Considerazioni sul concetto di normalità nello

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 Parte I
Storia ed epistemologia
CONSIDERAZIONI
SUL CONCETTO
DI NORMALITÀ NELLO SVILUPPO COGNITIVO
Silvia Perini
INTRODUZIONE
Stabilire se normalità e ritardo cognitivo siano punti diversi lungo uno stesso continuum evolutivo, o se appartengano a continua differenti è uno degli obiettivi prioritari della ricerca contemporanea. Le implicazioni proprie delle posizioni teoriche che
privilegiano l’una o l’altra alternativa concorrono infatti a formulare concettualizzazioni diverse di sviluppo in generale, di normalità e ritardo in particolare. D’altra
parte, esse costituiscono la base delle risposte offerte agli ambiti applicativi e alla psicologia dell’educazione normale e speciale. Il problema non è di facile soluzione.
Come sempre accade a discipline cui Ebbinghaus riconosceva un lungo passato ma
una breve storia, anche la psicologia contemporanea dello sviluppo deve fare i conti
con un corredo di dati empirici ancora relativamente limitato, ma con una consistente eredità di interpretazioni pseudo o protoscientifiche, o comunque tali per cui
la metafora, assunta come apertura induttiva con funzione esclusivamente programmatica per la ricerca, ha finito per svolgere una funzione inferenziale nella costituzione della teoria. È questa la ragione per cui permangono notevoli differenze nell’interpretazione dei dati, anche quando si condivida la metodologia della ricerca.
La dialettica continuità-discontinuità nello sviluppo è un esempio paradigmatico
di quanto critica possa essere la confusione dei ruoli metodologico e teoretico nell’elaborazione della conoscenza.
Se gli enunciati alla base delle ipotesi di lavoro non si possono ridurre, per definizione, a fatti empirici – è il caso delle metafore – garantire la coerenza del sistema di
regole che spiegano i fatti, controllandole attraverso la prassi sperimentale, non è
condizione sufficiente a raggiungere un accordo condiviso sulla spiegazione dei fatti
stessi. I nuovi dati empirici che si vanno accumulando possono tutt’al più concorrere
a dare sostegno alla validità interna delle teorie di riferimento, ma non a corroborarne la validità di costrutto.
Una risposta univoca non può che essere la conseguenza di un accordo che, a partire da una metodologia della ricerca condivisa, miri a comporre la tuttora dibattuta
questione del riscontro e del controllo empirico degli enunciati di base.
Teorizzazioni sullo sviluppo cognitivo esistono da sempre. Lo studio sistematico
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Storia ed epistemologia
del modo in cui si impara a pensare è tuttavia databile agli inizi del secolo, quando il
bambino come individuo specifico, differente dall’adulto, comincia a interessare studiosi e ricercatori. Intorno agli anni Venti, pressoché contemporaneamente, Watson
negli Stati Uniti e Piaget in Europa danno il via a programmi organici di ricerca e
alle relative elaborazioni teoriche che descrivono e spiegano, fra l’altro, la genesi e
l’evoluzione cognitive. I percorsi da loro delineati si snodano successivamente in
tempi omologhi, lungo itinerari paralleli, ma spesso in forte dialettica.
A partire dagli anni Sessanta, mentre si continuano a raccogliere replicazioni dei
risultati di Piaget e si tenta di ampliarne le implicazioni, si assiste alla progressiva affermazione delle teorie dell’elaborazione dell’informazione, tra le quali i modelli connessionisti rappresentano la più recente evoluzione paradigmatica anche in ambito
evolutivo. D’altra parte, la psicologia del comportamento elabora nello stesso periodo le sue concettualizzazioni di sviluppo grazie ai contributi degli analisti del comportamento, i quali promuovono l’evoluzione del comportamentismo dalle sue forme
classica e radicale all’attuale connotazione interattiva, contestuale e funzionale.
Una pur rapida ricognizione delle definizioni più recenti e più condivise di sviluppo cognitivo ripropone sostanzialmente queste due linee interpretative.
La prima concepisce lo sviluppo in termini di trasformazione qualitativa che si
realizza nel corso di stadi, fasi o gradi, e che, svolgendosi a spirale, porta a forme superiori di sviluppo o, comunque, comprende una sovrapposizione di strati di diverso
livello; la seconda lo definisce come crescita e lo descrive come un incremento
quantitativo.
La prima, differenziando la natura del comportamento da quella delle attività cognitive superiori, non può che risolversi in un’analisi strutturale delle capacità e dei
processi cognitivi che metta in evidenza cosa cambia nelle strutture di una persona
durante il corso della sua vita. Sottolinendo la discontinuità dello sviluppo, connota
anche il ritardo come mentale, cioè come il prodotto di strutture, processi, strategie
della mente che, per varie ragioni, sono deficitarie o funzionano in modo anomalo
(Eysenck, 1990). La seconda, al contrario, descrivendo lo sviluppo come il progressivo cambiamento delle interazioni osservabili fra un individuo biologico e le condizioni e gli eventi dell’ambiente funzionale, ne sottolinea la continuità. Anche le attività cognitive, indipendentemente dalla loro complessità, sono comportamenti,
talvolta non manifesti ed espliciti, comunque misurabili anche se solo indirettamente. L’analisi è funzionale e, in quest’ottica, il ritardo è evolutivo; è, in altre parole un
rallentamento che, per diverse ragioni, interferisce col processo di cambiamento
(Perini e Bijou, 1993).
È immediatamente evidente che i termini antitetici e inconciliabili della dicotomia continuità-discontinuità dello sviluppo sono funzione e struttura o, se si preferisce, performance e competenza. E non è difficile riconoscervi, in estrema sintesi, lo
status attuale dell’arte cui la psicologia cognitiva e la psicologia comportamentale
contemporanee sono pervenute nel corso degli anni e attraverso le progressioni elaborate da specifici approcci che, pur all’interno di una cornice teorica comune,
hanno derivato costrutti differenti. Com’è noto, infatti, all’interno del quadro teorico cognitivo, così come in quello comportamentale contemporaneo, trovano spazio
teorie, modelli e costrutti diversi. La nostra analisi del problema prenderà in considerazione i costrutti che nell’ambito della teoria cognitiva caratterizzano il modello
di Piaget, quello dell’elaborazione dell’informazione, quello connessionista e, in
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ambito comportamentale, i modelli che definiscono l’approccio radicale e quello
dell’analisi sperimentale e applicata del comportamento. L’obiettivo è chiarire come
il problema critico stia nei costrutti teorici che concorrono a definire il comune oggetto di studio, più che nel modo in cui si conduce la ricerca.
Perché l’analisi risulti, oltre che chiara, utile, procederemo discutendo preliminarmente alcuni aspetti epistemologici generali relativi alla circolarità funzionale fra
teoria, modello e ricerca nel processo scientifico. Vedremo poi come i sostenitori dei
diversi approcci cognitivi e comportamentali abbiano formulato le loro teorizzazioni
di sviluppo cognitivo in generale e di ritardo in particolare. Infine, cercheremo di
proporne una possibile via di conciliazione che faccia emergere la loro complementarità, piuttosto che limitarci a confermarne la mutua esclusione in termini di priorità degli uni sugli altri.
TEORIE, MODELLI E LINEE DI RICERCA
Dal punto di vista epistemologico, all’interno del discorso scientifico teoria e modello sono cose diverse. L’una è esplicativa e rappresenta, dunque, un tentativo di organizzare una serie di leggi derivate da una collezione di dati empirici la più ampia possibile, allo scopo di spiegare la successione di eventi specifici e di prevederne la comparsa. Quando viene a mancare la corrispondenza fra organizzazione delle leggi e
nuovi dati sperimentali nascono problemi di interpretazione che possono anche portare al superamento della teoria o di alcune sue parti. L’apporto di nuovi dati può
provocare quindi il consolidamento, l’indebolimento o addirittura il rifiuto della teoria che pure li ha prodotti, a favore di una nuova versione che possa inglobarli coerentemente.
Per contro, il modello non è esplicativo: è un’applicazione metaforica e/o analogica della teoria, è cioè una rappresentazione della realtà, non la sua descrizione. Non
richiede quindi preliminarmente una base consistente di dati empirici, né un puntuale riferimento ai nuovi dati prodotti dalla sperimentazione.
Al contrario di quanto avviene per la teoria, dunque, il modello, anche se perde
via via valore euristico, è più o meno utile, ma non è mai falsificabile. È proprio grazie al suo valore euristico che il modello può essere indispensabile nella fase iniziale
dell’iter conoscitivo, dunque utile per indirizzare la ricerca e selezionare i primi dati
empirici ai fini dell’elaborazione teorica. Esso va però mantenuto se e fino a quando
si dimostra sufficientemente aperto e flessibile, cioè pronto a essere sostituito qualora la ricerca lo contraddica (Parot e Richelle, 1999).
La particolare natura dell’oggetto di studio della psicologia e la conseguente difficoltà nell’identificarlo in termini condivisi hanno favorito a lungo la sovrapposizione e la confusione di ruoli e funzioni all’interno del sistema teoria-modello. Le metafore di cui è particolarmente ricca la psicologia hanno fornito gran parte del suo
vocabolario teorico di base, ma non sempre sono state ridotte a funzioni analogiche,
a causa dell’attribuzione ai loro termini del significato empirico derivato dal controllo sperimentale (Caracciolo, 1984). Il rischio di sostituire alla teoria il modello, assumendo come costitutivi della prima gli elementi metaforici propri del secondo e
utilizzandoli anche a livello esplicativo, è inversamente proporzionale al grado di
precisione raggiunto nel definire l’oggetto mediante conoscenze accertate e organiz-
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zate. È spesso accaduto, e talvolta accade tuttora, che l’oggetto, definito a priori in
termini metaforici dal modello, venisse confermato solo all’interno della metafora e
ne diventasse anche il prodotto. In altre parole il modello, inaccessibile al controllo
empirico in quanto costitutivamente metaforico, contiene in sé, o può comunque
ipotizzare al bisogno, le risorse necessarie alla sua sopravvivenza, anche quando si rivela palesemente incongruente con il dato di realtà che pretende di inglobare. Oltre
che epistemologicamente inaccettabile, l’atteggiamento che stigmatizza come “errori
di realtà” le incongruenze fra dato empirico e modello si rivela improduttivo ai fini
della soluzione dei problemi conoscitivi di base e delle trasposizioni applicative.
Evidentemente i criteri epistemologici non definiscono regole puramente formali,
ma hanno valore in quanto delimitano e precisano le modalità procedurali di raccolta, di organizzazione dei dati e di valutazione della loro coerenza interpretativa.
L’OGGETTO DI STUDIO
Questo problema, molto evidente e critico nell’ambito di tutte le formulazioni teoriche psicoanalitiche, si pone anche, come vedremo, in gran parte di quelle cognitive.
È senza dubbio elemento comune alle teorie piagetiana, della processazione dell’informazione e connessionista. L’elaborazione progressiva di queste teorie è, infatti,
avvenuta grazie a ciò che Toulmin (1971) definisce ipersemplificazione cartesiana
per cui l’attività di raccolta dei dati empirici può iniziare solo a patto che si siano
formulate preliminarmente idee chiare su ciò che si vuol cominciare a studiare. Dei
problemi che possono nascere se le idee sono chiare, ma metaforiche, abbiamo
appena detto.
Al contrario, le teorie comportamentiste presuppongono, con Bacone, che sia la
raccolta dei dati empirici a definire, se non la natura stessa e l’obiettivo, almeno il
momento iniziale di ogni nuova scienza; un modello non è indispensabile ed è comunque sempre analogico. La metafora vi esercita un ruolo esegetico, dal momento
che i suoi termini sono costrutti empiricamente fondati, controllabili indipendentemente dal modello e sempre modificabili dall’acquisizione di nuovi, successivi dati
sperimentali. Questo atteggiamento ha portato la maggior parte dei sostenitori degli
approcci comportamentisti a considerare la psicologia cognitiva e i suoi sistemi teoria-modello come la miglior fonte possibile di ipotesi non verificate, da sottoporre
necessariamente al vaglio della prassi sperimentale.
Queste due posizioni speculative hanno definito, fin dagli esordi della psicologia
scientifica, linee di ricerca spesso in contrapposizione aspra, sempre dialettiche. Lo
studio dello sviluppo rappresenta tuttora uno dei terreni privilegiati per il loro confronto.
Per entrambe, studiare lo sviluppo significa studiare il cambiamento lungo la dimensione temporale: l’obiettivo è quello di capire e di spiegare che cosa cambia e
come. Le differenze sembrano dipendere dal tipo di problemi cui cercano di dare risposta e dal linguaggio impiegato, piuttosto che dalle modalità di studio utilizzate.
Oggetto di studio privilegiato dai cognitivisti sono le strutture, cioè le proprietà di
particolari capacità, che essi descrivono con linguaggio cognitivo in termini di conoscenza e di mente, cioè di costrutti metaforici, dunque non osservabili (Catania,
1992). Grazie all’approccio cartesiano, i cognitivisti manipolano delle variabili e
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attribuiscono le modificazioni comportamentali correlate a quelle attività cognitive
che si presumono influenzate dalle manipolazioni sperimentali. I concetti sono dunque astratti e la spiegazione dei fenomeni che consentono di capire la struttura della
mente e la sua architettura implica la deduzione di relazioni ipotetiche fra concetti
astratti. In quest’ottica, ignorare le attività cognitive può consentire la descrizione
dei fenomeni cognitivi, ma non la loro spiegazione.
Al contrario, i comportamentisti sono interessati alle funzioni. Studiano dunque
le relazioni osservabili fra specifici eventi ambientali e attività specifiche, e utilizzano per parlarne il linguaggio comportamentale, in termini di stimoli, di risposte e di
eventi contestuali osservabili. In linea con l’atteggiamento baconiano, ritengono
che le modificazioni comportamentali correlate alla manipolazione sperimentale
delle variabili siano direttamente attribuibili alle manipolazioni stesse. I costrutti
concettuali sono concreti nel senso che sono direttamente indotti dalle manipolazioni sperimentali e dai dati empirici. Spiegare significa individuare e descrivere relazioni empiriche regolari fra concetti al fine di prevedere e controllare il comportamento. La mediazione di attività cognitive non è ritenuta necessaria.
Il locus privilegiato del dibattito sarebbe dunque individuabile nel modo in cui si
parla dei dati della ricerca, piuttosto che nei dati stessi. I dati infatti si riferiscono ai
fenomeni in esame, ma la classe di fenomeni che si studia non impone necessariamente un particolare tipo di interpretazione: sono possibili interpretazioni comportamentali di fenomeni cognitivi e interpretazioni cognitive di fenomeni comportamentali. I comportamentisti non mettono in dubbio l’esistenza di una specifica classe di fenomeni, quelli cognitivi, che include pensiero, ricordo, problem solving e
così via. Anzi, ne fanno oggetto di indagini sistematiche. Ma li considerano attività
piuttosto che strutture precomportamentali. Li descrivono, quindi, e li spiegano come fanno con tutti gli altri comportamenti che non richiedono uno speciale status
causale. La loro critica è dunque centrata sulla pretesa che tali fenomeni siano considerati come cause del comportamento.
L’analisi comportamentale focalizza la sua attenzione, e la mantiene, sulla performance; quella cognitiva rimanda sistematicamente alla competenza sottostante, pur
ammettendo che la performance deve necessariamente rifletterla, per quanto in
modo insufficiente, o distorto. La ricerca sperimentale ha gradualmente ridotto il livello di distorsione, individuando un gran numero di leggi in grado di correlare la
performance a variabili non cognitive, ma il rapporto di causalità fra competenza e
performance continua a essere inferito da molti approcci cognitivi.
Attualmente la tendenza comune a molti autorevoli rappresentanti dei due
schieramenti sembra privilegiare un atteggiamento conciliante. I toni del dibattito
sottolineano quanto di comune già esiste: la fede nel metodo sperimentale, l’ancoraggio dei concetti a manipolazioni sperimentali e a osservazioni sistematiche, e il
presupposto che l’oggetto di studio, per quanto complesso, sia ordinato e non soggetto ai capricci del caso. Su queste basi comuni sembra possibile far procedere la
conoscenza, accettando il fatto che, così come accade per tutte le altre scienze naturali, costrutti ipotetici possano svolgere un’utile funzione esplicativa, fintanto che
la ricerca non sia in grado di sostituirli con leggi empiricamente controllate (Catania, 1992).
In questo senso è in atto da una decina d’anni a questa parte, come conseguenza
soprattutto della ricerca, di base e applicata, sullo sviluppo ritardato, una concilia-
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zione fra gli studiosi: i risultati ottenuti dall’analisi funzionale del comportamento
nel campo delle tecnologie educative integrano quelli prodotti dalla teoria cognitiva nell’ambito dell’organizzazione strutturale del comportamento.
Poiché la condividiamo in larga misura, analizzeremo in questa chiave l’evoluzione della dicotomia continuità-discontinuità dello sviluppo cognitivo, dai primi
modelli interpretativi alle attuali teorizzazioni della psicologia cognitiva e comportamentale.
LA TEORIA COGNITIVA: DA PIAGET AL CONNESSIONISMO
Consapevoli del fatto che una sintesi delle diverse posizioni teoriche che si sono succedute nel corso dell’evoluzione della psicologia cognitiva non potrà che risultare
una indebita ipersemplificazione, la tentiamo comunque, cercando di far emergere
gli aspetti più direttamente coinvolti nella dialettica continuità-discontinuità dello
sviluppo.
Lo sviluppo cognitivo non è che la progressiva evoluzione di domini specializzati
attivata e diretta da un’architettura cognitiva generale capace di creare rappresentazioni di caratteristiche salienti dell’ambiente, di organizzarle grazie a processi cognitivi generali, e di elaborare infine potenti procedure dominio-specifiche in grado, a
questo punto, di manipolare direttamente le rappresentazioni (McShane, 1991).
La grande maggioranza degli studiosi dell’attività cognitiva è d’accordo nel ritenere che l’architettura cognitiva, con i suoi sistemi specializzati di rappresentazione e le
procedure altrettanto specializzate per usarle nei diversi domini, sia una struttura
immutabile dell’attività cognitiva, nel senso che il suo funzionamento non cambia
nel corso dello sviluppo.
L’attività dei diversi sistemi cognitivi, così come la loro architettura, non è direttamente e oggettivamente osservabile, ma si può solo inferire da ciò che produce sul
piano del comportamento. L’inferenza logica porta a concludere che il comportamento, se è causato dalle attività cognitive, può essere compreso e spiegato solo se
queste ultime vengono identificate. Un costrutto ipotetico funge da mediatore fra il
comportamento e ciò che lo determina. In questo senso la psicologia cognitiva è
mentalistica: spiega ciò che avviene in un ambito osservabile, quello del comportamento, con eventi derivati da un ambito diverso, non osservabile. I diversi approcci
chiamano in causa come mediatori, costrutti ipotetici differenti.
Per Piaget si tratta delle strutture, cui attribuisce il ruolo di principi organizzativi,
di natura astratta e non empirica, quindi non direttamente osservabili, che sottostanno al pensiero, lo guidano e lo controllano, dal momento che mediano sistematicamente le interazioni dell’individuo con l’ambiente esterno. I processi di accomodamento e di assimilazione, che Piaget riprende da Baldwin e che sono processi invarianti, assolvono il compito di far evolvere e sviluppare sia le strutture cognitive
sia le modalità con cui nei diversi momenti evolutivi esse assolvono il loro compito
di mediazione: nel corso dei primi stadi evolutivi non sono diverse dai riflessi, durante lo stadio sensomotorio sono schemi non simbolici e si trasformano in rappresentazioni mentali quando il bambino comincia a immagazzinare l’informazione tratta dal
mondo esterno e a usarla come punto di partenza per il successivo comportamento.
Si può ulteriormente sintetizzare la posizione di Piaget individuando nelle strutture
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cognitive gli elementi che, a partire dall’esperienza, compongono una griglia via via
più complessa, capace di filtrare e guidare l’esperienza successiva. In questo senso
Piaget supera l’innatismo predominante all’epoca e risponde in modo costruttivista
sia alle domande relative al che cosa si evolve sia a quelle che riguardano il come.
Più di recente, la scuola ginevrina postpiagetiana non ha suggerito sostanziali innovazioni alla filosofia di base della teoria. Né si sono registrate da questo punto di
vista importanti differenze nella ricerca. L’interesse con cui alcuni autori – PerretClermont fra tutti – hanno ripreso temi di ricerca poco approfonditi da Piaget circa il
ruolo dell’interazione con i coetanei, o del contesto di apprendimento nello sviluppo
cognitivo individuale, per esempio, non ha introdotto alcun tema di rilievo per
quanto riguarda l’interpretazione delle modalità critiche dello sviluppo cognitivo.
È a partire dalle ripetizioni e dalle espansioni degli studi piagetiani, e non in alternativa alla teorizzazione che li sottende, che intorno agli anni Sessanta si sviluppa in
modo sistematico l’analisi dello sviluppo cognitivo in termini mutuati dalle scienze
dell’informazione. Condivisa da teorici di diverso orientamento, ha dato luogo a teorie e a modelli diversi, le cui specificità non interessano la nostra analisi attuale. La
premessa comune definisce la mente come un sistema che costruisce e manipola
simboli (Newell, 1980), cioè rappresentazioni astratte dell’informazione. Gli script
sono un buon esempio di rappresentazioni astratte, interne, che corrispondono a
sequenze di comportamenti. Il sistema cognitivo, analogamente a quanto fa un computer digitale, elabora i simboli in modo seriale, li trasforma, li codifica e li finalizza
in accordo a regole precise e a strategie che si modificano nel corso dello sviluppo.
Due sono i problemi conoscitivi cui il modello cerca di dare risposte: il primo, di
ordine generale, riguarda la natura del sistema di elaborazione dell’informazione, la
sua organizzazione e i processi che lo guidano. Il secondo, più specifico, affronta il
modo con cui il sistema può essere adattato a compiti particolari: per esempio, il ragionamento matematico o la lettura in soggetti di diverso livello evolutivo. Per compiti di questa complessità le risorse messe a disposizione dal sistema seriale sembrano
insufficienti. Per un bambino può essere difficile sia scoprire quali procedure funzionino sia riconoscere e riprodurre la sequenza di passaggi corretta per quel compito.
I limiti dell’approccio seriale dell’elaborazione dell’informazione stanno proprio in
questa inefficienza. L’obiettivo della ricerca attuale è trovare procedure capaci di
ottimizzare, in senso quantitativo oltre che qualitativo, le regole e le strategie di elaborazione.
Da questo punto di vista, i modelli connessionisti sembrano costituire una possibile soluzione. Non sostituiscono quelli dell’elaborazione dell’informazione, nel senso
che i due punti di vista non sono incompatibili e utilizzano lo stesso paradigma, ma
offrono un contributo avanzato alla comprensione dell’architettura dell’attività cognitiva. Il modello esplicativo dell’apprendimento dei concetti esemplifica in modo
chiaro l’innovazione.
Grazie al parallelismo con il funzionamento neuronale del cervello, l’immagazzinamento e l’elaborazione dell’informazione sono visti come processi che avvengono
in parallelo anziché in sequenza seriale, grazie a unità che hanno un reciproco effetto facilitante o inibente. Ognuna di tali unità elabora simultaneamente un piccolo
frammento dell’informazione, che resterebbe privo di senso se considerato isolatamente e attiva una rete di segnali facilitanti o inibenti verso altre unità che stanno
elaborando un altro frammento. La configurazione di connessioni facilitanti o ini-
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benti attivate da unità che agiscono simultaneamente, costituisce un’architettura
associativa che varia di volta in volta in funzione dei segnali selettivi che ogni unità
riceve dalle altre. Le nuove esperienze sono dunque in grado di modificare una preesistente rappresentazione concettuale, attivando contestualmente una rete diversa di
connessioni.
Alla fine degli anni Settanta, e in modo trasversale a tutti gli approcci dell’elaborazione dell’informazione, diviene di uso comune il concetto di metacognizione, che
definisce una conoscenza introspettiva circa il proprio funzionamento mentale e i
processi che lo regolano.
L’ambito di azione della metaconoscenza può essere più o meno ampio: il suo
oggetto, infatti, può considerare tutte le caratteristiche psicologiche dell’individuo,
o solo gli aspetti cognitivi del funzionamento mentale, o più in dettaglio ancora,
processi particolari relativi a specifiche conoscenze (Cornoldi, 1995).
I cognitivisti stessi ammettono che la metacognizione, mentre riveste un notevole
interesse sia sul piano teorico sia applicativo, ha una base empirica piuttosto limitata. Di conseguenza, è tuttora un settore eterogeneo e controverso. Ciononostante,
viene spesso chiamato in causa per spiegare il ritardo.
A conclusione di questo stringatissimo riepilogo, si può tentare un’ulteriore sintesi. Sotto il profilo concettuale e teoretico tutti gli approcci definiscono il sistema
cognitivo in termini di componenti innate, capaci di trasformare e manipolare l’informazione, al fine di immagazzinarla in modo funzionale e di elaborare strategie che
siano sempre più perfezionate e promuovano la conoscenza dai livelli elementari a
quelli via via più evoluti. Presuppongono, cioè, che l’individuo abbia una capacità
innata di fare associazioni e di rappresentarsi la realtà, e che lo sviluppo favorisca
unicamente il livello di efficienza delle rappresentazioni. Sono dunque tutti modelli
di competenza, nel senso che si occupano di regole normative assunte con funzione
di mediazione fra strutture precomportamentali e comportamento. In questo senso il
loro potere descrittivo ed esplicativo presenta i limiti di cui abbiamo già parlato a
proposito dei costrutti metaforici.
Coerentemente con queste premesse, il punto di vista cognitivo indica nel ritardo
mentale l’effetto di un’inefficiente funzionamento cognitivo. Il problema è dunque
squisitamente qualitativo: alla base del ritardo mentale c’è un sistema cognitivo i cui
processi sono meno efficienti di quelli evidenziati dalla media delle persone. Dal
momento che non si sono ancora progettate tecniche specifiche di valutazione delle
strutture cognitive e delle loro caratteristiche di processazione dell’informazione, così come sono descritte dalla teoria cognitiva, un funzionamento cognitivo inefficiente si valuta grazie a test di intelligenza standardizzati. L’essenza del ritardo mentale
può essere definita esclusivamente sulla base di una performance inferiore alla media
su misure di abilità intellettuale. Coerentemente al modello si attribuisce la causa
immediata, o prossima, della condizione di ritardo a quanto viene misurato con i test
e cioè a un funzionamento cognitivo inefficiente, senza però poter identificare quale
sia la funzione specifica la cui inefficienza spiega il deficit cognitivo generale. Né
interpretarlo in termini di fallimento metacognitivo sembra apportare contributi
chiarificatori in questo senso. Diversi autori definiscono infatti il fallimento metacognitivo come incapacità di riconoscere quando, come e perché quella certa strategia,
pure presente nel repertorio cognitivo del bambino ritardato e utile nello svolgimento di un particolare compito, possa essere applicata. Di nuovo si ripropone un’inter-
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pretazione del comportamento come effetto di un processo di ordine superiore o, in
questo caso, dell’inefficienza di tale processo. Inoltre, un’interpretazione del ritardo
mentale in termini di deficit delle componenti metacognitive non sembra superare il
problema della circolarità, comune a gran parte delle spiegazioni.
È il rapporto causale fra fenomeni di natura diversa, quali che siano le specificità che i diversi approcci identificano, il punto critico della discussione. L’obiezione principale al punto di vista cognitivo mette in gioco la legittimità di attribuire la causa immediata del ritardo a una variabile ipotetica, non osservabile,
chiamata funzionamento cognitivo, o metacognitivo, inefficiente e che, per di più,
deriva dal fatto di dare un secondo nome, cioè funzionamento cognitivo inefficiente, al livello individuale di performance nel test di intelligenza (Perini e Bijou,
1993). Anche senza entrare nel merito dei noti problemi relativi alla valutazione
dell’intelligenza, non è possibile non rilevare la circolarità del processo implicito
nell’uso dei test di intelligenza, né ignorare il fatto che la performance in questi
test misura tutt’al più, ma in un rapporto di correlazione e non funzionale, le attitudini per le attività accademiche previste a scuola, del tutto assimilabili, infatti, a
quelle progettate per le prove di standardizzazione del test. Considerare il QI fondamentale nella definizione di ritardo dipende dal fatto che non si possiedono
altre misure migliori per valutare il funzionamento intellettivo: ciò però non risolve il problema che il suo referente è un costrutto ipotetico, non osservabile, ritenuto necessario solo da coloro i quali ritengono che i processi mentali controllino
tutte le attività psicologiche.
Dal punto di vista applicativo non si può, inoltre, non sottolineare che le categorie diagnostiche desunte dai risultati ai test di intelligenza, e una valutazione di inefficienza cognitiva o metacognitiva, contribuiscono poco alla formulazione di programmi educativi e di trattamento della persona ritardata.
LA TEORIA COMPORTAMENTALE: DA WATSON ALL’ANALISI
DEL COMPORTAMENTO
La psicologia del comportamento contemporanea considera lo sviluppo infantile un
sottoinsieme essenziale della teoria generale. Applica dunque al suo studio i principi
e le leggi della teoria comportamentale. L’oggetto di studio è il comportamento
osservabile, e il comportamento cognitivo non si caratterizza in modo diverso da
qualsiasi altro comportamento. Il metodo di indagine e le procedure di interpretazione dei risultati della ricerca sono quelli tipici delle scienze naturali.
Lo sviluppo è definito grazie a due concetti base. Il primo afferma che ci sono interazioni continue fra un bambino che si evolve dal punto di vista biologico e i cambiamenti progressivi dell’ambiente. Il secondo è che queste interazioni cambiano sia
l’individuo, favorendo lo sviluppo di una personalità unica e originale sia l’ambiente
(Bijou, 1993; Perini e Bijou, 1993). Il progressivo modificarsi delle interazioni ambiente-comportamento avviene nel corso del tempo: è quindi connesso all’età. Maturazione e crescita concorrono a determinare l’emissione e il consolidamento di
nuovi comportamenti, cui l’ambiente reagisce, e così via, lungo un continuum in cui
modalità comportamentali gradualmente più articolate e complesse (abilità, conoscenze, sentimenti, attitudini, pensieri ed emozioni) definiscono lo sviluppo psicolo-
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gico e danno forma alla personalità individuale. La psicologia dello sviluppo studia
dunque, in particolare, le progressioni e le regressioni delle interazioni, si concentra
cioè sugli effetti delle interazioni passate su quelle attuali, senza invocare alcun elemento o processo di mediazione di natura psichica o mentale.
All’attuale concettualizzazione del concetto cardine di rapporto interattivo fra l’individuo e gli eventi dell’ambiente funzionale si è giunti nel corso di decenni e grazie
al lavoro di migliaia di psicologi sperimentali. Ricordiamo in breve i punti salienti di
questo progresso teorico.
I programmi di ricerca di Watson sul comportamento infantile si limitano alla celebre asserzione, per altro ripresa da Ignazio di Loyola, circa il ruolo che la programmazione ambientale può esercitare nel determinare il futuro individuale, e all’altrettanto celebre studio sul condizionamento della paura in Albert. Il suo contributo
empirico e teorico è stato tuttavia determinante nell’elaborazione di una filosofia
della scienza psicologica, che è patrimonio comune a tutti gli psicologi, anche a
quelli che si occupano di sviluppo. Com’è noto, infatti, il comportamentismo classico è una filosofia della scienza che nasce agli inizi del secolo. In aperta contrapposizione alle due scuole più importanti dell’epoca, lo strutturalismo e il funzionalismo, e
ai rispettivi oggetti di studio, la struttura e le funzioni della mente, Watson afferma
che la psicologia è una branca oggettiva e sperimentale delle scienze naturali, che
usa metodi completamente oggettivi per studiare il comportamento al fine di prevedere e controllare le variabili che lo possono influenzare.
Su questa base programmatica Watson elabora una teoria cui gli stessi comportamentisti contemporanei non risparmiano critiche. Può essere descritta come meccanicistica, fisicalista, riduzionista e ambientalista. I suoi limiti di base sono sintetizzati
nella linearità della funzione C = f (s), nella quale gli stimoli sono sorgenti di energia che vanno a colpire gli organi di senso della persona e le risposte sono movimenti e azioni di parti del corpo. In questa contingenza a due termini, l’ambiente – considerato come pattern di stimoli – è perennemente attivo, mentre l’individuo resta
passivo finché non viene stimolato. Un tale concetto di reattività limita enormemente la possibilità di studiare i fenomeni complessi ed è del tutto inadeguato per una
psicologia intesa come scienza storica e dello sviluppo. La migliore descrizione del
contributo di Watson alla psicologia viene proprio da un comportamentista, suo
contemporaneo. Secondo Kantor (1968) il maggior merito del comportamentismo
watsoniano è stato di natura squisitamente metodologica: aver promosso l’evoluzione della psicologia verso lo status di scienza naturale.
Il movimento avviato da Watson stimola la ricerca di laboratorio sul comportamento animale e dà vita a una grande varietà di teorie dell’apprendimento. Fra i
numerosi tentativi di dare coerenza alle acquisizioni sperimentalmente raccolte
ricordiamo i contributi fondamentali offerti dal comportamentismo intenzionale di
Tolman, dalla teoria della contiguità di Guthrie, dalla teoria oggettiva del comportamento di Hull. Ma sono soprattutto il comportamentismo radicale di Skinner e l’intercomportamentismo di Kantor, a dare forma sistematica alla psicologia del comportamento, dotandola di una filosofia della scienza esplicita e logica, e di posizioni
chiare circa l’oggetto di studio, la metodologia e il rapporto tra ricerca di base e
ricerca applicata.
Skinner elabora la sua teoria dell’apprendimento operante in un sistema psicologico noto in un primo tempo come comportamentismo descrittivo e in seguito come
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comportamentismo radicale. Si tratta di una forma totalizzante che, del comportamentismo watsoniano, conserva la convinzione che compito della scienza psicologica sia prevedere e controllare le variabili che possono influenzare il comportamento
ma, in alternativa a quello – interessato esclusivamente al comportamento osservabile – rifiuta il dualismo corpo-mente e ritiene che anche i processi mentali, per
quanto eventi privati, possano essere indagati con la metodologia e la logica delle
scienze naturali. Prescindere da spiegazioni interne, mentali o di altra natura rappresenta l’opzione fondamentale della filosofia della scienza del comportamento
(Skinner, 1989).
La metodologia è centrata sull’analisi del comportamento operante di un organismo in situazione sperimentale e sul concetto che le variabili indipendenti, ambientali, interagiscano con il comportamento. In questo contesto gli stimoli non sono
più evidenti cambi di energia con un’inizio e una fine, ma qualsiasi condizione relativa alla risposta emessa dall’individuo, per cui non si guarda più al comportamento
e all’ambiente come cose o eventi separati, ma alla loro interazione. Skinner (1969,
1989) supera l’inadeguatezza della psicologia watsoniana sostituendo all’unità di studio a due termini una contingenza a tre termini, in cui giocano differenti funzioni di
stimoli e risposte: lo stimolo conseguente, con funzione rinforzante o punente, seleziona la risposta; la funzione discriminativa dello stimolo antecedente rappresenta il
contesto per la relazione risposta-rinforzo: la risposta è un esempio, all’interno di una
classe di comportamenti operanti, definito funzionalmente rispetto alle sue conseguenze e al suo antecedente, a loro volta funzionalmente definiti rispetto alla risposta. I concetti empiricamente convalidati e i principi che si sviluppano grazie all’analisi di forme semplici di comportamento vengono via via applicati all’analisi di
comportamenti complessi come il pensiero, il problem-solving, il comportamento
creativo, il comportamento verbale, confermandone la continuità strutturale rispetto a quelli più semplici.
Il concetto di interazione viene ulteriormente elaborato da Kantor (1959), la cui
sistematizzazione teorica è nota come intercomportamentismo. Partendo dal presupposto di un interazionismo dinamico, propone una teoria dei sistemi olistica e naturalistica, che enfatizza la mutua, reciproca e simultanea interazione fra le funzioni
dello stimolo ambientale e le funzioni della risposta, e che privilegia come oggetto
di studio la coordinazione dell’intero organismo all’interno di un campo.
Il comportamento umano viene descritto come una sequenza di interazioni fra un
organismo, inteso come unità biopsicologica unica e irripetibile, e l’ambiente funzionale inteso come campo all’interno del quale hanno luogo le interazioni. I fattori
che entrano in gioco in ogni pur parziale atto comportamentale sono quindi non
solo le funzioni stimolo e le funzioni risposta, ma anche i fattori del setting. Questi
vengono chiamati anche eventi situazionali, una classe di eventi in cui rientrano
tutti quegli elementi che caratterizzano il setting ambientale, interno o esterno
all’individuo, e che, pur non partecipandovi direttamente, sono in grado di modificare l’interazione.
Il significato che ogni individuo ha imparato ad attribuire, nel corso della sua
particolare storia interazionale, alle persone, alle cose e agli eventi che fanno
parte del suo ambiente biologico, fisico e sociale, svolge nelle interazioni attuali
una funzione altrettanto critica di quella delle classi di eventi direttamente coinvolti.
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Storia ed epistemologia
Anche l’analisi del comportamento elaborata da Kantor, in quanto teoria generale, non richiede particolari aggiustamenti per descrivere e comprendere il comportamento infantile, le sue variazioni nel corso dello sviluppo e le differenze individuali
che possono caratterizzarlo anche in termini di ritardo.
L’integrazione del comportamentismo radicale skinneriano con l’analisi intercomportamentale di Kantor, operata da Bijou e Baer (1961) intorno agli anni Sessanta,
rappresenta la più recente evoluzione della psicologia comportamentale. L’analisi
comportamentale dello sviluppo umano ne è il risultato. Il contributo fondamentale
di questi due studiosi è identificabile nel perfezionamento dei paradigmi operanti
nella ricerca in età evolutiva, il quale a sua volta ha stimolato e guidato la produzione di ormai numerosissimi dati sperimentali da un lato e dall’altro di sistematiche
applicazioni alla psicologia dell’educazione delle tecnologie derivate.
L’analisi comportamentale dello sviluppo rappresenta attualmente il punto di
vista condiviso da tutti gli studiosi di area comportamentale. Ma non solo: le sue applicazioni in campo educativo e nella programmazione dell’intervento sui soggetti
con ritardo sono infatti riconosciute particolarmente interessanti anche da studiosi
di orientamento diverso.
Vediamone le caratteristiche fondamentali. La prima è una filosofia della scienza,
le cui prerogative di empiricità abbiamo già ampiamente sottolineato. La costante
interfacciabilità dei contributi della ricerca agli aspetti applicativi, per cui i principi
elaborati grazie alla prassi sperimentale trovano immediata applicazione nelle pratiche educative, è la seconda (Perini, 1997). Ultima caratteristica, non meno importante, è rappresentata dall’aspetto di teoria generale le cui leggi empiriche sottolineano come: 1) le interazioni, oggetto di studio, si collocano lungo un continuum per
quanto riguarda sia gli stadi di sviluppo sia i ritmi evolutivi (normale, ritardato e accelerato) sia le relazioni fra sviluppo normale e patologico; 2) le interazioni complesse si
evolvono a partire da quelle semplici, anche se non necessariamente sono il risultato
della loro somma. Sono dunque suscettibili di analisi sperimentale che li spiegano
senza la mediazione di principi e/o di processi qualitativamente diversi, o di ordine
superiore; 3) la teoria e la tecnologia che ne deriva non rappresentano un prototipo
assoluto e immutabile, ma sono sistemi flessibili, funzionali e non ridondanti, aperti a
nuovi concetti, regole e principi, purché ottenuti grazie alla prassi sperimentale.
Premesse di questo tipo portano a una definizione di ritardo mentale in termini di
ritardo evolutivo.
Il ritmo con cui si apprendono comportamenti nuovi e abilità via via più complesse dipende dalle opportunità rese possibili dalla dotazione biologica dell’individuo
e dal suo ambiente socioculturale. Un ritmo di sviluppo normale o superiore alla
norma, che dà luogo a repertori comportamentali normali o superiori alla norma,
sono funzione di una costituzione biologica e di eventi ambientali medi o superiori
alla media. Analogamente, ritmi di sviluppo inferiori alla media, che determinano i
comportamentali altrettanto inferiori evidenziati dai ritardati, sono correlati a patologie biomediche e/o a condizioni di svantaggio socioculturale.
In quest’ottica la persona ritardata è definita e caratterizzata dai limiti del suo repertorio comportamentale, limiti che la rendono più o meno incapace di adattarsi
autonomamente al gruppo sociale, quindi bisognosa di supporto. Le implicazioni di
questo modo di concepire il ritardo sono due, entrambe critiche. Innanzitutto, va
sottolineato che parlare di repertorio comportamentale significa parlare di tutti gli
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Considerazioni sul concetto di normalità nello sviluppo cognitivo
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aspetti della vita: dalla motricità all’autoaccudimento, dalle abilità accademiche a
quelle comunicative e linguistiche, emotive, sociali, vocazionali. Quando un individuo è ritardato non è solo la componente mentale a essere ritardata, ma viene
coinvolta l’intera personalità. In secondo luogo, i limiti nel repertorio possono
dipendere da limiti nelle opportunità interazionali che, in qualche misura, inibiscono l’acquisizione di nuovi comportamenti, così come l’articolazione graduale di
comportamenti complessi. Poiché gli elementi che caratterizzano un’opportunità
interazionale in termini evolutivi sono: 1) una condizione stimolante per la persona, 2) una risposta a tale stimolazione e 3) una conseguenza rinforzante, stabilire se
le limitazioni dipendano da deficit del suo corredo biologico piuttosto che dalla
mancata esposizione ad adeguate condizioni stimolanti e/o rinforzanti, o da entrambi, è evidentemente fondamentale ai fini della programmazione dell’intervento
(Perini e Bijou, 1993).
A prescindere da una diagnosi medica che accerti la funzionalità del corredo biologico, la concettualizzazione di ritardo in termini di inadeguatezza del repertorio
comportamentale consente una valutazione in termini funzionali del livello di competenza nelle diverse e specifiche aree comportamentali, sulla cui base sarà possibile
una programmazione puntuale dell’intervento.
STRUTTURA E FUNZIONI: UNA CONCILIAZIONE POSSIBILE
È proprio a partire dai problemi applicativi connessi a una definizione poco operativa di ritardo che si assiste, da un certo numero di anni a questa parte, a un tentativo
di conciliazione fra i due punti di vista. La necessità di individuare modalità di intervento efficaci ed efficienti per il recupero di bambini con deficit più o meno gravi ha
favorito l’inizio di un dialogo più produttivo fra cognitivisti e comportamentisti.
È evidente a tutti che gli aspetti critici del recupero sono da una parte il che cosa
insegnare e dall’altra come insegnarlo. Tentare di risolvere i quesiti posti dai due specifici ambiti ha significato da principio elaborare linee di ricerca che hanno privilegiato l’una l’analisi strutturale, l’altra l’analisi funzionale, in un contesto generale di
reciproca diffidenza. La prima mantiene costanti le relazioni fra stimoli e risposte,
mentre si alterano sistematicamente le proprietà degli uni o delle altre. La seconda,
al contrario, tiene costanti stimoli e risposte e manipola le loro relazioni: le relazioni
fra comportamento individuale e fattori ambientali si studiano in termini di contingenze fra stimolo discriminativo, risposta e conseguenze.
Capire che struttura e funzioni sono molto spesso correlate, anche se la correlazione è talvolta ambigua, rappresenta la possibile via di uscita non solo per la soluzione
delle questioni aperte a proposito del ritardo.
La didattica della lettura è sotto questo profilo un buon esempio di sviluppo coordinato; perché sia utile e produttiva deve tener conto di entrambi gli aspetti. Si pensi, per esempio, al peso che possono avere, ai fini dell’apprendimento, la variazione
delle unità testuali, l’organizzazione gerarchica della struttura del testo, in termini di
relazioni fra lettere, sillabe, parole, frasi, periodi, e la corrispondenza fra struttura dello stimolo e struttura della risposta, in termini di relazioni fra testo scritto e linguaggio. D’altra parte è altrettanto essenziale capire se sia meglio rinforzare la risposta
corretta o punire gli errori.
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Storia ed epistemologia
In un testo di livello elementare in cui parole e figure siano presentate insieme, la
risposta corretta di identificazione può essere determinata dalla lettura della parola,
dall’etichettamento della figura o da una loro combinazione. L’analisi funzionale che
cambia in modo sistematico la relazione figura-parola, usando la figura come stimolo
discriminativo piuttosto che come conseguenza rinforzante, può mettere in chiaro
quale sequenza sia più utile all’apprendimento. D’altra parte, l’analisi strutturale suggerisce come organizzare il materiale in base al livello di complessità: parole bisillabe, con una certa sequenza di consonanti e vocali, significative ecc.
L’aver compreso che problemi strutturali possono entrare in esperimenti funzionali e viceversa, può essere l’inizio di una soluzione della dialettica cognitivismo-comportamentismo. Al termine di questo percorso lo sviluppo potrebbe risultare, al pari
della lettura, un contenuto da insegnare, grazie a una didattica capace di coordinare
fattori strutturali e fattori funzionali. In questo senso il primo passo consiste nel concordare sul fatto che struttura e funzioni sono entrambe determinate dalla pressione
selettiva degli eventi ambientali: le proprietà strutturali e funzionali degli organismi
di una specie si possono capire e spiegare grazie all’evoluzione di quella specie. In
quest’ottica, struttura e funzioni sono il risultato dell’apprendimento, non la sua
causa. Entrambe sono determinate dalle relazioni fra comportamento e ambiente e
dunque si collocano agli estremi dello stesso continuum definito dalla storia evoluzionistica (Catania, 1992). I processi cognitivi e i processi comportamentali che le
caratterizzano, a loro volta, condividono lo stesso continuum e ciò che li separa risulta essere il diverso livello di accessibilità all’osservazione diretta.
Accettare fino in fondo questi presupposti sembra attualmente l’unica via percorribile, sia nella progettazione dell’attività di ricerca sia sul piano dell’elaborazione teorica. Una verifica empirica della validità del percorso compiuto, pur nell’ambito limitato del ritardo mentale, depone già a favore della sua produttività.
LETTURE CONSIGLIATE PER L’APPROFONDIMENTO
SALZINGER, K. (1986). Cognitive problems, behavioral solutions. In: P.N. Chase & L.
Parrott (Eds.), Dialogue on Verbal Behavior. Reno NE: Context Press, 1991.
BIBLIOGRAFIA
Per la bibliografia del capitolo consulta la Bibliografia web.
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