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MATTEO PERRINI
PLATONE E BERGSON ESPLORATORI DELL'ANIMA1
Bergson nel penultimo capitolo delle Due fonti della morale e della religione riassume le
conclusioni sul problema della sopravvivenza umana, e soprattutto il metodo mediante il quale vi
perviene.
Sul problema del metodo si contrappone con vigore a Platone. «Con Platone si può stabilire a
priori – scrive Bergson – una definizione dell'anima che la consideri non decomponibile perché
semplice, incorruttibile in quanto non divisibile, immortale in virtù della sua essenza. Da questa per
deduzione si passerà all'idea di una caduta delle anime nel Tempo e poi a quella di un loro ritorno
nell'Eternità. Che cosa si può obiettare a chi contesta l'esistenza dell'anima, se l'anima è definita in
questi termini? E come potrebbero essere risolti secondo la realtà, o almeno essere impostati in
termini di realtà, i problemi relativi a un'anima reale, alla sua reale origine e al suo reale destino,
allorquando si specula soltanto su una concezione di spirito che forse è vuota o, tutt'al più, ci si limita
a precisare in modo convenzionale il significato della parola «anima» che la società ha inscritto su un
ritaglio della realtà per gli usi richiesti dal linguaggio? Anche l'affermazione sulla natura e il destino
dell'anima rimane sterile, giacché la definizione era arbitraria. La concezione platonica non ha fatto
progredire di un passo la nostra conoscenza dell'anima, nonostante duemila anni di riflessione. Essa si
presentava come definitiva, come la nozione di un triangolo e per le stesse ragioni. Come non vedere
che ogni problema dell'anima, se ha un'effettiva giustificazione, dovrà sempre essere posto in termini
di esperienza e che è in termini di esperienza che potrà essere risolto, sebbene in progresso di tempo e
parzialmente?».
Il giudizio di Bergson attesta l'intransigenza severa che egli porta nel rifiuto metodologico di ogni
procedimento aprioristico in filosofia. L'autore delle Due fonti colpisce nel segno certamente, ma solo
per quegli aspetti del platonismo in cui c'è un effettivo ricorso a quel tipo di argomentazione, e dunque
una caduta nel dogmatismo e nel gioco verbale. Sono queste le parti caduche del platonismo, ma esse
non devono impedirci di vedere quanto vasta, profonda, geniale sia stata l'opera di esplorazione
dell'anima umana condotta da Platone.
Si prenda il Fedone: ebbene, in esso si intrecciano deduttivismi che non riescono a dimostrare
alcunché e riflessioni sorrette da esperienze, che muovono da fatti reali, vissuti in prima persona da
Socrate; fatti di cui si coglie appieno il significato metafisico. Tra le argomentazioni puramente verbali,
per cui vale la dura critica bergsoniana, è tipica quella (102, B-E) secondo cui l'anima non può
accogliere in sé la morte perché ha la vita come suo carattere essenziale, per cui l'anima = Idea di vita =
ciò che per sua natura è e dà la vita = immortale = eterna = incorruttibile.
Nello stesso libro, però, l'umanità ha potuto e potrà leggere pagine tra le più alte che siano state
mai scritte sia sulla natura e sul destino dell'anima, sia sul rapporto tra spirito e corpo. Si leggano quei
passi in cui Socrate cerca di spiegare ai suoi interlocutori la causa, il perché, la ragione per cui si trova
in carcere, in attesa di morire, invece di svignarsela, come vorrebbero amici e nemici (97 C-99 D).
Così, a partire dalla sua stessa situazione effettuale, egli mostra nel suo concreto manifestarsi la realtà
spirituale del suo vero «io», quell'io che decide, appunto, di agire come agisce, costi quello che costi,
perché con l'intelligenza ha compreso qual è il suo vero bene e fa di esso il solo criterio per cui vivere e
morire.
Non si può spiegare un fatto spirituale come la conversazione che si va svolgendo in carcere tra
Socrate e i suoi discepoli-amici, che interrogano il maestro sul destino che di lì a poco gli sarà riservato
nell'aldilà, adducendo «cause di questo genere, come la voce, l'aria, l'udito e infinite altre dello stesso
1
Giornale di Brescia, 31 maggio 1995.
tipo», mentre il significato delle cose dette, e ancor più la loro verità, sono cose che appartengono a un
altro ordine distinto dalle condizioni fisiche e organiche che rendono possibile il parlare e l'ascoltare.
Allo stesso modo, sarebbe assurdo affermare che Socrate fa tutto ciò che fa, invece di andarsene a
Mégara o in Beozia, perché se ne sta seduto su una panca, perché il suo corpo è fatto di ossa e di nervi,
perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le una dalle altre e i nervi sono capaci di
distendersi e di allentarsi, e via dicendo. «Chiamare causa cose come queste è troppo fuori luogo. Ora,
se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non
sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio
proprio a causa di queste, e che facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma
non in virtù della scelta di ciò che è meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. Questo
vuol dire non essere capace di distinguere che una cosa è la vera causa e un'altra è il mezzo senza il
quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle
tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la
stessa causa».
Si aggiunga poi che, a partire dal Fedro e dalla Repubblica, Platone delinea una psicologia
realistica delle attività dell'anima, irriducibili l'una all'altra e tuttavia chiamate ad armonizzarsi, perché
la vita sia «una e bella», non incoerente e dissonante. L'analisi delle potenze dell'anima è condotta
sempre in stretta connessione con la domanda: «Come possiamo regolare la nostra vita secondo il bene
più grande?». Occorre, infine, ricordare ciò che le schematizzazioni scolastiche, pur così utili sul piano
didattico, inducono a dimenticare: il soggetto del Fedone, «il discorso di Socrate intorno alla psiche»
(Ep. XI – II, 363 E), non è trattato da Platone come se i singoli argomenti in favore dell'immortalità
fossero «prove» indipendenti fra loro e aventi tutte lo stesso valore. «Uno studio accurato – osserva
Alfred E. Taylor – mostra che essi vogliono essere soltanto una serie di "attacchi" in vista della
soluzione del problema, ciascuno richiedente e conducente alla più completa risposta che lo segue»
(Platone l'uomo e l'opera, La Nuova Italia). In particolare Platone ha cura, introducendo abilmente
nella conversazione degli episodi collaterali e delle pause, di portarci verso quelli che sono i punti
critici dell'argomentazione.
E le due più notevoli difficoltà che il difensore dell'immortalità dell'anima deve affrontare sono la
teoria «epifenomenistica», secondo cui la coscienza è un prodotto derivato e secondario dell'attività
dell'organismo corporeo, e la teoria meccanicistica della natura. Per Platone queste teorie stanno alla
base di ogni filosofia irreligiosa; ma anche per Bergson esse costituiscono la base speculativa delle
moderne negazioni dell'immortalità dell'anima.
Sì che non è affatto azzardato accostare proprio sul tema dell'uomo e del suo destino Platone e
Bergson. Il primo combatté la pseudo-metafisica scientista del IV – V secolo a.C.; il secondo quella del
XIX e del XX secolo d.C..
Platone e Bergson concordano, infine, nel dimostrare: che la vita mentale non è effetto di cause
corporee; che la stessa realtà fisica, il continuo nascere e morire, non è spiegabile in termini puramente
meccanicistici.
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