere nel proprio settore; essa vive di trasferimenti o fruisce di rendite di posizione anche quando opera sul mercato delle “tariffe”. Essa vive infatti attraverso la pubblica opinione, la sua maturità, il suo bagaglio culturale di settore, nel “corto circuito” di cui diremo subito. Gli operatori del settore privato, viste le suddette, somiglianze organizzative tra aziende private e istituzioni, trasferiscono sulle istituzioni pubbliche il proprio bagaglio Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 111 organizzativo e i propri incentivi all’efficienza. Pensano cioè che nelle istituzioni pubbliche ci sia una catena di comando e un organo preciso dotato di un’“ultima parola”, al limite il CDA o l’assemblea. Invece strutturalmente non funziona così, perché i servizi pubblici non sono valutabili in termini diretti “di scambio bilaterale”, bensì in termini di “utilità percepita”, passando cioè attraverso obiettivi valoriali, di tipo qualitativo, percepiti dal bagaglio culturale della comunità di riferimento, rappresentata dalla pubblica opinione, non dai diretti interessati, che però influenzano la pubblica opinione in vari modi. Pur essendo anch’essi “corpi sociali intermedi”, come le aziende, le istituzioni pubbliche sono prive dell’“assetto proprietario” che caratterizza le imprese private, con consigli di amministrazione e assemblee, facendo invece “corto circuito” col gruppo sociale, anche quando – come di recente si tende a fare – assumono la forma giuridica di società di diritto privato. Le istituzioni pubbliche sono quindi in osmosi col gruppo e ne subiscono la pressione, a seconda della sua maturità nei settori cui l’istituzione è preposta, come sanità, istruzione, infrastrutture, etc... Le istituzioni pubbliche non sono legittimate da un inesistente fatturato, ma dalla loro utilità sociale, percepita dalla pubblica opinione e dalle classi dirigenti (par. 1.6) e tradotta in “immagine istituzionale”, espressa dai mezzi di formazione-informazione (par. 4.4) e filtrata dalla politica. Il bagaglio culturale della pubblica opinione su un determinato tipo di attività pubblica, si riflette sul funzionamento della medesima. Per questo, valutare l’efficienza della macchina pubblica, pur con alcuni elementi generali in comune, dipende dal bagaglio culturale della pubblica opinione. Qualche volta basta poco, come nel caso della difesa, mentre già serve un miglior retroterra per valutare la sicurezza o la giustizia, fino alle difficili analisi razionali di sanità o istruzione; a tal fine si intrecciano, confusamente, le esperienze personali, con varia intensità, le opinioni di seconda mano, o mediante la stampa. Le varie funzioni pubbliche sono valutate attraverso il bagaglio culturale della pubblica opinione e le sue scale di valori, in una sorta di “domanda senza mercato”; in buona misura, il funzionamento dei pubblici uffici dipende dagli individui che vi operano, dal momento che anche “i carabinieri”, “la magistratura”, “gli ospedali”, “le università”, sono anch’essi “corpi sociali intermedi”, come definiti sopra (e già al par. 3.1 per l’azienda). Le persone che li compongono sono in buona parte influenzate dall’“immagine sociale” dell’istituzione in cui operano, ed in parte da legittimi interessi personali di cui diremo al termine del presente paragrafo. Più che una indistinta “macchina pubblica”, abbiamo varie istituzioni settoriali, ciascuna delle quali interagisce col bagaglio culturale della pubblica opinione, relativamente al settore cui è preposta. La matrice di partenza delle istituzioni pubbliche era – come detto – quella militare, da cui derivarono modelli autoritativi; Oggi la frequenza dei servizi a specifici utenti spinge verso un limbo vagamente aziendalistico-sindacale (Lupi, manuale giuridico di scienza delle finanze, al paragrafo 6.4). Non abbiamo comunque “clienti”, ma al massimo, “utenti”, ed in materia tributaria abbiamo addirittura un interesse “oppositivo”, e non pretensivo, nel senso che il contribuente non “chiede”, ma “si difende”. 112 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Questa appartenenza generale delle organizzazioni pubbliche rischia di deresponsabilizzarle, anche per via del fraintendimento sul “governo della legge” (paragrafo 2.4), col rischio delle degenerazioni di cui diremo, fino alla produzione di equivoci, propaganda, fastidi, burocrazia e sussidi. La macchina pubblica è ostaggio delle disfunzioni di comprensione e spiegazione esistenti nella pubblica opinione nel suo settore di operatività; il controllo sociale sulle istituzioni pubbliche passa attraverso la comprensione del rispettivo settore da parte della pubblica opinione. Nei settori complessi questo controllo è più difficile davanti a settori complessi, anche perché la gente è assorbita dal proprio “privato”. La determinazione della ricchezza ai fini tributari è anche meno alla portata della pubblica opinione, risentendo maggiormente delle carenze formative in materia economico sociale, indicate per l’Italia al par. 1.6. Per questo la situazione, in materia tributaria, è peggiore che nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nell’ambiente e in altri comparti dell’azione amministrativa sono più comprensibili da parte delle classi dirigenti e della pubblica opinione. Anche i dirigenti delle istituzioni rendono conto al gruppo sociale attraverso i mezzi di informazione e la politica. Per questo sono importanti, come indicato al par. 4.4, i mezzi di comunicazione di massa, per il controllo dell’opinione pubblica sulle istituzioni amministrative. Questo rapporto con la pubblica opinione è ancora più forte per le istituzioni del diritto tributario, dove manca quella domanda di attività pubblica “dal basso”, esistente per la sanità, l’istruzione, le infrastrutture, e gli interessi pretensivi. La mancanza di una sistematica richiesta valutativa delle imposte, dove le aziende non arrivano, non provoca invece le lamentele che sarebbero connesse al cattivo funzionamento di scuole, trasporti, ospedali, etc. Non perché la gente sia “complice” di fantomatici evasori, ma per la già indicata estraneità del funzionamento del settore al bagaglio culturale della pubblica opinione e della classe dirigente. Se neppure gli studiosi capiscono che i problemi della determinazione dei tributi derivano dalla determinazione della ricchezza, non può certamente intuirlo da sola la pubblica opinione. In questo disorientamento è rimarchevole l’attitudine progettuale, espressa nell’ultimo ventennio dai vertici dell’Agenzia delle Entrate. Benché le istituzioni pubbliche non abbiano il compito e le energie per darsi carico di sistematizzazioni concettuali (par. 4.4), i pochi spunti progettuali, soprattutto in tema di “deprocessualizzazione” sono appunto riferibili all’agenzia delle entrate. L’attenzione della pubblica opinione alla determinazione tributaristica della ricchezza ha portato ad una accurata selezione dei suoi dirigenti, almeno dal 1996 a questa parte (cioè da quasi vent’anni). Il rovescio della medaglia della drammatizzazione sociale e mediatica di cui al capitolo 4 è però che anche una maggiore pressione sui vertici delle istituzioni, ancora più ostaggio della pubblica opinione, di cui devono accontentare un po’ tutte le tendenze. Ne derivano ostacoli all’azione amministrativa, in quanto, così come manca sempre il vento per i marinai che non sanno dove andare, le istituzioni tributarie, benché animate dalle migliori intenzioni, sono disorientate dal miscuglio di spiegazioni diverse sulla determinazione tributaristica della ricchezza (par. 4.6). In ultima analisi, una amministrazione motivata e determinata, caratterizzata da un ottimo spirito Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 113 di servizio, perde efficacia per via del disorientamento della pubblica opinione sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari. La confusione del bagaglio culturale della pubblica opinione e delle classi dirigenti sul tema influenza il comportamento delle istituzioni amministrative; esse devono interagire con la confusione mentale della pubblica opinione, senza potersi contrapporre frontalmente ad alcuna delle spiegazioni, tutte per certi versi sensate, che vi si intrecciano. Benché nessuno capisca meglio di loro, che ci lavorano, la determinazione tributaristica della ricchezza, i vertici delle istituzioni sono in una certa misura “ostaggio” di come le classi dirigenti ed i loro terminali politici si rappresentano il fenomeno. Le drammatizzazioni indicate al capitolo quarto disperdono le energie in una pluralità di iniziative, che cercano di seguire le varie tendenze diffuse nella pubblica opinione. Ne risente anche la posizione individuale dei funzionari, in uffici già caratterizzati per ragioni dimensionali, da una maggiore spersonalizzazione e parcellizzazione di compiti rispetto agli addetti al settore negli studi professionali, descritti al par. 3.16. I comportamenti individuali dei suoi funzionari, in un clima di confusione, tendono ad essere “autoprotettivi”, anche tenendo conto dei sospetti di favoritismi e abusi indicati al par. 5.11. Man mano che il contesto diventa controverso e sfuggente, aumentano le riluttanze ad assumersi responsabilità, i desideri di “copertura”, di “essere a posto”, latenti in tutte le burocrazie. È un riflesso del sano desiderio di quieto vivere della gente normale, con una sua vita privata, cui non si possono chiedere eroismi e sistematizzazioni concettuali, omesse da quanti vi erano preposti (par. 4.3-4.5). Gli uffici pubblici fanno sempre il proprio dovere, solo che il proprio dovere passa attraverso quanto la pubblica opinione si aspetta da loro, e se sul tema c’è disorientamento, esso si ripercuote sui pubblici uffici. In tutti i settori giustamente i pubblici funzionari si faranno interpreti della propria funzione, tenendo conto di come se ne fa interprete la pubblica opinione e la classe dirigente. Con l’aumento della drammatizzazione e della confusione i funzionari tenderanno a “rispettare le regole, “essere a posto”. Questa tendenza è aggravata, nel nostro settore, dallo pseudonormativismo di cui al par. 4.3, col suo appiattimento sui “materiali normativi”, coi martellanti riferimenti alla vincolatezza, all’indisponibilità del credito tributario, ad una legalità che diventa legalismo immobilistico, secondo fili conduttori del testo, soprattutto nei paragrafi da 5.8 a 5.11. Una concezione distorta del “governo della legge” (par. 2.4.) finisce per ostacolare lo spirito di iniziativa degli uffici nel valutare con sistematicità la ricchezza non raggiunta dalle aziende; diventa comodo far durare i controlli, indugiarvi molto, e cautelarsi formulando comunque qualche contestazione, vuoi per risultato di servizio, vuoi per esorcizzare i sospetti di negligenza o corruzione di cui al par. 5.11. Questo riduce la sistematicità degli interventi del fisco dove le aziende non arrivano, spingendoli invece sulle “contestazioni interpretative”; ne ritroveremo applicazioni in varie sedi, tra cui il par. 5.9 sulla discrezionalità, 5.17 e seguenti sulle contestazioni interpretative alle aziende, 6.5, sul contenzioso amministrativo. 114 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui 5.4. Le istruzioni ai contribuenti come funzione amministrativa tributaria (modulistica, assistenza e interpretazioni amministrative) Sulle premesse generali di cui al paragrafo precedente, iniziamo dall’attività amministrativa dei c.d. “servizi al contribuente”, necessaria sia per la tassazione attraverso le aziende, ma soprattutto per la c.d. “autotassazione” (par. 1.5), relativa agli individui (par. 3.16). È una attività amministrativa di indicazione e chiarimento necessari a chi deve “autodeterminare” la ricchezza. Sia alle aziende, sia gli individui servono infatti istruzioni. In ogni paese, del resto, le modalità di registrazione della ricchezza ai fini tributari, di acquisizione di versamenti, di dichiarazione e comunicazione di informazioni (ad esempio sull’inizio di attività economiche, sui rapporti con altri operatori economici, etc) sono in gran parte regolati da atti amministrativi generali (paragrafo 2.1 sulla riserva di legge) e da indicazioni amministrative fornite in via preventiva (“ex ante”, come spesso si dice). Analogo supporto amministrativo ex ante riguarda il coinvolgimento degli uffici tributari negli adempimenti dei contribuenti, nell’attribuzione dei codici fiscali, nella ricezione delle dichiarazioni e delle altre comunicazioni “seriali”, nel supporto ai professionisti e ai centri di assistenza fiscale (C.A.F.); c’è anche l’assistenza a singoli contribuenti sulla classificazione della ricchezza da loro stessi registrata, anche ai fini della predisposizione delle dichiarazioni. In quest’ambito si colloca il ruolo interpretativo “ex ante” dell’amministrazione, fondamentale supporto (già anticipato al par. 3.10 sull’interpretazione) nell’inquadramento giuridico, da parte degli stessi contribuenti, della ricchezza registrata; ricordiamo dal par. 3.10 che quest’interpretazione non è “indipendente”, come quella del giudice, ma si intreccia con profili di cautela da censure (ci ritorneremo subito), convenienza del contribuente e di immagine sociale degli uffici tributari. La presa di posizione preventiva, da parte dei competenti uffici (tendenzialmente centrali) dell’autorità fiscale, garantisce una certa uniformità all’interpretazione degli uffici periferici, ed informa i contribuenti su come si comporteranno questi ultimi sui punti esaminati. E quindi il caso di richiamare e sviluppare, a proposito dell’autorità amministrativa, le riflessioni generali sull’interpretazione, svolte al paragrafo 3.10. Abbiamo già rilevato che tutti interpretano conformemente ai propri ruoli, da quello indipendente del giudice a quello imparziale delle autorità amministrative (influenzate dalla funzione), a quello parzialmente orientato da legittime convenienze economiche, dei privati (par. 3.10). L’interpretazione ufficiale, di un organo tributario di grado superiore, condiziona quella degli uffici inferiori, gerarchicamente dipendenti, in un normale riflesso della matrice di diritto amministrativo della tassazione. All’interno di un’istituzione pubblica ordinata gerarchicamente, l’interpretazione ufficiale della normativa “è legge”, almeno nella normalità, semplicemente perché non ci sono argomenti logici che gli uffici dipendenti possano invocare per disattenderla, proprio perché legata all’a- Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 115 strattezza della normativa, non alle contingenze operative. Questo “valore gerarchico” dell’interpretazione amministrativa la rende particolarmente importante rispetto alle tradizionali interpretazioni che ne sono prive, nel diritto comune, come i «lavori preparatori “, i rari, e spesso equivoci, precedenti giurisprudenziali e la pubblicistica. La qualificazione giuridico-tributaria della ricchezza registrata è molto importante, a prescindere dal tipo di atto che la contiene, in cui sono contenute, purché ovviamente si tratti di un atto con funzione interpretativa; l’interpretazione adottata da un ufficio tributario per determinare l’imposta verso un certo contribuente è priva di effetti verso un altro ufficio tributario alle prese con un altro contribuente. Interpretazioni con valenza generale possono essere contenute nel commento a istituti generali, come avviene nelle c.d. circolari, in risposte a specifici quesiti, come nelle c.d.”risoluzioni”, in risposte ad attività di consulenza giuridica, ad istanze di interpello in base al c.d. “statuto del contribuente (par. 2.1), nelle istruzioni ai modelli di dichiarazione dei redditi (par. 3.4), in comunicati stampa o nelle risposte ai quesiti della stampa “specialistica”. Nella matrice amministrativistica del diritto tributario si comprende bene la tutela di un “affidamento istituzionale”, generata nei contribuenti dalle interpretazioni in esame. Tali interpretazioni ultime, in estrema sintesi, giovano al contribuente, se a lui favorevoli, in base alla tutela della buona fede, generata dall’autorità amministrativa. Si crea infatti, nel contribuente, una aspettativa, giuridicamente rilevante, che gli uffici finanziari, sottoposti per subordinazione gerarchica all’interpretazione dei superiori, vi si attengano. Pertanto, nei casi di modifica “peggiorativa” dell’interpretazione, i contribuenti, in base alla tutela dell’affidamento e della buona fede, saranno comunque immuni da sanzioni, per le mancate applicazioni del tributo, conseguenti all’osservanza delle indicazioni interpretative successivamente modificate. Sono applicazioni dei comuni principi di ragionevolezza, secondo cui ognuno può impegnare se stesso, e non gli altri; verso i terzi si può creare affidamento, ma non creare vincoli ulteriori, non previsti dal potere di cui si è investiti. Per questo, l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria non nuoce ai contribuenti. Non può imporre cioè obblighi non previsti dalla legge, né per quanto riguarda le regole sostanziali di determinazione della ricchezza (par. 2.3), né per quanto riguarda i regimi tributari applicabili, né per quanto riguarda gli adempimenti amministrativi. Le interpretazioni ministeriali ritenute prive di base normativa possono quindi essere disattese dai giudici senza particolari formalità, annullando l’atto amministrativo individuale che vi si è conformato. Le interpretazioni, come tali, non hanno carattere immediatamente provvedimentale, e ne è tendenzialmente esclusa una diretta impugnabilità davanti alle commissioni tributarie. Sono del tutto estemporanee, rispetto al quadro descritto sopra, alcune svalutazioni, accademiche e giurisprudenziali, dell’interpretazione amministrativa rispetto a quella giurisdizionale; sono implicazioni inconsapevoli del già indicato atteggiamento “ragionieristico-processuale” (anziché amministrativistico-economico) secondo cui il 116 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui diritto tributario vede “due parti in lite” tra cui i giudici decidono, esclusivamente in base alla legge, a chi dare ragione. Le autoreferenziali sentenze svalutative dell’interpretazione amministrativa sarebbero interessante oggetto di studio, sia come esempio dei disorientamenti diffusi tra gli operatori giuridici sulla collocazione del diritto tributario, sia sul desiderio generale delle istituzioni, comprese quelle giurisdizionali, di ampliare le proprie prerogative rispetto a quelle di altre istituzioni. Molto spesso l’ufficio fiscale periferico si difende considerando non pertinente, l’interpretazione amministrativa addotta dal contribuente. Si innesta quindi una “interpretazione dell’interpretazione”, con la controversia che si incentra sulla reale portata dell’interpretazione emessa dagli uffici centrali. L’importanza delle interpretazioni amministrative, in un contesto di autotassazione è così forte da essere fortemente avvertita dalle istituzioni fiscali, sotto i due parametri che, in prima battuta, ne caratterizzano il comportamento: dal punto di vista dell’“immagine pubblica” le istituzioni fiscali avvertono la richiesta ambientale di diffuse ed esaurienti interpretazioni. Dall’altro sanno bene, dal punto di vista della “cautela”, che eventuali disattenzioni interpretative potrebbero essere strumentalizzate dai contribuenti proprio in nome della già indicata “tutela dell’affidamento” e della più generale coerenza che si richiede alle istituzioni amministrative. Per questo, anche le interpretazioni amministrative sono spesso improntate a grande cautela, e sono “auto protettive” e “di parte” nel senso indicato al par. 3.10. 5.5. L’acquisizione delle dichiarazioni, e il loro controllo di correttezza formale e documentale L’attività amministrativo-tributaria inizia dall’acquisizione dei dati delle dichiarazioni fiscali, che vengono prima di tutto archiviati nelle banche dati del fisco; quest’acquisizione informatica è oggi abbastanza agevole, in quanto le dichiarazioni sono redatte e presentate in modo “informatico”-”telematico” (paragrafo 3.6). L’acquisizione delle dichiarazioni nelle banche dati dell’amministrazione fiscale consente alcuni controlli formali, verificando informazioni riportate nella dichiarazione con quelle trasmesse da altri soggetti, come le banche per i versamenti delle imposte. Un primo riscontro di regolarità esteriore (art. 36-bis decreto 600-1973) avviene su larga scala mediante controllo numerico, incroci informatici attinenti all’effettivo versamento delle imposte dichiarate, che potrebbe essere stato omesso, ad esempio per difficoltà finanziarie (par. 6.11). Si effettua, nella stessa sede, una quadratura formale dei dati indicati sulle dichiarazioni, eliminando contraddizioni direttamente desumibili dalle dichiarazioni medesime. In tutti questi casi si avverte il contribuente dell’esito della liquidazione, ai sensi del comma 3 dell’art. 36-bis, con una comunicazione informale, tendente a consentirgli la presentazione di chiarimenti; se questi ultimi non sono presentati, o non sono convincenti, si iscrive a ruolo la differenza e il contribuente dovrà presentare ricorso. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 117 Per una piccola parte delle dichiarazioni, circa il 5 percento, gli uffici richiedono i documenti giustificativi di oneri deducibili “personali”, come assicurazioni vita, alimenti al coniuge separato, spese mediche etc. (paragrafo 9.3), detrazioni per familiari a carico, ritenute d’acconto, etc. (art. 36-ter). Anche qui, in caso di mancata documentazione, la richiesta delle maggiori imposte avverrà con iscrizione a ruolo. Queste fasi sono talvolta denominate, nella prassi, «liquidazioni della dichiarazione». In tali sedi avvengono anche i rimborsi dei crediti d’imposta con un ordinativo di rimborso senza le caratteristiche di un atto impositivo formale; un interrogativo concettuale stabile e curioso è se il rimborso di una somma inferiore a quella richiesta costituisca atto impugnabile. Analogamente è da chiedersi se la dichiarazione a credito non tempestivamente rettificata dall’ufficio tributario, cristallizzi il diritto al rimborso della relativa somma. Siamo comunque in una fase “seriale” della tassazione attraverso le aziende, in cui emergono tutte le difficoltà degli uffici di gestire direttamente, in modo “analitico” e “personalizzato” milioni di posizioni individuali. Anche questo conferma le difficoltà di ogni tipo di tassazione quando mancano strutture intermedie, come le organizzazioni aziendali di oggi, i piccoli borghi rurali, i feudi o le parrocchie di ieri. È quindi importante aumentare il coinvolgimento delle strutture private come i centri di assistenza fiscale e i professionisti, che oltre a raccogliere le dichiarazioni da trasmettere all’Agenzia, potrebbero controllare i documenti degli oneri deducibili, sviluppando quei controlli formali già indicati al paragrafo 5.5.. 5.6. Indagini interne e internazionali, relativi vizi e poteri di verbalizzazione amministrativa Le indagini fiscali hanno un contenuto inquisitorio, basato sulla possibilità di infliggere, in caso di inadempimento, sia sanzioni afflittive sia determinazioni dell’imposta influenzate dalla mancata collaborazione del contribuente nel fornire documenti e riscontri. Questo potere inquisitorio si giustifica anche con l’attuale estraneità degli uffici rispetto alle circostanze da accertare. Manca un potere generalizzato degli uffici tributari come tali di chiedere, a chiunque, informazioni o documenti, sotto pena di sanzioni in caso di non collaborazione; un simile potere, in quanto troppo indeterminato, contrasterebbe forse con le due già esaminate “riserve di legge”, quella sulle prestazioni imposte e quella sulle sanzioni; si imporrebbe infatti al contribuente una prestazione personale (obbligo di rispondere, fornire documenti, etc.), sanzionandolo in caso di inadempienza. Molte disposizioni consentono però indagini ad ampio raggio, come quelle che legittimano qualsiasi richiesta, ai clienti di soggetti IVA, di informazioni sui loro fornitori. Sono utilizzabili anche informazioni spontaneamente fornite da chi poteva disporne a pieno titolo, anche se gli uffici non avrebbero avuto il potere di richiederle in modo coercitivo; le richieste informali degli uffici, effettuate fuori da tali poteri, 118 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui facendo appello al senso civico della spontanea collaborazione col pubblico potere sono legittime se al destinatario della richiesta non sono minacciate sanzioni o altre conseguenze negative non previste dall’ordinamento. I poteri istruttori degli uffici, in materia di imposte dirette e di IVA sono sostanzialmente omogenei, e si basano su richieste di informazioni e documenti da esibire presso gli uffici, oppure su indagini presso il contribuente, nei modi che vedremo; nelle grandi linee chiunque può immaginarne il contenuto con un minimo di fantasia, senza bisogno di parafrasare qui, nei soliti sterili schemini, le lunghe elencazioni contenute negli articoli suddetti. Per i piccoli commercianti, artigiani e persone fisiche è frequente la convocazione in ufficio, per rispondere a domande, che vengono verbalizzate, oppure per presentare documenti. Queste richieste devono essere portate a conoscenza legale del destinatario, come presupposto per potergli applicare, in caso di inadempimento, una pena pecuniaria, procedendo eventualmente a un accertamento meno rigoroso (induttivo). Gli accessi, ispezioni e verifiche, sono accomunati dallo svolgimento di indagini presso il contribuente. Si può parlare di accesso in senso generico, come ogni ipotesi in cui i funzionari si recano presso il contribuente, oppure come “accesso breve” effettuato per rendersi conto direttamente delle caratteristiche di una certa attività, a supporto di una indagine veloce, effettuata prevalentemente in ufficio (ad esempio su piccoli commercianti e artigiani). Il caso più diffuso è la verifica che non si innesta su un monitoraggio iniziale e permanente, sia pure a distanza, delle attività economiche, sia quelle individuali sia quelle di una certa dimensione organizzativa, come abbiamo indicato al par. 5.5. I resoconti delle verifiche, cioè i verbali di cui diremo più avanti, sembrano partire da zero, senza un retroterra di partenza, da parte degli uffici, sulla natura dell’attività svolta, e soprattutto i suoi punti forti e deboli nella determinazione della ricchezza ai fini tributari. È una conferma dell’episodicità dell’attività amministrativa in materia tributaria, cui si connettono equivoci e dispersioni di risorse, che ostacolano la ricerca e la stima della ricchezza non registrata. Questo monitoraggio permanente delle attività economiche ai fini tributari consentirebbe di contestualizzare le verifiche, che oggi sono compartimenti stagni, avulse da una complessiva attività di controllo del territorio ai fini tributari, iniziando con asettiche descrizioni dell’attività svolta, come se nulla fosse stato effettuato “a monte”. Il mancato inserimento delle verifiche nel quadro amministrativo di un controllo valutativo permanente spinge i funzionari che le svolgono ad “autoproteggersi” con rilievi in genere formalistico-interpretativi. Viene così dato un senso a questi disorganizzati interventi, riparando chi li effettua da accuse di negligenza e corruzione. La scelta di quali poteri istruttori utilizzare in concreto, nonché l’intensità con cui utilizzarli, per dirigere l’istruttoria in una certa direzione, piuttosto che in un’altra, rientra comunque nella sfera di discrezionalità (par. 510) di chi conduce le indagini, ferme restando le sue responsabilità (anche disciplinari) in caso di negligenze o abusi. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 119 Le indagini fiscali, come qualsiasi altro esercizio di poteri amministrativi, possono parzialmente intralciare lo svolgimento dell’attività economica o la vita privata, ma sono preoccupazioni da valutare caso per caso, tenendo conto della complessità delle indagini, del fastidio concreto che l’attività degli uffici provoca al contribuente o alla sua azienda. Non sono questioni che si prestano ad essere risolte dall’alto, con una asettica disposizione legislativa, come l’art. 12 dello statuto del contribuente (legge n. 212/2000) secondo cui le indagini presso il contribuente non possano durare più di trenta giorni (motivatamente prorogabili per altri trenta). I trenta giorni di “effettiva presenza” possono essere eccessivi o insufficienti, in relazione a ciò che occorre verificare. Per accedere in locali adibiti ad attività d’impresa è sufficiente l’autorizzazione del capo dell’ufficio, mentre per gli accessi domiciliari e gli atti più lesivi della riservatezza (ad es. apertura forzata di borse, plichi sigillati, mobilio, casseforti, ecc. ex art. 52 comma 3, nonché perquisizioni personali) occorre un’autorizzazione del procuratore della repubblica, da richiedere in base a gravi indizi di violazioni tributarie. Le informazioni acquisite esercitando i poteri istruttori senza le autorizzazioni a tutela di diritti costituzionalmente garantiti, come il domicilio, l’integrità personale o la riservatezza, sono inutilizzabili come elementi probatori del successivo atto di accertamento. Quest’ultimo è quindi annullabile se non giustificato anche da altre informazioni legittimamente ottenute. Questa inutilizzabilità, sancita dopo molte incertezze giurisprudenziali, è una sorta di “sanzione” per avere leso un diritto del contribuente senza le prescritte cautele. La giurisprudenza tende invece ragionevolmente a non annullare gli avvisi di accertamento basati su indagini dove i verificatori hanno violato disposizioni attinenti all’organizzazione amministrativa interna della loro struttura; si tratta ad esempio della verbalizzazione di violazioni su periodi di imposta non ricompresi nell’ordine di verifica, o su soggetti emersi nel corso delle indagini verso altri contribuenti. Questo attiene alla snellezza organizzativa interna dell’amministrazione fiscale e potrebbe avere rilevanza esterna solo qualora fosse un sintomo di “abuso di potere amministrativo”, dimostrando che le indagini sono sorte per finalità persecutorie, vessatorie, estorsive etc... Il sistema contenzioso attuale, sbrigativamente riferito agli atti di determinazione del tributo (paragrafo 6.8), non consente una tutela giurisdizionale immediata contro l’invasività delle indagini o gli altri danni immediati che da esse derivano. Ciò non ha tuttavia provocato particolari lamentele, a conferma di un filo conduttore di questo volume, cioè quello secondo cui la giuridicità non è necessariamente “giurisdizionale”, ma anche amministrativa. In caso di rifiuto di esibire documentazione o di fornire informazioni richieste in sede di indagine è prevista l’inutilizzabilità di tali informazioni e documenti, in sede amministrativa, o nel corso del processo tributario. Questa normativa è destinata a combattere atteggiamenti ostruzionistici dei contribuenti; questi ultimi potrebbero rinviare a una sede successiva l’esibizione di documenti per certi versi a loro favorevoli, in modo da impedire riscontri durante la verifica, dove 120 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui i verificatori potrebbero trarre spunto da tali documenti per vanificarne la portata oppure scoprire altre violazioni con essi collegate. La norma vuole quindi impedire questo differimento di esibizione (ad es. in sede processuale dove i riscontri sarebbero difficili) e scatta ovviamente solo qualora la richiesta del fisco sia specifica e circostanziata. La libera circolazione delle merci, dei capitali, delle imprese etc. (paragrafi 2.6, 3.11) si accompagnano alla difficoltà dei poteri amministrativi interni (compreso quello degli uffici tributari) di indagare autoritativamente oltre confine; le libertà europee di circolazione non riguardano infatti i controlli amministrativi, compresi quelli di indagine tributaria, che rimangono “radicati al territorio”; vi contribuisce anche la deresponsabilizzazione e il desiderio di “copertura legislativa”, timoroso di prendere iniziative fuori ordinanza, sprovviste di copertura. L’unico ausilio è la collaborazione amministrativa, cui gli stati sono sempre abbastanza restii, ma che in un quadro comunitario è stata formalmente garantita. Questa collaborazione avviene però per adesso in forme molto verticistiche, attraverso normative comuni europee ed organi di coordinamento nazionali, che sono diventati spesso un collo di bottiglia, generando una complessità nociva alla sistematicità dell’intervento degli uffici. Veniamo ora alla documentazione delle indagini fiscali, effettuata con lo strumento generale dei “processi verbali”, in cui si descrivono le operazioni avvenute e degli incontri svolti; ritroviamo qui un potere tipico delle autorità amministrative, come il “potere di certazione”, che riflette la nota matrice amministrativistica del diritto tributario e della natura di pubblici ufficiali dei funzionari del fisco. Il verbale costituisce «prova fino a querela di falso», conformemente ai principi generali sugli atti pubblici, delle operazioni materiali accadute in presenza del verbalizzante o da lui compiute. Nessuno speciale valore probatorio spetta invece alla parte logico-critica del verbale, in cui il verbalizzante utilizza i dati osservati per formulare deduzioni ulteriori (di solito argomenti presuntivi) rispetto ad essi. Il verbale chiude l’istruttoria e come tale è un atto ancora preliminare rispetto agli avvisi di accertamento, che eventualmente verranno emessi sulla base dei verbali medesimi, e verso i quali saranno proposti i ricorsi del contribuente (l’impugnazione del verbale di fronte alle commissioni tributarie sarebbe prematura, e come tale inammissibile). La rilevanza esterna immediata del verbale attiene quindi principalmente alla possibilità dell’amministrazione di ottenere misure cautelari di garanzia patrimoniale, come l’ipoteca o il sequestro di beni del contribuente, a fronte dei debiti tributari calcolati dal verbale, nonché alla possibilità del contribuente di prestarvi acquiescenza, col pagamento integrale delle imposte, ma con un forte sconto sulle sanzioni, come vedremo meglio al paragrafo 9.6, sull’acquiescenza e l’accertamento con adesione. Le indagini nei confronti di altre istituzioni pubbliche, di diversa natura, nazionali o estere (come le amministrazioni finanziarie di altri stati) si svolgono su un piano paritetico e sono tendenzialmente incoercibili e non sanzionabili. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 121 5.7. Gestione dei dati e finalità del controllo valutativo degli uffici: la “tax compliance” La tassazione attraverso le aziende, con i suoi dati contabili, consente al fisco la formazione di ampie “banche dati”; in esse confluiscono non solo le dichiarazioni, ma anche numerosissime informazioni raccolte attraverso il codice fiscale; si pensi al possesso di autovetture, imbarcazioni, beni immobili, polizze assicurative, utenze domestiche, e tanti altri elementi economicamente rilevanti, tra cui le informazioni bancarie e finanziarie di cui riparleremo al par. 5.16, per inserirle nelle metodologie di accertamento, di cui parleremo più avanti. Qui precisiamo che il codice fiscale viene recapitato in automatico dagli uffici di anagrafe per le persone fisiche, e rilasciato su richiesta negli altri casi; per gli operatori economici (imprenditori individuali e professionisti) al codice fiscale si affianca la partita IVA (par. 7.1). Per le società e gli enti, senza sfera privata, partita IVA e codice fiscale in genere coincidono. Queste banche dati del fisco espressamente ritenute legittime dalla normativa sulla privacy; ciononostante, il garante per la privacy è stato spesso coinvolto per l’accertamento sintetico (par. 5.14), per le indagini bancarie (par. 5.16), per la pubblicazione dei redditi dichiarati; alcuni passaggi delle prese di posizione dell’autorità appaiono fuori fase rispetto al suo ruolo, facendo trasparire tentativi di mantenere o allargare le prerogative di una istituzione che, anche per altri versi, andrebbe radicalmente riformata. Queste banche dati sono anche importanti per confermare o smentire chiavi di lettura generali della tassazione attraverso le aziende, cioè la provenienza del gettito per categorie economico-dimensionali; la mancanza di chiavi di lettura sistematiche della tassazione, le condizioni della “comunità scientifica” (par. 4.3) impediscono di formulare le domande giuste a chi possiede questi dati, e può governarli in funzione mediatica. È normale che le istituzioni fiscali, che gestiscono i dati, accreditino chiavi di lettura tranquillizzanti, o non alimentino interpretazioni “scomode” su cui torneremo al par. 5.7. Le informazioni contenute nelle banche dati del fisco qualche volta consentono correzioni contabili “a colpo sicuro”, come per le imposte dichiarate e non versate, oppure i proventi segnalati dal sostituto e non dichiarati (par. 3.5 sul sostituto d’imposta), oppure gli affitti registrati per canoni non dichiarati dal proprietario; queste correzioni contabili, su cui faremo ulteriori riflessioni al par. 5.16, sono del tutto comprensibili, ma non riguardano il grosso della ricchezza fiscalmente non registrata, per come descritto al par. 4.1). Più importante è l’uso “non contabile” delle banche dati per stimare, per ordine di grandezza, i risultati di attività economiche estranee alla tassazione attraverso le aziende. Si tratta degli “indizi contabili”, che un filo conduttore del volume (cfr. soprattutto par. 5.9) inserisce nella tradizionale “tassazione valutativa”, attraverso gli uffici tributari. Per sapere quali informazioni scegliere nelle banche dati, e come aggregarle, occorre quindi una consapevole teoria della determinazione della ricchezza. A tale proposito 122 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui dobbiamo tener presente che, anche sulla ricchezza non raggiunta attraverso le aziende, ci troviamo pur sempre in un contesto di autotassazione (par. 1.5) dove cioè l’intervento degli uffici non è “capillare”, ma deve essere il più possibile “sistematico”, spingendo cioè alla “compliance”. Occorre quindi ottimizzare l’uso di queste informazioni, cosa che molti uffici dell’agenzia delle entrate riesce saggiamente a fare, ma di propria iniziativa. Le indicazioni generali, infatti, rispecchiando inevitabilmente la confusione generale, di cui anche le istituzioni centrali sono ostaggio, non indicano in modo univoco che la principale funzione degli uffici tributari non è procurare gettito ma sorvegliare e stimolare l’autodeterminazione dei tributi, detta “tax compliance” nel solito slang anglosassone. Le banche dati devono quindi agevolare l’attività (qualcuno la chiama di “intelligence”), finalizzata al controllo valutativo del territorio, per spingere a una dichiarazione credibile le tipologie di ricchezza non determinate dalle aziende. Il punto di partenza dovrebbe essere un profilo personalizzato del contribuente, non solo contabile, ma anche descrittivo e fotografico (come consente di fare la moderna tecnologia). Questo “supporto alla valutazione” dovrebbe includere le caratteristiche strutturali dell’attività, narrandone gli aspetti principali, e stabili nel tempo. Potrebbero accompagnarvisi le informazioni su patrimonio personale e spese di consumo, utili per l’accertamento in base al tenore di vita, di cui al par. 5.14. Sarebbe così possibile coordinare, attorno a questo “dossier personalizzato” l’insieme di dati grezzi risultanti dell’anagrafe tributaria; si potrebbe così agevolare, senza neppure allontanarsi dall’ufficio tributario, il controllo valutativo del territorio, necessario alla stima della ricchezza non determinata ragionieristicamente dalle aziende. Si potrebbe così evitare di iniziare ogni verbalizzazione ispettiva con una “indagine conoscitiva”, perché essa sarebbe effettuata un volta sola, salvo aggiornamenti eventuali. Su questa cornice si inserirebbero tutte le altre informazioni specifiche, comprese le “indagini bancarie” di cui al par. 5.16. Un significativo incremento dei livelli di “autotassazione” (par. 1.5), spingendo ad un adempimento credibile sulla ricchezza non tassata dalle aziende più giungere da un uso più consapevole del personale complessivo di Agenzia delle entrate, Guardia di finanza, Esattorie e uffici tributari degli enti locali; il personale disponibile è probabilmente più numeroso che in altri paesi di analoga struttura economica; anche perché l’elevata esternalizzazione degli adempimenti fiscali sulle aziende ed i professionisti, libera risorse amministrative per i controlli. Resta quindi numeroso personale destinabile a valutare la ricchezza non registrata, controbilanciando, l’elevato numero di “piccole organizzazioni” e di “lavoratori indipendenti” esistenti in Italia, rispetto a paesi di analoghe dimensioni economiche. Per la mancata consapevolezza istituzionale sulla tassazione attraverso le aziende, l’intervento degli uffici risente della forza d’inerzia del passato, con l’azione amministrativa contraddittoriamente valutata in termini di “obiettivo monetario”, anziché di stimolo all’autotassazione, di comunicazione della presenza valutativa del fisco sul territorio. La mancata percezione della pubblica opinione sulla tassazione attraverso le aziende e la collocazione della ricchezza non registrata (par. 4.1) si riflette sull’attività Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 123 di controllo. Invece di essere usata per indurre a registrare la ricchezza non determinata attraverso le aziende, l’attività amministrativa viene in buona parte dispersa, su questioni di classificazione e di inquadramento giuridico della ricchezza registrata. L’imbarazzo politico, dopo che si è avventatamente data una spiegazione criminalistica del fenomeno (par. 4.6), si vede anche nello spostamento degli uffici di controllo tributario nelle città capoluogo di provincia; vi si connetteva anche una maggiore comodità nella gestione aziendalistica dell’agenzia, ma diminuiva il controllo del territorio e la sistematicità degli interventi. Con la conseguenza che spesso, per controllare piccoli commercianti e artigiani, occorrono oggi trasferimenti di centinaia di chilometri. La stratificazione delle imposte “recuperate” dall’attività di controllo dell’agenzia delle entrate è troppo sofisticata per essere qui analizzata in dettaglio (su cui vedi gli appositi post su www.giustizia fiscale.com cercando su “search” controlli fiscali 2011:da dove viene l’aumento). Comunque, dei 12 miliardi circa di euro riscossi nel 2012 circa 5 derivano da imposte dichiarate, ma non versate, verosimilmente per difficoltà finanziarie del contribuente. 2 da aziende di grandi dimensioni (verosimilmente per contestazioni interpretative), e poco più di uno da “contribuenti di piccole dimensioni”, in cui rientrano i lavoratori indipendenti. Ulteriori disaggregazioni delle cifre fornite dovrebbe essere più approfondita, ma occorrerebbero spiegazioni di cui non disponiamo. È verosimile però che il gettito da recupero di imposte su ricchezza non registrata sia probabilmente inferiore al costo delle istituzioni fiscali, ma questo non sarebbe un problema; mi risulta che l’imposta recuperata dal fisco tedesco sia in linea con quella italiana. Il punto è piuttosto indirizzare l’attività amministrativa non a un recupero diretto attraverso gli accertamenti, ma ad indurre i contribuenti ad una corretta autodeterminazione della ricchezza non determinata attraverso le aziende. Dove non sono queste ultime a imporre le imposte, l’intervento degli uffici deve essere adeguatamente sistematico da indurre all’adempimento. Il nostro rudimentale bagaglio culturale ha invece trasferito avventatamente, in un contesto di autotassazione (par. 1.5), spiegazioni anteriori, elaborate in periodi in cui erano gli uffici a chiedere capillarmente le imposte, e non era concepibile un adempimento senza contatti con l’ufficio tributario. Questa fuorviante tendenza a valutare gli uffici tributari attraverso l’imposta direttamente riscossa, trascura che essi oggi servono invece a provocare ed alimentare una corretta autotassazione sulla ricchezza dove le aziende non arrivano. Ne deriva quindi una necessità di controllare più il territorio, in maniera valutativa, che i conti della ricchezza registrata. Questa sistematica visibilità del fisco renderebbe più credibile la pressione mediatico-propagandistica, pur efficace, descritta al par. 4.2. La dispersione dei controlli è aggravata anche dalla loro effettuazione su periodi di imposta molto remoti, invece di concentrarsi “sul presente” per influire “sul futuro”; confrontare la situazione economica visibile con l’ultima dichiarata, renderebbe molto più rapida. valutativa, e quindi sistematica, la richiesta amministrativa delle imposte, facendo avvertire la presenza del fisco. Inoltre guardare al passato è del tutto inutile per le attività più pericolose, quelle dove prima si nasconde la ricchezza al fisco”, e poi si 124 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui sparisce, senza che gli uffici tributari riescano a capire chi manovrasse l’evasione dietro le quinte; inoltre, frequentemente, anche l’individuo che “evade senza sparire”, dopo cinque anni ha già speso tutto, come vedremo ai paragrafi 6.11 e 6.12, sulla riscossione coattiva. Per questo, perdere tempo valutando ricchezze remote, di 4 o 5 anni prima, disperde inutilmente energie amministrative. Il vero tutoraggio fiscale non dovrebbe essere quello che vedremo al par. 5.17 ss. sulle aziende, ma dovrebbe indirizzarsi dove le aziende non arrivano; questi interventi, diretti a conciliare il dichiarato con la percezione esterna dell’attività, dovrebbero essere molto più rapidi, e quindi più numerosi, cioè nel loro complesso “sistematici”, su un numero di contribuenti anche triplo o quadruplo. Il relativo “risultato di servizio” non dipenderebbe più dall’Agenzia, ma da in base al livello degli imponibili dichiarati nella circoscrizione territoriale di competenza, sterilizzando statisticamente l’impatto del ciclo economico. Dopo questi sistematici “screenings” di un numero elevato di lavoratori indipendenti e piccole aziende operanti al consumo finale, si potrebbero individuare i soggetti fiscalmente più riottosi; in questo caso, secondo un filo conduttore del testo, si dovrebbe passare dal “monitoraggio-preventivo” alla “repressione-dissuasiva”. Ciò per essere al tempo stesso in una prima fase “amichevoli” con la generalità dei contribuenti, e quindi rigorosi verso l’ostruzionismo a rideterminazioni del reddito serie e credibili. L’esempio della repressione si giustifica, insomma, come la fase finale (per pochi) di un percorso amministrativo fatto di prevenzione e monitoraggio (che giustificano e legittimano la repressione). Per questo sarebbe importante l’interazione col contribuente nel più necessario intervento degli uffici tributari, sulla ricchezza non raggiunta dalle aziende. Sarebbe un tutoraggio valutativo, con un contraddittorio amministrativo permanente, dove ogni tanto passa il funzionario per “chiedere di fare” (adeguare gli incassi) e dopo qualche tempo ripassa per controllare cosa è stato fatto. Il fisco, in questo modo, “si fa vedere”, ma in genere non “accerta”, limitandosi a monitorare; cioè far vedere al contribuente, in modo personalizzato, che lo tiene d’occhio. Sarà il contribuente – quando gli affari vanno male – ad interagire col funzionario, sempre ragionando per ordini di grandezza, per credibilità economica, non per dettagli ragionieristici. Ne deriverebbero risultare, dove le aziende non arrivano, valutazioni estimative diffuse e trasparenti, in quanto “condivise” e accessibili dai soggetti “similari”, dove contribuenti e uffici (controllandosi reciprocamente in massa) costruiscono insieme una “perequazione fiscale”. È l’unico modo per coordinare l’anima contabile, efficacissima quando c’è di mezzo una organizzazione, con la vecchia anima “estimativa” della fiscalità (è un filo conduttore che riemergerà al par. 6.5 per il contenzioso amministrativo). Alla fine, pur facendosi vedere da un gran numero di contribuenti, e quindi recuperando sistematicità (par. 1.5 sull’autotassazione) la presenza sul territorio sarebbe molto più elevata, ma gli accertamenti meno numerosi di oggi. Essi sarebbero in gran parte chiusi in adesione amministrativa, secondo gli auspici di cui al successivo capitolo sesto. Semplicemente perché non fa archeologia sul passato, ma chiede chiarimenti sul Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 125 presente e invita a pagare sul futuro, controllando l’ordine di grandezza del dichiarato. Alla sempre utile propaganda (par. 4.2), si affiancherebbe una presenza valutativa sul campo, adeguatamente sistematica e quindi realmente “autorevole”. È lo sviluppo del concetto di “deterrenza”, che non si basa su sanzioni feroci applicate a pochi malcapitati (par. 6.13), ma spinge all’adempimento la massa. 5.8. Empirismo probabilistico e valutativo nella determinazione della ricchezza non registrata. (Le questioni di fatto nel diritto tributario) La determinazione della ricchezza ai fini tributari comporta prima di tutto un giudizio di fatto, il cui cui inquadramento giuridico-tributario avviene in un secondo momento, come già visto ai capitoli precedenti distinguendo tra “ricchezza occultata” (questione di fatto) ed “evasione interpretativa”, dov’è adottato indebitamente un regime giuridico più vantaggioso di quello dovuto, come indicato ai paragrafi 3.93.10. È una differenza strutturale alla formazione giuridica, in ogni tempo e luogo, dove le questioni di fatto si pongono sul piano conoscitivo, non su quello della meritevolezza, delle scale di valori (c.d. “assiologico” o più semplicemente valoriale); anche nelle questioni di fatto è presente una “valutatività”, ma si pone sul piano conoscitivo, degli ordini di grandezza di entità materiali o economiche, come appunto le stime del guadagno ritraibile da un certo bene o da una certa attività. Le questioni di fatto si ispirano prima di tutto a criteri empirici, valutati in base ai concetti di “fondatezza/infondatezza, qualunque sia la sede, processuale, amministrativa, o privata, in cui si pongono; le questioni di diritto, sia procedurali sia di inquadramento giuridico, vengono chiamate “di legittimità” (con una dicotomia dove in genere l’espressione “fondatezza” è riferita al fatto, e l’espressione “legittimità” al suo inquadramento giuridico). Il giudizio di fatto ha quindi la propria logica empirico-conoscitiva diretta a capire cosa è accaduto, autonoma rispetto alle scale di valori con cui approviamo o disapproviamo il risultato di queste scoperte, cioè lo qualifichiamo socialmente; solo per questo secondo passaggio la legge è rilevante, mentre il primo è – ripetiamo – in prima battuta “empirico-conoscitivo”, anche se talvolta condizionato dalle c.d. “prove legali” cioè da interventi legislativi sulla formazione del giudizio di fatto; sono condizionamenti di varia intensità, cui sono riconducibili già i casi in cui la legislazione consente o vieta di utilizzare certi mezzi di prova (ad esempio divieto di prova per presunzioni o per testimoni); l’intensità cresce quando certe circostanze si considerano provate in presenza di determinate condizioni (ad es. efficacia probatoria dell’atto pubblico o della confessione), o proibisce di considerare determinati elementi in quanto non esibiti in determinati tempi e luoghi. La prova “legale” non si contrappone certo, concettualmente, ad una fantomatica “prova illegale”, ma all’ordinaria “prova empirica” (chiamata anche “prova libera” nei termini indicati sopra), che ne costituisce lo sfondo, ed un utile criterio orientativo nei casi di dubbio interpretativo delle disposizioni di “prova legale”. 126 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Per determinare la ricchezza non registrata è fondamentale comprendere il carattere frequentemente valutativo e probabilistico del giudizio di fatto, caratterizzato anch’esso da una fase interpretativa. Anche per i fatti determinati in modo documentale e ritenuti affidabili c’è sempre una riflessione, una istintiva, fulminea, valutazione, così rapida che neppure viene percepita, per l’interpretazione di immagini, dichiarazioni, documenti, fotografie, reperti fisici, ecc.. Queste fonti delle informazioni sono prove in senso materiale, mentre la loro utilizzazione conoscitiva, più o meno istintiva o razionalizzata, è “prova” nel senso diverso di interpretazione, di ragionamento; il linguaggio giuridico anglosassone, per evitare confusioni connesse all’uso dello stesso termine, parla di “evidence” per la prova in senso materiale e di “proof ” per la prova come ragionamento. La prova in senso materiale (evidence) viene interpretata dalla prova come ragionamento (proof), confermando l’ineliminabile valutatività del giudizio di fatto”. L’appena indicata componente interpretativa conferma la portata essenzialmente probabilistica della prova, aspetto su cui c’è convergenza tra i giuristi, e totale disorientamento tra i pratici. Questo probabilismo segue il consueto gradualismo delle scienze sociali, passando secondo ininterrotte sfumature intermedie dai casi in cui “mancano ragionevoli dubbi” sull’esistenza di un fatto a quella dove mancano ragionevoli dubbi della sua “non esistenza”. Il concetto stesso di “certezza” è solo un modo di indicare un’alta probabilità, in presenza della quale ci sentiamo al riparo dal dubbio. Queste probabilità non sono numericamente esprimibili, secondo formule matematico-statistiche, ma solo “valutate”, con argomenti di senso comune, il più possibile organizzati e convincenti. Questa valenza probabilistica c’è anche per la tassazione ragionieristica attraverso le aziende, visto che i documenti sottostanti potrebbero essere stati in tutto o in parte manipolati; il giudizio di probabilità, oltre a riguardare elementi “puntuali”, circoscritti, identificati, può riferirsi anche ad entità globali, come la stima degli incassi, dei redditi o di determinati costi di operatori economici. A questo fine informazioni contabili e valutazioni per ordine di grandezza si fondono, secondo le varie combinazioni indicate al prossimo paragrafo. 5.9. Segue: necessità di coordinamento tra controlli contabili e valutativi: gli “indizi contabili” La ricchezza che passa attraverso le aziende, determinata in modo ragionieristico, deve essere coordinata con la tradizionale secolare stima della ricchezza che – invece – continua a non transitare attraverso le aziende. Non si tratta però di due mondi del tutto separati, in quanto aziende e lavoratori indipendenti interagiscono tra loro, come pure aziende più o meno organizzate. Il contesto contabile-ragionieristico, come vedremo, modifica anche i criteri di stima della ricchezza non intercettata dalle Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 127 aziende, che spesso lascia comunque gli “indizi contabili” di cui parleremo in questo paragrafo. Appare preliminarmente improponibile l’idea stessa di un fantomatico “accertamento contabile” della ricchezza non registrata, che l’ufficio tributario dovrebbe determinare ragionieristicamente. Se è complesso, per gli stessi contabili di azienda, tenere in ordine, e quadrare contabilmente, quanto si intende registrare e dichiarare, è impensabile che l’ufficio tributario possa ricostruire in modo ragionieristico la ricchezza evasa, che i contribuenti volevano nascondere. Per questo l’idea di “accertamento analitico-contabile” è miseramente fallita, in quanto fuorviante in partenza, e risoltasi nel comodo diversivo delle contestazioni interpretative su ricchezza registrata. Possono essere certamente reperite tracce di ricchezza non registrata, come appunti, ricevute, persino contratti, liste di crediti e debiti, tenuti però per memoria dei rapporti con le controparti, e quindi rapidamente distrutti, non appena il credito viene riscosso, o il debito pagato. Sono informazioni troppo rare e volutamente scarne per fondarvi una determinazione contabile della ricchezza evasa. Sono piuttosto “tracce contabili”, che richiedono interpretazioni presuntive. L’accertamento della ricchezza non registrata è infatti strutturalmente presuntivo, spaziando da presunzioni riguardanti specifici corrispettivi omessi, o costi gonfiati, fino a presunzioni su masse di operazioni non registrate, come quelle del piccolo commerciante al dettaglio, con le percentuali di ricarico di cui al par. 5.13. La valutazione della ricchezza non registrata, in sede di controllo da parte degli uffici tributari, torna quindi valutativa, secondo la tradizione della fiscalità e nel quadro dell’empirismo probabilistico del giudizio di fatto (sopra par. 5.8). L’idea stessa di “accertamento contabile” è stata però molto dannosa, perché ha alimentato la ritrosia degli uffici tributari, abituati al cauto legalismo del pubblico impiego, verso valutazioni per ordine di grandezza basate su ragionamenti personali, non corroborati da quella copertura normativa, cui i pubblici funzionari aspirano, come indicato al par. 5.3. “Mettere la faccia”, da parte degli uffici, sulla stima della ricchezza non registrata, era ancora più difficile quando quella registrata era determinata in modo ragionieristico. Le drammatizzazioni sociali indicate al capitolo precedente, la mancanza di riferimenti teorici, i sospetti ambientali di cui al par. 5.11, hanno trasformato la stima della ricchezza non registrata, da funzione istituzionale in un motivo di imbarazzo, da cui si cerca di stare lontani finché si può. Questo spinge gli uffici verso le contestazioni interpretative, che del resto sono le uniche compatibili con la confusione tra “diritto” e “legislazione”: se solo “la legislazione” costituisce “il diritto”, solo le questioni di diritto sono rilevanti, mentre la ricchezza non registrata, essendo “di fatto”, è come se non esistesse per il mondo giuridico (tanto è vero che nei principali manuali universitari non si parla proprio di questa distinzione, né della ricchezza non registrata). La ricchezza non registrata, quindi, può essere determinata solo confrontando quanto rappresentato al fisco con una serie di elementi che il contribuente non può negare; le divergenze valutative tra ufficio e contribuente riguardano quindi in generale la valutazione economica di caratteristiche materiali condivise da entrambi. Ci 128 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui sono le tradizionali caratteristiche economiche dell’attività, cioè le dimensioni dell’esercizio, gli addetti e gli altri indicati al par. 5.13. Ci sono però anche indizi ulteriori, come quelli “contabili”, cioè i versamenti bancari, la distribuzione degli scontrini nell’arco del mese, le somme scontrinate in un giorno in cui il locale era piantonato dai finanziaeri, i ricavi segnalati da clienti organizzati e istituzionali, gli incassi acquisiti con bancomat o assegni. Anche i versamenti e i prelevamenti bancari, indicati al par. 5.16, sono “indizi contabili”, come quelli – più tradizionali – dei costi di lavoro dipendente o di energia. Da elementi contabili di un calcolo ragionieristico, queste informazioni cambiano natura, e si calano in un ragionamento presuntivo, destinato a valutazioni per ordine di grandezza. Queste due tipologie di indizi devono essere integrate, nella misura in cui rilevano per un medesimo contribuente. È un coordinamento da svolgere in modo rapido, visto il numero di operatori economici coinvolti, con le finalità preventive di cui al par. 5.7, da associare all’impatto propagandistico-mediatico di cui al par. 4.2. Prima di riprendere il discorso, al par. 5.13, indichiamo alcuni impatti teorico generali di questa “valutatività” nella determinazione della ricchezza (paragrafo successivo), alcuni ostacoli ambientali alle valutazioni (par. 5.11) e inadeguatezze legislative (par. 5.12). 5.10.Stima della ricchezza non registrata, discrezionalità e “indisponibilità” del credito tributario La valutazione amministrativa della ricchezza, dove le aziende non arrivano, è un riflesso particolare della valutatività generale del diritto, che a ben guardare, esiste anche davanti al giudice. A maggior ragione la necessità di valutare sussiste per le istituzioni pubbliche chiamate a “fare”, come le autorità amministrative (par. 2.4). L’istintiva concezione processualistica del diritto tributario ha spinto a trasferire sugli uffici tributari la posizione valutativa dei giudici. Ne è derivata una fuorviante idea di “vincolatezza” fuori luogo persino con riferimento ai magistrati; anche questi ultimi hanno infatti notevolissimi margini di valutazione, essendogli solo sottratto l’apprezzamento diretto degli interessi in gioco, mediato dalla legge, e restandogli quella che ho in altra sede denominato “discrezionalità interpretativa”. Come tutte le altre autorità pubbliche, gli uffici tributari devono invece anche “agire ”, allocando risorse scarse per il perseguimento della propria funzione e proprio qui sta la valutatività della determinazione della ricchezza dove le aziende non arrivano. In questi casi, infatti, sussiste ancora una catratteristica della tassazione tradizionale, indicata al par. 1.3, e connaturata alla sistematica valutazione della ricchezza da parte degli uffici, dove è naturale che, con tutta la buona fede, prescindendo da favoritismi ed abusi, non vi sia una omogeneità valutativa assoluta. La credibilità economica nella stima della ricchezza, infatti, non conduce a valori puntuali, ma a fasce di valori, che si assestano a seconda dell’intensità dell’intervento amministrativo, dei contribuenti valutati in precedenza, delle sfumature tra i diversi indizi disponibili, come vedremo al par. 5.13 per gli studi di settore. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 129 Su questa complessa situazione la fantomatica vincolatezza paralizza il ragionamento, secondo lo pseudo-normativismo di cui al par. 4.3. Si ripresenta in sede amministrativa l’appiattimento del diritto sui “materiali normativi”, con la deresponsabilizzazione, creazione di ostacoli, scaricabarile, trasmissione delle pratiche da un ufficio all’altro, in attesa che si risolvano da sole, diventando invece alla fine incomprensibili per tutti. La fantomatica vincolatezza si trasforma in uno strumento di “comodità istituzionale” ed i preconcetti sull’indisponibilità del credito tributario, sulla mancanza di discrezionalità, sulla vincolatezza, etc., hanno obiettivamente agevolato la deresponsabilizzazione della macchina pubblica italiana in materia tributaria. Ne sono derivate paralisi, drammatizzazioni, sceneggiate (par. 5.19), sprechi di controlli fiscali, loro sbilanciamento sulle questioni di diritto (par. 5.7), enormi dispersioni di energie, che rendono il settore tributario un allarmante campanello d’allarme per la macchina pubblica italiana in genere. Anche la fantomatica vincolatezza offre quindi una sponda teorica al desiderio di quieto vivere latente in tutte le amministrazioni pubbliche, alla tendenza a scaricare le decisioni su qualcun altro. Nell’insieme, una serie di fattori culturali (o meglio subculturali) trattengono i funzionari dalla stima della ricchezza non determinata dalle aziende. Facendo un paragone con altre funzioni pubbliche, sarebbe come se i medici fossero spaventati dai malati, i maestri dagli alunni, i netturbini dai cassonetti, i giudici dalle cause, i carabinieri dagli scippatori, i vigili urbani dalle macchine in divieto di sosta. È un riflesso di una confusione prima di tutto mentale, dove la fantomatica “vincolatezza” dell’azione amministrativa la allontana dalla ricerca del pubblico interesse, indirizzandola verso le coperture e le auto protezioni di cui al termine del par. 5.3. Il pubblico servizio di determinazione della ricchezza assomiglia sempre più a quei giochi di carte dove tutti cercano di non rimanere con “la peppa” o l’“uomo nero” in mano, entrambe allegorie della responsabilità. Sono tutti freni alla ricerca delle migliori modalità degli uffici di perseguire la propria funzione di governo della fiscalità, e di determinazione condivisa della ricchezza. I sistemi fiscali esteri non sono diversi dai nostri, ma spingono a valutazioni ragionevoli, secondo buonsenso, senza esorcizzare le proprie scelte, rispettando chi ha valutato e prendendosi le proprie responsabilità, frase che in Italia sembra una minaccia. La pretesa “vincolatezza” è anche uno strumento per costruire ostacoli, trasformare i diritti in favori, con le degenerazioni di cui diremo al prossimo paragrafo a proposito della corruzione, e delle piccole schermaglie di ufficio indotte dal sospetto, nonché dal desiderio di mostrarsi rigorosi e zelanti per acquisire “peso specifico”, tra uffici e colleghi, nella gestione dei rapporti interni e con altre organizzazioni. Prima di parlare di questo cerchiamo però di capire cosa devono valutare gli uffici, e in quale modo, ai fini della determinazione tributaristica della ricchezza. Rispetto alla discussione se chiamare “discrezionali” o meno queste valutazioni, è più importante capire cosa bisogna valutare, cioè di quali profili devono tenere conto gli uffici e quali devono invece considerare irrilevanti. Un punto fermo è la non spettanza agli uffici tributari, come già rilevato per la riserva di legge (par. 2.1), di valutazioni sull’impatto economico-sociale dei tributi, sullo sviluppo, sul gettito e la tutela patrimoniale, ed altri riflessi politico- 130 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui economici coinvolti nell’applicazione dei tributi. Sono profili importanti, ma riguardano altri settori della macchina pubblica, al cui interno esistono specifiche attribuzioni di funzioni, ad esempio assistenziali, di sviluppo economico, di ricerca, cultura etc... Si tratta di profili non valutabili dagli uffici tributari in quanto “estranei alla funzione da essi svolta, cioè la determinazione della ricchezza; quest’ultima però comporta la necessità di contemperare varie esigenze, quando avviene attraverso la valutazione degli uffici, dove le aziende non arrivano. Occorre in questo caso contemperare i profili già indicati al par. 1.9, come precisione, semplicità, etc., con la sistematicità dell’intervento degli uffici tributari, in relazione alla massimizzazione dell’impatto sull’adempimento (par. 5.7). Si tratta di allocare risorse amministrative per definizione scarse, massimizzandone l’efficacia complessiva, il che comporta per definizione, a vari livelli, valutazioni di opportunità (“costi benefici”, dette anche “trade off ” in linguaggio anglo-aziendale). Sono diversi modi per farsi interpreti dell’interesse pubblico, contemperando qualità e quantià degli interventi ed i loro risultati, in relazione alle tipologie di ricchezza raggiunte, e soprattutto sul contributo alla credibile autodeterminazione (tax compliance). Emergono quindi profili in cui ciascuno, sia essa autorità fiscale centrale, articolazioni regionali, singoli uffici e funzionari, deve farsi interprete dei propri compiti. Con margini di scelta influenzati dalle informazioni disponibili, dai carichi di lavoro, dalle circostanze. Sono profili di valutazione che non possono essere esorcizzati con una malintesa vincolatezza, e che tanto vale definire come discrezionali nei limiti suddetti. Ne ritroveremo ulteriori esempi anche a proposito della gestione delle liti, della riscossione e di vari altri profili indicati nel testo. Sono profili da metabolizzare concettualmente, sia per la serenità operativa degli uffici sia per la trasparenza del rapporto coi contribuenti; sono discorsi imbarazzanti perché anche ad alcuni settori delle pubbliche amministrazioni conviene, spesso inconsapevolmente, un’affermazione esteriore di vincolatezza, in modo da sottrarsi a qualunque controllo su come i margini di valutazione suddetti sono stati esercitati. Senza una riflessione sul tema la pur apprezzabile tendenza “aziendalistica” di pragmatismo e flessibilità, soprattutto dell’agenzia delle Entrate, rischia di essere insufficiente; qui è importante il lavoro degli studiosi (par. 4.7), perché gli uffici tributari sono un luogo di lavoro, non di riflessione. Gli “uomini d’ufficio” che vi lavorano devono misurarsi con problemi contingenti, senza giustamente interrogarsi troppo sui preconcetti sbagliati che li hanno prodotti, e di cui riparleremo anche al prossimo paragrafo. 5.11.Segue. I sospetti di connivenza o negligenza come ostacolo a una serena valutazione della ricchezza La necessaria sistematicità, indicata al par. 5.7, del monitoraggio sulla ricchezza non intercettata dalle aziende, è ostacolata, come più volte anticipato, dall’imbarazzo per i rischi di corruzione connessi ai relativi margini di stima, tipici di questa tassazione valutativa. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 131 Il timore di essere considerati corrotti, per determinazioni “ragionevoli”, o “a posteriori” anche troppo ragionevoli, spinge infatti i funzionari a “non scoprirsi” e ad attestarsi nella fascia elevata dell’ordine di grandezza della possibile stima. La rigidità, il fiscalismo, persino l’ottusità sono simboli che dovrebbero (in apparenza) allontanare i sospetti di negligenza o corruzione. Quest’ultima è quindi dannosa non tanto dove esiste, quanto perché ostacola la ragionevole stima della ricchezza non raggiunta dalle aziende. Ne derivano lungaggini sulla durata dei controlli, una forte litigiosità, un formalismo auto-protettivo, più dannoso della corruzione stessa. L’imbarazzo aumenta perché è verosimile che chi manovra cifre fuori bilancio ne prometta una parte al verificatore. Esorcizzare in modo moralistico queste eventualità contribuisce a un clima di generalizzato sospetto, che drammatizza l’azione amministrativa, dove le aziende non arrivano, togliendole serenità, rendendola meno sistematica. Tutta questa apparenza di rigore paradossalmente, come vedremo tra poco, aumenta le occasioni di corruzione. La valtuazione della ricchezza dove le aziende non arrivano dovrebbe essere infatti snella e sistematica, diffusa e condivisa, quindi, “economicamente ragionevole” rispetto alle informazioni di massima possedute. Una stima ragionevole e serena della ricchezza non registrata potrebbe spesso essere rapida, massimizzando gli interventi del fisco, rendendoli sistematici e perequando la tassazione dove le aziende non arrivano. Questo sereno circolo virtuoso è bloccato dal sospetto che poi, per circostanze sopravvenute, dovesse emergere che la ricchezza non registrata era maggiore, trasformando a posteriori la “ragionevolezza” in una colpa, o in un sospetto: non a caso, l’espressione “funzionario ragionevole” è spesso usata come sinonimo di “sensibile ad ammorbidimenti” di vario genere. L’azione di controllo “sistematica e ragionevole”, che diventa proprio per questo anche “socialmente trasparente” è proprio quella “meno cauta”, che massimizza i rischi di essere considerati corrotti quando non lo si è. Questo distoglie i controlli dalla ricchezza non registrata, spingendoli su contestazioni “di diritto” (par. 5.17 ss.), ed al tempo stesso è uno dei motivi del dilagare delle “prove legali” e della “ragionierizzazione delle stime” (filo conduttore del testo, cfr. par. 4.5, 5.13 etc), che alleggerisce queste assunzioni di responsabilità necessarie a valutare la ricchezza non registrata. Oltre a pregiudicare gravemente l’azione di controllo, questo clima è paradossalmente favorevole proprio per i corrotti, consentendo loro maggiori occasioni. Alla fine i pochi veri corrotti vivono tranquilli, mentre l’attività degli uffici è fortemente ostacolata dai tentativi degli altri di “proteggersi” dal sospetto. Quando infatti tutto si drammatizza e si paralizza, i diritti diventano favori, e si può chiedere una tangente per qualsiasi cosa, anche per quanto spetterebbe al contribuente di diritto, in automatico. Ricordiamo incidentalmente che i corrotti sono i primi beneficiari delle affermazioni stereotipe in tema di vincolatezza e di fantomatica carenza di “discrezionalità”, su cui paragrafo 5.10. Molte delle distorsioni che precedono derivano proprio dall’imbarazzo delle istituzioni verso la corruzione come problema strutturale della determinazione valutativa 132 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui della ricchezza; la rimozione del problema lo fa pesare come più di quanto dovrebbe, mettendone in ombra le particolarità. In materia tributaria manca il correttivo dei “contro interessati”, che possano notare e denunziare favoritismi sospetti, come avviene ad esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nelle concessioni commerciali, negli appalti pubblici. È un altro motivo per rendere trasparente il modo in cui è stata valutata la ricchezza di “attività economiche comparabili”; è un aspetto del “diritto di accesso agli atti”, da contemperare col diritto alla riservatezza, in modi che non possono essere approfonditi in questa sede (proporremo ancora al par. 6.5 di rendere accessibili al pubblico le definizioni della ricchezza “in adesione”). Ricercare la negligenza o la corruzione in base ai criteri per determinare la ricchezza finisce per deresponsabilizzare, in quanto aumenta l’esposizione al sospetto e le tendenze all’autoprotezione (ostacolando così l’azione valutativa degli uffici, e alimentando determinazioni esagerate, per cautelarsi dai sospetti di corruzione). È un andazzo che oggettivamente favorisce la ricchezza non registrata, davanti alla quale spesso si fa finta di non vedere, anche con la massima buona fede, per evitare una “grana”. Non per timore di azioni di responsabilità davanti alla corte dei conti, escluse per legge, ma per serenità ambientale. Il punto di partenza più utile contro la corruzione sono invece le denunce dei soggetti coinvolti, siano essi i contribuenti o i funzionari; questi ultimi dovrebbero essere istruiti ad aderire sempre a proposte corruttive, mettendo poi le autorità in condizioni di acquisire le prove inconfutabili per incriminare il tentato corruttore; all’opposto, chi denuncia richieste di denaro dovrebbe essere premiato, ove ci siano riscontri, e protetto da “accertamenti punitivi” da parte dei colleghi dei denunziati. La serena sistematicità dei controlli è il miglior antidoto contro la corruzione, perché genera “prassi comportamentali”, accessibili come rilevato dai contribuenti esercenti attività similari. Ai corrotti giova invece un modesto numero di controlli, potenzialmente vessatori, che possono diventare “ragionevoli a pagamento”. Abbiamo la conferma che i miti del “governo della legge”, a danno del buonsenso, producono non solo confusione, ma anche abusi. Parzialmente collegato è il sospetto di essere considerati negligenti, e quindi potenzialmente oggetto di responsabilità per danno erariale davanti alla corte dei conti, la magistratura contabile preposta tra l’altro al recupero dei danni provocati alle casse statali da pubblici dipendenti. Qui si potrebbe approfondire, in tesi di laurea o di dottorato, la necessità di estendere la già indicata esclusione da responsabilità colpose, dalle valutazioni effettuate in sede di contenzioso amministrativo (par. 6.4 e seguenti) a tutte le attività valutative della ricchezza non determinabile attraverso le aziende, se non a tutta l’attività determinativa della ricchezza in genere. L’ordinaria responsabilità contabile, infatti, riguarda la gestione dei beni e dei diritti ormai entrati nel patrimonio degli enti pubblici, e che sono suscettibili di essere ordinatamente amministrati. Per questo una responsabilità contabile, anche per colpa, può sussistere in caso di mancata notifica di un accertamento già redatto, o di mancata riscossione di un credito tributario già determinato. Appare invece fuori luogo considerare la ricchezza ancora da de- Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 133 terminare, non ancora acquisita al bilancio pubblico, e soggetta a tutte le scelte discrezionali indicate al par. 5.10, come un bene o un credito di cui i funzionari possono proceduralizzare la gestione. 5.12.Segue. Inadeguatezze della normativa sulla prova della ricchezza non registrata (ambiguità dei concetti di accertamento analitico contabile e induttivo extracontabile) Le valutazioni della ricchezza non registrata, dove le aziende non arrivano, pur essendo empiriche, non sono neppure incoraggiate dalle indicazioni contenute nella legislazione vigente. Il cui impianto sembra ancora risentire dell’illusione contabilistica della riforma del 1973, con la velleitaria pretesa di determinare in modo ragionieristico la ricchezza non registrata. Le diposizioni in materia appaiono il parto frettoloso di un empirismo istituzionale, di matrice economicistica, senza il supporto sistematico di studiosi dedicati alla determinazione giuridica della ricchezza, nella dialettica tra “tradizionale” determinazione valutativa attraverso gli uffici, e “nuova” determinazione contabile attraverso le aziende Anche per questo abbiamo una elencazione normativa composta di stereotipe e tautologiche elencazioni di casi in cui l’ufficio “procede alla rettifica o all’accertamento”; sono menzionate espressamente ipotesi di rettifica inverosimili, ovvie o ingenue come la mancata corrispondenza tra elementi dichiarati e indicati nel conto dei profitti e delle perdite, oppure tautologiche; non serve un articolo di legge per consentire l’accertamento “quando risultano” “attività non dichiarate”. È altrettanto ovvio che quando non risultano esattamente applicate le regole di inquadramento giuridico della ricchezza registrata, l’ufficio effettua le relative correzioni. Dalla sfilata di stereotipi contenuti nella normativa suddetta non viene alcuna indicazione sulle vere ipotesi di rettifica, cioè il probabile occultamento di ricchezza, descritto ai par. 3.7 e 3.13 dal punto di vista del contribuente, e ripreso ai successivo par. 5.13 dal punto di vista degli uffici. Le stereotipe disposizioni suddette si dilungano sterilmente sulle scritture contabili, trascurando l’affidabilità dell’organizzazione, le sue rigidità, la verosimiglianza economica del dichiarato, e tutti gli altri aspetti, indicati al capitolo terzo, che determinano l’adempimento o l’evasione. Più che erronee sono disposizioni inconsistenti, composte di formule criptiche prive di contenuto, né vere né false (si ricordi la tecnica di “parlare senza dire nulla” con espressioni apparentemente in tema, anticipata al par. 4.3 e che ritroveremo al 5.18). Meglio sarebbe stato tacere, e lasciar operare i consueti criteri empirici del giudizio di fatto, indicati al par. 5.8-5.9, prendendo atto (e incanalando) la discrezionalità di cui al par. 5.10.Trattandosi di disposizioni superflue, come tutte quelle in materia di questioni empiriche, in loro assenza ci sarebbero stati meno equivoci, meno immobilismi e più riflessione.Vent’anni di equivoci, e di polemiche sterili, confermano che sarebbe stato meglio lasciar valutare caso per caso, anziché indicare, con formule inevitabilmen- 134 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui te vaghe, il grado di probabilità astratto che le argomentazioni degli uffici dovevano raggiungere. La velleitaria enfasi normativa sulla regolarità o irregolarità delle scritture contabili, porta fuori strada rispetto alla determinazione tributaristica della ricchezza. Ciascuno degli operatori interessati adatta queste normative stereotipe alle proprie contingenti convenienze, accertative, professionali o difensive, del caso specifico, le ripete ossessivamente e finisce anche lui per parlare senza dire nulla. L’inutile e confusionario balletto legislativo indicato sopra ha portato alla elaborazione di due compartimenti stagni, cioè l’accertamento “analitico” e quello “induttivo o extracontabile” L’aggettivo induttivo significa “presuntivo” e “probabilistico”, mentre “extracontabile” significa che prescinde dal risultato contabile, pur magari utilizzando alcuni dati contabili per effettuare delle presunzioni. Le rettifiche “di diritto”, attinenti al regime della ricchezza registrata, si inseriscono facilmente nell’accertamento “analitico” (o “contabile”), cioè basato sulla riqualificazione giuridica dei documenti forniti dai contribuenti, reinterpretati in modo diverso. Sulla ricchezza non registrata (questione di fatto), l’accertamento “analitico” può riguardare casi di scuola in cui emerga la prova specifica di un ricavo non registrato, ad esempio da un documento non registrato, un contratto etc... Quanto più però il fisco si allontana da “singoli ricavi” rideterminando presuntivamente “gruppi di operazioni”, tanto più l’accertamento «analitico», si avvicina, secondo il consueto gradualismo delle scienze sociali, a quello induttivo-globale o extracontabile, di cui agli artt. 39 comma 2 dpr 600 e art. 55 del dpr IVA). I motivi (o «presupposti») formali dell’accertamento induttivo, per omissioni contabili e documentali, come l’omessa dichiarazione del reddito d’impresa o l’omessa tenuta di un libro contabile, sono casi limite trascurabili e rarissimamente utilizzati. Quando l’organizzazione è di notevoli dimensioni, l’accertamento in base alle caratteristiche e alle dimensioni dell’impresa è semplicemente improponibile, mentre emerge quasi automaticamente per il “lavoro indipendente”, verso consumatori finali, come anticipato spesso qui e vedremo anche al par. 5.13. Il problema vero c’è quando la contabilità è formalmente regolare, ma economicamente non verosimile. Ove non si usino gli studi di settore (par. 5.13), l’accertamento induttivo extracontabile è in genere basato su caratteristiche esteriori dell’azienda, quali la capacità produttiva dei macchinari, la resa delle materie prime o il rendimento degli addetti (ne vedremo esempi ai paragrafi successivi). La rideterminazione dell’importo complessivo dei ricavi, in base a indizi tipicamente estimativi, disattende la contabilità nella sua affidabilità di base. Simili rideterminazioni “estimative”, presuppongono che la rappresentazione contabile dei ricavi sia infedele, per il sistematico occultamento di una parte notevole, anche se imprecisata, di essi. A rigore queste argomentazioni dovrebbero appartenere al c.d. accertamento “induttivo extracontabile”; più brevemente, la giurisprudenza le giustifica con la formula dell’accertamento “analitico induttivo”, affermando che viene rettificato solo l’importo dei ricavi. Sono scorciatoie per rigettare comunque le obiezioni dei contribuenti, che cercano di Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 135 farsi scudo con contabilità formalmente regolari, asserendo che il fisco dovrebbe previamente scardinare l’impianto contabile. Invece di stare a discutere sull’idoneità a questo scopo della rettifica, i giudici tagliano corto, inserendola nell’accertamento contabile (art. 39 comma 1 e art. 54 dell’IVA). I ricavi non registrati rilevano in genere simultaneamente, per definizione, sia ai fini delle imposte sui redditi sia ai fini dell’IVA; quest’ultima avrebbe dovuto gravare sul cliente, ma sarà accertata in capo al fornitore. Si tratta di un riflesso sistematico dell’oggetto economico del diritto tributario, dove l’IVA e i redditi tassano due facce della stessa medaglia, cioè il consumo del cliente e il reddito del fornitore. Anche gli elementi negativi fittizi comportano in genere una indebita detrazione di IVA, e sono anch’essi rilevanti ai fini dei due tributi. Le questioni di “riqualificazione giuridica del dichiarato”, come tutte le questioni valutative del reddito di impresa, o connesse ad elusioni fiscali vere o presunte, o ai regimi IVA applicabili a operazioni dichiarate, rilevano separatamente per ciascuno dei due tributi. 5.13.Valutazione amministrativa della ricchezza non registrata, tra indizi fisico-economici e studi di settore (rinvio agli indizi finanziari al par. 5.16) La mancata registrazione della ricchezza, descritta al capitolo terzo dal punto di vista dei contribuenti, deve essere qui esaminata, invece, dal punto di vista dei controlli tributari. Dal punto di vista degli uffici tributari, il controllo della ricchezza non registrata da parte di titolari di organizzazioni aziendali pluripersonali (“grande” evasione dei titolari sopra le aziende di cui al par. 3.7) non può essere riportato a tipologie precise e l’unico denominatore comune in sede di controllo è la maggiore credibilità esteriore dei relativi risultati. Il controllo fiscale delle aziende di una certa dimensione deve passare in rassegna le procedure contabili interne, in relazione alla loro scavalcabilità dal titolare. L’analisi del rischio tributario, cui fa riferimento la delega fiscale del 2013 per le grandi aziende, come pure il progetto pilota varato a metà del 2013, dovrebbe riguardare proprio questo, ma le idee sono ancora molto vaghe. In pratica però sembra che le poche contestazioni per ricchezza non registrata verso aziende strutturate siano nate per ragioni fortuite, cioè liti societarie, familiari, corruzioni di pubblici ufficiali, etc… Comunque Anche alla grande azienda si addicono alcune argomentazioni presuntive indicate in questo paragrafo, e anche alla spesa degli imprenditori si addice il valore segnaletico di spese personali incongrue, rispetto ai redditi dichiarati, di cui diremo al prossimo paragrafo. Iniziamo quindi dal controllo degli uffici tributari sul lavoro indipendente verso consumatori finali, esaminato al par. 3.14. Si tratta di piccolo commercio e artigianato, in grado di omettere la registrazione delle componenti attive, togliendo ricchezza da sopra; questo comportamento, molto più facile per le note flessibilità gestionali, rende 136 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui poco convenienti costi fittizi, fiscalmente più visibili e quindi rischiosi. Neppure sono rilevanti, ai fini del controllo, i “regimi giuridici del dichiarato”, che possono limitarsi a deduzioni di spese personali (par. 7.9) sull’inerenza. Sono soggetti dove non c’è una contabilità occulta da scoprire, al massimo c’è qualche promemoria dei crediti da riscuotere e dei debiti da pagare, distrutto non appena gli incassi e i pagamenti ci sono stati: altrimenti, il lavoratore indipendente prende i soldi, li spende, senza bisogno di alcuna annotazione per se stesso. È la solita differenza tra “aziende” e lavoratori indipendenti, per i quali l’unica visibilità della ricchezza è quella materiale, economica, stimabile solo per ordine di grandezza dagli uffici tributari. In base appunto alle caratteristiche materiali ed economiche dell’attività svolta. Per le attività indipendenti con caratteristiche stabili nel tempo, esiste però una certa facilità di determinazione valutativa della ricchezza, stimandola per ordine di grandezza in base a nozioni di esperienza comune. La ricchezza non registrata in queste attività deriva essenzialmente, come anticipato al paragrafo 3.14, da incassi occultati; individuare specificamente singole omissioni è possibile solo in casi particolari, di rilevante importo, come l’edilizia o la nautica da diporto. Per attività diffuse, piccole e tradizionali, è facile stimare la credibilità del giro d’affari in base a parametri presuntivi. Si tratta dell’ubicazione, della continuità e dell’intensità dell’impegno del titolare e degli eventuali collaboratori, dei beni strumentali, dei consumi di materie prime o de i margini di guadagno sulle merci rivendute. Alcuni di questi indizi riguardano tutti, altri si addicono a specifiche attività, in cui esistono correlazioni stabili tra alcuni fattori produttivi e i ricavi. Rispetto al passato, la collocazione della stima in un contesto contabile, consente di utilizzare anche gli indizi documentali e finanziari indicati al par. 5.9, come i canoni di locazione degli immobili, i consumi di energia risultanti dai fornitori di utenze, i versamenti bancari, gli incassi con carte di credito, gli scontrini emessi, le retribuzioni del commesso, gli acquisti fatturati di merci. Le stime presuntive dei ricavi possono basarsi su vari ragionamenti indiretti, a seconda della loro persuasività economica e della loro credibilità nel caso concreto. Si pensi alla individuazione di un ordine di grandezza di operazioni che il contribuente non possa negare di aver realizzato, in quanto corrispondenti alle caratteristiche esteriori del suo negozio, del suo laboratorio, della sua attività professionale. Moltiplicando questo ordine di grandezza per le tariffe grossomodo praticate, si può stimare un ordine di grandezza dei ricavi. Ci sono poi indizi valutativi per varie tipologie di attività, dal consumo di energia per un parrucchiere, ai camerieri di un ristorante, agli acquisti di scarpe di un rivenditore di calzature, alla ricettività di un albergo, alla percorrenza minima di un trasportatore, etc... Per i rivenditori di merci al dettaglio, il rapporto tra prezzo al pubblico e prezzo di acquisto, denominato “percentuale di ricarico” (rispetto appunto al costo) è una presunzione abbastanza frequente. Applicando questa percentuale ai costi di acquisto, si dovrebbe giungere a un ordine di grandezza dei ricavi, considerando i diversi margini di ricarico per le varie merci, le liquidazioni, le stagionalità, i deperimenti, etc... Quando la percentuale di ricarico è bassa, e le merci sono numerose, la rivendita in nero di una Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 137 modesta quantità di merci acquistate in bianco, e dedotte, può essere difficile da dimostrare in modo convincente, da parte dell’ufficio tributario (una quota, anche piccola, di ricavi non registrati può essere molto rilevante rispetto al reddito). Per le imprese di servizi (albergatori, baristi, autoriparatori, parrucchieri, ecc.) si può utilizzare, oltre che la ricettività dell’esercizio, un consumo correlato con le prestazioni rese. Si pensi ad esempio al consumo di farina per una pizzeria, di energia elettrica per una lavanderia, di caffè per un bar, di vernice per un carrozziere, di gasolio per un autotrasportatore. Gli indizi sono meno numerosi, e meno univoci, per le attività senza una sede fissa, o di cui comunque non sono certe la continuità nel tempo e l’intensità dell’impegno del titolare. Si pensi a chi consegna merci a domicilio, senza avere un deposito “visibile”, agli artigiani e ai professionisti che lavorano presso i clienti, spesso anche qui a domicilio; sono attività economiche ad intensità molto variabile, come a maggior ragione attività fortemente personali, come le ripetizioni, i trattamenti fisioterapici, di “personal trainer”, le lezioni di musica o di ballo, e tutti i modi con cui si cercano mezzi per vivere, come indicato al par. 3.15, fino alla prostituzione; in tutti questi casi, vista la limitatezza delle informazioni sull’intensità del lavoro, nel tempo ha senso l’utilizzazione, di supporto, del tenore di vita (par. 5.14). Queste determinazioni presuntivo-valutative, da effettuare tipicamente per ordine di grandezza, andrebbero coordinate con la precisione ragionieristica della tassazione attraverso le aziende, facendo accettare socialmente l’apparente sfasamento rispetto alla determinazione ragionieristica del reddito di un impiegato o di un operaio. Si fanno strada, altrimenti, quelle che abbiamo chiamato “ragionierizzazioni delle stime” (par. 4.5 e 5.9), tra cui rientrano gli strumenti parametrici che, dopo varie effimere evoluzioni, sono arrivati ai c.d. «studi di settore». Essi ripercorrono, formalizzandole numericamente, e irrigidendole in formule prestabilite, le già indicate stime dei ricavi, in base alle suddette caratteristiche economico-strutturali dell’attività. Le stime personalizzate per ordine di grandezza sono state però cristallizzate in correlazioni numerico-statistiche che individuano, per ciascuna attività commerciale e di servizi con ricavi inferiori a una certa soglia (7,5 milioni di euro), una serie di caratteristiche economico strutturali in base alle quali presumere le operazioni attive (ricavi) ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA. Sono automatismi in cui, inserendo una serie di dati ((ubicazione, attività, addetti, costi, attrezzature, etc.), emerge un “intervallo di confidenza” in cui collocare i ricavi. In questa “ragionierizzazione delle stime” gli studi non coordinano le diverse modalità per stimare i ricavi, ad esempio basandosi al tempo stesso su varie presunzioni, basate sulle materie prime, sulla percentuale di ricarico, sui beni strumentali, sull’energia elettrica, sul lavoro dipendente, sulla remunerazione figurativa del titolare. Ciascun elemento indiziante, di stima, porta ad un ricavo presunto, e tra tutti i ricavi presunti occorrerebbe calcolare un “ricavo medio”, tenendo conto della più intensa portata indiziante di alcuni parametri nel caso di specie: Non c’è traccia di come gli studi di settore, nelle loro formalizzazioni numerico-esoteriche, risolvano il problema. Fino all’assurdo che, aggiungendo un certo ammontare di acquisti ad una 138 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui azienda con elevata percentuale di ricarico, secondo gli studi i ricavi aumentano di poco più che i maggiori costi inseriti nel modello. Questi concetti economico statistici sono estranei alla cultura sia degli uomini di legge sia degli uomini di azienda, annoverando espressioni per loro misteriose, come regressione lineare multipla, reti neurali, cluster, intervalli di confidenza etc... Anche espressioni apparentemente normali, come “congruità”, “coerenza”, indicatori di normalità economica, si colorano di strano esoterismo, quando sono usate, ad esempio, per indicare “soggetti congrui, ma non coerenti”. Questa estraneità degli studi alla determinazione tributaristica della ricchezza emerge anche dal perfezionismo asettico dei raggruppamenti delle attività rispetto agli indizi personalizzati di incassi non registrati, come le dimensioni, la clientela privata o aziendale, la valutabilità empirica della credibilità del dichiarato. I ricavi accertabili in base agli studi paiono spesso assai modesti rispetto a quanto presumibile in base alle caratteristiche concrete dell’attività. Ciò in base alla più volte rilevata tendenza delle forfetizzazioni e delle parametrazioni a “tenersi basse”, essendo politicamente più tollerabile un errore per difetto di uno per eccesso (paragrafo 6.5). Quanto precede spiega la diffidenza, nell’ambiente avvocatesco-ragionieristico verso gli studi, che appaiono come un misterioso rito economico-statistico; essi quindi sono spesso valutati “partendo dalla fine”, cioè chiedendosi se il risultato dello studio appare più o meno credibile delle cifre dichiarate, a prescindere dalla metodologia sottostante. Se i ricavi dichiarati sono bassi, e dagli studi emerge un importo più verosimile, questo è sufficiente a preferirlo, anche senza razionalizzare il criterio di determinazione. Lo studio prevale non per intrinseca bontà metodologica, ma se il suo risultato è più credibile considerando le caratteristiche dell’attività. La spiegazione di questi confronti è spesso intellettualmente complessa, e quindi i giudici preferiscono la scorciatoia argomentativa sulla sufficienza o meno dello studio alla rettifica. La logica “estimativo-formale” degli studi va coordinata anche con quella “analitica, degli scontrini, delle altre certificazioni dei corrispettivi, delle altre segnalazioni, delle indagini bancarie ed annesse presunzioni di rilevanza fiscale di versamenti e prelevamenti, con le limitazioni all’uso del contante (pensate in chiave antiriciclaggio, ma con un palese secondo fine di contrasto all’evasione fiscale). Anche l’applicazione degli studi ad attività, come le costruzioni edilizie, in cui i beni ceduti non possono essere nascosti, appare priva di senso economico. È parimenti irragionevole applicare gli studi verso chi non lavora al consumo finale, ma opera verso aziende o enti pubblici, magari anche assoggettato a ritenuta; in questi casi infatti i i pagamenti in nero sono semplicemente “inverosimili”. La trascuratezza culturale per la determinazione (contabile o valutativa) della ricchezza conduce a una grossolana presunzione di evasione per chiunque abbia ricavi inferiori a una certa cifra, indipendentemente dalla tipologia di clientela e quindi dalla possibilità di ricchezza non registrata.possono esserci anche aziende con fatturato inferiore a 5 milioni, ma alto valore aggiunto, magari appartenenti a gruppi multinazionali rigidamente organizzati, o a enti pubblici, teoricamente soggette agli studi di settore senza avere margini per occultare corrispettivi. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 139 L’obiezione secondo cui gli studi di settore non possono considerare le diverse abilità e attitudini è particolarmente calzante per il lavoro intellettuale; mi riferisco soprattutto alle libere professioni (avvocato, o chirurgo), dove la prestazione è meno fungibile di quella di un tassista o di un parrucchiere. L’applicazione degli studi ai professionisti, pur dettata da esigenze di uniformità “politico-comunicazionale”, deve quindi fare i conti la minore omogeneità delle relative prestazioni, e soprattutto la possibile diversa intensità lavorativa. C’è chi attacca gli studi ritenendoli troppo favorevoli ai contribuenti; effettivamente i ricavi dichiarati dagli “autonomi”, distinti per categoria, sono ancora troppo modesti, ma relativamente elevati rispetto all’effettivo controllo del territorio da parte del fisco (paragrafo 4.6); queste critiche non considerano che qualche incremento c’è stato, e che gli studi possono velocizzare e rendere sistematica una valutazione amministrativa personalizzata della ricchezza. In questa prospettiva si colloca anche il rischio che soggetti con ricavi superiori a quelli risultanti dagli studi di settore, ma con una certa visibilità contabile, ad esempio per la documentazione richiesta dai clienti, tendano ad “appiattirsi sugli studi”, utilizzandoli come una sorta di catasto, di forfetizzazione dell’imponibile, dichiarando quel che risulta dagli studi; la coerenza rispetto agli studi potrebbe spingere questi soggetti a non registrare le somme risultanti da fatture emesse, scontrini, bonifici bancari, o persino compensi assoggettati a ritenuta. Gli studi neppure riescono a valorizzare i frequentissimi squilibri in cui magari il soggetto è congruo, ma “stranamente” le sue fatture sono emesse in prevalenza verso clienti che potevano “scaricare” (par. 9.3 sul contrasto di interessi). Ne deriva la tendenza frequente a mostrarsi coerenti basandosi sui ricavi necessari a coprire i costi, molti dei quali sono però esclusi da IVA (lavoro dipendente, locazioni); essendo i ricavi soggetti a tributo, c’è la tendenza a registrare soprattutto le prestazioni verso clienti “operatori economici”, che detraggono l’IVA e deducono i costi. Di tutto ciò negli studi non c’è traccia, perché lo strumento in esame dimentica la tassazione attraverso le aziende, cercando banalmente di “mummificare” in un marchingegno parametrico le valutazioni che dovrebbero caratterizzare la tassazione attraverso gli uffici. Oggi come oggi l’adeguamento agli studi di settore è sollecitato soprattutto dai commercialisti, che in questo modo si cautelano rispetto a future lamentele dei clienti nel (remoto) caso di controllo; è quindi un caso di “tassazione attraverso i professionisti” (par. 3.16), che spingono i clienti all’adeguamento per cautelarsi rispetto a responsabilità proprie; questo anche andando contro l’interesse reale del cliente, basato su una razionale valutazione del rischio di controllo, spesso presentato in misura superiore a quella effettiva dal commercialista, per le suddette ragioni di cautela. Anche questo conferma l’utilità di questo strumento, anche se ovviamente “non risolutivo”, nell’attesa di un affinamento graduale della sensibilità valutativa degli uffici e dell’ambiente tributaristico in generale. Gli studi garantiscono un primo livello di credibilità e sono adatti per una prima richiesta “adeguatamente sistematica”, cioè diffusa, con istruttoria snella, e senza pregiudizio per ulteriori stime personalizzate. È infatti da escludere che qualcuno registri 140 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui ricchezza che non possiede solo per essere congruo e coerente con gli studi di settore. Dopo aver quindi profittato della suddetta “tassazione attraverso i commercialisti”, si potrebbe svolgere il controllo valutativo del territorio da parte degli uffici, di cui al par. 5.7. Si tratta di un confronto personalizzato di credibilità esteriore, tra quanto dichiarato e le caratteristiche dell’attività. Sarebbe un passaggio molto rapido, di prevenzione – monitoraggio senza analisi ragionieristiche, da svolgere in modo sistematico, che si trasformerebbe in una attività accertativo –repressiva solo per le posizioni più spregiudicate, secondo la distribuzione (e la finalità) dei controlli di cui al paragrafo 5.7. L’obiettivo dovrebbe essere una corretta rappresentazione delle attività, e una iniziale personalizzazione degli studi di settore. L’area di “franchigia fiscale” connessa alla difficoltà di determinazione dei redditi di queste categorie, sarebbe finalmente gestita in modo valutativo, e non scaramanticamente ignorata. Senza un’impossibile determinazione “al centesimo” su pochi lavoratori indipendenti, l’obiettivo sarebbe una credibilità complessiva dell’insieme delle attività dove le aziende non arrivano. È questo (paragrafo 5.7) il vero “tutoraggio fiscale” amministrativo, in cui va inquadrata anche l’utilizzazione della spesa personale (redditometro) di cui diremo al prossimo paragrafo. 5.14.Tenore di vita e spesa “privata” come indizio di ricchezza non registrata (accertamenti “sintetico-redditometrici”) Finora abbiamo parlato in prevalenza di determinazione della ricchezza, in modo contabile o valutativo, guardando la relativa produzione. Si tratta del metodo più efficiente nei contesti economici aziendal-tecnologici come quelli in cui viviamo da alcuni secoli; la tassazione ragionieristica attraverso le aziende è un caso emblematico di determinazione della ricchezza alla produzione. Anche la tassazione dei consumi è sempre avvenuta attraverso gli operatori economici che fornivano prestazioni ai consumatori finali. La determinazione della ricchezza reddituale al consumo appare concettualmente meno efficiente, ma ha dato risultati apprezzabili su alcune tipologie di ricchezza. Nell’era agricolo-artigianale la tassazione reddituale alla produzione riguardava solo i redditi agricoli e veniva integrata con tassazioni reddituali basate sul tenore di vita (sistemi a ripartizione, di cui al par. 1.3), che finivano per colpire anche artigiani, piccoli commercianti, ed altri operatori non agricoli; da quando anche dei redditi non agricoli sono stati tassati alla produzione (paragrafo 1.8) la tassazione del reddito al consumo è divenuta meno importante. Ne rimaneva traccia, in Italia, nella c.d. ’imposta di famiglia, fortemente devitalizzata già prima della sua abolizione formale, con la riforma fiscale del 1973; la determinazione del reddito in base ai consumi fu in quella sede prevista a proposito del c.d. “accertamento sintetico”. È un metodo alternativo e complementare, una soluzione di ripiego, per i casi in cui appare troppo difficile o complessa la tassazione del reddito alla produzione. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 141 Non è certo il caso del lavoro indipendente al consumo finale, di cui al paragrafo precedente, dove alla mancanza di determinabilità contabile della ricchezza, si può supplire con le stime indicate al paragrafo precedente. L’esame delle attività sottostanti offre in genere indizi valutativi più numerosi, più univoci, più stringenti di quelli ricavabili dal consumo personale del titolare. In prima battuta, la determinazione tributaristica della ricchezza è più agevole alla fonte, nei luoghi di produzione, cioè officine, laboratori, negozi e studi professionali, di scambio (dove il fornitore tassa il consumo del cliente), di deposito (investimenti immobiliari e finanziari). In genere un individuo guadagna in un modo soltanto, o al massimo due, mentre spende in tanti modi diversi. Per questo, risalire al reddito in base ai consumi è macchinoso, e vale la pena di farlo solo quando gli indizi derivanti dall’attività sono molto deboli, o collocabili in una “forchette” di valori molto vaste. Il consumo può quindi essere uno strumento per mettere a punto la determinazione della ricchezza in base all’attività, senza però mai abbandonarla. Sarebbe invece impraticabile e inefficiente procedere solo in base ai consumi, anche se i dipendenti dell’Agenzia delle entrate fossero trecentomila anziché trentamila. Per questo sono state utilizzate, per anni, solo spese “ad alta visibilità”, come il mantenimento di autovetture, di residenze secondarie, di imbarcazioni da diporto, investimenti patrimoniali, come la sottoscrizione di capitale societario o l’acquisto di beni di valore. Anche qui si tratta di determinazioni valutative, con cui gli uffici hanno scarsa familiarità, e che si è cercato di forzare nella in una predeterminazione automaticostatistica, simile a quella già incontrata al paragrafo 5.13 per gli studi di settore, e qui denominata “redditometro”. Regolamenti applicativi si innestavano quindi sulle spese “visibili” indicate sopra, per esprimere le spese ulteriori di “minimo vitale” non rilevabili specificamente, come alimentazione, vestiario, etc... La determinazione del reddito in base alla spesa è stata usata spesso come diversivo politico davanti alle lacerazioni sociali tra lavoro dipendente, tassato attraverso le aziende, e lavoro indipendente. Basarsi sulla spesa, trascurando la produzione, consente di mettere in secondo piano le differenze tra piccoli commercianti, artigiani, dipendenti e professionisti. Tutti diventano uguali davanti alla spesa, e alle sue conseguenze sul piano della determinazione della ricchezza, tanto più che le categorie produttive sono molto meno “sindacalizzate” sul punto rispetto ai consumatori, il che crea meno imbarazzi politici. Quest’utilizzazione “politico-mediatica” dell’accertamento sintetico è stata riproposta nel 2010, con evidenti finalità di marketing comunicazionale (par. 2.4), cercando di ampliare la banca dati analitica sulle spese di consumo effettive di rilevante ammontare, rilevate attraverso il c.d. “spesometro”, di cui abbiamo parlato al par. 3.6 a proposito dell’uso segnaletico delle ritenute di acconto. Ovvie ragioni pratiche comportarono di nuovo l’utilizzazione di “indici Istat” per le spese minute di mantenimento. È stato un effetto di annuncio, in cui si è girato a vuoto per circa quattro anni con inutili discussioni, chiacchiere e polemiche, relative anche alla privacy, che confermano l’arretratezza, in Italia, della riflessione sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari. 142 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui La spesa potrebbe essere invece un utile soluzione di ripiego per le attività che lasciano pochi indizi “alla produzione”, perché ad intensità variabile nel tempo, potenzialmente discontinue, come indicato ai paragrafi 3.15, 5.13 e 5.15. Un riferimento alla fonte produttiva della ricchezza ha sempre e comunque una certa importanza necessario, ma il tenore di vita può servire a mettere a fuoco determinazioni che, in base all’attività esercitata, sono ancora troppo vaghe. Nell’empirismo del giudizio di fatto (par. 5.8) è del tutto logico utilizzare la villa al mare dell’idraulico per rettificarne gli incassi lavorativi, sia ai fini IVA sia ai fini delle imposte sui redditi. Lo stesso vale per le spese personali di parecchi industrialotti, magari con un reddito dichiarato “rispettabile”, ma che acquistano di continuo auto di lusso, natanti, gioielli e servizi costosi, incompatibili cui redditi dichiarati negli anni, e il finanziamento verosimilmente proviene dalla ricchezza non registrata presso l’azienda. Questo coordinamento tra argomenti “alla produzione” e “al consumo” sarebbe possibile anche “a legislazione vigente”, ma la presenza di norme diverse asseconda la solita tendenza a “non esporsi” in valutazioni troppo personali. Viene quindi abbandonata, nella prassi, la possibile utilizzazione combinata di argomentazioni riguardanti l’attività e la spesa personale. Questa rigidità, e ritrosia verso le valutazioni, ostacolano anche la determinazione, in base agli incrementi patrimoniali, della ricchezza ricevuta per successioni e donazioni, soprattutto quelle “informali”, come vedremo al paragrafo 10.5. La determinazione dei redditi al consumo deve infatti considerare l’eventuale finanziamento delle spese con somme non costituenti reddito imponibile, prima di tutto per erogazioni di altri soggetti, come genitori o coniugi, o redditi esenti o soggetti a imposta sostitutiva, smobilizzi patrimoniali o prestiti. Di tutte queste forme “alternative” di finanziamento è ovviamente possibile dare la prova, neutralizzando queste rettifiche, ma con notevoli dispersioni di tempo per uffici e contribuenti. 5.15.Quale intervento amministrativo su manifestazioni collaterali o sporadiche di ricchezza? Vediamo ora i riflessi accertativi sulle forme di ricchezza “poco visibili e sfuggenti”, indicate al par. 3.15. Ricordiamo che si tratta di operatori economici senza sede fissa, dell’utilizzazione di cespiti molto frammentati sul territorio (ad es. fitti e subaffitti non dichiarati al fisco), di lavoro discontinuo, precario e saltuario. Ci sono poi, sul piano dei redditi di fonte patrimoniale, le plusvalenze occasionali e i redditi di capitale da prestito, spesso tra ristretti circuiti di conoscenti. Se il controllo valutativo sul territorio, da parte del fisco, è già difficile per le attività “visibili”, come quelle di commercio e servizi “tradizionali”, dotate di una struttura esterna, figuriamoci per queste situazioni. Talvolta la ricchezza è determinabile ancora più difficilmente perché “schermata” da altre “”fiscalmente visibili”. Sono fenomeni tralasciati da qualsiasi sistema tributario, fino a che però si mantengono in un ordine di grandezza trascurabile, mentre in caso contrario, man mano che diventano consistenti, Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 143 sono un altro motivo di intervento valutativo degli uffici tributari, ovvero della loro perdita di controllo del territorio. Sono casi di inadeguatezza della tassazione contabile attraverso le aziende, che confermano il bisogno di integrazione attraverso una tassazione valutativa attraverso gli uffici adeguatamente sistematica. Questa difficoltà trascurabile, finché si mantiene su piccola scala, diventa un notevole problema politico, di governo della fiscalità, quando le aziende si disgregano, e si regredisce a una economia di piccoli scambi, in un certo senso di autoconsumo, spostato però in una società al tempo stesso postindustriale, deindustrializzata e disorganizzata.. Non mi voglio qui dilungare sul probabile circolo vizioso dove la disorganizzazione della macchina pubblica destruttura le aziende private, rinviando a vari post su www.organizzazionesociale.com e per i tributi ai paragrafi 5.17 ss. Tuttavia una crescente fascia di popolazione “si arrangia”, con attività che sfuggono sia alla tassazione attraverso le aziende sia a quella valutativa attraverso il fisco; questa perdita di controllo del territorio da parte della macchina pubblica rivela una disgregazione sociale che non si può combattere con qualche comunicato stampa, in cui si esaltano poche azioni sporadiche. Più la ricchezza è frammentata, più l’attività valutativa deve essere sistematica, e quindi rapida, efficiente e con pochi strascichi, gestendo i tempi, le risorse e i risultati nei modi indicati al par. 5.10 sulla discrezionalità. Quando l’attività neppure è stabilmente “visibile”, riemerge l’importanza del tenore di vita, ai fini della determinazione della ricchezza. In quel caso le spese personali, di consumo o patrimoniali, rappresentano uno strumento per comprendere l’attività svolta, e quindi mettere a fuoco una valutazione della ricchezza basata su una stima “mista” tra consumi personali e attività produttiva. In un contesto in cui è insufficiente persino il controllo di attività radicate sul territorio, è facile comprendere la difficoltà di individuare direttamente i fenomeni che precedono, quantificando la ricchezza che manifestano. Oltre che difficili da stimare, il loro complessivo impatto economico non è straordinario, e singolarmente i percettori non sono neppure particolarmente ricchi. Per questo, gli interventi amministrativi sono di fatto rarissimi, ed è sorprendente la cifra annua di meno di 10 mila evasori totali individuati, quando passeggiando in alcune strade della periferia di Roma si vede materialmente un probabile evasore totale ogni cinque metri. Accanto a questa visibilità “fisica” sul territorio, che pone solo problemi di stima, c’è una visibilità che potremmo definire “pubblicitaria”, soprattutto per i prestatori di servizi a domicilio, dall’assistenza, alla manutenzione, a varie forme di servizi personali. Spesso trasmissioni televisive di giornalismo di inchiesta rispondono a inserzioni che pubblicizzano, magari su internet o mediante volantini, lavori a domicilio, manutenzioni elettriche, idriche, informandosi sulla fattura e registrando le risposte negative, o guardinghe; anche queste attività, se non operano attraverso un ristretto giro di conoscenze personali, hanno infatti bisogno di rendersi visibili, a costo di esporsi agli occhi del fisco. I cui uffici potrebbero consentire un’identificazione di chi propone questi servizi, agevolando la redazione dei “fascicoli informativi permanenti” di cui abbiamo detto al par. 5.7. 144 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Emerge anche sotto questo profilo l’insufficienza delle attuali “banche dati” e la necessità di un supporto permanente valutativo delle singole attività economiche, ricordato anche al par. 5.13 per l’accertamento induttivo. Questa profilatura tributaria individuale dei contribuenti, con agganci alle fonti di sussistenza, compresa la “situazione familiare”, è sempre più necessaria per affiancare le rilevazioni contabili provenienti dalle aziende. Questa “schedatura fiscale”, per certi versi una riedizione degli antichi catasti (par. 1.3) è tanto più necessaria quando si riducono gli spazi per la tassazione attraverso le aziende, e milioni di persone e famiglie, guardando le statistiche delle dichiarazioni, sembrano un mistero fiscale, perché non si capisce come facciano a vivere. Bisognerebbe capire in quale misura sono veri poveri, finti poveri o titolari di redditi soggetti a tassazione forfettarie (agricoltura par. 8.1) o sostitutive (rendite finanziarie di cui al par. 8.5). La risposta a questa domanda è completamente fuori dal controllo del fisco. Molti contribuenti, che dichiarano redditi immobiliari o occasionali di poche decine di euro, vivono probabilmente a carico di altri, oppure possiedono fonti di sostentamento patrimoniali, da non indicare in dichiarazione. Poi ci saranno anche, nascoste in quest’area, ricchezze fiscalmente non registrate, ma il problema non è di tassazione, quanto piuttosto di conoscenza e di gestione delle informazioni necessarie a una efficiente determinazione amministrativa della ricchezza. Il problema non è “tassare”, ma semplicemente “conoscere” milioni di individui che, come i gigli dei campi, “non seminano, non raccolgono, eppure il signore li nutre”. La consapevolezza di questa conoscenza spingerebbe molti contribuenti rientranti in quest’area ad una autotassazione meno infedele. In questa prospettiva, ripetiamo che il già indicato schedario della posizione lavorativo-patrimoniale dei contribuenti (par. 5.7) potrebbe efficientemente reinterpretare, adeguandola al contesto economico moderno, la funzione degli antichi catasti, descritta al par. 1.3, reinterpretata al contesto odierno con lo schedario delle attività economiche di cui al par. 5.7, eventualmente integrato con informazioni patrimoniali. Potrebbe trattarsi di un supporto descrittivo, a cura degli interessati, basato anche su loro autocertificazioni, da fare oggetto di riscontri empirici. Sarebbe un primo strumento per evitare che milioni di persone e famiglie diventino tributariamente un “oggetto misterioso”, come è accaduto a forza di appiattirsi sulla tassazione attraverso le aziende e sul suo contabilismo. Questa necessità di “anagrafe tributaria” emerge anche nelle confusioni della pubblica opinione, che scambia le dichiarazioni dei redditi per un archivio patrimoniale sulla ricchezza individuale, di cui invece in Italia non c’è traccia. Per le note ragioni “culturali”, gli uffici tributari vedono invece la valutazione per ordine di grandezza come “una grana” (par. 5.10 sulla paralisi indotta dalla deresponsabilizzante idea di “vincolatezza”), inseguendo i fantasmi contabili di cui al paragrafo successivo, nell’illusione di utilizzare la determinazione contabile della ricchezza anche dove ne mancano i presupposti. Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 145 5.16.Incroci, banche dati, e tracciabilità: illusioni e realtà su altri “indizi contabili” Nell’era aziendal tecnologica, la determinazione della ricchezza presenta sempre una trama di tracce finanziarie, che vanno adattate alle varie tipologie di attività economiche. L’insieme degli indizi finanziari, costituiti dalle modalità di pagamento, dalla diffusione della c.d “tracciabilità”, dal tema del “contante” e della riduzione della sua circolazione. Abbiamo già visto che è inutile mettere in piedi una contabilità con incroci dei dati della ricchezza dichiarata, tipici della tassazione attraverso le aziende. Come indicato al par. 4.5 si tratta di una forzatura che trasforma la tecnologia, applicata a dati giuridicamente qualificati all’interno delle aziende, nella mitologia di una magica qualificazione fiscale di dati raccolti per altre finalità. I dati che transitano nei canali di pagamento delle banche, costituiscono “indizi contabili” nel senso già indicato al par. 5.9, e devono essere oggetto, da parte degli uffici, delle tipiche, tradizionali, valutazioni presuntive per ordine di grandezza. La tracciabilità e le indagini bancarie sono utili, ma non possono essere un sostituto della determinazione contabile della ricchezza anche quando non ci si può inserire sulle registrazioni effettuate dalle aziende a fini gestionali. La “tracciabilità” non può avere gli stessi effetti miracolistici della “contabilità aziendale”. Solo che si tratta di dati aggregati ad altri fini, e non può esserci una quadratura contabile, in funzione del contribuente, dei relativi indizi. Il pagamento può avvenire tramite assegni, bonifici, carte di debito prepagate, carte di credito, ed i proventi sono indirizzabili sui conti più disparati; su cui è possibile far transitare versamenti, prelevare per poi rapidamente chiudere i conti, oppure intestarli a familiari o prestanome, ovvero ancora collocarli all’estero. Il numero di contribuenti coinvolti, a ciascuno dei quali corrisponderebbero innumerevoli operazioni da controllare e interpretare, è elevatissimo, il che esclude una adeguata sistematicità degli interventi del fisco. Va segnalata poi l’impossibilità di abolire del tutto il contante, e anche la possibilità di utilizzare monete parallele di vicinato, o al limite nuove forme di baratto. Quest’insieme di circostanze conferma che neppure la tracciabilità può portare la determinazione contabile della ricchezza dove non arriva la tassazione ragionieristica attraverso le aziende.Tanto è vero che questa mancata registrazione resiste anche in paesi in cui la moneta cartacea è stata pressoché abbandonata. La tracciabilità, e la moneta elettronica, offrono al fisco maggiori garanzie rispetto al contante, ma non qualificano e quantificano direttamente la ricchezza, come i documenti aziendali. La moneta elettronica deve essere trattata come un “indizio contabile”, nei termini chiariti al par. 5.9, come supporto per una valutazione presuntiva. Soprattutto senza attendersi dalle rilevazioni bancarie una supplenza alla contabilità. Non esiste infatti una aggregazione delle informazioni bancarie in funzione dei concetti economico-tributari di reddito, consumo e patrimonio. La banca, 146 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui per il suo stesso ruolo “passivo” di depositaria delle somme versate, non ha modo di classificarle in funzione dei concetti indicati sopra; essa non possiede infatti informazioni sulle ragioni effettive di versamenti e prelevamenti, dovendo stare a quanto indicano gli interessati. Sul piano operativo, le indagini bancarie sono notevolmente snellite a seguito dell’anagrafe generale dei conti bancari, attraverso la quale l’amministrazione finanziaria conosce in tempo reale dove il contribuente intrattiene i conti, e in prospettiva anche quanto sono stati movimentati, in modo da poter chiedere solo i dettagli rilevanti alla singola banca interessata. La difficoltà per gli uffici di collegare i movimenti bancari con operazioni economiche ha condotto a presunzioni legali vessatorie, secondo cui tutti i versamenti e i prelevamenti non spiegati dal contribuente, si considerano come ricavi o compensi evasi (art. 51 comma 2 decreto IVA e art. 32 n. 2 decreto 600). La disposizione, per molti versi irrazionale, soprattutto per la contraddittoria rilevanza reddituale dei prelevamenti asseconda la solita deresponsabilizzata tendenza degli uffici di “non valutare”, lasciando che il contribuente si tragga d’impaccio in sede giurisdizionale, cosa molto difficile vista la sbrigatività del processo tributario. La consapevolezza umana, da parte dei funzionari degli uffici, del carattere vessatorio di questa normativa finisce per dissuaderli spesso, giustamente, dall’effettuare queste indagini (è un caso in cui il “rigore normativo” diventa controproducente e una legislazione assurda diventa controproducente). Anche restrizioni all’uso del contante e tracciabilità delle movimentazioni bancarie, dettate contro il riciclaggio, possono avere ricadute fiscali; le istituzioni intuiscono che il monopolio pubblico dell’emissione di moneta può contribuire alla determinazione tributaristica della ricchezza. Anche se però si eliminasse del tutto l’uso del contante non ci sarebbe comunque una aggregazione della ricchezza secondo i concetti economici indicati sopra. Anche qui c’è l’illusione di utilizzare “la tracciabilità” come sostituto della tassazione ragionieristica attraverso le aziende sulla ricchezza da esse non raggiunte; una strana “tassazione attraverso gli intermediari finanziari” non può sostituire la “tassazione attraverso le aziende” dove esse non arrivano. Le informazioni degli intermediari finanziari sono invece uno strumento per la tassazione attraverso gli uffici. La tassazione attraverso le aziende presuppone infatti che esse siano “parti” (cliente o fornitore) delle operazioni tassate o segnalate al fisco. L’intermediario finanziario non può sapere se dietro a innumerevoli operazioni effettuate con bancomat, assegni o bonifici c’è né una erogazione di reddito o una percezione di spese per consumi; anche per questo gli imponibili non registrati, sia pure inferiori ai livelli italiani, restano notevoli anche in paesi dove la moneta elettronica prevale su quella cartacea. 5.17.Le aziende come paradossale capro espiatorio dei malesseri creati dal loro ruolo di “esattori del fisco” L’insufficiente monitoraggio valutativo della ricchezza non registrata alimenta malesseri sociali (capitolo 4) e tensioni che hanno bisogno di scaricarsi, come l’ener- Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 147 gia sprigionata da un temporale. La confusione tra lavoratori indipendenti, imprenditori e organizzazioni si intreccia con la base padronale del capitalismo italiano, creando le premesse per sfogare sulle aziende, come organizzazioni, le tensioni sociali create dall’evasione dei lavoratori indipendenti, dalle frodi di alcuni imprenditori, e dall’inevitabile inefficienza della burocrazia, indotta dal disorientamento in materia (par. 5.3). Molti motivi spingono a usare le organizzazioni aziendali come capri espiatori per una ricchezza non registrata a beneficio di persone fisiche; in pochi colgono la mancanza di motivi, per l’azienda come organizzazione, di nascondere ricchezza al fisco, in quanto priva di bisogni personali (sopra paragrafi 3.7-3.8). La fuorviante spiegazione dell’evasione in base a disonestà, egoismo, senso civico e simili, si intreccia con la confusione in materia di aziende. Su questa premessa le aziende possono essere facilmente etichettate come “grandi evasori” da una opinione pubblica priva di retroterra in materia. Benché di fatto esattori del fisco, le aziende hanno tutte le caratteristiche per un ruolo di capro espiatorio: sono grandi, impersonali, viste in modo antropomorfo, e quindi poco simpatiche, poco numerose, “non votano” e anche misteriose nei loro meccanismi contabili. Le aziende insospettiscono già con i loro bilanci, che chiudono sempre in pareggio al centesimo, quando anche l’uomo della strada smarrisce con indifferenza cifre molto superiori L’immaginario collettivo confonde la strutturale mancanza di umanità delle organizzazioni aziendali, con una imprecisata immoralità umana, connessa alla già indicata spiegazione dell’evasione in base al “senso civico”; partiamo dall’idea diffusa delle aziende come “omoni” dediti al profitto, che sfruttano i dipendenti, li lasciano morire con indifferenza negli infortuni sul lavoro, inquinano l’ambiente, suggestionano i consumatori, truffano i risparmiatori, corrompono i pubblici ufficiali e chi più ne ha più ne metta.Quest’utilizzazione delle aziende come capro espiatorio avvia un percorso socialmente dannosissimo, già anticipato in altri paragrafi del volume La rigidità organizzativa, che è il punto forte dell’esternalità positiva aziendale, consistente nella determinazione tributaristica della ricchezza, viene letta paradossalmente come un motivo di “asocialità aziendale”, e quindi (seguendo le fuorvianti spiegazioni dell’evasione fiscale in base al senso civico), per la suddetta indicazione delle aziende come capri espiatori della sperequata determinazione tributaristica della ricchezza. Del resto le aziende non sono “elettori”, non sono “persone”, e quindi sono ottime per lo scaricabarile, come ai tempi in cui si diceva “la colpa è della società”, o oggi si dà la colpa a una imprecisata “finanza”, sempre seguendo il desiderio di dare la colpa a qualcuno. Le aziende non protestano mai, in quanto, come detto al paragrafo 3.1, sono aggregazioni sociali coagulate dalle loro specifiche produzioni di beni o servizi, con grande ingenuità verso questioni a ciò estranee; ogni azienda è appiattita sui propri problemi, riguardanti il prodotto, ed è riluttante a esporsi su questioni generali. Queste premesse fanno passare in secondo piano che le aziende come organizzazioni non hanno alcun motivo per nascondere ricchezza al fisco (par. 3.7). La maggiore imposta accertata per contestazioni interpretative viene considerata “risultato di servizio” e data in pasto alla pubblica opinione, preoccupata della ricchezza non registrata. Un 148 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui apprezzabile risultato di servizio è facilmente raggiungibile variando un po’ il regime giuridico applicato da aziende che movimentano volumi importanti di ricchezza; ne deriva incidentalmente un grande scorno di chi ha registrato tutto, e viene accusato di averlo registrato male, mentre la ricchezza non registrata è per definizione immune da contestazioni interpretative. I controlli fiscali presso le aziende tendono quindi a concentrarsi sulle contestazioni interpretative, quantitativamente secondarie rispetto alla ricchezza non registrata (par. 4.1); tuttavia queste contestazioni fanno –come detto – “risultato di servizio”, essendo valutati in termini di maggiore imposta accertata, indipendentemente dalla scoperta di ricchezza non registrata, sfuggente e imbarazzante per i motivi più volte indicati. La contestazione interpretativa consente di esporsi poco, confrontarsi con aziende collaborative, primari studi professionali, facendo un lavoro pulito in punto di diritto, in cui ci si sente un po’ professori, “coperti” da articoli di legge, circolari, sentenze e altri materiali normativi. Anche quando queste contestazioni interpretative sono esatte, sono poco insidiose rispetto alla massa enorme di ricchezza non registrata e alla perdita di controllo del territorio da parte del fisco. Vengono soprattutto censurati comportamenti che non alterano la rappresentazione della realtà, documentando nei modi ordinari i propri comportamenti senza mascherare alcunché. 5.18.Richiami ed esemplificazioni sulle contestazioni interpretative: la difficile difesa contro “l’inferno del dichiarato” Per le principali contestazioni interpretative, sul regime di ricchezza registrata o comunque palese, rinviamo ad altri paragrafi del testo per evitare duplicazioni; richiamiamo le forzature sull’“abuso del diritto” di cui al paragrafo 3.10, le divergenze sulla tempistica di imputazione della ricchezza, di cui al paragrafo 7.12, la ripartizione dei flussi di ricchezza palese, sui prezzi di trasferimento paragrafo 7.19, la collocazione territoriale del contribuente nei rilievi sulla residenza e le stabili organizzazioni, par. 7.18. Altre volte le contestazioni creano materia imponibile forzando le correlazioni concettuali della tassazione attraverso le aziende (par 3.11), dove la convenienza tributaria era conforme alla logica normativa o mancava del tutto. In quest’ottica si disconosce alla società la deduzione del compenso all’amministratore, da lui regolarmente dichiarato, o si presumono interessi su finanziamenti, accertando interessi attivi in capo al creditore, ma non riconoscendoli al debitore. Le combinazioni tra forma giuridica e sostanza economica sono oggetto di manipolazioni argomentative, riferendosi ora all’una ora all’altra in modo da massimizzare la contestazione interpretativa. I rapporti commerciali e industriali vengono pignolescamente ripercorsi dal fisco, anche dal lato dei ricavi, accertando nientepopodimeno che con l’infamante etichetta di “omessi ricavi”, i diritti che formalmente l’azienda poteva far valere, astenendosene per prospettica antieconomicità dell’azione di recupero, o per convenienze commerciali (risarcimenti).Vengono disconosciuti i costi sostenuti a fronte di un interesse Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 149 commerciale, senza formali obblighi giuridici, ad esempio riparazioni di prodotti non più in garanzia, sconti, piccoli omaggi, fornitura di beni strumentali in comodato a clienti, che vi allocano le merci vendute. Gli uffici adottano un opposto criterio, sostanzialistico, davanti alla deduzione di costi obbligatori contrattualmente, ma di scarsa convenienza economico gestionale. Quando insomma il contribuente ha rispettato la forma, l’ufficio invoca la sostanza, e quando ha rispettato la sostanza invoca la forma, con buona pace di ogni ragionevolezza economica. Gli aspetti formali e quelli sostanziali sono combinati in modo da massimizzare il carico tributario, non perché le cifre coinvolte siano rilevanti per le casse dello stato (par. 5.7), ma per massimizzare la rendicontazione del servizio del’istituzione, come indicato al par. 5.3. Le contestazioni basate sulla c.d. antieconomicità costituiscono la riaffermazione dell’oggetto economico del diritto tributario. Anche qui il vero obiettivo, cioè la ricchezza non registrata, resta nell’ombra e uno schema di contestazione che dovrebbe essere lineare diventa confusionario, con forti danni per la dialettica amministrativa e giurisprudenziale, dove non si capisce più esattamente di che cosa si parla, in ultima analisi a danno del contribuente (infra 5.19). Il percorso logico più breve è utilizzare le circostanze registrate come indizio di ricchezza non registrata, come indicato al par. 5.13 per le percentuali di ricarico, le rese delle materie prime, dei dipendenti, e tutte le altre relazioni tra i fattori produttivi. Parlare di antieconomicità fa invece pensare a un sindacato delle scelte imprenditoriali, mentre nessuno discute che l’imprenditore possa sbagliare: l’ipotesi, invece, è che non abbia sbagliato, ma abbia rappresentato la ricchezza in modo distorto, allo scopo di nasconderla al fisco o di realizzare stratagemmi elusivi (par. 4.8). La confusione aumenta per l’utilizzo dello stesso concetto per contestare deduzioni di costi non inerenti (par. 7.10), nel qual caso la spiegazione dell’antieconomicità è un consumo personale “mascherato da costo aziendale”. Col progressivo abbandono delle pratiche elusive da parte delle aziende (par. 3.10), sono diminuite le occasioni complessive per contestazioni interpretative; la drammatizzazione mediatica dell’evasione fiscale, l’equivocata mitologia dei “grandi evasori”, le diffidenze della pubblica opinione verso le aziende come organizzazioni (par. 5.17), alimentano un accanimento verso le aziende. In un masochismo sociale di cui gli uffici sono ostaggi, come indicato al par. 5.3 e non possono smentire. Vengono quindi almanaccate contestazioni interpretative senza un vero e proprio filo conduttore, basate su parafrasi di materiali solo apparentemente in tema, richiami a disposizioni legislative, precedenti giurisprudenziali decontestualizzati, vicende fattuali in sé vere, ma esposte in modo tendenzioso, insinuante e selettivo. È comprensibile e legittimo che gli uffici tributari imitino le espressioni, sussiegose e inconcludenti, presenti nell’accademia, nell’editoria e nella pubblicistica, come indicato ai par. 4.3 e 4.4. si espongono infatti solo quegli aspetti della situazione, magari del tutto innocua per il Fisco, che possono disorientare il lettore, facendo balenare sullo sfondo chissà quali sospetti. Lo si vede negli interminabili e scaramantici “visto, visto, visto”, simili a una celebrazione liturgica, con cui iniziano tanti verbali e accertamenti, che diventano ineffabili, né veri né falsi, apparentemente in tema, e quindi immuni da critiche di colleghi, 150 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui superiori e giudici. Del resto, se questa è la forma di espressione dominante in sede accademica e professionale è del tutto legittimo il suo utilizzo da parte dei funzionari delle istituzioni, di ogni ordine e grado. La litania apparentemente in tema, ma priva di senso reale, è un elemento di forza quando proviene da una autorità, perché il destinatario non può smentire quanto non comprende, ma fare appello all’insensatezza è difficile quando il discorso proviene da un istituzione amministrativa ed è “apparentemente in tema”, benché sostanzialmente senza filo conduttore. Il discorso fumoso e incomprensibile è del resto, da sempre, uno strumento di esercizio del potere, che si sottrae a una critica nel merito, disorienta l’interlocutore, e mantiene i margini per aggiustare il tiro successivamente. Ne deriva una perdita di trasparenza sostanziale, al di là di ipocriti formali omaggi alle disposizioni sul procedimento, ai diritti del contribuente, alle informazioni da riportare negli atti, etc... Non è un effetto voluto, ma un riflesso della cautela amministrativa indotta dal disorientamento sociale nel settore (capitolo quarto) che drammatizza i rapporti e oggettivamente rende meno serena l’attività degli uffici. Queste litanie prive di senso compiuto, sono oggettivamente un osso duro contro cui difendersi. Per spiegare la mancanza di filo conduttore bisogna sia avere buona padronanza della materia sia conoscere la situazione specifica. Come per la pubblicistica, la tortuosità ineffabile, piena di stereotipi, ostacola la critica, mettendo in difficoltà i destinatari, non i redattori. La confusione, creata anche dall’editoria “accademico-professionale” (par. 4.3 e 4.4) si ritorce quindi a danno delle aziende e dei loro difensori. Vedremo al par. 6.10 che davanti a queste contestazioni il giudice si sente inevitabilmente più tranquillo, a parità di tutti gli altri fattori, ad appiattirsi sulle tesi del fisco, che si rafforzano proprio in quanto disorientanti. Il compito più difficile di chi assiste i contribuenti non è confutarne il contenuto, solo apparente, ma proprio smascherare questa inconsistenza, ed esorcizzare il già indicato sospetto dei lettori di “non aver capito bene” col timore di annullare una pretesa potenzialmente fondata. Contestare con ragionamenti di senso compiuto espressioni che ne sono prive è logicamente impossibile, come pure dare a queste litanie un senso per poi confutarlo; l’unica possibilità è quindi «scomporre» la contestazione, destrutturarla con tutto il rispetto per le istituzioni, alimentando la sensazione di mancanza di senso compiuto che il lettore prova leggendola. Può aiutare la redazione di un «controverbale» in cui l’inconsistenza stereotipa del verbale viene passo passo mostrata, confermando la sensazione che sia un polverone solo apparentemente in tema. A questo punto si è ancora a metà dell’opera, perché l’interlocutore istituzionale (superiore o giudice) si chiederà se, pur sbagliando, la contestazione investiva altre criticità; per questo, dopo aver destrutturato la contestazione, bisogna indicare quale potrebbe essere il punto vero, il vero problema, oppure spiegare che non c’è alcun vantaggio fiscale indebito, né violazione diretta di norme, nè a maggior ragione ricchezza non registrata. Alla pars destruens dello smontaggio deve insomma seguire una che tranquillizza il lettore sull’assenza di violazioni sostanziali. È una operazione davvero difficile, vista la legittima tendenza all’“auto protezione istituzionale” da parte degli uffici, e Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 151 la inaffidabilità – su queste tematiche – del contenzioso tributario, come vedremo al par. 6.5. 5.19.Segue: il controproducente controllo obbligatorio delle grandi aziende: quando i controlli fiscali “si sprecano” La tendenza a considerare le grandi aziende come capro espiatorio delle schizofrenie sociali indotte dalla ricchezza non registrata si è tradotta in legge nel 2000, con l’obbligo di controllo annuale per le aziende con più di 50 milioni di euro di giro d’affari, il c.d. tutoraggio fiscale; è una linea adottata da governi di qualsiasi indirizzo politico, dal centrosinistra al centro destra, fino ai governi c.d. “tecnici”, anch’essi incapaci di distinguere la maggiore imposta accertata dalla ricchezza non registrata (sopra par. 4.6). In questo modo è stato travisato un istituto esistente anche in altri paesi europei, che hanno giustamente abbandonato il concetto stesso di “verifica tributaria”, a favore di un monitoraggio stabile di credibilità economica, come quelli che avevamo ipotizzato al par. 5.7 per i piccoli contribuenti. Da noi “il tutoraggio” è diventato una successione di “verifiche contabili”, dove neppure ci si pone il problema se possa esserci ricchezza eventualmente nascosta dal titolare dell’azienda nei modi di cui al par. 3.7, cioè scavalcando le procedure amministrative dell’azienda; in questo caso il tutoraggio avrebbe anche una utilità, non tanto per il gettito recuperato, quanto come dissuasione da frodi che oggi emergono quasi solo per caso fortuito (par. 5.13) e per legittimare l’opportuno analogo monitoraggio sistematico dei lavoratori indipendenti e delle micro aziende senza rigidità amministrativa. Invece il controllo privilegia l’inquadramento giuridico della ricchezza registrata, cioè le questioni di diritto, risolvendosi nelle contestazioni interpretative descritte al par. 5.18. Il fisco si dilunga sulle reinterpretazioni di circostanze dichiarate, o comunque palesi, riqualificandole in modo più oneroso. È vero che i controlli su grandi contribuenti rappresentano il 2 percento del totale, ma durano molto di più, e soprattutto non dissuadono i contribuenti dall’occultamento degli imponibili (anzi, se possibile spingono in questa direzione chi ne ha la possibilità). In questo modo, invece di cercare la ricchezza non registrata, i funzionari del fisco sono catapultati sulle grandi aziende, ed inevitabilmente spinti alle già indicate “contestazioni interpretative”; i controlli sui “grandi contribuenti”, una volta avviati per le ragioni indicate al par. 5.17, vivono di vita propria, perché occorre dar loro un senso, facendo “risultato di servizio”; solo raramente si può chiudere una verifica senza rilievi, e quindi crescono le solite forzate e capziose contestazioni interpretative, che poi si autoalimentano nelle successive fasi amministrative e contenziose (magari anche penal-tributarie, cfr. par. 6.14). Quest’atteggiamento è poi contagioso: anche sui contribuenti di dimensioni più piccole, i controlli privilegiano le questioni di diritto, dove ci si “espone di meno”. L’unica valenza di queste inutili contestazioni riguarda il lavoro professionale di assistenza e contenzioso, nonché di pareristica preventiva. Per questo tali contestazioni non 152 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui dispiacciono alla categoria dei tributaristi, assorbendo in veste professionale le migliori energie dell’accademia, come rilevato al par. 4.3. La maggior parte delle contestazioni interpretative, come indicato al par. 3.10, sono un diversivo rispetto alle difficoltà di stima della ricchezza non registrata. Senza le nostre assurde drammatizzazioni sul fisco (par. 4.6), queste questioni di inquadramento giuridico si risolverebbero con pochi incontri, senza una defatigante e inutile (parcelle a parte) attività professionale. Davanti a questa situazione il giurista dovrebbe sdrammatizzare le disfunzioni ambientali da cui viene il suo lavoro come avvocato. Anche a proposito della determinazione tributaristica della ricchezza emerge che le disfunzioni dei vari settori della machcina pubblica dipendono dal diverso grado di comprensione dei singoli settori da parte della pubblica opinione e delle classi dirigenti (par. 5.3) Sono disfunzioni con matrice giuridica, davanti alle quali i giuristi devono elevarsi dal ruolo di “tecnici dei “materiali normativi” (par. 4.4), perché che né la politica né gli economisti riescono a governare questi problemi da soli. Le aziende, come organizzazioni, sono infatti incapaci di replicare alla loro etichettatura mediatica di capri espiatori, descritta al paragrafo 5.17. Le aziende, come indicato al par. 4.4, sono gruppi sociali tenuti insieme dal prodotto, cui si dirige la loro comunicazione. Non si può pretendere che esse comunichino una idea generale delle funzioni delle aziende come tali. Sarebbe una “autocoscienza” che travalica la finalità delle aziende come corpo intermedio a vocazione economica. La loro cultura riguarda il loro specifico settore di mercato, non una concezione del mondo che esse stesse hanno creato. Le singole aziende, in quanto gruppi sociali a vocazione economica, sono tese a comunicare “prodotti” non chiavi di lettura dell’organizzazione sociale. Per questo non può venire da loro la sdrammatizzazione delle schizofrenie sociali sul fisco di cui al par. 4.6. Ad esse le aziende inevitabilmente reagiscono in ordine sparso, perse dietro il tecnicismo di dettaglio che, di volta in volta, le interessa, spesso delegando i problemi a costose macchine da soldi professionali. L’idea di azienda, come gruppo sociale tenuto assieme dal prodotto, si porta dietro anche la propria incapacità di valorizzare il ruolo dell’azienda nella determinazione tributaristica della ricchezza. Questo oggettivamente rallenta la crescita delle aziende, ed è uno dei tanti fattori che trattengono il capitalismo familiare dall’aprirsi a terzi, perdendo il precedente controllo assoluto, burocratizzando l’azienda, esponendosi a contestazioni di vario genere (anche con gli altri soci), a maggiori bisogni di credito, nonché alle contestazioni interpretative tributarie. Anche sul fisco troviamo un riflesso della incapacità generale della nostra organizzazione sociale di “fare gruppo”, di darsi un “capitalismo renano”, come è denominato quello tedesco, riuscendo solo (quando va bene) a salvaguardare un sistema produttivo “nano”. La concezione antropomorfica dell’azienda impedisce l’istituzionalizzazione del capitalismo a proprietà familiare, il che alimenta ancora la visione antropomorfica dell’azienda, e ostacola la massa critica di ricerca, innovazione e organizzazione necessarie a seguire scienze e tecnologie. Fosse solo per il fisco, forse il titolare preferirebbe un giro d’affari di cento milioni in bianco che uno di venti, di cui tre in nero, ma la difficoltà di gestire con buonsenso or- Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 153 ganizzazioni complesse, la sfiducia verso gli altri e le istituzioni, nonchéla sfiducia delle istituzioni e degli altri, spingono a restare relativamente piccoli. In una dimensione in cui sono ancora possibili gli scavalcamenti delle procedure aziendali, a proprio beneficio personale, indicati al par. 3.7. Diventando grandi, smettendo di nascondere ricchezza, gli imprenditori rischiano, grazie al tutoraggio fiscale, più contestazioni di prima. Si auto produce un circolo vizioso dove la ricchezza nascosta al fisco, anziché “il problema”, diventa “la soluzione”. È uno dei tanti riflessi, socialmente distruttivi, della confusione tra “maggiore imposta accertata” e “ricchezza non registrata”, uno dei fili conduttori di questo testo. Questo confusionario intreccio di miopi e inconsapevoli convenienze particolari, riflette il difficile rapporto della pubblica opinione, e quindi delle istituzioni italiane con gli organismi aziendali, ne impedisce la crescita, le spinge all’estero e le respinge alla frontiera, se sono aziende multinazionali che si affacciano dall’estero. Questi atteggiamenti, che però contribuiscono a una generale disaffezione verso un paese non amichevole verso le organizzazioni. Le aziende non scioperano, non manifestano, non reagiscono perché non esistono come persone; le aziende sono metafore, senza sentimenti ed emozioni umane, ma anche così –senza saperlo – “i capri espiatori si vendicano”. Quando infatti c’è da chiudere un impianto, da collocare un nuovo investimento o da de localizzarne un altro, le incomprensioni, anche tributarie, col sistema Italia si fanno sentire. Ed alimentano una disorganizzazione sociale che potrebbe essere simile a quella già verificatasi in Grecia, con un regresso rispetto all’era agricolo artigianale, in una versione moderna dei “cacciatori-raccoglitori”, alla ricerca di prestiti internazionali, sussidi, redditi minimi di cittadinanza, residuati produttivi abbandonati nei cassonetti, anziché frutti spontanei e selvaggina, ormai assenti in un disgregato ambiente postindustriale. Nel settore tributario già si percepisce un medioevo prossimo venturo in cui si aprono i rubinetti e non esce nulla, si spingono gli interruttori e la luce non si accende, anche a causa del mito deresponsabilizzante del “governo della legge”, e della correlativa mortificazione del buonsenso, indicati al par. 2.4. È una strana reazione a catena, dove carenze teoriche generali, incidendo sulla distribuzione dei controlli, ostacolano la diffusione della stessa tassazione attraverso le aziende, su cui si basa il sistema, paradossalmente agevolando frammentazione ed evasione, compromettendo lo sviluppo, gli investimenti, e la determinazione dei tributi attraverso le aziende. Lo si vede nell’ampiezza stessa dell’economia non osservata, indicata ai paragrafi 4.1, 3.15 e 5.15, e connessa alla deindustrializzazione, a sua volta sintomo di un più generale “nichilismo sociale” della pubblica opinione, indicato al par. 4.6. Nel nostro settore, il rischio è una “perequazione fiscale alla rovescia”, dove invece di determinare valutativamente la ricchezza che sfugge alle aziende, si distrugge pian piano la tassazione attraverso le aziende, contribuendo così alla disgregazione sociale. Quando infatti una azienda chiude, non solo si perdono posti di lavoro, ma spingono parte degli “ex addetti” a sopravvivere con attività indipendenti, totalmente o parzialmente nascoste al fisco. Il rischio è la graduale destrutturazione degli organismi aziendali, con una polarizzazione della società tra un enorme apparato pubblico improduttivo perché paralizzato dal legalismo, ed un operoso 154 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui insieme di lavoratori indipendenti e titolari di piccole organizzazioni, povere di investimenti, di ricerca, e dove si nascondono quote ingentissime di ricchezza al fisco. È un circolo vizioso dove la paralisi burocratico-istituzionale pubblica genera “anarchia economica privata”, entrambe accomunate dalla disorganizzazione. Anche le disfunzioni tributaristiche in esame sembrano un aspetto di una specie di suicidio sociale indotto dalle carenze formative della pubblica opinione italiana, indicate al par. 1.6. La cultura delle singole aziende non può invertire questo circolo vizioso, ma la cultura di quanti ci operano, come parte importante della classe dirigente, può contribuire alla comprensione del ruolo delle aziende e della macchina pubblica. Che poi è la versione tributaria di una comprensione generale dell’“era aziendale”. Di cui fa parte il ruolo tributario delle aziende, che non possono continuare a essere viste in maniera antropomorfica, ma come organizzazioni pluripersonali. Non come “bottegai troppo cresciuti”. Dopodiché le questioni di dettaglio, su cui si collocano le contestazioni alle aziende, si risolveranno da sole, in quell’auspicabile rasserenamento culturale di cui dicevamo al par. 4.7. 5.20.La tassazione per condono: una conferma della tendenza ad “amministrare per legge” L’espressione “condono fiscale” ricorre spesso nella storia, ma assume significati particolari nel nostro contesto di “tassazione attraverso le aziende-autotassazione”; quando le imposte erano chieste dagli uffici tributari, si trattava di un abbattimento di crediti già determinati, per imposte già richieste dagli esattori, o già stabilite in via preventiva per il futuro. Il condono arcaico era una “remissione del debito”, motivata da fortunati eventi bellici, dalla ricerca di rilancio economico e di favore popolare, insomma da motivi politici.Vi si faceva cioè ricorso quando era possibile fare a meno delle relative entrate, sostituite da altre, ed i condoni erano insomma strumenti di politica economica, così come i tributi, e potevano anche essere dovuti alla presa d’atto della difficoltà economica dell’insieme dei debitori, e rappresentare un tentativo di rilancio produttivo. I condoni attuali, succedutisi negli ultimi quarant’anni, non appaiono invece come uno strumento di politica tributaria, ma come uno strumento di gettito; essi costituiscono un estremo tentativo di raggiungere la ricchezza non determinata dalle aziende e non emersa in autotassazione. Oggi il condono è una specie di “seconda richiesta delle imposte”, effettuata anch’essa per legge (come la prima!), con cui si spera di recuperare una parte della massa di ricchezza fiscalmente non registrata. Il condono è appunto una “seconda richiesta” dei tributi in base alla legge, che pragmaticamente tenta di “vendere” ai contribuenti una tranquillità da un “rischio virtuale” di un controllo; la contropartita è il “prezzo del condono”, e può essere variamente costruita. I primi condoni chiedevano una maggiorazione dell’imposta a suo tempo pagata, il che premiava platealmente chi aveva dichiarato di meno; il condono del Capitolo 5 – LE ISTITUZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE 155 1982 arrivava alla possibilità estrema di definire anche le omesse dichiarazioni, con una cifra forfettaria. I condoni successivi, ciclicamente succedutisi fino al 2002, hanno introdotto dei correttivi, col tentativo di calcolare imponibili “standard” con cui confrontare il dichiarato, anche in base alla “coerenza e congruità” rispetto agli studi di settore (paragrafo 5.13); come sempre, questa maggiore equità, comportava maggiori complessità, su cui non è il caso di dilungarsi qui, ma sarebbero interessanti tesi di laurea o di dottorato. Al fondo dei condoni ci sono alcune intuizioni, sfocate ma corrette, da parte della classe dirigente, istituzionale e politica, con un orizzonte estremamente breve, di una manovra annuale di bilancio. Questi politici comprendevano le difficoltà di superare la situazione descritta in questo testo nel breve arco del loro governo, per mancanza di tempo e di strumenti culturali per progettare una tassazione valutativa sulla ricchezza non registrata. Davanti alla difficoltà di stimare la ricchezza non registrata, ed all’assurdità (esattamente intuita) di criminalizzare gli organizzatori di buona parte dell’economia italiana, il condono appariva come una specie di compromesso. Con cui la politica profittava delle stesse asimmetrie informative grazie alle quali i “lavoratori indipendenti” nel complesso sovrastimano le capacità di intervento dei pubblici uffici nella determinazione della ricchezza (paragrafo 4.2); la politica cercava di profittare della consapevolezza di tanti operatori di aver occultato una quota cospicua di ricchezza, e di un loro timore di essere controllati, eccedente le possibilità effettive di credibile controllo valutativo da parte degli uffici. È quindi riduttivo spiegare i condoni come “favori agli evasori”, che per parte loro avrebbero preferito evitarne il relativo costo; lo confermano le frequenti affermazioni di molti lavoratori indipendenti che dichiarano di non aver mai pagato tante imposte come nel periodo del condono. Il condono si presentava bene, sul piano della gestione del consenso, perché era una “imposta volontaria”, evitava gli attacchi politici collegati all’introduzione di nuovi tributi, o all’inasprimento di quelli esistenti, e rappresentava un espediente per costruire manovre finanziarie di breve periodo. Gli inconvenienti del condono ne superavano largamente, nel complesso, i vantaggi. Solo che questi ultimi erano immediati, in termini di gettito e confezionamento delle manovre di bilancio, mentre gli inconvenienti erano differiti al futuro. La politica, attenta al consenso e alla coesione sociale, è inevitabilmente più preoccupata dell’immediato, anche in assenza di sistematizzazioni della tassazione attraverso le aziende. Inoltre, basta vedere le cifre per capire che il gettito annuale dei condoni era molto superiore a quello dei controlli fiscali; inoltre i condoni si conciliavano bene con la tendenza ad “amministrare per legge”, e con la tendenza degli uffici a “non valutare” la ricchezza non registrata: col condono le valutazioni della ricchezza non registrata, su cui gli uffici temono di esporsi, vengono spostate verso l’altro, verso il vertice, con una responsabilità “solo politica”. Il lato oscuro dei condoni non era tanto la rinuncia alle possibilità di controllo effettive, da cui veniva senza dubbio un gettito inferiore ma la sensazione di debolezza della richiesta delle imposte. Erano pregiudicati non tanto i controlli “sul 156 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui passato”, ma la credibilità dei controlli futuri, rafforzando a parità degli altri fattori la tendenza a non registrare la ricchezza ai fini tributari. Alla lunga, quindi, la suddetta tassazione per condono non può funzionare, perché i contribuenti semplicemente “mangiano la foglia”, e non sono più disposti a pagare per mettersi al riparo da un controllo che vedono sempre meno probabile; per questo i ricorrenti condoni cannibalizzano se stessi, vanificando l’effetto dissuasivo dei controlli, e incoraggiando per il futuro la mancata registrazione fiscale della ricchezza. L’espediente dei condoni rifletteva il consueto disorientamento collettivo sulla determinazione della ricchezza ai fini tributari. Era il disorientamento a provocare i condoni, e non viceversa. Invece di criticare i condoni con le solite riflessioni estemporanee alla portata di tutti, gli studiosi avrebbero dovuto capirne le cause remote sul piano della determinazione della ricchezza. La trascuratezza per la spiegazione amministrativistico-economica dei tributi è oggettivamente l’anticamera dei condoni. Al limite, comprendendo queste spiegazioni e riposizionando i controlli “sul futuro” (paragrafo 5.7) un ultimo condono per la “rottamazione del’evasione passata”, ci potrebbe anche stare. Perché i condoni sono il riflesso, non la causa, del disorientamento collettivo in materia di determinazione tributaristica della ricchezza. Capitolo 6 SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO E GIURISDIZIONALE Sommario: 6.1. I provvedimenti amministrativi degli uffici tributari – 6.2. Segue: motivazione e prova della richiesta dei tributari – 6.3. Provvedimenti degli uffici tributari verso coobbligati solidali e contribuenti di fatto – 6.4. Il contenzioso amministrativo: accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, “mediazione” e prospettive – 6.5. Segue. Inadeguatezze del ricorso in opposizione e necessità di ulteriori livelli di responsabilità: prospettive della “mediazione tributaria” – 6.6. Le varie funzioni del ritiro degli atti in autotutela, tra correzione, abbattimento e definitivo abbandono – 6.7. Il contenzioso giurisdizionale: controllo dell’istituzione amministrativa o suo motivo di paralisi? – 6.8. Segue: reclutamento dei giudici e avvio del processo – 6.9. La procedura: difficile coesistenza tra sostanza impugnatoria ed ispirazione civilistica – 6.10. Il fallimento della “via giurisdizionale alla determinazione della ricchezza”: ostacoli al funzionamento degli uffici e possibili vie di uscita – 6.11. Riscossione coattiva ed evasione da riscossione (l’esattore – Equitalia come diversa autorità amministrativa esattrice delle imposte) – 6.12. La “sicurezza della riscossione” e la sua celerità in pendenza di ricorso – 6.13. Impossibilità di rimpiazzare con inasprimenti sanzionatori l’insufficienza dei controlli 1) le sanzioni amministrative – 6.14. Segue: 2 Il confuso palliativo penaltributario tra mancata registrazione della ricchezza e contestazioni interpretative 6.1. I provvedimenti amministrativi degli uffici tributari Gli uffici tributari chiedono le imposte, a loro avviso dovute, con provvedimenti amministrativi, espressione di un pubblico potere stavolta riguardante la funzione amministrativa di determinazione dei tributi. L’emissione di questi atti è una caratteristica generale dei pubblici poteri, in qualsiasi settore operino come difesa, sicurezza,urbanistica, ambiente, salute pubblica, istruzione, gestione dei flussi migratori, e – nel nostro caso – determinazione della ricchezza ai fini tributari. Questo potere preesiste all’eventuale processo giurisdizionale, che anzi potrebbe anche mancare, come è frequentemente avvenuto in molti tempi e luoghi. La pubblica autorità è infatti esercitata in modo unilaterale, secondo la c.d. “autotutela amministrativa”. Se si considera che anche il giudice è una pubblica autorità con funzioni di giustizia (par. 2.4) è normale che le pubbliche autorità possano realizzare i propri fini senza passare attraverso di lui. Saranno casomai i destinatari dei provvedimenti amministrativi, che non concordino col loro contenuto, a doverli impugnare tempestivamente da- 158 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui vanti a un giudice, a pena di decadenza, salvo avviare il contenzioso amministrativo di cui ai paragrafi 6.4 e seguenti. Questo carattere “provvedimentale” impone agli atti in questione una certa solennità, e un certo rigore. La competenza territoriale dell’ufficio è individuata in modo formale, in genere in relazione al domicilio fiscale del contribuente al momento di presentazione della dichiarazione.I relativi atti sono portati a conoscenza dei destinatari mediante formale notifica, cui gli uffici tributari possono anche procedere direttamente. Esistono anche dei termini entro i quali il potere amministrativo deve essere esercitato nel tempo, in modo da non lasciare i contribuenti esposti a tempo indeterminato a richieste di tributi, su cui dopo lunghi anni neppure saprebbero come interloquire. Ci sono quindi termini di decadenza per la notifica, che ad esempio, per le rettifiche delle dichiarazioni dei redditi e dell’IVA, deve avvenire entro il quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; qualora il potere sia tempestivamente esercitato, ma l’atto presenti “vizi formali”, rilevati dopo la scadenza del termine, in sede contenziosa, si pone un problema di sanatoria o di rimessione in termini, cui dovrebbero essere dedicate riflessioni specifiche. Nella tassazione attraverso le aziende e nell’autotassazione passa in secondo piano la vecchia globalità della determinazione valutativa della ricchezza, effettuata attraverso gli uffici tributari. Oggi gli interventi possono essere innescati da successive informazioni, e quindi l’accertamento può sempre essere “parziale”, cioè limitato agli elementi di cui l’ufficio tributario in quel momento dispone. L’unica cautela è quella di evitare che la persistente esposizione ad accertamenti futuri sia utilizzata dall’ufficio per fare pressione sul contribuente, inducendolo ad accettare richieste eccessive e ingiustificate. È però più uno scrupolo che un problema reale, nell’esperienza concreta dei controlli e quindi può ritenersi sostanzialmente superata la finalità della disposizione che consentiva ulteriori accertamenti solo per sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi (c.d. «accertamento integrativo» di cui agli artt. 43, d.P.R. n. 600 e 57, comma 3, decreto IVA). Su queste premesse amministrativistiche si comprende bene l’importanza della motivazione degli atti di accertamento, presupposto per la comprensione del loro contenuto e l’esercizio del diritto di difesa. La motivazione si comprende solo in una cornice amministrativistica della tassazione, mentre appare equivoco fino a che si spiegano i tributi attraverso fantomatici rapporti di credito debito tra fisco e contribuente, equiparati a “due privati in lite”, tra i quali il giudice decide a chi dare ragione. L’atto di accertamento è autoritativo come la sentenza, ma è anche unilaterale giungendo da una autorità non indipendente, nel senso indicato per il giudice al paragrafo 2.1. Per questo la necessità della motivazione degli atti di imposizione è ancora più forte della necessità di motivazione della sentenza; quest’ultima chiude infatti un processo dove le parti hanno potuto interloquire; senza una adeguata motivazione dell’atto di accertamento, invece, il contribuente dovrebbe agire in giudizio al solo scopo di conoscere le ragioni della richiesta unilaterale dell’autorità amministrativa, presentando ricorso alla cieca. L’indicazione delle ragioni della rettifica da parte dell’ufficio sareb- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 159 be così rinviata al processo, con deresponsabilizzazione dell’amministrazione, e ulteriori lungaggini ed equivoci connessi a quella specie di “imposizione giudiziale” di cui riparleremo a proposito del contenuto dell’intervento del giudice al par. 6.9 (dedicato alla dialettica tra giudizio sull’atto e sul rapporto). Quest’importanza della motivazione dell’atto impositivo è evidente per individuare quali elementi dell’imponibile sono stati rettificati, nonché le ragioni di fatto e di diritto per cui tale rettifica è avvenuta. Ad esempio l’accertamento di un certo importo di maggiori ricavi potrebbe essere fondato su una molteplicità di ragioni, ed anche la deduzione dei costi può essere disconosciuta per le ragioni più varie, come la mancanza di documentazione, l’estraneità all’attività dell’impresa (mancanza di inerenza), l’imputazione a un periodo d’imposta sbagliato ecc. In entrambi i casi il contribuente, per valutare se e come difendersi, deve essere informato sulle ragioni di fatto e di diritto della contestazione, cui si dirigerà l’eventuale processo. L’importanza di queste indicazioni è confermata dalla normativa, che assoggetta i più importanti atti impositivi, ad una motivazione a pena di nullità, concetto da intendere nel consueto senso amministrativistico, secondo cui il difetto di motivazione va eccepito impugnando tempestivamente l’atto cui si riferisce. La motivazione può anche rinviare ad altri atti già in possesso del contribuente, come ad esempio i processi verbali di constatazione di cui abbiamo detto al par. 5.6 (c.d. “motivazione per relationem”). L’adeguatezza della motivazione dipende dal contenuto sostanziale della pretesa, ed anche sulle prove adducibili nel relativo eventuale contenzioso. Se il fondamento è documentale, occorrerà menzionarlo, o descrivere dettagliatamente quanto il documento riferisce; Se il fondamento è presuntivo – come avviene spesso – occorrerà indicare i relativi fatti indizianti ed i passaggi argomentativi che da essi prendono le mosse. I collegamenti tra motivazione (amministrativa) e prova (processuale) saranno indicati al prossimo paragrafo, mentre qui completiamo l’esame del versante amministrativo degli atti degli uffici tributari, dalla cui sottovalutazione dipendono gran parte degli attuali inconvenienti del settore. Esso appare infatti come un corpo estraneo al resto delle pubbliche funzioni, cui la comunità scientifica, come indicato al par. 4.3, non è riuscita a ricollegarlo. Pertanto, gli stessi studiosi del diritto amministrativo considerano il diritto tributario come un “oggetto misterioso” dal che deriva l’inapplicabilità espressa al nostro settore di molte disposizioni della legge generale sui procedimenti amministrativi (L. n. 241 del 1990). Eppure molte disposizioni della suddetta legge 241 avrebbero potuto essere semplicemente adattate ad una teoria del “diritto amministrativo delle imposte”, a cominciare da quella del contraddittorio e dell’accesso agli atti. Tale diritto di accesso, sancito, dall’art. 22 della legge generale suddetta viene consentito solo dopo il termine delle indagini e l’emanazione dell’atto impositivo, adducendo ostacoli, per accessi effettuati prima, allo svolgimento ulteriore delle indagini. La mancata sistematizzazione, prima di tutto concettuale, del contraddittorio amministrativo in materia tributaria, porta ad eccessi opposti. Oggi un atto impositivo può essere emesso senza neppure aver invitato previamente il destinatario a 160 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui dare indicazioni o chiarimenti; è il riflesso dell’incapacità di distinguere le richieste seriali, dove il contraddittorio può essere “successivo”, da quelle specifiche e personalizzate, dove l’interlocuzione con gli uffici dovrebbe precedere l’emanazione dell’atto amministrativo; nella pratica, il destinatario dell’atto di imposizione si trova ad essere di fatto informato della vicenda sottostante solo perché, in genere, i poteri istruttori si svolgono nei suoi confronti. Quando invece le indagini si svolgono presso terzi, ed il contribuente non è oggetto di richieste d’informazioni, può ricevere una richiesta di tributi senza alcuna previa informazione. Si cerca di contrastare questa eventualità in base al principio comunitario sul diritto di essere ascoltati prima di essere destinatari di un provvedimento amministrativo tributario, o in genere restrittivo, anche in materia sanzionatoria, previdenziale, urbanistica, etc... Ne sono derivate frequenti mortificazioni del contraddittorio, dovute a deresponsabilizzazione amministrativa, su questioni complesse, dove sarebbe sostanzialmente utile (si pensi al caso delle indagini bancarie, di cui al par. 5.16); inversamente la valorizzazione del contraddittorio è spesso invocata, in modo avvocatescamente strumentale, dove il contraddittorio è sostanzialmente inutile. 6.2. Segue: motivazione e prova della richiesta dei tributari Abbiamo visto al paragrafo precedente che la motivazione serve a informare il destinatario degli atti degli uffici tributari, consentendogli di comprendere e di valutare la pretesa. A tal fine la motivazione deve descrivere i passaggi logicogiuridici su cui si fonda la richiesta del tributo, spiegare, informare, descrivere, ma non ha l’obbligo di dimostrare definitivamente, anche sul piano probatorio, l’effettiva esistenza di quanto l’ufficio afferma. Per utilizzare una formula sintetica, si potrebbe dire che la motivazione deve «descrivere la determinazione della ricchezza da parte dell’ufficio, e l’inquadramento giuridico alla base della maggiore imposta». Il ruolo informativo della motivazione può quindi avvenire anche senza produrre tutte le prove che l’ufficio potrebbe utilizzare in sede contenziosa. Insomma la motivazione può anche comporsi di “allegazioni”, cioè indicazioni di fatti e circostanze, ivi comprese risultanze istruttorie o circostanze comunque non contestate (documenti, ammissioni, verbali di ispezione, ecc.). È una prospettiva informativa parzialmente diversa da quella della prova, che presuppone un dissenso su determinate circostanze del mondo empirico, come indicato al par. 5.8 sul giudizio di fatto. Sono quindi concepibili, come confermato dalla giurisprudenza, accertamenti motivati, ma successivamente annullati perché non provati in sede contenziosa. Dovendo indicare gli elementi e le argomentazioni su cui si fonda l’atto impositivo, la relativa motivazione concorre a delimitare la materia del contendere del successivo eventuale processo giurisdizionale (par. 6.7): in esso l’ufficio non potrà perciò far valere altre possibili ragioni di rettifica e si discuterà solo degli elementi cui si riferisce l’atto impugnato, nell’ambito delle ragioni di fatto e di diritto indicate nell’atto stesso. Non si discuterà quindi se la Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 161 maggiore imposta accertata sia dovuta per una ragione qualsiasi, ma se sia dovuta per le ragioni indicate nell’atto: nell’ambito così delimitato l’ufficio potrà portare prove, svolgere ulteriori illustrazioni del proprio punto di vista, ecc. La concezione ragionieristico-processuale del diritto tributario trasferisce dal processo civile all’azione amministrativa tributaria la spettanza all’ufficio dell’onere della prova; viene colta, ma travisata, l’intuizione, quasi banale, lapalissiana, che debba essere l’ufficio tributario a dare una convincente dimostrazione dei propri assunti fattuali, non potendo certo il contribuente dimostrare il contrario di quanto l’ufficio meramente afferma. Questa evidente constatazione deve però essere calata in un contesto amministrativistico, in cui una “parte pubblica” agisce in autotutela, prima del processo, e non ha motivo di affermare circostanze false. Tanto è vero che la base materiale degli accertamenti tributari è quasi sempre ammessa dai contribuenti, mentre le controversie si appuntano sulle conseguenze, le illazioni ipotetico-presuntive, formulate dagli uffici su queste basi. L’insufficiente dimostrazione della ricchezza è invece più semplicemente un “vizio dell’atto”, tipico del nostro naturale contesto amministrativistico. Su queste premesse è più corretto affermare che il contribuente deve assumere un atteggiamento attivo, tipico di un processo impugnatorio, e far rilevare la mancanza di convincenti elementi di prova, alla base dell’atto di imposizione. È quindi il contribuente che deve addurre (tecnicamente “allegare”), in questa logica amministrativistica, la carenza di fondamento fattuale, come vizio dell’atto. La vicenda dell’onere della prova è un altro aspetto della concezione processualistica del diritto tributario, caldeggiata dagli accademici-avvocati, e rivoltatasi contro di loro come professionisti, favorendo il fisco sul piano processuale (e spingendolo alla deresponsabilizzazione amministrativa). L’onere della prova, a carico del fisco, viene infatti considerato assolto dai giudici secondo criteri di normalità economica, di “id quod plerumqe accidit”, perché si tratta di una “parte pubblica”, di cui i giudici “si fidano”, che non ha bisogno di mentire sull’andamento dei “fatti materiali”. Seguendo lo stesso meccanicismo dell’onere della prova, quegli stessi giudici sono rigorosissimi quando quest’ultimo viene attribuito ai contribuenti, ad esempio dal lato dei costi, delle detrazioni IVA, degli oneri deducibili, dei presupposti per le esenzioni, come pure delle richieste di rimborso. In tutti questi settori i giudici applicano meccanicamente lo schema dell’onere della prova contro il contribuente, fuori dalla logica amministrativistico-economica, di normalità aziendale. I contribuenti, e ancora di più le “aziende” (par. 5.17) godono una fiducia molto inferiore a quella degli uffici, anzi generano sospetti. Per questo i giudici non si fidano delle loro allegazioni di normalità economica come si fidano di quelle degli uffici tributari. Non si tratta di un preconcetto “favor fisci”, ma del riflesso della mancata razionalizzazione della determinazione della ricchezza nel quadro amministrativistico. Il giudice non si rende conto neppure di fidarsi più degli uffici, verso cui non sospetta malafede, che dei contribuenti. Non ci si rende così conto di avallare la deresponsabilizzazione degli uffici nel sostenere pratiche infondate, per forza di inerzia ed auto protezione. 162 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui A forza di calare la parità processualcivilistica delle parti, in un contesto amministrativistico, è stata creata una oggettiva disparità. Gli uffici tributari si considerano e vengono considerati “parte” o “autorità pubblica” a seconda delle convenienze contingenti. La sbrigatività processuale avalla l’atteggiamento deresponsabilizzato, tendenzioso e insinuante degli uffici tributari, teso a “frastornare gli interlocutori”, anche oltre le contestazioni prolisse e tortuose, sulle fantomatiche “evasioni interpretative” indicate al par. 5.18. Ai fini della determinazione della ricchezza la prova viene intesa a corrente alternata, accontentandosi della normalità economica quando si tratta degli uffici tributari, e richiedendo fantomatici riscontri documentali quando si tratta dei contribuenti. La logica avvocatesca della “parità delle parti”, mettendo in ombra la matrice amministrativistica della tassazione, provoca una sostanziale disparità, a danno del contribuente. Non a caso la parte pubblica, a seconda delle convenienze, si presenta come privato oppure come pubblica autorità. La vera parità delle parti è invece prendere atto della loro diversità, della matrice amministrativistica del diritto tributario e soprattutto del relativo processo. 6.3. Provvedimenti degli uffici tributari verso coobbligati solidali e contribuenti di fatto Riferiamo adesso ai controlli quanto indicato ai paragrafi 3.5-3.6, sullo sfasamento tra “contribuenti di diritto e di fatto”, in relazione al quale soggetti diversi da quelli cui si riferisce la ricchezza colpita possono essere tenuti a pagare il tributo. L’istituto civilistico dell’obbligazione solidale (artt. 1292 e ss. c.c.) si trasferisce quindi nella nostra materia amministrativistica, con lo scopo di non costringere il creditore ad intentare tante azioni quanti sono i suoi debitori, consentendogli invece di escutere ciascuno di essi per l’intero. Come principio generale, il fisco può richiedere l’imposta, mediante i consueti atti amministrativi di cui al par. 6.1, ad uno qualsiasi dei coobbligati solidali senza doversi preventivamente rivolgere a colui che ha posto in essere il fatto imponibile, il c.d. «debitore principale». Qualora l’atto impositivo venga notificato solo ad alcuni debitori solidali, i principi di cui all’art. 1306 c.c. si adattano al nostro contesto amministrativistico. Ne discende che l’atto avrà effetti sfavorevoli solo verso chi lo ha ricevuto, non lo ha impugnato o è stato sconfitto nel relativo processo; resta così impregiudicata la posizione degli altri condebitori, cui l’atto non è stato notificato. A questa soluzione la giurisprudenza giunse solo nei primi anni settanta, dopo aver sostenuto per lungo tempo che l’atto impositivo notificato ad uno solo dei coobbligati dovesse estendersi anche a quelli cui l’atto non era stato invece notificato. L’atto può essere notificato a vari condebitori, e qualora solo alcuni di loro propongano ricorso, la giurisprudenza applica l’art. 1306 c.c., consentendo anche al condebitore che non ha impugnato di giovarsi del giudicato favorevole ottenuto da un altro condebitore; questa soluzione è conforme alla tendenza ragionieristico-processuale, che Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 163 concepisce il diritto tributario come una lite tra due parti mentre, secondo la matrice amministrativistica di questo testo, la definitività dell’atto verso un condebitore resta in linea di principio impregiudicata nonostante il giudicato favorevole ottenuto dall’altro condebitore. Un caso particolare di solidarietà (responsabilità di imposta) serve a indurre terzi, estranei alla ricchezza cui il tributo si riferisce, a non pregiudicare gli interessi del fisco(si tratta, per riprendere le classificazioni di cui al par. 3.5, di contribuenti solo “di diritto”, in quanto esposti alle pretese del fisco, ma estranei alla ricchezza cui si riferisce l’imposta); è una responsabilità che scatta solo per patologie o disguidi, come quella dei notai per l’imposta dovuta sugli atti da essi redatti, degli spedizionieri doganali per i diritti di confine dovuti dai loro clienti, degli amministratori e liquidatori che non soddisfano crediti tributari, soddisfacendo invece crediti di ordine inferiore, dei soci per gli utili percepiti in base a bilanci che non consideravano debiti verso il fisco. In alcuni casi c’è una responsabilità solidale del cliente per l’IVA non applicata in fattura dal fornitore, qualche volta anche in capo al consumatore, che ad esempio occulta in parte il prezzo di immobili. Analoghi sono i casi del terzo che garantisce per il contribuente a favore del fisco, con una fideiussione, o del socio che risponde per legge dei debiti della società (art. 2267 cc), ivi compresi perciò i debiti nei confronti del fisco. Anche verso i coobbligati la pretesa tributaria si manifesta, come già accennato, in via di “autotutela amministrativa, con gli atti autoritativi di cui al par. 6.1, senza cioè che l’ufficio tributario debba rivolgersi al giudice, cui devono invece ricorrere gli altri ordinari creditori. Il diritto di difesa del coobbligato, ed una parità di trattamento rispetto al debitore principale, imporrebbe però la notifica di un avviso di accertamento; nella prassi sembra che ciò avvenga solo per la solidarietà paritetica, mentre negli altri casi sembra vengano notificati solo atti di riscossione, ferma restando la possibilità del destinatario di far valere ogni vizio della pretesa tributaria, anche quelli fatti inutilmente valere dal debitore principale. Formalmente il diritto di difesa di tali soggetti non è violato, in quanto i coobbligati dipendenti possono impugnare, sotto tutti i profili, tali atti della riscossione di fronte alle commissioni tributarie, ma devono contestare atti esattivi privi di motivazione, perdono il beneficio della «riscossione frazionata» in caso di ricorso (paragrafo 6.12). Questa prassi corrisponderebbe, in diritto civile, a un’esecuzione forzata in base a una sentenza ottenuta nei confronti di un altro coobbligato. I debiti tributari dei contribuenti deceduti, secondo la regola generale, si trasmettono agli eredi, salva la non trasmissibilità dei debiti per sanzioni, di cui si dirà al paragrafo 6.13. In caso di due o più eredi, per la generalità dei tributi si ritiene operante il criterio civilistico secondo cui ciascun erede risponde solo in proporzione alla sua quota. Solo per le imposte sui redditi, in virtù di specifica disposizione espressa (art. 65, d.P.R. n. 600) sussiste la coobbligazione solidale tra i coeredi, in deroga al suddetto criterio generale. Anche a favore del fisco esistono “privilegi”, cioè diritti del creditore di soddisfarsi prioritariamente su alcuni beni, chiunque ne sia il proprietario; il titolare di beni 164 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui gravati da privilegio fiscale non è un coobbligato solidale, e perciò non risponde con tutto il suo patrimonio, ma solo con il bene gravato da privilegio. Qualora tale bene sia andato distrutto oppure sia stato ulteriormente alienato a un altro soggetto, il terzo sarà libero da qualsiasi coinvolgimento nell’applicazione del tributo. Da un punto di vista procedimentale e processuale anche al terzo proprietario è stato di recente concesso, dalla giurisprudenza, di contestare la richiesta del tributo. Una volta soddisfatto il credito del fisco, il coobbligato solidale può agire in via di regresso, cioè rivolgersi agli altri coobbligati per ottenere la loro “quota parte” di debito (si pensi ai coeredi o ai soci di società di persone, che hanno pagato debiti della società, intendendo rivalersene nei confronti degli altri soci). È una delle controversie civili con oggetto tributario, simile a quelle già indicate al par. 3.6. Anche qui i convenuti potranno far valere, in sede civilistica, eventuali tesi secondo cui il tributo non era invece dovuto, ed è stato avventatamente pagato da chi agisce in rivalsa verso di loro. 6.4. Il contenzioso amministrativo: accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, “mediazione” e prospettive La tassazione valutativa attraverso gli uffici, basata per sua natura su stime e presunzioni, era strutturalmente contenziosa; in tutti i casi degli antichi tributi di cui al par. 1.3, la ricchezza era valutata dagli uffici secondo stime, sul cui ordine di grandezza erano naturali varie forme di reclamo. È una naturale implicazione dell’opinabilità delle stime, davanti alla quale sono normali le obiezioni e le controproposte dei contribuenti, tendenti a una rideterminazione a loro avviso più verosimile; solo indirettamente ne deriva una diminuzione della somma da pagare, e quindi sarebbe concettualmente improprio considerare questi reclami come “richiesta di uno sconto” sull’imposta, dovendosi invece inserire nel quadro, ormai familiare ai lettori, della determinazione della ricchezza ai fini tributari. Un contenzioso amministrativo ante litteram, era la sede naturale e più elementare in cui questi reclami venivano discussi. In generale questi reclami potevano essere indirizzati allo stesso ufficio tributario (come vedremo accade oggi in Italia), o ad altri organi pubblici;sono comunque organi privi di “indipendenza e terzietà”, ma “imparziali”, ed esperti nella valutazione della ricchezza ai fini tributari, in modo da dare soddisfazione agli interessati. Ciò non vuol dire “accogliere le loro richieste” ma trattarle in maniera adeguata, in modo che il richiedente non si senta discriminato rispetto ad altri contribuenti. In questo modo, con passaggi successivi di contraddittorio amministrativo contenzioso, si giunge, nella maggior parte dei paesi sviluppati, a una valutazione condivisa della ricchezza. Questa strutturale dialettica tra istituzioni e contribuenti ha sempre caratterizzato la determinazione tributaristica della ricchezza, con rispettose proteste alle autorità di grado superiore, eventualmente anche politiche; tutti i gruppi sociali caratterizzati da una certa articolazione, anche se non democratici come li immaginiamo oggi, cercavano di gestire in qualche modo le rimostranze sulla determinazione dei tributi. Anche in materia di tributi vale infatti la regola generale del diritto ammi- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 165 nistrativo, secondo cui la forma più diretta di giustizia è interna alla stessa amministrazione, e dove l’intervento dei giudici è residuale. In tutti i settori del diritto dei pubblici poteri, la prima forma di risoluzione delle controversie è infatti interna alla stessa amministrazione, come “rimedio gerarchico politico” ed un giudice indipendente serve solo –nei paesi più garantisti e raffinati – a chiudere il sistema. Agli amministrati non serve un “giudice indipendente”, come nelle liti tra privati, ma un riesame competente e imparziale, di un organo che dia ascolto a chi ritiene di aver subito un torto dai funzionari di grado inferiore. È importante, per la coesione sociale, al di là dell’esito, la possibilità di “avere ascolto”, esprimere le proprie ragioni, di essere presi in considerazione, di capire quali interessi, diversi dai nostri, hanno provocato una decisione, anche negativa, della pubblica autorità.. A loro volta, i detentori del potere politico, sapendo di interagire col gruppo sociale, in una certa misura si preoccupavano di avere una amministrazione “credibile”; che cioè non incrinasse consenso politico e coesione sociale, con abusi di potere dei funzionari; i soprusi di questi ultimi potrebbero scontrarsi coi valori del gruppo sociale, provocando cali di consenso, malcontento, rimostranze, disaffezioni, proteste e infine rivolte, pericolose per la stessa autorità politica. Questa esigenza andava però contemperata con quella di mantenere la fedeltà ed il controllo della propria burocrazia, dei propri collaboratori più stretti, in una catena di rapporti fiduciari su cui non ci possiamo dilungare in questa sede. Osserviamo semplicemente che la tassazione, come area di intervento amministrativo molto diffuso e potenzialmente creatore di malcontento, diede luogo agli esempi più antichi di “amministrazione contenziosa”; in altri settori dell’attività pubblica, meno capillari, il controllo sull’amministrazione, attraverso organi superiori o autorità politiche, poteva essere più empirico, improntato a valutazioni caso per caso, politico-paternalistiche, sviluppatesi poi anch’esse verso il “diritto amministrativo”. Nella determinazione ragionieristica, attraverso le aziende, mancava questa necessità di affinare gradualmente le stime della ricchezza. La stima per ordine di grandezza veniva soppiantata dalla contabilità, e l’interlocuzione con gli uffici descritta sopra, appariva contraddittoria rispetto alla determinazione ragionieristicodocumentale attraverso la contabilità aziendale. Per questo, con la riforma del 1973, nell’illusione di determinare ragionieristicamente ogni forma di ricchezza (paragrafo 3.13) il contenzioso amministrativo, all’epoca denominato correntemente “concordato fiscale”, fu avventatamente abolito, sbilanciando così sul processo la determinazione tributaristica della ricchezza. Ne derivarono decenni di deresponsabilizzazione, indebolimento della capacità valutativa degli uffici, permanenza di corruzione, moltiplicazione dei processi, spreco di energie amministrative ed altre disfunzioni diffuse ancor oggi (ne riparleremo al par. 6.10). Solo nel 1994 si iniziarono a reintrodurre contenziosi amministrativi, oggi regolati dal Dlgs 218 del 1997, sull’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale. Il grande successo di queste procedure, benché ancora timide, conferma il contenzioso amministrativo come primo rimedio per le controversie nella determinazione dei tributi, smentendo le sovrastrutture avvocatesco-processuali; queste ultime 166 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui sono però tuttora talmente radicate da far definire gli istituti suddetti come “strumenti deflativi del contenzioso”; questa formula rivela l’erroneo pregiudizio secondo cui la naturale definizione delle controversie sulla determinazione tributaristica della ricchezza sia davanti a un giudice, abbandonata a malincuore solo per “deflazionare il contenzioso giurisdizionale”. È un modo invertito di ragionare che scambia la patologia processuale con la fisiologia amministrativa; la dialettica con uffici tributari è infatti, soprattutto nei paesi con una amministrazione più responsabile e attenta alla tutela dei privati, il primo strumento per gestire le loro lamentele, conformemente alla funzione di giustizia delle pubbliche amministrazioni. Nel nostro sistema di accertamento con adesione, mancano limiti formali alle controversie definibili in via amministrativa, con istanza presentata allo stesso ufficio. Al limite sarebbero definibili persino questioni di diritto isolate, traducendo in una decurtazione dell’imponibile accertato le possibilità che le tesi del contribuente siano accolte dalle commissioni tributarie. In concreto, si prestano meglio a essere definite le stime e le valutazioni marcatamente presuntive, come il valore di un immobile o l’ammontare dei ricavi di artigiani, commercianti.Vedremo al prossimo paragrafo che proprio sulla stima della ricchezza non registrata, per pratiche di piccolo importo, il funzionamento delle procedure conciliative è relativamente meno brillante. Sotto il profilo del contenuto si tratta di un atto amministrativo cui il contribuente presta acquiescenza, e che viene redatto in un certo modo proprio in funzione della manifestata disponibilità del contribuente ad accettare una certa modalità di determinazione del tributo, passando per la determinazione della ricchezza e il relativo inquadramento giuridico; ad essi segue poi una somma da pagare, che non può essere l’oggetto diretto della dialettica tra le parti; ricordiamo che la trattativa non riguarda la somma da pagare nella grossolana e deresponsabilizzante logica dello sconto, ma gli aspetti controversi di diritto e di fatto, a monte della determinazione del tributo. Questa premessa spiega che l’accertamento con adesione è un istituto di diritto amministrativo delle imposte, che è fuori luogo spiegare facendo riferimento all’istituto di diritto privato della transazione. Possono esserci somiglianze esteriori, soprattutto quando la transazione è effettuata nell’interesse di terzi, e quindi deve essere motivata. Nel nostro contesto di diritto amministrativo i profili da contemperare (discrezionalmente nel senso di cui al par. 5.10) sono il grado di fondatezza delle rispettive tesi, i rischi del contenzioso, le energie amministrative per la sua gestione, gli eventuali precedenti, l’ammontare dell’imposta in discussione rispetto ai costi di gestione della lite, la costituzione di un precedente su altri contribuenti, in relazione all’omogeneità dell’azione amministrativa. Sono invece irrilevanti, secondo quanto indicato al par. 5.10 sulla discrezionalità, profili economico industriali, di correttezza nel comportamento fiscale, ed altri aspetti relativi alle condizioni personali e familiari. La diversa questione della solvibilità del contribuente, ai fini della riscossione, è un aspetto concettualmente distinto dalla determinazione della ricchezza, non considerabile in questa sede dagli uffici; il profilo esattivo sopravviene in un secondo momento rispetto alla determinazione della Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 167 ricchezza, e ne parleremo per la “transazione fiscale” ai paragrafi 6.11 e 7.21. Ripetiamo che la valutazione comparativa tra questi profili comporta una ipotesi tra quelle che al paragrafo 5.10 abbiamo ricondotto al concetto di “discrezionalità amministrativa in materia tributaria”. La procedura dell’accertamento con adesione è scarsamente disciplinata normativamente, essendo materia più appropriata per circolari o regolamenti, questi ultimi peraltro oggi mancanti. Il decreto 218 prevede una istanza del contribuente, destinata allo stesso ufficio che ha emesso l’atto impugnato, una sua audizione ed una verbalizzazione dei relativi colloqui; si tratta di previsioni insite nella natura dell’istituto, il cui funzionamento è intralciato dalla condizione normativa superlfua e contingente di “definizione intergale” della pretesa tributaria. Si tratta nel complesso di un embrione di procedimento amministrativo, dove le valutazioni dovrebbero essere accompagnate da una compiuta motivazione, che dia atto delle controdeduzioni del contribuente. L’adesione è oggi ammessa fino al primo grado di giudizio, nelle forme dell’accertamento con adesione, prima del ricorso. Successivamente è ammessa nelle forme della conciliazione giudiziale prima della sentenza della commissione tributaria provinciale. In entrambi i casi suddetti, alla definizione amministrativa si accompagna una riduzione delle sanzioni (per cui rinvio al paragrafo 6.13, in materia di sanzioni). È però di fatto possibile anche successivamente una rideterminazione condivisa della pretesa, attraverso l’istituto della ritiro parziale dell’accertamento in autotutela, col contribuente che fa acquiescenza alla parte residua (sull’autotutela in genere infra al par. 6.6). In tal caso però la conciliazione avviene “fuori tempo massimo” e quindi restano applicabili le sanzioni, senza riduzioni. 6.5. Segue. Inadeguatezze del ricorso in opposizione e necessità di ulteriori livelli di responsabilità: prospettive della “mediazione tributaria” Gli istituti descritti al paragrafo precedente si ispirano al ricorso amministrativo “in opposizione”, indirizzato allo stesso ufficio che aveva emesso l’atto impugnato, di solito allo stesso funzionario. Quest’ultimo, avendo già deciso, incontrerà i consueti imbarazzi, compreso il timore di essere considerato negligente o corrotto, come indicato al par. 5.11. Nonostante il supporto fornito dai vertici dell’agenzia delle entrate agli istituti in esame, e nonostante la loro ampia diffusione, rispondente a schemi di buonsenso, essi non esplicano ancora appieno le loro potenzialità; tanto è vero che il contenzioso tributario giurisdizionale, pur non aumentando, neppure diminuisce rispetto ai livelli eccessivi di cui diremo al par. 6.10. Il maggiore successo dei ricorsi amministrativi in esame riguarda infatti paradossalmente le contestazioni interpretative sui “grandi contribuenti” indicate ai paragrafi 3-11, 5.17, 5.18; qui gli uffici non temono infatti di contaminarsi con la valutazione della ricchezza non registrata; in questi casi si ha infatti a che fare con aziende, i cui funzionari non maneggiano ricchezza nascosta al fisco, potendo offrirne 168 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui una parte agli uffici. Soprattutto però le controversie in esame sono poche e di grande ammontare, il che consente il coinvolgimento di varie articolazioni degli uffici tributari, con una condivisione delle responsabilità tra funzionari diversi: la natura e le dimensioni delle pratiche consentono di consultarsi con capi ufficio, dirigenti, direzioni regionali e centrali, in diverse vesti formali. In questo modo la responsabilità si frammenta, e pian piano la vicenda “si risolve da sola”; la pratica transita di mano in mano, finché l’“esposizione” di ciascuno è compatibile col desiderio di “copertura” delle nostre pubbliche amministrazioni, indicato al par. 5.3. Trattandosi in genere del regime di “ricchezza registrata” l’onere della definizione è spesso in parte recuperabile in altri periodi di imposta o su controparti in vario modo correlate, secondo le note “simmetrie” di cui al par. 3.12. È proprio questo riposizionamento economicistico, e spesso forzato, delle stesse vicende materiali, a rendere possibili accordi su “questioni di diritto”, che in genere non dovrebbero consentire compromessi. I ricorsi amministrativi sarebbero invece più utili, per la stima della ricchezza non intercettata dalle aziende, dispersa in genere tra moltissime pratiche di piccolo importo, dove mancano i presupposti per la suddetta “condivisione di responsabilità”, tra funzionari e uffici diversi. Il contenzioso amministrativo diventa quindi paradossalmente troppo rigido proprio dove sarebbe più necessario a massimizzare il controllo valutativo del territorio; queste pratiche, individualmente di modesto ammontare, impongono però valutazioni più personalizzate della ricchezza, e sono quindi trascurate, perché il funzionario dovrebbe esporvisi da solo (con tutte le incertezze di cui al par. 5.11). Anche se il contribuente adduce circostanze verosimili, il funzionario non ha tempo per svolgere adeguati riscontri, visto il gran numero di posizioni di importo relativamente piccolo. Questa valutazione di ricchezza sfuggente comporta quindi un costante sospetto di non avere informazioni sufficienti, anche per la mancanza di quel dossier valutativo permanente indicato ai paragrafi 5.7 e 5.13. Questo spinge a una rigidità “autoprotettiva”, dipendente anche dalla sfiducia verso i contribuenti, e quindi dal timore che circostanze sopravvenute facciano apparire “eccessivamente benevole” determinazioni a suo tempo ritenute, in tutta la buona fede, “ragionevoli”. Dovendo agire, visto il numero dei contribuenti, con informazioni limitate, gli uffici tendono a “non fidarsi”, ed essere rigidi, in funzione appunto autoprotettiva; nel dubbio sulla stima della ricchezza, essere rigidi “protegge”, al di là della questione del gettito. Quest’ultimo è irrisorio rispetto a quello complessivo (par. 1.10), non va certo a beneficio dei funzionari coinvolti, e soprattutto sarebbe superiore se –invece di irrigidirsi sulle pratiche trattate – esse fossero liquidate rapidamente e si impiegassero energie su altri soggetti. È quindi una questione di autoprotezione, che va anche a scapito del gettito e dell’interesse generale, per colpa dei Soloni che hanno messo in circolo le espressioni paralizzanti della vincolatezza, dell’indisponibilità del credito tributario, della legalità degenerata in legalismo, etc. (par. 5.10). Il contenzioso amministrativo finisce per incepparsi proprio dove sarebbe più utile, in quanto il problema tributario italiano(par. 4.1) non sono le contestazioni interpretative delle aziende, bensì la mancata sistematicità nella stima della ricchezza che sfugge ai loro circuiti. Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 169 La responsabilità contabile davanti alla corte dei conti è un ulteriore pretesto per la rigidità, in quanto è tra l’altro stata esclusa per legge sulle valutazioni in esame; esse sono invece intralciate dai condizionamenti ambientali e dalle schermaglie interne agli uffici, per le carriere, il “peso specifico”, il “potere” e tutte le ripicche e punzecchiature reciproche di grandi strutture. Per questo gli uffici cercano di standardizzare i propri comportamenti, affermando improbabili divieti di ridurre oltre importi prestabiliti le somme accertate; dopodiché sono ben contenti di rinviare la decisione al giudice, con una inefficienza complessiva, ma una copertura individuale. Per snellire queste determinazioni si è cercato di abbandonare lo schema del “ricorso amministrativo in opposizione”, cioè allo stesso ufficio redattore dell’accertamento; le richieste di riesame, in via sperimentale e per le pratiche di minore ammontare ((fino a 20 mila euro) sono state infatti indirizzate ad un diverso ufficio dell’agenzia delle entrate, accostandosi al modello del ricorso gerarchico improprio. Si tratta della c.d. “mediazione tributaria”, impropria denominazione di un ricorso amministrativo ad un diverso organo della stessa amministrazione; il coinvolgimento di un ufficio diverso, non condizionato da proprie precedenti valutazioni, dovrebbe rendere sistematiche le condivisioni di responsabilità descritte sopra per i “grandi contribuenti”. I primi risultati sono stati molto lusinghieri per riabituare gli uffici a decidere, e potrebbero essere oggetto di approfondimenti specifici. Si tratta di un punto di partenza di una deprocessualizzazione della determinazione della ricchezza ai fini tributari, per superare il fallimento della “via giurisdizionale”, trattato al par. 6.10. Un ulteriore passaggio potrebbe essere quello dell’arbitrato tributario, con la partecipazione di un funzionario “edotto” della pratica, a titolo di continuità, di un esperto designato dal contribuente, e di un terzo da enti esterni, ad esempio la commissione tributaria, o scelto di comune accordo. Uno spunto ulteriore per l’istituzionalizzazione e lo snellimento delle valutazioni consensuali della ricchezza non registrata, superando le diffidenze e i sospetti di negligenza o corruzione, è anche una certa pubblicità delle definizioni. Queste ultime, per assicurarne la trasparenza, ed anche in funzione anticorruzione, dovrebbero essere rese accessibili agli esercenti attività similari; è uno strumento di controllo sociale e di trasparenza, oltre che di reciproca coerenza economica delle definizioni. Si ricordi infatti che la vigilanza reciproca svolge un fondamentale ruolo anticorruzione per tutte le attività pubbliche, come indicato al par. 5.11. A tale scopo sarebbe sufficiente, per le attività comparabili, soprattutto diffuse e di lavoro indipendente (artigiani e piccoli commercianti) pubblicizzare i criteri di rideterminazione dei ricavi, dove c’è una “base comune”, mentre i redditi di ciascuno differiscono in relazione all’impegno nell’attività e al numero di collaboratori, anche familiari, come pure alla proprietà o meno delle mura, risparmiando il canone di locazione, e quindi aumentando il reddito. Questa confrontabilità è molto importante per la trasparenza e la sistematicità della determinazione tributaristica della ricchezza; è molto più importante l’orientamento dell’amministrazione di quello della giurisprudenza. 170 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui 6.6. Le varie funzioni del ritiro degli atti in autotutela, tra correzione, abbattimento e definitivo abbandono Riconoscere i propri errori, con l’annullamento unilaterale di propri atti è uno degli aspetti generali del potere amministrativo di autotutela, nel curare gli interessi pubblici cui è preposto senza la mediazione del giudice. Abbiamo già del resto anticipato sopra la rideterminazione condivisa della pretesa, come un normale esercizio di potere amministrativo, che riemette un atto diverso, cui il contribuente aderisce, nel corso del processo tributari. L’autotutela amministrativa, cioè la rideterminazione unilaterale dell’atto può anche essere finalizzata alla sua integrazione motivazionale oppure alla eliminazione di qualche vizio formale e procedurale. Questa è una autotutela potenzialmente peggiorativa per il contribuente, in quanto gli toglie una possibilità di far annullare l’atto in sede giurisdizionale; quindi deve essere esercitata nei termini di decadenza dell’azione amministrativa e giustificata da elementi oggettivi. Al contribuente giova invece l’autotutela destinata alla totale eliminazione della pretesa fiscale. A tal fine l’ufficio deve solo contemperare l’esigenza di certezza dei rapporti (cioè di mantenere ferme le situazioni giuridiche definite) con quella di salvaguardare situazioni meritevoli di tutela. In questi casi l’ufficio dovrà chiedersi se l’illegittimità dell’atto (o la spettanza del rimborso) sia talmente grave ed evidente da giustificarne l’annullamento d’ufficio. Solo in concreto potrà stabilirsi se ad un vizio debbano essere riconosciute queste caratteristiche, che è improduttivo tentare di fissare una volta per tutte in una formula astratta, da applicare poi meccanicamente. L’esperibilità dell’autotutela solo per queste gravi patologie consente di non trasformare l’istituto in una indiscriminata scappatoia per riproporre qualsiasi eccezione dalla quale i contribuenti siano decaduti. L’autotutela è quindi esperibile anche quando i contribuenti si siano lasciati sfuggire i termini per ricorrere o chiedere il rimborso. Sono però incerti, in questo caso, gli strumenti di tutela giurisdizionale qualora l’amministrazione resti inerte; la giurisprudenza tende a negare un sindacato processuale, adducendo una pretesa duplicazione di tutela rispetto al contribuente che ha lasciato scadere i termini di impugnazione dell’atto. Il punto, che riprende le tendenze del diritto amministrativo generale, è tuttavia ancora abbastanza indefinito. 6.7. Il contenzioso giurisdizionale: controllo dell’istituzione amministrativa o suo motivo di paralisi? Arriviamo finalmente al giudice, cui si rivolge il contribuente per sindacare i comportamenti dell’amministrazione; a differenza del giudice dei privati, questo “giudice del potere” è una figura molto sofisticata, rara e circondata di cautele anche nelle democrazie; persino in queste ultime, infatti, il potere amministrativo, come indicato al par. 5.3, ha come referente il gruppo sociale, intermediato dalla politica. La prima giustizia dovrebbe quindi essere “all’interno dell’amministrazione” e il ricorso Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 171 a una diversa istituzione, indipendente dal potere esecutivo, è molto raffinato, ha funzione di chiusura ed è mancato per secoli. Durante i quali, contro gli errori o gli abusi dei funzionari, si protestava prima in via gerarchica, e poi in sede politica; non a caso i primi “consigli di stato”, furono organi “di staff ” del principe, per istruire le lamentele dei sudditi verso “abusi di potere” e per vessazioni o scorrettezze dei funzionari regi. Si trattava di rimedi “eccezionali”, perché occasionali dovrebbero essere le suddette deviazioni dei pubblici funzionari, in quanto gli organismi pubblici dovrebbero automaticamente agire in modo oggettivo, senza abusi; gli uffici pubblici dovrebbero cioè strutturalmente essere strumenti di giustizia, dandosi ragionevolmente carico anche delle aspettative degli individui e dell’interesse generale, filtrato dalla propria funzione. Per questo, in materia amministrativistica, molto più che in materia civile, il processo è un danno in sé, perché vi si discute del (preteso) cattivo funzionamento di una autorità pubblica (e può innescarne, come vedremo, una deresponsabilizzazione). I riesami amministrativi, esaminati ai paragrafi precedenti, o paragiurisdizionali sono la prima sede per “dare giustizia” all’individuo attraverso l’amministrazione, e non contro di essa. Per molti secoli e in molti paesi, questa possibilità di riesame, fino all’Italia della seconda metà del novecento, fu ritenuta sufficiente, senza bisogno di un organo giurisdizionale; mentre il processo civile è un rimedio giuridico a una patologia sociale, tra creditore e debitore, danneggiante o danneggiato, etc., la giurisdizione amministrativa fronteggia già una patologia giuridica, data dal cattivo funzionamento dell’attività amministrativa contro cui si ricorre. L’attuale eccesso di contenzioso in materia tributaria, è una dimostrazione del cattivo funzionamento delle istituzioni, come riflesso della confusione diffusa nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica (par. 5.3). Doversi rivolgere al giudice per errori, omissioni, equivoci, deresponsabilizzazioni e negligenze, eliminabili dall’amministrazione, è infatti socialmente costoso. Il giudice, pur indipendente, è più distante dalla specifica materia sia essa urbanistica, sanitaria, ambientale, educativa o tributaria. Il coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni in un processo, davanti a un giudice indipendente, non deve farne dimenticare le diversità rispetto alla ordinaria lite tra privati, dove lo scontro di opposti egoismi rende fisiologiche le controversie. Le amministrazioni, come “parti pubbliche”, non perseguono infatti convenienze egoistiche, non hanno motivo di mentire, e al massimo si preoccupano per il “risultato di servizio”, l’“immagine pubblica”, la “copertura”, come rilevato al par. 5.3. Questo comporta, al massimo, quelle forzature prolisse e tendenziose (indicate al par. 5.18), ma non tecnicamente “false”, che avrebbero, se scoperte, conseguenze molto negative proprio in termini di immagine e di copertura formale. Il giudizio sull’azione amministrativa generale ha ad oggetto la correttezza, dei comportamenti amministrativi sottostanti, in genere espressione di autorità ed autotutela. Il controllo del giudice è generalmente di legittimità-annullamento, ma il giudice amministrativo non si sostituisce all’amministrazione, annullandone invece gli atti, e casomai imponendole un comportamento attraverso il c.d. “commissario ad acta”, stante anche la sua estraneità alla gestione dei diversissimi settori coinvolti (ad esempio 172 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui urbanistica, sanità, istruzione etc.). Ordinariamente, come detto,la giurisdizione generale amministrativa (TAR – consiglio di stato) è di impugnazione-annullamento; l’atto invalido viene annullato dal giudice, e casomai l’amministrazione ne emetterà un altro immune da vizi. Vedremo invece che in materia tributaria la giurisdizione è di impugnazione, ma – per motivi di semplicità – si estende alla rideterminazione del tributo, nell’ambito della materia del contendere definita dall’atto impugnato e dal ricorso (c.d. “giurisdizione di impugnazione-merito”, di cui riparleremo e che si ricollega alla tradizione del contenzioso amministrativo tributario. Nella determinazione estimativa della ricchezza era naturale, da parte dell’organo di riesame, una rideterminazione del tributo, piuttosto che un annullamento puro e semplice. Un contenzioso amministrativo è infatti indispensabile alla determinazione valutativa della ricchezza, mentre è fuori luogo in quella ragionieristico contabile. Per questo un sistema di contenzioso amministrativo, in Italia come negli altri ordinamenti, esisteva quando la giustizia amministrativa era invece ancora allo stadio embrionale. In un certo senso il contenzioso amministrativo appartiene alla normalità della valutazione della ricchezza in base a stime degli uffici tributari. Queste stime richiedono infatti una dialettica tra uffici e contribuenti, che può collocarsi prima o dopo l’atto di accertamento, ma è comunque ineludibile. In un certo senso questa dialettica è molto vicina all’amministrazione attiva anziché a quella contenziosa. Non a caso nel contesto prefigurato al par. 5.7, per la ricchezza non determinabile attraverso le aziende, il relativo monitoraggio degli uffici dovrebbe svolgersi prima degli accertamenti e indipendentemente da essi. La proterva riforma del 1973, ignorò la ricchezza non determinabile ragionieristicamente (cfr. par. 3.13 sulla contabilità del lavoro indipendente) e quindi anche la dialettica del contenzioso amministrativo. Quest’ultimo fu soppresso (par. 6.4 sull’abolizione del concordato) e fu varato un processo giurisdizionale guardando al contenzioso civile, anche perché non esisteva un modello amministrativo cui fare riferimento per una dialettica fisiologica e di massa. Nacque quindi un “giudice speciale” nel senso di “specifico per le controversie tributarie”, ma tutt’altro che “speciale” sul piano della qualità del giudizio, come vedremo oggi gravemente insoddisfacente. Prima di tutto ha pesato l’eredità delle commissioni del vecchio contenzioso amministrativo tributario, esistenti dal diciannovesimo secolo, che si sono perpetuate, con imbellettamenti di giurisdizionalità esteriore, nel contenzioso giurisdizionale. Vi ha contribuito la matrice processualcivilistica, anziché di diritto amministrativo, di alcuni capiscuola dell’accademia tributaria, la professione forense esercitata dalla maggior parte di essi e il desiderio degli uffici tributari di “non decidere”, scaricando le questioni sui giudici. Questi ultimi sono infatti non solo indipendenti, ma sottratti ad un inquadramento gerarchico di controlloo reciproco, e con margini di decisione per questo amplissimi. L’inutile proliferazione di processi tributari improvvisati non rivela apertura alla tutela dei privati, ma uffici che non vogliono decidere e avvocati bramosi di liti, nella de- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 173 generazione “legalistico processuale” in cui la materia si sta avvitando, vivendo ormai di vita propria, nell’incubo indicato al par. 3.16. La giurisdizione ha paralizzato l’amministrazione, ed il processo non è più una tutela dei contribuenti, ma una valvola di sfogo per pratiche tendenti a vivere di vita propria. In uno scaricabarile dove uffici e giudici si palleggiano una pratica che ad ogni passaggio allenta il proprio contatto con la realtà, e alla fine “si decide da sola”, per forza di inerzia, non importa se in modo imprevedibile e sconclusionato. Per questo i processi tributari italiani sono centinaia di volte più numerosi di quelli di altri paesi europei, come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, con un circolo vizioso che li rende sbrigativi e insoddisfacenti. L’attuale prospettiva giurisdizionale, per i contribuenti, soprattutto quando hanno ragione, è peggio di un ponderato ed imparziale rimedio amministrativo. Il processo dovrebbe infatti essere una via di uscita residuale per ipotesi particolari cui la serialità dell’intervento degli uffici non fornisce una soluzione soddisfacente. Il giudice, non condizionato da rigidità gerarchico burocratiche, dovrebbe poter trovare, senza formalismi, la soluzione più sensata in base ai principi. Sono casi eccezionali rispetto alla funzione amministrativa di determinazione della ricchezza, da svolgere a cura degli uffici. 6.8. Segue: reclutamento dei giudici e avvio del processo Le commissioni tributarie risentono ancor oggi della loro matrice storica, anteriore alla tassazione attraverso le aziende, e radicata nella fiscalità valutativa a cura degli uffici tributari. Per quel contesto erano sufficienti il senso comune relativo alla valutazione di terreni e fabbricati e piccole attività economiche o la preparazione giuridica generalista sulle imposte “tipo registro”. È forse per queste che ancor oggi nel reclutamento dei giudici tributari, sono sufficienti titoli di studio economico-giuridici e altre qualifiche formali, prestabilite dalla legge, in relazione soprattutto all’anzianità di servizio in pubblici uffici e assimilati. Non è richiesta alcuna preparazione in materia tributaria e troviamo nel migliore dei casi le sensibilità giuridico generaliste dei magistrati ordinari (cd. membri togati), nonché altri professionisti (avvocati, etc.), dirigenti e funzionari di enti o amministrazioni pubbliche; non si può neppure contare sull’esperienza di una qualche attività tributaristica collaterale, in quanto rigide incompatibilità escludono dalle commissioni chi svolge una qualche attività professionale nel settore. Questa variegata provenienza dei giudici li rende quindi eterogenei, e rappresenta un oggettivo ostacolo per prevedere l’atteggiamento e la sensibilità dei magistrati (accentuando le carenze di istruttoria e di contraddittorio di cui diremo). La remunerazione è simbolica, collegata al numero delle sentenze redatte dai singoli giudici e dal collegio; l’impegno è collaterale, incentrato attorno alle udienze, in genere ogni due settimane, più la redazione delle sentenze, effettuata a domicilio, ciascuno per conto proprio, dopo che il dispositivo è stato concordato con gli altri 174 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui giudici; su questa premessa, una importante preoccupazione del giudice è smaltire le sentenze. Le occasioni di incontro sono quindi ben minori di quelle tra funzionari di uno stesso ufficio, che si frequentano stabilmente; il che ostacola ulteriormente il superamento delle già indicate eterogeneità di partenza, ostacolando il controllo reciproco e agevolando “deviazioni ambientali”, dallo scambio di favori fino al vero e proprio inquinamento corruttivo larvatamente somigliante a quello descritto per gli uffici al par. 5.11 e salito spesso agli onori della cronaca; la carenza di dialettica processuale spinge a sostituire in modo relazionale la facile dialettica amministrativa con gli uffici tributari. Col giudice è impossibile una analoga interlocuzione, e non a caso la parola “avvicinamento” si carica subito di sospetti se a lui riferita. Sulle pratiche loro assegnate i giudici tributari sono infatti nella condizione ideale per fare e chiedere favori, anche innocenti espressioni di un “interessamento”, cioè un piccolo potere, “relazionale”. Qualche volta il favoritismo è “pro fisco”, dove la possibilità dei giudici di favorire gli uffici in pratiche importanti e “visibili”, costituisce una “lecita” moneta di scambio per un trattamento amministrativo di favore su pratiche “minori” e “segnalate”, direttamente o indirettamente dal giudice. L’indipendenza di questi giudici rispetto alle parti in conflitto, che senza dubbio sussiste nel senso di cui al par. 2.1, diventa secondaria rispetto ai suddetti inconvenienti. Tale indipendenza è salvaguardata da un organo elettivo di autogoverno (il «consiglio superiore della giustizia tributaria»), e la dipendenza delle dotazioni logistiche e del personale tecnico delle segreterie dal ministero dell’Economia sono inidonee a comprometterla. Giudice indipendente non vuol dire però giudice competente: la già indicata mancanza, in capo ai giudici, di sensibilità sulla tassazione attraverso le aziende, assieme alla sbrigatività della tempistica processuale, rende troppo frequenti le sentenze casuali. Molti giudici fanno del loro meglio, per il già indicato compenso simbolico, soprattutto quando si tratta dell’ordinaria stima “valutativa” della ricchezza non registrata “attraverso gli uffici” o di questioni procedurali alla portata della sensibilità giuridico-economica comune; nel complesso però la valanga di contenzioso, anche specialistico, rovesciata su una magistratura “part time” e senza selezione tecnica, provoca una confusione enorme, confermata dall’intollerabile imprevedibilità del processo, dove la media tra sentenze sbrigative ed approfondite genera una specie di lotteria; per certi aspetti questa disomogeneità nuoce più di sentenze sistematicamente disattente e sbrigative; si aggiunge infatti l’ulteriore aleatorietà rappresentata dal non sapere “cosa sarà esaminato”, “con quale interpretazione” e “con quale approfondimento”. Una massa enorme di pratiche di controllo, spesso sofisticate e importanti, sono scaricate su uno sbrigativo processo in cui un giudice “generalista” ed “onorario”, deve avventurarsi, nel corso di processi sbrigativi, senza contraddittorio formale, in vicende cui non ha partecipato, spesso ormai remote, filtrate da resoconti di parte facili da equivocare. Fuorviante è anche, per un processo di impugnazione, il riferimento ai modelli del processo civile, cui si ispira il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 sul rito processuale tribu- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 175 tario; l’ispirazione al rito processualcivilistico comporta molte complessità esteriori, senza giovare alla sostanza del giudizio. Che resta, come dicevamo sopra, sbrigativo e con forti difficoltà di interlocuzione, specialmente davanti a pratiche complesse. La giurisdizione speciale tributaria sussiste per tutti i tributi, e a tal fine la giurisprudenza adotta una nozione ampia di tributo, considerando tali persino i contributi di bonifica, il diritto aeroportuale di imbarco, i contributi ad ordini professionali. Visto il contesto amministrativistico deve essere il privato a rivolgersi al giudice, in quanto l’ufficio tributario non ne ha bisogno, incidendo di propria iniziativa nella sfera del privato con gli atti unilaterali di cui al par. 6.1. Il ricorso è ammesso contro atti di determinazione del tributo, (atti impugnabili), individuati normativamente, come l’avviso di accertamento, l’avviso di liquidazione delle imposte indirette, l’iscrizione a ruolo, l’irrogazione di sanzioni. Per altri atti, o meri comportamenti, l’impugnazione è differita a quando daranno luogo ad atti impositivi, in quanto è ritenuta “prematura”, come nel caso dei “verbali di constatazione” (paragrafo 5.6). Più che parlare di divieto civilistico di “accertamento preventivo”, tale divieto si spiega con la natura “endoprocedimentale” dei relativi atti (interni a un procedimento ancora da definire). Per alcuni comportamenti, come quelli istruttori, non è prevista tutela, come indicato al par. 5.6, mentre di alcuni atti cautelari parleremo più avanti. Qualche volta la pretesa tributaria viene presentata con atti meno formali, come la fattura ai fini del tributo sulla raccolta dei rifiuti (par. 10.10), i c.d. “avvisi bonari” non notificati (par. 5.5) o atti interpretativi personalizzati. Tali atti, quantunque tipologicamente diversi dagli atti impositivi, indicano in modo compiuto una pretesa tributaria. Per gli atti non notificati si delinea una “impugnazione facoltativa” di fatto, nel senso che l’impugnazione è ammessa, ma il contribuente potrà sempre impugnare l’atto successivo, mancando una conoscenza legale di quello precedente Il ricorso va presentato nel termine di 60 giorni dalla notifica dell’atto, effettuata da messi con la qualità di pubblici ufficiali, anche mediante particolari modalità di utilizzo dei servizi postali; di fronte a queste modalità di conoscenza legale è irrilevante una diversa conoscenza di fatto dei provvedimenti di imposizione. Spesso si tratta di atti emessi in sequenza (ad esempio l’avviso di accertamento precede l’iscrizione a ruolo), e quindi gli atti successivi sono impugnabili solo per la parte non riproduttiva di un atto precedente in modo da non vanificare i termini per impugnare quest’ultimo o gli esiti del processo pendente su di esso (art. 19 comma 3). Il processo può anche essere “di rimborso”, senza atti dell’amministrazione, ma innestandosi sulle istanze di rimborso, presentate agli uffici finanziari nei termini previsti dalle singole leggi d’imposta ovvero, in base all’art. 21, comma 2, entro due anni dal pagamento o dal sopravvenuto diritto al rimborso. Il rifiuto espresso dell’ufficio finanziario va impugnato secondo le regole generali, ma in genere si verifica un suo silenzio; quest’ultimo, dopo 90 giorni dalla presentazione dell’istanza, è un presupposto per ricorrere alla commissione tributaria, entro il termine di prescrizione decennale (art. 21, comma 2). Questo silenzio non è equiparato a un provvedimento amministrativo di implicito diniego di rimborso, che costringereb- 176 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui be a ricorrere tempestivamente, anche quando la mancata risposta dell’ufficio è dovuta solo ad inerzia, senza alcuna intenzione di negare il rimborso; il silenzio è insomma solo un «presupposto processuale», necessario per rivolgersi al giudice, ma non il simulacro (la fictio iuris) di un atto impugnabile, il che contrasterebbe con le tendenze più recenti del diritto amministrativo, in cui – casomai – il silenzio vale sempre più spesso come “assenso”. In queste liti di rimborso si tende ad attribuire al contribuente la posizione di attore in senso sostanziale, trascurando che ci si trova pur sempre in un contesto amministrativistico, e si sta esaminando il comportamento di una istituzione pubblica rispetto a una istanza del privato; ciò dovrebbe trattenere da applicazioni troppo meccaniche, a carico del contribuente, del criterio dell’onere della prova; al paragrafo 6.2 abbiamo infatti già visto il rischio di utilizzare in maniera troppo sbrigativa lo stereotipo dell’onere della prova quando l’amministrazione è inerte e ostruzionistica davanti alla richiesta di rimborso; quando quest’ultimo deriva da vicende ragionieristiche complesse, difficili da spiegare a un giudice esposto anche ai disorientamenti difensivi dell’amministrazione, vengono spesso negati rimborsi assolutamente fondati. La disciplina processuale è totalmente inadeguata quando si tratta di atti diversi dalla determinazione del tributo, collocati in una fase precedente o successiva; si pensi ai provvedimenti cautelari, sequestri e ipoteche, atti istruttori illegittimi, rifiuti di esercitare l’autotutela (paragrafo 9.6), risposte negative ad interpelli «autorizzatori» (ad esempio in tema di società controllate in paradisi fiscali, o in tema di «ruling internazionale»), etc... Le tutele cautelari sono infatti regolate in modo episodico, cioè su casi singoli, come la sospensione della riscossione delle somme richieste con l’atto impugnato. Un’altra tutela cautelare recentemente demandata alle commissioni riguarda il fermo degli autoveicoli (c.d. “ganasce fiscali”) e le ipoteche sugli immobili, da parte del concessionario per la riscossione. Alla giurisdizione tributaria spetta anche il reclamo contro i provvedimenti di sequestro cautelare contenuti nel decreto legislativo sulle sanzioni. Si tratta comunque di inserimenti casistici, mentre manca una tutela generale del contribuente rispetto ad altre attività amministrative, diverse dalla determinazione del tributo; possono essere attività istruttorie o di cautela patrimoniale amministrativa, rispetto alla futura esecuzione fiscale. Una tutela del giudice amministrativo o di quello civile frammenterebbe la competenza tra giudici diversi, contrariamente alla tendenza verso una giurisdizione esclusiva «per materia», affidata ad un unico giudice, senza distinguere le questioni di diritto soggettivo da quelle di interesse legittimo. Per avvalorare la giurisdizione tributaria e attribuire una tutela, si potrebbe sostenere anche una interpretazione restrittiva dell’elenco degli atti impugnabili, di cui all’art. 19, riferendone la tassatività solo agli atti di determinazione del tributo; questo dovrebbe attrarre, “per materia”, alle commissioni tributarie tutte le liti del settore, persino quelle sull’accesso agli atti, di cui avevamo detto al paragrafo 6.1. Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 177 6.9. La procedura: difficile coesistenza tra sostanza impugnatoria ed ispirazione civilistica Il ricorso va prima notificato, presentato o spedito all’ufficio finanziario, non in quanto autorità amministrativa di riferimento, ma in quanto “controparte”, ricalcando le modalità del codice di procedura civile. È prevista, sul modello civilistico, anche la notifica a mezzo ufficiale giudiziario, procedura più formale e costosa, che in questo caso è superflua; ed invero, essendo la controparte una amministrazione pubblica, è possibile ottenere formale ricevuta della presentazione del ricorso anche senza utilizzare l’ufficiale giudiziario. Questa presentazione deve avvenire entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato, tenendo conto che –secondo le regole generali – in caso di spedizione a mezzo posta vale il termine di spedizione; si crea quindi, il solito “doppio termine”, col limbo costituito dagli imprecisati tempi tecnici della posta, tra la spedizione del ricorso e la sua ricezione. Entro il termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione o spedizione, il ricorso va depositato o spedito alla segreteria della commissione (artt. 21 e 22 d.lgs. n. 546); la perentorietà di questa costituzione in giudizio si giustifica in quanto solo con questo deposito (denominato, riprendendo un’espressione del processo civile, «costituzione in giudizio del ricorrente») la commissione viene investita della controversia, venendone legalmente a conoscenza (cfr. art. 22). In tale sede il ricorrente deve depositare, in allegato al ricorso, la copia dell’atto impugnato e i documenti che produce, pagando altresì il contributo unificato, in relazione alla fascia di valore in cui si colloca la lite. Il ricorso deve contenere una serie di dati identificativi (art. 15) e soprattutto i «motivi del ricorso», cioè i vari profili sotto i quali si chiede l’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato (od il rimborso dell’imposta). Tali motivi concorrono, assieme alla motivazione dell’atto impositivo, a «delimitare la materia del contendere», in un processo strutturalmente impugnatorio Come in tutti i processi amministrativi, al giudice si chiede l’esame della correttezza di un atto della pubblica amministrazione; la determinazione dell’imposta rileva indirettamente, perché i suoi vizi logici o giuridici diventano un “vizio” dell’atto impugnato; sotto questo profilo, quindi, rileva anche la carenza di motivazione o di prova (par. 6.2). La già indicata possibilità del giudice di rideterminare l’imposta, nei limiti della materia del contendere (motivazione dell’atto impugnato e motivi del ricorso) è perfettamente compatibile con la natura impugnatoria del processo, trattandosi di un annullamento parziale. L’oggetto del processo tributario è dato quindi non dall’imposta dovuta, ma dall’imposta dovuta per una determinata contestazione adeguatamente motivata, solo nel cui ambito sono ammesse rideterminazioni da parte del giudice; esso non è investito dell’imposta dovuta, ma di una certa contestazione inquadrata in fatto e in diritto. L’incardinamento del processo su una giurisdizione civile ha spesso provocato, in relazione a particolari situazioni di fatto, affermazioni di principio tendenti apparentemente ad ampliare l’intervento del giudice, come se fosse non già un processo di impugnazione, ma di accertamento. Dietro alla relativa equivoca espressione di “im- 178 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui pugnazione merito”, non c’è nessuna teoria alternativa rispetto a quella del processo di impugnazione; si tratta solo di espressioni coniate per giustificare un intervento “di sostegno” del giudice verso atti magari impostati male dall’ufficio tributario, ma dove era chiaro che l’imposta era dovuta. Sono sensazioni corrette, ma che rischiano di essere fuorvianti provocando, anche a causa della sbrigatività del processo e del contesto pasticciato, decisioni a sorpresa, violazioni della dialettica processuale, del principio del contraddittorio e in definitiva del diritto di difesa. Per arrivare a questo condivisibile obiettivo, il giudice ha ampi margini, all’interno della motivazione dell’accertamento (par. 6.2), senza bisogno di teorizzare una grossolana imposizione giudiziale. Spesso una determinata contestazione, di fatto o di diritto, può essere ritenuta motivata (par. 6.2) anche se non tutti gli elementi di sostegno sono indicati nell’atto di accertamento; si pensi ad esempio a tutte le caratteristiche di un immobile o di una azienda ai fini della relativa valutazione, o i vari punti di vista per stimare i ricavi non registrati, par. 5.13 ss.; un intervento attivo del giudice, nel rispetto del principio del contradditorio, può estendersi a questi aspetti, che restano all’interno della materia del contendere, senza stravolgere i ruoli delle parti in omaggio a una singola decisione giusta. La parte contro cui il ricorso è proposto (c.d. «parte resistente», cioè (in primo grado) l’ufficio finanziario, l’ente locale o il concessionario per la riscossione) ha 60 giorni di tempo per “costituirsi in giudizio”, cioè prendere posizione sul ricorso con un atto di controdeduzioni; l’inerzia del resistente non comporta alcuna sua automatica sconfitta, già nel processo civile; il giudice ben potrebbe infatti respingere il ricorso, in quanto non fondato in fatto o in diritto, anche se il resistente non ha partecipato al giudizio; la mancata costituzione comporta solo pregiudizi di rito, come il mancato invio dell’avviso di udienza (art. 31) o la mancata comunicazione della sentenza (art. 37), riservate alle parti costituite. Il ricorso deve essere esaminato preliminarmente, per verificarne alcune caratteristiche formali: a tale scopo viene assegnato a una delle sezioni giudicanti di cui si compone la commissione, e subisce un «esame preliminare» a cura del presidente, che individua i ricorsi palesemente inammissibili (artt. 27 ss.), per tardività, per mancata sottoscrizione, per tardiva costituzione del ricorrente, ecc.. Contro tali provvedimenti le parti possono presentare reclamo alla commissione (cioè al collegio), che conferma l’inammissibilità con sentenza impugnabile, ovvero accoglie il reclamo, e dispone con ordinanza la prosecuzione del processo. In questa fase preliminare il ricorso può essere riunito ad altri eventuali procedimenti soggettivamente o oggettivamente connessi, viene fissata la data di trattazione, comunicata al contribuente e all’ufficio, se costituitosi (art. 31). Le parti possono presentare documenti e «memorie illustrative» dei motivi già fatti valere, nei termini di dieci giorni prima dell’udienza (per le memorie) e di 20 giorni per i documenti. Questi termini servono a dar modo alla controparte di controdedurre e, se non vengono rispettati, l’altra parte può appunto chiedere che, ai fini della decisione, non si tenga conto delle memorie e dei documenti tardivamente presentati; in tal caso la motivazione della sentenza non potrà essere basata su questi elementi, che Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 179 tuttavia potrebbero influenzare psicologicamente il giudice, col solo vincolo di non indicarli formalmente nella motivazione, da basare su altre argomentazioni. Queste ultime memorie vanno presentate alla segreteria della commissione in due copie, una delle quali per la controparte, che potrà ritirarla in segreteria della commissione, senza ricevere a tale scopo alcun avvertimento specifico. L’attuale processo tributario prevede l’udienza pubblica solo se una delle parti la richiede, altrimenti la controversia viene decisa in camera di consiglio, alla presenza cioè dei soli giudici e del segretario. Nella pubblica udienza, cui possono partecipare il contribuente e il rappresentante dell’ufficio finanziario, il componente della commissione che funge da relatore illustra la questione. Una volta ascoltato il relatore, le parti sono ammesse alla discussione, consistente in realtà di brevi illustrazioni di quanto già scritto, una per parte e a compartimenti stagni, con difficoltà di interlocuzione e sacrificio della dialettica processuale; l’udienza non è preceduta da alcuna attività preparatoria, in contraddittorio, per mettere a fuoco i punti salienti della questione. Essa dura in genere, per le cause tipo, una decina di minuti, davanti a giudici spesso spazientiti dallo scorrere del tempo, dove è difficile interloquire, precisare punti specifici, chiarire dubbi, replicare. La controversia è in genere decisa senza ulteriori udienze (art. 35), in modo sbrigativo, salvo il raro caso in cui la commissione formuli richieste istruttorie, molto rare a causa delle già descritte caratteristiche della giustizia tributaria; tutt’al più viene talvolta ordinata, ai sensi dell’art. 7, la presentazione di atti e documenti destinati a confermare la veridicità di alcune affermazioni di parte. Ricordiamo che questi poteri istruttori non possono comunque essere usati per dare all’accertamento una base diversa da quella indicata nella relativa motivazione, o per accogliere il ricorso per motivi non indicati dal ricorrente (paragrafo 6.2 sulla motivazione); il “principio della domanda”, con la necessità di indicare i motivi di invalidità dell’atto impugnato, è quindi perfettamente conciliabile con la natura oggettivamente amministrativa del processo. Questa sbrigatività del processo tributario è alla base del divieto di prova testimoniale, confermando la sommarietà del rito, in cui si mortificano quei principi dell’oralità, del contraddittorio e della formazione giudiziale della prova cui è stata data addirittura rilevanza costituzionale. Questa sommarietà rischia di avvantaggiare oltremisura gli uffici fiscali, che nelle indagini possono acquisire dichiarazioni di terzi, per poi utilizzarle nel processo, con una valenza pratica di prova testimoniale, sottratta al diretto vaglio critico della controparte e del giudice. Un ragionevole compromesso, per salvaguardare al tempo stesso il divieto di prova testimoniale e la valenza probatoria di quanto raccolto a verbale dagli uffici, potrebbe interpretare restrittivamente il divieto di prova testimoniale ed ammettere nel processo anche le dichiarazioni scritte di terzi, prodotte dal contribuente a proprio vantaggio. La sbrigatività suddetta asseconda una tendenza latente in tutte le giurisdizioni, dove le sentenze e le massime non esteriorizzano del tutto le sfumature che hanno portato alla decisione; si ricordi infatti dal par. 4.3 e 4.4 in fine che i giudici non hanno il compito di sistematizzare concetti, ma di risolvere controversie nel modo “sostanzialmente 180 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui più corretto”, e meno criticabile. Le singole sentenze non “fanno storia”, non “insegnano”, non sono “opere letterarie”, e quindi sono normali, da parte dei giudici, ibridi motivazionali improntati a valutazioni di economicità. Ne fa parte anche lo sfasamento tra ragioni della decisione, intuite, ma difficili da comunicare, e lrelativa motivazione, spesso basata sui consueti stereotipi solo per questo apparentemente in tema, e proprio per questo meno criticabili, secondo gli schemi di comodità istituzionale indicati al par. 4.3. Le divergenze tra motivazione palese e ragionamento effettivo non rivelano mala fede, ma solo una istintiva comodità di svolgimento della funzione di giustizia; quest’ultima è infatti un servizio, teso a “governare il caso”, mentre la legge cerca (sia pure con le incoerenze di cui al par. 2.4) di “governare il sistema”. Dopo l’udienza non esiste un termine preciso entro il quale i giudici debbano comunicare l’esito del giudizio e depositare le motivazioni della sentenza in segreteria. Una volta che ciò sia avvenuto, si può ottenere copia della sentenza. La parte vittoriosa può notificarla, facendo scattare il termine “breve” di 60 giorni per l’appello (art. 51). Senza tale notifica subentra il «termine lungo» di cui all’art. 327 c.p.c., secondo cui la sentenza passa comunque in giudicato se non impugnata entro sei mesi dal suddetto deposito. La sentenza decide anche sul rimborso delle spese processuali; da alcuni anni è stata infatti introdotta la condanna del soccombente al rimborso delle spese processuali (art. 15, D.lgs. n. 546/1992), sempreché la commissione non ritenga di compensarle tra le parti per la particolare complessità della controversia. La presentazione dell’appello avviene secondo gli stessi criteri previsti per il ricorso (art. 53, comma 2, che rinvia all’art. 20). La segreteria della commissione regionale, destinataria dell’appello, richiederà quindi alla commissione provinciale il fascicolo contenente il resto della documentazione (sentenza, ricorso introduttivo, controdeduzioni, memorie, documenti ecc.). Entrambe le parti possono essere scontente della sentenza del primo giudice, e quindi avere interesse a fare appello. È importante osservare che l’appello può essere presentato, a differenza del ricorso di primo grado, anche dall’ufficio tributario, che può essere stato soccombente in primo grado. In tal caso, la parte che presenta l’appello per seconda deve farlo con l’appello incidentale (art. 54), proposto nelle già indicate forme della costituzione in giudizio, cioè senza notificazione alla controparte, ma con deposito alla segreteria della commissione. L’appello non ha in genere la funzione di rimediare a specifici vizi della sentenza appellata, ma costituisce un nuovo giudizio, nei limiti definiti in primo grado ed in quelli – eventualmente più ristretti – definiti dai motivi di appello. Anche se, in base all’art. 53, il ricorso in appello deve contenere i «motivi specifici dell’impugnazione», non si tratta di un “processo impugnatorio”, che presuppone la scoperta di “vizi logico giuridici” della sentenza impugnata, come vedremo per il giudizio di cassazione. Si tratta solo delle ragioni per cui l’appellante chiede un secondo, e possibilmente diverso, giudizio; naturalmente, di fatto, l’appellante indicherà gli aspetti della sentenza appellata che non persuadono, le argomentazioni che avrebbero dovuto essere convincenti e non sono state prese in considerazione, ecc.. I giudici di appello non sono però “giudici del Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 181 giudice”, come la cassazione, ma accedono direttamente alla questione, e la sentenza di primo grado può essere ribaltata anche senza individuarne “vizi” in senso tecnico. L’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici e ad evitare lo spreco di attività giurisdizionale, subordinano questo nuovo esame a richieste molto specifiche, come l’indicazione degli «specifici» motivi dell’appello, e l’abbandono delle questioni ed eccezioni formulate in primo grado e non riproposte in appello (art. 56, che riprende il principio processualcivilistico di cui all’art. 346 c.p.c.). Un vero e proprio “vizio” della sentenza è invece il presupposto della c.d. “revocazione”, diretta allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, ed applicabile anche in materia tributaria, soprattutto per gli evidenti errori di fatto di cui all’art. 395 n.4 c.p.c., che possono verificarsi nella frettolosa sbrigatività del processo tributario. Lo stesso vale per la correzione in presenza di palesi errori di calcolo risultanti estrinsecamente confrontando motivazione e dispositivo. L’appello segue le stesse regole procedurali del giudizio primo grado (fissazione dell’udienza, le memorie, discussione, notificazione della sentenza, etc.). Le sentenze di entrambe le commissioni tributarie (provinciale e regionale) devono essere corredate di motivazione; la funzione della motivazione delle sentenze rispetto a quella degli atti autoritativi unilaterali, come l’avviso di accertamento (par. 6.2) meriterebbe studi specifici. La motivazione della sentenza serve infatti alla trasparenza della funzione di giustizia, anche nei confronti delle parti, che possono valutarla in relazione alle precedenti argomentazioni addotte da entrambe nel giudizio. Le sentenze delle commissioni sono impugnabili per cassazione (artt. 62 e ss.), per vizi di legittimità (violazione di legge, questioni di diritto), ed anche carenza dell’appena citata motivazione. Il ricorso per cassazione è il tipico rimedio «impugnatorio», articolato su “motivi di ricorso”; ove la cassazione ritenga sussistente il vizio, potrà decidere direttamente ove non occorrano ulteriori accertamenti di fatto, altrimenti rinvierà a una diversa sezione del giudice «a quo», che dovrà rinnovare il giudizio, seguendo se del caso il principio di diritto fissato dalla cassazione. La cassazione giudica insomma “sulla sentenza”, a differenza del giudice di appello, come sopra rilevato. Già nel processo civile la cassazione è “il giudice del giudice”, ed a maggior ragione lo è in un processo amministrativo come quello tributario. Se ne comprende così la lontananza rispetto alle questioni da decidere, cui si aggiunge lo scrupolo della cassazione di giungere a una “sentenza esatta nel caso concreto”, cioè che riconosca –per quanto visibile dai “filtri” suddetti – chi ha torto e chi ha ragione. Per questo, il massimo risultato che ci si può aspettare da tutti i giudici, compresa la cassazione tributaria, sono “sentenze corrette” nel caso concreto; l’“insegnamento” (della cassazione, del consiglio di stato, del tribunale, etc.) è al massimo un utile sottoprodotto, frequente soprattutto nel diritto dei privati, dove il giudice è l’istituzione di riferimento (anche qui la sistematizzazione concettuale viene dopo, anche agli occhi del giudice, rispetto alla correttezza sostanziale della decisione). Gli “insegnamenti giurisprudenziali” e le “sistematizzazioni” sono invece molto più rare nel diritto dei pubblici poteri, compreso quello tributario; dove non si deve perciò guardare alla cassazione come l’istituzione particolarmente qualificata e competente, in grado di sciogliere i 182 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui nodi della determinazione della ricchezza, e che rimedia ai danni logico-sistematici delle commissioni tributarie. Non stiamo togliendo nulla al suo impegno e alla sua fatica, se non il superfluo, semplicemente perché non si tratta di un compito cui è destinata e per cui è preparata. La legittima preoccupazione della cassazione è infatti un’altra, soprattutto di fronte alla valanga di ricorsi che le vengono presentati; come tutti i giudici, nei limitati margini di cui essa dispone, si preoccupa di fronteggiare le singole controversie nel modo più equilibrato. Quello che viene chiamato ”insegnamento della cassazione” è secondario rispetto alla soluzione di controversie “di diritto”, ma in materia tributaria è ancora più secondario di quanto sia nel diritto civile. Qui, infatti, le istituzioni di riferimento sono quelle amministrative, e la giurisdizione si pone il problema di correggerne negligenze e illegittimità, non di rideterminare il tributo. Benché la determinazione del tributo sia in genere strumentale per rendersi conto se l’amministrazione ha sbagliato e il contribuente merita giustizia, essa non è l’oggetto diretto dell’intervento del giudice. Sotto questo profilo è faticoso comprendere, dalle presentazioni tortuose e spesso tendenziose delle parti, i reali termini delle questioni. Per questo è difficile contestualizzare le affermazioni della cassazione, non a caso tante volte fraintese dai commentatori, che si limitano alla “massima”, senza calarla nel contesto concreto della decisione. Per questo sentenze corrette vengono spesso generalizzate in modo sbagliato, contribuendo al fallimentare bilancio di cui al paragrafo successivo. 6.10.Il fallimento della “via giurisdizionale alla determinazione della ricchezza”: ostacoli al funzionamento degli uffici e possibili vie di uscita La valutazione di sintesi del sistema giurisdizionale va effettuata per tipologie di controversie, a seconda della possibilità di ricondurle facilmente al bagaglio culturale del giudice. Questa riconducibilità è elevata per le controversie valutative, come gli accertamenti induttivi dei “lavoratori indipendenti”, sul valore di terreni e fabbricati, e questioni simili, dove occorre ragionare per ordine di grandezza. Lo stesso vale per le pratiche di liquidazione, ripetitive e facilmente comprensibili; spesso si tratta infatti di contenziosi innescati dalla ripetitività anonima (ed informatica) nella gestione amministrativa di grandi masse di dati, dove possono verificarsi degli errori, e il giudice serve a superare irrigidimenti e pastoie interne alla macchina tributaria. Per entrambe queste controversie la già rilevata sbrigatività del processo consente un rapido smaltimento di un gran numero di cause, con un buon rapporto “costi-benefici”, salvo quanto diremo in generale al termine del paragrafo. L’inadeguatezza del processo tributario riemerge per le questioni specialistiche di reddito d’impresa, soprattutto riguardanti le contestazioni interpretative (par. 3.11, par. 5.17 ss) o le poche attinenti a ipotetica ricchezza non registrata scavalcando le procedure aziendali (par. 3.7). Qui la sbrigatività del processo, un bagaglio culturale degli operatori del diritto insufficiente rispetto alle complesse simmetrie della tassazione attraverso le aziende, la scarsa familiarità con le aziende e la contabilità aziendale, la caren- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 183 te formazione “socioeconomica” (par. 1.6) si intrecciano con la natura inevitabilmente impugnatoria del processo tributario. Mettiamoci nei panni di un giudice di un processo inevitabilmente impugnatorio, davanti a questioni estranee al suo bagaglio culturale, dove si trova fortemente disorientato. Su questo premesse non c’è bisogno di tirare in ballo un ipotetico “in dubio pro fisco” per spiegare la tendenza a respingere i ricorsi. L’indipendenza del giudice non dipende infatti solo da conflitti di interessi e condizionamenti culturali, ma anche dalla sua capacità di padroneggiare le questioni, evidente soprattutto nei processi “impugnatori” di matrice amministrativa, ma anche nei gradi successivi al primo di tutti i processi, dove la questione è filtrata da una precedente sentenza. Una istituzione che deve esaminare una controversia di cui non padroneggia i contenuti, cerca di trovare una via d’uscita per non esprimersi, come conferma il numero di “sentenze procedurali”, emanate per questioni di “rito”. In mancanza di meglio, se si deve entrare nel merito, è istintivo far riferimento ad altre istituzioni e quindi respingere il ricorso diventa la soluzione più agevole; d’altro canto, quando il giudice titubante è costretto ad andare sulla fiducia, si sente più tranquillo a non vanificare un atto proveniente dalle istituzioni amministrative. Spingono in questa direzione anche i condizionamenti mediatici sull’evasione fiscale e i fraintendimenti sui “grandi evasori”, di cui ai paragrafi 4.6 e 5.17 ss. In questo modo entra in crisi, spontaneamente e inconsapevolmente, a seconda della difficoltà della singola pratica, l’indipendenza dei giudici, magari anche di quelli tutt’altro che favorevoli al fisco, sulle questioni che si sentono di aver inquadrato. Su queste premesse gli uffici hanno buon gioco a introdurre elementi di dubbio, che facciano scattare nel giudice i meccanismi mentali indicati sopra. È del tutto legittimo, rispetto alla spiegazione processualistica della tassazione, che gli uffici adottino tutte le astuzie dell’avvocato, conformemente alle fuorvianti spiegazioni avvocatesche indicate al par. 4.3. Se gli studiosi sono i primi a far uso dei noti disorientanti sproloqui apparentemente in tema, è del tutto legittimo che anche funzionari remunerati meno di duemila euro al mese utilizzino queste “armi di distruzione (cerebrale) di massa”. In questa impostazione avvocatesca, che non viene da loro, essi lanciano legittimamente sul giudice cortine fumogene apparentemente in tema, ma sostanzialmente senza filo conduttore; la tattica è far scattare lo stato d’animo indicato sopra, secondo cui, in estrema sintesi, “giudice frastornato ricorso rigettato”. È normale che questo avvenga con sentenze ineffabili, in cui si snodano espressioni di stile, senza un reale filo conduttore, nello stile dei discorsi apparentemente in tema, di cui abbiamo iniziato a parlare al paragrafo 4.3 a proposito della dottrina e che ci accompagnano in tutto il testo. Per questa “mancanza di giustizia”, che delegittima la giustizia tributaria agli occhi di una quota sempre maggiore di operatori e di appartenenti alla pubblica opinione, basta una cospicua minoranza di sentenze, ampiamente superata negli argomenti in esame. Lo confermano udienze imbarazzanti, dove si deve spiegare a giudici che non capiscono perché gli uffici fanno finta di non capire. Anche qui, la mancata comprensione della tassazione attraverso le aziende si ritorce sulle aziende, cioè sul regime di quello che esse dichiarano, contribuendo alla disgrega- 184 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui zione organizzativa indicata al par. 5.18 ss. Assorbite dai loro prodotti, e dal loro particolare, le aziende neppure si rendono conto di non avere “un giudice a Berlino”; tuttavia la loro crescente tendenza a fare affidamento esclusivamente sugli uffici tributari, sottoponendosi alle conseguenti “taglie di stato” conferma il fallimento del contenzioso. E il suo contributo, sia pure in piccolo, alla mancata crescita delle aziende italiane e ai mancati investimenti di quelle estere, secondo quanto indicato al par. 5.19. Gli ambienti accademici e professionali avvertono i malesseri descritti sopra, ma non ne comprendono le cause. E si illudono di superarle invocando dal legislatore imprecisate modifiche del processo, secondo lo schema “legislatore incapace, aiutaci tu”(par. 4.3). Nessuno si accorge delle disfunzioni connesse ad una fuorviante impostazione processualistica di una materia amministrativistica, dove il problema del processo viene prima del processo, e riguarda l’attività amministrativa di determinazione tributaristica della ricchezza. L’insoddisfazione per il processo sussiste sia dove è efficiente, cioè per le piccole controversie di massa, sia dove è inadeguato, come le questioni aziendali specialistiche. In entrambi i casi il processo nasce per questioni non risolte in sede amministrativa, ed è innescato proprio dal diffuso preconcetto, imitativo del diritto dei privati, secondo cui la soluzione sarebbe “il processo”. È un deficit culturale che rende difficili le decisioni all’interno degli uffici, inceppando la funzione pubblica di determinazione della ricchezza in materia tributaria. L’enfasi sul processo spinge infatti gli uffici a “non decidere” a rimettere le valutazioni al giudice, e poi –una volta sorte le controversie – a coltivarle fino ad esaurimento; questo costringe le parti, stancamente, a tornare ciclicamente, e sempre più stancamente, dopo archi temporali pluriennali, su controversie ormai remote nel tempo, di cui pian piano impallidisce il ricordo. È un gioco dove esistono piccole, immediate, convenienze settoriali, ma dove su larga scala “perdono tutti”. Il già indicato successo processuale degli uffici sulle contestazioni interpretative del regime giuridico della ricchezza registrata distoglie risorse dalla ricerca e valutazione degli imponibili occultati, provocando inutili incertezze per le organizzazioni imprenditoriali oggetto di questo diversivo. Si apre così un circolo vizioso in cui gli uffici tendono sempre più verso le contestazioni interpretative di cui al par. 5.18 ss., il che ostacola il controllo del territorio sulla ricchezza non registrata, che dovrebbe seguire i criteri di cui al par. 5.7. Anche per le già indicate “pratiche seriali” di lavoratori indipendenti, e “di liquidazione”, benché il giudice si orienti meglio, il processo rappresenta un costo spesso sproporzionato rispetto al valore della lite, e alle energie professionali impiegate. Proprio la valvola di sfogo del processo spinge infatti gli uffici a trattare queste pratiche “di massa” con la maggiore sbrigatività di cui al par. 6.5. La prospettiva di gestione processuale di queste pratiche “bagatellari” ne alimenta paradossalmente la nascita; la già indicata efficienza processuale, comunque relativa, contribuisce così a una inefficienza amministrativa. Tra queste due opposte forme di insoddisfazione possono esserci le solite sfumature intermedie delle nostre discipline, ma il bilancio della via processuale alla tassazione è comunque fallimentare. Il processo, che dovrebbe difendere i contribuenti da negligen- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 185 ze degli uffici, finisce oggettivamente per contribuire a queste ultime; vedere il processo come “normale valvola di sfogo” ostacola la determinazione della ricchezza nella sua naturale sede amministrativa; essa innesca un palleggio, tipicamente italiano, dove ogni organo coinvolto dice la sua, per darsi tono, ma non decide, con la riserva mentale che “tanto c’è il giudice”. Paradossalmente, forse, concentrarsi sulla tutela amministrativa, responsabilizzerebbe gli uffici, migliorando la situazione generale. Non siamo infatti davanti a controversie civili, dove l’alternativa alla funzione di giustizia è risolvere le liti coi duelli rusticani. In materia tributaria, come in tutto il diritto dei pubblici poteri il diritto passa attraverso le rispettive istituzioni pubbliche di sicurezza, di difesa, ambiente, urbanistica, educazione, sanità, determinazione dei tributi, e un eccesso di giustizia può deresponsabilizzarle e peggiorarne il funzionamento. Come appunto è avvenuto in materia di determinazione dei tributi, al punto di ritenere preferibile alla situazione attuale persino una abolizione secca della giurisdizione tributaria, lasciando solo la protesta politica, facendo sentire gli uffici “senza rete” e costringendoli a decidere. Senza arrivare a questo estremo, comunque preferibile alla situazione odierna, la tutela giurisdizionale deve tornare ad essere una valvola di sfogo per casi particolari in cui la determinazione dei tributi da parte delle aziende o degli uffici giunge a una situazione di stallo. Per riportare entro limiti di normalità l’intervento giurisdizionale rinviamo al potenziamento dei ricorsi amministrativi (par. 6.5), lo spostamento dell’attività degli uffici verso la prevenzione-dissuasione, indicato al par. 5.7.. Anche questa deprocessualizzazione si inquadra nella de professionalizzazione, di un settore che deve essere sdrammatizzato e normalizzato, gestendo in via amministrativa le numerosissime pratiche valutative di importo “medio – piccolo”, dei lavoratori indipendenti. Al minor numero di processi corrisponderebbe un loro maggiore approfondimento, a parità di remunerazione e di numero dei giudici, anche quelli attuali. Questi ultimi, con più tempo a disposizione, ed un processo più articolato, smetterebbero di assecondare gli uffici sulle contestazioni interpretative, cominciando a pronunciare, come genitori lungimiranti, quei “no che aiutano a crescere”, contribuendo a indirizzare gli uffici verso una serena stima della ricchezza dove le aziende non arrivano. Si interromperebbe così il suddetto circolo vizioso dove i giudici, davanti a contestazioni interpretative complicate, dando ragione agli uffici, assecondano lo spreco di controlli fiscali di cui al par. 5.19. In questo modo si potrebbe anche aumentare l’interlocuzione diretta col giudice, con un contraddittorio processuale degno di questo nome, che prevenga gli equivoci e che, indipendentemente dall’esito della controversia, dia alle parti la soddisfazione di avere un interlocutore reale, che si sforza a comprendere le loro tesi. La diminuzione del contenzioso, tendente a “processare meno, processando meglio”, gioverebbe quindi sia ai giudici, sia agli uffici, sia ai professionisti, sia ai contribuenti. Il rimedio alle disfunzioni del processo è quindi fuori dal processo, e presuppone adeguate spiegazioni della determinazione della ricchezza ai fini tributari. Perché una parte non può funzionare bene, se l’insieme funziona male, come è inevitabile quando non se ne è capito il meccanismo. 186 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui 6.11.Riscossione coattiva ed evasione da riscossione (l’esattore – Equitalia come diversa autorità amministrativa esattrice delle imposte) Solo dopo aver determinato la ricchezza, e quindi le imposte, nasce un credito tributario da riscuotere, ed anche questo passaggio può essere complicato; la ricchezza fiscalmente non registrata potrebbe essere stata spesa, al momento del controllo, e comunque il fisco potrebbe non rinvenire più elementi patrimoniali su cui soddisfarsi. C’è un rischio di evasione da riscossione, che non riguarda solo le maggiori imposte accertate, ma anche quelle dichiarate. Queste ultime potrebbero non essere versate nei termini indicati al paragrafo 3.6. A prima vista, dichiarare o fatturare senza versare è un comportamento irragionevole, in quanto sarebbe più conveniente a prima vista, per chi vuole fare il furbo, non dichiarare affatto.Vedremo subito i motivi per cui non sempre è così, e si configura una evasione da riscossione anche in questi casi. Un primo ostacolo è reale, potendo consistere nella mancanza, in capo al contribuente, della liquidità necessaria a versare le imposte su ricchezza registrata. Una prima causa tecnica di questa difficoltà finanziaria dipende dalla tassazione di ricchezza “non liquida”, né accompagnata da altra ricchezza “liquida”, come vedremo al paragrafo 7.12, sul momento impositivo. Ci sono poi le difficoltà finanziarie generali dell’attività produttiva, seguite da quelle personali del contribuente. Basta pensare a una azienda in crisi di liquidità, senza credito bancario, e che si trova sprovvista di denaro sufficiente a pagare contributi e ritenute, sul lavoro dipendente, oltre ai salari netti. Lo stesso può riguardare l’IVA, o le stesse imposte sui redditi, che tanti contribuenti si accorgono di dover pagare, a maggio dell’anno successivo, quando hanno già impiegato le relative risorse finanziarie in altri aspetti dell’attività produttiva o per consumi personali. Invece di indebitarsi per pagare le imposte è possibile “indebitarsi con il fisco”, sia dichiarando e non versando, sia rateizzando i versamenti, in un arco temporale che può giungere ad alcuni anni, con pagamento di interessi. È una situazione diversa da quella di chi sin dall’origine progetta di rendersi inadempiente, per non pagare mai, magari creando società debitrici di comodo, intestate a prestanome senza nulla da perdere. Qui poi bisogna ulteriormente distinguere varie sfumature da chi vuole semplicemente “ridurre il costo del lavoro”, in una specie di “evasione di azienda” (paragrafo 3.8) a chi si appropria di quanto necessario a pagare ritenute e contributi, rendendosi insolvente agli occhi dei relativi creditori. C’è anche chi non vuole versare tributi a fronte di fatture che hanno dato alle controparti i presupposti contabili per effettuare deduzioni e detrazioni: le fatture emesse da chi non verserà l’IVA e le ritenute danno infatti diritto alle relative detrazioni dell’IVA e deduzioni dei costi. A questo scopo si utilizzano società prive di sostanza patrimoniale aggredibile, in una specie di insolvenza fraudolenta tributaria; quest’ultima è premeditata, e quindi ancora più insidiosa del comportamento di chi (a posteriori) cerca di occultare i beni cui l’esecuzione forzata potrebbe dirigersi; quest’ultimo è invece il caso classico, in cui il contribuente tenta di sottrarsi alla riscossione delle maggiori imposte accertate tra- Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 187 sformando i beni in liquidità difficile da individuare, intestandoli a terzi, prestanome o società interposte. Di questi comportamenti mancano i presupposti quando si tratta di aziende strutturate, con un avviamento molto personalizzato o con una clientela esigente, e quindi una immagine da rispettare. Quando invece la clientela è interessata soprattutto “al prezzo”, come nella distribuzione all’ingrosso, nei servizi logistici, l’organizzazione non è molto sofisticata, i suoi effettivi titolari non sono particolarmente riconoscibili ed è possibile trasferire il contenuto societario, dipendenti compresi, in altre società destinate a fare la stessa fine. Questa tendenza alle “organizzazioni fantasma” è agevolata, oltre che dal noto scarso controllo del territorio da parte del fisco, anche da un regime estremamente lassista di costituzione delle società e di rilascio della partita IVA. Per fronteggiare questi comportamenti, il fisco, dopo aver “visto la ricchezza con gli occhi delle aziende”, utilizza un organo ancora diverso, pur sempre di proprietà pubblica, per la riscossione: mi riferisco all’Agente della riscossione “Equitalia spa”, o semplicemente “esattore”, come lo chiameremo nel prosieguo. In Italia infatti, l’autonomia del citato “agente della riscossione” conferma la tendenza alla frammentazione, moltiplicazione e perpetuazione delle istituzioni; gli antichi esattori avevano infatti una funzione finanziaria, in quanto anticipavano le imposte per poi rivalersi sui contribuenti, con poteri autoritativi delegati dallo stato. Nella tassazione attraverso le aziende “l’esattore” era del tutto ingiustificato, ma con varie trasformazioni si è perpetuato, sotto il nome di “agente” per la riscossione, all’interno di una società (la suddetta Equitalia spa) controllata pariteticamente dall’agenzia delle entrate e dall’INPS. Anche Equitalia ha dei costi di struttura, che potrebbero ricadere sulla fiscalità generale, dove chi non evade verrebbe gravato di costi generati da chi evade. Per questo si è cercato di imputare tali costi ai debitori delle somme iscritte a ruolo, con una remunerazione obbligatoria percentuale, fissata normativamente, e denominata “aggio esattoriale”. La sua misura è determinata in relazione all’andamento dei costi per la riscossione, e non è insignificante in quanto può andare all’incirca dal 5 al 9 percento delle somme richieste. Si potrebbe persino ipotizzare una natura tributaria di questo pagamento, ma è il caso di rinviare ad altri approfondimenti su questo tema. Anche se Equitalia è sostanzialmente incardinata nel sistema degli enti pubblici, restano tuttavia i consueti rischi italiani di scoordinamento tra strutture pubbliche soggettivamente diverse. Anche all’interno dello stesso ente ci sarebbe una divisione funzionale tra chi si occupa della determinazione della ricchezza, con relativo contenzioso, e chi si occupa della riscossione. L’importante è che la diversità soggettiva non renda più difficile il coordinamento tra enti impositori ed esattori, contro la già indicata «evasione da riscossione». I rischi sulla solvibilità del contribuente sono più facilmente valutabili dall’ufficio che lo ha conosciuto, avendone determinato la ricchezza; queste informazioni dovrebbero essere condivise con l’esattore, per aiutare la sua valutazione dei rischi di solvibilità. Lo scoordinamento tra Equitalia ed enti impositori comporta 1) in precauzioni inutili e invasive verso contribuenti solvibili, a fronte di crediti fiscali contestati; 2) difetti di vigilanza e di indagini verso situazioni di elevata pericolosità per 188 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui la riscossione. Nel complesso, l’impostazione aziendalistica di Equitalia ha portato ad una maggiore efficienza della riscossione coattiva. È stato frequente l’utilizzo di poteri parasanzionatori, come il fermo della circolazione dei veicoli (“ganasce fiscali”) e l’iscrizione di ipoteche su immobili, in caso di mancato pagamento. In tutti questi casi, in cui è aggredibile un patrimonio individuato, come immobili o autovetture, crediti verso amministrazioni pubbliche o banche, Equitalia è stata molto efficiente. Fino al punto di essere accusata di accanimento vessatorio, con campagne mediatiche, ed anche con riflessi terroristici contro gli uffici della società. È un riflesso del malessere collettivo dell’opinione pubblica in materia tributaria, dove non ci si rende conto che funzionari sostanzialmente pubblici non hanno motivo di essere vessatori, né convenienze personali ad accanirsi verso i debitori. Il problema, piuttosto, sono le solite rigidità e deresponsabilizzazioni, i meccanicismi procedurali, con difficoltà a valutare le singole situazioni di solvibilità fiscale e fragilità economica. Il timore “auto protettivo” di essere accusati di favoritismi o negligenze, così come ostacola la valutazione della ricchezza non registrata, riemerge verso la valutazione delle prospettive di solvibilità dei debitori, con la ritrosia verso l’inevitabile assunzione di responsabilità (parola terribile!) che essa comporta.Vi si aggiungono le già indicate difficoltà di coordinamento tra esattore ed enti impositori, che rendono frequente la riscossione di crediti già pagati, prescritti, etc, senza cattiva volontà, ma solo per sfasamenti nella gestione delle informazioni, dovuti al numero elevatissimo di pratiche; la serialità viene scambiata per vessatorietà, trasformando Equitalia in un capro espiatorio dei malesseri tributari diffusi. È una confusione di cui si avvantaggiano gli insolventi di professione, più accorti e previdenti, rischiando di vanificare gli ampi poteri di indagine, per la ricerca di beni da espropriare, concessi all’esattore. A quest’ultimo in buona sostanza sono concessi gli stessi poteri degli uffici tributari. Ad esempio è concesso di indagare nel sistema dell’anagrafe tributaria, e di esercitare altri poteri investigativi corrispondenti a quelli degli uffici. Sono stati aggiunti anche il potere di indagare sui conti bancari, e l’obbligo per gli enti pubblici debitori di imposta, prima di pagare forniture, di verificare che il beneficiario del pagamento non abbia debiti verso Equitalia. Andrebbe verificato con quale frequenza questi poteri sono efficacemente esercitati. Specie nei casi in cui il “debitore d’imposta” non è neppure ben identificato, in quanto si fa scudo di una girandola di società-schermo, con amministratori prestanome; il relativo organizzatore, come un “burattinaio”, emette fatture del tutto fittizie, oppure canalizza prestazioni economiche effettive, rese da fornitori terzi, senza versare IVA, contributi e ritenute, ma dando diritto a detrazioni o crediti per imposte mai versate. Non si tratta di una attività economica, ma di una attività interamente truffaldina, dove Equitalia ben potrebbe surrogarsi in via amministrativa nei crediti delle società schermo verso il relativo amministratore di fatto, per le somme da lui indebitamente sottratte, rendendo le società fiscalmente insolventi. Veniamo ora alla procedura di riscossione coattiva, dove si mescolano il diritto Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 189 amministrativo e il diritto civile. L’esattore (Equitalia) riceve elenchi formati dagli uffici tributari (c.d. “ruoli”) e notifica a ciascun contribuente ivi indicato una cartella di pagamento, cioè quella parte del ruolo che lo riguarda. Dopo la scadenza del termine per il pagamento del ruolo, l’esattore non ha bisogno di notificare alcun ulteriore atto di intimazione per procedere con l’esecuzione coattiva. Quest’ultima può addirittura iniziare anche senza iscrizione a ruolo, in presenza del c.d. “accertamento esecutivo” di cui diremo al prossimo paragrafo, e dove l’esecuzione coattiva non è preceduta dal ruolo.. La procedura esecutiva esattoriale ricalca quella civilistica, per pignorare beni del debitore e convertirli in denaro, vendendoli all’asta, soddisfacendo col ricavato il credito tributario nonché altri eventuali creditori (muniti di titolo esecutivo) intervenuti nella procedura. Queste operazioni, simili a quelle dell’esecuzione ordinaria, sono svolte però da ufficiali esattoriali sotto la vigilanza del giudice dell’esecuzione, cui sono demandate le contestazioni che possono sorgere, nelle fasi di pignoramento e vendita dei beni. Per tutti questi aspetti, se non direttamente disciplinati dalla norma fiscale, si fa riferimento alla parte del codice di procedura civile dedicata al «processo di esecuzione» (art. 49 del d.P.R. n. 602/1973). Gli accordi concernenti la determinazione della ricchezza ai fini tributari, indicati al par. 6.5, non sono estensibili alla diversa ipotesi in cui il contribuente sia sprovvisto delle risorse per pagare una imposta ormai già determinata. Sono ammissibili in questo caso piani di decurtazione e rateazione del debito tributario, denominati “transazione fiscale”, da svolgere secondo le procedure del diritto fallimentare, in genere sotto la sorveglianza del magistrato competente, e previa verifica dell’esistenza di altri creditori, che devono poter partecipare alle decisioni. Proprio la presenza di tali creditori “terzi”, induce qui a trattare l’amministrazione fiscale come un qualsiasi soggetto privato creditore, in modo da non ledere la “par condicio” dei creditori. L’inserimento di questi accordi col fisco nel quadro delle procedure concorsuali finisce però per escluderli per i contribuenti che non falliscono, come privati o enti non commerciali. Inoltre, spesso, quando Equitalia è l’unico creditore e non c’è problema di “par condicio” dei creditori, la necessità di avventurarsi nelle procedure fallimentari complica ulteriormente la riscossione dei crediti erariali. 6.12.La “sicurezza della riscossione” e la sua celerità in pendenza di ricorso Nella tradizionale tassazione valutativa, quando il gettito dipendeva direttamente dall’attività degli uffici (paragrafo 1.3), la celere riscossione delle imposte accertate era fondamentale. Oggi invece, come rilevato in tutto il volume (par. 5.7), le entrate conseguenti all’attività di controllo sono insignificanti rispetto al gettito “autoliquidato”, ed è più importante la “sicura riscossione” rispetto alla “pronta riscossione”. Ancora oggi, tuttavia, il ricorso del contribuente contro l’atto impositivo non ferma la riscossione, che procede in attesa della sentenza del giudice, con le 190 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui seguenti riduzioni per le somme dovute in base ad avvisi di accertamento. Le imposte risultanti da atti di accertamento impugnati devono essere infatti versate per un terzo in caso di ricorso, fino alla sentenza di primo grado, e salvo che il giudice accordi la sospensione cautelare di cui diremo. La somma da pagare viene poi conguagliata rispetto alle sentenze “di merito” del giudice, ancorché impugnate, con successivi ricalcoli man mano che il giudizio procede (art. 68, d.lgs. n. 546/1992). Le sanzioni connesse a tali imposte sono riscosse dopo la sentenza di primo grado, nello stesso ammontare previsto per la riscossione del tributo. Il ricorso contro il ruolo, primo atto impositivo per le somme dichiarate e non versate, oppure dovute a seguito dei controlli formali della dichiarazione, indicati al par. 5.5, non comporta alcuna sospensione automatica della riscossione, neppure parziale; chi vuole sospendere il pagamento in attesa della sentenza deve richiederlo in via amministrativa o giurisdizionale, come diremo subito per l’“accertamento esecutivo”. Tradizionalmente, per la riscossione provvisoria occorreva un’iscrizione a ruolo, che si aggiungeva al precedente atto di accertamento, con una inutile duplicazione, eliminata a partire dal 2012, col c.d. accertamento “esecutivo”. In base a quest’ultimo il contribuente deve pagare di propria iniziativa, o chiedere al giudice la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, altrimenti scatterà, senza bisogno di ulteriori intimazioni, la riscossione coattiva da parte di Equitalia. I suddetti pagamenti provvisori, in pendenza di ricorso, espongono il contribuente alla anticipazione finanziaria, spesso gravosa, di somme che al termine del processo potrebbero dovergli essere restituite. È il già indicato “solve et repete”, eredità della tassazione attraverso gli uffici, quando il gettito affluiva in questo modo; il criterio è però del tutto ingiustificato nella tassazione attraverso le aziende e nell’autotassazione. In questi contesti, piuttosto, è importante la “certezza della riscossione”, alla fine del processo, in modo da riscuotere l’imposta effettivamente dovuta. Invece di affannarsi per riscuotere una quota del tributo prima che la sua procedura di determinazione si esaurisca, ci si dovrebbe assicurare di riscuotere in prospettiva il dovuto. A questo punto si potrebbe tranquillamente differire l’incasso al termine dell’iter contenzioso. L’anticipazione della riscossione è, invece, del tutto inutile, uno dei tanti relitti del passato che si trascinano per forza d’inerzia. Ingenti risorse, soprattutto umane, che potrebbero dedicarsi alla ricerca della ricchezza non registrata, si logorano invece nel “vai e vieni” di riscossioni e restituzioni provvisorie, nonché nelle “sospensioni” (amministrative e giurisdizionali) di cui diremo subito. Un primo rimedio, già anticipato, contro la riscossione provvisoria in pendenza di ricorso, è la possibilità delle commissioni tributarie provinciali di sospendere la riscossione prima di decidere la causa (art. 47 del decreto sul contenzioso tributario); a tal fine le commissioni devono valutare il pericolo di danno «grave ed irreparabile» (c.d. periculum in mora), ivi compreso il danno economico, quando l’anticipazione sottragga le risorse necessarie al proseguimento dell’attività produttiva e magari esponga al rischio di fallimento, o di dover svendere beni per un prezzo irrisorio. Questi rischi vanno Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 191 valutati alla luce delle probabilità d’accoglimento del ricorso (il c.d. fumus boni iuris), con la possibilità di subordinare la sospensione a idonea garanzia, in un giudizio discrezionale in senso proprio (par. 5.10), in quanto vengono contemperati interessi diversi (non è una eccezione, ma una soluzione tipica per tutte le decisioni cautelari). La sospensione suddetta opera fino alla sentenza di primo grado, ma si stanno aprendo spiragli ad una sospensione dell’atto impugnato anche da parte del giudice di appello, dopo che quello di primo grado ha respinto il ricorso del contribuente. Ci sono margini persino per la sospensione dopo la sentenza di appello, quando il processo pende in cassazione. Non mi dilungo su tecnicismi di rinvio al codice di procedura civile, sulle richieste di cauzione e sulle argomentazioni con cui il diritto vivente riflette sul tema. Le istituzioni giurisdizionali sembrano però rendersi conto di quanto rilevavamo sopra, cioè che, nella tassazione attraverso le aziende, le imposte riscosse coattivamente in pendenza di ricorso sono irrilevanti rispetto alla stabilità e continuità del gettito erariale, ormai proveniente da altre fonti. È quindi logico concedere al giudice, abilitato ad annullare l’atto, anche il potere di sospenderne l’esecuzione; per il fisco, insomma, come sopra rilevato, è più importante la riscossione “sicura”, al termine del contenzioso, che la riscossione “celere”, mentre il contenzioso è in atto. Ovviamente, a questa sospensione giurisdizionale, si affiancano sempre, vista la matrice amministrativistica della nostra materia, le possibilità di sospensione amministrativa, per motivi eccezionali, cui fa riferimento l’art. 19 del decreto n. 602, e di rateazione, prevista sia per somme definitivamente dovute, sia per somme ancora in contestazione, ma per le quali la sospensione sia stata negata. La riscossione provvisoria, così come sopra descritta, è un ramo secco sul piano logico, rispetto alle già indicate esigenze di riscossione sicura, dove il vero “periculum in mora” ripetiamo è che il fisco non abbia più beni su cui soddisfarsi al termine del contenzioso. A questo del resto mira l’anticipazione della riscossione mediante il c.d. “ruolo straordinario”, che consente al fisco di mettere in riscossione l’intero importo per la cui esazione, in prospettiva, sussista il suddetto “fondato pericolo”. Quest’ultimo va inteso come rischio che il contribuente approfitti dei tempi tecnici del processo per nascondere i beni su cui il fisco, una volta vittorioso, potrebbe soddisfarsi. Evitato questo rischio, non c’è motivo per anticipare la riscossione rispetto alla definizione della controversia, esattamente come accade per il contribuente che agisce in un processo di rimborso. 6.13.Impossibilità di rimpiazzare con inasprimenti sanzionatori l’insufficienza dei controlli 1) le sanzioni amministrative Nella fiscalità preindustriale, le sanzioni punitive, anche molto gravi (di solito criminali) si dirigevano prevalentemente a resistenze attive ai funzionari del fisco, oppure tentativi di frode, ad esempio attraverso il contrabbando (vero e proprio reato a fronte del quale, secoli or sono, venne creata negli stati Sabaudi la Guardia di Finanza). Oggi, finché sono le aziende a determinare contabilmente la ricchezza, 192 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui non servono sanzioni perché le aziende, secondo un filo conduttore del testo, non hanno bisogno di nascondere ricchezza al fisco, incorrendo tutt’al più nell’evasione interpretativa di cui ai parr.3.10 ss..Le sanzioni servono nell’autotassazione dove le aziende non arrivano, e sono in ballo individui, con bisogni personali. Se mancassero sanzioni, cioè se il fisco recuperasse, in sede di controllo, solo l’imposta e gli interessi, gli individui tenderebbero a restare inerti, sperando di non ricevere alcuna richiesta degli uffici. Tuttavia, anche nell’“autotassazione”, le sanzioni non possono controbilanciare l’insufficienza degli interventi valutativi degli uffici nella richiesta delle imposte, ed il carente controllo del territorio (paragrafo 3.14-5.13). Dopo quanto indicato sulle cause della mancata registrazione della ricchezza ai fini tributari sono chiare tanto l’importanza delle sanzioni quanto l’inutilità di inasprimenti sanzionatori come surrogato della richiesta delle imposte dove le aziende non arrivano. Puntare troppo sulle sanzioni creerebbe un sistema irrazionale, in cui tutti evadono, in modo diversamente grave, ma la pena non dipende dall’insidiosità del comportamento, bensì dalla casualità di essere individuati. Si creerebbe un sistema kafkiano, in cui tutto è sanzionato, ma è punito solo qualche malcapitato, senza che gli altri modifichino il loro comportamento. Un’idea dove gli uffici non si vedono mai, e passano a caso dopo anni, controbilanciando la loro assenza con sanzioni feroci su pochi malcapitati è una delle sindromi demenziali dell’idea di onnipotenza legislativa. Che trasforma i contribuenti sanzionati in vittime casuali, screditando l’azione amministrativa, degradata in una specie di lotteria, dove la punizione perde autorevolezza, non dipendendo più dalla gravità oggettiva del fatto, ma dalla casualità del suo accertamento. Su queste premesse la sanzione diventa rapidamente odiosa e controproducente perché la punizione arriva non preceduta da una richiesta, o peggio ancora preceduta da una richiesta velleitaria, effettuata con la gazzetta ufficiale, come grida di manzoniana memoria. Il vecchio motto, “colpirne uno per educarne cento”, poteva forse andar bene per fantomatici nemici del proletariato, ma non per il rapporto tributario degli operatori economici di un paese moderno. Sostituire la sistematicità dell’azione amministrativa con una ferocia rara e casuale è addirittura controproducente, ostacolando lo strumento sanzionatorio anche nei (rari) casi di particolare gravità, in cui potrebbe essere effettivamente utile. La sanzione va invece inserita in un circolo virtuoso in cui l’ufficio tributario “si fa vedere”, il potere appare “effettivo”, diligente, presidia il territorio, si guadagna credito con la autorevolezza della propria azione, sa individuare i comportamenti insidiosi e finalmente sanzionarli come meritano. Su questo sfondo di efficienza, le devianze gravi possono essere punite con durezza, come avviene negli Stati Uniti, dove la sanzione penale è l’estrema reazione di un sistema di determinazione tributaristica della ricchezza ben funzionante. L’attento monitoraggio amministrativo, complementare alla tassazione attraverso le aziende, indicato al par. 5.7, consente di individuare i comportamenti più spregiudicati e sanzionarli come meritano. Se invece si sanziona chi capita, si ottiene l’effetto contrario, delegittimando l’amministrazione. Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 193 Nella nostra materia, finalizzata alla determinazione della ricchezza, quest’ultima indirettamente indica anche la misura massima della sanzione; il limite tendenziale è quello secondo cui imposte e sanzioni devono trovare spazio nella ricchezza tributariamente non registrata; oltre questo limite si perde il contatto con la ricchezza non registrata e si aggrediscono altre forme di ricchezza del contribuente, che tra l’altro potrebbero mancare. Questo vincolo si attenua per tributi economicamente poco significativi, dove il resto del patrimonio del contribuente è comunque di norma “capiente”, o dove occorre reprimere evasioni altamente insidiose. Per chi registra due volte una fattura, per chi interpone una propria società fittizia avrebbe senso una sanzione anche più elevata della ricchezza non registrata, proprio perché quest’ultima si dimostra adeguatamente capiente ed il comportamento non è puramente omissivo, ma più insidioso. La matrice amministrativistica del diritto tributario si ritrova nell’irrogazione delle sanzioni con atti autoritativi suscettibili di diventare definitivi se non impugnati, come quelli di applicazione del tributo (par. 6.1). Anche per il diritto tributario valgono le regole garantistiche secondo cui le sanzioni devono essere in astratto previste dalla legge, nel rispetto sia della riserva di legge di cui all’art. 23 (par. 2.1) sia di quella in materia di punizioni (art. 25 della costituzione). La particolarità delle sanzioni amministrative tributarie è la proporzionalità rispetto al tributo non dichiarato o non versato, di solito prevista tra un minimo e un massimo, in percentuale, del tributo medesimo. Per le imposte sui redditi e l’IVA l’ordine di grandezza tipico delle sanzioni è da una a due volte l’imposta, ed è riducibile in base agli strumenti “adesivi” (di contenzioso amministrativo) indicati ai precedenti paragrafi 6.4-6.5 (acquiescenza, accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, etc.). Si tende in questo modo ad adeguarsi al vantaggio economico connesso all’illecito; è un obiettivo non perseguibile in altre tipologie di violazioni amministrative. Massimi e minimi prestabiliti, in cifra assoluta e non percentuali, sussistono invece per le violazioni di obblighi formali, indipendenti da una evasione (dall’omessa effettuazione di una comunicazione, all’omessa risposta alle richieste di informazioni del fisco, etc.). Entro i suddetti limiti, assoluti o percentuali al tributo, l’ufficio finanziario dovrebbe determinare la pena da infliggere nel caso concreto, valutando alcuni parametri come la gravità della violazione, la personalità del reo, le violazioni commesse in anni precedenti etc.; è comunque possibile il sindacato giurisdizionale su applicazioni della pena in misura eccessiva rispetto alle circostanze del caso specifico, secondo i classici criteri del controllo giurisdizionale di anomalie, irragionevolezze e altre patologie dell’azione amministrativa. La suddetta determinazione personalizzata della sanzione si scontra con la solita ritrosia degli uffici tributari verso le valutazioni dei casi concreti, e con la loro preferenza per gli automatismi legalistici. Al di là delle stereotipe formule legislative sulla determinazione delle sanzioni tra massimi e minimi, c’è quindi un notevole meccanicismo, con le rigidità di cui diremo subito. 194 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui L’applicazione concreta delle sanzioni tende a non distinguere tra “maggiore imposta accertata” per ricchezza non registrata ovvero contestazioni interpretative; si rischiano quindi deficit punitivi nel primo caso, ed eccessi nel secondo. L’applicazione di sanzioni a fronte di maggiori imposte accertate su questioni di diritto (cioè su ricchezza registrata o comunque palese) è escludibile, per simili questioni interpretative, quando la loro applicazione al caso in esame è obiettivamente incerta (questo principio di ragionevolezza è oggi contenuto nell’art. 6 comma 2 decreto 4721997). Una chiave di lettura sistematica è la distinzione tra sanzioni per omesso versamento di imposte determinate correttamente o con errori formali, facilmente rilevabili, ed imposte determinate in modo insufficiente, vuoi per ricchezza non registrata o per erroneo inquadramento giuridico di ricchezza registrata (contestazioni interpretative, par. 3.10). La prima tipologia di sanzioni è meno grave, sanzionata con la pena pecuniaria del 30 percento dell’imposta non versata, come indicato al par. 3.6 (art. 13 del d.lgs. n. 472/1997). In generale, quando si tratta di sanzioni collegate al tributo, cioè comminate per l’infedele autodeterminazione da parte del contribuente, la loro irrogazione avviene con lo stesso atto impositivo con cui viene richiesto il tributo, e quindi un avviso di accertamento o un’iscrizione a ruolo (art. 17, D.lgs. n. 472); tale atto deve essere motivato a pena di nullità, anche in relazione ai criteri di individuazione della violazione e di determinazione della sanzione. Quando si tratta di sanzioni non collegate al tributo gli uffici devono notificare uno specifico atto motivato di contestazione della violazione, che indichi i fatti attribuiti al trasgressore, gli elementi probatori, le norme applicate e i criteri seguiti dall’ufficio per determinare la sanzione (art. 16 del d.lgs. n. 472/1997). Il destinatario può estinguere la violazione pagando un quarto della sanzione inflitta, ovvero presentare deduzioni difensive su cui l’ufficio, se intende insistere, deve motivare un successivo atto di irrogazione di sanzioni. In assenza di definizione o deduzioni all’ufficio, l’atto di contestazione si considera automaticamente atto di irrogazione di sanzioni, impugnabile di fronte alle commissioni tributarie (segnaliamo la particolarità di un atto amministrativo mutevole, a seconda delle reazioni del destinatario, ma non si tratta certo di un aspetto strutturale della tassazione). Su questo scenario si inseriscono le riduzioni delle sanzioni per acquiescenza agli atti impositivi: può trattarsi dei verbali di constatazione (par. 5.6) con riduzione a un sesto del minimo, delle richieste dell’ufficio precedute da verbale o dell’accertamento con adesione (con riduzione inizialmente a un quarto del minimo, poi a una percentuale superiore), fino alla conciliazione giudiziale (procedure trattate al par. 6.4). Qualora l’imposta dovuta sia calcolata in modo corretto, o addirittura sia sottostimata rispetto all’evasione effettiva, queste indiscriminate riduzioni possono rendere conveniente, considerata la scarsa probabilità di accertamento, un qualche maggior rischio fiscale. D’altra parte, tali riduzioni possono essere insufficienti per le contestazioni “interpretative”, o dove manca un sostanziale danno erariale; le economie amministrative connesse alla acquiescenza non dovrebbero rendere conveniente l’occultamento degli imponibili, Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 195 confidando comunque sulla bassa probabilità di accertamento. Rinviamo invece al par. 3.6 sulla riduzione delle sanzioni in caso di c.d “ravvedimento” unilaterale del contribuente, prima dei controlli (e quindi prima dell’esercizio del potere amministrativo). Le società o enti con personalità giuridica rispondono in proprio delle violazioni amministrative tributarie, senza coinvolgimento dei rappresentanti, che invece possono essere chiamati a risponderne per le società personali e gli enti senza personalità giuridica; anche chi coopera in violazioni commesse da altri, essendone stato ad esempio l’istigatore, il consigliere o il partecipe, può essere chiamato a risponderne a titolo di concorso, ivi compreso il professionista (art. 9 del decreto n. 472/1997). Una differenza tra sanzioni «risarcitorie» e «punitive» riguarda la non trasmissibilità agli eredi delle seconde, sancita anche dall’art. 8 del decreto n. 472/1997. Quando un unico comportamento, anche ripetuto nel tempo, dia luogo a più violazioni, viene attenuato il cumulo materiale delle sanzioni, per evitare che una violazione lieve, ripetuta tante volte, sia punita più severamente di violazioni molto più gravi. Si passa quindi dal cumulo materiale al “cumulo giuridico”, con una sanzione unica basata su un aumento della sanzione per la violazione più grave (art. 12 comma 1 d.lgs. 472); tale principio si applica anche quando il fatto riguarda tributi diversi, ipotesi frequente per omessa dichiarazione di corrispettivi ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, anche per più periodi di imposta. 6.14.Segue: 2 Il confuso palliativo penaltributario tra mancata registrazione della ricchezza e contestazioni interpretative La matrice amministrativistica della tassazione, filo conduttore del testo, trova le sue conferme anche in materia penale-tributaria. La repressione penale di gravi devianze economico-finanziarie appartiene alla tradizione, già dai tempi dell’ostruzionismo violento (sedizione fiscale), del contrabbando, del conio di monete false, per cui era in genere prevista, fino alla rivoluzione francese, persino la pena di morte. In materia tributaria, però, per molti secoli, vista la struttura della tassazione (paragrafo 1.2), basata sull’iniziativa dei pubblici uffici, non c’era bisogno di punire, ma era sufficiente “chiedere” e se del caso “prendere”, salvo punire intensamente devianze palesi, come la già citata resistenza ai funzionari del fisco. L’importanza delle sanzioni, nella tassazione attraverso le aziende e nell’autotassazione, crea spazi anche per la repressione penale; già le ordinarie sanzioni penali, in materia di falso e di truffa, potrebbero essere usate per reprimere molti comportamenti di forte insidiosità, soprattutto quelli descritti al par. 3.7 per la ricchezza non registrata dagli imprenditori attraverso le aziende. Sulla ricchezza nascosta al fisco dai titolari di aziende, scavalcando le relative procedure amministrative nei modi indicati al par. 3.7 ci sarebbero i presupposti per applicare reati comuni come falso (a seconda dei casi materiale o ideologico), oppure truffa ai danni dello stato; anche senza applicare meccanicamente queste disposizioni, sarebbe facile mantenerle come cornice, personalizzandole poi al contesto amministrativistico della tassazione. 196 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui Per la ricchezza che invece sfugge alla determinazione contabile attraverso le aziende, principalmente da parte di lavoratori indipendenti, non ci sono procedure amministrative “scavalcate” per nascondere ricchezza al fisco, e quindi hanno più senso reati tributari specifici, per comportamenti sostanzialmente “omissivi”, cioè incassare soldi non registrati fiscalmente. In entrambi i casi comunque vale, a maggior ragione, quanto rilevato al paragrafo precedente per le sanzioni amministrative, cioè l’impossibilità della punizione di sostituire, a pena di crisi di rigetto, un intervento adeguatamente sistematico degli uffici tributari. Insomma, anche la punizione penale, in certi casi aiuta, ma non sostituisce un intervento adeguatamente sistematico degli uffici. I disorientamenti e le schizofrenie sociali di cui al capitolo quarto hanno dato luogo ad apparati sanzionatori penal-tributari insoddisfacenti e quindi instabili nel tempo. Mettiamo però qualche punto fermo, secondo cui l’esistenza di disposizioni penali tributarie ha ostacolato l’applicazione dei reati comuni anche per quei tributi cui le sanzioni penali tributarie erano inapplicabili. Il diritto penale tributario è infatti riferito esclusivamente alle imposte sui redditi e all’IVA, dove si inserisce buona parte della tassazione attraverso le aziende. Sanzioni specifiche tradizionali restano da sempre per i reati di contrabbando in materia doganale (par. 10.6 ss.). Le violazioni in materia di imposte dirette e di IVA sono contenute nel d.lgs. n. 74/2000, che prevede oggi esclusivamente delitti punibili a titolo di dolo specifico, cioè al fine di evadere determinate imposte. C’è una rilevanza dei documenti fittizi, emessi o ricevuti, che spesso sono prodromici alla “dichiarazione infedele”. Quest’ultima è punita, indipendentemente dall’importo evaso, quando si basa su documenti alterati o fittizi (art. 2), ed oltre soglie di ammontare relativamente modesto quando si basa su artifici diversi dal documento fittizio (art. 3), mentre è punita oltre soglie di ammontare elevato nelle altre ipotesi (art. 4). È inutile dilungarsi sui dettagli di una disciplina penal tributaria che, in assenza di spiegazioni generali della tassazione attraverso le aziende, presenterà sempre squilibri, cioè eccessi e deficit punitivi. La normativa attuale è meno consapevole, rispetto alla precedente (in vigore dal 1982 al 2000) della distinzione tra “mancata registrazione della ricchezza” ed “evasione interpretativa” (par. 3.9 e 3.10). Fino al 2000, per una serie di circostanze fortunate, il riferimento penale era alla mancata registrazione di ricchezza nelle scritture contabili, definito erroneamente come comportamento “prodromico”, come se ci fosse qualcuno che prima non registra gli incassi e poi, come Saulo sulla via di Damasco, “si pente” e li inserisce in dichiarazione. La riforma del 2000 intendeva dirigersi a fattispecie più “serie” identificate con la falsità dei documenti e la quantità di imposta “evasa”, ma le sue intenzioni si sono realizzate in modo formalistico, vista la mancanza di familiarità con la tassazione attraverso le aziende. Facendo riferimento alla “maggiore imposta dovuta” spesso infatti si criminalizzano situazioni irrilevanti o innocue (evasione interpretativa), senza incidere su quelle più insidiose. La mancanza di soglie di punibilità sulle contraffazioni o alterazioni di documenti porta alla teorica punizione di violazioni assolutamente trascurabili, ad esempio sulle Capitolo 6 – SEGUE IL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO... 197 carte carburanti, le ricevute taxi o le note spese dei dipendenti. Si è dimenticato che le fatture sono documenti aziendali (par. 3.5) che in assenza di organizzazione è facilissimo manipolare, e che la vera garanzia per il fisco è la rigidità delle strutture amministrative. Le soglie comunque elevate di punibilità per le omissioni comportano invece la mancata punizione anche di chi emette fatture per decine di migliaia di euro e poi “dimentica” di registrarle, confidando nella loro difficile individuazione in sede di controllo. Gli equivoci maggiori sono però legati alla mancata distinzione tra “maggiore imposta accertata” e “ricchezza non registrata”, tra occultamento di imponibile ed “evasione interpretativa”. Il reato di infedele dichiarazione accomuna la ricchezza nascosta al regime giuridico di quella dichiarata, come detto al paragrafo 3.9, finendo per contribuire a inutili drammatizzazioni e tensioni proprio sulle aziende (par. 5.19); le situazioni penalmente rilevanti sono quindi potenzialmente addirittura aumentate per la grande impresa, con intromissioni in sofisticate questioni di fiscalità specialistica sul regime giuridico di vicende comunque rappresentate nei documenti, nei conti, nei bilanci e nelle dichiarazioni. Solo la necessità del dolo specifico mette al riparo da sanzioni penali chi abbia fatto affidamento su soluzioni giuridico interpretative dotate di una certa fondatezza; l’esito dipende però dalla sensibilità e disponibilità del giudice penale, tipico uomo di legge, ad avventurarsi sul diritto tributario sostanziale della tassazione attraverso le aziende. L’adozione consapevole, in base a riflessioni e studi, di un regime fiscale poi contestato dall’Ufficio, è però diversa dal “fine di evadere le imposte”; il fine era infatti solo quello di qualificare la ricchezza nel modo al tempo stesso più corretto e fiscalmente conveniente. Ignorando questo punto di vista, spesso attoniti amministratori delegati di società multinazionali si sono trovati sotto inchiesta penale per questioni di puro diritto, di cui era stata loro assicurata la totale legittimità dai più stimati professionisti e studiosi. Comunque i procuratori della repubblica, in genere persone di buonsenso, prive di condizionamenti gerarchici (e quindi in grado di decidere e assumersi le proprie responsabilità), sanno gestire le situazioni, valorizzando nell’insieme le differenze tra evasione interpretativa e ricchezza non registrata. L’impatto negativo sulle aziende di queste estemporanee contestazioni, dove nulla è stato nascosto, contribuisce notevolmente alla fuga delle aziende dall’Italia, come indicato al par. 5.19. Persino sulla ricchezza non registrata, del testo, l’interesse generale è avere le imposte pagate e le fabbriche aperte, non imprenditori in carcere e fabbriche chiuse. Il rapporto penale alla Procura della Repubblica è comunque un inevitabile strascico, una volta superate le soglie di punibilità, dei rilievi fiscali sul regime giuridico del dichiarato, indicati al par. 3.10. Si tratta infatti, come noto, di reati perseguibili d’ufficio, e non a querela, come è abbastanza ovvio nel nostro sistema. A proposito dell’evasione da riscossione (paragrafo 6.11) il decreto legislativo 74 puniva originariamente solo chi “occultava” il patrimonio per sottrarlo all’esecuzione forzata; veniva irragionevolmente sottratto alle sanzioni penali chi fin dall’origine, attraverso aziende prive di consistenza patrimoniale, svolgeva prestazioni reali tramite le strutture di terzi, addebitava IVA, ritenute e contributi senza avere l’intenzione di ver- 198 Parte prima – Determinazione tributaristica della ricchezza tra istituzioni, aziende e individui sarle. Le norme correttive introdotte successivamente hanno però inconsapevolmente criminalizzato tutti i tardivi versamenti, compresi quelli svolti da aziende con sostanza economica, in semplice difficoltà finanziaria, e senza alcuna intenzione di rendersi nullatenenti. Sono nati quindi orientamenti giurisprudenziali tesi a distinguere, in modo abbastanza confusionario, queste due ipotesi, escludendo le sanzioni penali per chi vuole solo “finanziarsi a carico dello stato” (par. 6.12) senza rendersi definitivamente inadempiente. Infatti, di principio, la sanzione penale è autonoma rispetto ad istituti tributari, come accertamento con adesione o conciliazione giudiziale (par. 6.4), per cui è previsto solo un dimezzamento di pena e non la sua totale eliminazione. La disciplina penaltributaria sopra descritta segue ovviamente i criteri generali del diritto penale, quanto a identificazione del reato in base alla pena, alla dialettica tra pubblico ministero e giudice, all’irretroattività ed all’applicazione della legge successiva più favorevole al reo, al concorso di reati ed alla punibilità del rappresentante delle persone giuridiche, al rapporto tra giudicato penale e processo tributario; in quest’ultima sede non c’è alcuna automatica valenza di prova legale di quanto accertato in sede penale, che comunque il giudice può tenere in considerazione nella formazione del proprio convincimento. Il sistema penaltributario non può che risentire di tutti gli inconvenienti di quello tributario, e della mancata sistematizzazione della tassazione attraverso le aziende. Le sdrammatizzazioni dottrinali di cui al par. 4.7 sono un presupposto per rasserenare anche il diritto penale tributario. Che attualmente sembra una preoccupazione soprattutto per le contestazioni interpretative di chi dichiara e viene accusato di aver dichiarato male, lasciando indifferente la ricchezza non registrata affatto. Forse, per una vera “lotta all’evasione” bisognerebbe abolire le disposizioni sulle “manette agli evasori”, anch’esse frutto avvelenato dell’illusoria onnipotenza legislativa descritta al par. 2.4, integrando invece le disposizioni penali generali in modo da colpire anche comportamenti fraudolenti posti in essere a fini tributari. PARTE SECONDA IL REGIME DELLA RICCHEZZA REGISTRATA Capitolo 7 I REDDITI E I CONSUMI DETERMINATI UNITARIAMENTE ATTRAVERSO LE AZIENDE Sommario: 7.1. La determinazione unitaria dei consumi e dei redditi nella tassazione attraverso le aziende: Iva e imposte dirette – 7.2. Imposte sui consumi: dalla visibilità materiale delle merci a quella contabile del “valore aggiunto” (l’IVA) – 7.3. Segue: le tecniche per raggiungere il consumo tra detrazione e “non imponibilità” – 7.4. L’IVA nei rapporti internazionali e intracomunitari – 7.5. Il concetto di “impresa fiscale”, tra aziende, “lavoratori indipendenti” ed enti “no profit” – 7.6. Operazioni attive “tipiche” (“cessioni di beni” e “prestazioni di servizi”) tra “volume d’affari” (o di ricavi) e “valore aggiunto” – 7.7. Supporti documentali delle operazioni attive, dei costi e dei consumi (registrazioni, fatture, scontrini, note di credito) – 7.8. Segue: dai documenti ai libri contabili (richiami e integrazioni rispetto ai paragrafi 3.3-3.4) – 7.9. L’inerenza nelle imposte sui redditi e nell’IVA: 1) la distinzione tra costi e consumi – 7.10. Segue: 2) Inerenza e operazioni attive non soggette a tributo – deduzione interessi passivi – 7.11. Principali elementi rilevanti ai fini della dell’IVA e principio di onnicomprensività delle imposte sui redditi – 7.12. Il momento impositivo nella tassazione attraverso le aziende (cassa, competenza, irrilevanza delle mere valutazioni: rinvio alle operazioni straordinarie) – 7.13. Il valore fiscalmente riconosciuto e l’esposizione in bilancio dei beni di impresa, tra criteri patrimoniali e reddituali – 7.14. Valutazioni fiscali di fine esercizio e rapporti col bilancio – 7.15. Le valutazioni del patrimonio di fine esercizio 1) ammortamenti e accantonamenti – 7.16. Le valutazioni di fine esercizio: 2) rimanenze di beni e servizi – 7.17. Coordinamento tra tassazione delle società e dei soci – 7.18. I criteri di collegamento della ricchezza al territorio nazionale – 7.19. Segue: simmetrie fiscali e rapporti internazionali, concorrenza fiscale dannosa, transfer price, cfr. – 7.20. Realizzo e neutralità nelle operazioni straordinarie d’impresa – 7.21. Determinazione tributaristica della ricchezza e procedure concorsuali 7.1. La determinazione unitaria dei consumi e dei redditi nella tassazione attraverso le aziende: Iva e imposte dirette La determinazione contabile della ricchezza attraverso le aziende, riguarda in modo coordinato i redditi e i consumi. Ricordiamo infatti che l’insieme degli operatori economici (aziende comprese) tolti i passaggi intermedi tra loro (c.d. “business to business”), percepiscono consumi ed erogano redditi, nel circuito unitario indicato varie volte, tra cui al par. 1.8. Il ricavo del fornitore al consumo finale costituisce sia il parametro per tassare il consumo dei clienti, sia punto di partenza per determinare i redditi del fornitore. Se invece il cliente agisce come operatore economico, abbiamo un passaggio intermedio e anziché il consumo del cliente finale 202 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata abbiamo il costo di un altro operatore commerciale, secondo il solito filo conduttore del testo, di cui già al par. 1.8. Mentre le distinzioni economicistiche tra “reddito” e “consumo”, inducono la manualistica tradizionale a trattare separatamente IVA e imposte sui redditi, qui teniamo presente che sul piano della determinazione della ricchezza reddito del fornitore e consumo (o costo) del cliente sono, come indicato sopra, due facce della stessa medaglia, determinate secondo gli stessi criteri, siano essi, a seconda del tipo di operatore, contabili o valutativi. Pur disciplinate da testi normativi diversi, IVA e imposte dirette sono infatti parti di un unico sistema “analitico documentale” con cui le aziende, determinano contabilmente la ricchezza con lo stesso apparato di informazioni; ciò sia per la ricchezza reddituale sia per qualla manifestata dal consumo, secondo un filo conduttore del testo. La posizione tributaria di tutti gli operatori economici “non agricoli” è uguale per IVA e imposte sui redditi, ed analoghi si presentano criteri identificativi delle attività (par. 7.5), i presupposti oggettivi (cessioni di beni e prestazioni di servizi), come pure il volume dei ricavi (volume d’affari, par. 7.6), il momento impositivo (par. 7.12), l’inerenza (par. 7.9) e le scritture contabili (par. 7.7-7.8). È infatti inconcepibile che un corrispettivo sia registrato per le imposte sui redditi e nascosto per l’IVA, o viceversa. La ricchezza determinabile attraverso i cicli amministrativi delle aziende, lo è sia per l’Iva sia per le imposte sui redditi; lo stesso vale per la ricchezza determinabile in autotassazione e, in sede di controllo, con stime o presunzioni, dove parimenti troviamo reddito del fornitore e consumo (o costo) del cliente. Per questo, nei prossimi paragrafi, esamineremo in modo unitario, per imposte dirette ed IVA, le principali tematiche della “tassazione attraverso le aziende”, dal concetto di impresa, al momento impositivo, all’inerenza, alla territorialità. La differenza è che, partendo dalla stessa documentazione aziendale, i due tributi guardano la stessa ricchezza da due punti di vista diversi, cioè il ricavo per il fornitore, e il consumo (o il costo) per l’acquirente. Anche la gestione anagrafico-amministrativa dei contribuenti, da parte dell’autorità fiscale, è unica. Le attività fiscalmente di impresa e professionali sono infatti censite unitariamente ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi. L’archivio degli uffici tributari si alimenta con la comunicazione del contribuente di intraprendere una attività d’impresa o professionale. A seguito di questa comunicazione si riceve un numero di partita IVA, indispensabile per procedere alla fatturazione e adempiere altri obblighi formali. Questo inquadramento rileva unitariamente, ai fini dell’individuazione dell’ufficio tributario competente per territorio e per tipologia di contribuente, della classificazione in un “codice di attività economica”, anche ai fini degli studi di settore (par. 5.13). Benché la documentazione contabile cui fanno riferimento IVA e imposte sui redditi, sia la stessa, la loro diversità di oggetto economico (consumo rispetto a reddito) comporta qualche differenza nella procedura di determinazione. Il reddito è il concetto più semplice, rappresentato dalla differenza tra componenti positive (ricavi) e negative (costi) dell’attività economica. Il reddito di un operatore Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 203 economico è quindi incerto fino al termine dell’unità di tempo cui è riferito, in quanto consiste nella somma algebrica di elementi positivi e negativi, molti dei quali valutativi e convenzionali (paragrafi 7.14/7.16 su rimanenze, ammortamenti, etc.). Solo i redditi di chi non svolge attività di operatore economico, non avendo il riconoscimento dei costi, possono essere determinati in modo isolato, senza essere riferiti a un periodo di tempo. Vedremo che il consumo riguarda invece masse di operazioni che, una volta poste in essere, sono indifferenti rispetto alle vicende successive, coi riflessi sulle dichiarazioni fiscali, individuati al paragrafo 3.4 (differenza tra le dichiarazioni riepilogative IVA e quelle destinate alla determinazione della ricchezza ai fini delle imposte sui redditi). La determinazione della ricchezza in relazione al consumo è idealmente più semplice, salve le incertezze su come evitare le duplicazioni, eliminando la tassazione delle operazioni “intermedie”, avvenute cioè tra operatori economici, all’interno della filiera produttiva e distributiva, quindi “a monte” del consumo finale. Si tratta perciò di distinguere tra prestazioni ad altri operatori economici (business to business) ovvero al consumo (business to consumer). Dedicheremo i prossimi paragrafi (par. 7.27.4) alle tecniche utilizzabili a tal fine, per poi riprendere dal par. 7.5 in poi la trattazione unitaria della determinazione di redditi e consumi “attraverso le aziende”. 7.2. Imposte sui consumi: dalla visibilità materiale delle merci a quella contabile del “valore aggiunto” (l’IVA) Le tradizionali imposte sui consumi, trattate già al paragrafo 1.3 si basavano sulla visibilità materiale delle merci, colpendo le loro quantità fisiche, senza complessi calcoli sul loro valore o sui corrispettivi della loro vendita. Questa visibilità “materiale” della ricchezza, legata alla movimentazione delle merci, colpiva i consumi di servizi solo limitatamente alle merci consumate per effettuarli; ad esempio i consumi presso un falegname pagavano le imposte solo sul relativo legno, e quelli presso un oste solo sui relativi cibi e bevande. Questa tassazione a quantità neppure considerava il diverso valore di merci tipologicamente omogenee; inoltre questa tassazione “per natura” non riusciva a stare dietro alle diversità di beni indotte dalla produzione industriale. Ma soprattutto il riferimento della tassazione ai passaggi fisici di merci rischiava di provocare duplicazioni, colpendo anche alcuni passaggi di merci non destinate al consumo, ma alla produzione. Ad esempio la tassazione della farina acquistata dal fornaio finiva per cumularsi con quella del pane prodotto da quest’ultimo, la tassazione del legname destinato ai falegnami finiva per cumularsi con quella del mobilio prodotto da tali artigiani, etc... Più le merci “giravano” prima di arrivare al consumo finale, più cresceva l’imposizione sui consumi. Per questo, grazie alla diffusione delle aziende, fu gradualmente concepita una tassazione delle merci non più collegata alla loro visibilità fisica, ma alla documentazione contabile, e quindi, finalmente, ai corrispettivi contrattuali tra fornitore e 204 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata cliente. La tassazione attraverso le aziende arrivava così alle imposte sui consumi; in particolare, la tradizionale visibilità fisica delle merci poteva essere sostituita dalla visibilità contabile, che quindi tassava anche i consumi di servizi e poteva distinguere, grazie al diverso corrispettivo, i consumi popolari dai consumi più ricercati di tipologie di beni per altri versi omogenee (vestiario, cibo, mobili, etc.). Un primo esperimento di questa “tassazione ragionieristica dei consumi” fu l’imposta generale sull’entrata (IGE); era un’imposta riferita ai corrispettivi contrattuali e non più alle merci, colpendo quindi anche i servizi e diversificando la tassazione in base al diverso corrispettivo. L’inconveniente concettuale di questo tributo restava quello di colpire ogni stadio della produzione, dando luogo alla già indicata tassazione cumulativa, più gravosa quanto più fossero numerosi i passaggi di beni e servizi “a monte” del consumo. Le tecniche per evitare questi inconvenienti non potevano basarsi solo sulla distinzione tra operazioni al consumo ed operazioni verso altri operatori economici. Questa distinzione è talvolta praticabile perché la destinazione della prestazione è evidente dalle sue caratteristiche oggettive (ad esempio un’autobotte di nafta o un camion di lavatrici non si acquistano per consumi personali!). Altre volte però occorre utilizzare altre tecniche, e ci si è basati a tal fine sulla detrazione dall’imposta relativa agli acquisti degli “operatori economici” dall’imposta relativa alle loro vendite, in modo da tassare solo “i consumi finali” attraverso il “valore aggiunto”. Quest’ultimo è infatti parzialmente diverso dal reddito dell’operatore economico, riflettendo per certi versi l’insieme dei redditi che, attraverso la sua attività, sono erogati a chi vi prende parte, cioè anche lavoratori e finanziatori. Ricordiamo infatti dal paragrafo 1.4, ma anche da diversi altri, che le aziende acquisiscono consumi e restituiscono redditi, a loro volta suscettibili di essere spesi per consumi, in quanto economicamente si consuma sempre qualcosa che, per altri, è stato un reddito (chi consuma un reddito da lui non prodotto, comporta qualcuno che produce un reddito che non consuma, donando le corrispondenti risorse a chi materialmente le spende). Considerando oggettivamente l’attività economica, costituisce valore aggiunto quanto eccede la remunerazione di altri operatori economici (materie prime, energia, servizi di impresa, professionisti) ed è quindi disponibile per consumi dei dipendenti, dei finanziatori, dei titolari, o dello stato attraverso le imposte. Il valore aggiunto, in altri termini, esprime i flussi verso tutti quelli che traggono sostentamento diretto dall’attività economica, senza essere essi stessi operatori economici, cioè i lavoratori, i percettori di interessi o di rendite fondiarie. Per arrivare dal “valore aggiunto” (paragrafi 7.6, 9.5 sull’IRAP) al consumo bisogna solo eliminare le esportazioni, dove c’è produzione, ma non consumo, ed aggiungere le importazioni, dove c’è consumo senza produzione. L’insieme della ricchezza riferibile a lavoratori, risparmiatori, imprenditori, titolari di immobili, cioè alle persone fisiche e alle organizzazioni non economiche (enti pubblici) è astrattamente suscettibile di essere spesa per consumi e investimenti, cioè “consumata”. Sotto questo profilo l’IVA, universalmente e correttamente considerata sui consumi, è stata riferita anche “al valore aggiunto”, “sterilizzando” le sue applicazioni su Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 205 quelli che gli economisti chiamano consumi intermedi e noi giuristi chiamiamo semplicemente “costi”; questa denominazione è stata probabilmente scelta anche perché dava l’idea della già indicata “neutralità del tributo” rispetto agli scambi tra operatori economici, sterilizzati coi già indicati meccanismi della detrazione o della non imponibilità. Ribadiamo che la principale macroscopica differenza tra valore aggiunto di contabilità nazionale (cioè redditi) e insieme dei consumi riguarda le operazioni con l’estero, perché le esportazioni esprimono reddito, ma non consumo, mentre il contrario avviene per le importazioni. Da qui nasce la denominazione dell’IVA, che è una imposta sui consumi, come “imposta sul valore aggiunto”, al netto cioè dei “consumi intermedi”, maggiorata dei consumi di beni importati e senza considerare i beni esportati (infra par. 7.4). L’idea di “reddito individuale”, relativo a singoli operatori, segue uno schema logico molto intuitivo, schematizzato persino alle scuole elementari, dove il guadagno (“reddito”) è dato da “incassi meno spese”. Sottrarre le spese dagli incassi esprime la natura intrinsecamente differenziale del reddito derivante da attività produttive, in relazione alle quali è logicamente necessario considerare i costi di produzione, ad esempio le materie prime, l’energia, i costi pluriennali etc. (lo vedremo più avanti meglio al par. 7.9 a proposito dei costi inerenti). Definire “ad alto valore aggiunto” una attività economica vuol dire, in prima approssimazione che essa è “molto redditizia”, ponendosi però dal punto di vista dell’attività e non del titolare. Ad esempio un’azienda di pulizie, rispetto a un supermercato, è “ad alto valore aggiunto” perché richiede, a parità di giro d’affari, pochi costi per materie prime e merci. Su questo punto di partenza si innesta poi la redditività, che dipende da circostanze di mercato e dal grado di impegno –personale e patrimoniale – del titolare. A seconda che si impieghino capitali propri o di debito, una parte diversa del valore aggiunto sarà impiegato per pagare gli interessi passivi. Se si assume un direttore generale, il relativo stipendio assorbirà una quota di valore aggiunto che, altrimenti, sarebbe profitto. Se le mura dei locali sono di proprietà, la rendita fondiaria confluirà nel valore aggiunto. Precisato questo rapporto col valore aggiunto, rinviamo al par. 1.8 per le altre caratteristiche del reddito, l’inflazione monetaria, il rapporto col patrimonio, la sua natura etc... 7.3. Segue: le tecniche per raggiungere il consumo tra detrazione e “non imponibilità” L’obiettivo di tassare il consumo nei modi indicati al paragrafo precedente fu realizzato con l’IVA, istituita col decreto 633 del 1972 ”, ma ispirata a uno schema base analogo in tutti gli stati dell’Unione Europea. L’imposta fu infatti introdotta e modificata in base a direttive comunitarie, che costituiscono un ausilio per interpretare la norma nazionale, o anche per disapplicarla, quando contrasta con le suddette disposizioni (par. 2.6 sui condizionamenti comunitari alla potestà normativa tributaria). Su questo schema base comunitario, gli stati membri possono effettuare “variazioni sul tema” 206 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata per determinati settori, tipologie di operazioni, categorie di contribuenti (ad esempio quelli di piccole dimensioni) ed infine “forchette” di aliquote minime e massime. Gli organi comunitari hanno coordinato le due tecniche per neutralizzare i “passaggi intermedi”, già indicate sopra, che ritroveremo in settori diversi del tributo. La tecnica originaria, ancora molto diffusa e più agevole per le piccole operazioni, neutralizza l’applicazione dell’IVA tra operatori economici con la detrazione dell’imposta sugli acquisti da quella dovuta sulle vendite. La soluzione alternativa, più adatta alle grandi operazioni, rende fiscalmente irrilevanti i passaggi intermedi tra produttori; si tratta della c.d. “non imponibilità”, che cerca di individuare direttamente le prestazioni al consumo finale, esonerando da IVA quelle verso altri operatori economici c.d. “business to business”). Il fornitore addebita l’IVA al cliente, e la registra tra i propri debiti verso il fisco: se il cliente agisce come imprenditore o professionista, la paga e la registra tra i propri crediti verso il fisco. Gli imprenditori e i professionisti versano a scadenze periodiche (mensili, par. 3.4), per masse di operazioni, le suddette differenze tra IVA sulle operazioni attive e IVA sugli acquisti. Il cliente consumatore finale paga e basta, facendo giungere il tributo alla sua naturale destinazione del consumo. L’altro sistema per tassare solo il consumo è non applicare l’IVA a chi si qualifica, di fronte ai propri fornitori, come imprenditore e professionista; questo criterio evita la detrazione dell’imposta a monte, ma rende necessario un controllo delle suddette qualificazioni, e della destinazione dei beni; va tenuto presente, come anticipato in varie sedi e ribadito al paragrafo 7.7, che il fornitore non è in grado di indagare sulle generalità effettive del cliente, essendo interessato ad approfondire solo la solidità dei suoi mezzi di pagamento. Quest’ultimo meccanismo, definibile “non imponibilità” tra operatori economici, è affidabile solo per grandi forniture, le cui caratteristiche escludono che l’acquirente possa essere un consumatore finale che si dichiara imprenditore per evitare l’IVA. Questa tecnica si è diffusa prima di tutto dove la detrazione trova ostacoli perché fornitore e cliente risiedono in stati diversi, come vedremo al prossimo paragrafo sull’IVA tra paesi dell’Unione Europea, tra cui non esistono dogane. Successivamente, questa tecnica si è estesa in una serie di scambi interni, per ragioni antievasive contro il già indicato mancato versamento dell’IVA da parte del fornitore, cioè le c.d. “frodi carosello”. La detrazione dell’IVA è simile alla deduzione dei costi nelle imposte sui redditi, che però non sono tutti gravati da IVA: lo sono le materie prime, i servizi di impresa, le consulenze professionali, ma non lo sono le retribuzioni ai dipendenti, molte locazioni e in genere quanto spettante a altri privati non imprenditori (ad esempio i privati che vendono a commercianti beni usati). Il criterio della detrazione “imposta da imposta”, anziché della deduzione (“base da base”) è stato preferito anche perché gestiva facilmente la diversità di aliquote. L’imposta “passiva”, dovuta ai fornitori, viene detratta da quella “attiva”, addebitata ai clienti, con credito d’imposta per eventuali eccedenze. Anche qui ritornano i concetti indicati al par. 3.7 sul contribuente di diritto, cioè il fornitore, che intrattiene i rapporti col fisco. Il contribuente di fatto, il consumatore Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 207 finale, non ha rapporti con gli uffici fiscali, e sopporta (magari senza saperlo) il peso economico del tributo. Il fornitore si rivale sul cliente per l’importo dell’imposta (art. 18), e quindi nei rapporti economici, è a priori è noto che: 1) negli acquisti da dettaglianti il prezzo è comprensivo di IVA, come stabilisce l’art. 18 comma 2; 2) negli acquisti da altri soggetti-IVA il corrispettivo deve essere maggiorato dell’imposta. In base a queste previsioni, il cliente dovrà corrispondere l’IVA in aggiunta al corrispettivo pattuito, mentre il commerciante al minuto non ha alcun diritto di imporre maggiorazioni di prezzo a chi richiedesse la fattura (dovendo invece scorporare l’IVA dal prezzo esposto iva inclusa). L’aliquota generale, applicata al corrispettivo contrattuale nei modi indicati alla postilla precedente, è del 22 per cento, ma esistono aliquote ridotte speciali (4 e 10), previste, per categorie merceologiche estremamente dettagliate, nelle tabelle allegate al decreto IVA. Una volta chiarito il funzionamento dell’imposta, ricolleghiamoci a quanto detto al paragrafo precedente, ricordando che le organizzazioni produttive ricevono consumi e restituiscono redditi a chi, a sua volta, li usa per consumare. L’imposta sul valore aggiunto si chiama così perché economicamente guarda ai “redditi spendibili per consumi”, cioè che ritornano verso gli individui in veste di privati consumatori, in buona parte sotto forma di salari, profitti e interessi (cfr. par. 1.8, secondo cui –anche se non sono “sui redditi”, tutte le imposte si pagano “coi redditi”). Una sistematica posizione di credito IVA va però chiarita, in quanto le imprese dovrebbero creare almeno un po’ di valore aggiunto, sufficiente a remunerare una parte del lavoro dipendente e degli interessi passivi, importanti voci di costo non gravate da IVA. Anche una impresa redditualmente in perdita, per effetto degli interessi passivi e del lavoro dipendente, dovrebbe essere a debito di IVA; praticamente tutte le operazioni attive sono infatti “con IVA”, o rilevanti ai fini IVA (esportazioni e settoriali esenzioni, come operazioni finanziarie o spese mediche); non sono infatti gravati da IVA i costi per lavoro dipendente, gli interessi passivi e tutti quelli erogati a enti pubblici o a privati non operatori economici. Un pareggio di bilancio ai fini delle imposte sui redditi dovrebbe corrispondere comunque a un’IVA a debito. Una posizione di credito sistematica può derivare da esportazioni (vedi infra paragrafo 7.4) o dall’applicazione, sulle vendite, di aliquote agevolate, molto inferiori a quelle applicabili sugli acquisti. Una posizione di credito “occasionale” può derivare dall’effettuazione di investimenti, dove l’IVA viene detratta immediatamente, senza seguire l’eventuale ammortamento dei beni acquistati. A parte le spiegazioni suddette, il credito IVA potrebbe anche celare frodi o vendite non registrate, che rendono opportuna, nei casi concreti, una analisi di credibilità economica delle ragioni del fenomeno. 208 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata L’IVA viene liquidata “per masse”, non operazione per operazione, e quindi non esiste, da parte del fornitore, un versamento specifico dell’IVA detratta dal cliente, a sua volta “per masse”. Chi detrae non può quindi avere la certezza legale del versamento da parte del fornitore dell’IVA che gli è stata addebitata; quest’ultimo potrebbe infatti avere altre detrazioni su cui il cliente non può indagare. Ne deriva il rischio che l’IVA incassata dal fornitore non sia versata al fisco, senza responsabilità dell’acquirente, salva la prova di una sua connivenza col fornitore (c.d. frodi carosello, già più volte menzionate e rientranti nel concetto di arbitraggio fiscale in senso ampio, tratteggiato al paragrafo 3.12). Questa connivenza è presumibile quando l’acquisto avviene a un prezzo inferiore a quello corrente, nel qual caso l’unica spiegazione del comportamento del venditore è l’intenzione di intascare l’IVA; in questi casi scatta è, una responsabilità solidale del compratore per l’imposta non versata dal venditore (art. 60-bis decreto IVA). Contro le frodi in esame si potrebbe perseguire un maggiore utilizzo, anziché della detrazione, del già indicato sistema della “non imponibilità”, il cui inconveniente è però quello di non poter coinvolgere il fornitore, soprattutto per gli acquisti di piccolo importo, in una verifica delle dichiarazioni con cui l’acquirente, affermando di agire come operatore IVA, chiede che non gli venga applicata l’imposta. La combinazione tra i punti forti di entrambi i sistemi potrebbe basarsi per gli acquisti “al dettaglio” sulla detrazione, che garantisce l’applicazione dell’imposta da parte del fornitore e salvaguarda tutta l’imposta che è stata applicata fino a quel momento. La “non imponibilità” è opportuna solo dove l’ultimo stadio della catena distributiva verso il consumo finale è fiscalmente molto affidabile sulle vendite, e quindi i meccanismi fraudolenti per “eliminare l’IVA” passano necessariamente attraverso il mancato versamento del tributo “a monte” (le già indicate “frodi carosello” tendenti appunto a spezzare le simmetrie IVA). Quanto più il settore degli dettaglio è presidiato da grandi aziende rigide, tanto più è opportuno creare spazio per il sistema della “non imponibilità”; si eviterebbe così un balletto di “versamenti e detrazioni”, destinato a chiudersi fisiologicamente “a somma zero”, e fonte dei suddetti rischi di frode. 7.4. L’IVA nei rapporti internazionali e intracomunitari Il coordinamento tra i criteri di non imponibilità e di detrazione, descritti al paragrafo precedente, si pone in modo particolare nei rapporti internazionali, dove la detrazione è impraticabile, persino nei rapporti comunitari. Essa infatti richiederebbe una complicatissima stanza di compensazione tra tutti i paesi comunitari, che pure era stata progettata, ma è stata rinviata a tempo indeterminato per intuitive difficoltà gestionali; queste ultime sono connesse soprattutto alla detrazione dell’IVA, da parte del cliente, in un paese diverso da quello in cui il fornitore ha proceduto al versamento. Resta quindi il vecchio criterio della “imponibilità in dogana” per i beni in arrivo da paesi extracomunitari. L’applicazione dell’IVA in dogana riguarda sia i con- Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 209 sumatori finali sia gli operatori economici, per i quali tale importo è detraibile secondo le regole IVA degli acquisti domestici, e comprovata dai documenti doganali, non dalla fattura del fornitore. Anche i beni esportati verso paesi extracomunitari passano per la dogana, ed ovviamente non scontano alcun tributo in quanto l’IVA, come tutte le imposte sui consumi, segue l’elementare criterio di territorialità del paese del compratoreconsumatore finale. Pertanto, il regime di «non imponibilità» IVA delle esportazioni extra-unione europea, senza limiti alla detrazione dell’imposta sui correlativi acquisti, con eventuale rimborso delle eccedenze, discende dai principi generali, senza alcun carattere agevolativo. È del tutto normale, quindi, come già anticipato al precedente par. 7.3, che gli esportatori abbiano eccedenze dell’IVA sugli acquisti rispetto a quella sulle vendite, e siano in una posizione di credito. Per evitare i tempi burocratici richiesti per il rimborso dei crediti IVA è consentito acquistare beni e servizi «senza applicazione dell’imposta» fino a concorrenza delle esportazioni dirette dell’anno precedente (è un altro caso in cui l’applicazione dell’IVA riguarda un dato “di periodo”). Il rischio è che, non essendoci alcuna possibilità di trasformare il fornitore in investigatore sulla correttezza della posizione globale IVA del proprio cliente, vengano utilizzate partite IVA reali, ma “di comodo”, da parte di chi non è affatto esportatore, ma vuole semplicemente acquistare i beni senza IVA per rivenderli “in nero” sul mercato nazionale, in una delle frodi indicate al termine del precedente paragrafo 7.3. Scontano l’IVA anche i consumi effettuati in Italia da soggetti esteri (ad es. turisti), salva la dimostrazione del trasporto dei beni all’estero, in proprio, secondo una procedura che prevede la certificazione doganale dell’uscita del bene. I rapporti economici tra operatori di stati appartenenti all’unione sono invece caratterizzati dall’assenza di una dogana, che a sua volta si inquadra nelle aspirazioni politiche alla creazione di un mercato unico dei paesi dell’Unione, che superi i confini nazionali. Tuttavia, a parte l’abolizione delle dogane, gli effetti sulla attribuzione del gettito non sono molto diversi. Al di là di una modesta franchigia (alcune decine di migliaia di euro) il fornitore comunitario a consumatori finali di un altro paese comunitario, è tenuto a nominare un rappresentante per versare l’imposta allo stato dove risiedono i consumatori. Solo all’interno della suddetta franchigia il fornitore applicherà l’IVA come se la vendita fosse avvenuta sul proprio mercato interno, che ne acquisisce il gettito. Quando invece il cliente comunitario è un operatore IVA, in luogo della detrazione dell’imposta estera si utilizza il sistema della “non imponibilità” in base alla citata legge 427 del 2003; il cliente comunicherà quindi al fornitore dell’altro stato U.E. la propria partita IVA (che funge da “codice di identificazione”), acquistando senza applicazione dell’imposta. Anche qui c’è il rischio che, non essendoci alcuna possibilità di trasformare il fornitore in investigatore sulla correttezza della posizione globale IVA del proprio cliente, vengano utilizzate partite IVA estere per “mascherare” cessioni interne senza IVA, rivendendo i beni “in nero” sul mercato nazionale o al limite su quello estero; in quest’ul- 210 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata timo caso il trasporto potrà anche avvenire a cura del venditore, non in grado però di controllare l’effettiva destinazione dei beni. Non è infatti sufficiente il controllo informatico sull’effettività della partita IVA del cliente cui viene richiesto di intestare la fattura. 7.5. Il concetto di “impresa fiscale”, tra aziende, “lavoratori indipendenti” ed enti “no profit” Possiamo iniziare la trattazione unitaria (ai fini IVA e delle imposte sui redditi) del regime della ricchezza registrata nella tassazione attraverso le aziende e nell’autotassazione. Vi ritroviamo innanzitutto quel concetto esageratamente ampio e quindi confusionario di “impresa fiscale”, già rilevato al par. 3.13. Ricordiamo infatti da tale paragrafo l’espediente legislativo di trasformare in “imprese fiscali” lavoratori indipendenti senza alcun interesse genuino alla contabilità e senza una organizzazione in forma di impresa. L’art. 4 IVA e l’art. 55 TUIR adottano un concetto di “azienda in senso materiale”, considerando imprenditore chiunque eserciti una attività abituale di tipo “non intellettuale”; solo il lavoro intellettuale costituisce invece fiscalmente “lavoro autonomo”, come indicato al par. 8.1. È una cosmesi giuridica che ha accomunato le (poche) grandi aziende pluripersonali e milioni di attività indipendenti, basate solo sull’opera dei titolari. Ricordiamo dal par. 3.13 il filo conduttore che ha visto gelatai, pasticceri, parrucchieri, tassisti, osti, fornai, salumieri, venditori ambulanti, e chi più ne ha più ne metta, assimilati legislativamente a grandi capitalisti. In questo modo si rese automaticamente fuorviante l’espressione “impresa”, costringendo a precisare ogni volta se si stava parlando del bottegaio o dell’industriale, e per questo oltre il 90 percento delle “imprese” (si fa per dire) italiane sono “monoaddetto”, compreso il titolare). È stato un altro dei casi in cui un espediente legislativo, adottato in mancanza di meglio, ha generato confusione sociale e incomprensioni col resto degli studiosi e delle classi dirigenti, che in questo caso tendono di solito a parlare di “lavoro indipendente”, o genericamente “autonomo”. Sono gli aberranti risultati di aver messo in secondo piano l’organizzazione, mantenendo come unici elementi caratterizzanti per l’impresa fiscale la già indicata indipendenza formale e una certa continuatività nel tempo, definita “abitualità”. L’atto occasionale, isolato, privo di una continuità temporale, è invece irrilevante ai fini IVA, mentre ai fini delle imposte dirette va inquadrato nella categoria residuale dei “redditi diversi” (paragrafo 8.6). La proliferazione formale degli “imprenditori fiscali”, in assenza di aziende, dipende anche dall’inserimento in tale categoria di tutte le società commerciali”, di capitali e di persone, a prescindere dall’attività in concreto svolta. Quest’inserimento delle società tra le “imprese fiscali”, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, in virtù della loro mera forma giuridica, ha ulteriormente moltiplicato i soggetti che ricadono in questo regime; è stata una moltiplicazione inutile, perché la società non è un Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 211 “gruppo sociale”, come l’azienda (par. 3.1), ma una forma giuridica, potenzialmente intestataria di beni. Attribuire una posizione tributaria di impresa al milione circa di società esistenti in Italia, spesso meramente intestatarie di beni immobili, partecipazioni etc., oppure senza alcun contenuto, in attesa di un possibile futuro utilizzo, provoca equivoci di ogni tipo. Rispetto a questa massa di società senza organizzazione, le aziende come organizzazioni di persone (paragrafo 3.1) o quantomeno operatori economici, sono numericamente irrilevanti. Le poche decine di migliaia di aziende pluripersonali, che danno lavoro a milioni di persone, scompaiono in un mare di società senza contenuto, o passivamente titolari di singoli beni, come quelle di mero godimento, intestatarie di beni materiali, come immobili o imbarcazioni, materialmente utilizzate dai soci. Quest’intestazione non nasconde ricchezza al fisco, quanto piuttosto ai creditori; invece la confusione tra società e azienda trascina da vent’anni uno strano miscuglio di tassazione patrimoniale e presuntiva sui beni intestati a società c.d. “di comodo” (tecnicamente “non operative”). Invece di distinguere tra “forma societaria” e “azienda”, una tendenza politico-mediatica (par. 2.4) alimenta da quasi vent’anni una disciplina assurda sul piano della determinazione della ricchezza, in materia di “società di comodo”, o “non operative”; l’assurdità consiste nel presumere un reddito proprio sul presupposto della “non operatività” della società; è una assurdità rispetto alla quale nessuno osa alzare la voce, in quanto “le società di comodo” non sono organizzate sindacalmente; nessuno fa quindi valere questa assurdità solo per ragioni di principio, ed il problema non diventa pressante, fortunatamente, solo perché le società in esame sono in un cono d’ombra dell’attività di accertamento (troppo particolari per gli accertamenti in base agli studi di settore e troppo piccole per il tutoraggio delle grandi aziende, come indicato al par. 5.7 sulla distribuzione dei controlli fiscali). Questo concetto di impresa fiscale, amplissimo e variegato, continua ad escludere le imprese agricole (paragrafo 8.2), gli investimenti di capitale finanziario a titolo di partecipazione o prestito (paragrafo 8.5), le già indicate attività libero professionali e assimilate, determinate, come già anticipato, con criteri differenziali molto simili a quelli d’impresa. Anche enti non societari possono essere operatori economici, esercitando in modo abituale attività commerciali “collaterali” a quella istituzionale, di ente pubblico o privato (ad esempio ente religioso), organizzando scuole private, prestazioni di ospitalità simile a quella alberghiera o di ristorazione. Sono prestazioni che assumono rilevanza IVA, se “abituali”, a prescindere dal “fine di lucro”, in quanto l’IVA colpisce i consumi, e non i redditi. Questi ultimi, se esistenti, sono comunque tassati in modo “finale” nell’Ires, in quanto non esistono “partecipanti o soci” cui effettuare una distribuzione (paragrafo 7.17 e 9.1). Lo stesso vale per i trusts. Le associazioni sportive, politiche, ricreative, culturali, etc. esprimono una sorta di “consumo collettivo”, finanziandosi coi contributi dei soci (quote associative) e senza essere “commerciali”, in quanto appunto consumatrici finali; l’associazione, di norma, è quindi gravata di IVA per i propri acquisti, mentre non deve applicare l’IVA sulle quote associative e altri “rimborsi spese specifiche” ricevuti dagli associati; è un consu- 212 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata mo collettivo simile a quello esistente nel condominio degli edifici, e che può evolversi verso il mercato (quindi la commercialità e l’assoggettabilità ad IVA), man mano che si opera indiscriminatamente verso “non soci”; le cautele, esistenti ed ipotizzabili, per evitare imprese mascherate da associazioni si basano sul “diritto di voto” in assemblea e sui criteri di determinazione della quota associativa, tendenzialmente orientati al rimborso dei costi di struttura. Per le associazioni definibili “democratiche”, secondo i parametri suddetti, sono escluse da IVA anche le somme erogate a fronte di servizi specifici resi al socio, come una consumazione al bar di un circolo sportivo. Le attività rivolte al mercato, invece, devono scontare l’IVA sui corrispettivi, anche se sono rese per finalità benefiche e socio assistenziali, altrimenti verrebbe falsata la concorrenza rispetto alla generalità degli operatori economici. Nelle imposte sui redditi, invece, operare in modo volontaristico, tendendo solo alla copertura dei costi, fa venir meno in prima battuta un reddito imponibile; la mancanza di scopo di lucro, in prima approssimazione, si vede nella tendenziale parità tra entrate e uscite, e nella gratuità del lavoro organizzativo (spesso promosso da associazioni religiose, politiche, sportive o ambientalistiche). Se invece i ricavi eccedono stabilmente i costi, la mancanza di scopo di lucro, pur solennemente enunciata negli statuti, è smentita dai fatti. 7.6. Operazioni attive “tipiche” (“cessioni di beni” e “prestazioni di servizi”) tra “volume d’affari” (o di ricavi) e “valore aggiunto” I corrispettivi relativi alle prestazioni tipiche verso la clientela costituiscono i ricavi e sono la grandezza più significativa per esprimere le dimensioni delle imprese: ciò sia ai fini IVA, dove il concetto è indicato con l’espressione “volume d’affari”, sia ai fini delle imposte sui redditi; i ricavi comprendono anche le prestazioni al consumo finale, come indicato al paragrafo 3.3 non accompagnate da fattura, ma solo da registrazioni contabili cumulative o da documentazione di diritto amministrativo, come gli scontrini fiscali. Al relativo importo si collegano le classificazioni delle aziende ai fini di numerosi adempimenti dei controlli fiscali (capitolo quinto), tra contribuenti minori, medie imprese e contribuenti di grandi dimensioni. Accanto a questo indice dimensionale dell’azienda c’è il valore aggiunto economico (il “plusvalore”), rispetto alle materie prime e ai servizi di impresa consumati nella produzione, che si distribuisce, tra salari, interessi e profitti; ne abbiamo già parlato a proposito del concetto di “valore aggiunto” al par. 7.2 e lo ritroveremo al paragrafo 9.5 per l’IRAP. A parità di fatturato, infatti, crea molta più ricchezza per i lavoratori, i risparmiatori, i fornitori (il c.d. “indotto”), i soci, una azienda ad alto valore aggiunto. A parità di ricavi, un rivenditore di merci ha un valore aggiunto molto inferiore rispetto a quello di un artigiano, ad esempio un pasticcere, che frequentemente uso come metafora di un lavoro indipendente con buoni margini di guadagno rispetto agli incassi. L’inquadramento dei rapporti giuridici, ai fini della determinazione tributaristica della ricchezza, è molto elementare. Mentre il diritto civile, dedicato ai rapporti inter- Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 213 privati, conosce un altissimo strumentario di contratti, per determinare la ricchezza ai fini tributari, basta molto meno. Le categorie concettuali in cui inquadrare le operazioni attive (e correlativamente gli acquisti), sia ai fini dell’IVA che delle imposte sui redditi, sono in ultima analisi soltanto due, e cioè: – cessioni di beni, cui corrispondono obbligazioni di “dare”, ad esempio di trasferire la titolarità giuridica di beni (proprietà o altro diritto reale); – prestazioni di servizi aventi in genere ad oggetto un obbligo di fare, sempre dietro corrispettivo. Le operazioni attive, com’è naturale nella tassazione attraverso le aziende, rilevano in base ai corrispettivi contrattuali, risultanti dai documenti giustificativi; la documentazione contabile rende visibile la pattuizione giuridica, di diritto privato, tra cliente e fornitore, consentendo di analizzarla in chiave economica, secondo uno dei pilastri della tassazione attraverso le aziende (paragrafo 1.4). Tra le operazioni attive rilevanti ai fini delle imposte dirette e dell’IVA qualche sfasamento c’è, visto il diverso oggetto delle due imposte; tutte le operazioni rilevanti ai fini IVA influenzano anche il reddito; inoltre costituiscono componenti positive del reddito anche entrate irrilevanti ai fini IVA, perché non riconducibili a cessioni di beni o prestazioni di servizi, come sovvenzioni pubbliche generiche, incentivi, risarcimenti di danni, indennizzi, interessi moratori, etc... Il corrispettivo può essere ovviamente sia in denaro sia in natura, nel qual caso occorre esprimerlo in denaro, stimandone il valore normale. In presenza di un corrispettivo contrattuale in denaro, il valore normale della prestazione resa o ricevuta può invece costituire un indizio dell’occultamento di parte del prezzo. Il valore normale, invece, ha una rilevanza sostanziale, che non richiede la suddetta prova della falsità del corrispettivo, solo nelle imposte sui redditi, per i rapporti intragruppo con l’estero di cui diremo al par. 7.19. 7.7. Supporti documentali delle operazioni attive, dei costi e dei consumi (registrazioni, fatture, scontrini, note di credito) Quanto indicato sui concetti di reddito e di consumo, rilevanti ai fini tributari, consente di integrare la cornice indicata al capitolo terzo, sulla rilevanza fiscale della documentazione contabile genuinamente utile all’azienda, su cui poi si innestano alcuni documenti ulteriori di diritto tributario (paragrafi 3.2-3.4). Ricordando che l’azienda è un’organizzazione che acquisisce consumi (tassati con l’IVA) e restituisce redditi (tassati con le ritenute o segnalati al fisco), partiamo dalle operazioni al consumo finale, verso persone fisiche che non hanno alcun interesse a documentare l’operazione. In linea di principio, qui, l’azienda organizzata non emette alcun documento identificativo del cliente, di cui non ha motivi di conoscere l’identità, preoccupandosi solo dell’effettività del pagamento. Per questo neppure le grandi aziende operanti al dettaglio identificano il cliente, ma emettono al massimo un documento anonimo che identifica l’operazione, 214 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata cioè uno “scontrino”. L’adempimento aziendale tipico, in questi casi, è solo la diretta registrazione contabile dell’ammontare cumulativo delle vendite giornaliere, in genere distinto per punto vendita; la documentazione della singola operazione di vendita viene quindi “saltata”, e –anche quando viene emesso uno scontrino – non ne viene effettuata alcuna registrazione contabile. Molti settori economici specifici documentano le prestazioni rese nei modi più conformi alla loro operatività aziendale; ad esempio le società di trasporti emettono i biglietti, le assicurazioni le polizze, mentre le banche inseriscono i corrispettivi per servizi alla clientela nelle documentazioni periodiche inviate ai clienti (anche qui ovviamente la registrazione sui libri contabili è cumulativa, non avviene documento per documento). Qualora però il cliente si qualifichi come operatore economico e richieda un documento personalizzato col dettaglio della prestazione resa, idoneo ad effettuare la detrazione IVA, le aziende si organizzano per emetterlo. Di questo prende atto anche la normativa fiscale, che esclude l’obbligo di fatturazione per le imprese, grandi e piccole, operanti al dettaglio, salvo appunto che il cliente la richieda. Il concetto di “dettaglio” non riguarda solo il commercio di beni con modesto prezzo unitario, ma tutte le aziende operanti direttamente verso consumatori finali, anche quelle che trattano beni di apprezzabile valore unitario, come arredamento, veicoli, elettronica, gioielleria di lusso. La normativa fiscale ricalca la prassi aziendale, e si spiega non tanto per il ridotto importo dei corrispettivi, ma perché in queste attività di solito l’acquirente è un consumatore finale. Il compratore sarebbe teoricamente obbligato a chiedere la fattura ai commercianti al dettaglio quando è un imprenditore che acquista beni oggetto dell’attività dell’impresa, ma è facilissimo acquistare senza fattura, da commercianti al dettaglio. Si ricordi infatti (par. 3.7/3.8) che il fornitore non ha altra scelta che attenersi, ai fini delle generalità da indicare in fattura, a quelle comunicate dal cliente (il che rende velleitario l’obbligo di identificare i consumatori finali che spendono oltre 3000 euro più iva ai fini del c.d. “spesometro”, di cui al par. 5.14). Contro la mancata registrazione fiscale della ricchezza, attraverso l’omessa registrazione di parte degli incassi (par. 3.14) sono previste le c.d. «ricevute fiscali» e gli «scontrini fiscali». Sono strumenti, tutti italiani per contrastare l’evasione da occultamento dei corrispettivi, ma con un buon rapporto “costi benefici”, ovviamente a patto che il fisco svolga frequenti “piantonamenti di cassa”. Scontrino e ricevuta sono adempimenti essenzialmente amministrativo-tributari, dove determinate cautele formali dovrebbero impedire la distruzione del documento. Gli acquisti di ricevute da compilare avvengono secondo formalità da cui l’Amministrazione finanziaria potrebbe in teoria ricostruirne il numero, mentre il registratore di cassa dovrebbe mantenere traccia indelebile delle relative operazioni, permettendo così il riscontro con quelle indicate nelle dichiarazioni. Questi documenti sono il risvolto più sensato dell’applicazione della tassazione attraverso le aziende a piccoli commercianti e artigiani, dove manca l’organizzazione, ma si vede la bottega, col suo afflusso di clientela. Tuttavia si tratta pur sempre di elementi presuntivi, rilevanti nei modi indicati al par. 5.9; senza sistematici controlli sul tema, Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 215 con le dispersioni delle energie amministrative in altre scoordinate contestazioni (studi di settore, redditometro, indagini finanziarie, reinterpretazioni di ricchezza registrata) è verosimile che una buona parte degli importi oggetto di regolare scontrino non siano poi registrati fiscalmente. La grande distribuzione, affidabile per la propria organizzazione amministrativa, è stata – come detto in precedenza – esonerata da questi adempimenti fiscali, anche se ne è stata adottata una definizione troppo estesa, includendovi anche piccole organizzazioni a gestione familiare, in cui il titolare può dapprima controllare i cassieri, e poi omettere la registrazione fiscale di una parte delle somme (par. 3.7). La fattura deve essere invece emessa d’iniziativa del fornitore per le prestazioni non “al dettaglio”, tipicamente quelle “tra imprese”, oppure anche quelle offerte alla generalità degli acquirenti attraverso cataloghi, dove non ha senso distinguere tra “ingrosso” e “dettaglio”. In questi casi il prezzo si intende “oltre IVA”, cioè deve essere maggiorato del tributo; ripetiamo che, invece, nelle prestazioni al dettaglio il prezzo si intende comprensivo dell’imposta, la quale deve essere scorporata da esso. Le caratteristiche della fattura sono desumibili dagli esempi che si riscontrano nelle utenze elettriche, telefoniche, etc.: essa deve contenere le generalità delle parti, il numero di partita IVA dell’emittente, una numerazione progressiva, la (sommaria) descrizione della prestazione, il corrispettivo e l’IVA. L’acquirente operatore economico, che acquista senza ricevere fattura entro un determinato periodo di tempo (quattro mesi) è obbligato a denunziare all’ufficio tributario il fornitore che non la emette, sotto pena di sanzioni amministrative in proprio. La fattura è un documento commerciale, che ha ricevuto la sua prima rilevanza legislativa tributaria per giustificare la detrazione IVA sugli acquisti. È’ stato insomma ripreso e formalizzato, ai fini fiscali, un documento utilizzato anche come richiesta di pagamento ai fini commerciali; lo conferma il frequente utilizzo dell’espressione “fattura” anche per i documenti non soggetti ad IVA. La documentazione sopra indicata è molto informale, come si addice alla ripetitività dell’organizzazione aziendale: ricordiamo che non si tratta di documenti sottoscritti, ma semplicemente intestati, in quanto non è un loro fantomatico formalismo a renderli affidabili, ma il loro inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’emittente, come rilevato anche al termine del par. 3.5; ricordiamo che è il contesto amministrativo a fornire la “prova economica” di credibilità dell’evento registrato, alla luce della verosimiglianza tra documentazione emessa e tipologia di prestazione (sull’onere della prova come valutazione di credibilità economica cfr. par. 6.2). Come anticipato al termine del par. 3.3, occorre passare dalla considerazione isolata del “documento” ad una considerazione globale del contesto amministrativo in cui esso si inserisce, della verosimiglianza di quanto esso afferma, in relazione all’organizzazione aziendale cui si riferisce. È un riflesso dell’oggetto economico della tassazione, la solita “prova economica”, strutturalmente presuntiva, quand’anche contabile, nel quadro della determinazione tributaristica della ricchezza. Quando una operazione viene meno, perché fatturata erroneamente o perché il corrispettivo pattuito era inferiore a quello erroneamente fatturato, la correzione 216 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata documentale della precedente fatturazione è denominata nella prassi aziendale “nota di credito” (la fattura comporta infatti, nella contabilità del fornitore, un addebito al cliente, cui si dà invece “credito” annullando la fattura). Dare rilevanza ai fini IVA a tale documento è meramente facoltativo, perché non comporta mai aumenti di gettito per lo stato e può provocarne – al contrario – una riduzione quando il cliente era un consumatore finale. Il noto meccanismo trilaterale su cui si fonda l’IVA si svolge infatti in questo caso all’inverso: il venditore restituisce l’importo dell’IVA all’acquirente, recuperandolo dallo Stato mediante una corrispondente riduzione dell’IVA a debito; il cliente, se consumatore finale, tratterrà l’IVA restituitagli dal fornitore, mentre il cliente soggetto IVA dovrà riversare tale importo all’Erario, in rettifica della detrazione a suo tempo effettuata. Alla fine di queste correlazioni intersoggettive, tipiche della tassazione attraverso le aziende, solo il consumatore finale sarà avvantaggiato dall’annullamento dell’operazione, comprensiva dell’imposta, così come era stato inciso dalla sua fatturazione. Quanto precede spiega perché l’art. 26 del dpr. IVA circondi di alcuni limiti le variazioni in diminuzione, vietandole, qualora dipendano da un sopravvenuto accordo tra le parti, dopo un anno dall’operazione cui si riferiscono. 7.8. Segue: dai documenti ai libri contabili (richiami e integrazioni rispetto ai paragrafi 3.3-3.4) Per la maggior parte dei contribuenti, che non sono operatori economici, la tassazione attraverso le aziende si ferma ai documenti emessi dalle aziende, senza obblighi di ulteriore loro annotazione contabile; è quanto accade per i lavoratori dipendenti, i consumatori, i risparmiatori tutti tassati attraverso le aziende, da cui provengono i certificati del sostituto di imposta (par. 3.6), la documentazione degli oneri deducibili, gli estratti conto, la maggior parte dei contratti attivi di locazione etc. utilizzati per redigere direttamente la dichiarazione fiscale, senza la mediazione di scritture contabili. Per gli operatori economici abbiamo invece già visto al par. 3.3 che all’emissione dei documenti deve seguire la loro registrazione in appositi libri contabili. È l’inutile contabilità dei lavoratori indipendenti, che richiede la registrazione anche di documenti che potrebbero essere conservati comodamente in qualche cartellina, e mostrati all’ufficio in sede di controllo, in una determinazione analitica senza contabilità. Solo man mano che i documenti diventano numerosi è più pratico organizzarli e classificarli in supporti chiamati “libri contabili”, su cui sono annotati i dati necessari a rintracciare il documento. La registrazione contabile non aggiunge nulla, sul piano probatorio, alla credibilità dei documenti giustificativi, ma si limita a ordinarli per gruppi omogenei, secondo varie aggregazioni tipologiche e cronologiche, in elenchi denominati “conti”. Le esigenze sottostanti sono essenzialmente di praticità nel reperimento della documentazione, e di suo raggruppamento in categorie omogenee, da esporre nel bilancio, come vedremo al paragrafo 7.14; ad esempio, le cifre riepilogative esposte in bilancio, come “ricavi”, Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 217 “acquisti di materie prime”, “salari e stipendi”, “spese di manutenzione” etc., sono analizzabili nei conti di contabilità generale, dai quali si può risalire ai singoli documenti giustificativi. Tutte le scritture sono oggi effettuabili su carta libera, essendo stati aboliti da alcuni anni i residui obblighi di vidimazione e bollatura iniziale, fino al 2001 previsti per alcune di esse. La contabilità è ordinariamente tenuta con l’ausilio di programmi informatici, ed è anche sufficiente, per un certo arco di tempo (3 mesi), la mera memorizzazione dei dati, purché stampati contestualmente alla richiesta dei verificatori. Se si adottano alcuni accorgimenti tecnici per impedire la manipolazione successiva, è consentito omettere, o distruggere, la copia «cartacea» della documentazione e delle scritture contabili, a favore di una versione esclusivamente “digitale”. Un tempo questi libri contabili erano garanzia di affidabilità, anche per il fisco, vista la loro difficile alterabilità quando erano tenuti a mano; oggi si può invece ristampare tutta la contabilità in pochi minuti, grazie agli stessi mezzi elettronico-informatici che hanno fortemente agevolato il passaggio alla tassazione attraverso le aziende. Anche sotto questo profilo si conferma quindi che la garanzia per il fisco non è l’inalterabilità del documento, ma la rigidità dell’organizzazione aziendale, come rilevato ai parr. 3.2, 5.17 etc... Dall’organizzazione deriva l’esigenza di una contabilità, mentre senza organizzazione la contabilità è l’inutile simulacro indicato al par. 3.13. Se la contabilità è imposta a chi non è organizzato, egli potrà scriverci quello che vuole (par. 3.13), senza che la sua organizzazione si irrigidisca in modo proporzionale; chi si immedesima con la propria attività, senza organizzazione (i lavoratori indipendenti, par. 3.13), non ha bisogno di “essere organizzato”, e se conserva i documenti lo fa per memoria nei rapporti con le controparti. Abbiamo già visto al par. 3.13 che l’obbligo indiscriminato di tenere scritture contabili, previsto anche per attività senza alcuna organizzazione, è un espediente normativo per “mascherare da aziende” attività immedesimate col titolare. La regolarità formale di queste inutili contabilità entra a far parte di un rituale dove, in realtà, si pensa ad altro, cioè ai corrispettivi non registrati; con gli uffici che utilizzano pretese irregolarità contabili per avvalorare le presunzioni di ricavi non registrati (par. 5.13), e i contribuenti che enfatizzano la regolarità delle scritture per smentire queste presunzioni. È una gigantesca e inutile sceneggiata, un gioco delle parti dove tutti hanno una clamorosa riserva mentale. La contabilità è prevista anche per i lavoratori autonomi tassati attraverso le aziende loro clienti, organizzazioni, pubbliche o private, amministrativamente rigide. Una determinazione analitica senza contabilità, confrontando semplicemente elementi positivi e negativi, già prevista nella legislazione tributaria dal 1956 al 1973, è apparsa e scomparsa, a intermittenza, anche negli ultimi anni. Una prima forma elementare di contabilità è prevista ai fini dell’IVA dove occorre registrare le operazioni attive (fatture o corrispettivi dei dettaglianti, come rilevato sopra) e gli acquisti, risultanti dalle fatture dei fornitori. Il confronto tra l’IVA a debito sulle operazioni attive e l’IVA detraibile deve essere effettuato ad intervalli trimestrali 218 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata o mensili, prende il nome di “liquidazione periodica” (art. 27) e deve effettuarsi entro il giorno 16 del mese successivo al periodo di riferimento. La liquidazione – com detto al par. 7.3 – consiste nella somma algebrica tra IVA a debito da un lato, IVA detraibile ed eventuale eccedenza detraibile del periodo precedente (mese o trimestre) dall’altro. Il debito eventualmente emergente dalla liquidazione deve essere invece versato entro lo stesso termine. Sono adempimenti abbastanza elementari, il che spiega perché la contabilità semplificata delle imprese minori vi faccia riferimento anche per le imposte sui redditi, previa integrazione con le operazioni non soggette a IVA; ad esempio eventuali retribuzioni per lavoro dipendente o canoni di locazione. Questa contabilità semplificata per le imprese minori non riporta gli aspetti patrimoniali dell’attività, cioè il pagamento dei debiti, l’incasso dei crediti, il patrimonio netto, i fondi di ammortamento, etc...; tale contabilità è consentita per le imprese individuali e società di persone con ricavi inferiori a 309 mila euro se l’oggetto dell’impresa è la prestazione di servizi oppure a 516 mila euro negli altri casi. Le scritture contabili previste civilisticamente ed espressamente richiamate dalla normativa fiscale, per le imprese in «contabilità ordinaria», sono sostanzialmente inutili, ai fini non solo del controllo, ma anche della ordinaria pratica aziendale: il libro giornale e il libro degli inventari sono di scarsissima utilità ai fini dell’analisi delle operazioni, e dell’individuazione degli aggregati patrimoniali e reddituali; si tratta quindi di adempimenti che si perpetuano per forza di inerzia, e sono “pratici” nel senso più deteriore del termine, perché non servono a nulla, ma la loro mancanza può essere fonte di insidiose contestazioni del fisco. Le scritture correntemente utilizzate, nella quotidiana gestione dell’azienda e nella pratica dei controlli fiscali, sono piuttosto i singoli conti di contabilità generale, e i registri IVA, da cui passare poi ai documenti giustificativi; nei conti di contabilità generale troveremo gli elementi patrimoniali e reddituali indispensabili per redigere il bilancio, come cassa, crediti, debiti, impianti, ricavi, costi, fondi d’ammortamento e accantonamento, rimanenze, etc... A differenza delle inutili annotazioni cronologiche del libro giornale, qui gli elementi patrimoniali e reddituali sono raggruppati per materia, offrendo il dettaglio delle voci di bilancio e della dichiarazione fiscale, nonché il punto di partenza per individuare la documentazione a supporto di singole operazioni; in sintesi, i livelli di aggregazione contabile sono progressivamente “documenti – libri IVA e conti di contabilità generale – bilancio”. Una certa affinità tra adempimenti fiscali e scritture tenute dalle imprese di propria iniziativa sussiste invece per la c.d. contabilità “di magazzino”, diretta a seguire le entrate e le uscite delle merci, su cui torneremo al par. 7.16. Ai fini civilistici, l’inadempimento dei suddetti obblighi contabili rileva solo sul piano fallimentare e dei rapporti tra soci; un imprenditore, anche di dimensioni consistenti, potrebbe astenersi dalla tenuta delle scritture contabili senza alcuna conseguenza civilistica, ove non avesse rischi di fallimento. Il diritto civile esclude da adempimenti contabili coloro per i quali non è previsto il fallimento, cioè i piccoli imprenditori, organizzati prevalentemente col lavoro proprio o della famiglia, e i professionisti, Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 219 entrambi soggetti ad adempimenti contabili ai fini tributari. Ai piccoli imprenditori e ai professionisti, quali che siano le loro dimensioni, è inutilmente imposta (par. 3.13) la contabilità fiscale, esclusa invece sul piano civilistico. Anche l’obbligo contabile civilistico delle società di capitali è comunque essenzialmente un adempimento di diritto privato, la cui osservanza è sanzionata solo eventualmente, dall’azione dei creditori o dei soci di minoranza. Il diritto civile e commerciale non prevedono infatti sanzioni amministrative. 7.9. L’inerenza nelle imposte sui redditi e nell’IVA: 1) la distinzione tra costi e consumi Riprendiamo, calandole nei vigenti sistemi di tassazione dei redditi e dei consumi, le distinzioni già indicate al paragrafo 1.8 tra “consumo”, colpito dall’IVA, e costo, necessario alla produzione dei ricavi, e rilevante per la determinazione del reddito. Sia per la tassazione dei consumi, sia per quella dei redditi, devono essere neutralizzate le operazioni intermedie, cioè gli acquisti non destinati a un consumo, ma alla produzione di beni e servizi; ciò serve sia a determinare il reddito, al netto dei costi, sia il consumo, anch’esso al netto dei “consumi intermedi”, come chiarito sopra per l’IVA. Ai fini dei redditi è necessario eliminare tutti i costi, mentre ai fini IVA è necessario solo evitare le duplicazioni di tributo; voglio dire che i costi non soggetti ad IVA, come il lavoro dipendente o gli interessi passivi, non pongono problemi di duplicazione, mentre è importante che l’IVA relativa ad altri costi (ad esempio materie prime o energia) venga detratta nei modi indicati al par. 7.3. Se però non c’è IVA a monte, per qualsiasi motivo, non sorge il problema delle duplicazioni: si pensi ad esempio a un garagista che affitta l’autorimessa da un privato, senza IVA, pagando 70 mila euro, ed incassandone 120 mila più IVA dagli automobilisti clienti. Il canone di locazione sarà deducibile ai fini del reddito, mentre non rileva ai fini IVA in quanto non è soggetto a tributo, poiché il percettore non è operatore economico IVA. L’IVA, come tutte le imposte sui consumi, deve sterilizzare quindi le sue precedenti eventuali applicazioni, mentre il reddito deve dedurre tutti i costi, indipendentemente dall’assoggettamento a un determinato tributo. Le spese per il consumo personale o familiare del contribuente, di suoi familiari, amici, etc. sono quindi concettualmente estranee ai componenti negativi della tassazione ragionieristica attraverso le aziende, in quanto consumi e non “costi”; il concetto di “onnicomprensività” del reddito di impresa, su cui torneremo al par. 7.11, si riferisce solo alle attività dell’impresa; è quindi conforme a una corretta determinazione tributaristica della ricchezza escludere l’imputazione all’impresa, di consumi relativi alla sfera personale o familiare del contribuente o di terzi, quindi consumi e non costi. Non servono indicazioni legislative per distinguere le spese personali da quelle imprenditoriali, tra cui possono esserci zone grigie composte da spese che astrattamente potrebbero anche avere una utilità per l’impresa, come spese di vitto e 220 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata alloggio (di cui il contribuente afferma la necessità in relazione a viaggi d’affari), di trasporto e per autoveicoli, di rappresentanza etc. Questa mancata definizione legislativa è del tutto normale, in quanto l’inerenza di una spesa è concetto eminentemente relativo, che dipende dalla specifica attività svolta, dalle sue dimensioni, dalla sua organizzazione, dalle sue esigenze promozionali etc. Ad esempio una spesa promozionale di notevole importo può essere inerente per un grande istituto di credito e non per un parrucchiere; l’acquisto di un fuoristrada sarà senz’altro inerente per un’impresa mineraria, e non lo sarà per un ristorante di città. Il controllo dell’inerenza da parte del fisco non può interferire nel merito delle scelte imprenditoriali. Per negare l’inerenza di un costo non basta che l’impresa potesse farne a meno, ma deve risultare – in positivo – che il costo stesso rispondeva a una finalità personale o comunque extraimprenditoriale. Non sempre, in questi casi, il documento di spesa è autosufficiente per stabilire con certezza l’inerenza, e potrebbe aprirsi una “fase valutativa”, riferibile spesso a una molteplicità di documenti di trascurabile importo unitario, come ricevute di ristorante, biglietti aerei, etc... È uno di quei casi in cui la tassazione attraverso le aziende entra parzialmente in crisi, perché i documenti non consentono di stabilire con sufficiente probabilità la natura o la concreta utilizzazione del servizio sottostante. In questi casi emerge la ritrosia delle istituzioni di controllo per le valutazioni probabilistiche caso per caso (paragrafo 8.11), e la loro tendenza ad evitare analisi, minuziose e congetturali, sui singoli documenti; è uno dei casi in cui la tassazione attraverso le aziende non consente di andare a colpo sicuro, esclusivamente in base al documento, e dove gli uffici hanno spesso caldeggiato criteri forfetari di deduzione. La tendenza delle autorità fiscali verso criteri forfetari si salda, in un malinteso desiderio di certezza, col desiderio degli stessi contribuenti di avere punti fermi. Il legislatore vi intravede uno strumento di gettito, e nascono così disposizioni limitatrici della deduzione ai fini delle imposte sui redditi e della detrazione IVA di alcune spese sospettate di uso personale; si ricordano gli esempi di quelle relative ad autovetture, telefonia, rappresentanza, ristorazione, alberghi, biglietti di viaggio. Questi tentativi di forfetizzare, in via legislativa e per semplicità, la misura dell’utilizzo personale, possono peccare di rigidità nei casi concreti, dando luogo ad alcune censure comunitarie su limitazioni (autoveicoli) ritenute lesive dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. Sono stati quindi aboliti (a fine 2008) i limiti specifici alla detrazione IVA su spese alberghiere e di ristorazione, nonché automobilistiche, limitate invece forfettariamente ai fini delle imposte sui redditi (tributo meno esposto alle censure della Corte di giustizia europea). Finalità repressivo-moralizzatrici, anziché possibili deduzioni di costi personali, ispirano invece l’indeducibilità dei c.d. “costi da reato”, di cui al comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537/1993; visto che i proventi da reato devono essere confiscati, e non tassati, la norma ha senso solo se riferita alle modalità penalmente illecite per ottenere un ricavo lecito. Questa indeducibilità, come pure quella affermata per le sanzioni amministrative, deroga al già citato principio di onnicomprensività del reddito Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 221 d’impresa (par. 7.11) per ragioni in un certo senso di ordine pubblico e di correttezza gestionale. Le imposte sui redditi sono indeducibili perché logicamente successive alla determinazione dell’imponibile (le imposte non sono un costo di produzione, ma una quota del profitto). La deduzione fiscale di una “remunerazione figurativa” dell’imprenditore individuale contrasta con l’immedesimazione fiscale (oltre che civilistica) tra impresa e imprenditore; la deduzione dei compensi agli amministratori, ancorché soci, ha senso economico in quanto qui non c’è immedesimazione, e la deduzione in capo alla società erogante è accompagnata dalla tassazione in capo all’amministratore. Quest’ultima invece non avviene per l’imprenditore individuale, e questa logica di “indeduciibilità-intassabilità” è estesa anche alle remunerazioni dei più stretti congiunti dell’imprenditore medesimo. 7.10.Segue: 2) Inerenza e operazioni attive non soggette a tributo – deduzione interessi passivi Un diverso tipo di limitazioni alla deducibilità discende invece dalle simmetrie della tassazione attraverso le aziende, cioè dalla correlazione tra costi e ricavi (par. 3.9), in caso di ricavi che non concorrono, per varie ragioni, a formare il reddito imponibile. Dedurre i costi relativi a un ricavo escluso da tassazione, ne farebbe gravare l’importo sul resto dei ricavi imponibili, riducendoli ingiustificatamente. Sottrarre dall’imponibile elementi positivi, lasciandovi gravare i correlati elementi negativi costituisce quindi una asimmetria (paragrafo 3.9-3.12), che il legislatore tende ad evitare, con correlazioni specifiche tra elementi positivi e negativi, oppure con criteri proporzionali. Questi correttivi non scattano, per apposita disposizione legislativa, per gli elementi positivi “esclusi da tassazione”, come i dividendi intersocietari e le plusvalenze su partecipazioni sociali, la cui mancata tassazione non ha finalità agevolative, ma dipende da tassazioni in capo ad altri soggetti (vedi il coordinamento tra tassazione delle società e dei soci al paragrafo 7.17). L’esclusione si differenzia dall’esenzione in quanto la prima riguarda la determinazione della ricchezza, mentre l’agevolazione/esenzione (come pure la penalizzazione) riguarda profili di meritevolezza economico-sociale, derivanti da una valutazione politica (par. 1.9). Il problema non si pone invece per le “esenzioni di redditi netti”, o per le determinazioni forfettarie (agricole, par. 8.2) dove costi e ricavi rientrano nello stesso regime, e quindi non si creano le asimmetrie indicate sopra. Problemi analoghi sussistono per le operazioni esenti nell’IVA, in cui non viene applicata l’IVA sulle operazioni attive, ma simmetricamente è indetraibile l’IVA sugli acquisti. L’imposizione sui consumi basata sui corrispettivi ha infatti uno spettro molto più ampio di quella riferita ai passaggi materiali di beni (paragrafo 5.4); alcune tipologie di servizi, come il prestito di denaro e le vendite in borsa di titoli azionari, sono caratte- 222 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata rizzate da un corrispettivo, ma sono estranee al concetto di consumo finale; alcuni consumi finali, inoltre, sono socialmente meritevoli, come in campo medico (art. 10 n. 18), abitativo o didattico (n. 20) etc... Tutti questi servizi sono stati esentati da IVA, ma chi li presta resta un imprenditore, che senza correttivi avrebbe potuto effettuare massicce detrazioni IVA sugli acquisti, senza avere a valle alcun consumo tassabile. Per questo la detrazione di IVA su acquisti specificamente relativi a operazioni esenti è stata vietata, mentre in caso di acquisti promiscui essa è ammessa in misura proporzionale al rapporto tra operazioni attive imponibili e operazioni attive totali, comprese le esenti (art. 19-bis). Tale rapporto è correntemente indicato con l’espressione pro rata e la percentuale da esso derivante sarà applicata all’IVA sugli acquisti, ottenendo così l’ammontare di IVA detraibile. In un sistema di tassazione analitica “ragionieristico-contabile”, la deduzione degli interessi passivi erogati a terzi è in linea di principio resa necessaria (per una delle simmetrie di cui al par. 3.9) dalla scelta di tassare gli interessi attivi in capo al percettore. Tuttavia gli interessi, come i salari ed i profitti, fanno parte del “valore aggiunto”, cioè della ricchezza oggettivamente prodotta dall’azienda, secondo quanto indicato al par. 7.6, e ripreso al par. 9.6 sull’IRAP. In questo senso gli interessi passivi, come i salari, non sono “costi come tutti gli altri”, cioè come acquisti di materie prime, energia, servizi di impresa, etc., ma sono “ripartizioni di valore aggiunto”. Mentre però i salari non possono essere “schermati” rispetto agli effettivi dipendenti, l’imprenditore può attribuire capitale di prestito, anziché capitale proprio, facendosi remunerare a titolo di percettore di interessi. Ciò non provoca alcun danno al fisco fino a che l’interesse dedotto dall’erogante concorre a formare il reddito del percettore e l’imponibile viene semplicemente spostato da un soggetto all’altro, senza alterazioni del relativo carico tributario. Quando però il percettore finale è estero, la deduzione dell’interesse passivo avviene in Italia, mentre la tassazione del corrispondente interesse attivo avviene all’estero. Alla fine sorge il sospetto di deduzioni di costi, per interessi passivi, su “patrimonio netto” (apporti dei soci mascherati da debiti), perché magari l’erogante del credito potrebbe essere una banca italiana, garantita da una banca estera, a sua volta controgarantita da capitali esteri del socio dell’azienda italiana debitrice finale. Infatti, dietro i limiti alla deduzione degli interessi c’è il sospetto che talvolta il capitale di debito si nasconda capitale proprio del socio, mascherato da debito, i cui interessi sono sottratti alla fiscalità italiana. Questo sospetto, difficile da verificare, comporta correttivi sofisticati, che devono però fare i conti anche con le libertà europee di circolazione dei capitali /par. 2.6), la non discriminazione degli stranieri, la difficoltà di individuare l’effettivo beneficiario degli interessi, ed altri profili che rendono difficile trovare un soddisfacente equilibrio tra precisione, cautela fiscale, semplicità, etc... Oggi come oggi, dopo la soppressione della disposizione sulla “capitalizzazione sottile” (praticamente ingestibile e vigente fino al 2007) la deduzione degli interessi passivi per le società di capitali e assimilate è limitata a una quota percentuale della differenza tra costi e ricavi (Margine operativo lordo). È una limitazione che non scatta, già per legge, quando l’indebitamento deriva da una capacità di credito propria della società debitrice, come nel caso di fabbricati destinati alla locazione. Tuttavia non Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 223 è una sistemazione concettuale soddisfacente, e verosimilmente non rimarrà stabile nel lungo periodo. 7.11.Principali elementi rilevanti ai fini della dell’IVA e principio di onnicomprensività delle imposte sui redditi Tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi riconducibili all’impresa, siano esse ordinarie o occasionali rilevano simultaneamente ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA. Anche la vendita di un bene strumentale, estranea all’oggetto tipico dell’attività della specifica impresa, o un servizio collaterale, sono rilevanti ai fini IVA e delle imposte sui redditi. Queste ultime danno rilevanza, per l’impresa, anche a entrate e spese non riconducibili al concetto di cessioni di beni o prestazioni di servizi, come risarcimenti danni, contributi pubblici e privati, perdite da furto o danneggiamento, indennizzi, e varie altre entrate e uscite fortuite, non riconducibili a “cessioni o prestazioni” in senso tecnico. La sfera applicativa del reddito d’impresa è quindi più vasta di quella IVA, dove rilevano solo le operazioni riconducibili al concetto di cessioni di beni e prestazioni di servizi. Sotto questo profilo ha senso introdurre il concetto di “onnicomprensività” del reddito di impresa, rispetto all’IVA; ad esso faremo riferimento anche al par. 7.7.13 per il regime dei beni di impresa ed il valore fiscalmente riconosciuto. Segnaliamo qui che questa “onnicomprensività” rende imponibili le plusvalenze su beni intestati a società, soprattutto di mera detenzione immobiliare, che sono indistintamente titolari (in virtù della loro forma giuridica) di una posizione tributaria “di impresa”, come rilevato al par. 7.5. Per classificare l’impresa in un determinato settore economico, nonché per individuarne le dimensioni, rilevanti ai fini di molti regimi contabili nonché ai fini dei controlli (paragrafo 7.6), rilevano solo le operazioni tipiche, ordinarie, cioè i corrispettivi delle cessioni di beni o prestazioni di servizi oggetto dell’attività caratterizzante (c.d. “ricavi”); al contrario, la maggior parte delle operazioni “atipiche” sono però casi limite, questioni di diritto eleganti, ma poco rilevanti in termini economici. Il volume d’affari IVA, esclude solo le cessioni dei beni ammortizzabili, cui corrispondono, ai fini del reddito, le plusvalenze e le minusvalenze su beni strumentali. Ai fini del reddito si escludono anche, dal concetto di ricavi, altri corrispettivi di operazioni “atipiche” rispetto all’oggetto dell’attività, includendo i corrispettivi delle eventuali cessioni di materie prime e sussidiarie, destinate a essere consumate nelle prestazioni tipiche dell’impresa. Ai fini del reddito, le plusvalenze da realizzo di beni strumentali e aziende sono anche soggette a una tassazione diluita nel tempo (in quote costanti sino a un massimo di 5 periodi di imposta, in base all’art. 86 comma 4 tuir). Sulle plusvalenze “da valutazione”, cioè meramente iscritte in bilancio, vedi il successivo paragrafo 7.13 sui valori fiscalmente riconosciuti. 224 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata Le «sopravvenienze» rilevano solo ai fini delle imposte sui redditi, modificando operazioni già contabilizzate in precedenti periodi d’imposta; sono sopravvenienze “attive” se la modifica è «in meglio e «passive» in caso contrario. 7.12.Il momento impositivo nella tassazione attraverso le aziende (cassa, competenza, irrilevanza delle mere valutazioni: rinvio alle operazioni straordinarie) Il riferimento delle imposte a manifestazioni di ricchezza non implica che questa ricchezza sia “liquida”; le somme necessarie al relativo pagamento possono anche non provenire dalle manifestazioni di ricchezza tassate, potendo benissimo talvolta provenire dal resto del patrimonio del contribuente. Questo accade per moltissime imposte, da quelle patrimoniali sul valore degli immobili a quelle sugli autoveicoli, a quella di bollo etc... Quando però si tratta di imposte relative alle note astrazioni di sintesi, indicate al par. 1.8, come il reddito ed anche l’IVA, l’esigenza di liquidità è maggiore. La tendenza di tali tributi è quindi di non costringere, per quanto possibile, il contribuente ad indebitarsi per pagarli. Il pagamento, la monetizzazione, è il criterio generale, conforme al principio secondo cui le imposte si pagano, salvo eccezioni, quando si dispone delle risorse economiche per farlo. Una tassazione basata sulla maturazione degli elementi reddituali, anziché sulla loro realizzazione, tasserebbe redditi potenziali, con continui “alti e bassi” tra redditi potenziali e perdite potenziali, che occorrerebbe seguire fiscalmente, con incertezze e inutili controversie. Alla suddetta esigenza di monetizzazione corrisponde il “principio di cassa”, criterio base, elementare, che guarda al pagamento delle spese e all’incasso dei compensi. Questo principio, abbastanza comune alle imposte sui redditi deve essere coordinato con esigenze di precisione di vario genere, come il coordinamento tra tassazione di società e soci (paragrafo 7.17); l’esigenza di evitare vuoti di imposta giustifica la tassazione sulle plusvalenze d’impresa in caso di perdita della residenza in Italia, o di perdita dello status di impresa (trasformazione in società semplice). Anche la possibilità della società beneficiaria di beni conferiti in natura, di valorizzarli fiscalmente al relativo valore normale, giustifica una plusvalenza o minusvalenza in capo alla conferente, come vedremo al par. 7.20. Sono altrettanti esempi delle correlazioni concettuali della tassazione attraverso le aziende, indicate al par. 3.11, che qualche volta comportano una tassazione senza monetizzazione. Le ipotesi più diffuse in cui, per esigenze di precisione, diventa rilevante fiscalmente ricchezza illiquida sono tuttavia nella determinazione dell’IVA e nel criterio di competenza per il reddito di impresa. In entrambi i tributi, il semplice principio di cassa porterebbe a una distribuzione troppo imprecisa degli imponibili, anche rispetto agli ordinari criteri di gestione delle attività, ed alla precisione economico-contabile. Non è una scelta di cautela fiscale, a vantaggio delle “ragioni del fisco”, tanto è vero Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 225 che la deroga al principio di cassa consente anche di dedurre costi e detrarre importi di IVA non ancora pagati ai fornitori. Il sistema della competenza, insomma, attribuisce rilevanza anche alla nascita dei crediti e dei debiti, secondo una tempistica che diremo tra un attimo, a seconda dei tipi di operazioni. Queste ultime possono diventare infatti rilevanti fiscalmente non solo quando ne avviene la manifestazione monetaria, in denaro o in natura, ma anche quando si perfezionano i relativi rapporti giuridici, cui in genere corrisponde la nascita di crediti e debiti rispetto alle relative controparti. Alla nascita del debito o del credito corrisponde infatti la relativa “maturazione” dell’elemento di ricchezza, individuato però, anche per esigenze di certezza e semplicità applicativa, coi momenti puntuali che seguono. Per le cessioni di beni, nelle imposte sui redditi e nell’IVA, si segue, prescindendo dal pagamento, il criterio della consegna del bene o della stipula dell’atto, se si tratta di beni immobili. Quando alla consegna non si accompagna il passaggio della proprietà, per condizioni o termini, così come per la necessità di effettuare prove, esprimere gradimenti, concordare il prezzo “ex post”, l’imputazione a periodo è tendenzialmente differita al verificarsi dell’evento. Per le prestazioni di servizi si guarda all’ultimazione nelle imposte sui redditi, tornando invece al principio di cassa ai fini dell’IVA. Quest’ultima si rende dovuta in ogni caso qualora la fattura sia emessa prima del momento impositivo; ad esempio nel settore delle telecomunicazioni, del gas, dell’energia elettrica, si procede comunque, per snellezza aziendale, alla fatturazione, anche nei confronti di privati consumatori finali ed anche prima dell’incasso, con notevoli anticipazioni di IVA rispetto al pagamento (par. 7.12). Per le prestazioni il cui corrispettivo si distribuisce proporzionalmente al passare del tempo, come per gli interessi, i canoni di locazione e i premi assicurativi, vanno imputate al periodo d’imposta in proporzione alla quota in esso maturata (ovviamente anche qui sia dal lato dei costi sia da quello dei ricavi). La normativa fiscale dà qui rilevanza al concetto aziendalistico di ratei e risconti. I suddetti momenti specifici di competenza, sono dettati solo per le cessioni di beni o le prestazioni di servizi, coprendo completamente l’area dell’IVA (dove non esistono operazioni diverse da cessioni e prestazioni). Nel reddito d’impresa restano invece senza regole precise gli altri elementi reddituali (ad esempio rinunzie, transazioni, risarcimenti danni, indennizzi assicurativi, controversie giudiziarie, incassi di dividendi). Il criterio tendenziale è quello della “maturazione” e della certezza giuridica, anche se spesso per esigenze di sicurezza operativa la normativa fa riferimento al buon vecchio “principio di cassa”. Il pagamento può essere anticipato, rispetto alla maturazione economica della prestazione, attraverso acconti, irrilevanti ai fini del principio di competenza nelle imposte sui redditi. Nell’IVA, che colpisce il consumo, rileva anche questo pagamento di acconti, o persino la fatturazione anticipata rispetto ai momenti impositivi suddetti, beninteso limitatamente all’importo fatturato o pagato; naturalmente, se poi l’operazione non va a buon fine, la formalizzazione IVA dell’anticipazione sarà corretta (in gergo contabile “stornata”) mediante le note di credito descritte al par. 7.7. 226 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata Finora ci siamo posti il problema della rilevanza fiscale dei rapporti con i terzi, acquirenti o fornitori di beni o servizi; è una serie di questioni talvolta chiamate di “competenza esterna” (cioè verso i terzi) per distinguerle da quelle in cui il reddito viene influenzato dalle valutazioni di elementi patrimoniali attivi e passivi, senza rapporti giuridici con terzi, come gli accantonamenti, gli ammortamenti, le rimanenze, e altre questioni di “valutazione del patrimonio aziendale” (o “competenza interna”), che esporremo al paragrafo 7.15. La suddetta applicazione dell’IVA “per competenza”, su operazioni non ancora pagate dal cliente, può porre dei problemi di liquidità al fornitore; d’altra parte il cliente potrà detrarre la relativa imposta anche se non l’ha pagata. Quest’anticipazione all’Erario di IVA che il fornitore deve ancora riscuotere è da sempre oggetto di una deroga quando i clienti sono enti pubblici e assimilati, notoriamente pagatori “tardivi” (regime di IVA ad esigibilità differita). Negli ultimi mesi (2012) sono stati introdotti correttivi tendenti alla cosiddetta “IVA per cassa”, con riflessi anche in capo alla detrazione per il cliente e varie complesse condizioni per cui è preferibile rinviare ai siti di riferimento di questo testo (nello specifico www.fondazionestuditributari.com). La detrazione IVA, a differenza della deduzione dei costi pluriennali nelle imposte sui redditi, spetta immediatamente anche per acquisti con utilizzabilità pluriennale, come pure per i beni ancora in giacenza (rimanenze finali). È una soluzione conforme alla natura dell’IVA come imposta sui consumi, dove la detrazione ha semplicemente lo scopo di “neutralizzare” l’IVA sulle operazioni che non rappresentano consumi, ma costi; non c’è quindi motivo per distinguere tra detrazione IVA su materie prime e servizi rispetto a beni strumentali. Le rettifiche sulla competenza sono un esempio classico di “contestazione interpretativa” (paragrafo 5.17), cui si accompagna al massimo, per il fisco, un danno meramente finanziario, cioè la percezione del tributo in ritardo (paragrafi 3.9-3.12 sulle “simmetrie fiscali”). Quando arriva l’accertamento, l’imposta è stata in genere già pagata, sia pure in un momento successivo, e qualche volta era stata addirittura pagata in un momento precedente. Tuttavia, nel consueto formalismo legalistico, le rettifiche in esame sono state frequentissime per decenni con una enorme dispersione di tempi amministrativi e professionali. Per alcuni anni le violazioni sull’imputazione a periodo sono state la più frequente contestazione interpretativa, i cui effetti di duplicazione di imposta sono stati arginati, con un intelligente assestamento giurisprudenziale, consentendo riliquidazioni del tributo, da richiedere quando la controversia è divenuta definitiva. 7.13.Il valore fiscalmente riconosciuto e l’esposizione in bilancio dei beni di impresa, tra criteri patrimoniali e reddituali La determinazione differenziale dell’IVA è “imposta da imposta” tipica di un tributo sui consumi (par. 7.3 ss.), senza le valutazioni del patrimonio, di cui diremo in questo paragrafo e ai successivi 7.14 e seguenti per i tributi sui redditi. Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 227 Questi ultimi confrontano ricavi e corrispettivi di periodo, relativi a beni ceduti o servizi prestati, con i costi di produzione o i valori patrimoniali di tali beni A tal fine, soprattutto nelle grandi aziende, sono importanti anche valutazioni di elementi patrimoniali, effettuate facendo riferimento al relativo “valore fiscalmente riconosciuto”; quest’ultimo “costo fiscale” dei beni può essere, a seconda delle tipologie, ammortizzato, oppure consumato per la produzione e contrapposto al prezzo di vendita. Ai fini delle imposte sui redditi, infatti, l’onnicomprensività del reddito d’impresa (par. 7.11), e la sua determinazione differenziale richiedono la valorizzazione dei cespiti aziendali, in vista di quando ne avverrà il “realizzo”, ad esempio per vendita, per transazione per perdita, nei momenti “di competenza”, indicati al paragrafo 7.12 sull’imputazione a periodo. Il suddetto valore “fiscalmente riconosciuto” prende le mosse dal costo, maggiorato da quello di successivi incrementi e miglioramenti, e diminuito di ammortamenti e svalutazioni fiscalmente deducibili, secondo le simmetrie di cui al par. 3.9: questo valore fiscale si trasmette e si modifica da un periodo d’imposta all’altro, con i meccanismi delle “valutazioni di bilancio” (7.14 ss.), ad esempio variazioni di rimanenze, ammortamenti e accantonamenti, secondo l’intuitiva continuità temporale della tassazione attraverso le aziende e dei collegamenti tra i diversi periodi di imposta, secondo le sistemazioni concettuali di cui al già citato paragrafo 3.9. Il valore fiscalmente riconosciuto è molto semplice per i beni esposti, nelle scritture contabili e nel bilancio, con un criterio patrimoniale, come i beni “strumentali” ad utilità pluriennale, ad esempio gli impianti, i fabbricati, gli automezzi; il relativo valore sarà diminuito con le quote di ammortamento, che ne esprimono anno per anno il contributo alla produzione, come vedremo al par. 7.15; lo stesso valore potrà salire per il sostenimento di spese incrementative, migliorie e simili. Al momento della loro eventuale cessione, la differenza tra corrispettivo conseguito e valore fiscale come sopra determinato, darà luogo a «plusvalenze o minusvalenze», (par. 7.11, secondo i criteri di continuità e simmetria contabile esposti al par. 3.9). Lo stesso criterio “patrimoniale” si applica per i crediti e i debiti. Perché i valori fiscali aumentino occorre quindi sostenere un costo verso terzi, ricevere un apporto di capitale, o realizzare redditi propri; nella tassazione attraverso le aziende, ogni costo, o aumento del valore fiscale di riferimento di beni aziendali, corrisponde tendenzialmente a un elemento reddituale di segno opposto di altri soggetti, a un apporto o a un reddito dello stesso titolare. Ci dovrebbe essere così continuità di valori fino al momento della vendita dei beni (o eventi assimilati, accomunati dall’espressione generale di “realizzo”), evitando sia le doppie imposizioni sullo stesso valore sia «i salti d’imposta», cioè l’acquisizione “in franchigia fiscale” di maggiori valori senza realizzare componenti positive di reddito. Sono punti di riferimento indispensabili per distinguere, come indicato al par. 4.8, la lecita pianificazione fiscale dall’abuso del diritto. Ricordiamo che i corrispettivi ed i valori fiscali suddetti non sono oggetto di correttivi a fronte dell’inflazione monetaria (perdita di valore della moneta), introdotti in alcuni paesi solo quando l’inflazione raggiungeva livelli macroscopici, ad esempio 228 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata in alcuni stati sudamericani. Per questo apposite disposizioni normative di “tassazione volontaria” consentono di dare rilevanza fiscale a rivalutazioni causate anche dall’inflazione, a fronte del pagamento di una imposta sostitutiva; è una specie di “prestito di imposta”, uno scambio dove il contribuente “investe” nell’aumento dei valori fiscali; pagando subito una imposta sostitutiva egli guadagna maggiori costi fiscali di riferimento, da cui giungeranno nei successivi periodi di imposta maggiori costi, deducibili ad aliquota ordinaria (su questo schema di “rivalutazioni a pagamento” par. 7.20 per le fusioni, cessioni d’azienda e altre operazioni straordinarie). Questa esposizione “patrimoniale” (“a patrimonio”) sarebbe troppo complessa per i beni di magazzino, gestiti in modo “seriale”, ripetitivo, di massa, con continui incrementi per acquisti e prelievi per vendite. I beni la cui cessione dà luogo a ricavi sono quindi esposti in bilancio “per masse” col criterio c.d. “costi ricavi e rimanenze” che ritroveremo anche per le rimanenze finali (par. 7.16). Quando viene acquistata una materia prima, si guarda solo l’aspetto reddituale, registrando un costo a fronte del debito verso il fornitore, trascurando di avere in magazzino una merce con un valore reale. In altri termini, l’acquisto di “beni merce” viene trattato come il pagamento degli operai, o delle utenze di energia, senza considerare l’aspetto patrimoniale, che emerge invece a fine anno, coi criteri delle rimanenze finali, di cui diremo al paragrafo 7.16, sulle valutazioni del patrimonio aziendale. I beni in esame sono valorizzati per masse proprio per il loro continuo turnover, con “entrate e uscite” che renderebbero complicatissime valorizzazioni singole; le entrate e uscite dal magazzino di tali beni sono seguite attraverso la contabilità “di magazzino” e la loro valorizzazione avviene attraverso la contabilità industriale, come diremo al par. 7.16. La ragione è anche qui ragionieristico contabile, legata alla produzione di serie, che si rinnova continuamente e non può essere analiticamente seguita, per ogni singolo bene, nelle scritture contabili. Anche le passività e le voci del patrimonio netto hanno un “valore fiscale” corrispondente concettualmente a quello indicato per le attività: se un accantonamento, una svalutazione, fiscalmente deducibile, abbatte il valore fiscale dell’attivo, lo stesso deve accadere se invece viene esposta come posta rettificativa nel passivo: un fondo dedotto (cioè costituito con accantonamenti deducibili) non è liberamente disponibile ai fini fiscali, e diventa imponibile, a titolo di sopravvenienza attiva, come vedremo, se utilizzato per fini diversi da quelli per cui fu costituito. Se invece il fondo nasce con accantonamenti non dedotti, è liberamente disponibile ai fini fiscali e viene chiamato “fondo tassato”. La stessa imponibilità dei “fondi dedotti” si verifica, a maggior ragione quando un debito viene meno in tutto o in parte. Le voci di patrimonio netto sono fiscalmente franche, in quanto derivano da apporti, da utili tassati o non tassabili, salvo il caso dei fondi in sospensione d’imposta, a fronte dei quali è concesso aumentare i valori fiscali dell’attivo, ma che sono tassabili ove si verifichino determinati eventi (in genere la distribuzione ai soci). I beni dell’azienda, come l’attività di chi ci lavora, hanno valore in quanto organizzati e coordinati tra di loro, come rilevato già al paragrafo 3.1 calando Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 229 l’azienda in generale nel contesto tributario. Anche i macchinari, gli aerei delle compagnie intercontinentali, le centrali nucleari, i camions, le gru hanno un valore perché esiste una “organizzazione aziendale in funzionamento”. Se guardiamo alla possibilità di vendere sul mercato i singoli cespiti aziendali, come tali, i valori espressi nei bilanci aziendali sarebbero spesso inattendibili, ma così non è in quanto l’esposizione al costo sottintende la possibilità di recuperarlo “attraverso l’attività”. L’insieme dei costi sostenuti esprime quindi il valore dell’avviamento aziendale, ripartito sulle singole voci di bilancio, dagli immobili, agli impianti, alle attrezzature. L’avviamento può anche essere negativo, quando si pensa che l’attività non riuscirà a recuperare i costi sostenuti per impiantarla. Una evidenziazione autonoma dell’avviamento si ha quando l’azienda viene acquistata nel suo complesso da chi paga un prezzo superiore all’insieme dei costi storici dei beni aziendali (par. 7.20). Questo valore viene definito di solito, nel bilancio dell’acquirente, come «avviamento», perché non ha riscontro nei singoli valori dei beni, già a loro volta influenzati dalla suddetta componente intrinseca di “avviamento”. Quest’ultimo, più che prospettive di redditività futura, esprime la vitalità dell’azienda, la “possibilità di stare sul mercato”, e di essere acquisita da qualche operatore del settore, anche se permanentemente in pareggio o perdita. È perciò intuibile la diffidenza civilistica, sul piano della tenuta patrimoniale della società (e senza riflessi tributari), verso l’iscrizione in bilancio di avviamenti non “misurati dal mercato”, come nel suddetto pagamento di un prezzo e la richiesta di perizie accurate per gli avviamenti iscritti in caso di conferimenti di azienda e di fusioni (par. 7.20). 7.14.Valutazioni fiscali di fine esercizio e rapporti col bilancio Il bilancio civilistico non è un libro contabile, né è destinato alla registrazione dettagliata di singoli documenti. Il bilancio è piuttosto un prospetto riepilogativo, dove viene esposta, riassumendola in quattro sezioni (attività, passività e patrimonio, elementi positivi e negativi del reddito) la situazione patrimoniale e reddituale dell’azienda. Questa esposizione avviene per motivi civilistici, ma viene riutilizzata a fini amministrativo-tributari, come avviene –secondo lo schema base rilevato al par. 3.5 – per gran parte della documentazione aziendale. L’azienda, con il bilancio, “si guarda dentro” e cerca di capire l’andamento degli “affari propri”, cioè quanta ricchezza è stata prodotta e come è stata distribuita tra i vari soggetti coinvolti nell’attività di questo gruppo sociale (appunto, l’azienda). Per questo motivo, con l’auspicata “istituzionalizzazione delle aziende” al bilancio guardano anche i dipendenti, i creditori, gli investitori, i consumatori, gli organi pubblici di vigilanza, ad esempio dei prezzi, del credito, delle concessioni pubbliche, dei mercati finanziari, della concorrenza, etc... Il sistema di documentazione aziendale, e di scritture contabili, è necessariamente uno solo: i rapporti giuridici con i terzi, ed anche i relativi documenti, sono sempre i medesimi, e non cambiano certo in relazione alle diverse finalità delle varie 230 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata consuntivazioni di fine esercizio. Bilancio e reddito fiscale sono accomunati dall’unicità dei documenti e delle registrazioni contabili sottostanti. Non avrebbe senso che i corrispettivi di vendita, i versamenti e i prelevamenti bancari, fossero diversi ai fini tributari da come sono ai fini civilistici. È invece del tutto naturale che, in relazione alle finalità delle rendicontazioni, cambino i criteri di stima e di rappresentazione delle poste c.d. “valutative”, stimate alla fine dell’esercizio sociale per le operazioni in corso (ad esempio ammortamenti, accantonamenti, ratei, risconti, rimanenze e altre operazioni in corso a fine anno). Su questi aspetti valutativi le soluzioni possono essere diverse, tenendo conto di come il diritto civile contempera le stesse esigenze di precisione, semplicità, certezza dei rapporti, e altre che caratterizzano la determinazione di ricchezza anche in sede fiscale (ma con preoccupazioni e priorità diverse, come vedremo). Le regole civilistiche sul bilancio, infatti, si inseriscono in una regolamentazione di rapporti interprivati, contratti ed obbligazioni; in questo contesto, il consenso dei soci o la mancanza di interesse dei creditori, possono superare qualsiasi potenziale controversia; persino la omessa redazione del bilancio, se si pagano i debiti ed i soci sono consenzienti, è priva di conseguenze sanzionatorie, salva eventualmente la messa in liquidazione d’ufficio da parte della camera di commercio, presso cui è tenuto il registro delle società. I vantaggi fiscali ottenibili forzando le valutazioni di bilancio sono relativamente secondari; al massimo un temporaneo differimento delle imposte, o il tentativo, sostanzialmente legittimo, di bilanciare utili e perdite. A parte questi lievi vantaggi, la collocazione degli elementi reddituali in un periodo d’imposta anziché in un altro non produce alcun danno erariale. Eppure considerando autonomamente il singolo periodo di imposta possono emettersi accertamenti rendicontabili, come risultato di servizio, in termini di “maggiore imposta accertata”. Non solo sono contestazioni interpretative, ma riguardano solo la distribuzione della ricchezza tra un periodo di imposta e l’altro, fino al paradosso degli “accertamenti di imposte già pagate”, quando secondo l’ufficio la competenza dei costi era anteriore e quella dei ricavi posteriore rispetto ai periodi di imposta utilizzati dal contribuente (paragrafo 5.18). Con la riforma tributaria si pensò di ridurre le contestazioni sull’imputazione a periodo fissando alcune regole fiscali più precise, con margini di valutazione minimi e massimi al cui interno il contribuente può regolarsi senza ulteriori condizioni. Sugli aspetti convenzionali e valutativi possono infatti esserci, tra diritto civile e tributario, differenti compromessi tra precisione, semplicità, facilità di rilevazione, coerenza con i bilanci degli anni precedenti, prudenza, etc.; ai fini tributari, invece, le valutazioni di bilancio riguardano una prestazione di diritto amministrativo, con le contestazioni giuridico-interpretative indicate al paragrafo 5.18, rispetto alle quali c’è bisogno di certezza. Questa possibilità di valutazioni parzialmente divergenti potrebbe giustificare un «bilancio fiscale» autonomo, in cui effettuare le valutazioni ai fini tributari; il “bilancio fiscale”, come documento autonomo, invece non è previsto, e il reddito Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 231 d’impresa parte dall’utile o dalla perdita del conto economico civilistico (art. 83 TUIR). Al bilancio dovranno essere apportate, nella dichiarazione dei redditi, le variazioni conseguenti all’applicazione dei criteri valutativi fiscali. Ciascuna variazione potrà tendere ad aumentare il reddito fiscale rispetto al risultato civilistico (nel qual caso si parla di «variazioni in aumento») ovvero diminuirlo (variazioni in diminuzione). Alcune variazioni riguardano divergenze strutturali tra bilancio e imponibile fiscale, come costi definitivamente non deducibili (ad esempio le imposte sul reddito o la retribuzione dell’imprenditore paragrafo 7.9) ovvero proventi non tassabili per ragioni di tecnica tributaria (ad esempio i dividendi o le plusvalenze, in tutto o in parte non tassati per evitare duplicazioni tra la tassazione delle società e quella dei soci, vedi infra par. 7.17) oppure per ragioni agevolative. Concettualmente, il sistema appena indicato consentirebbe di apportare qualsiasi variazione, derivante dai criteri fiscali di valutazione, al bilancio civile; la suddetta tecnica delle variazioni in aumento e in diminuzione consentirebbe di usare ai fini civilistici determinati criteri, e usarne altri ai fini fiscali, in reciproca autonomia dei rispettivi criteri valutativi. Nella confusione sociale sull’idea stessa di azienda (paragrafo 3.1) diffidenze e sospetti dilagano, e non è chiara la differenza del patologico falso in bilancio rispetto alla divergenza tra valutazioni civilistiche e fiscali. Ne è derivato il divieto di dedurre fiscalmente elementi negativi di reddito non previamente imputati al conto dei profitti e delle perdite (art. 109 comma 4 TUIR); chi volesse quindi avvalersi di deduzioni “valutative”, ammesse dalla norma fiscale, dovrebbe imputarle anche al conto economico, con un «inquinamento» del bilancio civilistico, rischi di impugnativa del bilancio da parte di altri interessati, etc... Ulteriore implicazione è la rilevanza, anche fiscale, delle rivalutazioni delle rimanenze di merci e di titoli, effettuate in bilancio. Sono vincoli facilmente rispettabili per le società non esposte a impugnative di bilancio da parte di soci di minoranza, mentre le grandi strutture amministrative, soprattutto quotate in borsa, sono costrette a scegliere tra la convenienza fiscale e una corretta esposizione in bilancio degli elementi valutativi. È un ulteriore inutile stress, a danno dell’istituzionalizzazione delle aziende, di un ambiente sociale economicamente arretrato. Un equilibrio soddisfacente tra i profili appena accennati non sarà certamente trovato in tempi rapidi, ma da alcuni anni sembrano intravedersi, in un clima di confusione, timide aperture verso una rilevanza fiscale delle valutazioni fatte ai fini civilistici dalle società quotate in borsa, dalle banche o dalle assicurazioni tenute ad applicare i cd. principi contabili internazionali (IAS: International Accounting standards); si tratta infatti di strutture affidabili, non solo perché spersonalizzate, ma perché i dirigenti che le conducono sono valutati dal mercato in base al bilancio, e preferiscono rinunciare a una convenienza tributaria piuttosto che peggiorare la loro immagine di bilancio. Per questo è stata data una certa rilevanza anche fiscale ai principi contabili internazionali per le valutazioni di bilancio delle società quotate in borsa e di quelle bancarie e finanziarie, secondo un intreccio complesso, dove però –in buona 232 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata sostanza – gli uffici tributari reinterpretano i principi contabili per formulare prolisse, evanescenti ed inutili contestazioni interpretative (par. 5.18). Ai paragrafi successivi esporremo alcune possibili convergenze e divergenze valutative tra criteri civilistici e tributari, relativamente ad alcune importanti poste di bilancio. 7.15.Le valutazioni del patrimonio di fine esercizio 1) ammortamenti e accantonamenti Abbiamo già parlato al paragrafo 7.12 della “competenza esterna”, cioè dell’imputazione a periodo degli elementi reddituali relativi ai rapporti giuridici con terzi, acquirenti o fornitori di beni o servizi. Per determinare il reddito imponibile bisogna però anche valutare gli elementi patrimoniali attivi e passivi per i quali, nel periodo d’imposta di riferimento sono mancati rapporti con terzi, che non riguardano rapporti giuridici con altri soggetti. Qualcuno definisce correttamente queste valutazioni come “competenza interna” o più propriamente “valutazione del patrimonio aziendale”. Gli ammortamenti riguardano l’imputazione al periodo di imposta di quote costi in precedenza coi fornitori esterni, per beni strumentali utilizzabili in una pluralità di anni. Il costo dei beni patrimoniali “strumentali”, come gli impianti e i macchinari, viene così dedotto “pro quota” attraverso aliquote percentuali, stabilite con regolamento per settore economico e tipo di bene; il minor ammortamento derivante dall’adozione di un’aliquota inferiore può essere recuperato, conformemente al principio di continuità dei valori fiscali, alla fine del periodo di ammortamento corrispondente alle aliquote ordinarie. Le quote d’ammortamento sono calcolate cespite per cespite per gli immobili o i mobili iscritti in pubblici registri, mentre gli altri beni sono raggruppati per categorie omogenee in base all’anno di acquisizione e all’aliquota applicabile. È un compromesso tra precisione e semplicità, alla quale si viene incontro anche con la facoltà di dedurre immediatamente, senza ammortamento, le spese per acquistare beni di costo unitario non superiore a 516 euro. I beni immateriali, come i diritti di brevetto, di marchio, etc., sono invece ammortizzabili in base alla durata di utilizzazione prevista dalla legge (brevetti) o dal contratto (art. 103 TUIR). I costi pluriennali si distinguono dai beni immateriali perché a fronte di essi non esiste alcun bene o diritto provvisto di un proprio valore di mercato e quindi suscettibile di essere alienato a terzi. Basta pensare alle spese di pubblicità, di ricerca e sviluppo, di formazione del personale, che è consentito non dedurre immediatamente, ma “suddividere” nell’arco di una pluralità di esercizi. Un esempio particolare di costo pluriennale, che non ha “in sé” valore intrinseco (come gli altri sopra indicati), ma che aumenta il valore intrinseco di altri beni, sono le spese di manutenzione. Anche l’avviamento (par. 7.13), sebbene sia regolamentato nell’ambito dei beni immateriali (art. 103 comma 3), costituisce un costo pluriennale secondo i criteri suddetti. Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 233 Gli accantonamenti riguardano l’anticipazione al periodo di imposta di costi destinati a manifestarsi in futuro. Il funzionamento contabile degli accantonamenti è il medesimo già mostrato a proposito dell’ammortamento: la quota di accantonamento costituisce una componente negativa del reddito e il fondo di accantonamento viene costituito nella contabilità. Alla base dell’accantonamento c’è un elemento previsionale e fortemente opinabile, perché si riferisce a costi ancora da sostenere, a differenza dell’ammortamento, riferito invece a costi già sostenuti.; c’è quindi una certa diffidenza del fisco verso gli accantonamenti, fiscalmente deducibili solo in casi tassativi ed in percentuali limitate, come per le perdite su crediti (art. 106), ovvero quando sostanzialmente dietro di essi c’è un debito già maturato, anche se non esigibile, come accade per il TFR dei dipendenti (art. 105 TUIR), o una prestazione da svolgere in futuro, come per le “riserve tecniche” delle imprese di assicurazioni. 7.16.Le valutazioni di fine esercizio: 2) rimanenze di beni e servizi La valutazione del patrimonio aziendale non riguarda solo gli elementi esposti “a patrimonio” (trattati al par. precedente), ma anche quelli esposti “a costi ricavi e rimanenze”, sempre secondo le distinzioni di cui al precedente paragrafo 7.13. Le rimanenze servono a rettificare, a fine esercizio, le registrazioni dei ricavi e dei costi relativi a merci, materie prime e prodotti finiti, effettuate senza rilevare nella contabilità generale, per i già indicati motivi di semplicità, i corrispondenti aumenti delle scorte (per i costi) ovvero le loro diminuzioni, per i ricavi. La determinazione del reddito ha quindi bisogno di essere aggiustata al termine dell’esercizio, il che avviene valorizzando le rimanenze finali. Senza questo aggiustamento, il reddito dei periodi in cui si accumulano le rimanenze verrebbe depresso a favore del reddito dei periodi in cui i beni vengono venduti: poco male se si tratta di piccoli commercianti o artigiani, dove il calcolo delle rimanenze è spesso secondario, e finalizzato soprattutto a verificare la credibilità dei ricavi registrati. Col crescere delle dimensioni aziendali, e quindi delle rimanenze, la loro valutazione corretta diventa importante ai fini dell’utile di esercizio e dell’imponibile fiscale. Proprio per la loro importanza, e continuità, i movimenti di magazzino non sono registrati nella contabilità generale, ma nella “contabilità di magazzino”; si tratta di una registrazione cronologica, tenuta a quantità (non a valore), prevista per tutte le imprese di una certa dimensione e comunque importante ai fini gestionali; questa contabilità è una forma di “partita semplice” che registra i “carichi” e gli “scarichi” di merce, ad esempio per vendite o prelievi destinati alla produzione. Da queste scritture emergono quindi sempre, durante tutto il corso dell’anno, le “giacenze teoriche di magazzino“, chiamate anche “inventario contabile”; queste risultanze sono oggetto di verifiche a campione attraverso «inventari fisici», cioè materiali conteggi di tipologie di merci in giacenza. È un monitoraggio che si svolge in corso d’anno, ma che si concentra a fine esercizio, per la valorizzazione in bilancio delle 234 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata rimanenze. L’“inventario contabile”, potrebbe essere viziato da distruzioni, furti, carichi o scarichi a magazzino non registrati per dimenticanza. A tal fine occorre prima di tutto individuare i beni in rimanenza, valorizzati per “categorie omogenee”, gestite in modo ripetitivo, come ad esempio le lavatrici prodotte da una industria di elettrodomestici saranno distinte dai frigoriferi, dagli scaldabagno e simili, in distinte categorie omogenee. Anche per la valutazione fiscale delle rimanenze il punto di riferimento è “il costo”. Dato che si tratta di beni acquistati o prodotti in serie, in modo continuativo, con un ricambio continuo e costi variabili, occorre anche decidere “a quale costo” valorizzarli; per i beni prodotti in serie non avrebbe infatti, senso economico, determinare lo specifico costo effettivo dei beni fisicamente in rimanenza. Si useranno quindi i costi medi di periodo, calcolati tenendo conto dei costi delle materie prime, del lavoro, dei macchinari industriali, in genere secondo una apposita contabilità dei costi (detta anche “contabilità industriale”, elaborata da ogni azienda secondo le sue particolarità produttive). Se i prezzi dei fattori produttivi mutano nel tempo, la convenzione più precisa è valorizzare le merci in rimanenza secondo i costi più recenti, con metodo c.d. FIFO. Un diverso criterio, più prudenziale in periodi di inflazione, è invece quello di valorizzare le merci ai costi più vecchi (c.d. “LIFO” per cui valgono – mutatis mutandis – le riflessioni svolte nella nota che precede). Possono così formarsi stratificazioni di valori per anni di formazione, in quanto queste determinazioni dei costi medi sono svolte per periodi annuali (art. 92 TUIR). La svalutazione delle rimanenze è ammessa quando il prezzo di mercato scende al di sotto del costo; in questo caso l’intera categoria omogenea può essere valutata in base al prezzo di mercato, comprese le stratificazioni annuali per cui ciò dovesse comportare una rivalutazione, anziché una svalutazione. Le decisioni di svalutare o meno possono essere effettuate per “categoria omogenea” di beni in rimanenza, secondo le convenienze gestionali, senza essere tenuti a svalutare “tutte” le categorie per cui ne sussistano i presupposti. Secondo le regole delle “valutazioni patrimoniali”, anche le rimanenze non devono necessariamente essere svalutate quando ne ricorrono per la prima volta i presupposti, ma anche successivamente, fino a che questi presupposti restano. Non si valutano solo i beni, ma anche i servizi. I servizi in corso di esecuzione al termine dell’esercizio, benché vi sia un committente e un prezzo contrattuale (si pensi a servizi di manutenzione, ristrutturazione, etc.) sono valutati in base ai costi sostenuti (art. 92 comma 6). Se invece la prestazione ha un tempo di esecuzione ultrannuale diventa rilevante il prezzo contrattuale, e deve essere valutata (art. 93 TUIR) in base alla quota parte di corrispettivi pattuiti proporzionale ai lavori già svolti. 7.17.Coordinamento tra tassazione delle società e dei soci Mentre l’impresa individuale contiene prevalentemente attività di “lavoro indipendente”, al massimo con alcuni collaboratori, le organizzazioni aziendali si trovano Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 235 in genere all’interno di società; solitamente si tratta di società “di capitali”, più raramente “di persone”. Mentre il reddito delle imprese individuali è tassato immediatamente in capo al relativo titolare, la diversità soggettiva tra società e soci pone problemi di coordinamento. Lo stesso reddito, infatti, può essere osservato da angolazioni diverse, in momenti diversi, in capo alla società e in capo al socio. Occorre quindi un coordinamento tra questi due punti di osservazione di una ricchezza economicamente identica, che si presenta varie volte, sotto forme giuridiche diverse; dapprima il reddito della società, poi i dividendi o gli utili o perdite da cessione della partecipazione (plusvalenze o minusvalenze). In base al principio di neutralità della tassazione rispetto alle forme giuridiche, occorre un coordinamento per evitare che uno stesso flusso reddituale venga tassato varie volte, solo perché prodotto in forma societaria e non in forma individuale (si pensi ai casi di “soci intermedi” prima di quelli finali); la tassazione in base alla ricchezza verrebbe distorta dando rilevanza a un profilo esclusivamente giuridico-formale, come l’esercizio dell’attività in forma individuale o societaria (violazione del principio di neutralità). Anche senza uniformare con precisione ragionieristica la tassazione su queste due forme giuridiche di esercizio dell’attività, un qualche coordinamento è concettualmente necessario, e di fatto esiste in quasi tutti i paesi del mondo. Alcuni paesi legittimano un qualche aggravio di tassazione, per le attività esercitate in forma societaria, giustificandolo in base alle maggiori possibilità di raccogliere capitali, accedere al credito, o persino contrastare la formazione di aziende troppo grandi. Per le società di persone, il coordinamento avviene tramite l’imputazione diretta in capo ai soci del reddito della società, indipendentemente dalla sua effettiva distribuzione; i soci di società di persone sono insomma trattati come imprenditori individuali “saltando” la società. I redditi vengono imputati in base alle quote di partecipazione, indipendentemente dall’effettiva distribuzione e nella stessa proporzione si imputano le perdite, le ritenute d’acconto, etc. (art. 5 TUIR). Naturalmente poi l’effettiva percezione dei dividendi è fiscalmente irrilevante in quanto la tassazione era già avvenuta in precedenza. Lo stesso criterio opera per i redditi attribuiti ai collaboratori familiari di imprese individuali: la tassazione di tali redditi è quindi trasferita dall’imprenditore al “parente collaboratore”, circostanza di cui occorre tener conto prima di valutare la congruità dei redditi di impresa dichiarati da piccoli commercianti e artigiani. “Saltare la società” è invece più difficile per le società di capitali, dove al massimo può essere consentito, in via opzionale, qualora i soci siano pochi. In genere il coordinamento si basa su due livelli di tassazione, la cui somma dovrebbe grossomodo corrispondere alla tassazione della persona fisica, con le aliquote IRPEF più elevate (par. 9.4). Una prima tassazione avviene in capo alla società, al momento della produzione del reddito, ed una in capo al “socio finale” (di solito una persona fisica) al momento della distribuzione. La ragione di una tendenza, con la somma delle due tassazioni, verso l’aliquota massima dell’imposta personale (IRPEF) è che tale aliquota massima scatta abbastanza 236 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata presto, considerando che i soci sono uomini d’affari abbastanza facoltosi. La tecnica è di tassare l’istituzione societaria alla produzione del reddito, e quindi in caso di distribuzione anche il socio. L’imposta sulle società (IRES) è del 27 percento, mentre l’IRPEF in capo ai soci con percentuali elevate di controllo è applicata solo sulla metà del dividendo, per tener conto della precedente tassazione in capo alla società. Se la percentuale di partecipazione è piccola, si applica l’imposta sostitutiva del 20 percento su tutto il dividendo. Se i soci sono altre società, prima di arrivare alla persona fisica finale, il dividendo viene escluso da tassazione, salvo un 5 percento, che resta imponibile per compensare idealmente la deduzione fiscale, da parte della società socia, dei costi relativi alla gestione della partecipazione. Le suddette esigenze di coordinamento investono, come già rilevato, anche le plusvalenze/ minusvalenze su partecipazioni che sono state rese fiscalmente irrilevanti ove realizzate da società. Minusvalenze e plusvalenze sono quindi fiscalmente indeducibili e intassabili (art. 87 TUIR). In questo modo si impedisce la trasmissione di costi dai soci (magari persone fisiche o società non residenti, quindi a bassa fiscalità) alle società, con connessi arbitraggi fiscali (è un caso di corrispondenze intersoggettive di cui al paragrafo 3.11). Esiste però l’eccezione di un regime parallelo, per alcune categorie di partecipazioni, costituenti mero investimento finanziario (in genere di borsa), o detenute per breve periodo, o in società senza impresa, per cui vale la regola opposta, di imponibilità delle plusvalenze e deducibilità delle minusvalenze; è una sorta di doppio regime di circolazione delle partecipazioni, concettualmente ambizioso, sulle cui complessità non ci possiamo dilungare in questa sede. All’interno dei gruppi societari, una volta rese indeducibili le minusvalenze su partecipazioni, le perdite delle società controllate possono essere attribuite alle società capogruppo solo col c.d. “consolidato fiscale”; non è un bilancio consolidato vero e proprio, ma un istituto di diritto amministrativo, basato sulla «somma algebrica» di redditi e di perdite, risultanti dalle dichiarazioni fiscali delle società che vi partecipano; ciascuna società continua a determinare i propri redditi o le proprie perdite per proprio conto, e quindi li trasferisce alla controllante, che procede al calcolo di un’unica base imponibile di gruppo, e al versamento di un’unica imposta. Dove manca il controllo, analogo trasferimento delle perdite è possibile attraverso la c.d. “trasparenza fiscale” delle società di capitali, analoga a quella descritta sopra per le società di persone. Questi meccanismi per evitare doppie imposizioni dovrebbero funzionare anche in sede di accertamento di ricchezza non registrata, acquisita direttamente dai soci, e quindi tassabile prima in capo alla società e poi in capo ai percettori; qui però il criterio è diverso, e si basa sullo scomputo dell’imposta accertata e pagata dalla società dal reddito accertato ai soci; dall’art. 67 del decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi si desume lo scomputo delle somme pagate dalla società da quelle dovute dai soci (ciò si verifica nelle società “a ristretta base azionaria”). Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 237 7.18.I criteri di collegamento della ricchezza al territorio nazionale Al paragrafo 3.11 ci siamo già occupati, a proposito della ricchezza non registrata, di rapporti internazionali, cui ora guarderemo come regime di ricchezza palese. Quest’ultima può rientrare, in base alle norme interne di vari stati, nella sovranità fiscale (tax jurisdiction) di più di uno di essi. Ne derivano regole di coordinamento, per evitare la doppia tassazione, di cui qualche volta si può abusare (par. 3.10) per giungere a sostanziali mancanze di tassazione. Tutte le imposte hanno dei criteri di collegamento tra territorio statale e manifestazione di ricchezza, che rendono quest’ultima rilevante ai fini della tassazione. Si pensi al luogo di effettuazione del consumo, per l’IVA o le imposte di fabbricazione, o all’ubicazione di un immobile per una imposta fondiaria, o al luogo di redazione di un contratto per una imposta sugli atti giuridici. Per le imposte sui redditi, il criterio di collegamento territoriale di partenza sarebbe concettualmente il luogo di produzione del reddito. L’esempio più frequente per gli operatori economici è il luogo di esercizio di una attività.Tuttavia con questo criterio concorre quello di tassare i residenti per i redditi ovunque prodotti, denominato correntemente «Worldwide income taxation»; i non residenti sono tassati solo per i già indicati redditi prodotti nel territorio statale. Norme interne e trattati internazionali evitano che i produttori di reddito in un paese, diverso da quello in cui risiedono, subiscano una doppia tassazione; questi criteri conducono in genere ad un livello complessivo di tassazione pari al più elevato dei due paesi coinvolti. Questo avviene consentendo di detrarre le imposte pagate nel paese della produzione del reddito da quelle dovute nel paese della residenza del percettore. Quando, invece del criterio del credito di imposta, viene usato quello dell’esenzione, l’intreccio tra gli strumenti per evitare la doppia imposizione può sortire l’effetto contrario della “doppia esenzione”, quando la manifestazione di ricchezza è considerata in modi diversi nei due stati coinvolti; questo avviene per lo sfasamento tra i criteri interpretativi utilizzati dai due stati, ciascuno dei quali si astiene da tassazione nel presupposto erroneo che questa spetti all’altro stato. I criteri di collegamento per i redditi dei non residenti dipendono dal tipo di cespite (ad esempio l’ubicazione di un immobile affittato) e saranno indicati nei successivi paragrafi sulle rispettive categorie reddituali. Qui indichiamo, per le imprese, la regola, tendenzialmente comune a tutti i paesi sviluppati, secondo cui si considera prodotto nel territorio il reddito facente capo a una sede secondaria, una c.d. “stabile organizzazione” nel territorio statale, cioè una struttura di fatto, giuridicamente appartenente allo stesso soggetto estero; la configurabilità di una simile struttura va esaminata caso per caso in base ai beni materiali, al personale e ai rapporti giuridici con cui l’impresa non residente esercita l’attività in Italia. Non apriamo enormi, e inutili, parentesi su un concetto da verificare caso per caso, essendo intuitivo che non configura stabile organizzazione la mera vendita di beni in Italia o la prestazione di servizi, che non richiedano installazioni durevoli; è invece importante il concetto secondo cui la stabile organizzazione, pur essendo una parte dell’impresa estera, deve 238 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata determinare separatamente il suo reddito ai fini italiani, come se fosse un terzo rispetto al resto dell’azienda. La c.d. esterovestizione è balzata agli onori delle cronache per la tendenza, da parte di sportivi, attori, cantanti, scrittori e altri percettori di redditi di fonte estera, a prendere la residenza in stati a bassa fiscalità, in modo da evitare la forte tassazione nel paese di residenza dei redditi di fonte estera. Per le persone fisiche è facile rilevare una contraddizione tra iscrizioni anagrafiche e situazione reale, mentre per le società, che comunque sono “entità legali”, senza fisicità né affetti, il discorso è diverso. La società è una “persona giuridica”, riconosciuta dalle leggi di un determinato stato, in cui si incardina, e da cui sono regolamentati i conflitti tra i soci ed i rapporti con i terzi. Appare quindi forzato spostare la residenza fiscale delle società come si fa per le persone fisiche; sarebbe più logico disconoscere i vantaggi fiscali indebiti, collegati all’utilizzazione di società estere; ad esempio considerando la società come un interposto fittizio, come accade per tante società di paradisi fiscali che praticamente si acquistano su internet; in caso di società “effettive” si può utilizzare la clausola generale dell’abuso del diritto (elusione), (par. 3.10). Si tratta comunque, anche qui, di un caso classico di reinterpretazione fiscale di ricchezza palese (evasione interpretativa). 7.19.Segue: simmetrie fiscali e rapporti internazionali, concorrenza fiscale dannosa, transfer price, cfr. Le correlazioni tra soggetti diversi indicate al paragrafo 3.9 operano in prima battuta anche rispetto a controparti ubicate all’estero, che altrimenti sarebbero discriminate negativamente. Quindi in linea di principio i costi devono essere riconosciuti anche se ad essi corrisponde il ricavo di un soggetto estero; una diversa soluzione violerebbe tra l’altro il principio comunitario di non discriminazione, di cui al paragrafo 2.6, vigente anche in altri rapporti internazionali; le parziali esenzioni dei soci, a fronte di potenziali tassazioni della società (paragrafo 7.17), operano anche se quest’ultima è estera. Tutti i paesi contengono però cautele contro l’abuso di queste differenze di regime fiscale, specie in un mondo globalizzato, per delocalizzare gli imponibili ed evitare ogni tassazione. In un mondo in cui le merci, i capitali, le imprese e le persone circolano con una facilità molto maggiore di quella con cui possono circolare i controlli, operare con l’estero consente quindi di creare ricavi esteri a fronte di costi italiani, specie per le prestazioni a maggior valore aggiunto e facilmente “delocalizzabili”; si pensi all’uso di marchi, provvigioni, finanziamenti, etc.; abbiamo già esaminato i casi in cui la controparte si presenta come apparentemente indipendente, ma in concreto è complice della controparte nazionale, a danno del fisco secondo il già indicato schema del “finto cinese” (paragrafo 3.7, anche a proposito dei costi erogati a beneficiari di paradisi fiscali). La differenza di regimi e di aliquote fiscali tra i paesi dell’unione, grazie alla libertà di stabilimento, consente una “concorrenza fiscale”, che può essere legittima se svolta con provvedimenti generalizzati, relativi anche ai residenti del paese, e quindi tenden- Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 239 ti a diminuire indiscriminatamente il prelievo fiscale. La concorrenza fiscale è invece “dannosa” se finalizzata a distorcere l’allocazione degli investimenti internazionali con agevolazioni mirate solo agli stranieri. Questo accade soprattutto da parte degli stati comunitari più piccoli, con minori esigenze di finanza pubblica e maggiore flessibilità amministrativa nei rapporti tributari. Al riguardo è vietato agli stati membri vanificare le aliquote generali miti, presenti in un paese, imponendo la tassazione degli stessi redditi nel paese della capogruppo (sentenza Cadbury Schweppes-2006). Restano aree in cui le simmetrie tipiche della ricchezza registrata e gli arbitraggi fiscali (paragrafo 3.12) consentono, attraverso società comunitarie, di esternalizzare ricavi verso altri stati europei, oppure “importare” costi corrispondenti a ricavi realizzati in altri paesi europei. Non si tratta certo delle catene di montaggio o degli stabilimenti industriali, ma di alcune funzioni finanziarie, commerciali, di ricerca, etc., facilmente delocalizzabili, costruendo i fatti anche in funzione della convenienza fiscale (cfr. paragrafi 3.10). Non ci dilunghiamo, in quanto troppo tecniche, sulle parità di trattamento tra soggetti interni, comunitari ed esteri, con cui devono essere conciliate, in base a vari principi di non discriminazione (par. 2.6), le simmetrie interne al medesimo ordinamento tributario (par. 3.9-3.12), dirette ad evitare la doppia imposizione e le doppie deduzioni. Al par. 2.6 abbiamo indicato il divieto comunitario di attrarre aziende non residenti concedendo loro regimi fiscali di vantaggio; questo divieto è superabile costruendo regimi generali, cioè applicabili anche all’interno del paese, ma di fatto –per il settore o la tipologia – prevalentemente applicabili a soggetti non residenti, in quanto –ad esempio – sul piano effettuale mancano aziende residenti; per Lussemburgo, Malta o Cipro, la perdita di gettito di una mitigazione generale dell’imposta sulle società è ben poca cosa rispetto all’attrazione di investimenti esteri, anche se diversi dagli stabilimenti industriali. Per paesi di maggiori dimensioni, con attività industriali (ad esempio Olanda), la tassazione può essere spostata dalla società ai soci, chiamati a pagare, se residenti, imposte personali elevate. Il risultato netto sarebbe però quello di attrarre investitori esteri, esclusi dal prelievo al momento della distribuzione dei dividendi, in quanto residenti all’estero (par. 7.17 sul coordinamento società-soci). L’obiettivo è comunque attrarre i contribuenti “mobili”, senza perdere gettito da quelli “stanziali”, e viene raggiunto spesso dalle amministrazioni estere in accordi personalizzati con singoli contribuenti esteri, la cui componente agevolativa, di vantaggio a scapito del paese in cui il contribuente è radicato, è meno visibile (si pensi ai c.d. “ruling” olandesi o lussemburghesi). Le manipolazioni dei corrispettivi per nascondere ricchezza al fisco sono state già descritte ai paragrafi 3.7 e 3.11; in quella sede abbiamo parlato dell’utilizzazione dei prezzi tra parti correlate, per canalizzare i flussi di ricchezza nel modo fiscalmente più conveniente; l’uso di società falsamente indipendenti (par. 3.7) appartiene alla ricchezza non registrata, ma all’interno dei gruppi multinazionali, fortemente spersonalizzati e managerializzati, il corrispettivo palese può essere determinato anche in funzione di una logica di gruppo, diversamente da quanto accadrebbe tra imprese indipendenti. Se riflettiamo meglio, quando varie società fanno parte di un gruppo 240 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata multinazionale unico, sono articolazioni diverse di una stessa impresa (economicamente una azienda unica a livello mondiale), come sarebbe se nei vari paesi esistessero sedi secondarie, entità materialmente diverse di uno stesso soggetto giuridico. È solo per praticità operativa che si preferisce operare, in genere, con una o più società per ogni nazione, ma l’impresa multinazionale considera se stessa come “unica”. Il corrispettivo tra società appartenenti allo stesso gruppo non esprime un genuino contrasto di interessi, e la normativa di tutti i paesi sviluppati prevede quindi che i rapporti con società controllate estere debbano essere valorizzati non già in base al corrispettivo, ma al valore normale della prestazione sottostante, qualora ne derivi un aumento del reddito imponibile. Il correttivo non riguarda le società del gruppo situate all’interno dello stato, perché si presuppone che i relativi elementi reddituali di segno opposto si compensino. È una disposizione di cautela fiscale, che scatta anche quando l’adozione di un corrispettivo diverso dal valore normale è dettata da ragioni finanziarie, commerciali o comunque extrafiscali, ed anche quando la controparte risiede in un paese con aliquote fiscali maggiori delle nostre (e quindi l’operazione, complessivamente considerata, è priva di qualsiasi convenienza fiscale). Ripetiamo che nulla è nascosto al fisco, perché si tratta solo di una questione di “fatto valutativo”(par. 5.8), molto simile all’evasione interpretativa”; anzi –se tutti i criteri per la determinazione del prezzo tra aziende appartenenti al gruppo sono descritti “ex ante” – è esclusa persino l’applicazione di sanzioni amministrative. Qualche volta il calcolo del valore normale da parte dell’ufficio tributario di una nazione, può risultare eccessivo per l’ufficio tributario dello stato dove ha sede la controparte. Concettualmente quindi nasce un confitto di sovranità impositiva tra stati, a fronte del quale molte convenzioni contro le doppie imposizioni prevedono accordi amministrativi tra gli uffici tributari dei due paesi. Per eludere le regole appena indicate potrebbero essere interposte società appartenenti a soggetti terzi, occultando il collegamento infragruppo. È uno schema concettuale (“triangolazione” o operazioni conduit) tendente ad “opacizzare” l’effettiva controparte, ricorrente anche nelle operazioni verso i soci, verso paesi “a fiscalità privilegiata” o società del gruppo; in tutti questi casi è possibile interporre una società intermedia (denominata “conduit”) che nasconde la reale natura o la reale ubicazione territoriale del fornitore; ne abbiamo parlato al par. 3.11 per i costi verso paradisi fiscali. Nei bilanci del destinatario finale, i verificatori fiscali non troveranno alcun riferimento a paradisi fiscali o a società in qualche modo sospettabili, perché “correlate”, mascherate dietro un fornitore di tutto rispetto, che presta solo la propria immagine, ignorando (o potendo sostenere di ignorare) le ragioni del suo intervento. Sempre sul piano della “ricchezza registrata” si pone l’imputazione “per trasparenza” al socio italiano dei redditi di società da lui controllate, situate in paesi a regime fiscale privilegiato (paradisi fiscali), infrangendo lo schermo societario (articoli 167 e 168 del TUIR); ciò avviene solo per i redditi “passivi”, cioè facilmente delocalizzabili; ad esempio interessi, dividendi, canoni di licenza commerciale, ed altri facilmente “mobili”: si tiene conto, in detrazione, dell’imposta eventualmente applicata dallo stato in cui risiede la società; è il cosiddetto regime CFC, controlled foreign companies, le cui Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 241 connessioni coi criteri di coordinamento tributario “società-soci” (par. 7.17) sarebbero un ottimo approfondimento. Al par. 3.7 abbiamo già anticipato il rischio di interposizioni fraudolente, rispetto agli effettivi clienti e fornitori esteri, di società riconducibili alle persone fisiche titolari dell’azienda. Una reazione legislativa (art. 110 tuir) assoggetta quindi a una serie di limiti e condizioni la deduzione dei costi sostenuti nei confronti di fornitori residenti in paesi a bassa fiscalità (c.d. black list). La norma fronteggia una possibile parziale retrocessione “in nero” del corrispettivo a terzi, inserendosi nel quadro della “ricchezza non registrata”; la disposizione è insufficiente prima di tutto quando l’interposizione avviene dal lato dei ricavi, nei modi indicati in nota. Il cliente italiano può essere del tutto estraneo ad un’interposizione realizzata dal proprio fornitore, per evadere il fisco del proprio paese. Anche qui, il bilancio della norma è più la creazione di inutili grattacapi su situazioni innocue, che di contrasto a comportamenti fiscalmente insidiosi. 7.20.Realizzo e neutralità nelle operazioni straordinarie d’impresa Le cosiddette «operazioni straordinarie» o di riorganizzazione aziendale, come le cessioni e i conferimenti d’azienda, la cessione di partecipazioni di controllo, le fusioni, le scissioni, sono profondamente diverse tra loro sul piano della determinazione tributaristica della ricchezza. I punti di riferimento per classificarle sono essenzialmente la natura “realizzativa” o “neutrale”, dove in entrambi i casi c’è simmetria, ma in modo diverso, come vedremo iniziando dalle operazioni di realizzo. Sul piano contabile-ragionierstico, le operazioni che sicuramente comportano un corrispettivo, come la cessione di azienda contro prezzo, comportano un “realizzo”, un elemento del reddito imponibile. Invece le operazioni in esame non esprimono economicamente alcun consumo finale, e sono per definizione destinate alla circolazione tra operatori economici: per questo la cessione d’azienda, ma anche le altre operazioni straordinarie sono tendenzialmente irrilevanti ai fini IVA, anche quando sono “atti di realizzo” ai fini delle imposte sui redditi. Ai fini delle imposte sui redditi l’operazione potrà generare una plusvalenza o una minusvalenza, a seconda della differenza tra prezzo di vendita e valore fiscale dei vari beni costituenti l’azienda. Il corrispettivo della vendita sarà altresì il punto di partenza cui l’acquirente valorizzerà fiscalmente i beni dell’azienda acquisita, secondo i principi di continuità e simmetria indicati al par. 3.12 e 7.13. La cessione di azienda è uno dei casi in cui viene “realizzato” il differenziale tra valori fiscali di acquisto, incrementati da successive eventuali rivalutazioni, e valore attuale, normalmente misurato dal prezzo di vendita. Emerge così l’“avviamento”(par. 7.13), inteso come maggior valore dell’organizzazione dell’azienda, come “organismo sociale” (par. 3.1) rispetto ai singoli beni, che la compongono. L’acquirente dell’azienda, che riconosce al venditore un corrispettivo globale per l’azienda in funzionamento, acquisisce pochi beni aziendali dotati di valore intrinseco come tali; persino gli immobili industriali, i capannoni, gli impianti, i macchinari, non hanno un vero e proprio mercato 242 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata di riferimento, che si riduce agli immobili civili, e ai terreni edificabili, con un prezzo di mercato per altre utilizzazioni. Per questo il compratore dell’azienda deve in genere registrare una parte del prezzo come “valore di avviamento ”, nei termini indicati al par. 7.13. Una azienda può essere ceduta anche trasferendo la società che la possiede, realizzando anche qui un arricchimento, una monetizzazione, e quindi una potenziale plusvalenza o minusvalenza, a seconda del rapporto tra prezzo di vendita e valore fiscalmente riconosciuto. Queste plusvalenze o minusvalenze possono essere però fiscalmente irrilevanti per via del coordinamento tra tassazione dei soci e delle società, descritto al paragrafo 7.17; a differenza dell’acquirente di una azienda, l’acquirente di una società non può dedurre fiscalmente, in modo diretto o indiretto, il costo dell’acquisto; a parità degli altri fattori, quindi, la cessione della partecipazione, in quanto meno conveniente per il compratore, avverrà ad un prezzo inferiore a quello che sarebbe stato pattuito per l’acquisto diretto dell’azienda In caso di trasformazione, fusione o scissione, invece, considerare realizzate le plusvalenze o le minusvalenze contraddice la determinazione della ricchezza, in quanto in tali casi la società non ha effettuato vendita di alcunché, né vi sono state modifiche ai valori fiscali dei beni sottostanti. La c.d. neutralità di fusioni e scissioni è un normalissimo riflesso delle esigenze concettuali, indicate al paragrafo 3.11, che spingono ad attendere tributariamente il “realizzo” dei redditi, trascurando la loro mera potenzialità, connessa alla “maturazione economica” degli avviamenti e dei plusvalori.Trasformazioni, fusioni e scissioni di società non comportano, neppure in senso meramente contabile, una sostituzione tra “beni” e “denaro” o tra “beni” e “partecipazioni” nei bilanci delle società che vi partecipano; ciò è conforme alla natura delle operazioni in esame, tutte accomunate dal riferimento alla “veste giuridica” del soggetto, coinvolgendo solo indirettamente i beni e i debiti del soggetto stesso. Le varie società si uniscono, nella fusione, o si dividono, nella scissione, ma in base ai vecchi valori fiscali dei relativi patrimoni: cioè “in neutralità”, come ovviamente avviene nelle trasformazioni (dove nessuno si unisce o si divide). La società incorporante, o risultante dalla fusione, oppure le società beneficiarie della scissione, unificano o dividono fiscalmente le proprie voci contabili, utilizzando gli stessi valori che erano riconosciuti in capo a quest’ultima. È un riflesso della possibilità degli enti diversi dalle persone fisiche di unirsi o sdoppiarsi, a differenza delle persone fisiche, cui queste prerogative sono precluse per ovvi motivi biologici (parallelismi eccessivi portano ai soliti equivoci in cui si vedono i gruppi sociali, le aziende o le società in termini antropomorfici, cfr. par. 3.1 ss.). Alcune voci di bilancio, in genere provenienti dall’incorporata, non possono però – dopo la fusione – essere mantenute «come se nulla fosse successo». Si pensi al capitale sociale e alle riserve dell’incorporata, oppure ai crediti e ai debiti reciproci, estinti per confusione, oppure alla partecipazione che l’incorporante deteneva nell’incorporata. Ne emergono differenze di fusione, concettualmente di tipo patrimoniale, e quindi irrilevanti ai fini della tassazione per vari motivi su cui sarebbe qui troppo complesso dilungarsi. Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 243 Nel conferimento in natura, a differenza della cessione di azienda, manca una contropartita economicamente valutabile, in denaro o altro bene avente valore intrinseco; in cambio dei beni conferiti si ricevono infatti quote della società conferitaria, che esprimono sotto altra forma gli stessi beni conferiti; questo spinge a dubitare che il conferimento comporti plusvalenze imponibili in capo al conferente. Non solo il conferimento è infatti negozio associativo più che di scambio, e tra i due soggetti (almeno al momento dell’operazione di conferimento) sussistono vincoli di controllo o collegamento (in genere conferente e conferitaria appartengono al medesimo gruppo di società). Decisiva, ai fini tributari, è sia l’illiquidità della partecipazione ricevuta, sia la sua consistenza meramente partecipativa (dico sempre che non sono beni reali, ma sono “figurine”, espressive degli stessi beni conferiti, mancando una sostanziale commutazione). In un’ottica realizzativa, quindi, la conferente dovrebbe pagare le imposte attingendo a proprie diverse risorse, o indebitandosi, perché la partecipazione ricevuta in cambio del conferimento è in genere “non monetizzabile” né possiede un valore d’uso. Attualmente, per i conferimenti di azienda è ammessa una “neutralità”, mentre i conferimenti di beni singoli danno luogo a realizzo (per questo nessuno li effettua!). Per molti anni, alle operazioni straordinarie si accompagnarono regimi fiscali speciali, come tassazioni sostitutive opzionali, ad aliquota grossomodo pari alla metà di quella dell’imposizione societaria. Le ragioni sono sia la maturazione pluriennale dei plusvalori aziendali, sia lo sfasamento tra l’immediatezza della tassazione per il cedente e la gradualità con cui l’acquirente recupera fiscalmente, attraverso deduzioni, il maggiore valore fiscale conseguito. Al pagamento del tributo si accompagna un maggior valore fiscalmente riconosciuto, e quindi un risparmio di imposta negli anni successivi, attraverso maggiori costi deducibili, secondo le simmetrie fiscali di cui al par. 3.9, applicate ai valori fiscalmente riconosciuti di cui al par. 7.13; lo schema è analogo alle “rivalutazioni volontarie a pagamento indicate al par. 7.13, e comporta l’anticipazione di un tributo oggi per fruire poi di maggiori deduzioni domani. 7.21.Determinazione tributaristica della ricchezza e procedure concorsuali La determinazione tributaristica della ricchezza, dove già si intrecciano spezzoni di materie diverse (par. 4.7), può intrecciarsi col fallimento e le altre procedure concorsuali. Da un punto di vista economico, e di diritto amministrativo, il fallimento e le altre procedure concorsuali non dovrebbero interferire con la determinazione della ricchezza ai fini tributari: il principale riflesso dovrebbe essere il passaggio degli adempimenti dal fallito agli organi della procedura, sotto la vigilanza della magistratura fallimentare. In effetti, nell’IVA accade qualcosa del genere: gli organi della procedura contenziosa vendono i beni d’impresa del fallimento “con IVA”, al netto delle detrazioni sugli acquisti, secondo gli schemi indicati in generale al par. 7.2 ss.. 244 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata Nelle imposte sui redditi, invece, abbiamo un regime conforme alla logica della determinazione tributaristica della ricchezza solo se il dissesto dell’impresa deriva da perdite deducibili e riportabili fiscalmente (par. 9.3). Se la crisi di impresa dipende da eventi economici negativi, le perdite precedenti, riportabili in avanti senza limiti, sarebbero in genere idonee a controbilanciare eventuali redditi prodottisi, ad esempio vendendo beni con elevato valore intrinseco, oppure la stessa azienda, durante il periodo fallimentare. Qualora invece la crisi d’impresa derivi da ammanchi, fatture fittizie e appropriazioni indebite, da parte della tipologia imprenditoriale indicata al par. 3.7, la disciplina normativa appare gravemente carente. Il reddito imponibile del periodo fallimentare è dato dalla differenza tra l’eventuale residuo attivo della procedura e il patrimonio netto risultante dal «bilancio di apertura», trascurando i collegamenti tra bilancio di apertura e situazione precedente. Se quindi una attività patrimoniale scompare perché “distratta” dal titolare, essa non figurerà nel bilancio di apertura e sparirà nella nebbia. Dato che tale residuo attivo in pratica non si verifica quasi mai, il periodo concorsuale non comporta in genere redditi imponibili. Questo meccanismo sembra perciò attribuire piena rilevanza fiscale alle attività e alle passività emerse nel corso della procedura, a nulla influendo la corretta registrazione dei costi o dei ricavi a fronte dei quali i crediti o i debiti erano sorti, ovvero la sorte delle somme a fronte delle quali i debiti erano stati accesi. Si verifica perciò una totale compensazione tra redditi e debiti, che esclude solo gli elementi reddituali derivanti da beni personali dell’imprenditore o dei soci o i pagamenti di debiti personali di tali soggetti. Sul piano della determinazione tributaristica della ricchezza, la situazione del fallito, in questi casi, è la medesima di chi – paradossalmente – si arricchisce indebitando la propria impresa, dirottando poi le relative somme per fini personali, e non restituendo il maltolto ai creditori. Sul piano delle simmetrie nella determinazione ragionieristica della ricchezza (par. 3.9) costui dovrebbe essere tassato, se non altro per controbilanciare la deduzione delle perdite su crediti da parte dei creditori; invece le sopravvenienze attive per eliminazione di debiti, anche da concordato preventivo, non sono imponibili, con una disposizione di dubbia logicità sul piano della determinazione della ricchezza. Le simmetrie del reddito d’impresa vengono in questo modo, inevitabilmente, compromesse, perché il creditore deduce la perdita su crediti, mentre il debitore-fallito non viene tassato sul “venir meno dei debiti”. Una simile disciplina, che sacrifica fortemente la precisione in nome della semplicità, dovrebbe indurre a meditare quantomeno sull’opportunità di introdurre norme antielusive allo scopo di prevenire operazioni architettate ad arte, dove talvolta creditori e debitore appartengono allo stesso gruppo di società, allo scopo di beneficiare dei salti d’imposta che la normativa indubbiamente permette. Sul piano procedurale viene meno, a partire dalla dichiarazione di fallimento, l’autonomia degli ordinari periodi d’imposta annuali, consentendo perciò la compensazione tra redditi e perdite di tutta la fase concorsuale, per lunga che sia. Dall’inizio del periodo d’imposta alla dichiarazione di fallimento si avrà perciò un reddito autonomo, che andrà determinato dal curatore. Capitolo 7 – I REDDITI E I CONSUMI... 245 La determinazione della ricchezza in sede fallimentare è problema diverso da quello di debiti tributari non soddisfatti, relativi a periodi anteriori al fallimento, come IVA e ritenute non versate, nonché tributi propri del soggetto fallito, per cui rinviamo al par. 6.11 sull’“evasione da riscossione”, cioè da mancato pagamento di imposte su ricchezza registrata. Capitolo 8 ATTIVITÀ “NON AZIENDALI”: PROFESSIONI LIBERALI, LAVORO DIPENDENTE, AGRICOLTURA, FABBRICATI, RISPARMIO E ATTI OCCASIONALI Sommario: 8.1. Le modeste specificità rispetto all’impresa del lavoro autonomo “professionale” – 8.2. Ricchezza agricola tra catasto e IVA (tracce di forfettizzazione nella tassazione attraverso le aziende?) – 8.3. Tassazione ragionieristico-documentale del lavoro dipendente – 8.4. Redditi dei fabbricati e fiscalità immobiliare: l’importanza delle segnalazioni dell’inquilino – 8.5. Tassazione attraverso le aziende di redditi di capitale e plusvalenze finanziarie – 8.6. Le principali ipotesi residuali (“redditi diversi”) 8.1. Le modeste specificità rispetto all’impresa del lavoro autonomo “professionale” Il lavoro indipendente, secondo un filo conduttore del testo, è considerato tributariamente “impresa”, quando effettua prestazioni ad elevato contenuto materiale, come trasporti, riparazioni, vigilanza, etc... I servizi intellettuali vengono invece considerati, anche fiscalmente, come attività di “lavoro autonomo”, cioè “artistico o professionale”. I “liberi professionisti” sono quindi fiscalmente considerati “lavoratori autonomi” anche quando l’attività intellettuale può essere esercitata senza iscrizione in albi, elenchi, etc., indipendentemente dall’organizzazione sottostante. I professionisti e gli artisti hanno in genere una modesta organizzazione, anche se non mancano i grandi studi legali, d’ingegneria o notarili, con milioni di euro di fatturato, alto valore aggiunto (par. 7.6) e numeroso personale dipendente, non professionale, ma di supporto. Anche questi grandi studi sono tuttavia ben più piccoli delle grandi aziende per la ragione molto semplice secondo cui qui mancano le economie di scala connesse all’utilizzazione dei macchinari (par. 3.1 sulle aziende); l’attività intellettuale infatti, anche se fornita da grandi strutture, non si presta alle particolari ottimizzazioni tecnologiche, sostitutive del lavoro umano. I compensi erogati ad artisti e professionisti da sostituti di imposta sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di acconto (paragrafo 3.6) che li segnala al fisco, inserendoli in tutto e per tutto nel circuito della tassazione attraverso le aziende. La ritenuta non è prevista invece per i redditi di impresa, sempre per le ragioni indicate nel suddetto paragrafo. Capitolo 8 – ATTIVITÀ “NON AZIENDALI” 247 Quando il cliente è un individuo consumatore finale, come nel settore medico, veterinario, edilizio o dei servizi legali a individui o famiglie (avvocati penalisti o matrimonialisti), mancano i presupposti per la ritenuta, cui si tenta di ovviare col c.d “contrasto di interessi” (par. 9.3); in questi casi le possibilità di evasione sono sostanzialmente analoghe ai piccoli commercianti o artigiani, con forti margini per incassare “in nero” i relativi compensi, anche se le loro prestazioni lasciano maggiori tracce (si pensi alle deleghe legali o alle risultanze formali delle operazioni chirurgiche). Sul punto rinviamo a quanto indicato al paragrafo 5.13 sugli studi di settore. Sul piano economico-sostanziale, le altre differenze di regime tra lavoro autonomo e impresa sono poco significative. Anche la determinazione dei redditi da lavoro autonomo è differenziale (compensi meno spese) come quella dei redditi di impresa, che però segue, nell’imputazione a periodo, il principio di cassa (paragrafo 7.12). Anche questi soggetti sono tenuti alle scritture contabili (in genere inutili, par. 3.13), e all’effettuazione di ritenute alla fonte, come sostituti di imposta. Ai fini IVA le differenze tra queste due tipologie di operatori sono in gran parte venute meno, e segnaliamo solo che gli esoneri dall’emissione della fattura, per i commercianti al minuto, non riguardano in linea di principio i professionisti. Il regime dei beni dei lavoratori autonomi è stato di recente equiparato, nella sostanza, a quello delle imprese, con i suoi criteri di simmetria e continuità (par. 7.13); in genere sono quindi rilevanti anche plusvalenze e minusvalenze su beni immobili strumentali, che però sono ben poca cosa e rappresentano un fenomeno trascurabilerispetto al problema della ricchezza non registrata. Sul piano della territorialità (par. 7.18) sono imponibili in Italia i redditi professionali derivanti da attività ivi esercitate, ma la maggior parte delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni richiedono anche una “base fissa”. 8.2. Ricchezza agricola tra catasto e IVA (tracce di forfettizzazione nella tassazione attraverso le aziende?) Fino all’avvento della produzione di serie attraverso le aziende tecnologiche (par. 1.4 e 3.1) l’agricoltura era l’attività produttiva più diffusa e anche “più visibile”; la ricchezza da lei prodotta era tributariamente visibile in modo fisico, attraverso i campi coltivati o le greggi al pascolo; questa visibilità la esponeva alle richieste del potere tributario, nei termini indicati al par. 1.3. Anche se il grande latifondo spesso poneva in essere registrazioni contabili della produzione ottenuta, raramente la ricchezza agricola poteva essere determinata con i metodi ragionieristico-contabili tipici della tassazione attraverso le aziende. I singoli “coltivatori diretti”, i mezzadri, etc. producevano poco più del necessario al mantenimento degli addetti (agricoltura di sussistenza basata sul lavoro familiare). Inoltre, nonostante eventuali contabilità agricole delle grandi proprietà, questo tipo di ricchezza può essere comunque stimata direttamente – con sufficiente approssimazione – secondo la già indicata valutazione basata sulla tipologia di sfruttamento terriero. 248 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata La ricchezza agricola si prestava bene alla visibilità materiale, basata su nozioni di esperienza comune sull’andamento dei raccolti (abbondanza di piogge, calamità, etc.); già nell’antico Egitto la tassazione considerava l’altezza delle piene del Nilo. Questa stima esteriore della redditività degli immobili venne poi inserita negli elenchi di proprietà fondiarie (di terreni e fabbricati), espressione di attività amministrativa denominata “accatastamento” o “catasto”, diretta a rilevare fiscalmente tutti gli immobili esistenti in un determinato Stato. Il catasto dei terreni ne contiene la descrizione topografica, con l’indicazione della loro appartenenza, del tipo di coltivazione e del reddito medio annuo da essa ritraibile, forfettariamente stimato “una tantum” dagli uffici catastali. La determinazione catastale forfettaria del reddito si sostituisce al reddito effettivo e rende irrilevanti i reali ricavi della coltivazione, come pure le altre componenti positive del reddito comunque connesse all’attività agricola. I catasti della società agricola del settecento fronteggiavano validamente le incertezze della stima diretta, caso per caso, della produzione agricola, con le sperequazioni che possono accompagnarla, anche senza favoritismi e abusi. In un certo senso il catasto rappresentava una di quelle formalizzazioni con cui da sempre la pubblica opinione reagisce alle incertezze di una sistematica e valutativa stima della ricchezza. Inoltre, la tassazione catastale premiava gli agricoltori più produttivi, in quanto l’eccedenza rispetto alla redditività presupposta dal catasto non veniva tassata; inversamente però il catasto penalizzava eventuali agricoltori meno produttivi rispetto alla media suddetta. L’evoluzione dell’impresa viene seguita solo comunicando al catasto eventuali variazioni della coltivazione praticata, ad es. da seminativo a frutteto e lo stesso accade per eventuali perdite per mancata coltivazione ed eventi naturali(come siccità, inondazioni, incendi, grandinate, etc.), nel qual caso – a seconda del tipo di evento – il reddito fondiario viene eliminato o ridotto. La pura coltivazione, essendo in rapporto diretto con il terreno, dà luogo comunque a reddito agrario, anche se effettuata con tecniche moderne o sofisticate come la coltivazione in serra; per le attività accessorie e di allevamento, soglie qualitative e quantitative, legate alla potenzialità del terreno, limitano i criteri forfettari quando gli acquisti, manipolazioni e/o rivendite di merci superano una certa proporzione con quelle ritraibili dal terreno stesso. I pregi della tassazione catastale hanno però bisogno di un raffinato coordinamento con un contesto di tassazione ragionieristico-contabile attraverso le aziende; in un contesto ragionieristico-documentale, ispirato all’“effettività” della ricchezza, appare difficile giustificare la tassazione di attività inefficienti su ricchezza “non effettiva” solo perché attività più efficienti, grazie alle forfetizzazioni, non sono tassate su ricchezza effettiva. In questo contesto, quindi, la determinazione catastale dovrebbe rimanere solo per attività di piccole dimensioni, facili da stimare, dove la contabilità sarebbe inaffidabile e costosa (par. 3.13), mentre l’imprecisione resterebbe poco rilevante, trattandosi di redditi comunque modesti. Tuttavia la difficoltà di gestire una linea di confine ha condotto a un oggettivo lassismo legislativo, ammettendo le imprese individuali e le società Capitolo 8 – ATTIVITÀ “NON AZIENDALI” 249 di persone al regime catastale indipendentemente dai limiti dimensionali, comprese le aziende efficienti e di apprezzabili dimensioni che magari utilizzano sistemi contabili per propri fini gestionali e pagano poi le imposte su redditi catastali irrisori. Ciò finiva per distorcere la forma giuridica dell’azienda, e per questo a partire dal 2006 la determinazione catastale è stata concessa anche alle società di capitali, sia pure in una situazione fluida e altalenante che dovrebbe essere oggetto di approfondimenti. È un altro caso in cui i compromessi tra semplicità e precisione, indicati al par. 1.8, conducono a una contraddittoria irrilevanza fiscale di scritture contabili tenute da grandi aziende agricole, mentre i lavoratori indipendenti sono costretti a una superflua “contabilità fiscale”, come rilevato al par. 3.1.3. A questa forfetizzazione del reddito si accompagna una forfetizzazione della detrazione dell’IVA sugli acquisti, stabilita in misura pari all’imposta applicata sulle vendite (art. 34 d.P.R. 633). Si consente quindi all’agricoltore una rendita IVA qualora – come in genere accade – l’imposta pagata sugli acquisti effettivi sia inferiore a quella determinata forfettariamente. Il “sostegno” all’agricoltura, attraverso forfetizzazioni catastali tarate al ribasso, viene erogato anche ad aziende che non ne hanno bisogno. Si tratta di uno dei casi classici, indicati al par. 1.9, in cui la determinazione della ricchezza viene distorta, un po’ ipocritamente, per finalità agevolative. Inoltre, come indicato al paragrafo 3.7 sulla ricchezza non registrata dalle piccole e medie organizzazioni, la tassazione catastale del fornitore può innescare la richiesta del cliente di “gonfiare i corrispettivi” retrocedendogli “in nero” la differenza; come tutte le forfetizzazioni, insomma, il catasto inceppa le simmetrie della tassazione attraverso le aziende, indicate al par. 3.9.. 8.3. Tassazione ragionieristico-documentale del lavoro dipendente Il lavoro dipendente, nell’era economica delle aziende tecnologiche, è la categoria cui appartiene il numero maggiore di contribuenti, cui per questo corrisponde l’ammontare maggiore di imponibile dichiarato. L’inquadramento in tale categoria dipende dalla qualificazione formale del lavoro, anche se le mansioni sono di grande complessità e svolte in grande autonomia. Anche un direttore generale è un lavoratore dipendente, quand’anche le sue mansioni coincidano in gran parte con quelle di un amministratore delegato. La forma prevale quindi rispetto agli altri possibili inquadramenti di questo flusso di ricchezza ai fini tributari. Quando l’inquadramento esplicito manca, perché la ricchezza è non registrata, torna rilevante la sostanza del rapporto. Anche i lavoratori “non regolarizzati”, c.d. in nero, sono perciò titolari di reddito di lavoro dipendente ed il datore di lavoro rischia, in caso di controllo, le sanzioni per omissione delle ritenute alla fonte (e dei contributi previdenziali). Questa rilevanza della forma sussiste anche per i rapporti oggettivamente di lavoro dipendente formalmente inquadrati come lavoro autonomo, o impresa. Negli ultimi anni infatti, anche per via delle rigidità del mercato 250 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata del lavoro, numerosi rapporti sostanzialmente di lavoro dipendente sono stati formalizzati come lavoro professionale o prestazioni d’impresa. A differenza del suddetto “lavoro nero”, si tratta però di prestazioni fiscalmente “palesi”, diversamente formalizzate, cioè come remunerazioni di impresa o di lavoro autonomo. Gli unici riflessi fiscali in questi casi riguardano le particolari modalità di effettuazione della ritenuta d’acconto sui redditi di lavoro dipendente: fiscalmente si tratta tutto sommato di un “peccato veniale” e questo spiega la rarità di contestazioni di questo tipo da parte degli organi di controllo. Forti aree di evasione si trovano nel lavoro dipendente domestico, alle dipendenze di piccoli commercianti e artigiani, in quello stagionale per la raccolta di prodotti agricoli, nell’edilizia (si pensi ai punti di raccolta di manovali, spesso extracomunitari, che si offrono a giornata la mattina presto, per un pugno di euro). Il reddito di lavoro dipendente è però, come abbiamo visto in tutto il testo, quello che per primo viene regolarizzato con il crescere delle dimensioni aziendali (paragrafo 3.2 e 3.8 sulle retribuzioni “in nero” come forma di “evasione aziendale”). Con la crescita del numero dei dipendenti è infatti sempre più difficile mantenere quei rapporti paternalistici, informali, e “in nero”, di quando il padrone e i pochi dipendenti lavorano fianco a fianco. Il lavoro dipendente è quindi una delle prime aree ad essere “messa in regola” ai fini fiscali e previdenziali, come indicato al par. 3.2. Il rapporto con i dipendenti è spesso il primo in cui l’impresa “diventa grande” e comincia a “lavorare per il fisco”, applicando le ritenute, i contributi etc., anche se in parallelo continua ad occultare incassi o a registrare costi fittizi. Da questi può derivare, come rilevato al par. 3.8 sull’evasione di azienda, l’erogazione occulta (come si dice “fuori busta”) di incentivi, gratifiche o altre elargizioni paternalistiche, da conciliare in qualche modo col resto della gestione aziendale. Con la crescita ulteriore delle dimensioni aziendali, anche questi comportamenti gradualmente diventano ingestibili e sono abbandonati. Di questa collaborazione dell’azienda col fisco fa parte anche la segnalazione delle retribuzioni al fisco (e agli enti previdenziali) da parte del datore di lavoro, secondo una procedura indicata al par. 3.4/3.6; lo strumento è la ritenuta alla fonte, che in questo caso ha la particolarità di essere progressiva, ragguagliando al periodo di paga le aliquote annue IRPEF, e le detrazioni d’imposta. Lo scopo è rendere la ritenuta pari all’imposta definitivamente dovuta dal dipendente senza altri redditi, consentendogli di non presentare alcuna dichiarazione (i suoi dati affluiranno al fisco attraverso la dichiarazione del sostituto d’imposta indicata al par. 3.4). Costituiscono reddito di lavoro dipendente tutte le pensioni, anche se derivanti da precedenti attività diverse dal lavoro dipendente; la loro tassazione si giustifica perché i contributi previdenziali a carico del dipendente e del datore di lavoro, sono esclusi dal reddito (è un altro riflesso di quei collegamenti interpersonali e intertemporali tipici della tassazione attraverso le aziende, indicati al par. 3.9 col nome di “simmetrie fiscali”). In via di principio, il reddito di lavoro dipendente ricomprende tutti i compensi, anche accessori e a titolo di liberalità. Le spese di produzione, pur concepibili (ad es. per il tragitto casa –ufficio) sono irrilevanti fiscalmente, visti i problemi di docu- Capitolo 8 – ATTIVITÀ “NON AZIENDALI” 251 mentazione e controllo cui darebbe luogo una loro deduzione, nel tendenziale accollo della maggior parte dei costi da parte del datore di lavoro. C’è maggiore larghezza per i servizi erogati attraverso il datore di lavoro, in quanto più controllabili, come la mensa, il trasporto collettivo “casa lavoro”, ed i “fringe benefits”, come ad esempio l’auto aziendale, il telefono cellulare, il collegamento a internet, assicurazioni sulla vita, prestiti agevolati etc... I rimborsi spese per trasferte fuori dall’abituale sede di lavoro non riguardano il dipendente, ma il datore di lavoro, e quindi, in base a documentazione specifica o secondo parametri forfettari, non costituiscono reddito. Da quanto precede, appare chiara l’esternalizzazione, sui datori di lavoro, della gestione tributaria dei dipendenti, riprova della determinazione della ricchezza attraverso le aziende, filo conduttore di questo testo. In particolare si intreccia il “favor” di fondo verso i dipendenti su tutti i profili demandabili al datore di lavoro con sufficiente “cautela fiscale” e senza complicazioni eccessive (sono i valori neutri di precisione, certezza, semplicità, cautela erariale indicati al par. 1.9). 8.4. Redditi dei fabbricati e fiscalità immobiliare: l’importanza delle segnalazioni dell’inquilino Avendo già detto dell’impresa agricola, restano da esaminare gli immobili rappresentati da fabbricati, abitativi o commerciali. Gli immobili sono un settore di investimento tradizionale, tipico rifugio di chi abbandonava precedenti attività commerciali, più lucrose, ma anche più rischiose, per investirne i frutti in immobili da mettere, come si dice, “a rendita”; abbiamo visto al paragrafo 7.2 che la rendita fondiaria costituisce una parte del “valore aggiunto” creato dall’attività di impresa. Oggi, vista la crisi dell’agricoltura, questa rendita è soprattutto rappresentata da canoni di locazione, per gli immobili non utilizzati direttamente dal proprietario (peraltro in Italia circa il 75 percento delle famiglie abita in casa di proprietà). A questo assetto economico-sociale corrisponde un catasto fabbricati strutturato grossomodo come quello già descritto per l’agricoltura, con una descrizione degli immobili e l’attribuzione di un parametro chiamato “rendita”; le rendite sono ovviamente molto inferiori ai canoni correnti della locazione, ed è quindi il reddito da locazione a dover essere dichiarato, mentre il valore catastale rileva per altri tributi, come le imposte patrimoniali immobiliari (prima l’ICI, poi l’IMU, cfr. par. 10.9), le imposte di registro, successioni, etc. La tassazione del reddito catastale è rimasta per decenni in IRPEF per i soli immobili sfitti, diversi dalla abitazione principale (con l’IMU è stata invece eliminata anche per tali immobili). Quando la locazione avviene da persone fisiche ad altre persone fisiche, l’occultamento al fisco dei canoni di locazione è molto diffuso, mentre l’evasione si riduce fortemente quando l’affittuario è un ente pubblico, una società o un altro soggetto intenzionato a dedurre il canone e in questo caso il relativo contratto di locazione viene registrato; ciò rileva non solo per il tributo di registro, di cui diremo 252 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata più avanti, ma soprattutto come segnalazione del rapporto principale e viene pretesa una ricevuta dei canoni pagati. Anche in questo caso, secondo i criteri ordinari della tassazione attraverso le aziende, la registrazione tributaria della ricchezza, da parte del fornitore, dipende dall’interesse del cliente a documentare l’esborso ai propri fini amministrativi. Le locazioni abitative “in nero” sembrano comunque molto diffuse, anche per la percezione dello scarso “controllo del territorio” da parte del fisco di fronte all’estrema diffusione e frammentazione della proprietà immobiliare; quando si tratta di piccoli proprietari di uno/due immobili, spesso a basso reddito e per i quali l’evasione ha una notevole utilità marginale, la propensione al rischio è molto alta: la convergenza di interessi verso l’evasione si rafforza poi in tutti i casi in cui dall’affitto di immobili si passa all’affitto di stanze (ad es. a studenti), al bed and breakfast, alle case vacanza, e ad altre forme di rapporto transitorio, occasionale, flessibile, etc., che ha basse probabilità di dar luogo a controversie tra le parti o di essere individuato dal fisco, vista la breve durata. Nel 2011 è stata varata una forma di “contrasto di interessi” tra inquilino e proprietario, per contrastare le locazioni “in nero”, secondo cui in caso di mancata segnalazione al fisco del contratto (e quindi di denuncia del canone), l’inquilino ha avuto diritto a un rapporto locatizio a corrispettivo di favore, pari a tre volte la rendita catastale dell’immobile. Questa “bella trovata” (dichiarata illegittima dalla corte costituzionale nel 2014) non era comunque in grado di rimpiazzare la consueta carenza di intervento degli uffici tributari sulle locazioni urbane tra privati, estraneo come noto alla tassazione attraverso le aziende. Un elemento di affidabilità può invece venire dall’organizzazione amministrativa del locatore, quando si tratta di proprietari “istituzionali” di immobili, come casse di previdenza, fondi immobiliari, società assicurative, enti pubblici. Sono tutti casi in cui la visibilità amministrativocontabile della ricchezza riprende il sopravvento su quella “materiale” dell’immobile e della sua destinazione “di fatto”. Si conferma che la presenza di una azienda o di una istituzione, in veste di proprietario o di inquilino, rende visibile la ricchezza per le relative esigenze di documentazione. Un’altra componente dell’investimento immobiliare, diversa dal reddito consistente nell’affitto, è l’aumento di valore del bene. Quando l’immobile è posseduto da società, tale aumento concorre a formare il reddito di impresa, secondo il principio di onnicomprensività indicato al paragrafo 2.10. Quando si tratta di persone fisiche, vedremo i requisiti di tassabilità delle plusvalenze al successivo par. 8.6. 8.5. Tassazione attraverso le aziende di redditi di capitale e plusvalenze finanziarie Tra i redditi del “capitale finanziario” abbiamo già menzionato i dividendi e le plusvalenze su partecipazioni societarie, esaminati al paragrafo 7.17 a proposito dei correttivi contro la doppia imposizione; se percepiti da persone fisiche essi costituiscono Capitolo 8 – ATTIVITÀ “NON AZIENDALI” 253 reddito di capitale (dividendi) o reddito diverso di natura finanziaria (plusvalenze su partecipazioni societarie). Danno luogo a redditi di capitale (art. 44 Tuir) anche tutti gli interessi “su prestiti”, come conti correnti e depositi bancari, e molte altre forme di crediti concessi a debitori specifici, oppure attraverso titoli obbligazionari, magari quotati sui mercati finanziari. Per quanto riguarda gli interessi su prestiti, l’unico elemento segnaletico a vantaggio del fisco è come al solito, la struttura amministrativa dell’erogante-debitore. Stando alle statistiche dei redditi dichiarati gli interessi verso privati non tenuti a segnalazioni al fisco non sono praticamente mai dichiarati ai fini della tassazione ordinaria irpef; quando il debitore è un privato, un piccolo commerciante o un artigiano, il prestito (che spesso sconfina nel reato di usura ovvero si basa sull’amicizia e la fiducia) è gestito del tutto “in nero”. Quando il debitore è un ente strutturato, il prestito viene formalizzato in modo da fruire della tassazione sostitutiva di cui diremo tra un attimo, sfuggendo all’Irpef. La tassazione dei frutti del risparmio impiegato in investimenti cartolarizzati (azioni, obbligazioni e titoli similari), nonché depositato presso banche, avviene tramite una imposizione sostitutiva, applicata “attraverso le aziende” (filo conduttore di questo libro). Solo attraverso gli intermediari è infatti possibile la tassazione di questi proventi, che non potrebbero né essere inseriti nella base imponibile ordinaria dell’imposta personale (Irpef), né essere sottoposti a imposte sostitutive “di massa”, applicate dagli stessi contribuenti. In genere, infatti, il risparmiatore, non può investire da solo, ma ha necessità di rivolgersi ad un intermediario qualificato che svolge il solito compito di “ausiliario del fisco”, tipico della nostra tassazione esternalizzata sulle strutture aziendali, nel caso di specie le banche, per il cui tramite avvengono investimenti di questo tipo. Di norma, un risparmiatore piccolo o medio preferisce una banca conosciuta, e non se la sente di correre i rischi connessi alla gestione dei propri capitali presso intermediari esteri, che pure gli consentirebbero di evadere le imposte (sono in pochi a profittare delle opportunità dell’internet banking su questi aspetti); per i grandi patrimoni, il discorso è in parte diverso perché il gioco potrebbe valere la candela. Solo in via residuale, come ipotesi di chiusura, in modo da non creare vuoti di imposta, è prevista l’autodeterminazione dell’imposta sostitutiva nella dichiarazione del contribuente. Per i redditi dei titoli in deposito, e per le plusvalenze su di essi, la banca intermediaria applica una imposta sostitutiva, mentre per gli interessi pagati “in proprio” su obbligazioni o depositi, agisce direttamente come sostituto di imposta, secondo i canoni classici di cui al par. 3.6. La banca o la società finanziaria è insomma un mandatario del risparmiatore, e ne amministra gli investimenti: trattandosi di una organizzazione amministrativa complessa e “vigilata”, il fisco si inserisce facilmente in questo rapporto e impone all’intermediario le imposte sostitutive in esame. 254 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata Le aliquote di queste imposte sono sempre state relativamente modeste, partendo da un iniziale 12,5 percento, per salire poi al 20 percento nel 2011, e poi ulteriormente (del 26 percento a inizio 2014). Questa originaria mitezza dell’aliquota non si spiega né con un “favor” verso i redditi finanziari rispetto ai redditi da lavoro, né con la preoccupazione di prevenire le tentazioni di evadere “saltando gli intermediari” e rivolgendosi a intermediari non residenti, grazie alla mobilità dei capitali finanziari. Questa tentazione non scatta certo per i patrimoni piccoli e medi, stante l’ostacolo di perdere il capitale investito affidandolo, per motivi fiscali, a intermediari non degni di fiducia. Queste tentazioni sono ulteriormente ostacolate dal c.d. “monitoraggio fiscale” dei capitali esteri (par. 3.11). La mitezza delle aliquote considerava invece in modo forfettario che, sugli investimenti finanziari, il reddito rappresenta prima di tutto una salvaguardia del capitale investito rispetto alla perdita di valore della moneta. Il capitale investito, infatti, essendo privo di valore intrinseco, a differenza dei patrimoni immobiliari o aziendali, perde automaticamente valore effettivo in proporzione all’inflazione. Un riconoscimento generale dell’inflazione, come indicato al par. 1.8 e al par. 7.13 per le aziende, era però macchinoso, e quindi è stato sostituito da un meccanismo più gestibile. Tendenzialmente infatti, gli interessi sono sempre in linea con l’inflazione, e quindi meritano forfettariamente una aliquota più modesta, che tenga conto della perdita di valore della moneta. La modesta aliquota è però fuori luogo quando si tratta di plusvalenze finanziarie, anche molto più elevate rispetto al tasso di inflazione. Tali plusvalenze finanziarie, che possono eccedere anche di molto l’inflazione, sono guadagni realizzati come differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita di titoli azionari, obbligazionari e altre partecipazioni sociali, anche non quotate in borsa, come pure le quote di Srl e di società di persone etc... Questi «guadagni di capitale» (capital gains), non sono predeterminabili e dipendono dalla capacità degli operatori di anticipare le tendenze del mercato. I guadagni di capitale in questione sono inseriti nei «redditi diversi» (si tratta dei c.d. «redditi diversi di natura finanziaria»), ma soggetti alla stessa tassazione sostitutiva qui in esame. In questo caso, davanti a un reddito “reale” che supera l’inflazione è possibile un inasprimento di aliquota. Non perché sono redditi “speculativi”, ma nella misura in cui sono redditi “effettivi”, cioè “reali” e non solo “monetari”, come quelli “da inflazione”. Con l’aumento dell’aliquota, inasprita ad inizio 2014, appare quindi sempre più difficile equiparare il reddito puramente monetario, che salvaguarda il capitale dall’inflazione, e il reddito reale, che supera l’inflazione. Mentre però i redditi di capitale “da interessi” sono sempre per definizione positivi, le negoziazioni di titoli (acquisto e successiva rivendita) possono dare luogo a risultati negativi: possono cioè derivarne non solo plusvalenze, ma anche minusvalenze. L’imposizione sostitutiva sui redditi finanziari ha quindi eliminato pregiudiziali steccati tra redditi di capitale e «guadagni di capitale», consentendo in alcune ipotesi delle compensazioni delle minusvalenze anche rispetto agli interessi (specialmente in capo ai fondi di investimento o al c.d. “risparmio gestito”). Capitolo 8 – ATTIVITÀ “NON AZIENDALI” 255 8.6. Le principali ipotesi residuali (“redditi diversi”) Nella categoria residuale dei redditi diversi rientrano alcuni arricchimenti concettualmente omogenei a quelli regolati da un’altra categoria di reddito, sprovvisti però di una particolare caratteristica per esservi inclusi; si pensi ai redditi di lavoro “non abituali” (cioè definibili –inversamente – “occasionali”), come prestazioni isolate di lavoro autonomo, insufficienti a far scattare la qualifica di “soggetto IVA”, e quindi di “professionista” o “imprenditore” ai fini tributari. Questo lavoro autonomo occasionale rappresenta il grosso dei redditi diversi, confermando il fondamentale ruolo segnaletico delle ritenute operate dal cliente (vi rientrano mezzo milione di contribuenti mentre l’impresa occasionale, dove la ritenuta non è prevista totalizza solo 20.000 contribuenti circa). Gli altri redditi diversi hanno il già indicato ruolo “di chiusura”, ma non sono frequenti, come i redditi dei beni immobili situati all’estero, inseriti nei redditi diversi in quanto non iscritti in catasto, per via della loro collocazione territoriale. Residuali sono anche i proventi conseguiti fuori dall’esercizio d’impresa, per l’affitto o locazione di veicoli, macchine e altri beni mobili e più in generale per le c.d. “sublocazioni”. Una ampia portata teorica riguarda l’inserimento nei «redditi diversi» di tutti i proventi ricollegabili ad obblighi di «fare» o «tollerare» (art. 67 lett. l). È una disposizione con portata molto ampia, che smentisce le affermazioni secondo cui i redditi sarebbero definiti in modo casistico, in quanto si presta a ricomprendere anche proventi non riconducibili a una prestazione d’opera, compresi quelli per “non fare” (ad esempio non esercitare una certa attività che farebbe concorrenza ad altri, o utilizzare l’immagine di un personaggio famoso). Il concetto in esame richiama quello di “prestazioni di servizi” (paragrafo 7.6), e quindi lascia fuori dai redditi diversi le “cessioni di beni” e le relative plusvalenze (guadagni in conto capitale tra prezzo di acquisto e di vendita di beni); le plusvalenze non rientranti tra i redditi diversi, se non già tassate in altre categorie reddituali, sono quindi escluse da tassazione. Si pensi ad esempio alle plusvalenze su oggetti d’arte o su immobili destinati, per la maggior parte del periodo di possesso, ad abitazione principale. Danno luogo a plusvalenze imponibili come redditi diversi, per espressa disposizione, quelle su immobili non destinati ad abitazione principale, ceduti prima di 5 anni dall’acquisto, quelle su titoli finanziari (commentate tra i redditi di capitale al paragrafo precedente), quelle su terreni edificabili, indipendentemente dalla durata del periodo di possesso (in quanto ad elevato sospetto di speculatività, se non “oggettivamente speculative”). La differenza tra la tassazione delle plusvalenze su immobili, e la non tassazione di quelle su “beni mobili” (come gli oggetti d’arte o i metalli preziosi) si spiega anche perché nel secondo caso la cessione è “informale” senza la visibilità degli “atti solenni” di acquisto e cessione, rilevante ai fini dell’imposta di registro di cui al par. 10.2, che fornisce informazioni anche per la tassazione sui redditi. Capitolo 9 REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI: DAL RISULTATO DELLE ATTIVITÀ ALLE IMPOSTE DOVUTE Sommario: 9.1. I flussi reddituali nell’IRES, nell’IRPEF e nell’IRAP – 9.2. Realità e personalità dei tributi: concetti generali – 9.3. La personalità dell’IRPEF: riporto perdite, oneri deducibili, detrazioni e “contrasto di interessi” – 9.4. Segue. Calcolo dell’imposta, progressività delle aliquote e personalità del tributo – 9.5. Limitata rilevanza della pluriennalità dei redditi ai fini della limitazione della progressività – 9.6. L’IRAP come esempio di tassazione attraverso le aziende 9.1. I flussi reddituali nell’IRES, nell’IRPEF e nell’IRAP Dopo la determinazione della ricchezza occorre analizzare gli ultimi passaggi necessari alla determinazione dei tributi (par. 1.9 sui rapporti tra questi due passaggi logici). Per la tassazione dei consumi attraverso l’IVA questo passaggio è molto semplice ed è stato illustrato al paragrafo 7.3. Passare dalla determinazione della ricchezza reddituale alle imposte sui redditi è invece un po’ più complesso e deve essere distinto per tipologia di contribuente. Il criterio più semplice è quello degli enti “non societari” (paragrafo 7.5 ultima postilla), il cui reddito è soggetto all’imposta sul reddito delle società, che a questo punto“si patrimonializza”, non essendo soggetto ad altri prelievi in quanto può essere solo consumato e non distribuito a partecipanti che –per definizione – non esistono. Gli enti non commerciali non sono operatori economici ma titolari di redditi fondiari, di capitale o di attività marginali di impresa; su tali risultati essi pagheranno l’IRES, con irrilevanza di vicende successive mentre sulle attività commerciali secondarie, o collaterali, si applicherà anche l’IVA, come indicato al par. 7.5. Le detrazioni e le deduzioni successive alla determinazione del reddito sono, per queste entità senza sfera personale o familiare, sostanzialmente insignificanti. Ci sono solo riduzioni di aliquota, con finalità agevolative per enti preposti a finalità meritevoli, cioè culturali, sociali, assistenziali, etc... Con l’imposta in questo modo determinata dovranno essere confrontate le anticipazioni, cioè le ritenute d’acconto subite, ed i versamenti d’acconto effettuati, secondo quanto esposto al par. 3.4. Ne deriverà, secondo le regole generali, un conguaglio di imposta da versare o un credito da chiedere a rimborso. Capitolo 9 – REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI 257 Il reddito delle società, invece, viene tassato in due tempi, una prima volta in capo alle società, con l’IRES, e un’altra in capo ai soci, con i coordinamenti indicati al paragrafo 7.17. Per arrivare dalla determinazione della ricchezza a quella dell’imposta servono invece, per le persone fisiche, alcuni passaggi ulteriori che però potranno essere meglio compresi dopo le riflessioni di cui ai paragrafi successivi. 9.2. Realità e personalità dei tributi: concetti generali Come anticipato al par. 1.3, la maggior parte delle imposte sono “reali”, cioè si riferiscono alla manifestazione di ricchezza oggettivamente considerata, senza considerare altri aspetti della situazione complessiva del soggetto. L’esempio classico è l’IVA, dove il consumatore di un bene o di un servizio paga una cifra del tutto indipendente dal resto della sua situazione di consumatore, di proprietario, di lavoratore, di cittadino, di straniero, etc... Solo pochissime imposte oltre a considerare la ricchezza (ed essendo anch’esse “reali”) considerano anche alcuni elementi ulteriori, “personali”, del soggetto, e sono chiamate personali (non perché –ripetiamo – non considerino la ricchezza, ma perché considerano anche aspetti ulteriori, relativi alla condizione personale o familiare del contribuente). Gli antichi tributi “a ripartizione”, descritti al paragrafo 1.3, erano per certi versi i progenitori delle moderne tassazioni personali, come l’IRPEF, di cui diremo più avanti; segnaliamo però elementi di personalità che fanno capolino in molti tributi, come l’IMU, e la precedente ICI (par. 10.9), che tentavano di distinguere tra “prime case”, seconde case, abitazioni locate a canone sociale, presenza di figli etc. Anche nell’imposta di registro, come vedremo al paragrafo 10.2, si cerca di distinguere tra “prima casa” e altri acquisti immobiliari. Da quanto precede si comprende quindi che elementi di personalità possono esserci anche in imposte diverse da quelle sui redditi, in cui siamo abituati a trovarli più spesso. Vedremo al successivo paragrafo che gli elementi di personalità dell’IRPEF, come gli oneri deducibili, le detrazioni d’imposta per familiari a carico, gli interessi passivi, le spese sanitarie, le assicurazioni sulla vita sono estranei alla sfera di produzione dei redditi. La personalità delle imposte sul patrimonio si potrebbe atteggiare in modo diverso da quello dell’IRPEF: in questo caso, come abbiamo visto per l’IMU, e l’imposta di registro, alcune condizioni familiari, come la presenza di figli o la mancanza di altre “prime case”, attenuano il tributo. Anche le imposte sui consumi, che pure sembrano a prima vista refrattarie alla personalità, vedono certe volte la rilevanza di condizioni soggettive dell’acquirente, a partire anche qui dalla “prima casa”. Le imposte indirette si prestano meno alla personalità, ed è un rovescio della medaglia della loro possibilità di colpire, come consumatore, anche chi evade le imposte sui redditi (par. 7.1). Per la maggior parte delle spese di consumo è infatti difficile distin- 258 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata guere, a parità di tipologia di beni, cosa tassare normalmente e cosa salvaguardare, in quanto genere di prima necessità. L’aliquota ridotta per il pane, o per il vino, si applica sia per i prodotti popolari, sia per quelli raffinati, senza poter distinguere tra merci di diverso pregio. Inoltre, il fornitore non può discriminare tra gli acquirenti in base alla quantità acquistata, anche perché sarebbe facile frammentare l’acquisto. Per salvaguardare i consumi sociali le vie sarebbero abbastanza complicate. Una intricata salvaguardia qualitativa potrebbe essere la variazione dell’aliquota in base al prezzo; subordinando ad esempio le aliquote agevolate sui generi alimentari ad un prezzo che non superi un certo importo per chilo, o per litro. Una salvaguardia per sostenere gli acquisti “di base” di una famiglia potrebbe essere una specie di “tessera annonaria” parametrata al consumo personale necessario di generi di prima necessità, con un contributo all’acquisto sufficiente a sterilizzare l’applicazione ordinaria dell’IVA. Una macchina pubblica più efficiente della nostra, dove si prendono iniziative di opportunità, senza appiattirsi sulla legislazione, potrebbe anche gestire meccanismi del genere. Tuttavia gli strumenti più adeguati per conciliare la determinazione dei tributi con situazioni di disagio sociale consistono, più che nella riduzione dei tributi, nell’erogazione di sussidi. 9.3. La personalità dell’IRPEF: riporto perdite, oneri deducibili, detrazioni e “contrasto di interessi” Ai paragrafi precedenti sono state poste le premesse per inquadrare l’IRPEF.Anch’essa – come tutte – parte dalla ricchezza oggettivamente considerata, sommando infatti i vari redditi di categoria. Si ottiene così il reddito complessivo di ciascuna persona fisica. Le perdite di impresa o di lavoro autonomo, intese come “redditi negativi”, sono variamente tenute in considerazione, sia nell’IRES sia nell’IRPEF. Il loro riporto su altri redditi è ancora molto radicato nella “realità del tributo”, cioè nella determinazione della ricchezza piuttosto che nella situazione personale del contribuente; il periodo di imposta è una necessità pratica, ma l’attività economica è unitaria, senza interruzioni nel tempo, e quindi deve rilevare nei due sensi. Principi di personalità subentrano invece quando le perdite derivanti da attività di un certo tipo sono scomputabili da redditi derivanti da attività di altro tipo, a conferma delle solite sfumature intermedie anche tra realità e personalità dei tributi. Le perdite dei piccoli commercianti e artigiani, operanti in forma individuale, sono rare, e il fenomeno riguarda soprattutto le organizzazioni societarie, soggette ad IRES, più rigide e quindi più esposte a perdite; queste ultime sono state per molto tempo riportabili dai redditi dei successivi 5 anni, e dal 2011 sono riportabili senza limiti in esercizi successivi. Il c.d. “commercio delle perdite” cioè la vendita ad altri gruppi societari di perdite che si pensa di non poter recuperare in futuro è considerato elusivo, ed è limitato sia con disposizioni ordinarie sia con la norma generale antielusione (paragrafo 7.5). Capitolo 9 – REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI 259 Ogni individuo soggetto all’irpef è considerato in modo autonomo, senza aggravare l’imposizione quando nello stesso nucleo familiare affluiscono più titolari di redditi. Casomai si pone il problema politico opposto, degli sgravi alle famiglie “monoreddito”. In proposito si suggerisce spesso l’introduzione del c.d. “quoziente familiare”, cioè la divisione del reddito, ai fini delle aliquote progressive, per tutti i membri della famiglia; si trascurerebbero però così le diseconomie e le spese cui in genere vanno incontro le famiglie dove entrambi i coniugi esercitano attività lavorativa. È insomma un problema complesso, dove è preferibile anche qui intervenire con sussidi alle famiglie monoreddito bisognose, senza mescolare la determinazione dei tributi con l’erogazione di sussidi.. Oggi tuttavia abbiamo le detrazioni d’imposta per familiari a carico, come coniuge, figli o altri che tendono a diminuire, fino ad azzerarsi, al crescere del reddito, con un’anticipazione della progressività di cui diremo al prossimo paragrafo. La “personalità del tributo” comporta anche la rilevanza, a favore del contribuente, di collegamenti tra tipologie diverse di ricchezza (compensazioni tra redditi e perdite, e riporto di queste ultime da risultati di altre attività), nonché le spese personali o familiari estranee alla produzione dei redditi di categoria, di cui ora diremo, come oneri deducibili e detrazioni d’imposta. Gli oneri deducibili sono estranei alla produzione dei redditi di categoria, e riguardano alcune importanti necessità personali o familiari (spese educative, sanitarie, etc.) che sono comunque erogazioni di reddito (consumi) non spese di produzione (si collocano qui anche le spese ipoteticamente dedotte a seguito del c.d. contrasto di interessi di cui parleremo tra un attimo in questo paragrafo). Deducendo gli oneri in esame dall’imponibile, il maggior risparmio d’imposta sarebbe per i contribuenti con aliquote più alte, pertanto la maggior parte degli oneri (tra cui le spese mediche) rilevano come detrazioni d’imposta calcolate applicando (art. 15 TUIR) all’onere deducibile un’aliquota uguale per tutti, attualmente al 19%. Solo i contributi assistenziali e previdenziali obbligatori per legge e assimilati, e gli assegni di mantenimento al coniuge, continuano a essere dedotti dall’imponibile, in quanto ispirati a ragioni di simmetria concettuale tributaria, non di meritevolezza sociale. La discrezionalità del legislatore sulla scelta degli oneri deducibili o detraibili è particolarmente ampia e la scelta cade di solito su alcune spese di particolare importanza per il contribuente (mediche, educative o per la previdenza integrativa), di utilità sociale (elargizioni ad enti caritatevoli) od altrimenti ritenute meritevoli, come gli interessi passivi su mutui per l’acquisto della prima casa. Tali oneri devono essere indicati nella dichiarazione nel loro importo complessivo, mentre la documentazione giustificativa dovrà solo essere conservata ed esibita nell’eventuale controllo di cui al paragrafo 8.3, il che impedisce ad oggi di utilizzare queste deduzioni come segnalazioni del percettore, a fini antievasione. Questa segnalazione fa invece parte della tendenza ad indurre il consumatore finale a segnalare fornitori a rischio evasione, nel c.d. “contrasto di interessi”, consenten- 260 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata dogli di “scaricare” una parte della spesa. Mediaticamente è una bella trovata che genera consenso in quanto unisce “la lotta all’evasione” alla gradita possibilità di “detrarre qualcosa”, per costringere i fornitori a dichiarare. Per il funzionamento del meccanismo non basterebbe ovviamente “lo scontrino” (par. 7.7) e neppure la fattura, che, una volta emessa, potrebbe non essere registrata, ma servirebbe una segnalazione al fisco dell’operazione, con le generalità dei fornitori, che chiuderebbe il cerchio del “controllo incrociato” da cui deriva il successo della tassazione attraverso le aziende sul lavoro dipendente e autonomo. Questa segnalazione è realizzabile solo attraverso i professionisti esterni, garanti verso il fisco, come gli intermediari che redigono le dichiarazioni fiscali (par. 3.12). Il fornitore saprebbe a questo punto di essere segnalato al fisco dal cliente, ed esposto a controlli di congruità dei ricavi dichiarati anche sotto questo profilo, con classica utilizzazione presuntiva di informazioni contabili, su cui al par. 5.9. Il relativo appesantimento procedurale giustificherebbe questo strumento solo per spese di una certa consistenza e che, in mancanza, avrebbero una notevole probabilità di non essere registrate dal fornitore; si deve poi trattare di spese di una certa meritevolezza sociale, in quanto sarebbe politicamente poco presentabile la detrazione per spese voluttuarie solo perché ad alto rischio di evasione (gioielleria o alta moda). L’obiezione secondo cui il fornitore potrà sempre offrire uno sconto maggiore della detrazione fiscale non considera che l’accordo consumatore-fornitore si trova facendo risparmiare al primo l’IVA, mentre il secondo risparmia imposte sui redditi e contributi obbligatori. Alla detrazione si aggiungerebbero il desiderio di documentare l’operazione, i limiti all’uso del contante (par. 5.16) ed eventualmente una piccola sanzione a suo carico, magari come responsabilità solidale per l’IVA evasa. È un meccanismo che potrebbe realizzarsi solo con una consapevolezza diffusa della determinazione tributaristica della ricchezza, e comunque per tipologie di prestazioni molto limitate. 9.4. Segue. Calcolo dell’imposta, progressività delle aliquote e personalità del tributo Sottraendo dall’imposta lorda le detrazioni d’imposta si ottiene l’imposta netta che non è ancora quella da corrispondere, in quanto deve essere confrontata con i crediti d’imposta, le ritenute d’acconto subìte (par. 3.6) e i versamenti in acconto (par. 3.4). A differenza delle suddette detrazioni d’imposta queste anticipazioni possono infatti dar luogo a un rimborso a favore del contribuente. La progressività delle aliquote è ispirata al principio, già anticipato a proposito dell’art. 53 della costituzione (par. 2.2), secondo cui, all’aumentare della ricchezza il contribuente può privarsi con eguale sacrificio di una quota proporzionalmente maggiore della medesima. Capitolo 9 – REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI 261 La progressività è un aspetto di quella “personalità” descritta sopra per le detrazioni familiari e gli oneri deducibili. Le imposte personali sui redditi (la nostra IRPEF) tendono anche ad essere progressive, cioè con aliquote, ripetiamolo, crescenti più che proporzionalmente all’aumentare dell’imponibile. Le aliquote di un’imposta si dicono infatti progressive quando crescono più che proporzionalmente rispetto alla crescita del reddito imponibile. La progressività nell’IRPEF è una progressività per scaglioni di reddito, dove le aliquote più elevate si applicano alla parte di reddito inclusa negli scaglioni successivi, ferme restando le aliquote applicate sugli scaglioni precedenti. La progressività può essere raggiunta anche per detrazione, cioè dando agli imponibili più modesti una “franchigia”, pian piano perduta al crescere del reddito (lo abbiamo visto al par. 9.2 a proposito delle detrazioni per familiari a carico che svaniscono al crescere del reddito). Una progressività esasperata rischia di diventare, tenendo conto delle aree di ricchezza non raggiunte dalle aziende; oggettivamente, si tratta di una progressività «di bandiera»che tartassa i ricchi salvo poi accorgersi che i ricchi – stando alle dichiarazioni – sono pochissimi. Scorrendo la lista delle dichiarazioni con redditi più elevati, si trovano in prevalenza lavoratori dipendenti e autonomi «di lusso», ma pur sempre lavoratori, come attori, scrittori, consulenti, avvocati, calciatori, alti dirigenti, i cui redditi IRPEF sono spesso inferiori a quelli dei titolari delle società per cui i medesimi lavorano, e nel cui patrimonio si trova la vera ricchezza assoggettata in genere alle imposte sostitutive (par. 3.4), e quindi estranea alla progressività dell’imposta personale. Naturalmente anche l’evasione, in termini di brutale ricchezza non registrata, è un ostacolo alla progressività, contribuendo a renderla politicamente meno accettabile, come abbiamo visto al capitolo quarto. 9.5. Limitata rilevanza della pluriennalità dei redditi ai fini della limitazione della progressività In genere i sistemi fiscali sono incapaci di tener conto dello sforzo, del tempo e dell’impegno necessari a produrre la ricchezza. Il fisco guarda solo la ricchezza, in termini di redditi, consumi, patrimonio o investimenti, ed è troppo complicato considerare la diversa fatica di produrli ed il rischio di non riuscire a “riprodurli in futuro”. Anche questo è un riflesso della tassazione “oggettiva” e “frammentata” della ricchezza, rispetto all’illusoria “capacità contributiva globale”, di cui abbiamo parlato spesso (par. 2.2), e che dovrebbe considerare anche l’aleatorietà della ricchezza, soprattutto reddituale. Un cantante di successo guadagna, esibendosi anche solo dieci volte l’anno, come un alto dirigente che lavora tutti i giorni. A parità di reddito, l’imposta è la stessa, a prescindere dal tempo e dallo sforzo profusi. Tuttavia, proprio il confronto, sopra indicato, del cantante di successo col dirigente industriale mostra un altro profilo che il tributo non riesce a considerare. Si tratta dell’instabilità dei redditi, che per il cantante di successo può essere molto maggiore rispetto al dirigente industriale, che pure deve impiegare 262 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata più tempo ed energie per la produzione di un reddito analogo. Anche tralasciando la progressività dei tributi, di cui diremo subito, una ricchezza prospetticamente discontinua meriterebbe forse, a parità di importo, un carico inferiore. In sintesi, anche se l’impegno del cantante è meno intenso, le sue prospettive di redditività sono meno stabili. Ecco perché, nella frammentazione annuale della determinazione tributaristica della ricchezza, sono aspetti trascurati non per negligenza legislativa, ma per oggettiva difficoltà. Ne deriva un incentivo fiscale a un reddito “sicuro”, non troppo alto, ma ben distribuito nel tempo, il che non incentiva l’assunzione di rischio, ma in un contesto restio alle valutazioni, e propenso alle predeterminazioni legislative, è il minimo che possa accadere. Inoltre, sempre con riferimento al confronto tra “cantante” e “dirigente”, l’aliquota progressiva IRPEF comporta una tassazione più onerosa per i redditi concentrati in pochi periodi di imposta, ad esempio quelli di attori o sportivi, che godono di brevi periodi di alti redditi. Abbiamo già visto le esigenze di semplicità e controllabilità che ostacolano un temperamento della progressività per tali redditi «straordinari» cioè difficilmente rinnovabili; la difficile ripetibilità di tali redditi, il loro carattere “isolato”, e la loro breve durata, sono solo ipotesi proiettate nel futuro, ma tutte da verificare. Per questo mancano attenuazioni della progressività rispetto all’eventualità che il reddito non abbia a ripetersi in futuro; anche qui si conferma la considerazione tendenzialmente isolata della ricchezza, e l’irrilevanza di vicende ulteriori della vita del contribuente. L’appena indicata incertezza viene però meno per i redditi «a formazione pluriennale», percepiti dopo un lungo arco di anni in cui i redditi stessi sono maturati; la maturazione pluriennale guarda al passato, ed è quindi “certa” rispetto ad una aleatorietà che guarda al futuro. Per questo alcuni redditi pluriennali sono sottratti all’ordinaria imposizione progressiva IRPEF, e tassati con una aliquota media (c.d. “tassazione separata”). Casi da ricordare, in quanto molto frequenti, sono il trattamento di fine rapporto di lavoro dipendente e le plusvalenze per la cessione e liquidazione di aziende (art. 17 lett. G TUIR). 9.6. L’IRAP come esempio di tassazione attraverso le aziende Il concetto di “valore aggiunto” già indicato in molti passaggi di questo testo (par. 7.2) per spiegare l’azienda come organizzazione rispetto al “lavoro indipendente” è utilissimo per capire l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive). Il senso economico del tributo è tassare, presso l’impresa in cui si produce, il valore aggiunto economico (il “plusvalore”) rispetto alle materie prime e ai servizi di impresa consumati nella produzione, che si distribuisce tra salari, interessi e profitti. L’aliquota è bassa, attorno al 5 percento, secondo scelte della regione in cui ha sede l’impresa. Si tratta idealmente, della ricchezza prodotta dall’impresa, al netto di quella erogata ad altre imprese, e che quindi dovrà essere tassata presso di esse, onde evitare duplicazio- Capitolo 9 – REALITÀ E PERSONALITÀ DEI TRIBUTI 263 ni. L’IRAP è tipica della tassazione ragionieristica attraverso le aziende, perché fa leva sull’organizzazione aziendale per colpire una molteplicità di percettori di compensi e interessi. L’IRAP colpisce quindi presso l’impresa anche la ricchezza attribuita a terzi, cioè dipendenti e finanziatori, e questo ha provocato una serie di scoordinamenti, incomprensioni e polemiche, a cominciare da chi lamentava che l’imposta favorisse la produzione attraverso macchinari (“i robot), con costo deducibile, rispetto ai lavoratori, con costo indeducibile. Senza accorgersi del meccanismo sopra indicato, secondo cui il macchinario è deducibile perché tassato presso il suo produttore, mentre il lavoratore, percettore di valore aggiunto, dev’essere tassato presso l’azienda. Ciò avviene appunto attraverso l’indeducibilità, e nei limiti del valore aggiunto prodotto dall’azienda. Siccome i lavoratori e i finanziatori sono pagati in corso d’anno, ed il valore aggiunto si determina alla fine, potendo anche a posteriori mancare, non si è riusciti ad immaginare una rivalsa giuridica (par. 3.5) sui finanziatori e sui dipendenti a fronte dell’IRAP pagata dall’azienda erogante. Proprio questa tassazione, in capo all’erogante, di ricchezza attribuita ad altri (interessi passivi e costo del lavoro nei limiti del valore aggiunto) senza rivalsa giuridica ha ingigantito le incertezze e le polemiche sul tributo. Secondo gli economisti è (giustamente) una imposta sul reddito, mentre i legali formulano evanescenti critiche di incostituzionalità, o immaginano un altrettanto evanescente riferimento del tributo all’organizzazione produttiva, espressa da un fantomatico “potere sui fattori della produzione”; questo anche a fronte delle esternalità negative provocate dall’azienda in termini di consumo di servizi e infrastrutture per l’afflusso di dipendenti, merci, etc... Questa rilevanza dell’organizzazione “fisica” appare però secondaria rispetto all’organizzazione contabile: ad esempio una miniera, un cementificio, un impianto siderurgico, con fortissimo impatto ambientale, organizzativo e di traffico, potrebbero pagare ben poco, avendo esternalizzato i costi per materie prime, trasporto, stoccaggio, servizi etc... Al contrario, società di software, a bassissimo impatto sociale, ma con maggior valore aggiunto, pagherebbero molto di più. Questa necessità di un’organizzazione si è radicata nella giurisprudenza, anche a seguito di un intervento della corte costituzionale. Si sta affermando quindi l’esclusione da IRAP delle piccole attività di lavoro autonomo “non organizzate in forma di impresa”, cioè non corredate di un nucleo minimo di beni strumentali. Tale soluzione intuisce la suddetta importanza dell’organizzazione amministrativa e quindi l’assurdità di applicare l’IRAP agli operatori indipendenti, piccoli commercianti e artigiani operanti verso consumatori finali. Per essi, che organizzano solo beni materiali, non ha senso parlare di organizzazione, e il valore aggiunto deriva in massima parte dal lavoro del titolare. In questi casi l’IRAP si trasforma in una imposta aggiuntiva sul reddito del titolare, e quindi viene meno la sua necessità logica di imposta autonoma. Quando però questi soggetti “non organizzati” vengono pagati da un’organizzazione, la deduzione dei loro corrispettivi, ai fini IRAP, da parte del cliente, crea un salto di imposta, un “vuoto d’IRAP”. Il fornitore infatti non è tassato, in quanto “non organizzato”, ma il cliente deduce il corrispettivo ai fini IRAP da cui deriva una detassazione integrale delle relative somme e una violazione del principio di neutralità delle forme giuridiche 264 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata rispetto alla determinazione della ricchezza: se infatti l’impresa assume i collaboratori e paga l’IRAP, mentre li utilizza come fornitori indipendenti (in outsourcing di lavoro non organizzato), né loro né lei pagano l’imposta. La deduzione IRAP in capo al cliente andrebbe quindi subordinata alla dichiarazione del fornitore, in fattura, di essere “organizzato”, e quindi soggetto al tributo. La parte d’imposta relativa al valore aggiunto di pertinenza di terzi (lavoratori dipendenti e percettori d’interessi) è stata inizialmente indeducibile dalle altre imposte sui redditi, con scelta irrazionale sul piano economico della determinazione della ricchezza, corretta ad inizio 2012 con la possibilità di deduzione analitica, ai fini del tributo sui redditi degli eroganti Il riferimento al “valore aggiunto economico” non ha nulla a che vedere con l’IVA, il cui valore aggiunto si riferisce alle precedenti applicazioni di tale tributo. Comunque, di fronte alla “apparente stranezza” dell’IRAP si sospettò persino che essa duplicasse l’IVA, con un procedimento di infrazione cui la corte di giustizia dell’Unione Europea sembrava all’inizio dare credito, tra lo sconcerto degli economisti, ma che alla fine ha respinto (sentenza CGCE 3 ottobre 2006 c475-03). Capitolo 10 “TRIBUTI MINORI” TRA TASSAZIONE ATTRAVERSO GLI UFFICI E LE AZIENDE Sommario: 10.1. Una geografia dei “tributi minori” – 10.2. I tributi sugli atti giuridici solenni o visibili – 10.3. Istituzioni e organizzazioni nella tassazione dei documenti giuridici (bollo e concessioni pubbliche) – 10.4. “Ricchezza patrimoniale”e difficoltà di una sua gestione “attraverso le aziende” – 10.5. Successioni e donazioni: una difficile determinazione di ricchezza patrimoniale, senza l’aiuto delle aziende – 10.6. Altri tributi speciali su consumi di determinati beni e servizi (incluso accise e dogane) – 10.7. La metamorfosi comunitaria dei tributi doganali – 10.8.Tributi locali tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici: aspetti tributari del “federalismo fiscale” – 10.9. La tassazione patrimoniale locale sugli immobili (ICI e IMU) – 10.10. Aspetti concettuali di altri “tributi minori” 10.1.Una geografia dei “tributi minori” In questo paragrafo esamineremo i numerosissimi tributi che, accanto alle poche grandi imposte gestite attraverso le aziende, restano ancorati alle precedenti logiche della determinazione della ricchezza attraverso gli uffici (par. 1.3). Anche questi tributi si sono, ovviamente adattati a una società moderna, spesso “esternalizzandosi” anch’essi su particolari categorie di aziende, organizzazioni e professionisti (banche, società petrolifere, emittenti o destinatari di documenti in serie, notai e altri pubblici ufficiali). Sono tributi in genere semplici le cui complicazioni, anche quando esistono, sono circoscritte a casi particolari, affrontabili col bagaglio economico giuridico generale degli operatori economico giuridici. Mentre nel sistema delle imposte sui redditi e dell’IVA ci sono tante logiche intrecciate, da coordinare di volta in volta, i tributi tradizionali, ancorché modernizzati, hanno meccanismi circoscritti, indipendenti l’uno rispetto all’altro, dove la determinazione della ricchezza è facilmente intuibile. È uno dei motivi per cui, nella prassi, si parla di “tributi minori”, con una definizione giustificata da ragioni concettuali, non di importanza economica e di gettito (su cui par. 1.10); alcuni “tributi minori”, come le imposte di fabbricazione, danno anzi un gettito notevolissimo. Un’altra ragione dell’aggettivo “minori” è che tali tributi non sono ad ampio spettro, non riguardano, in modo necessario e sistematico, la generalità degli operatori economici, come avviene per il sistema dell’IVA e delle imposte sui redditi. Spesso, anche quando riguardano la generalità degli individui, lo fanno per 266 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata circostanze che si verificano raramente, come un’eredità o un acquisto immobiliare. Quando si tratta di eventi ricorrenti, come le imposte immobiliari, le tasse auto o quelle per la raccolta rifiuti, si tratta anche di pagamenti molto elementari, e di solito per ammontari trascurabili. Un’ulteriore ragione per cui, tra gli addetti ai lavori, un tributo viene considerato “minore” è la sua modesta rilevanza professionale, in un contesto oggetto della decerebrazione professionale di cui al par. 4.4. Per quest’insieme di motivi alcuni tributi economicamente importanti, come le già indicate imposte di fabbricazione sugli oli minerali, oppure molto efficienti, come il bollo, sono inseriti tra i «tributi minori». Sono tributi trascurati dai manuali, dai corsi di formazione, dagli articoli della pubblicistica, anche perché la loro applicazione è pressoché proceduralizzata entro alvei ben delimitati, e perché provocano raramente questioni che giustifichino le spese di un parere professionale o di una controversia giudiziaria. Sono però tributi frequenti nella vita di tutti i giorni e nel dibattito politico-economico, con un forte radicamento nel passato, e quindi una grande tradizione storica, di cui sono prive le imposte della “tassazione attraverso le aziende”. Nei paragrafi successivi collegheremo quindi le caratteristiche di tali tributi con alcune questioni trattate nella prima parte. Sono interrogativi che, per questa fiscalità “minore” si pongono spesso in modo più interessante di quanto avvenga per il sistema della tassazione attraverso le aziende, dove il riferimento economico a redditi e consumi è molto chiaro. Se invece ci mettiamo a riflettere su tributi come la tassa di possesso veicoli (c.d. “bollo auto”), le tasse d’imbarco aeroportuali, i diritti per l’iscrizione alla camera di commercio o il canone Rai-TV di cui neppure parleremo in questo testo, sorgono interrogativi molto più misteriosi sul senso economico giuridico dei meccanismi sottostanti. Sembra quasi che, più il tributo è “minore”, meno sia facilmente inquadrabile in termini di ricchezza. I tributi minori stimolano quindi riflessioni che non sorgono per l’IVA o le imposte sui redditi. È forse un riflesso del gradualismo dei concetti nelle discipline economico sociali, dove nelle zone grigie, nelle sfumature intermedie si trovano gli istituti più interessanti. Che però spesso, come già rilevato nel nostro caso, rilevano poco sul piano professionale e sono quindi trascurati da una pubblicistica di impostazione prevalentemente professionale. 10.2.I tributi sugli atti giuridici solenni o visibili La ricchezza può essere manifestata anche da atti giuridici “solenni”, che costituiscono una facile occasione di tassazione, come indicato al par. 1.3, quando i contraenti vogliono vedersi riconosciuto dal pubblico potere il loro diritto; gli archivi della proprietà immobiliare costituiscono un esempio lampante di come il «servizio di certezza pubblica», diretto alla certificazione dei diritti proprietari, possa diventare una efficiente occasione per imporre tributi. Nell’imposta di registro la ricchezza non emerge nella sua visibilità materiale, come abbiamo visto al par. 1.3 per le movimentazioni di merci o le coltivazioni dei CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 267 campi, bensì da rapporti giuridici formalizzati; in questo, la visibilità giuridica della ricchezza attraverso gli atti solenni ha anticipato, storicamente, la sua attuale visibilità attraverso la contabilità aziendale; quest’ultima, infatti, è in ultima analisi una documentazione continuativa di rapporti giuridici, affidabile grazie alle esigenze gestionali delle organizzazioni di cui al capitolo terzo; l’imposta di registro ha quindi anticipato le questioni, trattate al par. 3.9, sulla qualificazione tributaria di ricchezza emersa per ragioni gestionali “commerciali”. Gli atti formali, per cui una simile imposta è oggi “efficiente” sono in prevalenza quelli aventi ad oggetto la ricchezza immobiliare, anche se il tributo si applica a tutti quelli che – per motivi di certezza giuridica – si decida di cristallizzare in atti giuridici “solenni”, in genere redatti da pubblico ufficiale; solo per alcuni atti, come le cessioni di azienda o le locazioni immobiliari, è prevista l’assoggettabilità all’imposta anche senza requisiti formali, in quanto il rapporto è visibile in altro modo, per la sua durata nel tempo (locazioni) o visibilità esteriore (cessione di aziende). Dopo la solenne enunciazione secondo cui l’imposta colpirebbe tutti gli atti scritti a contenuto patrimoniale formati nel territorio dello Stato, la sfera applicativa del tributo si riduce, per l’ovvia esclusione degli atti formati per corrispondenza, nel senso di “scambio di dichiarazioni”, non altrimenti “visibili”, nonché per quelli relativi ad operazioni soggette all’IVA; questo sottrae alla sfera applicativa del tributo anche atti per i quali sussiste una forma giuridica “solenne”, ma che –essendo soggetti ad IVA – pagano l’imposta di registro in misura fissa (oggi 168 euro), non nella misura proporzionale di cui diremo subito. I trasferimenti di beni immobili sono soggetti ad aliquote elevate (7% per i fabbricati e 15% per i terreni), più le imposte ipotecarie e catastali, applicate nella misura complessiva del 3%. Segnaliamo le riduzioni, per gli immobili da adibire a prima abitazione dell’acquirente, dove l’aliquota è del 3% e le imposte ipotecario-catastali sono applicate in misura fissa. L’imposta fa perno sui pubblici ufficiali (ad es. notai), che devono chiedere la registrazione per gli atti che redigono, ferma restando la responsabilità solidale delle parti, cui si riferisce la ricchezza. Quanto precede conferma quindi che l’imposta di registro mantiene, sul settore immobiliare, una tassazione patrimoniale, che ostacola la circolazione degli immobili, senza riuscire a distinguere gli arricchimenti dagli impoverimenti, come farebbe invece una fiscalità a carattere maggiormente reddituale, diretta a canoni di locazione e plusvalenze. A parte casi particolari, i contraenti hanno interesse solo alla trascrizione dell’atto immobiliare, mentre non hanno interesse all’emersione del prezzo effettivo: sarebbe quindi troppo pericoloso, sul piano della cautela fiscale, prevedere la tassazione solo in base ai corrispettivi dichiarati. I valori immobiliari dichiarati in atto sono quindi soggetti ad accertamento da parte degli uffici, in base al valore venale in comune commercio. Il gran numero di atti riguardanti beni immobili e l’onerosità dell’aliquota applicabile hanno provocato frequentissime controversie sulla determinazione del valore venale di 268 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata tali beni, stante anche l’opinabilità della relativa valutazione, tanto da far introdurre un criterio automatico (art. 52) basato sul valore catastale del bene, nonostante le frequenti sperequazioni rispetto al valore effettivo; nelle compravendite immobiliari tra privati aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, è infatti consentito pagare il tributo di registro sul suddetto valore catastale, pur evidenziando in atto il maggior prezzo effettivo. Sono soggette ad imposta, in quanto atti solenni, anche le sentenze, cercando di riprodurre il regime applicabile ove una manifestazione economica analoga fosse invece realizzata contrattualmente. L’applicazione dell’imposta di registro sui principali atti societari, pure redatti in forma solenne (art. 4 della tariffa) si è fortemente ridotta negli ultimi anni, a seguito di direttive delle comunità europee. La tassazione proporzionale di registro resta pertanto applicabile, per forza di inerzia e sfasamenti legislativi, solo sui conferimenti di “beni materiali isolati” (compresi gli immobili ed escluse le aziende) e sulle cessioni di aziende dietro corrispettivo. 10.3.Istituzioni e organizzazioni nella tassazione dei documenti giuridici (bollo e concessioni pubbliche) L’imposta di bollo è tutt’altro che «minore» sul piano della tradizione, e conferma l’importanza delle strutture amministrative organizzate, sostenuta in tutto il testo; stavolta si tratta delle strutture che ricevono o emettono atti (anagrafici, di pubblica sicurezza, giudiziari, etc.), controllando anche il pagamento dell’imposta; analoga affidabilità hanno le grandi strutture aziendali (banca, assicurazione, società immobiliare, etc.), che non possono permettersi, per i noti motivi gestionali, di sottrarsi sistematicamente al pagamento. Quando questi uffici non sono coinvolti, l’imposta viene di solito evasa, come accade nei rapporti tra privati e piccole realtà organizzative come un condominio, una associazione privata, una piccola azienda, un medico. Del resto, quando non si tratta di grandi organizzazioni che emettono documenti in serie, ma di applicazioni polverizzate nel tempo e nello spazio, anche il controllo fiscale si rivela antieconomico, visto il modesto importo unitario del tributo. Anche qui, insomma, è importante la ripetitività, la serialità dell’emissione di documenti soggetti al tributo. Solo in casi eccezionali il tributo è proporzionale al «valore del documento», come accade per le cambiali. L’acquisto e l’annullamento delle marche da bollo è la modalità di pagamento per le applicazioni occasionali del tributo, mentre i “grandi utenti” lo corrispondono in modo c.d. «virtuale», cioè su dichiarazione periodica che indica il numero complessivo dei documenti emessi. La giustificazione dell’imposta di bollo in termini di ricchezza è abbastanza labile; qualche volta l’atto sottostante esprime un contenuto patrimoniale, ma altre volte c’è solo un collegamento con una pubblica funzione, e il tributo potrebbe giustificarsi in termini di “tassa”, par. 5.1 (si pensi ad esempio al bollo sui certificati universitari e scolastici). CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 269 Lo stesso riferimento a pubbliche funzioni, documenti amministrativi, autorizzazioni, certificati etc., si ritrova nel tributo sulle concessioni governative o di enti locali, anch’esso più “tassa” che “imposta” (si pensi a passaporti, patenti, autorizzazioni varie, libri sociali, etc.). Anche qui sono gli uffici amministrativi che si occupano di queste materie ad assicurare, indirettamente, il gettito del tributo. 10.4.“Ricchezza patrimoniale”e difficoltà di una sua gestione “attraverso le aziende” La ricchezza patrimoniale sfugge alla tassazione attraverso le aziende, che proprio in quanto organizzazioni, riescono a individuare la ricchezza nel suo aspetto dinamico, nel più volte menzionato circuito “acquisizione di consumi-erogazione di redditi” (ad es. paragrafi 1.8, 7.1). Dal ciclo in cui le aziende incamerano consumi ed erogano redditi resta fuori il patrimonio, inteso come ricchezza nel suo aspetto statico, cioè beni immobili o investimenti finanziari. Anche gli elementi patrimoniali “tracciabili” presso le aziende (si pensi ai depositi bancari), si pongono fuori dal sopra indicato circuito tipico “consumi–redditi”, essendo casomai lo strumento di un servizio di impresa. Per questo la tassazione patrimoniale “attraverso le aziende” è complessa, e non può essere generalizzata, anche se spesso alcuni elementi patrimoniali “tracciabili” attraverso le aziende, come i “conti deposito titoli”, sono stati assoggettati a tributi applicati (inutile dirlo) attraverso banche e intermediari finanziari. Anche la tassazione patrimoniale risponde al criterio secondo cui “tutte le imposte, anche se non colpiscono i redditi”, si pagano coi redditi”, come frutto dell’attività umana produttiva di beni e di servizi (par. 1.8). Sul piano della precisione nella determinazione della ricchezza e nella sua effettività, è preferibile una tassazione dei redditi di fonte patrimoniale che una tassazione del patrimonio come tale, che scatta anche quando esso è infruttifero e diminuisce di valore. Per questo, quanto maggiori sono le informazioni sulla generalità dei redditi, tanto meno è necessaria una imposta patrimoniale. Man mano che si perde il controllo dei redditi, soprattutto quelli non determinabili attraverso le aziende, il patrimonio emerge come soluzione di ripiego. Inoltre, le condizioni economiche di buona parte delle famiglie sono sempre più influenzate dal patrimonio, anche a seguito della stagnazione economica, della perdita del valore reale delle retribuzioni a seguito della concorrenza internazionale, del diffuso precariato giovanile, degli stipendi immobili rispetto all’inflazione, della diffusione di lavoro nero a basso costo da parte di extracomunitari, dello spostamento delle produzioni in paesi emergenti. Per questo, il reddito IRPEF è sempre meno indicativo dell’effettiva situazione economica delle persone e delle famiglie. Il suo appiattimento si somma infatti coi fattori, come l’evasione e la consistenza patrimoniale, che già prima lo rendevano poco significativo; è insomma inutile discutere se la classe media inizi a 50.000 euro di reddito Irpef oppure a 70.000, perché ormai la differenza di condizioni economiche dipende sempre più da altri fattori. 270 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata Tuttavia la risposta a questa situazione sarebbe una considerazione più attenta dei redditi di fonte patrimoniale, sia in termini di frutti che di plusvalenze. L’inadeguatezza nel progettare un monitoraggio di questi fenomeni spinge a ripiegare su rozze forme di “patrimoniale”. Anche quando il patrimonio si concretizza in ricchezza amministrativamente visibile, come depositi bancari, investimenti finanziari, gestioni fiduciarie, le aziende possono agire da esattori del fisco solo sui cespiti patrimoniali di cui hanno conoscenza, avendoli ad esempio in deposito. Le aziende non riescono, a maggior ragione, a coordinare ipotetiche tassazioni patrimoniali con quelle reddituali, dando sfogo alla riflessione, di senso comune, secondo cui il patrimonio formato con redditi tassati dovrebbe essere esentato, o comunque tassato con aliquote più miti. Il fatto è che, con gli anni i redditi, dichiarati, fiscalmente irrilevanti o evasi, si patrimonializzano, si stratificano e danno luogo a uno “stock”, che passa di mano ormai lontano dalle ricostruzioni del fisco. Non possono essere certo le aziende a capire se il patrimonio viene da risparmi di una vita di lavoro, propria e dei propri genitori, evasioni fiscali ormai remote, retaggi familiari di un passato lontano, speculazioni fortunate, eredità, arricchimenti di dubbia legittimità ormai non più perseguibili, azzeccati investimenti immobiliari fiscalmente irrilevanti o sfuggiti al fisco. L’imposta sul patrimonio deve quindi essere gestita in primo luogo dalla macchina fiscale, al massimo con un contributo collaterale delle altre. Oggi il fisco può “vedere”, in modo sufficientemente sistematico solo la ricchezza risultante dai pubblici registri, cioè i trasferimenti immobiliari e le eredità; già gli sfuggono però i trasferimenti delle società intestatarie degli immobili, le rinunzie ai crediti, il titolo giuridico delle cointestazioni dei conti bancari, le intestazioni fiduciarie, i prestanome. Il potere amministrativo tributario fatica quindi ad acquisire e gestire, anche in modo valutativo, informazioni detenute da terzi, senza poter loro delegare del tutto una imposta patrimoniale. Il vero ostacolo alla tassazione patrimoniale in Italia si colloca quindi sul versante concettuale della determinazione della ricchezza. A questo proposito è bene chiudere con alcune riflessioni sulla composizione del patrimonio degli italiani e sul suo grado di accentramento o frammentazione. La ricchezza si produce nelle imprese, negli affari, e poi si rifugia nel mattone, negli immobili o in altri affari, magari più tranquilli: il precedente profitto d’impresa si trasforma in rendita fondiaria o finanziaria, in speculazione immobiliare, in “affare occasionale”.. Le rendite finanziarie, come indicato al par. 8.5, possono dare qualche soddisfazione di breve periodo, ma la storia dimostra che il popolo dei borsini, dei bot, dei bond argentini e dei fondi comuni è destinato, nella media, a recuperare a stento la perdita di valore della moneta. L’unico patrimonio ulteriore è quello costituito “dalle aziende”, cioè il valore delle aziende nel patrimonio dei rispettivi titolari, soprattutto il capitalismo familiare italiano; tassare il patrimonio “delle aziende” è controproducente rispetto alla loro esigenza di capitalizzazione, alla facilità di tassarne i redditi ed all’esigenza di renderle più grandi e più rigide (non dimentichiamo che le aziende saranno sempre il principale esattore dei tributi; si tratta quindi di chiedersi in quale misura tassare “come persone”, anche i proprietari delle aziende, utilizzando come parametro la quota parte del rela- CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 271 tivo valore. Non in modo punitivo, ed anzi come riconoscimento del loro contributo all’organizzazione e alla coesione sociale. Sono però riflessioni che travalicano i limiti di questo testo, e che andrebbero approfondite, prendendo le mosse dalla necessità di gestire attraverso gli uffici qualsiasi imposta patrimoniale. I singoli elementi patrimoniali, casualmente visibili attraverso le aziende o pubblici registri, come conti deposito titoli, immobili o imbarcazioni, possono essere raggiunti da imposte che non presentano particolari problemi applicativi. Basti pensare alle “tasse auto” (infra par. 10.9) o alle tasse sui natanti di lusso, o gli aeromobili. Proprio queste ultime consentono alcune riflessioni, che sviluppano la giustificazione ordinaria del tributo patrimoniale su cespiti produttivi di redditi, presenti o prospettici. Mi riferisco al valore degli immobili, colpito da imposte che si giustificano a fronte dei redditi presenti (canoni di locazione) e futuri, come le plusvalenze da rivalutazione dell’immobile. È intuitiva la discussione sulla accettabilità dell’imposta patrimoniale quando il valore capitale dei beni diminuisce, ma questo può essere giustificato dalle logiche forfettarie della tassazione sui beni che esprimono un investimento (lo stesso vale per la tassazione patrimoniale degli investimenti finanziari). Il senso della tassazione dei patrimoni di lusso, che non danno frutti né si rivalutano, è che essi rendono verosimile una condizione economica florida in generale. È la conferma dell’impossibilità di esternalizzare la gestione di questi tributi, e la necessità, per renderli socialmente accettabili, di una loro efficiente gestione valutativa da parte della macchina pubblica. Altrimenti resteranno solo la maldestra espressione di confusionarie e distruttive invidie sociali. 10.5.Successioni e donazioni: una difficile determinazione di ricchezza patrimoniale, senza l’aiuto delle aziende L’intervento degli uffici tributari nella tassazione patrimoniale è fondamentale quando il patrimonio transita per successione ereditaria o per donazione; in tali casi esso si trova infatti lontanissimo dalle aziende. Tuttavia, in tutti i paesi, le successioni e le donazioni sono ritenute a una importante manifestazione di ricchezza, ancorché prive in sé di natura reddituale; già il concetto comune di reddito chiarisce che gli incrementi patrimoniali gratuiti, derivanti cioè da successioni e donazioni, non ne fanno parte. L’etimologia stessa della parola reddito (dal latino «reditus») indica infatti che esso è un qualcosa che ci «ritorna» perché, in cambio, abbiamo dato o fatto qualcosa. Nelle donazioni o successioni viene invece conseguito un patrimonio che altri hanno abbandonato, per liberalità o per causa di morte, ma comunque senza alcuna contropartita. Tuttavia anche queste entrate “non reddituali” idealmente rilevano ai fini della posizione del beneficiario nella società, della ricchezza cui guardare per effettuare la ripartizione delle spese pubbliche. Ricevere ricchezza dalla propria famiglia, o da altri, migliora la posizione economica nella società, e per questo quasi tutti i paesi assoggettano a tassazione le successioni e donazioni “rilevanti”. È un punto di 272 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata vista particolarmente avvertito in società mature come quella attuale (secondo quanto rilevato sopra in questo stesso paragrafo), in cui la mobilità sociale è ridotta, le occasioni di migliorare la propria condizione sono scarse, le prospettive di successo aleatorie e la posizione familiare è determinante sullo status sociale. La difficoltà sussiste piuttosto sul piano della determinazione della ricchezza, che qui è lontanissima dalle aziende; i punti forti, per la visibilità della ricchezza, riguardano solo la registrazione di alcuni beni in pubblici elenchi, dove il beneficiario (erede o donatario) ha bisogno di sostituirsi al vecchio titolare. Quando la ricchezza era prevalentemente “immobiliar-fondiaria”, questo tributo era una parte importante della “tassazione degli atti solenni”. Con la “finanziarizzazione” del patrimonio, e con l’intestazione a società anche dei patrimoni immobiliari più consistenti, l’imposta si è svuotata, in quanto inidonea a raggiungere i trasferimenti di ricchezza finanziaria ed i passaggi di quote societarie; per questi passaggi non servivano più “atti solenni”, ma bastavano atti “informali” e “donazioni indirette”, realizzate ad esempio senza atto pubblico, ma ugualmente valide, come la rinuncia a crediti, a diritti di opzione, i pagamenti di debiti altrui etc. Questo “svuotamento” dell’imposta era in parte del tutto naturale, conforme ai modi ordinari di circolazione della ricchezza “mobiliare”; altre volte strumenti informali di trasferimento, anteriori alla morte, erano pianificati al posto del testamento, in modo che l’interessato morisse poco più che nullatenente, con notevoli intralci nel c.d. «passaggio generazionale» delle imprese. Questa situazione era condivisa dalle classi dirigenti, al termine del ventesimo secolo, ma le reazioni ebbero sfumature diverse. Il governo di centro sinistra, nel 2000, cercò di rompere il collegamento all’imposta di registro, abbassando le aliquote (non superiori all’8%), aumentando le quote esenti e ampliando la base imponibile, tentando di recuperare anche i trasferimenti mobiliari, non formalizzati in atti soggetti a registrazione. La difficile qualificabilità dei passaggi informali di ricchezza, soprattutto all’interno dei nuclei familiari, ne ostacolava un diretto accertamento; si stabilì quindi di tassare la ricchezza che il contribuente, in sede di accertamento basato sulla spesa (par. 5.14), spiegasse con le suddette liberalità “informali”. L’accertamento dei tributi sui redditi diventava quindi uno strumento per accertare il tributo sulle donazioni. Questa regola, che avrebbe potuto essere perfezionata, non fu tuttavia utilizzata in pratica, ed anche oggi, dopo essere stata in vigore molti anni, sembra caduta in desuetudine. L’appiattimento del diritto sulla legislazione, e quindi sulla politica, danneggia anche la politica, che avverte una certa desiderabilità sociale di simili imposte, intuendone però anche la scarsa gestibilità, coi soliti problemi di valutazione della ricchezza da parte degli uffici tributari. Un tributo successorio, con aliquote ragionevoli, ed autonomo rispetto alla solennità degli atti, consente di mantenere un certo controllo sulla ricchezza patrimoniale, legittimando le differenze sociali di partenza, e per questo apprezzato proprio nelle ideologie liberali e liberiste, perplesse di fronte alla formazione di aristocrazie imprenditoriali e finanziarie, connesse alla nascita e relativamente svincolate dal merito. Nell’impossibilità di far ripartire da zero, ad ogni passaggio di generazione, la competizione sociale, il tri- CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 273 buto successorio diventa una soluzione di ripiego per legittimare politicamente le differenze sociali agli occhi dei meno fortunati alla nascita. Un ordine di grandezza del patrimonio complessivo delle persone fisiche è inoltre utilissimo per tenere sotto controllo i redditi evasi, come indicato al par. 5.13. Per questo un tributo successorio, o una imposta ordinaria sul patrimonio, è presente nella maggior parte dei paesi ad economia mista, il che conferma il mantenimento, da parte di altre amministrazioni fiscali, di una capacità valutativa della ricchezza. 10.6.Altri tributi speciali su consumi di determinati beni e servizi (incluso accise e dogane) La tradizione di colpire la ricchezza espressa dalle quantità di merci (paragrafo 7.2) si è mantenuta per poche imposte, relative a beni con modalità di circolazione ancora fisicamente controllabili dal fisco; al loro interno troviamo imposte sui prodotti petroliferi, la cui importazione e distribuzione è facile da controllare, imposte sull’energia elettrica, gas di città (c.d. «accise»), generi di monopolio (tabacchi e lotterie), nonché assicurazioni. Si tratta di tributi dalle origini molto antiche, comprensibili in base al tradizionale schema dei poteri amministrativi applicati a ricchezza facilmente visibile; anche questi tributi si sono però adeguati alle attuali modalità “analitico aziendali”; anche di questa tipologia di tributi sono rimasti solo quelli ormai esternalizzati, applicati grazie a pochi grandi soggetti, caratterizzati dalle note rigidità amministrative, e quindi fiscalmente affidabili. Si tratta senz’altro di imposte sui consumi, anche se applicate (per ovvi motivi di semplicità) in capo al produttore o all’importatore, il quale le riaddebita poi ai propri clienti, comprendendole nel prezzo, fino ad arrivare sul consumatore. Benché il soggetto passivo delle imposte di fabbricazione sia il produttore, e l’imposta sia dovuta in stadi anteriori a quello in cui i beni sono immessi al consumo, si tratta di tributi destinati ad essere economicamente traslati sul consumatore finale, dove la grande organizzazione amministrativa fa sostanzialmente da esattore (par. 3.5). Sono quindi imposte che coesistono (e spesso si cumulano) con l’imposizione generale sui consumi rappresentata dall’IVA, grazie a specifiche autorizzazioni comunitarie. A differenza dell’IVA, queste imposte mantengono l’antica tradizione di essere applicate alla quantità delle merci, trascurandone il prezzo di vendita. La valutazione di questi singoli tributi in termini di equità ed efficienza cambia a seconda delle modalità di produzione e di distribuzione del bene tassato (benzina, sigarette, etc.), come vedremo più avanti. L’elemento comune a tutte queste imposte, per altri versi eterogenee, è una applicazione accentrata sul fornitore-esattore, che poi si rivale sui proprio clienti, fino ad arrivare ai consumatori finali. Questa «famiglia» di tributi funziona tanto più efficacemente quanto più la produzione o la distribuzione sono concentrate in poche grandi aziende. In questo caso è facile effettuare una vera e propria vigilanza fisica, da parte degli uffici fiscali, sulle fasi di lavorazione e movimen- 274 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata tazione del prodotto. L’efficienza di questi tributi diminuisce, perché le speciali cautele, la vigilanza, i controlli fisici e i contrassegni rischiano di dover essere troppo capillari, diventano antieconomici e insufficienti a contenere l’evasione. Questo spiega il fallimento di alcune imposte di fabbricazione, come quelle sui sacchetti di plastica, facili da produrre in strutture di fortuna, con macchinari abbastanza semplici. Insomma, le raffinerie di petrolio clandestine non esistono per il semplice fatto che sarebbero in perdita, e che è più conveniente pagare l’imposta. Analoghe considerazioni valgono per il contrabbando effettuato trasportando fisicamente le merci oltrefrontiera: è conveniente per le sigarette e sarebbe antieconomico per gli idrocarburi. Sono altre conferme dell’importanza, ai fini della valutazione di un tributo, delle modalità di circolazione della ricchezza cui si riferisce. Sono sostanzialmente imposte di consumo («accise») quelle sull’energia elettrica, il cui successo dipende anche qui dalla concentrazione dell’offerta presso pochi soggetti facilmente controllabili (ENEL, Aziende ex municipalizzate, Italgas e simili), che riforniscono un gran numero di consumatori, attraverso apposite condutture, direttamente nel domicilio degli utenti. Non c’è perciò un problema di contrabbando e di controllo delle movimentazioni fisiche dei prodotti; è invece sufficiente imporre al fornitore di applicare, nelle proprie fatture di addebito (ad es. bolletta ENEL), anche il tributo; la gestione di tali imposte è perciò molto semplice: pochi “grandi fornitori” pagheranno ed effettueranno la rivalsa sui clienti. Sul piano economico-funzionale, imposte sul «consumo di servizi» sono anche quella sulle assicurazioni, dove la società di assicurazione addebita il tributo ai propri assicurati, proporzionalmente al premio pattuito (si ritorna perciò ad una imposta commisurata al corrispettivo) e lo versa al fisco; in modo analogo, cioè facendo leva sulla struttura amministrativa del fornitore, funziona anche la tassa di concessione governativa sui telefoni cellulari “in abbonamento”. Alla categoria dei tributi sul consumo possono essere ricondotte – sotto il profilo della funzione e della struttura – anche le entrate pubbliche derivanti dal monopolio (par. 5.1), come la distribuzione dei tabacchi ed il lotto, lotterie e concorsi a premio. Anche il sistema si basa su una prededuzione dal denaro raccolto vendendo i biglietti: insomma, “gratta gratta” lo Stato vince sempre e il resto possono pure dividerselo i fortunati vincitori. 10.7. La metamorfosi comunitaria dei tributi doganali I tributi doganali hanno antichissime origini, rappresentando la più elementare affermazione della sovranità statale sul territorio, con risvolti anche fiscali. La loro applicazione è semplice, in quanto si accompagna a una vigilanza sui confini, svolta per motivi di ordine pubblico, sanitario, di sicurezza, etc... Un tempo la sorveglianza doganale, ed i tributi di questo tipo, svolgevano anche una funzione protezionistica dell’industria nazionale dalla concorrenza straniera. CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 275 Con l’integrazione economica mondiale e con la transizione verso una libera circolazione delle merci e dei servizi, le barriere doganali sono entrate in crisi, venendo abolite tra i paesi comunitari (par. 2.6), come visto già a proposito dell’IVA; le barriere doganali sono rimaste solo ai confini terrestri con gli stati non appartenenti all’UE (Svizzera), nei porti e negli aeroporti: questi confini sono diventati non solo nazionali, ma confini dell’unione europea, nel senso che, una volta giunte in un paese dell’unione, le merci potranno circolare in tutti i paesi membri, senza incontrare altre barriere; accanto alla vigilanza fisica al confine sono diventati perciò importanti i controlli sul territorio, tendenti ad accertare la provenienza delle merci. Il gettito dei tributi doganali prelevati su merci di provenienza estranea all’Unione Europea è acquisito dalle autorità fiscali nazionali (la nostra Agenzia delle Dogane), ma interamente devoluto all’Unione Europea. Quest’ultima emette altresì la normativa doganale applicabile dalle amministrazioni nazionali. 10.8.Tributi locali tra tassazione attraverso le aziende e attraverso gli uffici: aspetti tributari del “federalismo fiscale” La tassazione attraverso le aziende ha depotenziato i tributi degli enti locali, come le regioni e i comuni; questi ultimi, infatti, quando la richiesta dei tributi proveniva da pubblici uffici, erano anche ottimi acquisitori di imposte, visto il loro radicamento sul territorio; quando esistevano relazioni di vicinato solide e coese, gli enti locali avevano un vantaggio competitivo nell’acquisizione delle entrate, oggi svanito in aree urbane sempre più spersonalizzate, mentre la tassazione è sempre più esternalizzata sulle aziende. La determinazione della ricchezza attraverso le aziende, nuovi corpi sociali (par. 3.1) ha spiazzato le antiche collettività locali, ben contente, da parte loro, di abbandonare più possibile il ruolo, politicamente non gradito, soprattutto in democrazia, di esattori dei tributi. Il ruolo degli enti locali nella determinazione della ricchezza ai fini tributari è stato quindi in buona parte soppiantato, con la riforma tributaria del 1973, da quello delle aziende; queste ultime, dal canto loro, trovavano più semplice interagire con istituzioni pubbliche a dimensione nazionale, anziché con innumerevoli enti locali diversi. Questo declino dei tributi locali ha impedito di utilizzare i comuni per determinare la ricchezza che sfugge alla tassazione attraverso le aziende; mi riferisco a locazioni immobiliari tra privati, valorizzazione del territorio (in parole povere speculazione edilizia “minuta”), piccolo commercio e servizi, sui quali le strutture locali interferiscono fortemente. Questa ricchezza può essere “visibile”, sia pure per ordine di grandezza, solo da parte degli enti locali, che potrebbero supplire alla già indicata perdita di controllo del territorio delle amministrazioni centrali (paragrafo 5.3). L’opinione pubblica, e le classi dirigenti, pur non avvertendo questo profilo della determinazione tributaristica della ricchezza, si sono rese conto di altri inconvenienti della diminuzione dei tributi locali, a cominciare dalla deresponsabilizzazione degli 276 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata enti territoriali, che si sono trovati ad essere erogatori di spesa, finanziata da trasferimenti del governo centrale. È quindi venuto meno l’autogoverno fiscale degli enti territoriali, con uno sfasamento della spesa rispetto alle entrate. È quindi venuto meno l’autogoverno fiscale, cioè la possibilità di stabilire le proprie spese e le modalità con cui coprirle, cercando l’equilibrio migliore con la tassazione dei loro amministrati. Questo squilibrio tra spese e tributi locali ha provocato non solo deresponsabilizzazione, ma anche lamentele da parte delle regioni più sviluppate; ad avviso di queste ultime, infatti, i tributi statali raccolti sul loro territorio andavano a finanziare non tanto i servizi pubblici, quanto gli sprechi, delle aree meno sviluppate. Ne sono nate, a partire dal 1993, discussioni politico sociali genericamente indicate con l’espressione “federalismo fiscale“, inteso come esigenza di avvicinare le entrate locali alle spese locali, garantendo i servizi essenziali alle aree territoriali più deboli, ma stimolandone l’efficienza amministrativa. Si tratta di un problema complessivo di finanza pubblica, che travalica l’aspetto puramente tributario, cui si riferiscono le discussioni sul c.d. “Federalismo fiscale”; l’aspetto più innovativo della legge delega 42-2009 in proposito è la determinazione dei trasferimenti statali in base a parametri di “costo standard” validi per tutte le regioni, in modo da fronteggiare sprechi e inefficienze. Sul piano più strettamente tributario, anche il federalismo fiscale si è agganciato alla tassazione attraverso le aziende, soprattutto attraverso le addizionali regionali e comunali ai tributi statali sulle persone fisiche dando così agli enti territoriali margini di autogoverno su ricchezza determinata ai fini di imposte statali. La scelta è efficiente in termini di costi di determinazione e riscossione, in quanto si utilizzano informazioni già presenti nella tassazione attraverso le aziende. Di quest’ultima però si riproducono anche gli squilibri, in quanto la ricchezza esclusa, di diritto o di fatto, dall’Irpef, non è soggetta neppure alle relative addizionali. In questo contesto, la tassazione locale si è rivolta a ricchezza fortemente legata al territorio, come gli immobili di cui al prossimo paragrafo, o beni mobili registrati, oppure a varie forme intermedie tra “tasse” e “tariffe” (raccolta rifiuti, occupazione suolo, servizi idrici e depurazione acque, di alcuni dei quali si è detto al par. 5.1). Molti di questi tributi non sono però facilmente gestibili, in quanto altamente frammentati sul territorio, riferiti a un gran numero di contribuenti, ciascuno debitore di importi modesti, e quindi con notevoli difficoltà gestionali di determinazione della ricchezza e di riscossione. Il diritto tributario degli enti locali è insomma quello dove sono minori le possibilità di esternalizzare sulle aziende la determinazione della ricchezza e la riscossione dei tributi. Nella maggior parte dei tributi locali, invece, serve ancora quel forte intervento sistematico degli uffici pubblici, che conferma la matrice amministrativa del nostro settore. Potrebbe essere importante l’utilizzazione degli enti locali per determinare la ricchezza dove la determinazione contabile a cura delle aziende non arriva. Tale ruolo degli enti locali presuppone però l’acquisizione e la condivisione dei presupposti concettuali indicati in questo testo. I problemi da affrontare sono quelli tipici della tassazio- CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 277 ne attraverso gli uffici, e si ritrovano in parte a proposito dei tributi immobiliari, cui è dedicato il prossimo paragrafo. 10.9.La tassazione patrimoniale locale sugli immobili (ICI e IMU) La tassazione locale si riferisce, nella maggior parte dei paesi sviluppati, agli immobili, principale forma di ricchezza al tempo stesso facilmente “visibile” e radicata al territorio. In Italia questo “ritorno” al tributo locale immobiliare annuale avvenne nel 1993, con l’imposta comunale sugli immobili (ICI), che nel 2012, sull’onda della crisi finanziaria fu sostituita, con la casualità e le contingenze tipiche della comunicazione “politico mediatica” dall’IMU, specialmente relativa alla c.d. “prima casa”; la proprietà immobiliare è infatti sia una manifestazione di ricchezza, sia uno strumento per soddisfare consumi personali degli interessati. Di ciò si sarebbe dovuto tener conto attraverso una franchigia, uguale per tutti, anziché attraverso una indiscriminata esenzione di tutte le “prime case”, avvantaggiando chi occupa case di proprietà di rilevante valore. La relativa tassazione è stata ripristinata sotto forma di un diverso tributo denominato “TASI”. L’IMU è un’imposta patrimoniale comunale ordinaria (annuale) sugli immobili isolatamente considerati. La sua tollerabilità dipende dal reddito, sia ordinario, sia figurativo, sia derivante dalla prospettiva di future plusvalenze; se l’immobile si apprezza del 5 percento l’anno, ad esempio, il proprietario pagherà di buon grado un’imposta patrimoniale dell’1 percento, meno tollerabile quando invece l’immobile si deprezza. Le imposte in esame sono commisurate al valore degli immobili determinato con i moltiplicatori della rendita catastale previsti ai fini delle imposte indirette (registro: paragrafo 10.2), con aliquota stabilita annualmente da ciascun comune, e che può variare fino a un massimo del 11 per mille circa del suddetto valore, a seconda delle tipologie e della destinazione. La procedura applicativa è ispirata al ben noto schema dell’autotassazione salvo controllo (par. 1.5), ed è proprio qui il problema, di fronte alla ricchezza immobiliare fortemente frammentata tra persone fisiche, spesso propense all’evasione. L’elevato gettito di quest’imposta smentisce ancora una volta l’infedeltà fiscale degli italiani, considerando anche le scarse possibilità reali di controllo degli uffici comunali. L’individuazione e determinazione della ricchezza sono affidate alla rilevazione del patrimonio immobiliare, senza l’aiuto di “strutture amministrative intermedie”: come sopra rilevato gli enti locali sono soli di fronte a una ricchezza frammentata tra migliaia, spesso milioni, di piccoli proprietari. Nel controllo, i comuni sono soli di fronte a una massa enorme di contribuenti, ciascuno dei quali deve corrispondere, di solito, importi trascurabili. Per questo i costi di riscossione, anche attribuendo l’attività di recupero ad appositi concessionari, rischiano di essere molto alti rispetto alle somme incassate. Anche il semplice incrocio dei dati catastali con le dichiarazioni e i bollettini di pagamento può essere defatigante visto il numero dei contribuenti coinvolti. Certo, se l’azione amministrativa fosse meno rigida, meno incardinata in procedure uniformi, omogenee 278 Parte seconda – Il regime della ricchezza registrata su tutto il territorio, non sarebbe difficile far bussare i vigili urbani periodicamente, per raccogliere informazioni sul pagamento del tributo. I controlli del pagamento dell’ICI (IMU) diventano quindi meramente cartolari, basati su lettere raccomandate, spedite a destinatari magari trasferiti da anni, senza controllare il territorio, proprio come è già avvenuto per il resto della ricchezza non determinata attraverso le aziende. Gli effetti sul gettito sono ancora sorprendentemente contenuti, smentendo i luoghi comuni sullo scarso senso civico di cui al par. 4.5. Le scarse capacità di controllo dei comuni si indirizzano invece proprio a stabilimenti, ipermercati, capannoni e uffici, anche qui “in rettifica” del dichiarato (confermando uno dei fili conduttori del testo, secondo cui omettere del tutto la rilevazione fiscale della ricchezza non è il problema, ma –purtroppo – per molti è la soluzione. 10.10. Aspetti concettuali di altri “tributi minori” In un testo riferito ai comportamenti tributari delle istituzioni e degli individui sono opportune anche considerazioni “di sistema”, ispirate da altri “tributi minori”, cui sarebbe eccessivo dedicare un paragrafo specifico. Ritroviamo la dialettica tra “tributi e tariffe” (paragrafo 5.1) a proposito dell’occupazione del suolo pubblico, e della pubblicità effettuata attraverso affissioni, insegne pubblicitarie, cartelloni, striscioni etc,; entrambe queste attività dei privati, soggette a concessione amministrativa, non danno più luogo a tributi, ma a canoni di concessione; questi ultimi si collocano, nella sfumatura delle entrate pubbliche descritta al par. 5.1, più verso il principio del “beneficio” ed un criterio “corrispettivo” vista la “divisibilità” degli spazi pubblici. La trasformazione in prezzo è difficile quando non si riesce a misurare l’uso effettivo del servizio, come quello di smaltimento dei rifiuti solidi urbani; qui l’unica correlazione tra costo del servizio e ammontare del tributo è globale, nel senso che la somma introitata non può eccedere il costo complessivo del servizio, come è caratteristico dei c.d. “tributi di scopo”. La soluzione più facile, e controllabile oggettivamente, è una proporzionalità diretta tra dimensioni dell’immobile, persone che può ospitare e quindi quantità di rifiuti prodotta; il numero effettivo di occupanti degli immobili è infatti “meno visibile”, anche se è considerato dall’anagrafe è infatti l’occupazione, a titolo di proprietà o in base a contratti di locazione, di immobili situati nel comune, tenendo conto delle dimensioni, della destinazione e, tutt’al più, del numero degli occupanti dell’immobile, quali risultano dall’anagrafe comunale. La personalizzazione del calcolo da parte dei comuni continua a rendere necessaria la dichiarazione dei contribuenti e la richiesta d’ufficio, perché l’obbligo di autoliquidazione sarebbe troppo complesso. Per trasformare il tributo in esame in tariffa occorrerebbe presidiare i cassonetti, e chiedere un ticket per ogni sacchetto depositato, punendo al tempo stesso chi abbandona rifiuti per strada. È il solito problema di “controllo del territorio” da parte delle pubbliche autorità, più facile per i rifiuti di grandi dimensioni, più difficili da abbando- CAPITOLO 10 – “TRIBUTI MINORI” 279 nare in modo anonimo, e dove quindi il deposito in discarica consente al personale di sorveglianza di richiedere un tributo proporzionale ai rifiuti depositati. Il difficile inquadramento concettuale dei tributi secondari si ritrova per la tassa di possesso sui veicoli, che costituisce l’evoluzione della tassa di circolazione; il tributo si giustifica con le spese pubbliche di costruzione e manutenzione delle strade, che si cerca di mettere a carico degli utenti; originariamente il controllo era demandato agli agenti del traffico, in relazione a chi effettivamente circolava, ma nei primi anni ottanta, usando i registri di proprietà dei veicoli (notoriamente “beni mobili registrati”) il tributo fu collegato alla mera titolarità del veicolo, e attribuito alle regioni. Il tributo va ormai pagato in “autotassazione” (paragrafo 1.5), ma le regioni utilizzano il gestore dei registri automobilistici per la richiesta coattiva in caso di inadempimento. Il tributo è commisurato alla potenza fiscale del veicolo, non al suo valore, amministrativamente ingestibile. Ne deriva quindi, soprattutto per le vecchie auto, un carico tributario annuale spesso fortissimo rispetto al valore commerciale del veicolo, e al limite può addirittura eccederlo per qualche vecchio rottame, senza i requisiti per essere agevolato come “auto d’epoca”. I problemi concettuali appena indicati si ripresentano per il “canone RAI”, tributo anacronistico sotto vari profili; sia in relazione alla sua giustificazione economico sostanziale, superata dall’offerta radiotelevisiva, sia in relazione alla gestibilità amministrativa. È infatti impossibile ed antieconomico gestire una anagrafe specifica dei proprietari di apparecchi Radiotelevisivi. L’agenzia delle Entrate di Torino, cui fa capo l’applicazione del tributo, fa il possibile spedendo lettere “random” sul presupposto dell’esistenza di un apparecchio televisivo in ogni casa. Il tributo si trascina per forza di inerzia, e il sorprendente gettito, ancorché aiutato dal martellamento televisivo, smentisce ulteriormente lo stereotipo degli italiani evasori fiscali, confermando invece la disorganizzazione nella progettazione e gestione delle entrate tributarie.