La notizia di reato tra qualificazione, iscrizione e

ISBN 978—88—548—4273—1
issn 2032—5993—10003
DOI 10. 4399/97888548427315
pag. 65—84
giustizia penale
La notizia di reato tra
qualificazione, iscrizione e controlli
Rosa Volpe­– Agostino De Caro
Il titolo II del libro V del codice di procedura penale vigente è rubricato notizia di reato.
Nel medesimo codice di rito della notizia di reato si legge in più articoli: 55, 330, 335, 347, 408. Anche nelle norme di attuazione (d.lgs. 28
luglio 1989, n. 271), in più casi, ad essa si fa puntuale riferimento: artt.
108–bis, 109, 110–bis, 125.
Tuttavia, nessuno degli articoli citati ne fornisce una definizione.
Uno dei maggiori autori, Franco Cordero, definisce la notizia del reato “l’embrione dell’ipotetica domanda”. Non si è rinvenuta definizione
più appropriata. La notizia di reato, infatti, non è altro che una informazione il cui scopo è quello di promuovere un accertamento giurisdizionale di carattere penale. Ciò è possibile ed avviene nel caso di commissione, anche ipotetica, di un fatto costituente reato.
La premessa svolta consente di pervenire ad una nozione di notizia
di reato semplice e nello stesso tempo ovvia: trattasi dell’informazione
che perviene all’attenzione dell’organo giurisdizionale deputato all’esercizio dell’azione penale (pubblico ministero) di un fatto i cui connotati
esteriori consentono di sussumerlo in una norma incriminatrice. In altri
termini, quando il pubblico ministero riceve la comunicazione di un fatto che individua un comportamento in possibile violazione del codice
penale o di altra norma penale, capace di dar luogo ad una imputazione,
ossia alla contestazione di una ipotesi di reato, si è in presenza di una
notizia di reato. Non è necessario che ne sia indicato l’autore (potendo
la notizia riguardare autore ignoto), né, nel caso in cui lo stesso sia individuato, ciò è indice della sua automatica fondatezza: lo stabiliranno
le indagini preliminari, il cui prodromo è costituito proprio dalla notizia
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di reato. La ricerca compiuta dei requisiti strutturali del reato spetta alle
indagini preliminari.
La nozione fornita del sintagma notizia di reato reclama qualche precisazione. È necessario, infatti, che sia individuata la fonte della notizia criminis. Anche un esposto anonimo pervenuto alla polizia giudiziaria o al
pubblico ministero potrebbe, in astratto, contenere la descrizione di un
fatto perfettamente riconducibile alla violazione di una norma penale
sostanziale, capace, pertanto, di far elevare una imputazione. In tal caso,
tuttavia, non esiste notizia di reato: la denuncia o delazione anonima non
è tale, poiché non è attribuibile ad alcuno, sicchè vi è incertezza della
fonte della notizia di reato, manca la paternità. In tal senso il codice di
rito, all’art. 333, comma 3, statuisce che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. Ciò è pienamente in linea con i principi costituzionali
in tema di giurisdizione. L’art. 111 Cost., infatti, dispone che il processo è
regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova,
ed esclude che la colpevolezza dell’imputato possa provarsi sulla scorta
di dichiarazioni di chi, per libera scelta, si sottrae all’interrogatorio da
parte dell’imputato o del suo difensore: l’anonimo è per eccellenza colui
che per libera scelta mostra di volersi sottrarre al contraddittorio.
È, pertanto, notizia di reato quella che proviene da fonte qualificata:
non è tale quella proveniente da fonte anonima o confidenziale (art. 203
c.p.p.).
2. Acquisita la notizia di reato, il pubblico ministero (il procuratore
della Repubblica) deve provvedere alla sua iscrizione.
L’art. 335, comma 1, c.p.p., infatti, fa obbligo al pubblico ministero di iscrivere immediatamente, nell’apposito registro, ogni notizia di
reato che perviene alla sua cognizione, provvedendo contestualmente,
o dal momento in cui risulta, ad iscrivere il nome della persona alla
quale il reato stesso è attribuito. Una prima osservazione. La norma in
questione implicitamente individua due registri delle notizie di reato:
quello a carico di soggetti noti, identificati, a cui viene ricondotto già
all’atto dell’iscrizione il fatto reato (cd. modello 21) e quello a carico
di soggetti ignoti (cd. modello 44), cui si ricorre nella ipotesi in cui vi
è notizia di reato ma non sono acquisiti elementi (almeno nella fase di
acquisizione e ricezione della notizia) per ricondurla ad un ben individuato soggetto.
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Correlato all’art. 335, comma 1, cit., è l’art. 109, disp. att., c.p.p., che
prescrive alla segreteria della procura della Repubblica di
annotare sugli atti che possono contenere notizie di reato la data e l’ora
in cui sono pervenuti in ufficio e li sottopone immediatamente al procuratore della Repubblica per l’eventuale iscrizione nel registro delle notizie
di reato.
La norma in questione parrebbe di mera sussidiarietà all’art. 335 cit.
e limitata a dettagliare gli adempimenti richiesti alla segreteria della procura della Repubblica che si riceve un atto che può contenere notizia di
reato. Ciò non è. La norma implica ben più ampie problematiche. Da
essa si coglie, infatti, che spetta al procuratore della Repubblica verificare
se un fatto che seppure qualificato, come può accadere, dalla polizia
giudiziaria o altro soggetto trasmittente, quale notizia di reato, sia da ritenersi tale e, dunque, se ne debba operare la iscrizione nel registro di cui
all’art. 335, comma 1, c.p.p. Non vi è, pertanto, alcun automatismo tra
la ricezione di un atto denominato notizia di reato e iscrizione di esso nel
registro delle notizie di reato.
È evidente che la norma non si riferisce a quelle ipotesi in cui è facile ricondurre un determinato fatto giunto alla cognizione del pubblico
ministero ad una norma incriminatrice: nella fisiologia del sistema il
procuratore della Repubblica immediatamente ne ordinerà l’iscrizione
nel registro delle notizie di reato.
L’art. 109 disp. att. cit., laddove usa l’aggettivo “eventuale”, implica
che vi siano degli atti, che potrebbero anche essere denominati notizie di reato ma che il procuratore della Repubblica può valutare di non
iscrivere nel registro delle notizie di reato in quanto, a suo giudizio, non
costituiscono notitia criminis.
La questione è di estrema delicatezza ed è molto dibattuta in dottrina
e giurisprudenza. Essa attiene alla tenuta del registro cd. modello 45, istituito presso tutte le procure della Repubblica, che non è disciplinato dal
codice. La sua istituzione è avvenuta con d.m. 30 settembre 1989 (relativo alla istituzione dei registri in materia penale), ma il suo fondamento
normativo e codicistico si rinviene proprio nell’art. 109 disp. att. cit.
Secondo la circolare del Ministero della Giustizia (cd. circolare Vassalli) del 18 ottobre 1989, il registro modello 45 è destinato a contenere
la registrazione di quegli atti “privi di rilevanza penale”. Una successiva
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circolare del Ministero della Giustizia del 20 luglio 1990 ha disposto che
le informative non costituenti notizia di reato debbano essere iscritte
nel registro mod. 45, in quanto atti privi di rilevanza penale, non suscettibili, pertanto, di dare corso alle indagini preliminari, ed aggiunge
che tali modelli (cd. 45) non vanno trasmessi al giudice per le indagini
preliminari per l’archiviazione, ma inviati direttamente all’archivio del
pubblico ministero. Aggiunge la circolare che nel caso in cui il pubblico
ministero ritenga che per la notizia iscritta a mod. 45 debba compiere
atti di indagine, prima di disporne l’esecuzione deve procedere a nuova
iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Siffatta procedura in realtà non sempre viene osservata; del resto essa
appare contraddittoria con le scelte inizialmente operate dal pubblico
ministero con l’iscrizione del fatto a modello 45. Ed invero, traslasciando le notizie di chiara irrilevanza penale per le quali la iscrizione nel
registro degli atti non costituenti notizia di reato avviene agevolmente, vi
è una zona grigia, che spesso impone valutazioni non semplici.
Qualche esempio. Capita sovente di esposti o denunce, anche di privati, ma non solo, che lamentano torti subiti da apparati che agiscono
per la pubblica amministrazione. Talvolta si indica anche nominativamente il soggetto nei cui confronti le doglianze sono prospettate e, tuttavia, dall’atto non si colgono gli elementi, sia pure in via meramente
astratta, per ritenere configurabile una ipotesi di reato e, dunque, poter
apprezzare l’acquisizione di una notizia di reato.
In tali casi il procuratore della Repubblica provvederà ad iscrivere la
notizia a mod. 45.
Tuttavia, il pubblico ministero sente il dovere di verificare la fondatezza delle doglianze e, soprattutto, se a fronte della non chiara esposizione dei fatti (magari avvenuta ad opera di privato privo di nozioni
giuridiche e tecniche o da una polizia giudiziaria a cui, parimenti, non
può essere richiesta una non facile preparazione in tema di astruse normative che regolano il funzionamento della pubblica amministrazione
o materie similari) possano esservi elementi capaci di darne connotazione penalistica. Per la circolare ministeriale del 1990 prima citata, il
pubblico ministero, in tali casi, prima di ogni iniziativa, dovrebbe operare una iscrizione a mod. 21 o mod. 44. Si richiede, pertanto, al p.m. di
inventarsi una ipotesi di reato e, peraltro, di proporre al suo procuratore
della Repubblica una iscrizione diversa da quella che quest’ultimo ha
disposto qualche giorno prima.
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Tale procedura non è condivisibile. Se l’art. 330 del codice di rito
conferisce al pubblico ministero il potere di prendere notizia di reato di
propria iniziativa, appare corretto assumere che uno dei veicoli tramite
i quali il p.m. può prendere notizia di reato è proprio attraverso indagini
disposte nell’ambito di un fascicolo modello 45. È evidente che trattasi di attività preprocedimentali e, pertanto, il pubblico ministero non
potrà dare corso ad atti invasivi, ma certamente potrà assumere quelle
iniziative limitate alla verifica della sussistenza ed acquisizione di una
notizia di reato (potrà, ad es., sentire l’esponente/denunciante, potrà acquisire atti). Solo nel momento in cui, operata tale verifica, verrà alla sua
attenzione una notizia di reato (ossia la dinamica di un fatto in astratto
sussumibile in una norma incriminatrice) scatterà l’obbligo della iscrizione secondo il dettato dell’art. 335 c.p.p.
3. Il tema in trattazione si ricollega a quello della mancata tempestiva
iscrizione della notizia di reato.
Sebbene privo di una effettiva sanzione in termini di nullità o inutilizzabilità degli atti compiuti in carenza della doverosa iscrizione, rientra nei doveri giuridici (oltre che deontologici) del pubblico ministero
procedere alla pronta iscrizione della notizia di reato e del soggetto a cui
viene ascritta, in ossequio al disposto, oltre che dell’art. 335 c.p.p., anche
dell’art. 124 c.p.p., che prescrive l’obbligo dell’osservanza delle norme
del codice di procedura anche quando “l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale”.
La problematica di maggiore interesse che si pone nell’affrontare il
tema è soprattutto quella della mancata o tardiva iscrizione del nome
dell’indagato nell’apposito registro.
Le ipotesi che si possono profilare sono le seguenti:
a) notizia di reato iscritta a mod. 44 (ignoti), con identificazione del
soggetto cui la notizia va ascritta;
b) notizia di reato acquisita nell’ambito di indagini svolte nel modello 45, con individuazione del soggetto cui va ascritta.
In entrambe le ipotesi può accadere che il pubblico ministero, pur
avendo acquisito oltre alla notizia di reato il nome dell’indagato, prosegua nelle indagini senza operare il passaggio del fascicolo al cd. modello
21 o vi proceda tardivamente.
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La terza ipotesi che si può delineare è la seguente: in presenza di un
procedimento a modello 21, ossia iscritto ab initio a carico di soggetti
noti, sebbene nel corso delle indagini vengano individuati altri soggetti
raggiunti da notizia di reato e, pertanto, soggetti ad iscrizione o, ancora,
che le indagini abbiano condotto alla individuazione di altre ipotesi di
reato a carico dei soggetti indagati ed iscritti, non vengano operate le
relative ulteriori iscrizioni o esse vengano operate tardivamente.
Tali evenienze ed omissioni da parte del pubblico ministero rivestono particolare significato nel sistema procedurale vigente. Infatti, il
pubblico ministero ha limiti temporali ben cadenzati entro i quali deve
svolgere la sua attività successiva alla acquisizione della notizia di reato,
ovvero le indagini preliminari, all’esito delle quali esercitare, se del caso,
l’azione penale. Il termine imposto è quello indicato nell’art. 405 c.p.p.,
per le notizie di reato iscritte a carico di soggetti noti, e dall’art. 415
c.p.p., per quelle ascritte a soggetti ignoti. Tale termine è prorogabile ad
opera del giudice ai sensi degli artt. 406 e 415 c.p.p.
La mancata tempestiva iscrizione della notizia di reato e, in particolare, del nome del soggetto cui il reato è attribuito altera il meccanismo di
durata dei termini per le indagini preliminari. Soprattutto ritarda — nei
casi in cui è consentito — la possibilità per l’indagato di avere conoscenza della esistenza di indagini a suo carico e di far ricorso alle facoltà
accordategli dalla legge.
4. La tematica da ultimo sollevata induce ad affrontarne altra, pure
strettamente collegata: quella della qualificazione della notizia di reato.
Sembra ovvio ricordare che iscrivere una notizia di reato significa disporre l’annotazione nel registro disciplinato dall’art. 335 c.p.p., che un
determinato soggetto (se noto) o persona ignota (se non individuata),
ad una certa data ed in un determinato luogo, ha violato una specifica
disposizione di legge penale. Può apparire elementare chiarire che occorre si indichi la norma penale sostanziale violata e, ove ricorrenti, le
circostanze aggravanti che caratterizzano l’azione. La corretta e completa
qualificazione della notizia di reato è di sicuro rilievo.
Se è vero, infatti, che nel corso delle indagini preliminari la qualificazione giuridica del fatto può mutare, come può emergere che lo stesso
risulti diversamente circostanziato, e che il pubblico ministero in tali
casi, a norma dell’art. 335, comma 2, c.p.p., ne opera l’aggiornamento,
è tuttavia di innegabile importanza che sin dall’inizio, avuto riguardo a
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quanto offrono gli atti a corredo della notizia di reato, se ne operi una
corretta e compiuta qualificazione.
La questione rileva, in particolare per le attività cui è preposto il pubblico ministero, sotto vari profili che meglio si coglieranno con qualche
semplice esemplificazione. L’iscrizione di una ipotesi delittuosa come
aggravata dall’art. 7, legge 203/91, importa che il fatto venga devoluto
alla competenza della procura distrettuale antimafia.
La conseguenza, sul piano procedurale, non è limitata al cambio di
competenza, ma si riverbera sul regime delle indagini preliminari e degli
strumenti investigativi cui può far ricorso il pubblico ministero.
Difatti, le indagini riferite all’ipotesi delittuose così circostanziate si
giovano di:
a) un diverso termine di durata per lo svolgimento delle indagini
preliminari (termine iniziale pari ad un anno, ex art. 405, comma
2, c.p.p.; termine di durata massima di due anni, ex art. 407,
comma 2, c.p.p.);
b) un diverso regime in tema di richiesta di proroga del termine per
le indagini preliminari (con mancata partecipazione all’indagato),
con prosieguo di esse in riservatezza;
c) un diverso e più agevole regime di ricerca della prova tra cui, in
particolare, la possibilità di accedere alle attività di intercettazioni
con regole facilitate in tema di presupposti per l’effettuazione
delle operazioni (richiesta di “sufficienti indizi” invece che “gravi
indizi”) e sotto il profilo della durata delle operazioni di ascolto
(ex art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152).
L’aver individuato sin dall’inizio, sia pure in via astratta, la sussistenza dell’aggravante cd. mafiosa, prima citata, comporterà che il pubblico
ministero potrà percorrere canali investigativi maggiormente efficienti
ed efficaci per l’accertamento dei fatti e meglio potrà soddisfare ai principi di completezza e tempestività delle indagini preliminari.
Altro esempio. Nel caso di atti sessuali con minorenne, accompagnati
da dazioni o promesse di dazioni al minore da parte dell’agente, la qualificazione corretta di essi quale violazione dell’art. 600­–bis c.p.p., comporterà che l’ipotesi, di cui all’art. 609–quater c.p.p., diventi procedibile
di ufficio e, nel contempo, la competenza a procedere verrà individuata
ex art. 51, comma 3–quater, c.p.p.
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In definitiva, il nostro ordinamento procedurale assegna al pubblico
ministero il compito di vagliare se una determinata notizia costituisca
reato e, pertanto, debba essere iscritta; gli impone di iscriverla tempestivamente quando ne ha operato valutazione positiva; gli prescrive di
iscrivere, quando noto, anche il soggetto cui va ascritta, sia pure in via
astratta, la notizia di reato. Ciò in quanto spetta al pubblico ministero,
peraltro per dettato costituzionale, l’esercizio dell’azione penale.
5. Appare necessario a questo punto verificare se e quali controlli
appresta il sistema sull’operato del pubblico ministero nella fase di gestione della notizia di reato.
Tale tema involge quello dei rapporti tra il pubblico ministero e il
giudice per le indagini preliminari.
Pur fondandosi l’attuale sistema processuale sul principio del necessario controllo da parte del giudice su tutti gli atti, non sempre è consentito al g.i.p. di intervenire sulle scelte operate dal pubblico ministero.
In particolare, nessuna norma vigente e neppure ricavabile dal sistema consente al giudice per le indagini preliminari di esercitare un sindacato sul momento della iscrizione della notizia di reato e del nome
dell’indagato. L’assenza di siffatta norma di controllo trova la sua ratio,
oltre che nell’autonomia riservata al pubblico ministero, anche nella esigenza di evitare una pericolosa sovrapposizione di valutazioni rispetto
al momento genetico ed embrionale del procedimento penale.
In merito la giurisprudenza di legittimità è stata costante nel tempo
nel ritenere che il
p.m. ha un potere discrezionale insindacabile circa l’an e il quando effettuare l’iscrizione per cui il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato,
iscrizione rilevante ai fini della decorrenza del termine per le indagini
preliminari, non può essere censurato in sede processuale, fatta salva
ovviamente la responsabilità disciplinare ed eventualmente penale del
p.m. ricorrendone i presupposti (cfr. Cassazione, Sezioni Unite n. 16 del
21–30 giugno 2000, Tammaro).
Tale orientamento è stato di recente nuovamente ribadito dalle
Sezioni Unite della Cassazione (cfr. sentenza 24 settembre 2009, n.
40538) che hanno assunto nuovamente che l’iscrizione della notitia criminis rientra nella “valutazione discrezionale” del pubblico ministero
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e non può affidarsi a postume congetture. Ancora una volta la Suprema
Corte ha osservato che l’eventuale tardiva iscrizione costituisce mera
irregolarità per la quale il pubblico ministero è censurabile sul piano
disciplinare e/o penale senza che però tale irregolarità si riverberi sul
piano processuale.
Gran parte della dottrina non condivide tale impostazione, valutata
come dettata unicamente da esigenze di politica giudiziaria.
La censura non è condivisibile. Nel codice di rito l’assunzione della
veste di indagato segue alla iscrizione del nominativo nel registro degli
indagati: solo con tale iscrizione si diventa titolari delle correlate posizioni giuridiche tutelate. Per converso, in assenza della iscrizione, il
pubblico ministero non ha strumenti per dare corso ad attività investigative invasive o che prescrivono la partecipazione dell’indagato e, ove
vi dovesse incautamente dare corso, queste ultime non sarebbero certamente utilizzabili nei confronti di chi non è stato regolarmente iscritto.
Il codice, pertanto, dispone di meccanismi interni capaci di evitare che
atti di indagine compiuti in violazione delle norme che attribuiscono
diritti e garanzie al soggetto interessato dalle indagini possano essere
efficacemente utilizzati a suo carico.
Il tema dell’assenza del controllo del giudice sulla mancata iscrizione
nel registro di cui all’art. 335 diventa, però, particolarmente delicato con
riferimento alle iscrizioni a mod. 45 di cui si è detto sopra.
Si ricorda che chi scrive è dell’opinione che il pubblico ministero non
ha sempre un potere di cd. cestinazione ma, diversamente, ha il dovere
di effettuare una attenta verifica di quelle comunicazioni iscritte a mod.
45 che, tuttavia, necessitano, per quanto detto sopra, di primi accertamenti (cd. attività preprocedimentali) onde valutare, all’esito, se possa
ritenersi acquisita e sussistente una notizia di reato. Trattasi di situazioni
per lo più poco chiare e di difficile qualificazione. In tali casi, dopo l’iniziale iscrizione a modello 45, il pubblico ministero, avvalendosi anche dei poteri conferitigli dall’art. 330 c.p.p., è opportuno dia corso ad
indagini anche minime ma capaci di consentire all’esito la preliminare
compiuta valutazione del contenuto effettivo della notizia ricevuta.
Compiuti tali preliminari accertamenti, il pubblico ministero ha due
opzioni: o disporre la iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., o
diversamente, ove reputi non acquisita alcuna notitia criminis, avvalersi
del potere di archiviazione interna o cd. potere di cestinazione. Ebbene,
se è vero che in molti uffici requirenti anche il potere cd. di archiviazione
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interna viene esercitato, comunque, secondo regole di massima trasparenza, dal momento che il provvedimento che dispone in tal senso è
motivato e sottoposto al visto del procuratore della Repubblica, ciò non
toglie che tale procedura possa consentire la sottrazione di attività di
indagine al controllo del giudice.
Ragioni di trasparenza massima che devono presidiare ogni Procura
della Repubblica, imporrebbero, ogni qualvolta si proceda allo svolgimento di indagini, sia pure minimali, nell’ambito del fascicolo cd.
mod. 45, la formulazione di richiesta di archiviazione al giudice in
quanto organo deputato alla effettuazione del controllo ad ogni esito
delle indagini preliminari svolte dal pubblico ministero o dalla polizia
giudiziaria. In tal senso, peraltro, è l’orientamento delle Sezioni Unite
della Cassazione (cfr. sent. 22 novembre 2000–15 gennaio 2001, n.
34). In sede di controllo, di esame degli atti e della richiesta di archiviazione, il giudice potrebbe, in analogia con quanto accade nella ipotesi di cui all’art. 415, comma 2, c.p.p., ordinare al p.m. l’iscrizione a
registro degli eventuali indagati. Nella fase delle indagini preliminari il
g.i.p. possiede sicuramente un potere di controllo sulla qualificazione
giuridica del fatto. Esso può esplicarsi ogni qualvolta venga interessato
con istanze del pubblico ministero a seguito delle quali è chiamato ad
esaminare e valutare la regiudicanda sia pure con i limiti della fase.
Così accade nel caso in cui il pubblico ministero chiede di ottenere
l’autorizzazione a dar corso a specifici mezzi di ricerca della prova,
per i quali è prevista l’autorizzazione del giudice (ad esempio intercettazioni), nonché nel momento in cui il pubblico ministero formula
richiesta di proroga delle indagini.
Nel primo caso è evidente che il giudice, investito di una richiesta di
autorizzazione alle operazioni di intercettazione, dovendone valutare i
presupposti di ammissibilità, disciplinati dall’art. 266 c.p.p., deve operare il controllo della qualificazione giuridica del fatto reato per il quale
il pubblico ministero chiede l’autorizzazione al mezzo di ricerca della
prova. Parimenti, questo accade anche allorchè il fatto viene qualificato,
sia pure solo in relazione alle circostanze ritenute, come rientrante tra
quelli cd. di criminalità organizzata, sottoposti ad un regime di indagine
più agevole ed efficace (cd. doppio binario): nel caso in cui il pubblico
ministero abbia chiesto al giudice per le indagini preliminari di essere
autorizzato a svolgere intercettazioni telefoniche o ambientali per fatto
— reato per il quale è stata iscritta anche l’aggravante di cui all’art. 7, l.
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203/91, il giudice prima di accedere ed autorizzare tale ampio (e spesso anche molto invasivo) strumento di ricerca della prova ha il potere
— dovere di effettuare il controllo anche sulla sussistenza dei requisiti
minimi della ipotizzata aggravante.
Il giudice per le indagini preliminari analoghi controlli può esercitare
anche in sede di proroga delle indagini preliminari. Ad esempio, ove
non dovesse ritenere sussistenti gli embrionali elementi caratterizzanti
la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7, l. 203/91, in relazione
ad una determinata condotta criminosa, nulla gli impedisce che possa
disporre che si applichi il regime cd. ordinario di procedura partecipata
della proroga delle indagini preliminari.
A conclusione possono, pertanto, rassegnarsi le seguenti osservazioni.
L’art. 335 c.p.p. e la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione individuano nel Procuratore della Repubblica il soggetto a
cui spetta, in via esclusiva, il potere di iscrizione ed individuazione della
notizia di reato. La valutazione circa la natura degli atti spetta al pubblico
ministero in quanto titolare dell’esercizio dell’azione penale. Al giudice
per le indagini preliminari non è riconosciuto alcun sindacato sul momento della iscrizione e neppure sulle modalità di iscrizione. Il pubblico ministero in relazione a tali decisioni è soggetto eventualmente a
responsabilità disciplinari e penali che, tuttavia, non ripercuotono i loro
effetti sul piano processuale.
Rispetto a tale potere esercitato in via esclusiva sono apprestati dei
rimedi, taluni esplicitamente previsti dal codice di rito ed altri ricavabili implicitamente e frutto della elaborazione giurisprudenziale della
Suprema Corte. Tali rimedi, tuttavia, ancora una volta non riguardano
il momento genetico della iscrizione della notitia criminis: essi intervengono nel momento in cui il pubblico ministero formula richieste al
giudice per le indagini preliminari, nel corso delle stesse o al termine
di esse, ed hanno l’unico scopo di controllare, nei casi in cui è previsto,
che le indagini preliminari si svolgano nel rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti e che esse siano state complete e ciò in quanto il
pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Tali concetti sono ben definiti anche nella pronuncia delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del 31 maggio–17 giugno 2005, n. 22909,
resa in materia di archiviazione e poteri conferiti al g.i.p. In essa si
chiarisce che i poteri conferiti al giudice per le indagini preliminari
sono “correlati soprattutto al controllo del principio costituzionale
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dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Richiamando la giurisprudenza
costituzionale, la Suprema Corte ha, infatti, osservato che:
i confini tracciati dal legislatore sui poteri dei due organi che si occupano delle indagini preliminari sono ben definiti e conformi ai principi
costituzionali dell’obbligatorità dell’azione penale e della sua titolarità
in capo all’organo requirente (art. 112 Cost.), riservando al giudice delle
indagini la funzione di controllo e di impulso.
Rosa Volpe
Sostituto procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Salerno
***
La puntuale definizione del concetto di notizia di reato ha, come è
intuibile, significative implicazioni in più ambiti. È utile per fissare, senza margini di dubbio, il momento nel quale la stessa sorge e quello in
cui deve essere iscritta nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p., perché
formalmente acquisita; di conseguenza, consente l’individuazione certa
del dies a quo dal quale partire per computare il termine di durata delle
indagini. In una prospettiva analoga — anche se non sovrapponibile —
rileva, poi, la sua corretta perimetrazione giuridica, capace di influire su
segmenti procedurali ai quali afferiscono diritti e garanzie rilevanti.
Il profilo ha una dimensione problematica, dal momento che, nell’attuale sistema normativo, manca una definizione puntuale di “notizia
di reato”. La locuzione è, infatti, genericamente indicata dal legislatore
senza alcuna specificazione utile a delinearne il significato. Questo indiscutibile limite, non consente di avere nitida contezza degli argini entro
i quali si muovono i connessi (ampi) poteri del pubblico ministero.
È sentita, infatti, l’esigenza di un intervento normativo per fare chiarezza in un settore estremamente delicato. La commissione ministeriale di riforma del codice di procedura penale, presieduta dal Prof.
Riccio, istituita nella scorsa legislatura, prendendo atto di questa oggettiva necessità, ha considerato opportuna la definizione normativa
di notizia di reato individuandola nella direttiva n. 55/1 della bozza
di legge delega
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La notizia di reato tra qualificazione, iscrizione e controlli | Rosa Volpe – Agostino De Caro
come rappresentazione non manifestamente inverosimile di uno specifico accadimento storico, attribuito o meno a soggetti determinati, dalla quale
emerga la possibile violazione di una disposizione incriminatrice contenuta nel
codice penale o in leggi speciali.
La scelta è stata determinata dalla “esigenza, largamente condivisa
nell’ambito della Commissione, di fornire una definizione normativa
della notizia di reato“, per “delimitare e dare concretezza all’obbligo di
iscrivere la notitia criminis nell’apposito registro, chiarendo definitivamente che cosa deve essere iscritto in tale registro e superando le ben
note incertezze manifestatesi nell’utilizzo del cd. mod. 45 da parte degli
uffici di procura” (Relazione di accompagnamento alla bozza di legge
delega, Commissione Riccio).
La individuazione degli elementi caratteristici della notizia di reato,
peraltro, ricalca la nozione generalmente condivisa in dottrina e giurisprudenza. Trattasi della
esistenza di una rappresentazione del fatto, la sua non manifesta inverosimiglianza (intendendosi per rappresentazione manifestamente inverosimile quella contraria a elementari leggi logiche o scientifiche oppure
inconciliabile con fatti notori), il carattere specifico del fatto rappresentato, l’impossibilità di effettuare una diagnosi sicura e immediata di irrilevanza penale del medesimo.
La prospettiva delineata ha, naturalmente, un ulteriore approdo:
è stata stabilita la inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine
previsto o prorogato e, soprattutto, il potere del giudice, su istanza
dell’interessato di verificare la correttezza dell’iscrizione retrodatando,
ove necessario, la iscrizione medesima al momento nel quale doveva
essere effettuata (Relazione, cit.).
La lacuna normativa della legislazione vigente, pur richiedendo uno
sforzo interpretativo maggiore, non autorizza atteggiamenti di “rassegnato immobilismo” ermeneutico, sottraendo al giudice doverosi spazi di valutazione. Peraltro, la definizione fatta propria dalla Commissione Riccio
corrisponde al buon senso ed all’orientamento prevalente; si può, anche
in mancanza di chiarezza normativa, considerarla un punto di riferimento per l’interprete. Dopo il chiarimento preliminare, si deve affrontare il
fondamentale tema della durata delle indagini preliminari ed in particolare il profilo della effettività dei tempi previsti per la fase investigativa, al
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quale segue (naturalmente) quello del controllo giurisdizionale sul momento iniziale (l’iscrizione nel registro delle notizie di reato) dal quale
decorre il termine legale. È un tema ignoto al previgente sistema processuale, che compare all’indomani del varo del codice di rito del 1988, ove,
per la prima volta, sono state perimetrate temporalmente le indagini.
La previsione normativa fissa, come è noto, un termine (prorogabile) di durata della fase (sei mesi o un anno), stabilendo, contemporaneamente, la inutilizzabilità delle attività investigative effettuate dopo
la scadenza del tempo massimo a disposizione del pubblico ministero.
La disposizione, dunque, pone un iniziale (e centrale) problema interpretativo: la durata contingentata dei tempi massimi dell’investigazione
rivela un corrispondente diritto dell’indagato (connesso alla tempistica
in sé e/o relativo al più generale diritto di difesa) o integra una mera
previsione di tipo organizzativo priva di valore nella prospettiva delle
garanzie procedurali? La questione è di estremo interesse pratico perché
l’individuazione del dies a quo (l’iscrizione della notizia e del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro ex art. 335 c.p.p.)
fissa uno degli estremi dell’alveo entro il quale si sviluppa la scansione
temporale dell’attività investigativa ordinaria e oltre il quale la medesima non trova legittimazione. La complessità del problema nasce, invece, dalla prassi (possibile se si ritenesse mancante un doveroso controllo
giurisdizionale) di iscrivere con ritardo le notizie nel registro e di lucrare
un tempo investigativo maggiore e proietta la verifica sull’esistenza di un
dovere del giudice di controllare la correttezza del momento nel quale
viene iscritta la notizia (e il nome della persona) e sull’individuazione
delle conseguenze per le attività investigative compiute fuori dal termine
correttamente computato.
Il profilo è stato oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale con l’ordinanza n. 307 del 22 luglio 2005. Il giudice delle leggi ha
puntualmente affermato:
che se, peraltro, l’iscrizione nel registro ha una valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini, è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda
a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi
pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato
fonte di pregiudizio al diritto di difesa sotto il profilo indicato dal giudice
rimettente; che risulta quindi insussistente anche la ventilata disparità
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di trattamento tra “indagati” tempestivamente iscritti e “indagati” tardivamente iscritti; che nell’ipotesi, infatti, in cui il pubblico ministero
procrastini indebitamente l’iscrizione del registro, il problema che può
porsi attiene unicamente all’artificiosa dilazione del termine di durata
massima delle indagini preliminari: vale a dire alla possibile elusione
della sanzione di inutilizzabilità che colpirebbe, ai sensi dell’art. 407,
comma 3, c.p.p., gli atti di indagine collocati temporalmente “a valle”
della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento
in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata.
In questa pronunzia, la Consulta, rivendicando il valore meramente
ricognitivo e non già costitutivo dello status di persona sottoposta alle indagini e richiamando il principio secondo il quale le “garanzie difensive
che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti,
debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione”,
ha stabilito che “il tardivo espletamento della formalità non può essere
considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa”. L’interpretazione
riconosce, in modo evidente, come il diritto alla durata contingentata
delle indagini non possa essere conculcato dall’artificiosa dilazione del
termine che si verifica tutte le volte che il pubblico ministero procrastini,
indebitamente, l’iscrizione della notizia e del nome della persona nel
registro delle notizie di reato.
In sintesi, l’iscrizione è meramente ricognitiva di un diritto che si costituisce nel momento in cui lo status di persona sottoposta alle indagini
sorge, sicchè la decorrenza dei termini investigativi nasce esattamente nel
momento in cui sorge il diritto e non successivamente, quando il pubblico
ministero provvede alla iscrizione. In un ambito fisiologico, i due segmenti
temporali coincidono (o si differenziano in misura impercettibile), mentre
possono divergere anche sensibilmente, in situazioni patologiche. In questi casi, succede che il pubblico ministero, attaverso una dilazione anomala dell’iscrizione, finisce per utilizzare un tempo maggiore per espletare le
indagini preliminari, compiendo attività investigative che, se avesse adempiuto all’obbligo di iscrizione tempestiva, non avrebbe potuto effettuare,
pena la inutilizzabilità delle medesime. È un profilo dal quale emerge una
prospettiva patologica che non può essere lasciata senza rimedio.
Nella prospettiva evidenziata, devono essere valorizzati tre profili indiscutibili: innanzitutto, il diritto alla iscrizione tempestiva nel
registro delle notizie di reato; poi, di fronte alla possibilità concreta
che il diritto possa essere completamente disatteso da comportamenti
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illegittimi, il potere giurisdizionale, diretto alla tutela del diritto, di
controllare la tempistica; infine, la rimozione degli effetti del comportamento che viola le disposizioni procedurali attraverso l’applicazione
della sanzione.
L’inutilizzabilità prevista dal legislatore, quale conseguenza della violazione del tempo massimo consentito all’inquirente, non avrebbe un
senso concreto se si consentisse di aggirare agevolmente la previsione
procedurale, qualificando il comportamento (illegittimo) come una
semplice omissione improduttiva di effetti processuali.
Se il pubblico ministero ha, in sostanza, l’obbligo di iscrivere la notizia al momento in cui perviene, al giudice per le indagini preliminari
— deputato al controllo sulla effettiva durata delle indagini — spetta il
compito di valutare la tempestività dell’iscrizione, computare i corretti
termini utilizzati per investigare, partendo dal momento in cui la notizia
e il nome andavano iscritti effettivamente, e dichiarare l’inutilizzabilità
delle attività poste al di fuori del perimetro temporale giudicato sulla
scorta della rilevazione esatta del momento in cui correttamente doveva
avvenire l’iscrizione e di quello finale.
La decisione della Corte costituzionale richiamata, ribalta i tradizionali orientamenti della giurisprudenza che, invece, confinavano le iscrizioni intempestive nel limbo delle mere irregolarità, al più produttive di
violazioni disciplinari. Si deve riconoscere, invece, applicando le coordinate normative derivanti dal sistema processuale nel suo complesso,
un vero e proprio potere del giudice di controllare la tempestività dell’iscrizione, intervenendo sulle “artificiose dilazioni”. Il principio espresso
fonda sulla ritenuta natura meramente ricognitiva e non costitutiva dello
status necessario per l’obbligatoria iscrizione. Se il diritto si costituisce a
prescindere dall’attività materiale, il giudice non può essere lo spettatore
della marchiana violazione della garanzia.
Questo profilo, risponde, d’altronde, pienamente alla ratio dell’istituto. Se esiste un obbligo di iscrizione e se dall’iscrizione nascono una serie di termini fondamentali per la legittimazione del potere del pubblico
ministero, è innegabile l’incoerenza rispetto alla vocazione legale tipica
dell’ordinamento della (ritenuta) mancanza di un potere di controllo affidato al giudice, vista, soprattutto, la conseguenza sanzionatoria prevista per il mancato rispetto del termine: l’inutilizzabilità. Si tratta solo di
ampliare le coordinate in base alle quali giudicare esistente la violazione
del termine di durata delle indagini: sarebbe oltremodo incomprensibi-
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le un sistema che prevedessse l’inutilizzabilità delle investigazioni compiute dopo la scadenza del termine decorrente dalla formale iscrizione e
escludesse le violazioni del termine compiute mediante l’artifizio della
ritardata iscrizione. Se prima della richiamata decisione della Corte costituzionale, le diverse opinioni potevano essere censurate sul piano del
disciplina codicistica, oggi la severa censura si aggancia ad una valutazione puntuale della giudice delle leggi.
Bisogna naturalmente considerare anche la recente decisione della
Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. 24 settembre 2009) che ha
ribadito la natura di mera irregolarità della mancata tempestiva iscrizione, produttiva solo di conseguenze disciplinari ed eventualmente
penali per il pubblico ministero inadempiente, senza alcun effetto
sul piano processuale. Ancora una volta, l’interpretazione delle Sezioni Unite è orientata da prevalenti esigenze di politica giudiziaria. La
comprensibile preoccupazione di evitare (con precisione chirurgica) di
assumere decisioni che possano avere ripercussioni sul sistema processuale penale non giustifica, però, la fuga dai principi e l’utilizzazione
di soluzioni eccentriche rispetto alla legalità processuale. Quest’ultima, infatti, impone di ricercare all’interno del tessuto normativo e, soprattutto, nel sistema sanzionatorio finalizzato a rendere effettiva la legalità processuale — i rimedi alle violazioni che annullano in concreto
la valenza di diritti essenziali, collegati al giusto processo. Richiamare
solo i potenziali profili disciplinari e penali connessi alla tardiva iscrizione è veramente un modo per rifugiarsi al di fuori del paradigma
della legalità processuale, pur prendendo inesorabilmente atto (ed è
questo il dato che desta maggiore perplessità) che essa è stata irrimediabilmente violata.
La stessa Cassazione a Sezioni Unite, nella decisione richiamata (sent.
24 settembre 2009), ha, peraltro, stabilito che:
l’unico tassello normativo per il tramite del quale è forse possibile configurare un potere di apprezzamento da parte del giudice, circa la tempestività dell’iscrizione, è offerto, a ben guardare, soltanto dalla disciplina
che regola il regime delle proroghe del termine per le indagini prleiminari (art. 498 c.p.p.), non apparendo estranea a quel sistema l’idea di
un giudice che, in presenza di iscrizioni tardive, calibri la concessione o
il diniego della proroga in funzione, anche, della durata delle indagini
eventualmente espletate prima della tardiva iscrizione.
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Al di fuori di questo segmento normativo mancherebbe qualsiasi
riferimento normativo capace di legittimare, in via generale, la sindacabilità degli atti del pubblico ministero o la funzione di garanzia del
giudice per le indagini preliminari. La Corte, in verità, concentrando la
sua attenzione sul g.i.p. e sui poteri ad esso attribuiti (nell’ambito dei
quali giustamente rintraccia un segmento utile a sindacare la tardiva
iscrizione), sembra lasciare sullo sfondo il problema dell’inutilizzabilità degli atti (probatoriamente rilevanti) compiuti fuori dal termine investigativo correttamente computato. Il giudice della decisione (anche
il g.i.p. in fase cautelare; o comunque quello di merito e di legittimità)
non può sottrarsi al compito di valutare l’utilizzabilità degli atti ogni
qual volta le parti propongano una questione che abbia a che vedere
con tale profilo. E se un atto è stato compiuto dopo la scadenza del termine investigativo, correttamente computato, è irrimediabilmente inutilizzabile e, di conseguenza, sono inutilizzabili le prove che da tale atto
derivano. È questo un principio generale non valorizzato dalle Sezioni
Unite, che invece costituisce il versante attraverso il quale analizzare
l’annoso problema interpretativo.
Anche il giudice per le indagini preliminari, in fondo, intanto si pone
il problema della corretta iscrizione in quanto deve risolvere un problema di utilizzabilità dei risultati di indagini compiute fuori dal perimetro
temporale, attività che ogni giudice può essere chiamato a ripetere nelle
diverse fasi nelle quali si pone un problema analogo. Vi è, quindi, una
sostanziale sovrapposizione tra la valutazione sulla corretta iscrizione,
legittimamente riservata al g.i.p. in sede di proroga dei termini, e quella
relativa alla inutilizzabilità di atti che può essere invocata in altri (successivi) segmenti procedurali La situazione normativa attuale, in verità,
non agevola la soluzione proposta. La poca chiarezza normativa di alcuni concetti, amplificando interpretazioni soggettive rende, infatti, difficile l’instaurazione di prassi virtuose e amplia le maglie di un efficace controllo giurisdizionale. Mi riferisco, ancora una volta, al problema della
definizione di notizia di reato, la cui acquisizione rende obbligatoria
la tempestiva iscrizione. Ciò che per alcuni la integra, per altri la sfiora
o addirittura non la coinvolge affatto. Sarebbe fortemente auspicabile,
in questa prospettiva di chiarezza, coniare una definizione normativa
capace di rappresentare un punto fermo nella definizione del momento
nel quale sorge l’obbligo di iscrizione. La lacuna, però, non mette in crisi
la soluzione interpretativa suggerita, peraltro congeniale ad un sistema
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fondato sul principio di legalità, ove la ragionevole durata del processo
ha una proiezione anche nella fase investigativa, realmente partecipe del
meccanismo celere voluto dalla Costituzione. Sarebbe, infatti, eccentrico
rispetto al principio delienato dall’art. 111, comma 1, Cost. un sistema
che consentisse di dilazionare, senza alcun controllo, l’iscrizione e con
essa l’inizio della vicenda alla quale la garanzia si applica in via generale. Il principio ha una valenza costituzionale che vincola il legislatore e
l’interprete, ognuno nelle rispettive competenze, ad adeguarsi creando o
leggendo ed applicando le norme e il sistema in una dimensione prossima a quella prospettata come fondamentale.
Volendo riassumere, dunque, si può affermare come nel sistema vigente, se si riconosce l’esistenza del diritto ad indagini predeterminate
temporalmente, espressione del più generale diritto al rispetto delle regole procedurali e quindi della legalità processuale, il dovere del pubblico
ministero di “iscrivere” immediatamente (nel momento in cui perviene
al suo ufficio) la notizia di reato non può tradursi in una mera irregolarità priva di sanzione, né sembra possibile rifugiarsi in profili deontologici e disciplinari: questi profili eventualmente si aggiungono, ma non
sostituiscono i rimedi legali interni all’ordinamento. La sanzione necessariamente conseguente è quella che il sistema ricollega, in via generale,
ai casi di indagini effettuate oltre i termini: l’inutilizzabilità. La nettezza
della posizione interpretativa non può, però, sottovalutare la non sempre agevole individuazione del momento nel quale sorge l’obbligo di
iscrizione. È — giova ribadirlo — auspicabile un intervento normativo
per dissolvere le ambiguità che oggi ritroviamo nella definizione di un
concetto in sé problematico, ma la mancanza di chiarezza non deve può
lasciare nelle mani del pubblico ministero un potere sottratto ad ogni
forma di controllo. Un secondo profilo ugualmente problematico riguarda la qualificazione giuridica della notizia di reato, con tutti i corollari
che ne derivano. L’iscrizione di un fatto aggravato dalla finalità o dal metodo mafioso comporta, ad esempio, una serie di conseguenze di rilievo,
che vanno dalla attribuzione “investigativa” della Direzione Distrettuale
Antimafia, alla maggiore durata del termine delle indagini (un anno in
luogo di sei mesi), alla diversità del procedimento di proroga (senza alcuna forma di partecipazione della difesa), fino alla possibilità di ottenere più facilmente intercettazioni telefoniche ed ambientali (sufficienti
indizi in luogo di gravi indizi di reato) o, addirittura, all’individuazione
(anomala) del g.u.p. competente per l’udienza preliminare e per gli even-
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tuali riti premiali. Gli efffetti (imponenti) di una particolare qualificazione giuridica — penso, in particolare, alla possibile violazione dei principi
di naturalità e precostituzione del giudice in relazione alla competenza
del g.u.p. distrettuale — impongono l’individuazione di meccanismi di
controllo giurisdizionale capaci di verificarne la correttezza. In verità,
la risposta mi sembra semplice, posta l’esistenza di un generale principio che affida alla giurisdizione il potere di qualificare giuridicamente il
fatto. Nello specifico, tutte le volte in cui il giudice ha un contatto con
la regiudicanda, infatti, ha il dovere di controllare i parametri giuridici
utilizzati per delineare ed orientare il meccanismo procedurale, intervenendo allorquando si profila un vizio che riguarda non il fatto ma la sua
qualificazione in termini di corretta applicazione del diritto.
Insomma, se i profili fattuali dell’imputazione e di tutti i meccanismi
provvisori utilizzati per dare impulso alla vicenda procedimentale non
tollerano un intervento giurisdizionale, i profili giuridici lo impongono.
Questo potere di controllo è, peraltro, coerente con le dinamiche del
giusto processo e con il principio di legalità. Riafferma, invero, la supremazia del giudice nell’applicazione del diritto e orienta una serie di
segmenti procedurali verso la meta indicata. Corrisponde, cioè, ad una
radicata convinzione l’idea di riconoscere al giudice questa supremazia
ed al pubblico ministero (alla stregua delle altre parti) il dovere di adeguarsi: nel momento della iscrizione della notizia di reato, così come
nella fase de libertate o in quella del controllo sull’azione.
Avv. Prof. Agostino De Caro
Ordinario di Procedura penale
Università degli studi del Molise
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