i concerti 2007•2008

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I C ONCERTI 2007•2008
FUGGITE, AMANTI, AMOR
RIME E LAMENTAZIONI PER MICHELANGELO
Vinicio Capossela voce e piano
Mario Brunello violoncello
Con la partecipazione straordinaria di
Paolo Pandolfo viola da gamba
Christoph Urbanetz viola da gamba
Sérgio Álvares viola da gamba
Vincenzo Vasi theremin e campionatore
Gak Sato elettronica e theremin
Teatro Regio
Lunedì 11 febbraio 2008
ore 20.30
Prima della musica - ore 19.45 incontro con Mario Brunello
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I PARTE
II PARTE
Rime
Lamentazioni
PHILIPPE EIDEL (1956)
Fuggite, amanti, Amor, fuggite ’l foco
Non posso altra figura immaginarmi
Ogni van chiuso, ogni coperto loco
GIOVANNI SOLLIMA (1962)
Lamentazione
per violoncello solo
VINICIO CAPOSSELA (1965)
Veggio co’ bei vostr’occhi un dolce lume
Tu sa’ ch’io so, signor mie, che tu sai
Chi di notte cavalca, el dì conviene
Io credderrei se tu fussi di sasso
Si come nella pena e nell’inchiostro
Come può essere ch’io non sia più mio?
Qui si fa elmi
S’un casto amor, s’una pietà superna
Chi è quel che per forza a te mi mena
Chiunque nasce a morte arriva
Orchestrazioni di Carlo Rebeschini
PAOLO PANDOLFO (1959)
Metamorphosis
per viola da gamba
CLAUDIO MONTEVERDI (1567-1643)
Il lamento della ninfa
JOHANN SEBASTIAN BACH (1685-1750)
Erbarme dich
dalla Passione secondo Matteo BWV 244
VINICIO CAPOSSELA
Noli me tangere
Sol pur col fuoco
Perché, ’l mezzo di me che dal ciel viene
SS dei Naufragati
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FUGGITE, AMANTI, AMOR
RIME E LAMENTAZIONI PER MICHELANGELO
«ogni durezza suol vincer pietate
sì come l’allegrezza fa il dolore»
e rovine in questi versi giungono a noi come le rovine semi-interrate, i capitelli, i torsi,
i busti, arti di pietra nella terra; come nel macello dei corvi l’antichità emergeva mezza
interrata, così i versi, un poco comprensibili e un po’ no, interrati in un grande spirito di
tutti i versi in poesia, le Rime, proprio per il fatto che vengono da Michelangelo, possono
risuonare, avere una fisicità, un corpo anche musicale, forse perché nella pietra c’è stridore
e suono, perché arrivano dal retro di cartoni imbrattati di colore, e polvere fatta colore. C’è
qualcosa di plastico, di materico in questa poesia, e per questo se ne può fare materia corporea, è come mangiare polvere e colore: per questo se ne ricava musica per strumenti da
tensione, che devono estrarre, “cavandolo” con l’arco, il suono dal legno, nella forza del violoncello e nella grazia straziata e dolente della viola da gamba. Sono strumenti questi che
hanno teste di polena, come le imbarcazioni lignee, per fendere l’ignoto, il grande oceano del
nostro animo. E questi versi, portati dalle prue, si fanno largo lì dentro, a volte duri come
pietre, a volte legati, imbrigliati in quella grande, terrificante camicia di Nasso della nostra
passione, che ci avvolge con le spire del desiderio e ci brucia, ardendo la pelle, «ghiaccio
ardendo in lei…».
Con questi versi ci addentriamo nell’insanabilità del desiderio amoroso, nella sua terribilità,
che anelando all’unione porta alla conoscenza della separazione. Non si è mai così soli come
da innamorati, la nostra individualità non ci fa mai così male come nella tensione, nell’anelito all’unione: «se è vera la speranza che mi dai, se vero è il gran desio che mi è concesso…
rompasi il mur tra l’una e l’altro messo…». Rompere questo muro, e inoltre, «che cosa è questo amore, che al core entra per gli occhi…?» a mezzo della beltà, «chi mi difenderà dal tuo
bel volto»? «I miei ripari son corti e folli, verso questo male ch’io bramo e volli».
Questa poesia è, per me, carne viva non ancora sanata, né dai secoli in cui è riposta né dal
placarsi della vita. La ferita che la bellezza apre è sempre e ancora ferita viva, desiderio della
bellezza e insanabilità, e tutto questo sta nei versi che personalmente sento più vicini: «chi
mira alta beltà con si gran duolo, ne ritra’ doglie e pene acerbe e certe».
In questa poesia non ci sono visioni gotiche, tenebrose, romantiche, c’è il corpo a corpo
affrontato a viso scoperto, un uomo che è elevato e ucciso dalla bellezza, a cui la bellezza ha
dato il genio, non di raffigurarla, ma di crearla addirittura e a cui la sua natura non ha saputo mettere riparo. Se cerco altrove per mettermi al riparo dalla beltà nemica, ecco quella raddoppia il suo corso fino a darmi la morte (come in «Non posso altra figura immaginarmi»).
Per questo il titolo Fuggite, amanti, Amor: perché questo lavoro non riguarda tutta la poetica delle Rime – che sono così musicali da recare indicazioni quali «madrigale», per la donna
bella e crudele, «stanze», «frottole» e altre singolari indicazioni di forma –, non la poetica di
Michelangelo, ma questo aspetto specifico, il desiderio, la bellezza, la ferita aperta dalla bellezza e quindi il lamento. Il lamento è l’unico lenitivo, anzi l’unica conseguenza di questo
stato, e il lamentarsi non cura, ma anzi estingue, in una voluttà di morte, come il roveto
ardente… Ecco, il lamento estingue, e forse in questo bruciare al foco – «o cosa strana, il mal
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del foco spesso il foco sana» – c’è anche una sorta di misticismo, di sacrificio, di croce tutta
pagana, in nome cioè del corpo e della bellezza, e il divino è forse questo essere a immagine
e somiglianza, dunque il divino è in noi, nel volto amato, nel corpo amato e produce l’estasi
della croce.
Non so. Quel che è certo è che riempirsi la bocca di questa bellezza, messa alla brace della
passione, urlante come un Savonarola al rogo è una emozione che la vita inizia a regalare
quando il nostro animo la può comprendere, altrimenti sono parole fatte di marmo. Dunque
a ognuno bruceranno a seconda dello stato dell’animo suo, ma il lamento, questo melisma
affidato alla rotta del nostro animo, alla consunzione del nostro cuore, ecco il lamento è il
nostro reclamare Dio, il nostro morir dolce. E dunque, con questi lamenti vogliamo fare
ancora bruciare quel roveto ardente che non può divenire mai cenere.
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Fuggite, amanti, Amor, fuggite ’l foco;
l’incendio è aspro e la piaga è mortale,
c’oltr’a l’impeto primo più non vale
né forza né ragion né mutar loco.
Fuggite, or che l’esemplo non è poco
d’un fiero braccio e d’un acuto strale;
leggete in me, qual sarà ’l vostro male,
qual sarà l’impio e dispietato gioco.
Fuggite, e non tardate, al primo sguardo:
ch’i’ pensa’ d’ogni tempo avere accordo;
or sento, e voi vedete, com’io ardo.
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Non posso altra figura immaginarmi
o di nud’ombra o di terrestre spoglia,
col più alto pensier, tal che mie voglia
contra la tuo beltà di quella s’armi.
Ché da te mosso, tanto scender parmi,
c’Amor d’ogni valor mi priva e spoglia,
ond’a pensar di minuir mie doglia,
duplicando, la morte viene a darmi.
Però non val che più sproni mie fuga,
doppiando ’l corso alla beltà nemica,
ché ’l men dal più veloce non si scosta.
Amor con le sue man gli occhi m’asciuga,
promettendomi cara ogni fatica;
ché vile esser non può chi tanto costa.
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Ogni van chiuso, ogni coperto loco,
quantunche ogni materia circumscrive,
serba la notte, quando il giorno vive,
contro al solar suo luminoso gioco.
E s’ella è vinta pur da fiamma o foco,
da lei dal sol son discacciate e prive
con più vil cosa ancor sue specie dive,
tal c’ogni verme assai ne rompe o poco.
Quel che resta scoperto al sol, che ferve
per mille vari semi e mille piante,
il fier bifolco con l’aratro assale;
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ma l’ombra sol a piantar l’uomo serve.
Dunche, le notti più ch’e’ dì son sante,
quanto l’uom più d’ogni altro frutto vale.
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Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume
che co’ mie ciechi già veder non posso;
porto co’ vostri piedi un pondo addosso,
che de’ mie zoppi non è già costume.
Volo con le vostr’ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al sol, caldo alle più fredde brume.
Nel voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
Come luna da sé sol par ch’io sia,
ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n’accende il sole.
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Chi di notte cavalca, el dì conviene
c’alcuna volta si riposi e dorma:
così sper’io, che dopo tante pene
ristori ’l mie signor mie vita e forma.
Non dura ’l mal dove non dura ’l bene,
ma spesso l’un nell’altro si trasforma.
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Io crederrei, se tu fussi di sasso,
amarti con tal fede, ch’i’ potrei
farti meco venir più che di passo;
se fussi morto, parlar ti farei,
se fussi in ciel, ti tirerei a basso
co’ pianti, co’ sospir, co’ prieghi miei.
Sendo vivo e di carne, e qui tra noi,
chi t’ama e serve che de’ creder poi?
I’ non posso altro far che seguitarti,
e della grande impresa non mi pento.
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Tu non se’ fatta com’un uom da sarti,
che si muove di fuor, si muove drento;
e se dalla ragion tu non ti parti,
spero c’un dì tu mi fara’ contento:
ché ’l morso il ben servir togli’ a’ serpenti,
come l’agresto quand’allega i denti.
È non è forza contr’a l’umiltate,
né crudeltà può star contr’a l’amore;
ogni durezza suol vincer pietate,
sì come l’allegrezza fa ’l dolore;
una nuova nel mondo alta beltate
come la tuo non ha ’ltrimenti il core;
c’una vagina, ch’è dritta a vedella,
non può dentro tener torte coltella.
E non può esser pur che qualche poco
la mie gran servitù non ti sie cara;
pensa che non si truova in ogni loco
la fede negli amici, che è sì rara;
(…)
Perché non basta a una donna bella
goder le lode d’un amante solo,
ché suo beltà potre’ morir con ella;
dunche, s’i’ t’amo, reverisco e colo,
al merito ’l poter poco favella;
c’un zoppo non pareggia un lento volo,
né gira ’l sol per un sol suo mercede,
ma per ogni occhio san c’al mondo vede.
I’ non posso pensar come ’l cor m’ardi,
passando a quel per gli occhi sempre molli,
che ’l foco spegnerien non ch’e’ tuo sguardi.
Tutti e’ ripari mie son corti e folli:
se l’acqua il foco accende, ogni altro è tardi
a camparmi dal mal ch’i’ bramo e volli,
salvo il foco medesmo. O cosa strana,
se ’l mal del foco spesso il foco sana!
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Qua si fa elmi di calici e spade
e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle,
e pur da Cristo pazienzia cade.
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Ma non ci arrivi più ’n queste contrade,
ché n’andre’ ’l sangue suo ’nsin alle stelle,
poscia c’a Roma gli vendon la pelle,
e ècci d’ogni ben chiuso le strade.
S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è partita,
può quel nel manto che Medusa in Mauro;
ma se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di nostro stato il gran restauro,
s’un altro segno ammorza l’altra vita?
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S’un casto amor, s’una pietà superna,
s’una fortuna infra dua amanti equale,
s’un’aspra sorte all’un dell’altro cale,
s’un spirto, s’un voler duo cor governa;
s’un’anima in duo corpi è fatta etterna,
ambo levando al cielo e con pari ale;
s’amor d’un colpo e d’un dorato strale
le viscer di duo petti arda e discerna;
s’amar l’un l’altro e nessun se medesmo,
d’un gusto e d’un diletto, a tal mercede
c’a un fin voglia l’uno e l’altro porre:
se mille e mille, non sarien centesmo
a tal nodo d’amore, e tanta fede;
e sol l’isdegno il può rompere e sciorre.
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Tu sa’ ch’i’ so, signor mie, che tu sai
ch’i vengo per goderti più da presso,
e sai ch’i’ so che tu sa’ ch’i’ son desso:
a che più indugio a salutarci omai?
Se vera è la speranza che mi dai,
se vero è ’l gran desio che m’è concesso,
rompasi il mur fra l’uno e l’altra messo,
ché doppia forza hann’i celati guai.
S’i’ amo sol di te, signor mie caro,
quel che di te più ami, non ti sdegni,
ché l’un dell’altro spirto s’innamora.
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Quel che nel tuo bel volto bramo e ’mparo,
e mal compres’ è dagli umani ingegni,
chi ’l vuol saper convien che prima mora.
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Sì come nella penna e nell’inchiostro
è l’alto e ’l basso e ’l medïocre stile,
e ne’ marmi l’immagin ricca e vile,
secondo che ’l sa trar l’ingegno nostro;
così, signor mie car, nel petto vostro,
quante l’orgoglio è forse ogni atto umile;
ma io sol quel c’a me propio è e simile
ne traggo, come fuor nel viso mostro.
Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(l’umor dal ciel terreste, schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
però pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con sì gran duolo,
ne ritra’ doglie e pene acerbe e certe.
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Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fusse più presso
o più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
c’al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca?
E s’avvien che trabocchi?
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Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,
legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m’hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?
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Chiunche nasce a morte arriva
nel fuggir del tempo; e ’l sole
niuna cosa lascia viva.
Manca il dolce e quel che dole
e gl’ingegni e le parole;
e le nostre antiche prole
al sole ombre, al vento un fummo.
Come voi uomini fummo,
lieti e tristi, come siete;
e or siam, come vedete,
terra al sol, di vita priva.
Ogni cosa a morte arriva.
Già fur gli occhi nostri interi
con la luce in ogni speco;
or son voti, orrendi e neri,
e ciò porta il tempo seco.
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Sol pur col foco il fabbro il ferro stende
al concetto suo caro e bel lavoro,
né senza foco alcuno artista l’oro
al sommo grado suo raffina e rende;
né l’unica fenice sé riprende
se non prim’arsa; ond’io, s’ardendo moro,
spero più chiar resurger tra coloro
che morte accresce e ‘l tempo non offende.
Del foco, di ch’i’ parlo, ho gran ventura
c’ancor per rinnovarmi abbi in me loco,
sendo già quasi nel numer de’ morti.
O ver, s’al cielo ascende per natura,
al suo elemento, e ch’io converso in foco
sie, come fie che seco non mi porti?
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Perché ’l mezzo di me che dal ciel viene
a quel con gran desir ritorna e vola,
restando in una sola
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di beltà donna, e ghiaccio ardendo in lei,
in duo parte mi tiene
contrarie sì, che l’una all’altra invola
il ben che non diviso aver devrei.
Ma se già ma’ costei
cangia ’l suo stile, e c’a l’un mezzo manchi
il ciel, quel mentre c’a le’ grato sia,
e’ mie sì sparsi e stanchi
pensier fien tutti in quella donna mia;
e se ’lor che m’è pia,
l’alma il ciel caccia, almen quel tempo spero
non più mezz’esser, ma suo tutto intero.
Testi tratti da: Michelangelo Buonarroti (a cura di Ettore Barelli), Rime, Rizzoli, Milano 1975.
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Vinicio Capossela è nato ad Hannover, in Germania, nel 1965. Ha pubblicato nove album,
realizzato due radioracconti (Canto di Natale di Charles Dickens nel 2001 e l’originale I cerini di Santo Nicola – Racconto infiammabile per voci, suoni e canzoni nel 2002) e un romanzo, Non si muore tutte le mattine, pubblicato nel 2004 da Feltrinelli, dal quale ha preso vita
un vero e proprio spettacolo teatrale, intitolato Voci, echi, suoni e visioni da Non si muore
tutte le mattine, mentre alcune pagine del libro hanno dato vita a un nuovo esperimento
radiofonico, le Radiocapitolazioni, andate in onda su Radio 3 Rai nel novembre del 2004. Il
suo ultimo lavoro discografico è il live Nel niente sotto il sole – Grand tour, documentazione
della fortunata tournée successiva all’uscita dell’album Ovunque proteggi del 2006.
Mario Brunello ha iniziato gli studi musicali con Adriano Vendramelli, proseguendoli e perfezionandosi con Antonio Janigro. Percorre le tappe della carriera in orchestra fino al 1986,
anno di svolta nel quale partecipa al Concorso Internazionale Čajkovskij e lo vince, primo italiano nella storia del concorso, ritirando il primo premio assoluto. Da allora Mario Brunello
suona il suo Maggini del XVII secolo (appartenuto al grande Franco Rossi) con tutte le più
grandi orchestre nei centri più importanti del mondo e con uguale passione coltiva la musica da camera. Ha collaborato e collabora con musicisti e cantautori (Vinicio Capossela, Uri
Caine, Gianmaria Testa, Paolo Fresu), attori (Maddalena Crippa e Marco Paolini), scrittori
(Alessandro Baricco, Stefano Benni, Erri De Luca) e sempre le sue interpretazioni e invenzioni lasciano il segno sul pubblico e la critica. L’ultimo progetto riguarda le Suite di Bach,
di cui è considerato oggi uno dei massimi interpreti, con l’ausilio di video-proiezioni ed elettronica. Nel 1994 fonda l’Orchestra d’Archi Italiana.
In queste ultime stagioni ha collaborato intensamente con Claudio Abbado e le sue Orchestra
del Festival di Lucerna e Orchestra Mozart, con quest’ultima anche in veste di direttore e solista. Mario Brunello è stato nominato, più giovane tra tutti, Accademico di Santa Cecilia. Dal
2002 ha un contratto in esclusiva con la casa discografica Giapponese Djv Victor.
Paolo Pandolfo inizia la ricerca nel campo della musica rinascimentale e barocca intorno
al 1979 insieme al violinista Enrico Gatti e al clavicembalista Rinaldo Alessandrini. Negli stessi anni vive entusiasmanti esperienze artistiche in contesti molto diversi, che pure hanno fortemente contribuito alla sua formazione: dalla partecipazione alla ECYO (Orchestra dei
Giovani della Comunità Europea, suonando con Claudio Abbado, Herbert von Karajan,
Anne-Sophie Mutter), alle esperienze jazzistiche nel Laboratorio Musicale del Testaccio, con
Bruno Tommaso, Tommaso Vittorini, Eugenio Colombo, Mario Raja. Studia poi la viola da
gamba con Jordi Savall alla Schola Cantorum Basiliensis in Svizzera. Nel 1982 diventa membro del gruppo di Savall, Hesperion XX, col quale suona in tutto il mondo fino al 1990, oltre
ad incidere dozzine di dischi. Nel 1990, dopo il successo delle sue prime registrazioni come
solista viene nominato professore presso la Schola Cantorum Basiliensis, succedendo a Jordi
Savall. Da allora Paolo Pandolfo è una delle figure di rilievo del panorama della musica antica europea, e prosegue la sua attività di ricerca e concertistica che lo porta a suonare in tutto
il mondo principalmente come solista, ma anche come direttore del suo ensemble Labyrinto.
A progetti interpretativi rigorosamente attenti e filologici ne affianca altri che spaziano nel12
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l’improvvisazione, sia in stile rinascimentale e barocco (è il tema dell’ultimo cd Improvisando
– Il Jazz del XVI secolo) che verso percorsi di avvicinamento con la musica contemporanea
ed il jazz (il cd di musiche originali Travel Notes).
Viene invitato a suonare e a tenere masterclasses in tutto il mondo, dal Giappone agli Usa a
tutta l’Europa e alla Russia. È convinto che la musica antica possa costituire un potente propulsore vitale per il futuro della musica colta occidentale, proprio grazie alla riscoperta di
vocabolari musicali dimenticati ma profondamente radicati nella nostra cultura oltre che a
quella di pratiche vitali e purtroppo desuete quali quella dell’improvvisazione. Dal 1997 incide per l’etichetta spagnola Glossa.
Christoph Urbanetz ha cominciato a studiare viola da gamba a Vienna, sua città natale, con
Daniel Valencia. Dal 1996 ha proseguito gli studi con Lorenz Duftschmid al conservatorio di
Graz e dal 1999 con Paolo Pandolfo alla Schola Cantorum Basiliensis, dove si è diplomato
nel 2004 («summa cum laude»). Tra il 2001 e il 2003 ha seguito i corsi di perfezionamento
con Jordi Savall a Barcellona. Attualmente sta portando avanti i propri studi con Vittorio
Ghielmi a Lugano presso il Conservatorio della Svizzera Italiana. Nel 2006 ha vinto il secondo premio, nonché il premio speciale per la migliore interpretazione di Bach, nel concorso
internazionale per viola da gamba “Bach-Abel” a Köthen (Germania). Nel 2007 ha vinto il
primo premio nel concorso internazionale per viola da gamba di Siviglia (Spagna). Ha eseguito numerosi concerti per i più prestigiosi festival ed enti lirici europei, tra cui il
Musikverein e la Konzerthaus di Vienna, in collaborazione con diversi gruppi (Oman
Consort, Ars Antiqua Austria, Armonico Tributo Austria), sia come orchestrale sia come solista. Ha inoltre registrato per diverse case discografiche quali ORF Alte Musik e Pan Records.
Sérgio Álvares, nato nel 1979, inizia gli studi musicali di chitarra classica e violoncello nella
sua città natale, Belo Horizonte, nel 1987. Il suo interesse per la musica antica e la sua frequente partecipazione a festival di musica antica in Brasile, lo portano a studiare viola da
gamba con Eunice Brandão nel 1997. In seguito Álvares studia viola da gamba con Paolo
Pandolfo alla Schola Cantorum Basiliensis in Svizzera, dove consegue il diploma come solista nel 2004. Sérgio Álvares in qualità di uno dei più giovani musicisti professionisti di viola
da gamba in Europa ha preso parte attiva in molti progetti con numerosi e importanti ensemble di musica antica. Fra le sue collaborazioni e registrazioni ricordiamo: Concerto Köln,
René Jacobs, Cantus Cölln (dir. Konrad Junghanel), Ensemble Gillles Binchois (dir.
Dominique Vellard), Ensemble Labyrinto (dir. Paolo Pandolfo), L’Amoroso (dir. Guido
Balestracci), Ensemble Elyma (dir. Gabriel Garrido), The Earl Viols (dir. Randall Cook), La
Cetra Barockorchester (dir. Attilio Cremonesi), Ensemble Orlando (dir. Laurent Genere), La
Chimera (dir. Eduardo Eguez), Concerto Soave - Maria Cristina Kiehr (dir. Jean-Marc Aymes).
Polistrumentista, compositore versatile e dallo stile surreale – suona infatti basso, theremin,
marimba, vibrafono, electronics e voce – Vincenzo Vasi è considerato uno dei musicisti più
eclettici nell’ambito delle musiche eterodosse e non. Il suo stile spazia trasversalmente vari
generi, dalla sperimentazione elettronica sino al pop d’autore. Attivo sin dal 1990 nell’ambi13
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to della musica di ricerca con diversi progetti – tra i quali Trio Magneto, Ella Guru,
Gastronauti, Switters, Orchestra Spaziale, Etherguys – ha inciso oltre 25 cd. Collabora stabilmente con Vinicio Capossela, Ominostanco e Roy Paci; quest’ultimo è il produttore dell’album di recente pubblicazione Vince vasi qy lunch (Etnagigante/v2). Ha suonato con Chris
Cutler, Tony Coe, Butch Morris, Antonello Salis, Pierre Favre, Phil Minton, Paolo Angeli,
Gianluca Petrella, Cristina Zavalloni, Otomo Yoshihide, Lol Coxill, Steve Piccolo, Wang inc.,
Joey Baron, Ikue Mori, Lukas Ligeti, John Zorn.
Gak Sato è nato a Tokyo nel 1969. È il direttore artistico di Temposphere, l’etichetta contemporanea di Right Tempo a Milano. Dal 2002 insegna Tecniche del suono nell’arte
all’Accademia Carrara delle Belle Arti di Bergamo. Nel 2004 ha cominciato a collaborare con
Vinicio Capossela in occasione dei reading Voci, echi, suoni e visioni da Non si muore tutte
le mattine. La collaborazione è proseguita in occasione del Festival Time Zones e dell’album
Ovunque proteggi, uscito nel 2006. Gak Sato ha pubblicato tre album come solista (l’ultimo,
Informed consent, è del 2005) e ha realizzato una numerosa serie di remix per altri artisti.
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Sabato 27 Ottobre 2007 ore 20.30
Gianandrea Noseda direttore
Barbara Frittoli soprano, Daniela Barcellona
mezzosoprano, Giuseppe Filianoti tenore,
Ferruccio Furlanetto basso
Claudio Marino Moretti maestro del coro
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO REGIO
Giuseppe Verdi Messa da requiem
Ore 19.45 incontro con Gianandrea Noseda
Lunedì 19 Novembre 2007 ore 20.30
Timothy Brock direttore
Filarmonica ’900 del Teatro Regio
Charlie Chaplin Luci della città
Ore 19.45 incontro con Paolo Manera
Sabato 29 Dicembre 2007 ore 20.30
Domenica 30 Dicembre 2007 ore 15
Lunedì 31 Dicembre 2007 ore 17.30
Tomas Netopil direttore
Silvia Colombini soprano, Otokar Klein tenore,
Roman Trekel baritono
Claudio Marino Moretti maestro del coro
Claudio Fenoglio
maestro del coro di voci bianche
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO REGIO
Carl Orff Carmina Burana
Ore 19.45 del 29 Dicembre incontro con
Tomas Netopil e Nicola Gallino
Lunedì 28 Gennaio 2008 ore 20.30
GIANMARIA TESTA - PAOLO FRESU DUO
Gianmaria Testa chitarra e voce
Paolo Fresu tromba e flicorno
Ore 19.45 incontro con Gabriele Ferraris
Lunedì 11 Febbraio 2008 ore 20.30
VINICIO CAPOSSELA CON MARIO BRUNELLO
Vinicio Capossela voce e pianoforte
Mario Brunello violoncello
Fuggite, amanti, Amor
Rime e Lamentazioni per Michelangelo
Musiche di Philippe Eidel, Vinicio Capossela,
Giovanni Sollima, Paolo Pandolfo,
Claudio Monteverdi, Johann Sebastian Bach
Ore 19.45 incontro con Mario Brunello
Lunedì 3 Marzo 2008 ore 20.30
Gianandrea Noseda direttore
Domenico Orlando oboe
FILARMONICA ’900 DEL TEATRO REGIO
Musiche di Johann Sebastian Bach-Anton Webern,
Richard Strauss, Arnold Schönberg,
Ottorino Respighi
Ore 19.45 incontro con Gianandrea Noseda
Lunedì 7 Aprile 2008 ore 20.30
Jan Latham-Koenig direttore
Ugo Favaro corno
FILARMONICA ’900 DEL TEATRO REGIO
Musiche di Sergej Prokof’ev, Dmitrij ˇSostakovič,
Nino Rota
Ore 19.45 incontro con Jan Latham-Koenig
Lunedì 19 Maggio 2008 ore 20.30
FILARMONICA ’900 DEL TEATRO REGIO
TORINO JAZZ ORCHESTRA - NEW YORK VOICES
Songs e standard jazz
Ore 19.45 incontro con Marco Basso
Concerto realizzato con il contributo di
La Filarmonica ’900 del Teatro Regio ringrazia gli amici che la sostengono: Enrica Acuto, Renato Ambrosio, Anna Chiusano, Elias al
Haddad, Fisio Centro Medico Lingotto, Luciano Marocco, Gianni Montalenti, Fabio Alberto Regoli, Carlo Tondato, Alberto Vercelli.
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