03-Estratti prolusione P. Salim (21 novembre 2012)

Religioni violenza pace
(Estratti dalla prolusione di P. Salim Daccache s.j. al Dies Academicus dell’ISSR di Padova, 28
novembre 2012. Il testo completo sarà disponibile nel primo numero 2013 della rivista Studia Patavina)
[...] PRIMA PARTE: Come si situa la religione oggi?
Si può ricavare l’importanza del peso della religione attraverso i seguenti punti:
1. Dopo un XX secolo dominato dalla corrente di pensiero «umanista», ecco che il XXI si annuncia
«religioso», le religioni sono sempre più coinvolte nel destino dei popoli e delle genti. È in questo contesto
che le religioni sono accusate di essere una immensa fonte di violenza sino al punto che se sparissero
sembra che il mondo non potrebbe che andare meglio, almeno secondo tutta una corrente di pensiero. «È
tempo di disarmare Dio, dice Régis Debray, in quanto l’intreccio del Divino e del cruento non è di ieri». Di
fatto, non è un mistero che una corrente di storici e di teologi delle religioni accusano i monoteismi di
alimentare la violenza, considerata la pretesa di ciascuno di monopolizzare la verità e una certa idea della
universalità di un Dio onnipotente e che esclude l’esistenza di ogni altra divinità ; alcuni sottolineano che le
religioni monoteiste esaltano sino all’estremo la violenza allorché dei credenti dichiarano di essere fieri di
uccidere nel nome della religione. Per allargare la problematica, altri, al contrario, rinvengono nelle
religioni delle indispensabili fautrici di pace. Ma a cosa attingono questi estremi? Il potere di fomentare
l’odio, di umiliare, di dominare e quello di generare la bontà, l’amore, l’aiuto reciproco? D’altra parte,
anche ammettendo che la religione mantiene un legame con le violenze, si tratta di un legame strutturale,
ossia ontologico o solo di un legame passeggero e occasionale?
2. Come punto di partenza e a titolo di ipotesi, vorrei vedere quale sviluppo logico di questo tema (ossia
la tematica della diversità culturale e religiosa che caratterizza le società contemporanee,
indipendentemente dalla regione del mondo, e la tematica dell’urgenza di apportare un contributo
accademico alla costruzione della pace attraverso l’incontro e il dialogo tra le culture, le religioni e le
civiltà del mondo) come tutto ciò si realizza in una terra fragile come quella del Libano. All’inizio di
questo secondo decennio del XXI secolo, l’Università deve assumere l’impegno, se non l’ha ancora fatto,
di stimolare un lavoro di ricerca pluridisciplinare su questo tema, cominciando senz’altro dalla regione
mediterranea, soggetto principale a questo riguardo, questa casa dove coabitano una moltitudine di culture,
di lingue e di religioni. A Beirut, all’Università Saint-Joseph, abbiamo dato avvio a questa ricerca
teologica, filosofica, sociologica ed educativa, che è una ricerca sul terreno ma che ha il suo sbocco anche
su azioni concrete. O la nostra casa sarà una casa di morte (di morti) o sarà una casa di testimoni per la vita.
È la sfida che ci pone un tale tema che stiamo trattando. È vero che venendo dal Libano e da Beirut e dal
Medio Oriente, io ho il vantaggio di vivere una doppia esperienza, quella di una espressione religiosa che si
richiama alle violenze più aspre ma anche quella di una coscienza e di una volontà religiosa di abbattere i
muri dell’odio e dell’esclusione e di costruire i ponti della pace, in relazione alla espressione pronunciata
da Sua Santità Giovanni Paolo II: «Il Libano è più che un paese, è un messaggio di libertà e un esempio di
pluralismo, per l’Oriente come per l’Occidente». Ciò nonostante, la nostra esperienza è quella di un
attaccamento alla «dignità della differenza» e la consapevolezza che la costruzione della pace non può
essere un affare individuale ma di differenti interlocutori.
3. È utile inscrivere la nostra esperienza della forza dell’interreligioso in Libano come speranza di
salvezza, nell’ambito del Terzo mondo che non si è mai sottratto all’attaccamento alla religione e a una
religiosità che non ha mai cessato di rinforzarsi avendo una influenza importante sul tessuto sociale come
avviene per la religione popolare in Brasile e l’islamizzazione delle società del mondo arabo e musulmano.
Questo per dire che soprattutto i Paesi al di fuori soprattutto di una certa Europa e di un certo Occidente
non hanno fatto l’esperienza di una rottura o di una differenziazione tra la religione e la cultura, ossia
dell’emergere di una laicità che limita fortemente il posto della religione nella vita politica, civile e sociale.
La grande rivoluzione della laicità consiste nel fatto che essa applica certi vantaggi positivi agli individui
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(come i diritti dell’uomo, la scelta democratica, la libertà di opinione e di scelta della propria religione) e
non alle comunità. Nelle società laiche è l’appartenenza nazionale dell’individuo che precede
l’appartenenza religiosa, mentre l’altra parte del mondo dà il primato alla comunità a detrimento
dell’individuo [...].
SECONDA PARTE: Religioni e violenza: di cosa parliamo?
Mi è capitato di partecipare a degli incontri interreligiosi sulle religioni e sulla pace in Libano e in altri
contesti, e mi sono posto delle domande sulla serietà e l’obiettività dei contributi. In effetti si assisteva a
una serie di interventi che intendevano mostrare che la religione dell’oratore era profondamente pacifica e
che a seguirla il mondo non sarebbe che migliorato. Articoli di riviste con carattere scientifico abbondano
in questo senso, cosa che è certo positiva almeno in apparenza, ma che però maschera la realtà. Per meglio
comprendere il dilemma della religione quanto al suo rapporto con la violenza e la pace, cominciamo con il
comprendere ciò che è oggi la religione e la violenza.
Cos’è oggi la religione? Fermiamoci al vocabolo «religione» così manipolato e sollecitato ai nostri
giorni. Intendo evitare la ricerca etimologica e psicologica di religio, malgrado la ricchezza che può
contenere, per mettere l’accento sul senso del termine nella nostra realtà sociale di oggi. Possiamo definire
la religione o le religioni monoteiste come attaccamento all’insieme di mediazioni (le parole e il
linguaggio, i riti, le istituzioni, ma anche tutti gli stili di vita,....) che permettono di vivere il rapporto con il
divino e allo stesso tempo, non scordiamolo, la fede in Dio o in una divinità nell’esistenza quotidiana e
permettono anche di vivere una relazione o determinare una relazione con l’altro essere umano identico o
differente. La religione come attaccamento a una mediazione cerca di aiutare il credente a realizzare il
senso di ciò che intraprende quaggiù. La religione allora è attaccamento a queste mediazioni, che però non
devono essere idolatrate. Ciò non è però affatto semplice, poiché le mediazioni:
1) Sono il nostro corpo, sono i nostri legami di sangue e di parentela, le gerarchie che organizzano i
poteri nella comunità; è la stessa comunità; 2) È la nostra terra, mediazione centrale; 3) È l’orientamento
della storia degli uomini verso la fine dei tempi; 4) È anche la Scrittura; 5) È anche la valorizzazione del
sacrificio.
Se ho insistito sulla definizione della religione come legame a queste mediazioni, è per mettere in rilievo
i due punti seguenti: ogni religione e a fortiori le religioni monoteiste non possono esistere e manifestarsi
che attraverso dei segni materiali di cui esse sono le proprietarie; dei segni il cui rischio è che divengano
degli idoli invece di guardarli come fonte di vita per tutti. È anche il rischio di cadere nell’irrazionale per
difenderli o imporli attraverso la forza cieca. D’altra parte, queste mediazioni non sono che passaggi per
raggiungere il Trascendente che le abita ma che anche le supera. Come essere attaccati a queste
meditazioni, intimamente, ma allo stesso tempo nel distacco, nella non-idolatria, non per custodirle per sé
ma per farne dono?
Cos’è la violenza: un tentativo di definizione. Noi possiamo in questo senso rappresentarci la violenza
in due modi: la violenza istituzionale legittima amministrata dagli Stati e i poteri costituiti a tale scopo
(salvo che questi Stati facciano uso della violenza nel nome della religione abusando della forza), e la
violenza repressiva abusiva esercitata da gruppi o individui, resa legittima nel nome della religione o nel
nome di Dio. È la concezione di Immanuel Kant che noi privilegiamo qui: la violenza fa dell’altro (o di se
stesso) una sorta di strumento, essa lo riduce a una cosa o semplicemente a un mezzo, invece di
considerarlo come un fine in se stesso. Alcuni hanno intravisto un legame tra i vocaboli apparentati di
«violenza» e di «violazione», tanto da considerare allo stesso modo la violenza come una violazione della
integrità dell’altro: la sua integrità fisica, psicologica, strutturale o culturale.
PARTE TERZA: Le fonti religiose della violenza.
Parlando delle fonti religiose della violenza, si tratta meno di fare una analisi teologica dei testi
scritturistici, cosa che d’altra parte è ben nota, che di mettere in luce la percezione che certi gruppi ben
costituiti o delle tendenze religiose profonde fanno dei dati simbolici o degli scritti per legittimare la
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violenza. Vorrei prendere in considerazione tre esempi della nostra regione del Medio Oriente per illustrare
questa tendenza alla manipolazione della religione:
Il primo esempio viene dal Libano dove durante la guerra dei cristiani si sono raggruppati nel
movimento politico-militare delle « Forze libanesi » che hanno condotto molte battaglie contro i palestinesi
e i siriani in nome della loro appartenenza alla religione cristiana e per essa. Il loro simbolo di
combattimento era la croce smussata, chiamata anche croce della resistenza libanese. Attualmente è ancora
utilizzata da alcuni sostenitori ma ufficialmente non è più il simbolo del movimento. Secondo il sito
ufficiale delle Forze libanesi «la croce è smussata verso il basso e diviene come un pugnale. Essa
rappresenta la volontà e la determinazione dei cristiani, divenuti una minoranza nel Medio Oriente, di voler
lasciare la loro croce piantata nella regione». D’altra parte una preghiera detta «preghiera del combattente
delle Forze libanesi», richiama questa missione di custodire la croce piantata sulle montagne del Libano e
afferma quanto segue :
«O Signore, che il tuo nome sia glorificato e che la tua volontà sia fatta. Dammi il coraggio, la forza, e
la conoscenza di testimoniare per la verità e di marciare sul tuo cammino e di meritarti.
Fa che io mi ricordi, Signore, di quelli che sono diventati martiri dopo di te e prima di me e fa del loro
sangue puro una luce per guidarmi, e se giammai lo scordo, che un fuoco mi bruci.
Mantienimi forte in modo che io ami e che mi affidi al tuo amore sino alla morte, e che aumenti la mia
fiducia e la mia fede in modo che io rafforzi la causa e che liberi il Libano. E fa che la Croce sia un segno
sulle montagne del Libano per sempre, Amen».
Si può vedere come da una intenzione certo nobile che può essere concretizzata attraverso un simbolo
nazionale, si è passati scivolando da una causa nazionale a una causa religiosa che occorrerà difendere con
le armi. Il martirio di un combattente non è che il prolungamento del martirio di Cristo nel senso di
identificazione e di offerta di sé, affinché la Croce continui a essere piantata sulle montagne libanesi. Oggi
sappiamo che la soluzione violenta attraverso le armi non aveva alcun futuro e che essa era destinata al
fallimento e che è piuttosto la resistenza spirituale, il linguaggio della coesistenza e la continuità
dell’azione educativa e sociale della Chiesa del Libano che ha avuto peso per la sopravvivenza dei Cristiani
e del Libano.
Il secondo esempio concerne i movimenti islamisti. Due personalità che marcano l’azione violenta di
questi movimenti nel nome dell’Islam :
Si sa che il pioniere del fiqh (ossia della giurisprudenza islamica) che incita alla violenza è Ibn
Taymiyya che ai nostri giorni esercita una influenza sui salafisti contemporanei [...]. La seconda
personalità, Sayyid Qutb, è egiziana e costituisce l’immagine più rappresentativa dei Fratelli musulmani :
essa è stata congiuntamente influenzata da ibn Taymiyya, al Wahhab e da Abu al Ala’al Mawdoudi. [...].
Secondo lui la civiltà occidentale è sprofondata in una decadenza che è dovuta al fallimento dei valori. [...].
Occorre condurre una guerra totale, ai suoi occhi quasi un conflitto cosmico, in modo indissociabile
mistico e politico, contro il nemico dell’Islam. [...].
Il terzo esempio scelto proviene dai vicini del Sud del Libano, lo Stato d’Israele. Siamo a conoscenza
della corrente Haredim che è spirituale ma che ha anch’essa i suoi eccessi. Pongo all’attenzione due
avvenimenti commentati da David Biale nella sua opera Potere e violenza nella storia ebraica e che mostra
come una violenza può essere esercitata a causa di uno zelo religioso. In primo luogo, si tratta della lettura
di un epitaffio: «Un vero Tazaddik (un uomo giusto), che Dio vendichi il suo sangue, ha dato la sua vita per
santificare il nome di Dio» [...]. Il secondo avvenimento, due anni più tardi, riguarda l’assassinio di Isaac
Rabin per mano di un altro zelota, Yigal Amir, che avrebbe voluto prevenire attraverso il suo atto
l’assassinio di ebrei da parte dei palestinesi in quanto Rabin stava negoziando una pace con questi ultimi. I
sostenitori di Amir legittimavano l’attentato contro una grande figura politica adducendo il pretesto che
negoziando con i palestinesi Rabin metteva in pericolo la vita degli ebrei.
La religione strumento. Tenendo conto di questi esempi e dei fatti che abbiamo esposto e della
definizione della religione, è bene per noi rilevare che la religione serve spesso, soprattutto nei paesi dove
essa è stata associata alla storia nazionale, come una identità di sostituzione in rapporto a identità politiche
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in crisi o in fallimento. Essa sostituisce allora una identità nazionale che viene meno e diviene l’elemento
unificatore, nel contempo sacro ma anche profano, della solidarietà politica quando la comunità nazionale
si disintegra. La religione si inscrive nel quadro di un rapporto tra gli uomini che è un rapporto di forza, di
dominio e di potere dove il più forte è il vincitore. Dall’ethos si è passati all’ethnos.
In certi conflitti la religione è ugualmente utilizzata come un vettore di legittimazione della violenza. È
questo il suo ruolo più pericoloso: santificare un combattimento «per» Dio, come nell’appello al jihad, o
per la difesa di un territorio considerato sacro per il suo valore simbolico, come ad esempio il Kosovo,
«culla» dell’ortodossia serba, o ancora per l’espropriazione e la colonizzazione di spazi che fanno parte di
una terra sacra, come nelle ideologie estreme dei coloni religiosi di Israele.
Infine, nelle tensioni tra gruppi diversi o anche di Stati, la religione si trasforma in fattore di
mobilitazione. Se la religione è così manipolata, noi non possiamo escludere che essa si lasci manipolare in
una prospettiva di violenza. Il pericolo è che a causa di questa strumentalizzazione venga perduta ogni
possibilità di discernimento. Dominata dalla minaccia e dalla paura, la religione rischia di soccombere alla
violenza, cercando nelle proprie Scritture le tracce che la legittimano.
In effetti le religioni non sono mai state così pacifiche come quando sono state totalmente separate dal
potere politico. Sono i movimenti e le correnti teologiche cristiane maggiormente indifferenti a ogni
conquista del potere dello Stato che hanno sviluppato, a partire dal proprio intimo, una spiritualità non
violenta e hanno restituito al cristianesimo la sua vocazione alla non violenza.
Detto questo, la nostra problematica si sposta e ci conduce a domandarci se non è una religione
monoteista, l’Islam, che sarebbe intrinsicamente, nei suoi stessi princìpi, legata alla organizzazione del
potere politico, e dunque esclusiva della laicità. La spiritualità delle confraternite sufi, tese al «grande
Jihad», al combattimento interiore da condurre contro se stessi, e non il «piccolo Jihad», la guerra da
condurre contro gli «infedeli», ci obbliga a rispondere negativamente. Recentemente l’università di Al
Azhar del Cairo ha invitato ad adottare il principio che solo lo Stato civile può portare le armi. Né
l’ebraismo, né il cristianesimo, né l’islam ai nostri giorni adottano ufficialmente la violenza al fine di
risolvere dei conflitti o per guadagnare nuovi membri. Tuttavia, in nome di coloro che possono utilizzare la
violenza, si dà importanza particolare alle frange politico-religiose dei monoteismi.
In effetti, le dialettiche all’opera tra religioni e violenza intrecciano affinità e antinomie: i monoteismi
hanno per effetto sia di generare la violenza (giustificandola in nome di Dio), ma anche di regolarla
(addomesticandola e canalizzandola), sia di denunciarla (protestando contro le sue legittimazioni abusive).
Ora queste tre realtà sono ben presenti in tutte le religioni, politeiste così come monoteiste, e si manifestano
in funzione del loro rapporto con il potere politico. La correlazione tra monoteismi e violenza è dunque in
definitiva contingente, ossia significa che ci può essere così come può anche non esserci.
Evidentemente queste prospettive richiedono di essere sfumate. Esse devono tenere conto anche dei
contesti di crisi, della minaccia e della persecuzione religiosa che pesa sulle persone. Inoltre esse devono
prendere in considerazione lo stato della dottrina e della riflessione sulla violenza, stato variabile a seconda
delle religioni. Ma la questione concerne ugualmente ogni credente che si deve interrogare sul senso che
può avere la sua religione allorché essa è ridotta a un ordine di legittimazione nei confronti del quale ogni
rapporto all’«altro» che non sia il modo della ostilità sarebbe negato.
PARTE QUARTA: Le vie della pace
Iniziamo con il proporre l’ipotesi seguente : in un’epoca nella quale, contrariamente all’Antichità e al
Medioevo, l’umanità dispone di nuovi mezzi tecnici di distruzione, tutte le religioni e in particolare le tre
religioni profetiche sovente aggressive dovrebbero impegnarsi a fare di tutto per evitare le guerre e
promuovere la pace. Una nuova lettura e una reinterpretazione sfumata della propria tradizione è a questo
scopo ineludibile. Innanzitutto gli scritti e gli atti bellicosi di ogni tradizione dovrebbero essere interpretati
in funzione del particolare contesto storico, ma senza minimizzarli [...]. Ma è probabile che un musulmano
che incita alla violenza e alla guerra invocherà il Corano e le azioni del Profeta. Invece un cristiano che fa
ricorso alla violenza e fa la guerra non può citare il Cristo, il Principe della Pace, per giustificare la sua
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azione. Tuttavia nel contesto delle minacce pericolose che pesano sulla pace mondiale, si pongono delle
questioni pratiche alle quali non è affatto facile rispondere. A proposito di questa nuova tendenza della
reinterpretazione della tradizione, prendiamo come esempio il pensiero di un’autorità religiosa sciita, lo
Sceicco Mohamed Hussein Fadlallah che qualificava se stesso di islamista, e che ha ripensato nuovamente
la relazione tra la religione, la violenza e la pace, e l’esempio del professor Ridwan Al-Sayyid, una
legittima autorità sunnita.
Il pensiero musulmano sulla violenza e la misericordia
[...] Fadlallah risponde: «Tra le civiltà umane nessuna è stata una civilizzazione di assoluta violenza o di
assoluta misericordia; questo perché l’uomo nel processo di civilizzazione è come la natura, fa parte della
natura cosmica che diviene sia violenta che misericordiosa». Dopo avere spiegato come la violenza della
natura raggiunge una certa forma di dolcezza (la pioggia come fenomeno di violenza e la natura che ne
approfitta), lo Sceicco sottolinea che egli non intende affermare che l’Islam non è la religione della
violenza o del terrorismo ma la religione della misericordia al fine di attirare gli applausi del suo uditorio,
ma è necessario dire che l’Islam è la religione dell’uomo, essendo essa apparsa per servire l’uomo e non al
contrario. In effetti il Corano invita gli uomini ad ascoltare Dio e il Profeta al fine di approfittare della Vita,
essendo la Vita misericordia e violenza. La Vita si dispiega al fine che la ragione produca il pensiero, il
cuore l’affezione e l’azione la giustizia.
Un’altra voce che proviene dalla comunità sunnita, quella di Ridwan Al-Sayyid, fa una lettura del
rapporto tra l’Islam, la violenza e la pace. Egli sottolinea che i dotti musulmani concordano su un solo
luogo ove la violenza è permessa : la Palestina, dalla quale un popolo è stato cacciato. Per il resto, non c’è
alcun luogo della terra dove la violenza dei musulmani può essere esercitata sull’altro poiché ciò che è
fondamentale, ossia l’esercizio del culto musulmano e della preghiera, è autorizzato, tanto nei paesi dove i
musulmani costituiscono una maggioranza quanto dove essi sono in minoranza. Anche la grande
maggioranza dei sapienti condannano la violenza e il richiamo dei fondamentalisti che rendono lecita la
violenza contro coloro che cercano di approfittare della Casa dell’Islam e i loro collaboratori tra i dirigenti
musulmani.
Il pensiero cristiano sulla violenza e la pace
Per non limitare questa ricerca all’Islam, notiamo che anche il cristianesimo orientale ha affrontato in
diverse occasioni questa necessità di superamento della violenza verso la pace. La terza Lettera apostolica
dei Patriarchi Cattolici d’Oriente, intitolata La coesistenza tra musulmani e cristiani nel mondo arabo,
sottolinea che «la persona umana deve essere il criterio di ogni sistema politico o sociale. Tutti i sistemi
sono stabiliti a suo servizio. E con questo noi intendiamo tutta la persona, spirito e corpo, individuo e
comunità. I diritti della persona derivano il loro carattere sacro dalla santità di Dio che l’ha creata e l’ha
voluta ricettacolo di diritti e di doveri, e le ha dato una coscienza vivente attraverso la quale essa può
cercare la verità e può pervenirvi senza costrizione. Non esiste alcuna contraddizione tra i diritti della
persona e quelli di Dio. È per questo che colui che non rispetta la creatura di Dio non rispetta nemmeno il
Creatore [...].
Una educazione a favore della pace:
Ascoltiamo il messaggio di Papa Benedetto XVI rivolto ai Libanesi e agli Orientali: «Per aprire alle
generazioni di domani un futuro di pace, il primo compito è dunque quello di educare alla pace per
costruire una cultura di pace. L’educazione, nella famiglia o a scuola, dev’essere anzitutto educazione ai
valori spirituali che conferiscono alla trasmissione del sapere e delle tradizioni di una cultura il loro senso e
la loro forza. Lo spirito umano ha il gusto innato del bello, del bene e del vero. È il sigillo del divino,
l’impronta di Dio in esso! Da questa aspirazione universale deriva una concezione morale ferma e giusta,
che pone sempre la persona al centro. Ma è solo nella libertà che l’uomo può volgersi verso il bene, perché
“la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo una scelta consapevole e libera, cioè mosso e indotto
personalmente dal di dentro, e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna” ». Il fine
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dell’educazione è di accompagnare la maturazione della capacità di fare scelte libere e giuste, che possano
andare contro-corrente rispetto alle opinioni più diffuse, alle mode, alle ideologie politiche e religiose. La
fondazione di una cultura di pace è a questo prezzo! Questo richiamo alla educazione della pace passando
attraverso l’educazione all’arte di vivere insieme, è una sfida quotidiana, accolta da uomini e donne di
buona volontà in Libano attraverso alcune iniziative coraggiose. Gli esempi possibili sono molteplici: un
governo che proclama il 25 marzo Festa dell’Annunciazione a Maria, una festa comune a tutti i Libanesi,
musulmani e cristiani; gli alunni delle scuole musulmane e cattoliche che partecipano insieme a progetti di
conoscenza reciproca e di scoperta di valori comuni quali la cittadinanza, la spiritualità, l’apertura alla
trascendenza, l’amore del loro paese, il mutuo rispetto delle differenze, l’accettazione dei reciproci diritti e
doveri civici, l’attaccamento alla democrazia e alle libertà nel quadro di uno Stato civile governato da
civili: questi sono dei valori tra molti altri che fondano un vivere insieme comune; la convinzione comune
delle autorità scolastiche da una parte e dall’altra che tale è il cammino da prendere; degli studenti
universitari musulmani e cristiani che si ritrovano insieme non solo per studiare le materie profane ma
anche per acquisire una formazione continua al dialogo islamo-cristiano, per comprendere in prima persona
chi è l’altro, per comunicare le proprie paure e i propri pregiudizi, per acquisire dei validi strumenti per
risolvere i conflitti; degli insegnanti di diverse confessioni formati specificamente affinché divengano
fautori di dialogo nelle loro classi; dei campi misti di vacanze; un programma con lo scopo di mettere in
luce le passate figure del dialogo; e infine un insegnamento accademico diffuso in tutti i cicli mirato a
formare dei responsabili musulmani e cristiani capaci di promuovere le relazioni islamo-cristiane. Il terreno
libanese abbonda di tali iniziative che, nel passare dei giorni e degli anni, costituiscono la cultura libanese
del vivere insieme nella pace: essa ha sempre necessità di atti di pace al fine di avere successo e di
consolidarsi. Come complemento a tutto ciò, una educazione alla pace come valore interreligioso implica
una fiducia nella ragione come mediazione. Se l’educazione dovrà mettere l’accento sulla ragione come
capacità critica e creatrice, occorre che le religioni si riuniscano attorno all’altro significato della ragione,
ossia alla ragione come saggezza, al fine di trasmettere una cultura che promuova l’umano nell’uomo e gli
offra un avvenire di pace.
La pratica della pace
[...] Il dialogo interreligioso a favore della pace: l’esperienza di Assisi è a questo proposito esemplare.
L’iniziativa di Giovanni Paolo II nel 1986 poi ripresa nel 2011 da Benedetto XVI è un modello di ciò che
possono produrre le religioni come sostegno morale alla cessazione degli atti cruenti e al passaggio a un
tempo di pace. L’invocazione di Giovanni Paolo II rimane sempre attuale: «È urgente che una supplica
comune si elevi con insistenza per chiedere all’Onnipotente il grande dono della pace, condizione
necessaria per ogni serio impegno a servizio del vero progresso dell’umanità» [...].
Per terminare questa riflessione, riprendiamo il testo di Benedetto XVI pronunciato a Beirut, e che
costituisce un importante punto di riferimento per ciò che può divenire l’azione della religione a favore
della pace:
«L’efficacia dell’impegno per la pace dipende dalla concezione che il mondo può avere della
vita umana. Se vogliamo la pace, difendiamo la vita! Questa logica squalifica non solo la guerra e
gli atti terroristici, ma anche ogni attentato alla vita dell’essere umano, creatura voluta da Dio.
L’indifferenza o la negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’uomo impediscono il
rispetto di questa grammatica che è la legge naturale inscritta nel cuore umano. [...] Dobbiamo
dunque unire i nostri sforzi per sviluppare una sana antropologia che comprenda l’unità della
persona. Senza di essa, non è possibile costruire l’autentica pace. Oggi, le differenze culturali,
sociali, religiose, devono approdare a vivere un nuovo tipo di fraternità, dove appunto ciò che
unisce è il senso comune della grandezza di ogni persona, e il dono che essa è per se stessa, per gli
altri e per l’umanità. Qui si trova la via della pace! Qui è l’impegno che ci è richiesto!».
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