10 - E per finire... due storie di tigri indiane

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I RACCONTI INDIANI DI GELLINDO GHIANDEDORO
10 - E per finire...
due storie di tigri indiane
FIABA DI MAURO NERI - ILLUSTRAZIONI DI FULBER
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I RACCONTI INDIANI DI GELLINDO GHIANDEDORO
– È vero che domattina parti, zia Bernardina?
Non si può dire che Occhialetta stesse piangendo. Il suo visino di spaventapulcino
però era veramente triste, così come malinconici erano gli occhi di tutti gli altri spauracchietti, dei topi di discarica e degli spaventapasseri seduti sull’erba. Ormai s’erano
abituati a radunarsi ogni sera nel prato davanti alla grande quercia di Gellindo Ghiandedoro per ascoltare le straordinarie storie indiane dell’oca migrante: chi gliel’avrebbe
detto che dal giorno dopo sarebbero stati più soli?
Ci pensò proprio Bernardina a dare le spiegazioni giuste: l’oca si schiarì la gola e cominciò a parlare: – Me lo dite, piccoli miei, come farei a raccontarvi tutte queste belle
avventure, se me ne restassi sempre qui ai piedi della quercia di Gellindo? Il destino di
un’oca migrante come sono io è quello di attraversare i cieli da Nord a Sud e da Est a
Ovest per osservare dall’alto da vita degli animali, degli spaventapasseri e degli uomini!
Essere sempre in viaggio per raccogliere odori e colori, voci e ricordi... questo deve fare
un’oca migrante!
Poi all’improvviso Bernardina si bloccò come se proprio in quell’istante le fosse venuta in mente una cosa importante: – Sentite, per farmi scusare della mia partenza
improvvisa, sapete che faccio? Oggi vi racconto non una, bensì due storie! Due belle
avventure indiane che vi faranno compagnia fino al mio ritorno. D’accordo? Allora cominciamo subito...
Un giorno il piccolo scoiattolo Bangiupàl si trovò a dover attraversare un’immensa foresta poco fuori la città di
Delhi, quando la sua attenzione venne
catturata dal rumore di molti singhiozzi.
– Ehilà, qui c’è qualcuno che sta piangendo... Andiamo a vedere!
Guidata da quei lamenti, Bangiupàl arrivò in uno spiazzo erboso in cui
c’erano tutti gli animali della giungla,
scimmie e lupi, elefanti e serpenti cobra, aironi e pavoni che piangevano in
coro addolorati...
– Si può sapere cosa avete da piangere? – domandò lo scoiattolo balzando in
un colpo solo sulla cima di un sasso coperto di muschio.
– Piangiamo perché non ci rimane
molto altro da fare! – rispose un’ele-
fantessa barrendo rabbiosa.
– Piangiamo per colpa della terribile
Bura1) e per tutto il male che ci sta facendo! – aggiunse una gazzella.
– Scusate, amici, ma fatemi capire –
disse allora Bangiupàl: – questa Bura,
chi è?
Fu un serpente cobra a sibilare la
risposta: – Devi sssapere che Bura è il
nome di una tigre feroce che abita nel
cuore fondo della giungla!
– E cosa vi fa, questa tigre?
A quel punto da un albero scese urlando una scimmia: – Ci mangia, ecco
quel che ci fa, sciocco scoiattolo! Bura
aveva deciso, qualche tempo fa, che
questa foresta doveva essere solo ed
esclusivamente sua, perciò si mise
d’impegno e cominciò a divorare ogni
giorno tutti gli animali che le capitava-
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no a tiro. Alla fine qualcuno di noi ebbe
il coraggio di farsi avanti e propose alla
tigre famelica un patto: “D’ora in poi potrai mangiare un solo animale al giorno
e tieni presente che questo conviene
soprattutto a te: se ci divori tutti dal
primo all’ultimo, poi che cosa ti resterà
da mangiare? Invece così potrai vivere
in questa foresta finché vorrai!” Bura
accettò il patto: il giorno dopo divorò
un elefante, quello dopo ancora un airone, il terzo giorno passò a un lupo e
così via... finché...
– Finché? – domandò incuriosito
Bangiupàl.
– Finché oggi nessuno di noi vuole
consegnarsi alla tigre: siamo stufi di essere dissanguati animale dopo animale,
giorno dopo giorno...
Lo scoiattolo ci pensò su per alcuni
istanti e poi parlò: – Sapete che faccio?
Oggi dalla tigre mi presento io!
Bura viveva in una grotta isolata, dietro a una montagnola sassosa. – Ce ne
hai messo a presentarti – ruggì il mostro affamato.
– Ecco, devi scusarmi per il ritardo –
balbettò Bangiupàl facendosi coraggiosamente avanti, – ma sono stato trattenuto dall’altra tigre che vive in questa
foresta...
Bura si bloccò, arricciò il naso e alzò
le labbra per far vedere le zanne pronte
a ferire: – Come sarebbe a dire “un’altra
tigre”? C’è per caso una seconda tigre,
in questa giungla? E che ci fa nel “mio”
regno?
– Ecco, proprio di quello stavamo di-
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scutendo io e lei: due tigri in una stessa
giungla non possono convivere... e l’altra tigre ha deciso che devi andartene
tu!
Bura lanciò un urlo terribile: – Dimmi dove vive questa caccola di tigre!
Era proprio quel che lo scoiattolo
voleva: – Lo vedi quel sentiero che corre diritto diritto fuori dal bosco? Percorrilo tutto di corsa e quando arrivi a
un dosso, tranquilla: dietro c’è solo un
saltino di mezzo metro da fare e poi ti
trovi in un bel prato. La seconda belva
vive proprio lì!
– D’accordo – sbraitò Bura, – vorrà
dire che le capiterò da dietro all’improvviso e in meno di un secondo rimarrò la
sola tigre dei paraggi. Eh! Eh! Eh!
La tigre imboccò il sentiero di corsa
e sempre correndo all’impazzata arrivò
al dosso. Non rallentò in salita e, giunta
sulla cima, si gettò dall’altra senza guardare. Tanto, che volete che sia, per una
tigre, mezzo metro di salto...
Mezzo metro?
Il volo fu lungo almeno trecento,
quattrocento metri, al termine dei quali un tonfo terribile decretò la fine di un
animale vorace e prepotente. Bura venne trovata qualche giorno dopo tra le
rocce sul fondo del burrone, trasformata in un bel tappeto nero e arancione!
Tornò così la serenità, nella giungla, e
Bangiupàl poté tornarsene a casa soddisfatto, non dopo aver ricevuto un sacco di regali da tutti gli altri animali.
Un anziano santone aveva tre discepoli. Uno si chiamava Anarth2), il secondo Dafan3) e il terzo Murkh4).
Un giorno i tre giovani decisero che
ormai avevano imparato abbastanza:
– È giunto finalmente il momento di
mettere in pratica i tuoi insegnamenti,
Maestro – disse Murkh con un inchino,
– e non vediamo l’ora di scoprire le meraviglie del mondo!
Il santone scosse il capo: dall’alto
della sua saggezza sapeva bene, lui, che
nella vita non si ha mai finito di imparare. Comunque se i suoi tre allievi volevano mettere in pratica di persona quel
che avevano imparato, non sarebbe
stato di certo lui a fermarli.
– Andate pure, miei cari, ma prendete con voi il mio servo Nokhar, vi potrà
esser utile!
– Ma cosa vuoi che ce ne facciamo
di quello stupido contadinotto – strillò
Anarth.
– Sarà stupido e anche contadinotto,
ma vi prego di obbedirmi per l’ultima
volta: lasciate che ad accompagnarvi
venga il buon Nokhar!
Accadde che quella sera stessa, dopo
una bella camminata di alcune ore, i tre
discepoli e il servo si fermassero a riposare all’ombra di un boschetto.
Lì, sparse nell’erba ai piedi di un albero, Dafan trovò alcune ossa.
– Ehi, guardate qui! Ci sono delle
ossa di tigre... Dai: proviamo a mettere
in pratica gli insegnamenti del vecchio
saggio e facciamo tornare in vita questo scheletro di belva!
Detto, fatto!
Murkh radunò le ossa, mettendo da
una parte quelle grandi e dall’altra gli
ossicini più piccoli.
Toccò poi a Dafan ricostruire lo sche-
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letro: – Ecco qua, non è stato difficile –
esclamò alla fine.
Fu Anarth a quel punto a parlare: –
Bene, adesso io farò ricrescere la pelle
attorno a queste ossa!
Quando le ossa furono ricoperte
da un manto nero a strisce arancioni,
Murkh balzò in piedi e urlò: – Fermi, ora
tocca a me! Aggiungerò alle ossa e alla
pelle un bel po’ di muscoli, così faremo
rivivere questa tigre!
Fu Nokhar, il servo sciocco e figlio
di contadini, a intervenire: – Scusate,
ragazzi, ma vi sembra proprio il caso di
riportare in vita una tigre?
– Be’, che male c’è? – sghignazzò
Murkh, usando le braccia per disegnare
in aria strane e misteriose figure magiche. – Ecco qua: dopo le ossa e dopo la
pelle, ecco finalmente i muscoli di una
tigre in carne e ossa!
La tigre apparve veramente dal nulla:
era magra, gracile e stecchita, ma anche
affamata e feroce come non mai. Se Nokhar ebbe la prontezza di saltare sull’al-
bero più vicino, arrampicandosi fin sulla
cima, non altrettanto pronti furono i tre
discepoli: finirono ahimè in pancia alla
belva, che se ne andò leccandosi i baffi.
Nokhar tornò quella sera stessa a
casa del saggio, al quale raccontò quel
che era successo.
Il vecchio scrollò il capo e sussurrò
malinconico: – I miei tre allievi pensavano di aver imparato la saggezza fino
in fondo. Non avevano capito, i disgraziati, che la saggezza non si finisce mai
di impararla e che la sapienza, senza un
pizzico di sana prudenza, non ti potrà
mai salvare la vita!
1)
“Bura”, in lingua hindi, significa “cattivo”.
2)
“Anarth”, invece, vuol dire “catastrofe”
3)
“Dafan” sta per “funerale”.
4)
“Murkh”, sempre in lingua hindi, significa “sciocco”
5)
“Nokhar” vuol dire “servo”.
FINE
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