“The city is what we make of it” di Diadora: la voce del regista Del Bianco [INTERVISTA]
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15 marzo 2014 | Domenico Loperfido aka Maiki
Guarda il suo profilo!
Diadora “The city is what we make
of it”: la voce del regista Del Bianco
[INTERVISTA]
Girare uno spot per il brand italiano Diadora negli Stati Uniti,
un’esperienza da sogno raccontata dal regista Lorenzo Del Bianco
dell’agenzia DUDE
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“We are creative produders”, questa la mission di DUDE. Una delle realtà d’agenzia
italiane emergenti più interessanti del momento che si pone l’obiettivo di sviluppare idee
Violenza online: il
parere della
psicologa
@Colvieux
#stopwebviolence
creative, realizzarle e produrle, ponendosi trasversalmente rispetto alla filiera classica in un
mashup intrigante tra creativi d’agenzia e produttori.
Lo strumento preferito è il video in tutte le sue sfaccettature. Noi di Ninja Marketing abbiamo
Come promuovere
un brand noioso
sui social network
[INFOGRAFICA]
molto sentito parlar di loro soprattutto dopo l’ultimo progetto di caratura internazionale: lo
spot prodotto per Diadora, girato a Los Angeles, che ha riscosso notevole successo in termini
di views e di critica: un caso vincente di una realtà italiana che funziona, riconosciuta
soprattutto all’estero.
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RIBBON
Un piacere e un onore per me intervistare uno dei soci di DUDE, il regista e coofondatore
Lorenzo del Bianco che mi ha ospitato nel “covo” di DUDE per raccontarmi di più sullo spot
e sulla sua recente esperienza:
“The city is what we make of it” by Diadora. Qual è il
concept dello spot, come è nato e perchè la cultura di
strada?
Tutto nasce come in un coast to coast da New York a Los Angeles. Alcuni mesi fa a New
York abbiamo ideato e realizzato una campagna per lanciare la nuova identità di Diadora “Free
to be me”, che ha deciso di posizionarsi in modo differente rispetto al passato, discostandosi
dall’immaginario degli sport classici con un’impronta forte. Quindi abbiamo ideato “Free to be
me” libero di essere me stesso, di essere italiano (Diadora è brand di proprietà Geox) e
ancora di più orgogliosi di mostrarlo all’estero.
“The city is what we make of it” è una declinazione di questa scelta di brand identity e data la
forte crescita di Diadora, era il momento di raccontare una storia: quella del popolo Diadora che
definisce le proprie regole in una città fantastica dove persino gli sport nobili come il golf e
il tiro con l’arco sono declinati su un rooftop o per strada, in una rivisitazione un po’ più
libera.
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Come mai Los Angeles? Credi che la location abbia
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aiutato a comunicare i valori brieffati dal cliente?
In realtà se giri il primo commercial a New York, il secondo non può essere a Bustarsizio
(sorride) quindi il profilo era mantenersi su una realtà internazionale. L’indiziato numero uno
era Berlino, poi per una serie di ragioni commerciali e produttive legate al fatto che
l’immaginario americano ci era piaciuto molto (sta anche per nascere una DUDE US), abbiamo
cambiato location.
Inoltre L.A. è la città del cinema, dei videogames (cita GTA), quindi se pensi al modo di
rivivere e ridisegnare la città, forse Los Angeles si prestava molto di più perché è la città che è da
sempre presentata nei più modi folli. Infine se devi fare una campagna primavera-estate, devi
andare in un posto dove c’è il sole e quindi quale posto meglio della California.
Tornando al posizionamento del brand, rispetto a
competitor come Nike o Adidas, che trattano lo sport più
come competizione e con testimonial di successo,
Diadora ha scelto un’altra strada, pensi che sia un
concept comunicativo che può funzionare?
Nel momento in cui devi differenziarti da brand che possono usare Kobe Bryant, Messi o
Lebron James devi farlo riportando la comunicazione ad un immaginario un po’ più reale,
semplice, quasi “hipster” a tratti, ponendo al centro il destinatario del messaggio.
Io, persona comune, rivivo e reinterpreto LA, non Kobe che magari ci vive, ma conosce solo la
parte posh della città. Poi ovviamente se la sfida è contro Nike o Adidas, non potendo
permetterti lo stesso budget per giocare con i grandi campioni, devi cambiare strategia.
Lo spot vanta la collaborazione anche di RedBull. Come è
nato questo co-marketing? E com’è stato collaborare con
loro?
È stata un’idea di Diadora e MTV, che hanno avuto la brillante idea di associare il marchio a
uno dei due o tre brand più cool al mondo, specie se pensiamo agli sport “di strada”, dove
Redbull è senza dubbio leader incontrastata.
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Non è la prima volta che vi approcciate al mondo degli
adv. Hai avuto modo di collaborare con company come
Vodafone, Samsung, Smart. Come è cominciata? E
partendo dal basso come si arriva ai grandi brand?
Tutto è iniziato dopo Italia Germania 2-0 dei mondiali del 2006 quando io e il mio socio
Davide Baldi, forse presi dall’ebbrezza del momento, abbiamo avuto un’idea per un corto che
abbiamo scritto e realizzato, all’epoca ancora in pellicola, nei giorni successivi.
Dopo una serie di lavori commissionati da gente a noi vicina abbiamo pensato di aprire la
nostra società. Nel frattempo abbiamo assunto consapevolezza di quello che stava nascendo e
abbiamo avuto l’opportunità di interpretare un mondo che stava cambiando, in un modo e con
un approccio nuovo.
Poi pian piano con tanta costanza, tanta voglia e non poche difficoltà, in un contesto in cui non
hai finanziamenti da privati, dalle banche e agevolazioni dallo stato, ogni piccolo lavoro è uno
step in più che ti porta visibilità. E magari con un po’ di fortuna arrivi a girare negli Stati Uniti…
un sogno per me fino a qualche tempo fa.
Vi definite come “creative produders”. Com’è nata l’idea
di identificare ogni membro della crew con l’immagine
delle vostre “sagome”, diventate ormai simbolo
dell’agenzia DUDE?
L’idea è nata in fase di realizzazione del sito: quando lanci una società hai poco budget e una
miriade di cose da fare, una delle più importanti è il sito internet. Il nostro stentava ad essere
lanciato perché uno dei co-fondatori che si occupava della parte web, il caro Bob Gandolfi, ci
teneva che fosse perfetto al lancio e questo comportava un ovvio ritardo.
Allora l’idea che ci è venuta in mente è stata quella di fare un po’ di teasing, pubblicare una foto
dei due soci, con la faccia cancellata e il claim: “ci stiamo rifacendo il look, stiamo per
arrivare!”. Bob poi è stato geniale perché non si è limitato a modificare l’immagine, ma ha
creato quel bellissimo strumento di comunicazione che sono le nostre “sagome” attuali, disegni
dei membri DUDE senza la faccia.
Il driver di comunicazione che ci ha portato a sceglierle come logo è l’idea che non è importante
che faccia abbiamo noi DUDE ma ciò che importa è l’immagine che il cliente vuole che noi
rappresentiamo per lui.
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Oltre al mondo della comunicazione, siete molto attivi
anche nel mercato dei videoclip musicali, soprattutto con
band e artisti emergenti del nuovo cantautorato italiano.
Quali delle due realtà ti affascina o ti diverte di più?
Molto sinceramente entrambe, in quanto oggi un commercial può essere una forma semplice,
ma anche quasi una forma d’arte: la cura con cui oggi si da’ attenzione alle immagini o
all’idea creativa in molti casi da’ vita a veri capolavori.
Certo le risorse che ci sono nell’advertising ti consentono di fare dei prodotti superiori rispetto
al mondo che noi chiamiamo “no profit” (sorride) ovvero il mondo dei videoclip e
cortometraggi, in cui ti scontri con queste limitazioni di budget che non ti permettono sempre
di esprimerti come vorresti.
Cosa ha di più affascinante però quest’ambiente è sicuramente la possibilità di lavorare con
artisti e la piacevolezza di collaborare con persone che stanno creando arte. E questo fa sentire
un po’ artisti anche noi.
Soffermandoci un po’ più su di te, sul tuo lavoro.. quando
hai deciso di diventare un director e se hai qualcuno o
qualcosa che ti ha ispirato in questa scelta?
Questa non me l’ero preparata, aspettavo di essere famoso per riceverla (sorride). A quattordici
anni a Genova (la sua città) dire voglio fare il regista è un po’ come dire voglio fare l’astronauta,
hai le stesse probabilità nella tua testa di farlo.
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Poi le cose succedono, magari per caso rispetto a quello che ti aspettavi. Se dovessi pensare ad
un’ispirazione credo di dover ringraziare mio papà che era fotografo e portandomi in
camera oscura tutte le domeniche forse un po’ di gusto visivo me l’ha donato.
Quindi per chiudere, che consiglio daresti a chi si
approccia al mondo del video-making e aspira a vivere
un’esperienza come la tua?
Parlando di DUDE come esperienza, la cosa più bella è la possibilità di alzarsi al mattino,
guardarsi allo specchio ed essere felice pensando di andare ogni giorno in un posto che è
plasmato a tua immagine e somiglianza. È una soddisfazione impagabile che deve essere
un po’ un obiettivo secondo me.
Se dovessi dare un consiglio sulla regia, che è poi quello che do agli studenti (Lorenzo tiene
alcuni corsi di regia e comunicazione pubblicitaria allo IED), è quello di non dimenticare mai
che il regista racconta delle storie, e per far sì che queste storie siano belle, è fondamentale
emozionare chi le guarda.
È qualcosa che ho capito con l’esperienza sul campo. All’inizio consumavo gran parte delle
energie e del tempo per capire come ottenere un determinato effetto o un’inquadratura
particolare, poi a un certo punto ho capito che in realtà il lavoro di chi racconta delle storie è
semplicemente quello di emozionare chi le guarda, non importa che si tratti di pubblicità,
di un video, un corto o un film.
Certo la tecnica è importante, ma è solo come strumento per poter raccontare una storia. Un po’
come diceva Hitchcock “A vent’anni facevo film meravigliosi, pieni di effetti e non mi filava
nessuno, poi ho cominciato a dimenticare la tecnica rendendola funzionale alla storia che
volevo raccontare. Solo allora sono diventato Alfred Hitchcock”
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