LE ORIGINI STORICHE DELLE ISTITUZIONI POLITICHE: L’ISTITUZIONALISMO 1. – Il concetto di “istituzione”. 2. – Le origini dell’istituzionalismo. 3. – La teoria dell’istituzione di Maurice Hauriou. 4. – La “teoria istituzionale” del Santi Romano. SOMMARIO: 1. – Il termine “istituzione” (anticamente instituzione, dal latino institutio, “regola, consuetudine, ecc.”, da instituere) indica, al tempo stesso, l'azione e l'effetto dell'istituire, ossia dell'introdurre, del fondare, dello stabilire cosa che sia durevole, del costituire, dell'ordinare, ecc. Della pluralità dei vari suoi significati sarebbe difficile il dubitare, anche se tutti sembrano ricondursi poi a due note caratteristiche fondamentali che s'identificano, rispettivamente, nel fissare o nello stabilire alcunché e nell'ordinarlo, intus, nelle sue interne articolazioni. All'idea della produzione si associa così pure quella dell'ordinamento; a quella dell'esistenza dell'oggetto istituito, l'altra della sua intima essenza. Ma, per chi ponga mente alla pluralità e alla diversità dei significati, non sarà difficile intendere come, con lo stesso termine, si indichino così in generale l'ordinamento di leggi, di costumanze, di norme, di usanze civili e religiose, come pure la fondazione di un ordine cavalleresco, ecc., mentre, nella nostra terminologia giuridica, con quel termine, adoprato al singolare, si indicano piuttosto la costituzione di un ente o di un ufficio, la forma costituita di governo, ovvero le sue articolazioni, rectius: gli organi o i 5 complessi organici, complessivamente considerati, che costituiscono la struttura dello Stato (cosiddette istituzioni costituzionali). Con quest’ultimo significato s’intende ripercorrere e precisare il significato che nella scienza giuridica il termine “istituzione” ha ricevuto, con la migliore consapevolezza dell’impiego e il maggiore svolgimento delle implicazioni, massime per il fatto, per nulla trascurabile, che con esso si è voluto indicare niente di meno che lo stesso fenomeno giuridico nella sua integralità e nella sua essenza e che quindi da esso e per esso è stato tratto il termine derivato di “istituzionalismo” o “istituzionismo”, per designare la teoria o le teorie che hanno tentato di identificare appunto il “diritto” o “l’ordinamento” tout court con l’ “istituzione”. Secondo l'ultimo dei significati passati in rassegna, il termine riappare dunque, adoprato al singolare, proprio per indicare l'unità, l'unificazione di elementi diversi, il quid commune di una molteplicità. Alle istituzioni costituzionali di uno Stato, ad esempio, si contrappone l'istituzione complessiva dello Stato stesso alla quale esse si assimilano; agli organi, la persona dello Stato della quale essi sono considerati strumenti. È evidente che il significato di una tale contrapposizione – assimilazione risulta dall'esigenza di unificare una molteplicità, di ricondurre ad unità la differenza, di precostituire una “forma”, un “modello”, una “classe” di elementi rispetto ai quali, e fra di loro, questi ultimi risultino relativamente identici. Come criterio unificatore, come forma o tratto relativamente comune di tutti questi elementi può assumersi la nozione di “istituzione”, che si riferisce sia alle parti, agli elementi dell'insieme, sia all'intiero, al tutto del quale essi partecipano. Di là quindi 6 dalla contrapposizione – differenziazione, per rimanere nell'esempio, di Stato – persona e istituzioni – organi costituzionali, incentrata sulla diversa natura e sul rapporto strumentale di “ente” ed “organo”, vi ha un tratto comune che unifica invece tanto l'ente, quanto l'organo e, fuori dell'esempio, sia la persona ut sic, sia un complesso di persone, un determinato fatto, come un complesso di determinati fatti, una cosa, come pure un insieme di certe cose. Da questo punto di vista è facile mostrare come non repugni la qualifica di “istituzione” o di “istituzionale” non solo all'ufficio – organo costituzionale dello Stato, o allo Stato – persona, ma neppure all'ordinamento complessivo dello Stato, allo Stato – ordinamento, o, perfino, dal lato opposto, agli elementi che, a loro volta, compongono l’ufficio – organo dello Stato. Lasciando naturalmente da parte l’uso del termine nelle altre scienze ed esperienze, è chiaro però che, nel diritto, dire “istituzione” val dire innanzi tutto produzione o, meglio, posizione del diritto stesso e quindi ordinamento di esso. Ma è qui pure la radice della particolare fortuna che il termine ha avuto nella scienza giuridica. Se il diritto è sinonimo di ordine, di ordinamento e se l’ “istituzione” esprime la produzione e la posizione di un ordine, “istituzione” vale, innanzi tutto, propriamente, “posizione del diritto”, e denota, ad una, l’origine stessa del fenomeno giuridico, comunque e dovunque lo si voglia concepire. Indagare sulla “istituzione” equivale ad indagare sul “diritto” e, per meglio dire, sui modi nei quali esso sorge e sulle forme nelle quali esso si manifesta. Questa indagine costituisce quindi propriamente la “teoria dell’istituzione”, che è per definitionem, un capitolo della teoria del diritto 7 o, se si vuole, della teoria generale del diritto, nonché della storia stessa del diritto. Ma l’indagine sull’origine e sul modo di produzione del diritto implica la nozione del diritto stesso e si risolve anzi nella ricerca di che cosa sia il diritto, dal momento che l’ “ordinamento” è un aspetto dell’ “istituzione” o è questa stessa, tout court. Per ordinamento giuridico s'intende quel complesso di norme che lo compongono, ovvero quell’ordinamento del quale quelle norme giuridiche fanno parte. Tale affermazione risulta indiscussa ed in effetti non controvertibile. Più controverso e diversamente risolto è il problema se siano soltanto le norme a costituire l'ordinamento o se questo consti di qualcosa di più, cioè dell'organizzazione sociale alla quale le norme si ricollegano. L'interrogativo in esame postula una riflessione di base sul concetto di diritto: "ubi ius, ibi societas" oppure "ubi societas, ibi ius". La risposta al petitum è data nel secondo senso. Per completezza, è d'uopo sottolineare che il ragionamento logico – giuridico sviluppato ab initio risulta essere: "ubi homo, ibi societas; ubi societas, ibi ius; ergo ubi homo, ibi ius". L'uomo considerato non al suo stato selvaggio ed isolato, ma come un essere sociale (per Aristotele l'uomo non era altro che un animale politico – nel senso sociale –), vivente, cioè, in una determinata società ed in continuì rapporti con i suoi simili. Quella dell'uomo completamente libero ed arbitro di sé, isolato dalla società, è una concezione meramente astratta e fuori della realtà. Pertanto il diritto si deve considerare un prodotto della vita sociale, creato dagli uomini e da loro stessi utilizzato. 8 Altresì, poiché ogni gruppo sociale risultante dalla comunanza degli interessi e dalla concordanza sul modo di soddisfarli costituisce ordinamento, appare esatta 1'identificazione che si suol fare fra gruppo ordinato e diritto, quale si esprime con la formula "ubi societas, ibi ius". Invece l'equivalenza a questa dell'altra formula che ne inverte i termini, e che suona "ubi ius, ibi societas" sarebbe da accogliere solo quando si aderisse all'opinione, che invece è stata respinta, della inestensibilità della categoria del giuridico alla vita degli individui, singolarmente considerati. La società umana, per conservarsi e progredire abbisogna, necessariamente, di un complesso dì norme. Tali norme, riunite in sistema, costituiscono l'ordinamento giuridico, che è insopprimibile premessa alla vita associativa, in quanto supremo regolatore della condotta e dei rapporti tra i consociati (ubi societas, ibi ius). 2. – Il termine di «società» al quale l’istituzionalismo si riferisce può e deve essere inteso sostanzialmente in due modi diversi che caratterizzano un'altra fondamentale ambiguità della teoria istituzionale. Vi è la società intesa come aspetto o momento dialettico del processo costitutivo del «diritto», oggetto ma, al tempo stesso, condizione di ogni «diritto» e, per meglio dire, oggetto del «diritto» inteso come «ordinamento» e condizione o scaturigine del «diritto» stricto sensu; vi è poi la società come corpo o ente chiuso, in sé perfetto – si ponga mente alla «suità» dell'istituzione di cui ci parla Santi Romano – organismo singolo, esteriormente rilevabile, visibile, «per quanto immateriale», e quindi suscettibile di rapporti con altri 9 organismi della stessa specie, che è compito della scienza giuridica studiare e classificare. Si potrebbe parlare allora più propriamente non già della società, concettualmente e unitariamente intesa, sebbene delle molteplici, diverse e irriducibili, società, rilevabili all'osservazione empirica. La società, da un lato, e le società, dall'altro. E tuttavia la stessa giuridica ipotizzabilità di queste ultime, in tanto è resa possibile, in quanto si tenga ben presente il concetto di societas e la relazione dialettica identità - distinzione intercorrente tra di essa e il diritto di cui si è prima discorso. Non si potrebbe, diversamente opinando, che fermarsi alla pura rilevazione del dato empirico costituito dall'esistenza di molteplici aggregazioni umane, ora dotate di reciproche relazioni, ora invece assolutamente prive, e non già costruire su di essa un sistema dì relazioni che presuppone evidentemente la loro fondamentale omogeneità. Ora, la sostanziale riconducibilità delle molteplici società – istituzioni alla societas intesa come un tutto, logicamente inoppugnabile, sembra comprovata, sul piano storico, dallo stesso enuclearsi della figura o della nozione di «istituzione». La storia del concetto equivale, com'è evidente, alla storia della teoria. E una teoria è innanzi tutto consapevolezza della storicità del proprio oggetto. Ma l'indagine rivolta a studiare, per esempio, il «concetto dell'ordinamento giuridico alla luce dell'esperienza romana» non può condurre, come invece ha condotto – sul rilievo che la nozione di «ordinamento giuridico» era ignoto al pensiero giuridico romano (e in genere antico) – ad escludere la possibilità di applicare la nozione stessa allo studio dell'esperienza giuridica romana, se è vero che l'indagine storica 10 deve e non può non avvalersi dei concetti che storicamente vengono enucleandosi e che insomma le res gestae (la storia) sono concepibili e intelligibili solo alla luce della historia rerum gestarum (la storiografia). Pertanto, appare nel giusto chi, capovolgendo 1'impostatura qui criticata, ha affermato che 1'«esperienza romana» vada studiata «alla luce del concetto di ordinamento giuridico», pur nella consapevolezza che il concetto di ordinamento giuridico e quindi di «istituzione» è stato foggiato ed enucleato in ragione e in funzione dello Stato moderno. La storia del concetto di «istituzione» risale al Medioevo e precisamente alla tradizione giuridica canonistica classica, su fino al pensiero di Sinibaldo de' Fieschi (Innocenzo IV – P.M.), allorché egli, nella tradizionale classificazione delle persone giuridiche, introdusse una figura nuova, l’institutio, distinta e nettamente diversa «dai due tipi antichi e tradizionali della corporazione – persona giuridica che ha il suo substrato nell'elemento personale del collegium ... – e della fondazione semplice massa patrimoniale destinata ad un fine proprio, esclusivo», in ragione della presenza di «un elemento autoritario imposto dal di fuori che sottrae l'ente alla libera disposizione delle parti». Ma è la precisa individuazione di un tale elemento autoritario che è più significativa. Esso, non soltanto presente nel momento della creazione della institutio, continua per tutta la vita di questa, reggendola e indirizzandola e contraddistinguendola quindi ancor meglio dalla corporazione, la quale «agisce secondo la volontà dei propri soci», mentre l'altra «agisce conforme alla 'voluntas superioris' che ha presieduto al suo nascere e della quale gli organi di essa istituzione continuano ad essere gli esecutori». Questa ‘voluntas superioris’ è, da un lato, semplicemente la 11 volontà del fondatore, la volontà e, si direbbe, la radice istituzionale, ma, dall'altro, è chiaramente ricollegata, come elemento di un insieme, all'intera organizzazione piramidale e gerarchica della Chiesa, raffigurata quale corpus mysticum o corpus Christi, nella terminologia paolina, del quale le singole persone, fisiche e giuridiche, aventi potestà giurisdizionale ecclesiastica, sono gli «organi». È perciò che può ben dirsi che l'elemento autoritario proceda «dall'esterno e dall'alto» e che «anche quando semplici masse patrimoniali sono destinate ad uno scopo religioso o caritativo, questo è nel più dei casi coordinato alla organizzazione gerarchica della Chiesa e collegato con i numerosi uffici suoi, che il fine pubblico diventa quasi di regola soverchiante». Di qui la più tarda concezione di Maurice Hauriou del «potere di governo organizzato» come «secondo elemento di ogni istituzione corporativa» e, in ogni caso, necessario nell'ambiente sociale, anche se esterno alla «istituzione – cosa». Ora è proprio un siffatto elemento autoritario che rese possibile a Sinibaldo de' Fieschi (Papa Innocenzo IV) di innestare sulla nozione di persona ficta et repraesentata, che pure egli aveva ereditato dai glossatori – intendendola però non già nel senso della negazione, propria del diritto romano, della qualità di soggetto reale di diritto alle universitates (personarum o bonorum) (universi consentire non possunt), ma in quello diverso e più limitato di incapacità della persona giuridica ad agire se non per mezzo di rappresentanti – l'idea della «istituzione», «intesa come ente che vive ed agisce in virtù d'una volontà autoritativa che la guida dall'esterno e dall'alto: idea affatto estranea al diritto romano e che si presenta, per contro, come una peculiare creazione del diritto della Chiesa». 12 Sul terreno dell'esperienza, «istituzioni» furono così i singoli benefici parrocchiali rurali primitivi eretti dal Superior competens, la praebenda e la dignitas canonicale staccatesi dalla mensa capituli, e pertanto legate «ad un'ideale unità, fondata dall'esterno e dall'alto». Questa unità – dipendenza dell'istituzione «dall'esterno e dall'alto» è in particolare individuata nella unità - dipendenza della personalità giuridica (della praebenda, della dignitas, dei beneficia) dalla persona giuridica suprema della Chiesa e, per analogia (un'analogia che potrebbe dirsi affinità o addirittura convergenza), per quanto riguarda gli enti civili, dalla persona giuridica suprema dell'Impero. Anzi sono stati gli stessi canonisti a procedere a tale applicazione analogica dell'istituto agli enti civili. Che poi, su tale strada, si sia giunti alla personificazione dell'elemento autoritativo come base per sostenere la tesi del conferimento della personalità giuridica agli enti minori esclusivamente ad opera dello Stato, il cui atto è costitutivo e non dichiarativo, nonostante la natura di realtà sociale della persona giuridica, è una questione che qui interessa soltanto marginalmente, dal momento che l'istituzione, come si vedrà, non sembra presupporre necessariamente e neppure comportare la personalità dell'ente. Piuttosto giova osservare, ancora una volta, come il tratto caratteristico della institutio è qui ravvisato nella dipendenza dell'ente da un elemento superiore ed estraneo, o, se si vuole, da una auctoritas superioris, la quale, tuttavia, si immanentizza, rendendo possibile all'ente di perdurare nonostante il mutamento delle persone fisiche investite dell'ufficio, per cui, «licet moriatur praelatus, et omnes clerici in ecclesia, dominium illorum non vacat: quia Christus non moritur, nec potest Ecclesia deficere». 13 È questo, del collegamento e della derivazione da un elemento superiore, che, in definitiva, è la radice e il principium di ogni institutio e che si pone come un tutto supremo di cui le singole institutiones rappresentano semplicemente le derivazioni e, quasi, le propaggini, il motivo di maggiore interesse, il quale sta a dimostrare, anche sul piano della storia della teoria, quel che si diceva precedentemente a proposito dei due modi diversi d'intendere l'istituzione, che essi cioè non si contrappongono ma si accordano fra di loro e che non è dato concepire le istituzioni singole quasi «monadi» chiuse in sé medesime, indipendenti dall'istituzione più comprensiva e suprema dalla quale tutte derivano. Da questo punto di vista si può tentare di rispondere alla domanda, già posta in precedenza relativa al modo di intendere la società, affermando che questa rappresenta il terreno e per così dire la dimensione nella quale si muovono le singole istituzioni nella loro realtà storica: una dimensione che, per il fatto di essere comprensiva di più entità, implica necessariamente la molteplicità (di esse), ma, per il fatto di essere poi come il tessuto connettivo che le tiene insieme e l'ordine che le rende possibili, le spinge verso l'unificazione e l'unità. In tal senso, l’ordo ordinatus è piuttosto la singola istituzione, in quanto tratta ad oggetto di osservazione, ritagliata, per così dire, dal divenire storico, l’ordo ordinans è invece la societas come totalità, che è poi la storia delle molteplici istituzioni, ossia la dimensione nella quale le varie societates si succedono e si condizionano. Ma una siffatta reductio ad unum non è un dato, è piuttosto un processo continuo, per il quale è sempre necessaria la molteplicità degli elementi da unificare. Così che la teoria istituzionale non può, al tempo 14 stesso, non presentarsi come una concezione pluralistica e societaria degli ordinamenti giuridici, ripudiando al tempo stesso il mito della unicità e unità data dell'ordinamento, sia sotto il profilo cioè della pretesa qualificazione statualistica ad esso attribuita, sia sotto l'altro, non meno importante, della pretesa «purezza» e unilateralità dell'ordinamento, il quale, lungi dall'essere un'unità ferma e per così dire conchiusa in se stessa, si scinde, continuamente presentandosi, a volta a volta, come norma e come fatto, come «diritto» e come «società». Una reazione ante litteram al mito statualistico e normativistico è quella segnata dall'opera sulle teorie politiche del Medioevo di Otto von Gierke, al quale va il merito di avere delineato una concezione pluralistica e societaria del diritto, sul fondamento dell'indagine storica relativa alle comunità e corporazioni medioevali. Sembra perfino superfluo avvertire come proprio il Medioevo, in cui è apparsa la prima presa di coscienza dell'institutio, nel quadro di una concezione unitaria della società, di un'unica res publica christiana retta da papa e imperatore, presenti il fenomeno della pluralità delle istituzioni al massimo grado storicamente riscontrabile di sviluppo. Ma una siffatta molteplicità di istituzioni non è per nulla incompatibile con la sostanziale omogeneità della societas della quale anzi codesti enti sono la puntuale e, nella società feudale, gerarchica espressione. La sostanziale omogeneità è data, infatti, secondo Otto von Gierke, proprio dalla capacità, che hanno tutti gli organismi sociali, di creare diritto. È ovvio, però, che, mentre con riferimento al sistema giuridico – sociale del Medioevo, una tale affermazione risulta immediatamente comprensibile e, per così dire, naturale, 15 essa acquista invece un significato che può ben dirsi rivoluzionario, quando la si riferisca al sistema giuridico – sociale dello Stato moderno. L’oscillazione fra la concezione sociologica e quella storicistica della società è presente anche e soprattutto nel pensiero dei due maggiori esponenti della “teoria istituzionale”, ossia di Maurice Hauriou e di Santi Romano, nei quali pure – e in specie in Santi Romano – si rinviene il tentativo più valido di costruire una teoria giuridica dell’istituzione. 3. – La teoria di Maurice Hauriou è intesa a concepire la realtà sociale come – direttamente ed intrinsecamente – realtà giuridica. L'Hauriou infatti è uno dei primi assertori del concetto d’"istituzione",in base al quale sarebbe superabile quella dicotomia tra realtà sociale e ordine giuridico che tante difficoltà crea al giurista. Per tale Autore l'"istituzione" rappresenta l’"elemento ontologico del diritto", in quanto in essa si realizza la piena trasformazione dello "stato di fatto" (cioè i fenomeni sociali sociologicamente intesi) in "diritto": in particolare l'"istituzione" si differenzierebbe dal piano dei meri fatti in quanto sarebbe realtà di fatto; però basata su un elemento autoritario (non sulla pura forza) e di conseguenza sarebbe realtà intrinsecamente giuridica. L’Hauriou però non si preoccupa eccessivamente di precisare se il suddetto elemento autoritario sia personificato (non si preoccupa cioè di identificare il soggetto di tale autorità) o comunque di precisare meglio i caratteri ed il modo di essere di tale elemento. Si preoccupa invece essenzialmente di analizzare la realtà giuridica, differenziando i vari piani di profondità in cui essa si distribuisce per 16 individuare quale posizione occupi l'istituzione nell'ambito di tale realtà. In particolare ritiene che il piano più superficiale sia quello delle regole rigide e astratte, emanate secondo procedimenti formali (il piano cioè della "legge" nel senso tecnico del termine); il secondo piano, sottostante al precedente, sarebbe quello costituito dalle regole singolari, emanate per i casi concreti: di quelle regole cioè che sono prodotto ed espressione della discrezionalità; il piano più profondo sarebbe invece quello dell’ "istituzione", cioè di quell'autorità impersonale e spontanea dalla quale ogni manifestazione giuridica in ultima analisi viene dall’Hauriou fatta derivare. Lo studioso si preoccupa anche di distinguere due diversi tipi di istituzione: l' "istituzione – gruppo" e la "istituzione – rapporto"; solo il primo tipo (qualificabile anche come quello delle 'istituzioni – corporative" cioè costitutive di un "corpo" sociale) interessa il problema considerato (il fondamento dell'ordine statuale): non il secondo, che riferisce il concetto di istituzione alla sfera delle cose inerti (sì tratta cioè di istituzioni che non sorgono ad opera di un potere a loro interno, come invece avviene nel primo caso). Per quanto riguarda l'ambito dei gruppi sociali, anche in esso secondo l'Hauriou - è possibile distinguere l'esistenza di diversi piani di profondità in modo da potersi riallacciare a quello accennato a proposito della realtà giuridica. Bisognerebbe perciò distinguere, iniziando dal piano più profondo per giungere a quello più superficiale: la "comunione di fondazione", che rappresenta il fenomeno istituzionale più spontaneo (risultante cioè dall'equilibrio spontaneo, di forze e di interessi, derivante dalla stessa natura delle cose) e non esprimentesi in vera e propria organizzazione; l'"incorporazione", caratterizzata invece dal formarsi di un'organizzazione che permette e realizza una distribuzione di competenze 17 nell'ambito del gruppo; l’"inter-organizzazione dell’incorporazione", in cui la distribuzione delle competenze avviene in modo da garantire a tutti i membri del gruppo sociale la partecipazione attiva alla vita dell’istituzione e quindi si fonda sul consenso generale di tali membri (in sostanza cioè si tratta di istituzioni caratterizzate dal principio democratico e rappresentativo); infine il piano più superficiale si ha quando si verifica il conferimento al gruppo della personalità giuridica, il che può verificarsi specie in considerazione dei suoi rapporti con gli altri gruppi. E' da notare inoltre che, poiché negli strati meno profondi l'istituzione si esprime in un'organizzazione e poiché l'esistenza di questa implica il formarsi di un potere di comando, l'Hauriou cerca di risolvere il problema del conferimento di tale potere (problema che - visto in relazione all'istituzione statuale – si identifica in quello dell'attribuzione della sovranità) distinguendo tra la "sovranità politica" e la "sovranità giuridica", ed attribuisce la prima allo Stato (intendendola specificamente come potere d'imperio) e la seconda, invece, alla nazione. In relazione a quanto evidenziato, la teoria dell’Hauriou appare molto complessa, tanto complessa anzi da diventare complicata. Appunto a causa di questa eccessiva complicazione non è facile intendere che cosa in sostanza lo studioso intenda per "istituzione", cioè quali siano i suoi caratteri veramente essenziali. Ciò perché non si riesce a rintracciare nella suddetta teoria un criterio che sia insieme univoco e sufficientemente preciso; le oscillazioni del pensiero dell'Hauriou nell'individuazione di simile criterio non sono né poche né irrilevanti: ad esempio, secondo quanto risulta implicito dall'esposizione prima accennata non è del tutto 18 chiaro se aspetto essenziale dell’"istituzione"sia quello organizzativo, e se tipico di essa sia l'esistenza di un potere di comando. Secondo quanto innanzi rilevato, la risposta dovrebbe essere negativa, ma il dubbio sorge perché l'Autore ad un certo momento definisce l'istituzione come "tout arrangement permanent per lequel, à l'interieur d'un groupement social determiné, des organes disposant d'un pouvoir de domination sont mis au service des buts interessants le groupe, par une activité coordonneè a celle de l'ensemble du groupe”. In conclusione perciò nell’interpretare il pensiero dell''Hauriou, ci si trova di fronte a due alternative: o, intendere il concetto di istituzione con riferimento alle particolari specificazioni relative alla sua struttura organizzativa ed al potere di comando, ma in tal caso esso risulterebbe troppo restrittivo, incapace di valere per ogni forma di realtà giuridica; o, invece intenderlo con esclusivo riferimento al principio essenziale, che secondo l’Hauriou sta al fondo di ogni istituzione e che egli identifica in un’ "idea forza". in un'idea attiva che plasma di sé la realtà, rendendola giuridica e per cui l'istituzione si pone come "fonte" del diritto. La seconda alternativa, che sembra tutto sommato la più esatta pur contenendo un indubbio aspetto di verità, si risolve in un concetto troppo generico, del quale è anche legittimo dubitare se appartenga veramente al mondo giuridico od invece si arresti alla soglia di questo ed in particolare sembra incapace di spiegare scientificamente come e perché la realtà sociale sia da considerarsi intrinsecamente giuridica, come e perché essa si ponga a fondamento dell'ordinamento statuale. 19 4. – La teoria dell'istituzione trova però la sua più approfondita ed organica definizione nel pensiero del Santi Romano. Può dirsi anzi che tale Autore realizzi un superamento qualitativo rispetto al pensiero degli istituzionisti francesi (anche dell’Hauriou, che di questi è il maggiore esponente), sia per il metodo (rigoramente giuridico) col quale la sua indagine è condotta, sia per l'esatta individuazione dei problemi essenziali, sia per le conclusioni sufficientemente specifiche ed articolate alle quali giunge. E’ la “teoria istituzionale” sviluppata in Italia dal Santi Romano, per il quale un ordinamento non si risolve solo in norme. Il diritto è anche norma; ma oltre che norma, e spesso prima di essere norma, è organizzazione e corpo sociale, e quindi si collega alla istituzione, intesa appunto come qualunque ente o corpo sociale fornito di una struttura e di un’organizzazione più o meno stabile e permanente. Il Santi Romano ha giuridicizzato il concetto di istituzione, già elaborato in Francia da Hauriou su un fondamento prevalentemente sociologico, ed ha sostituito questo concetto, che egli considera più largo e più completo oltre che più intrinsecamente giuridico, a quello di comunità. Merito indiscusso della teoria istituzionale del Santo Romano è quello di aver sottolineato che il fenomeno giuridico non si esaurisce nel fenomeno normativo e che, al contrario, non solo le norme traggono la loro giuridicità dal fatto di essere espressione della struttura associativa del gruppo o corpo sociale ma anche che il fatto stesso dell’organizzazione imprime ad un gruppo o corpo sociale il carattere della giuridicità (ogni istituzione è un ordinamento giuridico). Il Romano parte dall’esigenza, che sottolinea con particolare forza,di individuare l'entità sottostante alle norme, perché, ove ci si arrestasse a far 20 riferimento esclusivamente a queste ultime, riuscirebbe impossibile trovare il fondamento e la natura del diritto. Ispirandosi al pensiero greco, il quale – relativamente allo Stato – concepiva tale entità come assetto complessivo di una realtà unitaria, permanente, oggettiva e concreta (il riferimento del Romano al pensiero greco è deducibile, oltreché dal contenuto del suo pensiero, anche da sue espresse dichiarazioni a riguardo), egli ricerca un'entità che non sia puro sostrato sociale, mero presupposto dell'ordine giuridico, ma che sia essa stessa di natura giuridica ed anzi rappresenti l'essenza primaria e necessaria del fenomeno giuridico. Tale entità per il Romano è appunto l’ “istituzione”, col che si indica un ente o corpo sociale (che, in quanto tale, deve avere "un'esistenza obiettiva e concreta" ed un'individualità "esteriore e visibile") dotato di vita autonoma, anche se tale autonomia può essere assoluta o soltanto relativa,che rappresenta un "'unità ferma e permanente" pur nel mutare dei suoi particolari elementi. L'essenza dell’"istituzione" è l’“organizzazione sociale”, dovendosi ritenere che essa non ha, ma e' organizzazione sociale. Né potrebbe dirsi che con ciò ci si riferisca a concetto non giuridico perché il Romano sottolinea che "scopo caratteristico del diritto è per l’appunto quello dell'organizzazione sociale". Inoltre il riferimento all’organizzazione mette in rilievo come si tenga conto dell'esigenza di una struttura basata sul principio del collegamento tra autorità e forza. Da ciò risulta abbastanza chiaramente che per il Romano l'istituzione non è né entità indifferenziata, né si risolve mai in un singolo rapporto giuridico od in una somma di rapporti (infatti, egli precisa, l'istituzione implica dei rapporti, ma non si risolve in essi" perché costituisce 21 l'organizzazione necessaria a fornire ai rapporti medesimi il sostrato che consente di poterli qualificare come giuridici). Ciò spiegherebbe e confermerebbe definitivamente la perfetta identità tra istituzione e diritto: "questo - afferma esplicitamente il Romano - non può estrinsecarsi se non in un'istituzione e l'istituzione esiste in quanto è creata e mantenuta in vita dal diritto". Da un simile concetto di istituzione, specie dal suo carattere di unità permanente dotata di vita autonoma, sorge l'esigenza dì riferirsi a un principio capace di conferire all'istituzione appunto tali caratteri; particolare interesse perciò riveste l'accenno che il Romano fa al “principio vitale di ogni istituzione”, come “ciò che anima e tiene riuniti i vari elementi di cui questa risulta, che determina, fissa e conserva la struttura degli enti immateriali”; ma si tratta solo di un cenno, del quale non è possibile trovare una più specifica esplicazione; cosicché resta il dubbio se il Romano intenda questo principio identico in ogni istituzione (nel qual caso si tratterebbe di qualcosa di troppo generico perché possa valere quale essenziale criterio d'identificazione), oppure lo intenda in senso specifico, cioè diverso a seconda dei vari tipi di ordine nei quali agisce (ed allora le sue affermazioni a riguardo avrebbero uno straordinario interesse per risolvere definitivamente il problema del fondamento e dell'essenza della costituzione, cioè come il Romano intenda il concetto di costituzione). Comunque può dirsi che la teoria del Romano, considerata nel suo nocciolo essenziale, equivale a un rovesciamento della concezione di Hans Kelsen. Questi vede l’ordinamento soltanto come un sistema di norme “teoria normativa” - (e considera giuridico soltanto ciò che in norme si esprime) mentre il primo afferma che diritto - in senso proprio - è solo 22 “l’entità che pone la norma”, cosicché "le norme non ne sono che una manifestazione, una delle sue varie manifestazioni .... uno dei modi con cui esso opera e raggiunge il suo fine" (a conferma il Romano nota "che non solo si possono astrattamente immaginare, ma storicamente si danno.... esempi di ordinamenti giuridici in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte nel senso proprio della parola", quale ad esempio l'ordinamento in cui esista solo "la figura del giudice"). Il pensiero del Romano si presenta anche in netta antitesi con coloro che ritengono di poter costruire il sistema dalle norme, desumendolo cioè dall'esame delle medesime e dai loro rapporti reciproci. In particolare come il Romano sottolinea - non è possibile individuare la giuridicità attraverso una simile operazione: se infatti ogni singola norma di per sé non è giuridica, la giuridicità non può essere trovata sommando più norme in sistema; perché dunque un sistema di norme sia giuridico è necessario trovare il quid che conferisce unità al gruppo di norme, che le forma in sistema ma che, non identificandosi con esse, ha vita propria e forza espansiva tale da garantire ad un tempo lo sviluppo e la continuità dell’ordinamento. Il Romano conclude anche che tale quid non può essere ricercato nel principio gerarchico che, secondo il Kelsen, caratterizza il sistema di norme come ordinamento (infatti detta tesi è stata portata avanti con molto vigore logico dalla Scuola viennese e segnatamente da Hans Kelsen che, partendo dal presupposto della necessaria “purezza” del diritto, intesa come incontaminazione della norma nei confronti dei fatti sociali, è giunta appunto a concludere che l’ordinamento giuridico si compone soltanto di norma – “teoria normativa” – disposte in una scala gerarchica che partendo dalla norma fondamentale “grundnorm” giunge fino al 23 comando concreto in una disposizione gradualistica di rigorosa correlazione fra norme sovraordinate e sottordinate ed osserva (a riprova dell'impossibilità che tale principio possa promuovere la espansione dell'ordinamento mantenendone insieme l’unità) come sulla base di esso l'ordinamento potrebbe mutare radicalmente, anche nella sua norma fondamentale, così che in ultima analisi risulterebbe annullata la sua unità. Passando ad una più particolare valutazione critica del pensiero del Romano sono preliminarmente da precisare alcuni punti, che appaiono basilari per l’esatta sua interpretazione. Si deve notare anzitutto, per ciò che riguarda l’uso del termine "istituzione", che il Romano dichiara di distaccarsi dagli altri istituzionisti, in particolare dall'Hauriou: a differenza di quanto sostiene tale Autore, infatti afferma di non credere che “l'istituzione sia fonte del diritto, e che quindi questo sia un effetto, un prodotto della prima”, e di ritenere invece che “fra il concetto di istituzione e quello di ordinamento giuridico....ci sia perfetta identità". In secondo luogo bisogna ricordare che l'ordinamento non può non essere concepito come entità ferma e permanente, che non muta pur nel mutare dei diversi interessi che ad esso fanno capo. Inoltre che l'ordinamento non è da considerarsi soltanto come sistema di norme perché non si risolve esclusivamente in esse. La suddetta entità non può essere concepita che per riferimento all'organizzazione sociale (poiché tale organizzazione è scopo specifico del diritto); l'aspetto organizzativo è dunque tipico del fenomeno giuridico ed intrinseco ad esso, sicché l'ordinamento va identificato con il “corpo sociale” organizzato, costitutivo dell’“istituzione”. L'istituzione è quindi 24 diritto obiettivo (nel senso di ordine giuridico, di "status") e, poiché l'obiettività è caratteristica del diritto, vi è perfetta identità tra istituzione e diritto; il diritto non si estrinseca se non in un'istituzione e l'istituzione è tale in quanto creata e mantenuta in vita dal diritto. Sono dunque da respingere radicalmente tutte quelle opinioni che considerano il fatto dell'ordinamento sociale come antecedente al diritto o comunque non giuridico. Non è però sempre secondo il Romano - errato dire che il diritto è “forma”; tale affermazione, se esattamente intesa, significa infatti che la identificazione di ciò che è diritto si ha in considerazione del suo inserirsi nell'istituzione (una data norma, o regola, o precetto dunque non è giuridico per il suo contenuto, ma per il suo riconnettersi ad un istituzione, perché è propria di un'istituzione). L'istituzione si costituisce ed esiste in forza di un "principio vitale" (che la anima, la tiene unita nei suoi elementi, ne promuove e assicura l'espansione); tale principio può dunque essere inteso come la normatività intrinseca dell'istituzione. In particolare, per quanto riguarda l’istituzione dell'ordinamento statuale, il Romano afferma che lo Stato sorge col fatto del suo costituirsi, senza che ciò si esprima necessariamente in una norma, perché questa può anche sorgere solamente in seguito. E' questo un punto specifico, di notevole rilievo, nel quale il Romano ribadisce la sua differenziazione tra "ordine sociale" e “norma”: ed offre quindi la migliore occasione per chiedersi se tale differenziazione (analoga a quell’altra vista prima, tra "fonte" e 25 "diritto" (1) , sia veramente esatta. Quando a proposito del sorgere dello Stato, si fa riferimento al fatto del suo costituirsi, si ammette implicitamente che questo non sia mero fatto perché esso si pone come ordine; ma questo ordine, per esser tale, deve potersi concretare ed esprimere con qualche "legge" (nel suo senso più proprio di "regola") cioè non può esprimersi altrimenti che con norme o con gruppi di norme. Se si tiene presente quanto si è detto, dovrebbe venire a cadere la contrapposizione tra norma e istituzione: d’altra parte lo stesso Romano, ad un certo momento, non può non riconoscere che "l'esistenza di una istituzione non si scompagna mai da una serie di norme, che possono essere e, in parte, sono sempre implicite nella sua struttura e nei suoi caratteri essenziali". Ma, a parte le incertezze dimostrate dal Romano al riguardo, è da riaffermare il concetto che la differenziazione tra istituzione e norme non può essere intesa che come differenziazione tra la norma immanente all'istituzione (il principio normativo intrinseco ad essa) e le norme derivate. In tal modo risulta superabile l'antitesi che da più parti si prospetta. E’ facile infatti il rilievo che anche la norma base, presupposta dal Kelsen, si richiama ad una realtà sociale in se ordinata, perché capace di esprimere la norma stessa, ad una realtà che perciò si può chiamare “istituzionale”. (1) Si e' notato come il Romano, criticando l'Hauriou fa rilevare come l'istituzione non sia fonte di diritto, ma diritto essa stessa, e si e' osservato che ogni fonte di diritto non può non essere essa stessa espressione di diritto, di ordine giuridico: sicché non e' giustificato porre una contrapposizione nella natura dell'una e dell'altro. 26 STORIA DEL PARLAMENTO ITALIANO 1. – Gli antichi parlamenti italiani. 2. – Dalle Repubbliche giacobine ai Regni napoleonici. 3. – Il periodo risorgimentale. 4. – Il Parlamento italiano. SOMMARIO: 1. – La parola “parlamento” si fa risalire più addietro del tardo secolo XI. Esso nasce nei Paesi dell’Occidente come parlamentum o parliamentum e, alla francese, parlement. In quest’ultima forma esso si presenta, forse per la prima volta in senso assoluto, nella celebre Chanson de Roland, della fine dell’XI o principio del XII secolo. In latino lo si trova in un documento pontificio, del 1089, del papa Urbano II che richiamava gli abitanti di Velletri al loro obbligo di exhibere parlamentum, cioè di presentare alla rassegna il loro contingente militare; nel 1101, negli Annali genovesi di Caffaro, con l’ordine impartito in senso, egualmente, militare; nel 1113, in un documento lucchese dove si ricorda un publicum parlamentum, o pubblica riunione locale; in un altro documento pontificio degli anni 1107 – 1110, accennante agli obblighi militari degli abitanti di Ninfa. Lo si ritrova ancora, in questo senso o in quello di grande assemblea, nei documenti italiani di Federico Barbarossa e di suo nipote Federico II, in un documento trevigiano del 1189, ecc. Che cosa siano stati i parlamenti - o le assemblee di stati - durante il Medio Evo è cosa non certo semplice dire in poche righe. In Italia gli antichi parlamenti o, secondo altra terminologia, “preparlamenti”, si ricollegano a quelle stesse formule istituzionali tardo – 27 medievali europee da cui nasce il Parlamento inglese. Non solo perché a fine Settecento l’istituto appare quasi in ogni parte d’Italia estinto, non resistendo alla pressione livellatrice dell’assolutismo, così come del resto dagli inizi del Seicento non si adunavano più gli Stati Generali di Francia. E neppure tanto perché si trattasse di “assemblee di Stati” – fondate sulla rigida divisione di ordini sociali di “ancien régime” nobiltà feudale o braccio militare, clero, borghesia privilegiata delle città regie o demaniali – e non già di forme di rappresentanza politica generale. Quanto e soprattutto, perché non appaiono organi della sovranità, investiti di una autonoma potestà legislativa e di indirizzo politico, ma parti di un rapporto contrattuale improprio con il Principe (“leggi pazionate”) o più spesso organi di rimostranza, di consultazione e di petizione posti in certo modo al di fuori della struttura essenziale dello Stato. Nulla che in essi anche lontanamente arieggi il principio che contemporaneamente si afferma invece in Inghilterra della responsabilità dell’esecutivo nei confronti delle assemblee, tanto meno quello americano del Parlamento titolare del potere legislativo nel quadro di una “higher Law” irremovibile. Mancano, soprattutto, del potere di autoconvocarsi: anche quando per le loro adunanze è prevista una periodicità annuale, più spesso triennale o decennale, non esiste mezzo legale per riparare al difetto di convocazione. La certificazione dei loro atti e deliberazioni è spesso affidata a un funzionario del principe, il Regno Protonotaro in Sicilia, il Reggente la Reale Cancelleria in Sardegna. “Nessun nostalgico o romantico amore del passato può farci dimenticare che nella concezione e funzione istituzionale, nella loro struttura, ‘in toto’ insomma, essi fossero ormai, al termine del periodo considerato, poco meno che un’anticaglia, anzi avanzi davvero, 28 come aveva detto il marchese Domenico Caracciolo, di medio evo” (Marongiu). Se l’Italia di fine Settecento appare un cimitero di Parlamenti, un primato in materia spetta certamente alla casa di Savoja, posta di fronte a più gravi problemi di amalgama e unificazione interna di domini acquistati in tempi e a titoli diversi. Già nel Cinquecento, Emanuele Filiberto aveva spento quelli delle due “patrie” di Savoja e di Piemonte e alla fine del Seicento risalivano ormai le ultime tornate del Parlamento di Saluzzo e degli “Stamenti” sardi; finalmente, nel 1766, cessano di adunarsi anche gli “Stati” della Val d’Aosta. Che in circostanze eccezionali e dopo aver respinto un tentativo di invasione francese, lo “Stamento” militare sardo presieduto dalla sua “prima voce”, il marchese di Laconi, si autoconvochi e reclami da Vittorio Amedeo III nel 1793 il ristabilimento delle forme parlamentari e che per circa due anni una “deputazione” stamentaria assuma di fatto la direzione dell’amministrazione dell’isola, è vicenda effimera e presto chiusa. Nel 1799, riparando in Sardegna, i Savoja accantonano le promesse sessioni parlamentari, come avrebbero voluto fare anche i Borboni riparati in Sicilia se non lo avesse impedito la volontà dell’onnipotente alleato inglese. Dovunque le monarchie acquistassero forza, i Parlamenti scomparivano. Dopo l’ultima sessione del 1642 e dopo la rivolta di Masaniello, non si era più adunato quello del Regno di Napoli. Con il 1754 finivano, per volontà di Maria Teresa d’Austria, quelli di Gorizia e di Gradisca. Solo Venezia, mantenendo immobile la sua struttura oligarchica di patriziato cittadino contro ogni tentativo di riforme (come quella, proposta nel suo “Consiglio politico” da Scipione Maffei, di ammettere una 29 limitata rappresentanza delle città di Terraferma avviandosi alla lontana verso forme all’inglese), consentiva però che si adunasse ogni anno il secolare Parlamento della “Patria friulana” in Udine, nel quale aveva il maggior peso l’elemento feudale. Ma quanto alla sostanza ancora racchiusa in queste forme, ha valore di giudizio storico un passo assai noto delle “Confessioni” del Nievo: “Tutto adunque concorda a stabilire che quando il magnifico General Parlamento della Patria supplicava da sua serenità il Doge la licenza di giudicare intorno a una data materia, il tenor della legge fosse già concertaro minutamente fra sua eccellenza il Luogotenente e l’eccellentissimo Consiglio dei Dieci (…). Il magnifico General Parlamento invocava poi dalla Serenissima dominante la conferma di quanto aveva discusso, deciso ed approvato; e giunta conferma, il trombetta nel giorno festivo gridava ad universale notizia e per inviolabile esecuzione la Parte presa dal magnifico General Parlamento”. In questo quadro generale, anche particolarità interessanti di procedura, come ad esempio il fatto che gli “Stamenti” sardi si reggessero secondo lo stile delle “Cortes” di Catalogna e derivassero poi da quelle d’Aragona l’istituto di una speciale commissione per i gravami o “greuges” per giudicare sugli abusi e illegalità degli organi e agenti dell’amministrazione; o che in vari Parlamenti le tre “prime voci” di ciascun ramo o braccio, o un’apposita deputazione, fossero sentiti dall’esecutivo nei lunghi intervalli fra due convocazioni – perdono nettamente importanza. Nulla di ciò passerà nell’esperienza parlamentare del nuovo ciclo napoleonico e risorgimentale. Né le Restaurazioni del 1814 – 1815 restituiranno in vita queste forme esauste, tanto più in quanto la chiusura di quella pagina ha segnato nuovi passi avanti sulla via del 30 rafforzamento strutturale delle amministrazioni centrali, recando a compimento il vecchio sogno livellatore dell’assolutismo. L’affermazione di un sistema tributario più moderno era un altro acquisto importante e toglieva ogni residuo significato alla sola competenza di vero rilievo politico delle vecchie assemblee dello “Stato a ceti” fondato su ordini sociali privilegiati (Standen-Staat): quello di consentire i “donativi” della nazione al principe e le imposizioni straordinarie. Il solo caso che meriti considerazione a parte, rappresentando un anello di congiunzione fra i preparlamenti “ancien règime” e l’esperienza del Risorgimento, è quello della Sicilia, che sotto l’unico scettro dei Borboni di Napoli costituiva però da secoli e restò fino al 1816 un Regno separato, con distinta amministrazione e proprie rappresentanze risalenti fino al Regno normanno - svevo di Federico II. La nobiltà, il clero, le città isolane avevano tenacemente difeso in ogni tempo i privilegi e prerogative parlamentari e ancora per tutto il Settecento le convocazioni avvenivano ogni tre anni. Quando i Borboni ripararono nell’isola si ha una crescente tensione fra il Parlamento e la monarchia, finché per la determinante pressione del rappresentante inglese, lord Bentinck, si passa all’elaborazione di una nuova Costituzione, quella del 1812. Benché posta nel nulla solo quattro anni dopo, con il recupero del Regno di Napoli e la fusione nell’unico regno delle Due Sicilie che pone termine alla secolare corona isolana, questa Costituzione assume eccezionale rilievo e significato sia perché codifica adattandoli alla realtà siciliana diritti e consuetudini del Parlamento inglese (del quale, retoricamente, si ricordava la matrice normanna comune a quello dell’isola); sia, in un secondo tempo, come mito del movimento costituzionalistico in Sicilia e anche fuori di questa come 31 modello costituzionale che si propone alle classi dirigenti risorgimentali in alternativa a quelli della “Charte” francese e delle “Cortes” spagnole. Essa dà vita ad una struttura bicamerale all’inglese, con commissioni miste dei due rami per comporre le divergenze sui temi legislativi; vieta al re, sulla linea di precedenti inglesi e spagnoli, di recarsi fuori dell’isola senza il consenso del Parlamento; accorda alla Camera dei Comuni l’iniziativa esclusiva in materia di imposizioni, e a quella dei Pari spirituali e temporali (ecclesiastici e baroni) quella di leggi che incidano sul regime della Paria, l’altro ramo potendo nell’uno o nell’altro caso solo accettare o respingere in blocco. Per ogni legge, il re deve articolo per articolo concedere il suo “placet”, od opporre il “veto” (e già in sede di sanzione della Costituzione, tra molti articoli respinti, figura quello che accordava ad ogni siciliano il diritto di petizione, rimostranza o presentazione di progetti di legge al Parlamento). La disciplina delle prerogative e procedura della Camere, e persino del loro personale, è minutissima e ispirata a diffidente e gelosa garanzia nei confronti dell’esecutivo: il Parlamento giudica i suoi membri anche per reati comuni; la stamperia è posta all’interno del suo edificio, e il suo direttore dipende esclusivamente dai due presidenti; la convocazione deve avvenire ogni anno, anziché ogni tre, e ciascuna Camera può illimitatamente aggiornare le proprie discussioni e deliberazioni; nessuna ingerenza regia in tema di potestà disciplinare, e ai presidenti sono concessi energici poteri per il buon andamento dei lavori; nessuna truppa può essere levata, introdotta o mantenuta dal re nell’isola, senza il consenso del Parlamento. I ministri sono responsabili di fronte al Parlamento, che ha anche il potere di processarli e punirli nella forma britannica dell’“impeachment”. Soluzioni di estremo interesse, ma che durano 32 nell’isola tanto quanto il protettorato di fatto inglese, la guerra europea contro Napoleone e lo stato di necessità dei Borboni. Con la Restaurazione, ogni forma di rappresentanza, vecchia o riformata, verrà travolta anche qui. Poco resta da dire sull’Italia prerivoluzionaria. Aspirazioni costituzionali che pure circolano nel pensiero dell’illuminismo italiano non ne costituiscono certo il tema e la rivendicazione dominante. La linea di governo dell’assolutismo illuminato solo in casi eccezionali, mentre spezza o cancella i privilegi dei vecchi Parlamenti, può orientarsi verso forme rappresentative nuove. Così Leopoldo, Granduca di Toscana, che prima di essere chiamato al trono di Vienna fa elaborare dai suoi funzionari un progetto di costituzione sulla base di rappresentanti eletti a livello provinciale dalle comunità locali, con poteri consultivi e solo limitatamente deliberativi (i funzionari, del resto, propendono per attribuzioni meramente consultive, se non per la vecchia forma di assemblee separate di ceti o “Stati”). Solo in una sua ultima fase, per lo più successiva alla rivoluzione francese, il pensiero dell’illuminismo italiano si orienta nettamente verso forme di rappresentanza politica e diviene più acutamente consapevole dei pericoli di arbitrio dell’assolutismo illuminato. Così Pietro Verri nei “Pensieri sullo stato politico del milanese” (1790): “Una Costituzione finalmente convien cercare, cioè una legge inviolabile anche nei tempi avvenire (che) assicuri ai nostri cittadini un’inviolabile proprietà, essendo questo il fine di ogni Governo. Conviene che tale Costituzione venga garantita e difesa da un corpo permanentemente interessato a custodirla e di cui le voci possono liberamente e in ogni tempo avvisare il monarca degli attentati che il ministero con l’andare del tempo potesse promuovere per invaderla”: corpo eletto da tutti i censiti in catasto, che dia il suo parere su 33 tutte le leggi. La sussistenza intatta delle leggi fondamentali, e fra queste dei principi-cardine del diritto privato, richiede ormai in questa visione un corpo politico costituito sulla nuova base dell’universalità dei cittadini: ma è facile vedere come, quanto alla struttura dei suoi poteri e al suo ruolo nell’organismo statale, si sia ancora lontani dalle nuove formule di diritto pubblico che con l’arrivo delle armate rivoluzionarie francesi si faranno strada nella penisola. 2. – Le prime manifestazioni di un moderno parlamento in Italia si hanno nel quadro dei nuovi ordinamenti repubblicani del triennio rivoluzionario 1796 – 1799, sorti sul cammino dell’armata d’Italia del generale Bonaparte e fissate nelle Costituzioni delle repubbliche di Bologna (1796), Cispadana, Cisalpina e Ligure (1797), seconda Cisalpina e Romana (1798), di Lucca e Napoletana (1799). Benché in ragione di certi caratteri, che appartengono piuttosto alla storia politica o all’ideologia, si sia mantenuto l’uso di parlare (magari tra virgolette) di Repubbliche e di costituzioni “giacobine”, non è però dubbio che essi si modellino piuttosto sulla costituzione direttoriale francese dell’anno III, dettata da un preciso spirito di reazione antigiacobina. Questa faceva ritorno ad un suffragio largo sì, ma censitario, e soprattutto introduceva il nuovo principio strutturale del bicameralismo, attribuendo al ramo più numeroso del Corpo legislativo, il Consiglio dei Cinquecento, l’iniziativa esclusiva delle leggi e all’altro, il Consiglio degli Anziani, il potere di accettarle o respingerle in blocco sia per motivi di merito, sia per averne ritenuto l’incostituzionalità. Poco meno di cento articoli, a parte quelli dedicati al procedimento elettorale, disciplinavano il Legislativo, sui 34 377 di cui constava l’intera Costituzione. Alle regole di procedura da valere per entrambi i suoi rami fissate a questo livello, si aggiungevano le altre, del pari comuni, fissate in via legislativa il 3 Fruttidoro dello stesso anno (1795) nell’intento di assicurare una sostanziale stabilità del parlamento col porlo al riparo dai colpi di maggioranza che a questo riguardo avevano punteggiato la vita della Convenzione giacobina. Le Repubbliche italiane fecero proprio le linee essenziali di questa disciplina con pochi adattamenti, ora derivati da spirito di combinazione con qualche raro e sparso precedente degli ordinamenti patrizi cittadini (Bologna, Genova, Lucca, Municipalità provvisoria di Venezia); ora in ragione del fatto stesso che, toltane l’eccezione di Bologna che pur aveva trecentosessanta rappresentanti in confronto ai settecentocinquanta del Corpo legislativo francese, si tendeva in Italia ad assemblee molto più ristrette: da quarantotto a centoventi rappresentanti in un ramo e da ventiquattro a sessanta nell’altro. Ciò non andava senza riflessi sulla disciplina normativa e, più ancora, sulla prassi. Come in Francia, si tornava in parte allo spirito di Mirabeau, che invano alla Costituente aveva difeso contro Sieyès, in sede di elaborazione del regolamento 27 luglio 1789, un sistema di tipo inglese con maggiori poteri al Presidente dell’Assemblea, minori concessioni all’individualismo e salvaguardie contro le prassi tumultuarie, le pressioni psicologiche del pubblico, le petizioni esposte direttamente in forme intimidatorie in faccia all’Assemblea: le sanzioni contro i membri indisciplinati potevano spingersi fino al carcere. Come in Francia, il metodo di deliberazione sulle leggi era quello inglese delle tre letture, salva la procedura d’urgenza. Come in Francia, la persistenza ideologica del mito della “volontà generale”, della quale i pubblici 35 funzionari sedenti nelle assemblee erano considerati gli organi e gli annunciatori, faceva ricondurre ogni manifestazione legislativa o d’indirizzo politico al momento generale assembleare, escludendo ogni delegazione legislativa ad ogni formazione di commissioni permanenti, anche prive di poteri di decisione, che potessero arieggiare ai comitati della Convenzione giacobina. L’ostilità ad ogni cristallizzazione di posizioni dirigenti all’interno delle assemblee politiche era spinta al punto, che anche presidenti e segretari erano assoggettati ad una rapida rotazione. Come in Francia, infine, erano garantite l’inviolabilità dei membri del Corpo legislativo e, quasi sempre, la sua sicurezza riposante su un proprio corpo armato e sulla clausola che ne richiedeva l’autorizzazione per far transitare o mantenere truppe entro un certo raggio dalla sua sede (nelle piccole Repubbliche italiane, varranno gli stessi confini del territorio, confluendovi differenti motivazioni). Altre disposizioni assicuravano la pubblicità e la stampa dei processi verbali e le comunicazioni fra i due rami dei Corpi legislativi e con l’esecutivo, affidati di norma a “messaggeri di Stato” posti alla dipendenza diretta delle Assemblee. Accanto alle affinità – o meglio, e più spesso, alle riprese testuali di disposizioni – vanno registrate le differenze. Meno importanti, forse, quelle che rappresentavano residui o ricordi di istituti della tradizione comunale italiane, come il sindacato sugli eletti allo scadere della carica sancita, ad esempio, dalla Costituzione bolognese, per la quale (art.59) “Ciascun membro del Corpo legislativo è responsabile di ciò che ha operato nel tempo della sua carica per un anno intero dal giorno in cui uscì d’ufficio. Non può in tale anno partirsi dallo Stato della Repubblica senza permesso del Corpo legislativo”. Meno importante, certamente, la terminologia 36 diversa dalla francese che tratto tratto affiora e si rifà ancora alla tradizione comunale, o a Roma, o alla Grecia. Ma assumono un sicuro significato certi svolgimenti che riflettono esperienze, o mancate esperienze italiane, a partire dal fatto stesso che molte di queste assemblee si dessero propri regolamenti, con una manifestazione di autonomia normativa che corrispondeva alla meno sentita necessità di prevenire eccessi assembleari. Anche questa, naturalmente, è una pura generalità, perché la Repubblica romana si diede a sua volta invece, sull’esempio francese, una “legge sopra l’organizzazione dei consigli legislativi e sopra l’ordine delle loro deliberazioni”. Che, poi, la giustificazione teorica di tali regolamenti si trovasse nella teoria già enunciata nell’89 da Mirabeau del “pouvoir constituant” – nell’esercizio del quale ogni Assemblea stipulava il proprio “patto sociale” su un piano ben distinto da quello dell’attività legislativa ordinaria, che era esercizio di potere costituito, non costituente – e fosse in tutto e per tutto congruente con il sistema di diritto pubblico desumibile dal complesso delle Costituzioni “giacobine”, è altra e diversa questione. Qui è solo il caso di registrare la conclusione della storiografia, ormai stabilita nel senso che essi, precisando e svolgendo la disciplina delle Assemblee già largamente enunciata a livello costituzionale; da un alto si presentavano come un felice corollario della concezione illuministica delle fonti del diritto tuttora prevalente, ispirata a netta diffidenza verso la consuetudine e la prassi non scritta, dall’altro, contribuirono a consentire un ordinato e proficuo esplicarsi dell’attività legislativa in un paese, come l’Italia, che non poteva rifarsi a una propria esperienza parlamentare in senso moderno. Va anche detto che il regime di semiprotettorato francese nel quale ebbero vita questi esperimenti era ben più efficace delle stesse salvaguardie 37 costituzionali e regolamentari nel senso di prevenire i temuti sviluppi verso il “regime di assemblea”. Alcune specifiche novità italiane meritano, in ogni caso, attenzione. Nella Costituzione della repubblica napoletana, per merito soprattutto di Mario Pagano, che su questo e su altri temi faceva valere una sua originale visione costituzionale, l’iniziativa delle leggi è attribuita al corpo più ristretto e di età più adulta, il Senato, considerando “oltre l’esempio delle antiche repubbliche, nelle quali un ristretto senato proponeva le leggi, e numerosa assemblea popolare le rigettava o approvava”, che “proporre le leggi è più l’effetto della fredda analisi che dell’ardito genio, richiede più estensione di lumi che voli di spirito. Ritrovare la propria, esatta e chiara forma di legge, è più l’opera del riserbato giudizio che dell’audace invenzione. Ond’è che pochi, ed uomini maturi, vi riescono meglio che audace moltitudine di giovani”, guardando essi più all’organicità e coerenza del sistema giuridico che ai pregi o agli incomodi della legge singola, che un’assemblea di molteplici voci è invece meglio in grado di apprezzare. Ancora a Pagano si deve l’assai notevole istituzione dell’Eforato, che nella sua Costituzione doveva assicurare nello stesso tempo quel controllo di costituzionalità formale delle leggi che nel testo francese dell’anno III era attribuito agli Anziani ed uno, duplice, di costituzionalità sostanziale, consistente da un lato nel cassare e annullare gli atti emanati da ciascun potere “ultra vires” (ad esempio, atti materialmente amministrativi o giudiziari emessi dal legislativo, come le odierne “leggi provvedimento”), dall’altro nel “rappresentare al Corpo legislativo l’abrogazione di quelle leggi che sono opposte ai principi della Costituzione” nel loro contenuto (art. 368, n. 5). Un’altra novità tecnica di 38 rilievo fu introdotta nella Repubblica romana, nell’intento di accelerare il lavoro legislativo e prevenire insabbiamenti di riforme: il c.d. silenzio – approvazione degli atti legislativi approvati dal Tribunato, che un mese dopo aver trasmesso una risoluzione al Senato poteva richiamarlo al suo dovere di pronunciarsi: decorso inutilmente un secondo mese “senza che il Senato abbia decretato definitivamente, il Tribunato può dichiarare che il Senato col suo silenzio ha approvato la risoluzione. Egli può in conseguenza mandarla al Consolato per farla eseguire come una legge: ed è tenuto di avvisarne il Senato con un messaggio” (art. 99). Lo stesso accade nella seconda Costituzione Cisalpina (artt. 98-101). Il Governo, che in omaggio alla divisione dei poteri manca in tutti questi testi l’iniziativa delle leggi, alla cui promulgazione è chiamato a provvedere, deve però esso “invitare” o “proporre” quando si tratti di abrogazione a norma di questo due Costituzioni e per l’abrogazione in nessun caso è ammessa la procedura d’urgenza. L’ “invito” a legiferare era del resto nella Costituzione dell’anno III: “Il direttorio può in ogni tempo invitare in iscritto il consiglio de’ juniori e quello degli anziani a prendere un oggetto in considerazione: può loro proporre misure, ma non dei progetti stessi in forma di leggi” (art.166: cfr. gli artt. con lo stesso numero delle Costituzioni della seconda Cisalpina e Romana, e il 162 della Napoletana). Se le Costituzioni “giacobine” rispecchiano, con le modificazioni accennate, il sistema di quella francese dell’anno III, dopo l’invasione degli austro – russi in Italia e la nuova conquista o liberazione francese il paesaggio istituzionale italiano viene ad essere dominato da un nuovo modello autorevole: la Costituzione francese dell’anno VIII (13 dicembre 1799), quella cioè del Consolato che succede al Direttorio dopo il colpo di 39 Stato del 18 Brumaio, elaborata da Sieyès. Carattere essenziale del nuovo regime per quanto riguarda le Assemblee parlamentari è che l’iniziativa delle leggi passa al Governo . “Non saranno promulgate nuove leggi salvo il caso in cui il progetto sarà stato proposto dal Governo, comunicato al Tribunato e decretato dal Corpo legislativo” (art. 25). Tribunato e Governo, mediante i loro oratori, sostengono e contrastano i vari progetti di fronte a tale corpo sovrano (rimarrà famosa l’apposizione del Tribunato, e alla sua testa di Benjamin Constant, al Codice civile: per averne ragione, Napoleone si induce a un ulteriore colpo di Stato); l’uno o l’altro, rimasto soccombente, può ancora adire il Senato conservatore per il giudizio di costituzionalità. Va notato che a breve distanza dal 18 Brumaio la legge del 5 Nevoso dell’anno VIII riconosce tanto al Corpo legislativo quanto al Tribunato una autonoma potestà regolarmente nella materia che sotto il Direttorio era stata invece definita con la legge già rammentata, che aveva valore di legge costituzionale complementare. Dopo il “giro di vite”, un Senato – consulto organico dell’anno XII (20 dicembre 1803), esteso l’anno dopo al Tribunato, toglie però al Corpo legislativo una delle più gelose attribuzioni della legge del ’95, la nomina della commissione amministrativa interna, alla quale subentrano i Questori, nominati dal Primo Console su liste formate dall’Assemblea. Lo stesso avviene per i “Pretori”, il Cancelliere e il Tesoriere del Senato conservatore, al cui consiglio di amministrazione annuale, che pianifica ogni genere di spese, partecipano i tre consoli, cioè l’intero vertice dell’esecutivo. Si possono collocare sulla linea francese dell’anno VIII le nuove costituzioni delle Repubbliche di Lucca (1801) e Ligure (1802), nonché quella della Repubblica italiana discussa ai Comizi di Lione (1802), che 40 prende il posto della Cisalpina con Napoleone presidente. Se non si è più di fronte a calchi in senso tecnico del modello francese, con più o meno estese modificazioni, è anche perché Napoleone ha ora maggiore libertà di iniziativa in Italia, teatro e campo sperimentale dei suoi effettivi orientamenti costituzionali. In tutte e tre le Repubbliche, intanto, si ha una nuova base della rappresentanza: “possidenti” (fondiari), “dotti” e “mercanti” (negozianti e fabbricanti), ora designati a vita dall’esecutivo, ora cooptati dai colleghi, ora eletti da speciali assemblee territoriali. I loro “collegi”, dichiara la Costituzione della repubblica italiana, “sono l’organo primitivo della sovranità nazionale” (art.10), e come tali procedono alla nomina di tutta una serie di cariche statali, inclusi i membri del Corpo legislativo. Sempre riferendosi all’ordinamento di questa Repubblica, che “mutatis mutandis” trova riscontro nelle due minori, “Il Presidente ha l’iniziativa di tutte le leggi” (art.45), sia pure con la premessa di una certa disciplina della fase pre-legislativa del procedimento. Altri strumenti, già previsti nella Costituzione francese dell’anno VIII, o introdotti successivamente ad essa, fanno la loro apparizione: esame congiunto dei progetti da parte di una commissione del Corpo legislativo e di consiglieri del Governo (Repubblica italiana, art.87; Lucca, art.16); successivo dibattito in contraddittorio davanti al Corpo legislativo fra oratori del Governo e della commissione (rispettivamente artt. 88 e 19); forme di Senato – consulto improprio, come quella dell’art.4 della Costituzione Ligure: ”Ne’ casi urgenti e impensati, e soprattutto se la tranquillità pubblica è compromessa, il Senato con due terzi de’ voti può provvisoriamente ordinare l’esecuzione dei progetti di legge”. Le sole imposte sono eccettuate da questo tipo di disposizione (Lucca, art. 21). 41 Ancora nella Costituzione Ligure è attribuita al Senato l’emanazione dei regolamenti esecutivi, nella sua doppia veste di organo di governo e legislativo (artt. 4 e 7). Gli ordinamenti dei Regni napoleonici della fase successiva (Statuti costituzionali del Regno d’Italia degli anni 1805 – 1810; del Regno di Napoli e Sicilia del 1808, del Principato di Lucca del 1805; Costituzione murattiana di Napoli del 1815) si discostano ancor più, nonostante alcune precise analogie, dall’ordinamento imperiale francese che prendeva le mosse dal Senato – consulto organico dell’anno XII, e incontrò maggiori opposizioni in Consiglio di Stato che nello stesso Senato. E’ mantenuta, rispetto alla fase precedente, la formazione della rappresentanza sulla base di notabilità, se il Regno Italico conserva i tre collegi dei possidenti, dei dotti e dei mercanti, che ancora nel 1832, nella sua critica del “Reformbill” inglese, formeranno l’ammirazione di Hegel, il Regno di Napoli e Sicilia prevedeva un Parlamento nazionale formato da cinque “sedili” come nella Napoli “ancien régime”, ma ora sorgenti rispettivamente dal clero, dalla nobiltà, dai possidenti, dai dotti e dai commercianti; la Costituzione murattiana del 1815, infine, affiancava al Senato vitalizio un “consiglio dei notabili” formato da deputati espressi dai sindaci delle province, dai contribuenti delle città maggiori, da un collegio vitalizio di commercianti napoletani, dalle università e dalle corti di appello del Regno. Egualmente mantenuta l’iniziativa delle leggi nelle mani dell’esecutivo, generalizzando il metodo delle “conferenze” fra consiglieri di Stato e commissioni dei due rami del Corpo legislativo nella formazione delle leggi, metodo già sperimentato sia nella Repubblica di Lucca, sia nell’elaborazione del 42 Codice Napoleone in Francia, che lo aveva poi consacrato nel Senatoconsulto organico del 19 agosto 1807 (art. 4). Nuove, invece, le disposizioni che configurano quello che modernamente si chiamerebbe un “domaine de la loi” ristretto ad alcune materie enumerate, attribuendo le rimanenti al “domain du réglement”. A parte il Codice Napoleone, richiamato da norme costituzionali sia nel Regno Italico sia in quello di Napoli e Sicilia, nel Regno Italico erano di competenza del potere legislativo il bilancio dello Stato, la coscrizione militare, l’alienazione dei beni nazionali, il sistema monetario, le nuove imposte o tariffe d’imposta e le leggi civili, di “alto criminale” e commerciali: “Tutt’altro oggetto è di competenza della pubblica amministrazione” (art. 47). Nel Regno di Napoli e Sicilia la materia coperta da riserva di legge appare ancora più ridotta: oltre al bilancio, vi figurano “la ripartizione delle contribuzioni fra le province, i cambiamenti notabili da farsi al codice civile e al codice penale, al sistema delle imposizioni o al sistema monetario” (art. 27); ma competeva al Consiglio di Stato “compilare” i regolamenti generali di pubblica amministrazione e i progetti di leggi civili e criminali (art. 5). Spettava al Re, svincolato da questo limite di procedimento, la normazione minore, e di fatto egli provvide anche a quella coperta da riserva di legge sulla base di una specifica autorizzazione costituzionale valida fino alla prima riunione del Parlamento, che non ebbe luogo mai. Nel Principato di Lucca il Senato, formato anch’esso da possidenti, commercianti e “lettori”, è competente per il bilancio, la vendita delle proprietà nazionali, il sistema tributario, la legislazione civile, commerciale e penale: “Ogni altro oggetto è di competenza dell’Amministrazione interna” 43 (art. 12). Solo nella Costituzione murattiana la legiferazione torna in ogni caso di competenza parlamentare, sulla base dell’iniziativa del Re e dell’esame previo da parte delle commissioni in cui si divide ciascuna Camera: “Insorgendo obiezioni al Parlamento sui progetti presentati per ordine del Re, o proponendosi delle modificazioni, le commissioni (reali), se ve ne sono, o i consiglieri (di Stato) che hanno presentato i progetti, possono sull’autorizzazione del Re concertarsi con le commissioni di ambo le Camere, al fine di appianare le difficoltà, e di concorrere ad una redazione, che secondi le vedute del Parlamento” (art. 150). Con che non tanto si riprende una linea precedente di collegamenti e organi misti fra due rami del Parlamento, quanto si mira ad una limitazione sostanziale del diritto di emendamento. Si accentua ulteriormente in tutta questa fase, la tendenza dell’esecutivo a uno stretto controllo della vita delle assemblee, sull’esempio dei precedenti francesi già richiamati. Nel Regno Italico, Napoleone si riserva il diritto di nomina del presidente del Corpo legislativo e dei due Questori di due in due anni, sia pure sulla base di un bilancio fisso ripartito ogni due anni dall’Assemblea in comitato segreto. Nel Regno di Napoli e Sicilia il Re nomina il presidente del Parlamento sulla base di una terna elettiva (artt. 22-23), mentre l’autonomia di quest’ultimo di fronte alla Corona è limitata dall’abbandono del sistema delle sedute pubbliche: anzi “Le opinioni e le deliberazione non debbono essere né palesate né impresse. Qualunque pubblicazione per via di stampa o di affissi, che si faccia dal Parlamento nazionale o da uno dei suoi membri, è considerata un atto di ribellione (art. 26). Ancora nella Costituzione murattiana del 1815 il Re nomina presidente e vicepresidente 44 del Senato e del Consiglio dei notabili, in quest’ultimo caso tra cinque nomi a lui sottoposti (artt. 97 e 121). Va, infine, tenuto presente che il Corpo legislativo del Regno Italico poteva soltanto accettare o respingere in blocco i progetti di legge dell’esecutivo, ciò che non era previsto nel Reno di Napoli e Sicilia perché l’ottanta per cento dei membri del Parlamento era di nomina regia, mentre nella Costituzione murattiana fu contemplato un Senato egualmente di nomina regia, oltre al ricordato dispositivo a limitazione del diritto di emendamento. Ma soprattutto occorre ricordare che nessuno dei Parlamenti napoletani poté aver vita, il primo per volontà della Corona, il seconda per la fine della dinastia. Quanto al Corpo legislativo del Regno Italico, due mesi dopo l’incoronazione Napoleone, contrariato dalle critiche e dalle resistenze su un progetto di legge in tema di atti di registro, lo sospendeva e poi ne paralizzava la vita col semplice espediente di cancellare lo stanziamento necessario a farlo funzionare dal bilancio dello Stato, nonostante che il suo ammontare fosse fissato dalla Costituzione. Nel marzo 1808 Napoleone attribuiva al “Senato consulente” alcune prerogative legislative: deliberare a maggioranza di due terzi sugli statuti costituzionali e a maggioranza semplice sui progetti di aumenti di imposte: “Sopra qualunque altro progetto di legge il Senato può presentare al Re le sue deliberazioni dieci giorni dopo la comunicazione che gliene viene fatta” (art. 13). Aveva poi attribuzioni consultive in materia di trattati internazionali, altre deliberative (eventuali) sull’incostituzionalità degli atti dei collegi elettorali, sui ricorsi per eccesso o abuso della giurisdizione ecclesiastica, sulla rimozione dei giudici, e poteva annualmente presentare al Re le sue osservazioni sul conto dei ministri e rappresentargli i bisogni e 45 i voti delle popolazioni. Se è forse improprio un accostamento con le prerogative di “interinazione” e di rimostranza dei Parlamenti francesi o dei Senati italiani “ancien regimé”, che erano corpi giudicanti e per altro verso amministrativi, resta in ogni caso che si trattava di una assemblea parte composta di membri di diritto e di altri nominati dal Re, parte scelta sopra liste formate dai soliti collegi dei possidenti, dei dotti e dei mercanti. Ovunque, del resto, nei Regni napoleonici italiani come in Francia, le attribuzioni del Consiglio di Stato in ordine all’elaborazione e a tutta la fase che precede la vera e propria deliberazione legislativa ebbero, in concreto, assai maggiori importanza; non appena si consideri “un poco più da vicino anche lo intero dei solenni e pomposi edifizi costituzionali, d’architettura napoleonica, fin qui specificati” (Marongiu). 3. – Mentre la Restaurazione francese trova il suo assetto istituzionale nella Charte del 6 aprile 1814, con Senato di Pari ereditari e Camera censitaria, i principi italiani restaurati né accedono all'idea di nuove carte costituzionali, né fanno poi rivivere gli antichi Parlamenti prerivoluzionari. La Costituzione siciliana del 1812 non venne abrogata espressamente, ma Ferdinando II rientrando in possesso del Regno di Napoli cancellò addirittura il Regno separato di Sicilia con atto del 1816, concedendo all'isola solo alcuni particolari diritti e privilegi amministrativi, completati formalmente nel 1824 dalla «Legge organica della Consulta generale del Regno». Di fronte all'assolutismo ristabilito, e in molti domini italiani reso più completo dall'acquisizione dei risultati dell'accentramento e livellamento napoleonici, si delinea il nuovo 46 movimento costituzionale, che si fa forte della discrasia (e della conseguente necessità di riconciliazione) fra ordine politico ancien régime e moderni ordini civili e amministrativi. Nella rappresentanza parlamentare esso avrà una delle sue grandi idee-forza. Tre sono i modelli costituzionali che tengono il campo dalla Restaurazione fino all'età delle riforme e al '48-'49. Quello anglosiciliano, bandiera dei movimenti isolani fino al 1848 - allora però anche la seconda Camera viene resa elettiva, come la prima, fra determinate categorie - che per il suo spirito più che moderato raccoglie simpatie anche in altre regioni e ad esempio in Piemonte (Santorre di Santarosa). Quello delle Cortes spagnole del 1812, la cui Costituzione viene proclamata nel 1820 nel Regno delle Due Sicilie e nel 1821 in Piemonte, salve le modificazioni da apportare dal Parlamento che seguirono, ma minime, solo nel primo caso. Per quanto riguarda la rappresentanza, in luogo del bicameralismo all'inglese si ritorna qui al monocameralismo roussoviano della Convenzione, sulla base però di un suffragio universale dei capofamiglia, alfabeti e no, mediato in due gradi, a livello parrocchiale e provinciale. L'iniziativa della legislazione, o della deroga straordinaria alle leggi vigenti, spetta al Parlamento, che procede con il metodo delle tre letture: il silenzio del Re si ha per sanzione; la sanzione può essere rifiutata, ma dopo la terza approvazione parlamentare in tre anni distinti il progetto ha ugualmente forza di legge (artt. 135-145 Due Sicilie e 132-142 Piemonte). Una «deputazione permanente del Parlamento» siede negli intervalli tra le sessioni annuali, può convocare un Parlamento straordinario, e deve fra l'altro «invigilare sulla osservanza della Costituzione e delle leggi, onde dar conto al prossimo Parlamento 47 delle infrazioni che avessero osservate» (artt. 153 Due Sicilie e 160 Piemonte). Il Re abbisogna del consenso delle Cortes per varcare i confini del Regno, come effettivamente avvenne da parte di Ferdinando I, che ne approfittò però per recarsi al congresso di Lubiana e ottenere dalla Santa Alleanza i mezzi per schiacciare le forze liberali e annullare la Costituzione; deve farvi approvare annualmente il contingente militare consentito, il cui ordinamento è competenza delle Cortes; queste scelgono il successore al Trono, nel caso di estinzione della linea maschile principale dei successibili, e hanno poi tutta una serie di altre attribuzioni, ad esempio in materia di controllo. Il fatto che questi due testi abbiano avuto limitata o nessuna applicazione, nulla toglie al valore di punto di riferimento che la Costituzione di Cadice ebbe nei dibattiti della Restaurazione, quale modello fra tutti gli altri più avanzato in senso democratico. Il modello che avrà però decisiva influenza è quello franco-belga. La Charte borbonica del 1814 era stata modificata nel 1830 all'avvento della Casa di Orléans, fra l'altro, nel senso di rendere da segrete pubbliche le adunanze e deliberazioni della Camera dei Pari e di attribuire alla Camera dei deputati la nomina del proprio presidente in apertura di ogni sessione, in luogo dell'indicazione di cinque suoi membri per la nomina da parte del Re. Rimaneva ferma la priorità della Camera dei deputati per l'esame dei progetti d'imposta, così come la clausola che l'imposta fondiaria, a differenza di quelle indirette, non poteva essere consentita in via pluriennale, ma solo di anno in anno (artt. 47 e 49). Facendo alcuni passi più in là, la Costituzione belga del 1831 rendeva elettivo anche il Senato, con durata di otto anni e diritto di nominare il proprio presidente, vicepresidente e bureau; sanciva espressamente il diritto d'inchiesta 48 parlamentare e quello di votare per divisione articoli e emendamenti agli articoli di legge (artt. 40 e 42); escludeva o sospendeva dal mandato parlamentare gli impiegati pubblici (art. 36) e, con le modificazioni della Costituente del 1848, introduceva nel testo costituzionale l’indennità parlamentare per i membri delle due Camere e stabiliva che ogni funzione pubblica retribuita è incompatibile con il mandato di rappresentante del popolo. Il secondo Impero annullerà la potestà legislativa delle Camere, attribuendola con il 1852 a decreti del Capo dello Stato e tornando al Senato nominato dall’alto e sedente in segreto, al mandato parlamentare senza indennità, alla nomina presidenziale del presidente e dei vicepresidenti del Corpo legislativo, a limitazioni - in forma nuova - del diritto di emendamento. Una correzione «liberale» si avrà già con i Senato-consulti organici del 1869, promossi da Napoleone III, che regola fra l'altro gli «uffici»: ma più ampiamente, ormai sotto la Terza Repubblica, con i nuovi regolamenti della Camera e del Senato nel 1876, a seguito delle prime elezioni indette sulla base delle leggi costituzionali del 1875. Ma per tornare al modello 1814-1830-1839 e alla sua avanzata versione belga, occorre appena ricordare che sotto i Borboni restaurati manca, e del resto neppure è prevista dalla Charte, la responsabilità politica dei ministri di fronte alle Camere. Soprattutto la Camera dei Deputati cercò via via di sfruttare in questo senso gli strumenti legali di cui disponeva - indirizzo al Re, esame di petizioni, messa in stato di accusa dei ministri, voto dei bilanci, lo stesso esame delle leggi -, 49 nonché di azionare strumenti di controllo non previsti in Costituzione, come le interrogazioni (questions) e le inchieste parlamentari. Dopo la rivoluzione di luglio si forma invece una vera e propria tradizione parlamentare, sulla base dell'iniziativa legislativa che la Charte riformata riconosce alle Camere e l'avvio ad una effettiva responsabilità politica dei ministri quale si delinea con il diritto di interpellanza e con la stessa nuova importanza e funzione dell'indirizzo di risposta al discorso della Corona, che viene quasi a configurare un'annua interpellanza globale sul complesso dell'azione di governo. Nonostante vari inconvenienti, come il numero dei deputati impiegati, la macchina legislativa funzionava sotto la Monarchia di luglio in modo quasi perfetto. Quasi contemporaneo è il Reformbill inglese del 1832, premessa a un rinnovamento profondo del lavoro parlamentare. In Francia, nel 1842 si propone di distribuire i comptes-rendus delle sedute a tutti gli elettori, sia pure nel quadro di un elettorato strettamente censitario; altre interessanti proposte regolamentari non hanno sèguito. Ma nella Repubblica del 1848, sulla base di una migliore organizzazione dei resoconti e della stenografia, si cerca di risolvere in modo organico il problema dei rapporti fra stampa e Parlamento. La Costituzione poi, a parte le norme già ricordate, conferisce ad un apposito organo dell'Assemblea sedente nell’intervallo delle sessioni il potere di convocarla in caso di urgenza e fa obbligo al Presidente della Repubblica, in un quadro di netta divisione dei poteri, di presentare ogni anno, sull'esempio americano, «con un messaggio all'Assemblea nazionale, l'esposizione generale degli affari della Repubblica» (art. 52). Su questo sfondo europeo vengono a proiettarsi (prescindendo dall’ordinamento provvisorio della «Costituzione delle province unite 50 italiane» sorta dai moti del '31 a Bologna e nelle Romagne, con la sua Consulta legislativa) gli statuti e costituzioni del 1848-49. Non va dimenticata, anche a questo riguardo, una certa differenza fra statuti octroyés dai Principi e testi elaborati da Assemblee, come la Costituzione della Repubblica romana e lo Statuto del Regno autonomo di Sicilia, la cui Corona venne offerta al primogenito di Carlo Alberto, Alberto Amedeo duca di Genova. Ma qui, «mentre si può e si deve parlare di un movimento costituzionale, soltanto con molte riserve è possibile parlare anche di un movimento «costituente» del '48 italiano: e comunque di un movimento costituente strozzato quasi sul nascere, che non è riuscito cioè, per le sue vicende esterne e per le sue interne contraddizioni, ad essere veramente e pienamente tale». In ogni caso, è possibile discernere alcuni tratti comuni alla maggior parte di questi documenti, quale che ne sia l'origine: la Costituzione del Regno delle Due Sicilie, e gli statuti del Regno di Sicilia, dello Stato della Chiesa, del Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna (1848) nonché il progetto dello stesso anno per uno statuto del ducato di Modena; l'atto costituzionale di Gaeta per la Sicilia e la Costituzione della Repubblica romana (1849). Altro carattere hanno le «basi costituzionali» per il Ducato di Parma (1848), mentre rimasero sulla carta il progetto di una Costituzione italiana a base confederale elaborato dal congresso giobertiano di Torino (1848) e quello democratico toscano per una Costituente italiana (1849): in Toscana, peraltro, come subito dopo nella Repubblica romana, si passò a un sistema monocamerale, sulla base del suffragio universale. Limitando l'analisi ai testi costituzionali, quasi in tutti ricorre una seconda Camera vitalizia sul modello francese (con le due eccezioni in 51 Toscana e nella Repubblica romana), dove presidente e vicepresidente sono di nomina della Corona, mentre quelli della Camera bassa sono elettivi; le sedute sono pubbliche, salvo il diritto per un certo numero di rappresentanti di chiedere il comitato segreto; le garanzie dei parlamentari e il procedimento di accusa nei confronti dei ministri da parte della Camera bassa, con giudizio della Camera alta, sono egualmente comuni, più o meno sulla linea della Charte. Un ventaglio più largo di soluzioni si ha per quanto riguarda l'eleggibilità dei pubblici funzionari, ora preclusa in ogni caso, ora esclusa solo nel territorio in cui si esercitasse la loro giurisdizione, ora assoggettata all'onere di una rielezione, mentre qualche testo ne tace. L'indennità parlamentare, gran novità belga del 1831 e francese del 1848, viene introdotta in via generale solo nella Repubblica romana, mentre in Sicilia e nel Granducato di Toscana la si accorda, a carico dei comuni, solo ai rappresentanti residenti fuori delle capitali e in misura modesta, e altrove ci si attiene al sistema francese della gratuità del mandato, denunciata dai democratici come un «censo elettorale larvato». Dove poi la divergenza è massima è nella disciplina dell'iniziativa legislativa, per la quale alcuni testi (Due Sicilie, Granducato di Toscana, Stato della Chiesa) tornano alla Charte del 1814 che la riserva all'esecutivo, o accordano ai suoi progetti una priorità procedurale. Altrove, essa spetta tanto alle Camere quanto all'esecutivo, mentre dove esiste una Camera alta vitalizia è logico, e viene spesso sancito, che alla Camera bassa spetti la priorità nell'esame dei bilanci e delle leggi di spesa, e dunque un ruolo preminente nel sindacato parlamentare sull’azione di governo. Nello statuto siciliano, in quello pontificio e nell'Atto addizionale di 52 Gaeta la Corona si riserva un potere di veto, che per gli Stati della Chiesa si esercita udito il Concistoro, e non è superabile da una seconda o terza deliberazione. Fra le disposizioni singolari, che si discostano dai modelli francobelgi o britannici (il costituzionalismo « giacobino » o direttoriale, e quello spagnolo di Cadice, quasi non hanno più udienza in questo tornante del secolo), almeno due vanno ricordate. Lo Statuto del Regno autonomo di Sicilia, elaborato sotto la direzione di Ruggero Settimo, non solo prevede una seconda Camera elettiva; non solo per quanto riguarda le leggi finanziarie o militari accorda al Senato il semplice diritto di accettare o respingere in blocco; non solo mira a tutelare 1'autonomia delle assemblee statuendo che i deputati e i senatori, se eletti ministri, sono sospesi per la durata della carica dalle loro funzioni parlamentari; ma ipotizza organi misti dei due rami del Parlamento: «Nel caso che le due Camere siano d'accordo in alcuni punti, e discordi in altri dello stesso progetto di legge, potranno deputare un numero uguale dei rispettivi membri perché sedendo insieme procurino di conciliare le differenze e ridurre le Camere alla conformità dei voti. Il nuovo progetto sarà recato alla discussione delle Camere. Una proposta definitivamente rigettata non può riprodursi che alla nuova sessione» (art. 27). Altra disposizione notevole, questa volta in tema di controllo, è quella per cui «Appartiene a ciascuna Camera il diritto di fare rimostranze e indirizzi per qualunque atto del potere esecutivo» (art. 31). Nello statuto di Pio IX, isolato fra gli altri, è limitata in certe materie 1'iniziativa legislativa: i due consigli «non possono mai proporre alcuna legge: 1) che riguardi affari ecclesiastici o misti; 2) che sia contraria ai 53 canoni o disciplina della Chiesa; 3) che tenda a variare o modificare il presente Statuto» (art. 36). Negli affari misti potevano essere sentiti in via consultiva: ma era poi vietata, in ogni caso, «ogni discussione che riguardi le relazioni diplomatiche-religiose della Santa Sede all'estero» (art. 38). L'imposta diretta, come in altri testi, poteva essere consentita solo per un anno, le indirette per più, con evidenti riflessi sui rapporti fra esecutivo e legislativo. La clausola che quasi sempre ricorre, a tenore della quale «i ministri sono responsabili» non implica (come non implicherà nella lettera dello Statuto albertino) il principio del governo di Gabinetto o parlamentare, ma solo la possibilità di messa in stato di accusa dei ministri stessi o la predisposizione di strumenti di sindacato parlamentare. Solo nella Repubblica romana del 1849 l'assemblea unica elegge essa a maggioranza di due terzi tre Consoli, ai quali spettano la nomina e revoca dei ministri (i quali poi, a differenza da altri ordinamenti del 1848-49, formano un consiglio), l'esecuzione delle leggi e la condotta della politica estera. Un supergoverno, insomma, con mandato triennale, sostituzione annuale di un membro, precostituzione di responsabilità, e di mezzi legali per vincerne l'eventuale inerzia: «Le leggi adottate dall'Assemblea vengono senza ritardo promulgate dal Consolato in nome di Dio e del popolo. Se il Consolato indugia, il presidente dell'Assemblea fa la promulgazione» (art. 32). È questo, nel segno mazziniano di «Dio e popolo», il momento di massima affermazione, configurabile peraltro solo nel quadro di un sistema monocamerale, dei poteri del Presidente di Assemblea. 54 4. – Lo Statuto albertino, concesso dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia per il suo Regno di Sardegna, considerava solo quattro organi costituzionali: la corona, ereditaria con esclusiva a favore dei discendenti maschi da maschi (cosiddetta legge salica), il senato, la camera dei deputati, i ministri, in altre parole “il governo del re”. Con l'adozione della forma parlamentare, il governo, organo essenziale del potere esecutivo, diventava anch'esso una longa manus delle Camere, soprattutto di quella elettiva. Il governo, nasceva dai voti della Camera: spesso non c'era nessuna interpretazione da compiere da parte del governo, tanto erano chiari. I ministri, salvo una piccola rappresentanza del Senato, erano tutti deputati; si compiva la carriera a Montecitorio, deputato, membro di alcune commissioni autorevoli o della giunta del bilancio, sottosegretario di Stato, ministro. La Camera dei deputati era il centro, il fulcro, di tutta la vita politica. Le norme statutarie attribuivano (art. 3) il potere legislativo “collettivamente” al re ed alle due Camere (l'art. 56 parlava, addirittura, di “tre poteri legislativi”) ed il potere esecutivo al re, con obbligo (art. 4) d'informare le Camere dei trattati internazionali da lui firmati e di chiederne il consenso quando essi importassero oneri finanziari e variazioni di territorio dello Stato. Il re convocava (art. 9) ogni anno le due Camere, poteva prorogarne le sessioni e sciogliere quella dei deputati (la sola elettiva) ogni cinque anni e prima, se l'avesse ritenuto necessario, ma, in quest'ultimo caso, ne convocava un'altra nel termine (in verità assai largo) di quattro mesi. Il re, salendo al trono, prestava giuramento di osservare lo Statuto in presenza delle due Camere riunite. Nessun tributo 55 (art. 30) poteva essere imposto senza il consenso delle Camere. Quella che ad imitazione di quella dei Lords si chiamava anche Camera alta - del Senato era composta di membri nominati a vita dal re su ventuno categorie di persone, tra le quali gli ex deputati con almeno tre legislature, oppure sei anni di esercizio, ministri, alti magistrati, coloro che, con servizi o meriti eminenti avessero illustrato la patria, i contribuenti per almeno tremila lire di imposte dirette. Presidente e vicepresidente del senato (il quale, costituito in Alta Corte di giustizia per giudicare dei più gravi crimini contro la sicurezza dello Stato e dei ministri accusati dalla Camera dei deputati, cessava - doveva cessare! - di essere “un corpo politico”) erano di nomina regia. La Camera elettiva era composta dei deputati scelti dai collegi elettorali, rappresentanti, con divieto di mandato imperativo, non i rispettivi elettori ma «la nazione in generale » (art, 41); essi erano eletti per cinque anni e la cessazione di un deputato, per qualunque motivo, dalle sue funzioni dava luogo ad una riconvocazione, per nuova elezione, del collegio di appartenenza. Come i senatori, anche i deputati godevano delle consuete immunità, persino (art. 46) dall'arresto per debiti, allora in vigore. Le due Camere dovevano funzionare di conserva («cominciano e finiscono nello stesso tempo»: art. 48); senatori e deputati, prima di entrare in funzione, dovevano prestare giuramento di fedeltà al re, allo Statuto ed alle leggi dello Stato; le loro funzioni non dovevano dar luogo ad alcuna indennità; godevano di piena libertà di parola e di voto nelle rispettive Camere; nessuno poteva essere allo stesso tempo senatore e deputato. Ognuna delle Camere era competente a valutare la validità dei titoli di ammissione di ciascun membro. Particolari norme regolavano 1'iter del procedimento 56 legislativo e sancivano, senza precisazioni ulteriori, la “responsabilità dei ministri”. Nessun articolo dello Statuto prescriveva che i ministri dovessero venire scelti su designazione delle Camere ed essere, eventualmente, revocati se queste avessero negato la loro fiducia. Come per un tacito accordo tra i poteri dello Stato, l'espressione statutaria (art. 2) «governo monarchico rappresentativo» fu tuttavia sin dal principio intesa in questo senso e col loro comportamento dettero un contenuto immediato e preciso all'anzidetta affermazione (art. 63) della responsabilità dei ministri. Lo Statuto non parlava né di “parlamento” come unità, né di Consiglio, o presidente del Consiglio, dei ministri, ma la prassi statutaria rimediò alla lacuna: si videro, pertanto, piuttosto che i singoli ministri, il loro insieme, e si vide e si rispettò nel Governo sia l'organo dell'indirizzo politico dello Stato sia l'organo e l'espressione della maggioranza parlamentare. Pur senza che lo Statuto l'avesse affermato, il sistema elettorale coevo e coerente ad esso era quello uninominale. Il “proclama costituzionale” albertino dell'8 febbraio 1848 prevedeva che le elezioni dovessero svolgersi «sulla base del censo da determinarsi» e la legge elettorale (1egge 17 marzo 1848, n. 680) ne aveva precisato i particolari. L'adozione del criterio censitario, allora comune, partiva dall'idea, tradizionale, che le imposte dovessero essere consentite da coloro che avrebbero dovuto sostenerne il peso. In pratica, però, tale criterio veniva in parte temperato, sin da tale prima legge, da quello delle “capacità”. Il legislatore del 1859 (1egge 20 novembre 1859, n. 3778), che operava in virtù di pieni poteri datigli dal Parlamento, apriva nuovi, opportuni, 57 spiragli sia quanto al censo sia quanto alle “capacità”, allargando la massa elettorale e aumentando il numero dei collegi elettorali (e, quindi, dei deputati) da duecento a duecentosessanta: furono per la prima volta, allora, ammessi a votare senza limite di censo, quei cittadini che, per “indizi legali”, cioè per titolo di studio, erano «reputati possedere la capacità necessaria all'esercizio dei diritti politici». All'aumento, effettuato per gradi sino a raggiungere il numero di cinquecentootto, del numero dei deputati, corrispose, via via, anche una nuova organizzazione interna della Camera (e, per simmetria, anche del Senato). Agli “uffici”, o raggruppamenti casuali, per sorteggio, dei parlamentari si sostituirono, gradualmente più numerose, le Commissioni, costituite sulla base, talvolta malsicura, delle competenze o vocazioni settoriali e, più tardi, anche i “gruppi” corrispondenti ai partiti politici di appartenenza. Importanti novità furono, lentamente realizzate, che nel giudizio di convalida dei nuovi senatori l'Assemblea deliberasse non più a voto palese, ma segreto, e che il presidente della Camera alta venisse sì nominato dal Re, ma su rispettosa richiesta degli stessi senatori. Più lunga, e risolta positivamente soltanto nel 1912, la lotta contro il divieto, contenuto nell'art. 50 dello Statuto, di retribuzioni o indennità parlamentari. Tra i fautori della soppressione del divieto, il costituzionalista e deputato Pietro Chimienti sosteneva, tra l'altro, che l'eventuale indennità avrebbe dato la possibilità di entrare in Parlamento anche a degli autentici operai e consentito ai deputati di trattenersi più a lungo nella capitale e di meglio svolgervi il proprio mandato: tra gli avversari, Gaetano Mosca replicava che l'indennità avrebbe giovato 58 assai poco e che almeno quattrocentonovanta dei cinquecentootto deputati sarebbero rimasti o ritornati alla Camera, anche senza indennità. Peraltro, la legge 30 giugno 1912, n. 665 (lo Statuto albertino, costituzione flessibile, poteva essere mutato anche da una legge ordinaria) introduceva un “rimborso spese”, eguale per tutti, e poi la normativa elettorale, di cui al Testo Unico 26 gennaio 1913, n. 821, introduceva un rimborso spese di corrispondenza di lire duecento annue più un compenso annuo di quattromila lire da corrispondere ai parlamentari non godenti stipendi o pensioni, oppure la differenza da tale cifra degli eventuali stipendi o pensioni. Questione lungamente, a varie riprese, dibattuta ma non risolta restò invece quella della trasformazione del Senato in organo più concretamente “rappresentativo”, cioè elettivo. Sebbene di estrazione parlamentare, i governi (in nome del re) più volte esercitarono sul Parlamento pressioni e rappresaglie mediante la chiusura o le anche lunghe proroghe e con la minaccia, tutt'altro che campata in aria, di scioglimento ed elezioni. Salvo un'effimera, brevissima, parentesi il Paese è stato sempre governato da deputati e i governi hanno tutti riscosso, sino al momento di rassegnare le dimissioni, la fiducia delle Camere. La tradizione inglese del capo della maggioranza che diventa capo del governo è stata quasi sempre puntualmente rispettata. Ciò spiega la scarsa volontà delle Camere di promuovere un effettivo controllo sul Governo. In circostanze eccezionali la prassi parlamentare è andata invece, al di là delle comuni regole procedurali, opponendo alle iniziative governative ostacoli tecnici di varia indole, lungaggini, proteste, interventi irrituali di vario genere (clamoroso, per esempio, l'ostruzionismo opposto al presidente del consiglio Pelloux nel 59 giugno 1899). A ragione, pertanto, la vita politica veniva intesa da tutti come «regime parlamentare» anche quando governo e parlamento venivano ai ferri corti. Le elezioni del 1913, malgrado l'adozione del “suffragio universale”e l'abbandono, dopo il “patto Gentiloni” da parte della Chiesa della politica del «Non expedit», cioè del divieto ai cattolici di partecipare alle elezioni, aprivano queste ultime a nuove ed ingenti masse di elettori, ma furono ben lontane dal portare alla Camera una maggioranza omogenea o almeno coerente: sui cinquecentootto deputati, ben duecento erano estranei ad ogni preciso schieramento politico e l'estrema sinistra era molto aumentata ed ancor più aggressiva. La Camera, perciò, era come l'opinione pubblica agitata da contrasti: un ulteriore sconvolgimento fu provocato dallo schieramento a favore o contro l'intervento nella prima guerra mondiale, attuato faticosamente nel maggio 1915, In un'atmosfera quanto mai turbolenta e piena di contraddizioni, le Camere conferivano, il 20 maggio, al Governo presieduto da Antonio Salandra, i pieni poteri, ossia la «facoltà, in caso di guerra e durante la medesima, di emanare disposizioni aventi vigore di legge, per quanto sia richiesto dalla difesa dello Stato, della tutela dell'ordine pubblico e da urgenti e straordinari bisogni dell’economia nazionale», come pure quella di «esercitare provvisoriamente i bilanci». Sembrò la fine del regime parlamentare. I governi fecero, nel corso della guerra, uso indiscriminato dei decretilegge, persino in materia fiscale (sebbene l'art. 30 dello Statuto albertino stabilisse che nessun tributo poteva essere imposto o riscosso se non fosse stato consentito dalle Camere). 60 La perdita di credito, e di peso, elettorale, dell'antica classe dirigente, di destra e di sinistra, l'epidemia inarrestabile degli scioperi e delle agitazioni operaie, la debolezza dei Governi e l'adozione, nelle elezioni del 1919, del sistema proporzionale e il dilagare della violenza politica resero, o fecero ritenere, 1'Italia ingovernabile. La lotta politica, ormai esplosiva, trovò forse nuovo alimento nell’agosto del 1920, nella riforma del regolamento della Camera dei deputati, con la trasformazione dei raggruppamenti, o “uffici” sino ad allora esistenti in altri, composti dei rappresentanti, anch'essi proporzionalmente eletti, dei vari partiti: ciò mise in atto, per la prima volta, un diretto ed efficace controllo dell'attività del Parlamento da parte, appunto, di questi. Il Parlamento sembrava diventato, ormai, né più né meno di un comitato politico avente per unico fine di creare e rovesciare i governi. Iniziato e salutato da molti come restauratore dell'ordinamento costituzionale e, poi, perpetuato e consolidato in ordinamento, o regime, totalitario, il governo fascista sembrò, nei primi anni della sua attività, rimettere tutto in sesto e realizzò, tra l'altro, varie riforme da tempo domandate. Sdegnoso dei «ludi cartacei», e cioè del suffragio elettorale, esso non mancò, tuttavia, di occuparsi anche di essi, introducendo, sul finire del 1923, a proprio uso e consumo, la norma (1egge 18 novembre 1923, n. 2444) per cui alla lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti - non meno, però, del venticinque per cento - nel collegio unico nazionale sarebbero spettati i due terzi del numero dei deputati. Conseguentemente, e successivamente, le due Camere furono, con una serie di artifici, inquadrate tra le istituzioni “fasciste” e subordinate non solo al “capo del governo-capo del fascismo” ma anche al “Gran Consiglio 61 del Fascismo”. La legge 24 dicembre 1925, n. 2263 stabiliva che «nessun oggetto può esser messo all'ordine del giorno delle Camere, senza l'adesione del capo del Governo». La stessa legge, dicendo, all'art. 2, che il Capo del Governo era nominato e revocato dal Re e rispondeva verso di lui dell'indirizzo generale politico del Governo, estrometteva implicitamente dal sistema la sanzione del voto di fiducia delle Camere. A coronamento di tale politica, la legge 17 maggio 1928, n. 1019 ribadiva il collegio elettorale unico nazionale e riduceva il numero dei deputati a quattrocento; attribuiva la scelta dei candidati da votare alle organizzazioni di categoria e l'approvazione di tale lista al Gran Consiglio; limitava la pronuncia degli elettori ad un, plebiscitario, «sì» oppure «no». La riforma toccava anche il Senato, togliendogli la facoltà (della quale del resto aveva cessato di fare uso) di designare al Re la persona del suo presidente. Con la 1egge 19 gennaio 1938, n. 129, approvata per acclamazione, cioè senza discussione, dai due rami del Parlamento, la Camera dei deputati veniva sostituita da una «Camera dei fasci e delle corporazioni», di membri non più eletti ma proclamati dall’alto. Per l’art. 16 di essa, salvo i disegni di legge di carattere costituzionale, di deleghe legislative, di esame e approvazione di bilanci, tutti gli altri provvedimenti dovevano essere sottoposti alla decisione delle commissioni legislative delle due Camere. A pochi giorni di distanza dal 25 luglio, con regio decreto 2 agosto 1943, n. 705, la Camera dei fasci e delle corporazioni era sciolta. È notevole però la formula: «La XXX legislatura è chiusa», che inseriva quel ciclo di vita parlamentare affatto atipico nella serie ordinaria delle legislature del Regno. Relativamente al Senato, si ebbe a lungo una situazione di incertezza giuridica per quanto riguarda la permanenza se non 62 delle sue attribuzioni (il decreto del '43 prevedeva la convocazione di una nuova Camera entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra e implicitamente confermava il pieno diritto della seconda Camera), di una cittadinanza nell'ordinamento che, specialmente dopo il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, che abrogava la statuizione relativa alla nuova Camera per prevedere l'elezione di un'Assemblea Costituente «per deliberare la nuova Costituzione dello Stato» diede luogo a curiose controversie politiche e poi anche giudiziarie. Tuttavia a poche settimane di distanza il Governo Bonomi, nato dal compromesso fra 1a Corona e i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), provvedeva a invitare uno dei Presidenti della Camera prefascista, Vittorio Emanuele Orlando, ad assumere i poteri presidenziali a norma dell'art. 16 del suo Regolamento interno considerato, dunque, vigente. Era posto così il primo pilone del ponte di continuità che si voleva ricollegasse le nuove all'antica Assemblea. Con successivo decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1946, n. 146, veniva istituita la «Consulta nazionale» con compiti di affiancamento consultivo del Governo. Le nomine a consultore avvennero fra tre categorie: designati dai maggiori partiti politici antifascisti; esponenti di categorie e organizzazioni sindacali, culturali e di reduci; ex parlamentari antifascisti, ai quali poi si aggiunsero antichi ministri, sottosegretari ed alti commissari di governo dell'età prefascista. Specialmente quest'ultima categoria è da considerare, perché la sua autorità ed esperienza risultò per più punti, decisiva nel configurare la nuova tradizione politicoparlamentare democratica. Molti fra questi consultori vennero rieletti alla Costituente e nelle prime Camere repubblicane, altri entrarono a far parte, 63 quali membri di diritto, del Senato della Repubblica per gli anni 19481953. Si attuò per questa via un’ulteriore saldatura di generazioni, che dava un contenuto concreto alla riaffermata continuità parlamentare. È ancora notevole il fatto che la Consulta, nonostante contrasti e rimostranze in ordine all'esame consultivo in sede di Commissione (e cioè, nuovamente, in sede non pubblica) dei progetti per i quali il suo parere era obbligatorio, avesse dieci Commissioni permanenti. La esperienza di queste Commissioni forma un importantissimo precedente sia rispetto alle Commissioni dell'Assemblea Costituente che, restando riservati per quasi tutte le materie i poteri legislativi al Governo, diedero però vita ad una forma di legislazione sostanzialmente concertata fra Commissioni e Governo; sia, soprattutto, alle ristabilite Commissioni permanenti del Parlamento repubblicano, che non ebbero, come nel 1922, attribuzioni puramente consultive ma, come nel 1939, attribuzioni legislative. Per il momento, la Consulta si limitò a porre in essere forme sperimentali ed empiriche di attività: furono riservate all’Aula, ad esempio, le leggi elettorali mentre restava affidata alle Commissioni la più minuta legislazione finanziaria; per i bilanci dello Stato si fece ricorso all'esame consultivo congiunto da parte della Commissione competente per lo specifico Ministero e di quella Finanze e Tesoro. Le Commissioni potevano in ogni caso chiedere al Governo di deferire all'Assemblea plenaria la discussione in ordine a dati pareri, ma di fatto non si avvalsero mai di tale facoltà. Per quanto riguarda i servizi, il decreto legislativo luogotenenziale 31 agosto 1945, n. 539, stabilì che «La Consulta, per il suo funzionamento, si avvale dei locali e dei servizi della Camera dei deputati. Agli eventuali 64 servizi che non possono essere prestati dalla Camera, provvede il Ministero per la Consulta nazionale» (art. 13), fermi restando i poteri del Presidente della Camera dei deputati, V.E.Orlando. In relazione a tale disposizione, un apposito stanziamento doveva figurare nel bilancio del Ministero per la Consulta nazionale, appena istituito con il compito di elaborare e promuovere l'emanazione delle norme giuridiche regolanti la Consulta nazionale, e di «predisporre ed attuare le misure necessarie per la costituzione e il funzionamento della Consulta, provvedendo all'organizzazione dei relativi servizi tecnici ed amministrativi» (art. 2 decreto legislativo luogotenenziale 31 luglio 1945, n. 443). Di fatto, il ministro per la Consulta venne ad assumere un ruolo sotto più aspetti simile a quello del ministro senza portafoglio per i rapporti con il Parlamento fiorito poi in periodo repubblicano, seppure per il brevissimo periodo fino al dicembre dello stesso anno, quando venne costituito presso la Presidenza del Consiglio un apposito «Ufficio per le relazioni con la Consulta nazionale». Va da ultimo ricordato che in periodo repubblicano si sono avute varie proposte tendenti a riconoscere la Consulta, per il contributo da essa dato all'opera legislativa del primissimo dopoguerra, quale prima legislatura della Repubblica. Fra l'altro, su relazione di V. E. Orlando, essa approvò con 172 voti contro 50 lo schema di decreto legislativo De Gasperi sul referendum istituzionale e l'attribuzione dei poteri normativi al Governo per la durata dell'Assemblea costituente e la disciplina di quest’ultima. La relazione alla proposta di legge presentata a riguardo nel ventennale della Consulta, il 20 aprile 1965, da esponenti dei principali gruppi politici della Camera, così motiva conclusivamente: «È giusto e 65 degno che in quest’anno, ventesimo dalla Liberazione, il Parlamento repubblicano dia atto della natura e delle funzioni di quella prima assemblea popolare, ricollegandola formalmente, come idealmente e storicamente essa è collegata, alle successive Assemblee parlamentari della Repubblica». 66 INTRODUZIONE STORICA ALLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA NEI LAVORI PREPARATORI SOMMARIO: 1. L’istituzione dell’Assemblea Costituente. – 2. L’organizzazione interna dei lavori. – 3. Il progetto di Costituzione nei lavori preparatori. – 4. La relazione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana. 1. - L'articolo 1 del Decreto Legislativo Luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, stabilì: «Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che a tale fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, un'Assemblea Costituente per determinare la nuova Costituzione dello Stato». Nell'autunno del 1945 furono istituiti, in correlazione con questa disposizione, la Consulta Nazionale e il Ministero della Costituente. La prima fu un organo consultivo per la legislazione ed elaborò le norme per la elezione dell'Assemblea Costituente che il Governo poi emanò con il Decreto Legislativo Luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 (1) ; mentre i1 secondo ebbe il compito specifico di predisporre un ampio materiale di consultazione per i deputati alla Costituente. Il 2 giugno 1946 furono Prolusione tenuta, in occasione dei “Quarant’anni della Costituzione della Repubblica italiana” 1948 – 1988, ai Corsi per gli Ufficiali dell’Aeronautica Militare presso la Scuola di Guerra Aerea – Scuola di Applicazione A.M. – Firenze, Anno Accademico 1987 – 1988. (1) Fu emanato anche il D. L. L 16 marzo 1946; n. 98, che affidò ad un referendum popolare ogni decisione sulla forma istituzionale dello Stato e dettò norme sulla delegazione al Governo, durante il periodo della Costituente e .fino alla convocazione del Parlamento, del potere legislativo ordinario. 67 convocati i comizi per deliberare, mediante referendum, sulla forma istituzionale dello Stato e per eleggere i deputati alla Costituente. L'Assemblea Costituente si riunì per 1a prima volta il 25 giugno 1946. Il Governo non presentò all'Assemblea un vero e proprio progetto di Costituzione, ma si limitò a dar conto degli studi eseguiti dal Ministero della Costituente con una serie di pubblicazioni nelle quali tuttavia non di rado furono elaborati schemi di norme costituzionali. 2. - Apparve subito necessario che l'Assemblea fosse chiamata a discutere, nelle sue riunioni pubbliche, sopra un progetto di Costituzione organico e articolato. Fu nominata pertanto una Commissione per la Costituzione, per la redazione di uno schema, che l'Assemblea avrebbe poi esaminato con discussione generale, con discussioni generali parziali sui vari titoli e con discussioni articolo per articolo. La Commissione per la Costituzione, composta di 75 deputati scelti su designazione dei vari Gruppi parlamentari in modo da rispecchiarne la proporzione, fu nominata dal Presidente dell'Assemblea, on. Giuseppe Saragat, e la sua composizione, approvata dall'Assemblea, fu la seguente: Ruini, Tupini, Ghidini, Terracini, Perassi, Grassi, Marinaro, Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Ganevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Fa- rini, Maria Federici, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Angela Gotelli, Grieco, Leonilde Iotti, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Giovanni Leone, Lombardo, Lucifero, Lussu, 68 Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Lina Mer1in, Umberto Merlin, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Teresa Noce, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Paolo Rossi, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti e Zuccarini. Fecero pure parte pro tempore della Commissione dei 75 i deputati: Amendola, Assennato, Caristia, Corbi, Giovanni Lombardi, Maffi, Patricolo, Vanoni, Micheli, Caronia, D'Onofrio, Bettiol, Giolitti, Molinelli, Vito Reale, Cortese, Storchi e Condorelli. Nella sua prima riunione (20 luglio 1946) la Commissione elesse suo presidente l’on. Meuccio Ruini, allora presidente del Consiglio di Stato; vicepresidenti gli on. Tupini, Ghidini e Terracini; segretari gli on. Perassi, Grassi e Marinaro. La Commissione procedette nei suoi lavori suddividendosi nel modo seguente: PRIMA SOTTOCOMMISSIONE: Diritti e doveri dei cittadini: Tupini, presidente; Grassi, segretario; Amadei, Basso, Cevolotto, Corsanego, De Vita, Dossetti, Angela Gotelli, Leonilde Iotti, La Pira, Lucifero, Mancini, Marchesi, Mastrojanni, Umberto Merlin, Moro e Togliatti; SECONDA SOTTOCOMMISSIONE: Ordinamento costituzionale della Repubblica: Terracini, presidente; Perassi, segretario; Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri, Farini, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Giovanni Leone, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Paolo Rossi, Targetti, Tosato, Uberti e Zuccarini. 69 Prima Sezione: Potere esecutivo: Terracini, presidente; Perassi, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Piccioni, Paolo Rossi, Tosato e Zuccarini. Seconda Sezione: Potere giudiziario: Conti, presidente; Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cannizzo, Cappi, Di Giovanni, Farini, Laconi, Giovanni Leone, Mannironi, Porzio, Ravagnan, Targetti e Uberti. TERZA SOTTOCOMMISSIONE: Diritti e doveri economico-sociali: Ghidini, presidente; Marinaro, segretario; Canevari, Colitto, Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Maria Federici, Giua, Lombardo, Lina Merlin, Molè, Teresa Noce, Paratore, Pesenti, Rapelli, Taviani e Togni. L'autonomia regionale, prima di essere discussa e deliberata dalla seconda Sottocommissione, fu esaminata e redatta in articoli da un Comitato di dieci deputati, facenti parte della Sottocommissione stessa, presieduto dall'onorevole Gaspare Ambrosini. Le Sottocommissioni e le Sezioni lavorarono separatamente, con l'intesa di sottoporre poi le norme rispettivamente formulate alla Commissione dei 75 in adunanza plenaria. Durante i lavori, tuttavia, sorse un conflitto di competenza fra la prima e la terza Sottocommissione, che vollero entrambe occuparsi della parte economico-sociale; se ne occuparono infatti e a un certo punto si ebbero due progetti, non troppo contrastanti. Fu allora nominato un Comitato di coordinamento, per unificare i due testi. Allorché la materia fu portata all'esame della Commissione dei 75, parve necessario evitare che tutto fosse rimesso in discussione. Risultò anche 70 che non poche erano le discordanze sostanziali e formali fra i vari testi e difficilmente eliminabili con la richiesta rapidità in una Commissione troppo numerosa. La Commissione dei 75 affidò allora l'incarico di coordinare le formulazioni approvate dalle Sottocommissioni e dalle Sezioni e di redigere un progetto organico e unitario a un Comitato di diciotto suoi membri. Questo Comitato, che fu detto Comitato di redazione o anche Comitato dei 18, approntò il progetto, suddividendo tutta la materia in modo organico, in parti, in titoli, in sezioni; coordinando tutti gli articoli, approvati in sede di Sottocommissione e di Sezione, che furono ridotti da 199 a 131, più nove disposizioni finali e transitorie, con numerazione separata. Il Comitato di redazione ebbe poi l'incarico di rappresentare tutta la Commissione dei 75 di fronte all'Assemblea Costituente durante gli otto mesi di discussione pubblica. Esso fu inizialmente così composto: Ruini, presidente; Tupini, Terracini, Ghidini; presidenti delle Sottocommissioni; Perassi; segretario; Grassi, Marinaro, Ambrosini, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Dossetti, Fanfani, Fuochini, Grieco, Moro, Paolo Rossi e Togliatti. Alcuni di questi deputati divennero successivamente ministri e cedettero il posto ad altri; altri si dimisero. Sicché fra i deputati che hanno fatto parte, prima o poi, del Comitato dei 18 vi furono anche: Mortati, Laconi, Vito Reale, Targetti, Lucifero, Condorelli, Giovanni .Leone, Colitto, Fausto Gullo, Tosato, Conti e Giolitti. Allorché il progetto di Costituzione fu approntato dal Comitato di redazione, ne fu investita la Commissione dei 75, che vi apportò lievi modificazioni, approvando la grandissima parte dell'operato dei 18. 71 Quindi il progetto, il 31 gennaio 1947, fu presentato all'Assemblea Costituente, accompagnato da una relazione dell'on. Ruini. 3. - Il progetto di Costituzione rimase all'ordine del giorno dell'Assemblea dal 4 marzo al 22 dicembre 1947. Diresse le discussioni il presidente on. Umberto Terracini. Le norme furono votate dall'Assemblea con la riserva (talvolta esplicita, talvolta sottintesa) del coordinamento finale, il quale fu affidato al Comitato di redazione, che vi attese nelle ultime settimane. Nella seduta antimeridiana del 22 dicembre l'Assemblea prese in esame i1 testo finale coordinato e risolse con votazione gli ultimi punti controversi. La Costituzione fu approvata con votazione complessiva e finale nella seduta pomeridiana dello stesso 22 dicembre; fu promulgata il 27 dicembre e, per la XVIII disposizione finale, entrò in vigore il l° gennaio 1948. La formula per la promulgazione fu la seguente: « Il Capo provvisorio dello Stato, vista la deliberazione dell'Assemblea Costituente, che nella seduta del 22 dicembre 1947 ha approvato la Costituzione della Repubblica Italiana; vista la XVIII disposizione finale della Costituzione; promulga la Costituzione della Repubblica Italiana nel seguente testo: (segue il testo). La Costituzione, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica. La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato. Data a Roma, addì 27 dicembre 1947. Firmato ENRICO DE NICOLA. Controfirmano: il presidente dell'Assemblea 72 Costituente UMBERTO TERRACINI; il presidente del Consiglio dei ministri ALCIDE DE GASPERI ». L'Assemblea tenne 347 sedute: 128 antimeridiane e 219 pomeridiane, delle quali ultime 22 con prolungamento serale e notturno. Alla Costituzione furono dedicate 170 sedute e le rimanenti 177 ad altre materie: il periodo di diretta elaborazione della Costituzione cominciò il 4 marzo 1947 e si protrasse sino al 22 dicembre con complessive 272 giornate lavorative. Sui 140 articoli del progetto furono presentati 1663 emendamenti, dei quali 292 approvati, 314 respinti e 1057 ritirati o assorbiti; gli emendamenti furono inegualmente ripartiti fra le singole parti del progetto, talché su tre articoli soltanto non si ebbero emendamenti; su 18 se ne ebbe uno solo, mentre il massimo di 102 emendamenti si ebbe sull'articolo 109 del progetto (potestà legislativa della Regione). Durante la discussione parlarono 275 oratori, con un complesso di 1090 interventi; furono approvati 15 ordini del giorno e si ebbero, sulle questioni più controverse, 23 votazioni per appello nominale, 43 a scrutinio segreto, mentre 3 votazioni furono rimandate per mancanza del numero legale. Di tutte le discussioni in aula furono redatti un resoconto stenografico e un resoconto sommario; di quelle nelle Sottocommissioni, Sezioni e Commissione dei 75 ampi resoconti sommari. Il Comitato di redazione (dei 18) e i1 Comitato speciale per le autonomie locali (dei 10) non fecero alcun verbale o resoconto delle sedute. 73 4. - La Costituzione comincia con dodici articoli posti sotto l'intitolazione «Principi fondamentali». Non si tratta di un preambolo, in quanto l'Assemblea non volle accedere al concetto del preambolo, poiché temette che esso avrebbe potuto dar luogo a una graduatoria di valori fra le norme relegatevi e quelle contenute nel vero e proprio testo costituzionale. Nei Principi fondamentali sono state raccolte dal Comitato di redazione alcune norme che per il loro carattere «generalissimo», secondo il termine usato dal presidente on. Ruini, non avrebbero potuto trovare sede adeguata in uno dei titoli in cui 1a Carta costituzionale si suddivide e d'altra parte, appunto per questo loro carattere, valgono a delineare - come fu ripetutamente detto in Assemblea - il «volto della Repubblica ». La Costituzione si divide poi in due parti. La Parte prima, intitolata «Diritti e doveri del cittadino», è così suddivisa: Titolo I: Rapporti civili; Titolo II: Rapporti etico-sociali; Titolo III: Rapporti economici; Titolo IV: Rapporti politici. La Parte seconda si intitola «Ordinamento della Repubblica» ed é così suddivisa: Titolo I: Il Parlamento; Titolo II: II Presidente della Repubblica; Titolo- III: Il Governo; Titolo IV: La Magistratura; Titolo V : Le Regioni, le Province, i Comuni; Titolo VI: Garanzie costituzionali. Seguono, quindi, diciotto disposizioni transitorie e finali. Nella ripartizione della materia della Parte prima il Comitato di redazione ha seguito un determinato sviluppo concettuale, che può dirsi ispirato a1 criterio della socialità progressiva. Nel primo Titolo infatti il cittadino è visto nella sua individualità, pur nel quadro della società della quale fa parte; nel secondo Titolo si considerano i primi e più elementari rapporti del cittadino con la comunità (diritti e doveri in rapporto alla famiglia 74 e alla scuola); nel terzo Titolo si considera la sfera, già più ampia, del mondo economico; nel quarto Titolo quella, più estesa, del mondo politico. Quivi termina la Parte prima e, con perfetta sutura ideologica, comincia la Parte seconda, che disciplina l'organizzazione statale unitaria della società. Il problema base che il costituente fu chiamato a risolvere fu quella della titolarità della sovranità, che si presentò naturalmente connesso con quello della suddivisione dei poteri (nella Costituzione si è preferito parlare di funzioni) e del loro equilibrio in modo da rendere effettiva l’affermazione contenuta nel primo articolo, per cui l'Italia è una «Repubblica democratica». L'impostazione e la risoluzione che a questi problemi furono date, dopo elaboratissimi dibattiti, dalla Commissione dei 75, e particolarmente dalla seconda Sottocommissione, nel progetto di Costituzione, rimasero pressoché immutate anche nel corso della maggior discussione fattane in Assemblea. Giova quindi cedere la parola al presidente della Commissione per la Costituzione, o n . R u i n i , i l q u a l e n e l l a relazione a1 progetto così si espresse: «I problemi dell'ordinamento costituzionale sono così complessi, che non è dato risolverli con qualche formula breve. Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo, che è l'organo essenziale della nuova Costituzione. Anche se non ha la continuità di funzionamento e la personalizzazione più concreta degli altri organi, è la forza viva cui si riconduce ogni loro potere; l'elemento decisivo, che dice sempre la prima e l'ultima parola. Per la sua struttura universale e fluente, non può direttamente legiferare e governare; ormai neppure nella minuscola ed arcaica Landesgemeinde cara a Rousseau. 75 La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell'elezione del Parlamento e nel referendum. E poiché anche il referendum si inserisce nell'attività legislativa del Parlamento, il fulcro concreto dell'organizzazione costituzionale è qui, nel Parlamento, che non è sovrano di per se stesso, ma è l'organo di più immediata derivazione dal popolo e come tale riassume in sé la funzione di fare le leggi e di determinare e dirigere la formazione e l'attività del governo. I1 Parlamento non può, neppur esso, governare direttamente e la sua prerogativa di legislazione dà luogo, oggi, a difficoltà pratiche; per la dilatazione dei compiti statali, che richiede moltissime leggi, non a torto si è osservato che il Parlamento rischia di non poter neanche legiferare, se non attua, per così dire, un decentramento legislativo, che - stabiliti i principi base con « leggi cornici » - ne deleghi le norme di integrazione e attuazione anche ad organi nuovi quali i Consigli regionali ed il Consiglio economico nazionale. La posizione preminente del Parlamento non toglie che gli altri organi costituzionali abbiano funzioni e, quindi, poteri propri. Il Capo dello Stato è regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri ed organi dello Stato, compreso il Parlamento. Né il «potere esecutivo», che spetta al Governo, è di mera esecuzione; è piuttosto il «potere attivo», che, pur svolgendosi nei limiti tracciati dalla legge, deve avere iniziative ed autonomia, per provvedere, come è suo compito, ai bisogni che sono condizione preliminare ed originaria della vita dello Stato. A tal fine il Governo si vale dell'apparato amministrativo e lo dirige; ma non sono una sola ed identica cosa; e anche democraticamente giova che l'amministrazione abbia funzioni e responsabilità proprie e definite. Non occorre aggiungere quale 76 importanza abbia, per una sana democrazia, l'indipendenza della magistratura, che, come l'amministrazione, ha alla sua radice non il voto popolare, ma il concorso, né deve essere aperta all'influenza dei partiti. Se si tiene presente tutto ciò, si ha l'impressione della varietà e complessità dei problemi che vanno affrontati. Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: i1 pericolo di aprire l'adito a regimi autoritari e antidemocratici. Si sono a tale scopo evitati due opposti sistemi. Anzitutto: il primato dell'esecutivo, che ebbe nel fascismo 1'espressione più spinta. Non si può dire che appartenga a questo tipo il sistema presidenziale, che fa buona prova negli Stati Uniti d'America con un capo dello Stato che è anche capo del Governo e ha ampi poteri ma non sembra poter essere trasferito da noi, che non abbiamo la forma federale né altri elementi - d'equilibrio col Congresso, d'avvicendamento di due grandi partiti - che accompagnano quel sistema nella Repubblica della bandiera stellata. Vi è in Europa una resistenza irriducibile al governo presidenziale, per il temuto spettro del cesarismo, e anche per il convincimento (e noi non dobbiamo abbandonarlo, ma valorizzarlo) che il Governo di gabinetto abbia diretta radice nella fiducia parlamentare. Si è d'altra parte evitato il pericolo di mettersi nel piano inclinato del Governo d'assemblea. Ha l'apparenza d'un sillogismo la tesi che, poiché la sorgente di sovranità è unica, nel popolo, ed unica deve esserne la delegazione, ogni potere si concentra nel Parlamento e gli altri organi, il Governo, il capo dello Stato, la magistratura, ne sono il comitato o i commessi e agenti d'esecuzione. Si nega con ciò la possibilità di forme 77 molteplici e diverse di espressione della sovranità popolare; e si lascia cadere quel tessuto costituzionale di ripartizione ed equilibrio dei poteri, che - anche se la formula di Montesquieu è in parte superata - ha costituito una conquista ed un presidio di libertà. Il Governo d'assemblea - lo dice Robespierre - non può essere che di momenti eccezionali e rivoluzionari; bisogna, quando è possibile, e noi aneliamo alla normalità, instaurare un «regime costituzionale», a cui Robespierre aspirava, al di là della Convenzione. « Un Governo d'assemblea - dice Proudhon - è non meno temibile del Governo d'un despota; vi è, dippiù, che manca la responsabilità». Il progetto italiano, allacciandosi alla realtà europea, mantiene il sistema parlamentare o di gabinetto; ed eliminando residui e riflessi di eredità monarchica, lo svolge in un quadro di più piena democrazia». Sul Titolo V della Parte seconda l'on. Ruini scrisse nella sua relazione al progetto: «L'innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell'ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese. Il Comune: unità primordiale; la Regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione e i Comuni. Mazzini, il più grande unitario del Risorgimento, era per la Regione; e si incontrava con la proposta di più caute forme di decentramento in Cavour e nei politici della sua scuola. Sarebbe stato naturale e logico che all'atto dell'unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati»; e si svolse irresistibilmente i1 processo accentratore. È oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti e 78 anche i vantaggi; molti dei malanni d'Italia si attribuiscono all'accentramento, in ispecie pel Mezzogiorno; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia. Certo si è che oggi assistiamo - e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto - ad un fenomeno inverso a quello del Risorgimento, e sembra anch'esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il Governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulla cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di se medesimi». La tendenza si collega alle rivendicazioni di libertà, che sono la grande nota di questo momento storico: di tutte le libertà, anche degli enti locali come «società naturali». Riecheggia più viva, in questa atmosfera, l'affermazione di Stuart Mill che nelle autonomie locali si ha un «ingrandimento della persona umana» e che «senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero, ma non lo spirito della libertà». Vi è bensì, nel momento attuale, un'altra tendenza all'ampliarsi, più che al rimpicciolirsi, delle formazioni statali; e ai loro collegamenti in complessi internazionali; si sostiene che a ciò deve accompagnarsi, per l'equilibrio, il decentramento interno; e anche gli autonomisti riconoscono la necessità di non intaccare l'unità politica di un Paese, che fu, come il nostro, lacerato e indebolito. Altra tendenza ancora, alla quale assistiamo, dopo aver visto l'influenza e la miseria di chiuse economie locali, è la ricostruzione di ampi mercati; si sostiene che ad essi potrà meglio riallacciarsi l'iniziativa regionale; e il desiderio d'autonomia, più vivo nel Mezzogiorno, si basa sulla convinzione di danni e sfruttamenti da parte di 79 altre regioni; né senza l'esperimento autonomistico si potranno conoscere le realtà e le possibilità effettive. La Commissione è stata unanime per l'istituzione della Regione. Questa non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge lo statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L'autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa, ma si arresta prima della soglia federale e si attiene a1 tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini. Nell'atto di dare i1 via a così rilevante riforma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celate le complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basta pensare all'autonomia finanziaria, non agevole a congegnarsi, e che non potrà fare a meno d'un riparto delle imposte che implichi un contributo di solidarietà delle Regioni provviste di maggiori mezzi a quelle che con le proprie risorse non sarebbero in grado di adempiere i loro servizi essenziali. Pericolo da evitare è che, mentre si tende ad un alleggerimento della macchina amministrativa, i1 decentramento non dia origine ad una nuova moltiplicazione di burocrazia nelle Regioni, senza toccare quella centrale». Sempre nella relazione Ruini leggesi, sul Titolo VI della Parte seconda: «Carattere comune delle costituzioni moderne è di essere rigide. La modificabilità continuata, e quasi inavvertita, poté sembrare un giorno vantaggio e conquista della democrazia; ma ha dato disastrosi risultati nel tempo fascista; e oggi la coscienza politica, vigile e sospettosa, reclama la difesa delle libertà sancite nella Costituzione e vuole che, nella gerarchia delle norme, quelle costituzionali abbiano valore preminente, ed istituti e 80 procedimenti particolari siano di salvaguardia contro le violazioni da parte dello stesso Parlamento. Istituto nuovo è la Corte costituzionale; e scarsi ne sono i precedenti e le prove, così che non è facile risolvere i suoi problemi. Non è stata accolta l'idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale, ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria. E’ sembrato opportuno un organo speciale e più alto, come custode della Costituzione. E anche per i1 procedimento di revisione costituzionale si sono adottati i criteri più semplici, senza ricorrere ai sistemi dell'approvazione in due legislature successive o dello scioglimento automatico delle Camere dopo che abbiano approvato la revisione in prima lettura. Vi dovranno essere due letture, e con un sensibile intervallo («pensarci su»), nella stessa legislatura. Potrà il popolo promuovere il referendum; ma, quando la proposta di revisione abbia ottenuto il voto di due terzi dei deputati e di due terzi dei senatori, sarà senz'altro definitiva. Se la Costituzione deve essere rigida, una troppo macchinosa e complicata procedura di revisione ostacolerebbe il cammino a un completamento dell'edificio costituzionale, che vogliamo sia nelle sue grandi mura definitivo e abbia vita di secoli; ma potrà essere necessario rimettervi le mani, negli sviluppi, non ancora esattamente prevedibili, dei sistemi costituzionali». Seguono quindi, con numerazione separata, diciotto disposizioni transitorie e finali, delle quali la XII (divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista), la XIII (Casa Savoia), la XIV (titoli nobiliari), la XV (conversione in legge del Decreto Legislativo Luogotenenziale 25 giugno 1944, n.151, sull'ordinamento provvisorio 81 dello Stato) e XVIII (promulgazione ed entrata in vigore della Costituzione) sono finali, le altre transitorie. Particolarmente le disposizioni transitorie VII e XVI sono dirette ad evitare fratture e contrasti nel sistema giuridico: la VII proroga le vigenti norme dell'ordinamento giudiziario fino alla emanazione (per la quale non si pone alcun termine) della nuova legge conforme con la Costituzione e stabilisce inoltre che fino all'entrata in funzione della Corte costituzionale la decisione delle controversie attribuite dalla Costituzione alla competenza di questo argano ha luogo nelle forme e nei limiti dell’ordinamento giurisdizionale in atto; la XVI stabilisce che nel termine di un anno dall'entrata in vigore della Costituzione si deve procedere alla revisione e al coordinamento con essa delle precedenti leggi costituzionali che non siano finora esplicitamente o implicitamente abrogate. In queste due disposizioni transitorie, mentre si fissa al potere legislativo il termine di un anno per l'adattamento alla Costituzione delle leggi costituzionali e preesistenti e nessun termine per l'adattamento della legge sull'ordinamento giudiziario, si tace per l'adattamento delle altre leggi preesistenti, non costituzionali e non giurisdizionali, per quelle disposizioni in esse contenute che siano in contrasto con norme della Costituzione. Durante la discussione delle disposizioni transitorie non furono fatte proposte in merito. Il problema affiorò tuttavia nel corso delle discussioni generali su alcuni Titoli o su singole norme della Costituzione, fornendo anche occasione ai rappresentanti della Commissione e ad altri deputati di riflettere, più o meno esplicitamente, le teorie più correnti sul valore giuridico (applicabilità immediata o mediata, distinzione fra norme 82 imperative e norme costruttive, ecc.) delle disposizioni costituzionali in raffronto a quelle della legislazione ordinaria: problema d'altronde inerente a quella chiarificazione delle attribuzioni fra i vari organi costituzionali il cui processo è caratteristico dei periodi di transizione fra un vecchio e un nuovo ordinamento giuridico. Seppure sarebbe arduo ritenere totalmente raggiunta questa chiarificazione, sta di fatto che molti dubbi sono ormai caduti, sia perché accanto alle norme scritte si è venuta formando una valida prassi esplicativa ed integrativa, sia soprattutto per la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha, tra l'altro, risposto positivamente al quesito della dichiarabile incostituzionalità di norme giuridiche anteriori alla Costituzione. Infatti, l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana (in vigore dal 1° gennaio 1948 ed il cui testo è stato depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l’anno 1948, affinché ogni cittadino potesse prenderne cognizione – XVIII disposizione finale – ) non ha comportato l’abrogazione di tutte le norme costituenti il precedente ordinamento, essendo prevalsa nel dibattito politico, dottrinario e giurisprudenziale, la tesi della continuità dello Stato così come formatosi nel periodo risorgimentale (il regime fascista, infatti, si è formalmente sovrapposto all’ordinamento statutario senza abrogarlo esplicitamente). Pertanto agli organi legislativi, come – per altri versi e più tardi – alla Corte Costituzionale, si pose il problema di adeguare l’intero ordinamento ai nuovi principi affermati dalla Costituzione. In questo senso, e impropriamente, si può individuare un’ attuazione della 83 Costituzione come compito precipuo del legislatore e, in genere, di tutti gli organi costituzionali. Tale opera di adeguamento è stata lunga, complessa e non è ancora esaurita. 84 LE ORIGINI DELLA REPUBBLICA ITALIANA Da qualche anno l’Italia sembra prepararsi a un cambiamento fondamentale del suo assetto istituzionale e della sua vita civile: quello legato alla revisione della Carta costituzionale. Per comprendere l’importanza di un simile cambiamento, per vedere al di là di un dibattito spesso approssimativo e strumentale, è necessario però recuperare appieno il significato e la storia della nostra Costituzione. Nel racconto di Umberto Terracini, che fu presidente dell’Assemblea costituente, rivivono il travaglio e le discussioni che portarono all’elaborazione del dettato costituzionale, le passioni e le preoccupazioni di quell’epoca, l’impeto di rinnovamento che trovò nella Costituzione espressione e sostegno. Ed emerge, soprattutto, una rilettura lucida e autorevole del testo fondamentale della nostra Repubblica e del suo rapporto con la vita del paese. Non basta fare una buona Costituzione scritta se poi manca la volontà politica di applicarla. Secondo Terracini, è il popolo che deve imporre la volontà di applicazione della Costituzione. Ma spesso il popolo non la conosce, come accade, ad esempio, per la grande maggioranza dei giovani del nostro tempo. Forse qualcuno di loro leggerà questa lunga intervista(1) e noterà quello che fu chiamato allora lo spirito dell’Assemblea costituente: spirito che si rispecchia nella stessa Costituzione formale che, nonostante i (1) Si riporta uno stralcio della lunga intervista di Pasquale Balsamo ad Umberto Terracini nel 1977, in “Come nacque la Costituzione”, Roma 1997. 85 compromessi che qua e là appaiono con evidenza, nacque dal cervello di Giove tutta intera. I costituenti vollero una democrazia-partecipazione, vollero che il lavoro assumesse una rilevanza costituzionale da grande principio, anche in rapporto all’altro grande principio di eguaglianza, formale e sostanziale; vollero che protagonista della Costituzione – e questo si deve soprattutto a Giuseppe Dossetti – fosse la persona umana (il cittadino), garantita dalla più ampia sfera possibile delle libertà costituzionali. Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, per quanto fosse napoletano, non concedeva nulla all’esteriorità. Per questo i suoi giudizi sull’Assemblea e sull’operato di essa furono prevalentemente positivi e non era raro il suo compiacimento per le prove di equilibrio e di concretezza che il primo parlamento della Repubblica forniva di giorno in giorno a onore del popolo italiano. In quel periodo, contemporaneamente, sedeva a Parigi l’Assemblea costituente francese. Le due assemblee hanno avuto vicende diverse e diversissimi furono i risultati dei loro valori. Il testo di quella costituzione, tanto per fare un esempio, non fu neanche ratificato tento era lontano dalle aspettative del popolo francese. La Costituzione italiana, al contrario conteneva in sé tutte quelle “chiavi” che avrebbero aperto ai lavoratori (ai cittadini) più d’una porta. L’apprezzamento di De Nicola su questo punto era completo, senza riserve. Di questa atmosfera è permeata l’intera intervista. Umberto Terracini - severa figura morale che si imponeva a prima vista - parla a lungo dei lavori dell’Assemblea costituente e mostra sostanzialmente un’adesione ai principi fondamentali che alla fine emersero nelle votazioni a grandissima maggioranza. Penetranti restano 86 peraltro alcune delle sue critiche: ad esempio in punto di referendum popolare egli avrebbe voluto (e parlava nel 1978) una garanzia costituzionale in modo che quell’istituto non potesse diventare “oggetto di speculazioni politiche da parte di minoranze irresponsabili”. Per Terracini, giustissimamente, “democrazia è solo rispetto delle minoranze, non prevaricazione delle minoranze sulla maggioranza. Questa è dittatura”. All’ultima domanda dell’interlocutore Terracini risponde senza incertezza e le sue parole assumono un grande significato politico: “Solo se la Costituzione è attuata nella sua interezza la sovranità del popolo può integralmente affermarsi”. Questa lunga intervista con il senatore Umberto Terracini avvenne a più riprese, fra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno 1977, mentre la situazione del paese, pur fra ostacoli e difficoltà, subiva una delle svolte più importanti della sua storia repubblicana. Una storia repubblicana che era cominciata, legalmente, il 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, ma le cui radici erano già profonde e tenaci nella volontà del popolo sin dalla lotta antifascista, e quindi antimonarchica, e dalla resistenza. Si può dire che, di giorno in giorno, mentre l’intervista prendeva corpo, la stessa Costituzione ci appariva sempre più presente nel paese. Due dei dettami costituzionali più importanti rimasti fino a quei giorni completamente ignorati dai governi – quello della delega di poteri alle regioni e quello della democratizzazione delle forze armate – venivano affrontati e avviati a soluzione sulla base di un accordo: il primo dopo ventidue anni, fra Dc, Ppc, Psi, Psdi, Pri e Pli, i cui esponenti maggiori avevano ragionato e discusso tutti insieme intorno ad un tavolo per offrire all’Italia una via d’uscita dalla crisi economica e istituzionale; il secondo 87 dopo trent’anni con l’entrata in vigore della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare”. La lunga intervista con Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e confirmatario della Costituzione insieme con Enrico De Nicola, primo capo dello Stato repubblicano, e Alcide De Gasperi, presidente del consiglio dell’ultimo governo regio e del primo governo della repubblica, è spesso influenzata da domande provocatorie. Ecco, il punto è questo: individuare e approfondire i “perché no” e i “perché si” della nostra Costituzione. Il motivo conduttore dell’argomentazione di Terracini era, infatti, molto chiaro e semplice: non basta fare, sulla carta, la migliore Costituzione di questo mondo se poi manca la volontà politica di applicarla. Ebbene, questa volontà politica non la si può invocare come regalo da chi detiene i poteri economico e politico. La Costituzione fornisce un indirizzo, una guida e anche una garanzia. La Repubblica nasce dalla lotta antifascista e dalla guerra di liberazione. Il 25 luglio 1943, il successivo 8 settembre e il 25 aprile 1945 sono le tre date decisive che portano il popolo italiano al 2 giugno 1946. È quasi una somma aritmetica: caduta del fascismo più armistizio con gli anglo-americani e fuga della famiglia reale più insurrezione nazionale uguale Repubblica. La Repubblica matura il suo divenire nella rapida successione dei quattro eventi, ciascuno dei quali provoca il susseguente per trovare il naturale sbocco nel definitivo e radicale mutamento istituzionale. Chiedo a Terracini: tu credi che uno solo dei quattro eventi sarebbe stato sufficiente a convincere la maggioranza del popolo italiano ad abbattere quella monarchia sabauda che, storicamente, era pur 88 sempre stata considerata la fautrice dell'unità d'Italia? Il 25 luglio, da solo, non sarebbe servito a nulla. Anzi, avrebbe potuto contribuire a ridare alla monarchia un fulgore e un merito dei quali era, certamente, non degna. Ma il modo col quale il fascismo fu congedato, attraverso l'arresto di Mussolini e il passaggio alla creazione di un governo che accoglieva in sé solo parzialmente uomini o tradizioni mediate del fascismo, fece credere agli italiani che, in realtà, il merito della liquidazione del fascismo spettasse alla monarchia. In definitiva si conchiudeva un ciclo che era cominciato con una grande colpa della monarchia quando, nel novembre 1922, il re aveva incaricato Mussolini di formare il nuovo governo, rifiutandosi di firmare il decreto di stato d'assedio che persino Facta, l'uomo bonario e indulgente che si trovava allora a capo del governo, gli aveva portato da firmare al Quirinale. Comunque il fatto che il re aveva rifiutato lo stato d'assedio, spalancando così le porte di Roma e affidando a Mussolini la guida del governo, presentò automaticamente lo stesso re di fronte all'opinione pubblica come il primo e maggiore responsabile dell'avvento del regime fascista. Ma la gente semplice è portata a presto dimenticare. E il re, ancora una volta per un freddo e cinico calcolo, nel luglio 1943 compì il gesto di cacciare Mussolini, con lo scopo di riacquistare credito di fronte alle grandi masse popolari e anche per scuotere definitivamente il traballante ma non ancora caduto regime fascista. Di ciò le grandi masse popolari non potevano non tenere conto in quei primi giorni di «non fascismo». Le considerazioni della gente umile, incolta politicamente, erano tali da dimostrare verso il re una simpatia da riscattarlo dalla colpa del 1922. Ma la fuga dell'8 settembre verso Pescara con il governo 89 Badoglio e lo stato maggiore, e l'abbandono di Roma nelle mani tedesche fecero dissolvere di colpo l'aureola di gloria che aveva circonfuso la corona reale. Questo gesto deve essere considerato senza dubbio come il primo, timido avviamento verso l'instaurazione della repubblica. Una piccola digressione: mi accorgo che la data del 4 marzo ricorre per ben due volte nella vita costituzionale italiana: la prima è del 1848, quando il re Carlo Alberto elargì il suo Statuto; la seconda è di 99 anni dopo, quando l'Assemblea costituente da te presieduta cominciò in sedute plenarie l'esame del progetto repubblicano. Le coincidenze qui non c'entrano, ma questa data mi fornisce l'occasione per chiederti se il legislatore repubblicano non si sia lasciato influenzare, nella stesura della Costituzione, dal vecchio Statuto monarchico. A nessuno dei deputati costituenti è mai venuto in mente il benché più lontano richiamo allo Statuto, che restò lì, negli archivi, come remoto fantasma. Persino i deputati del gruppo liberale, del quale facevano parte molti vecchi nostalgici della monarchia, si sarebbero vergognati di richiamarsi a quello Statuto. Siamo così arrivati, dopo una lenta marcia di avvicinamento, del resto necessaria per inquadrare la Costituzione in un contesto realistico del momento storico, agli atti pratici che dovevano presiedere alla formulazione vera e propria della Carta repubblicana. Vuoi parlarci brevemente degli strumenti legislativi che resero possibili l'elezione e il funzionamento 90 dell'Assemblea costituente? La convocazione di un'Assemblea costituente fu immediatamente nella mente e nelle dichiarazioni ufficiali sia dei governanti, sia delle personalità politiche dopo la formazione del governo di Salerno, presieduto ancora dal maresciallo Badoglio. Fu lì che si cominciò a parlare concretamente dell'opera di creazione del nuovo Stato e della necessaria fase di passaggio. Il problema era decidere sulle competenze che sarebbero state di un'Assemblea costituente, perché si ponevano due questioni: la prima era quella di decidere sulla forma istituzionale. Nessuno pensò mai di poter evadere da questa necessità, dato che nessuno pensava di poter considerare, dopo quanto era successo, la monarchia come forma consacrata e indiscussa. La seconda era quella di porre le basi, e come, della nuova Carta costituzionale. Inizialmente si era pensato, in realtà, che si doveva eleggere l'Assemblea costituente che, come primo compito, avrebbe avuto quello della scelta istituzionale. Solo dopo questa scelta, l'Assemblea sarebbe passata all'elaborazione della legge fondamentale. Fu in un momento successivo, commisurando più a fondo la situazione e le prospettive, che i partiti arrivarono alla conclusione di scindere i due momenti: 1) dare al popolo la possibilità di scelta istituzionale con il referendum; 2) deferire all'Assemblea eletta dal popolo il compito di redigere la Costituzione. A tanti anni di distanza non afferro più la differenza fra il metodo adottato e quello proposto inizialmente. Un conto era eleggere un'Assemblea che avrebbe poi deciso a maggioranza la forma istituzionale dello Stato, un conto era riconoscere 91 solennemente al popolo la sua concreta sovranità nel decidere da se stesso, senza delegare questa decisione a terze persone per quanto da esso stesso designate o elette. Nel contempo, le nuove istituzioni sarebbero state così investite di una maggiore autorità proprio perché promananti direttamente dalla volontà espressa dal popolo. Prima di addentrarci oltre, vorrei ricapitolare i tempi di questo lavoro preparatorio. Il 4 giugno, la V Armata americana del generale Clark libera Roma. Automaticamente, secondo gli accordi presi a Salerno, il maresciallo Badoglio si dimette da capo del governo e Vittorio Emanuele III delega i propri poteri di capo dello Stato a suo figlio Umberto, che assume la qualifica di luogotenente generale del Regno. È Ivanoe Bonomi a formare il nuovo governo. Tra i suoi primi atti, diretti a rendere possibili le iniziative da te già illustrate, vi è il decreto legislativo luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944, il cui articolo 1 disponeva: «Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che a tale fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, un'Assemblea costituente per determinare la nuova Costituzione dello Stato». A guerra finita, infatti, siamo nel maggio 1945, si cominciano a gettare le basi degli strumenti pratici per l'attuazione del D.L.L. n. 151 del 1944. Nell'autunno, il governo dà vita al ministero della Costituente, affidato al socialista Pietro Nenni, per la preparazione di documenti-base e di materiale di consultazione per i futuri deputati, e alla Consulta nazionale, che, in mancanza di un parlamento eletto, è un organo rappresentativo di tutte quelle formazioni politiche che avevano praticamente partecipato alla Resistenza: 92 comunisti, socialisti, democristiani, azionisti, liberali e demolaburisti: 430 in tutto. È la Consulta, presieduta dal conte Carlo Sforza, a elaborare fra il 25 novembre 1945 e il 9 marzo 1946 tutte quelle proposte che saranno poi trasformate in decreti legislativi luogotenenziali per l'elezione dell’Assemblea costituente (D.L.L. n. 74 del 10 marzo 1946) e per il referendum popolare (D.L.L. n. 98 del 16 marzo 1946). Le votazioni furono fissate dal governo De Gasperi per il 2 e il 3 di giugno. In quella prima domenica di giugno, casa Savoia avrebbe dovuto celebrare, come tutti gli anni, lo Statuto. Ma da quelle votazioni casa Savoia uscì licenziata nonostante il tentativo in extremis di salvarla messo in atto da Vittorio Emanuele III con la sua abdicazione del 9 maggio a favore del figlio Umberto. Umberto, anch'egli fra i fuggiaschi di Ortona (Pescara) sulla torpediniera «Baionetta», passò così alla storia come il «re di maggio». Arriviamo così all'8 giugno, quando la suprema Corte di cassazione tira le somme del referendum: 12.718.641 voti (54,3%) per la repubblica e 10. 718.502 voti (45,7%) per la monarchia. Il 25 giugno 1946, quando il parlamentare più anziano dell'Assemblea, Vittorio Emanuele Orlando, dichiara aperta la seduta, sui banchi di Montecitorio siedono 207 costituenti democristiani (37,3%), 115 socialisti (20,7%), 104 comunisti (18,7%), 41 dell’Unione nazionale democratica (7,4%), 30 del Fronte dell'Uomo qualunque (5,4%), 23 del partito repubblicano (4,1 %), 16 del Blocco nazionale della libertà (2,9 %), 7 del Partito d'azione (1,3%), 4 indipendentisti siciliani, 2 della Concentrazione democratica repubblicana, 93 2 del Partito sardo d'azione, e 1 ciascuno per il movimento unionista, i cristiano-sociali, i «contadini» e i demolaburisti. Sono 555 in tutto. Appare subito evidente che se la Repubblica avrà una Costituzione non potrà averla che con l'accordo dei tre maggiori partiti: Dc, Psi e Pci. Il 26 giugno l'Assemblea elegge, intanto, il suo presidente effettivo nella persona del socialista Giuseppe Saragat. Due giorni dopo, con una maggioranza di 396 voti su 501, Enrico De Nicola viene eletto capo provvisorio dello Stato repubblicano, succedendo a De Gasperi, che aveva momentaneamente assunto quei poteri il 9 giugno, all’atto della partenza per l'esilio di Umberto II. Lo stesso giorno viene presentata e (caso rimasto unico in tutta la storia parlamentare) immediatamente discussa la prima interrogazione al governo: è firmata dagli esponenti di tutti i partiti democratici, da Brusasca a Secchia, da Rapelli a Moscatelli, Villabruna, Jacometti, Einaudi, Roveda e Chiaramello, sulla ventilata cessione alla Francia di Briga, Tenda e Moncenisio. De Gasperi, che è ancora presidente del governo elettorale, risponde subito. È sempre De Gasperi a presentarsi il 15 luglio dinanzi all'assemblea con il suo primo governo della Repubblica, formato 12 giorni prima. Lo Stato repubblicano poteva, dunque, funzionare. Quali furono gli strumenti che l'Assemblea creò nel suo seno per dare all'Italia la sua prima Costituzione democratica? Allo scopo specifico di redigere il testo del progetto di Costituzione fu deciso di formare una commissione rappresentativa di tutte le forze presenti in assemblea. Era infatti impensabile che un'opera così vasta e impegnativa potesse esser compiuta sin dall'inizio in seduta plenaria. Da questa esigenza nacque così la commissione dei 75 che, 94 presieduta da Meuccio Ruini allora presidente del consiglio di Stato, si suddivise in tre sottocomissioni. Tu presiedesti la seconda sottocommissione, quella per l'ordinamento costituzionale della Repubblica. La mia sottocommissione, in particolare, fu a sua volta suddivisa in due sezioni. La prima, presieduta sempre da me, doveva occuparsi particolarmente del potere esecutivo; la seconda, presieduta dal repubblicano Conti, del potere giudiziario. La prima sottocommissione, presieduta dal democristiano Tupini, doveva fissare i diritti e i doveri dei cittadini. La terza, infine, dei diritti e doveri economico-sociali, era presieduta dal democristiano Ghidini. La commissione dei 75 diede vita, se non ricordo male, a un organismo ancor più ristretto che fu chiamato inizialmente comitato di coordinamento, che si occupò in particolare del conflitto insorto fra la prima e la terza sottocommissione sulla parte economico-sociale; e, in un secondo momento, assunse il nome di comitato di redazione, o comitato dei 18. Il comitato dei 18 ricevette infatti le conclusioni delle tre sottocommissioni, le coordinò, le sottopose alla commissione dei 75 e le sostenne, infine, dinanzi all'assemblea. Solo per il capitolo delle regioni tutto il lavoro riepilogativo fu affidato a Gaspare Ambrosini, che sarà poi anche presidente della Corte costituzionale. Quindi, tutto il lavoro preparatorio intorno al testo da presentare 95 in assemblea plenaria fu compiuto dalla commissione nei sette mesi compresi fra il 20 luglio 1946 e la fine del febbraio 1947. Un vero record, a giudicare da certi ritmi lavorativi che le assemblee legislative avrebbero assunto negli anni successivi! Che cosa ricordi della tua esperienza di presidente della seconda sottocommissione? Con quali intenti, in quale atmosfera, si svolsero i lavori? Di piena collaborazione e di affiatamento completo. Non ricordo che si siano mai create situazioni tese e le discussioni furono vivaci, sì, ma mai acrimoniose, né si verificarono contrapposizioni irriducibili. L'unico elemento che poteva portare qualche turbamento in sede di lavori preparatori era la presenza in commissione dei qualunquisti, che rappresentavano l'unica forza valida di dissidenza. Il Fronte dell'Uq, infatti, era costituito in gran parte da monarchici, che avevano ovviamente il dente avvelenato per dover operare in una struttura repubblicana. Tutta la loro azione era improntata ad astio e a disfattismo, frutto dell'esasperazione di una situazione obiettivamente difficile che esisteva nel paese appena uscito da una guerra disastrosa. La carenza dei generi alimentari, la borsa nera, l'inefficienza dei trasporti pubblici, l'incapacità della burocrazia ad affrontare una situazione nuova esacerbavano gli animi soprattutto di una classe borghese battuta e scoraggiata. Discorso diverso, ovviamente, per le classi lavoratrici e le masse popolari che, dopo aver subito il maggior peso della guerra, vedevano nell'Assemblea costituente un punto di riferimento per la rinascita e la ricostruzione. Sì, Guglielmo Giannini sfruttava molto bene l'insoddisfazione generica, appunto qualunquista, per la situazione del paese, e ricordo ancor oggi le frequenti manifestazioni di protesta che, in tutto l'arco del 1947, si svolgevano a piazza Colonna e nelle strade 96 adiacenti Montecitorio all'insegna del qualunquismo più becero e irresponsabile. Ecco, volevo ricordare questa nota musicale, rumorosa, dei qualunquisti che stonava con la generale concordia con cui si svolgevano i lavori preparatori. Fra i partiti democratici a prevalenza repubblicana esisteva, quindi, un'atmosfera costruttiva di piena collaborazione. Adesso, però, devi spiegarmi come si venivano a formare materialmente, una parola dietro l'altra, i vari articoli della Costituzione. Rileggendo gli atti, non sempre risulta la paternità dell'articolo, dell'emendamento, del punto e virgola. È possibile che, a volte, si discutesse su di un testo già approntato in precedenza da qualche altro, non so, dal governo? Assolutamente no. Posso e debbo dire che il governo è rimasto completamente estraneo alla redazione del testo della Costituzione. Nell'aula di Montecitorio i banchi dei ministri erano occupati dai membri del comitato dei 18. Tuttavia, a quell'epoca il governo era costituito dai maggiori partiti che sedevano in aula. Fino al 13 maggio 1947, quando De Gasperi, mettendo in pratica i postulati della guerra fredda scatenata da Churchill col suo discorso di Fulton, cacciò i comunisti dal governo. Non dimentichiamo che l'Assemblea lavorò intorno alla Costituzione sino alla fine di dicembre di quell'anno e il governo mai si pronunciò come tale sui singoli articoli e mai tentò di esercitare la sua influenza in sede di votazione. Certo, se fosse stata scritta direttamente dal governo De Gasperi, la Costituzione avrebbe avuto un carattere molto più arretrato di quello 97 che le fu dato dall'Assemblea. Ma, per fortuna, il governo non aveva titoli per interferire, né l'Assemblea gli lasciò mai spazio per farlo. Parliamo ora della tua elezione a presidente dell'Assemblea. Il partito socialista (Psiup) si scinde in due tronconi: uno, il Psi, rimane con Nenni; l'altro, meno consistente, segue Saragat, e dà vita al Psli, al partito cioè «dei piselli», come tutti lo chiamavano comunemente a quel tempo. Non sentendosi più rappresentante del secondo partito italiano, Saragat si dimette da presidente dell'Assemblea. È il 6 febbraio 1947. L'Assemblea respinge le dimissioni, ma il giorno successivo Saragat insiste. Il repubblicano Conti propone di respingere ancora le dimissioni. De Gasperi è d'accordo, ma il socialista Lussu è assolutamente contrario. Togliatti non esprime alcuna posizione pregiudiziale e si rimette alla sensibilità dell'interessato. L'8 febbraio vieni così eletto tu. La domanda è ovvia, ma voglio chiederti egualmente che cosa avvertisti in quel momento solenne. Che cosa provasti nell'insediarti sul seggio più alto e prestigioso della prima assemblea parlamentare della Repubblica, tu che per 17 anni eri stato perseguitato, imprigionato e vilipeso come sovversivo e comunista, e cioè come nemico non solo del fascismo, ma anche della democrazia parlamentare? Ti dirò che non ci fu un balzo improvviso dalla mia veste di prigioniero, di detenuto e, quindi, di uomo apparentemente umiliato dal potere, all'alto scanno di Montecitorio. C'è stata tutta una fase di transizione, una fase abbastanza lunga durante la quale, progressivamente, avevo assunto compiti e funzioni che mi avevano 98 dato fiducia e anche una certa posizione di rispetto e di autorità nei confronti del mondo politico italiano. Per me la cosa più importante e che mi aveva profondamente commosso era stato il mio reingresso ufficiale e solenne nel partito. Quello era stato per me l'elemento decisivo che mi aveva, anche di fronte a me stesso, riabilitato. Il partito mi dimostrò immediatamente grande fiducia e grande stima, sì da attribuirmi sempre più spesso incarichi nuovi e più importanti. All'atto della costituzione dell'ufficio di presidenza dell'Assemblea, il partito mi designò infatti alla vicepresidenza di spettanza comunista. Quindi, già come vicepresidente, avevo acquisito molta pratica dell'assemblea plenaria. Saragat non era uomo da presiedere un’assemblea, non ne ha le attitudini, non le ha mai avute, egli porta in sé il disordine anche laddove già esisté un po' d'ordine. D'altra parte non è colpa sua. Saragat è l'uomo del mondo della poesia, della letteratura, della filosofia trascendentale, e quindi incaricava frequentemente uno dei suoi vice di sostituirlo alla presidenza. Fra il socialista Targetti, il repubblicano Conti e il democristiano Tupini, egli preferiva me, forse per la mia preparazione, sicuramente per il mio passato. Posso tuttavia escludere che la tua successione a Saragat sia stata una naturale eredità di seggio e di funzioni. In che modo si arrivò alla tua designazione? Fosti contestato da qualcuno? Guarda, queste son tutte cose che si decidevano in separata sede. Ma la mia non fu una successione ereditaria, automatica, tanto vero che anche per me fu una sorpresa, né avevo mai avuto la più lontana 99 premonizione di questa promozione massima. Per quel che ne so, la mia candidatura fu avanzata da Togliatti ai segretari degli altri partiti anche in base al fatto che, con la scissione socialista, il partito comunista era finalmente divenuto il secondo partito italiano. Siccome la Dc, come primo partito, deteneva la presidenza del consiglio, era logico che la presidenza dell'Assemblea dovesse spettare al Pci, che faceva parte dello stesso governo De Gasperi. Venni a sapere della mia designazione la sera precedente la votazione. Incontrai per caso Togliatti, che usciva proprio allora da una riunione della direzione del partito, e fra tante altre cose, alla fine, al momento di accomiatarci, mi disse: «A proposito di domani, è stato deciso che il presidente dell'Assemblea sarai tu». E vorresti farmi credere che l'annuncio non ti provocò emozione? Anche se, come vice, avevi presieduto più volte, diventavi comunque il secondo cittadino della Repubblica! Sì, certo, sotto questo aspetto ero evidentemente emozionato. Ma, vedi, io sono di carattere non dico freddo, ché anzi molte volte sono sin troppo caldo intimamente, ma sono sempre molto padrone di me stesso. Sì, accettai l'incarico con enorme contentezza e fui particolarmente lieto dell'enorme rivincita che mi prendevo nei confronti di tutto il passato. La sola ambizione che mi solleticava in quel momento era in ogni modo quella di assolvere bene anche a questo mio compito, come d'altra parte credevo di aver ben assolto anche agli altri compiti che il partito mi aveva assegnato dal 1945 in poi. Arrivi dunque alla presidenza di Montecitorio con un'esperienza e 100 una conoscenza molto approfondite della materia che ti accingevi a dirigere. Ma alla direzione del Pci discutevate di volta in volta sulle singole parti della Costituzione che stavate formando? C'erano delle riunioni per concordare fra i vari compagni deputati l'atteggiamento da prendere sui diversi articoli, i singoli commi, ecc. Non c'erano collegamenti specifici fra noi deputati e il partito come tale. Sugli argomenti più spinosi e delicati c'era invece un'ampia e profonda consultazione in seno al gruppo parlamentare. È chiaro che i consigli più sentiti erano quelli di Togliatti, dato che a quell'epoca la segreteria e la stessa direzione del partito non disponevano di compagni molto competenti nella materia in discussione. All'interno del gruppo comunista della Costituente, ci fu una discussione sul tipo di Costituzione, sul tipo di Repubblica per cui bisognava battersi? Cioè Togliatti voleva una democrazia senza aggettivi, oppure una democrazia socialista, progressista, avanzata? La situazione era piuttosto difficile perché il partito, nel suo complesso, e specialmente in quelle leve che si ricollegavano al passato per aver vissuto il lungo periodo dell'illegalità, dell'emigrazione, del carcere, della lotta partigiana - tutte esperienze molto diverse - pensava concorde a un tipo di Repubblica se non già socialista, comunque molto avanzato. Era l'epoca in cui la demo crazia popolare trionfava, quanto meno verbalmente, in taluni paesi dell'est europeo. Non sa quanto di democratico vi fosse; gli esempi erano comunque incerti. Quindi tutto lo slancio, l'attesa, la propensione era per uno Stato che avesse largamente in sé il segno di una direzione di 101 classe, della classe operaia, e che quindi non avesse molto a che fare con la democrazia tradizionale. Quanto al termine di democrazia avanzata, Togliatti sapeva bene quel che poteva esser fatto o no; e se pure, sul piano puramente verbale, concedeva molto al partito, Togliatti sapeva esattamente che l'unica democrazia che si poteva creare era la democrazia borghese. Il fascismo era stato preceduto da un regime liberal-democratico, ma lo Statuto era liberale, e quanto di democratico si era via via potuto realizzare era il risultato delle lotte delle masse operaie. Ripeto: operaie, e non popolari, perché fino al 1920-21 le grandi masse contadine erano state il ventre greve della conservazione. Quando in Italia si conquista, ad esempio, il diritto di sciopero (1904), il merito è delle lotte degli operai e dei braccianti agricoli; lo stesso suffragio universale, il cosiddetto suffragio universale, è conseguenza delle lotte operaie e bracciantili. E quindi, in definitiva, la democrazia che era venuta lentamente creandosi in Italia prima della guerra mondiale e nei due anni successivi era stata non tanto qualche cosa che si aggiungeva a un preesistente regime democratico, ma qualcosa che veniva finalmente a integrarlo, a completarlo. E questo era il massimo cui si potesse giungere a quel tempo. Va naturalmente tenuto sempre presente che la democrazia borghese, in quanto a libertà di carattere sociale, non le aveva mai ammesse, né volute. Quindi, tutte le norme che regolano la vita del lavoro, i rapporti sociali fra i vari gruppi sono una innovazione fondamentale della nostra Costituzione. Ma ciò non era sufficiente per fare sì che la Costituzione, da democratico-borghese, diventasse socialista o soltanto democratico-avanzata: semmai, una democrazia pienamente dispiegata nella sua logica connaturata con il progresso dei tempi. 102 Abbiamo così portato il discorso direttamente sull'articolo 1 della Costituzione, il cui primo paragrafo è il più famoso, forse l'unico conosciuto da tutti i cittadini: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Per arrivare all'ultimo articolo, l'Assemblea impiegò poco più di nove mesi, dal 4 marzo al 22 dicembre 1947: 272 giornate lavorative con 170 sedute esclusivamente dedicate alla discussione e alla votazione dei 131 articoli e delle 9 disposizioni transitorie trasmessele dalla commissione dei 75. Il tuo lavoro di direzione, mi sembra superfluo sottolinearlo, dovette essere abbastanza duro perché non doveva essere agevole star dietro, a volte anche in sedute notturne, ai 275 oratori che svilupparono 1.090 interventi, presentarono 1.663 emendamenti, approvandone 292, respingendone 314 e ritirandone o fondendone con altri 1.057, discutendo 15 ordini del giorno e votando 23 volte per appello nominale e 43 a scrutinio segreto. Ma l'aspetto indubbiamente più interessante di quest'orgia di parole e di numeri è la sostanza del lavoro compiuto. Al progetto propostole, l'Assemblea apportò poco meno di una quarantina di modifiche dando vita al testo definitivo, che risulta composto di 139 articoli e di 18 disposizioni transitorie. La votazione finale fu pressocchè plebiscitaria: 453 sí e 62 no. Uno degli articoli più dibattuti e modificati fu, appunto, il primo. Prendendo spunto dal modo come si arrivò all'attuale formulazione, vuoi spiegarci il meccanismo, e non soltanto tecnico, attraverso il quale la Costituzione è infine risultata quella che è, con le sue caratterizzazioni qualificanti, e non è stata invece un'altra cosa, non importa se migliore o peggiore? Che cosa puoi dirci, per esempio, sul fatto che, pur non essendoci stata nessuna obiezione sull'aggettivazione 103 «democratica» della Repubblica vi fu, invece, discussione se questa Repubblica democratica dovrebbe essere «fondata sul lavoro» o, più drasticamente, «di lavoratori»? In realtà, i costituenti hanno appuntato sin dall'inizio la loro attenzione sulle parti sostanziali della Costituzione che sarebbero state discusse in seguito. La commissione dei 75 aveva proposto una formula più narrativa e cioè: «L'Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese». L'importante, in questa formula, era di richiamare tutti gli elementi che, integrandosi reciprocamente, avrebbero determinato il carattere della nostra Repubblica. Essendo una Repubblica di popolo, la sovranità emana dal popolo e il popolo è costituito nella sua enorme maggioranza da gente che lavora e non certamente da coloro che lo sfruttano o che lo evitano. Ora, l'intenzione dei proponenti delle altre formule era nutrita evidentemente da un momento ideale: non a caso, come potrai documentare, ciascuno di essi ebbe a negare che intendesse attribuire un carattere di classe alla nostra Repubblica. Al contrario, se ci fosse stata una consequenzialità, sarebbe stato necessario dichiarare che, con quelle formule, si intendeva dare un carattere di classe. Il pluralismo, di cui oggi tanto si parla, era una realtà già allora non solo incombente e immanente, ma operante e presente. Infatti, Fanfani, dicendo che la «Repubblica è fondata sul lavoro», voleva escludere che essa potesse fondarsi «sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria e sulla fatica altrui». Amendola e Basso, come proponenti, e Pacciardi e Bruni, come sostenitori, erano invece dell'opinione che 104 l'Italia dovesse essere una «Repubblica di lavoratori», e non di parassiti. Ma Gronchi appoggiò e fece prevalere la formula di Fanfani sostenendo proprio che era «illogico negare che la parola "lavoratori" avesse, anche contro la volontà dei proponenti, un significato classista». Prevalse così la formula più generica e siccome era assurdo pensare di poter modificare in qualsiasi modo, magari anche con la violenza, la realtà della vita italiana, la sottolineatura del momento del lavoro non poteva poi tradursi conseguentemente in una differenziazione dei cittadini a seconda della classe cui appartenevano, cioè della loro collocazione specifica nell'ambito più generale del fenomeno-lavoro. Un’ultima domanda, prima di concludere. Secondo te, basterà la Costituzione, questa Costituzione, a fornire alle classi lavoratrici gli strumenti, tutti gli strumenti necessari per realizzare anche il secondo capoverso del suo articolo 1, che ancor oggi, pur fra i tanti progressi già visti, rimane pressochè ignorato? Mi riferisco alla frase programmatica: “La sovranità appartiene al popolo”. Per concludere: solo se la Costituzione è attuata nella sua interezza, la sovranità del popolo può integralmente affermarsi. Quando a ciò si giungesse – e ne siamo ben lontani – ogni mutamento eventuale della vigente Costituzione non potrà non tradursi che nel consolidamento di tale sovranità. 105