scenografia COMUNE DI BRESCIA PROVINCIA DI BRESCIA ASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI COMITATO PER IL RICORDO DI DANIELE LIEVI DANIELE LIEVI IL TEATRO. I SEGNI mostra a cura di Bianca Simoni ed Elena Cantarelli 176 edizioni aab aab - vicolo delle stelle 4 - brescia dall'8 gennaio al 2 febbraio 2011 orario feriale e festivo 16.00-19.30 lunedì chiuso Il ricordo di Daniele Lievi Tino Bino Bisogna pur dire: ricordo. La memoria peraltro è la sola fedeltà alla vita. Ricordo come fosse oggi quel novembre di vent’anni fa, il giorno dei funerali di Daniele; una giornata di pallido sole sul lago avvolto in una bruma leggera, pacifica, conciliante, che enfatizzava il silenzio del porticciolo di Villa a Gargnano. E ricordo il lungo corteo di amici che lo accompagnarono nell’ultimo viaggio: teatranti e spettatori, conoscenti e collaboratori e la gente di Gargnano, increduli per la scomparsa di un così giovane talento della cultura. Sì, Daniele era un talento precoce della scena e della cultura.A quell’età, laurea in architettura, aveva già diretto con il fratello Daniele il Burgtheater di Vienna, che è, anche fisicamente, la Scala, il tempio riconosciuto delle macchine teatrali europee. Andai qualche volta a trovarlo nel suo ufficio viennese. E andai a vedere le prime teatrali sue e di Cesare a Berlino, a Francoforte, a Basilea. Daniele e Cesare erano divenuti celeberrimi nei teatri di mezza Europa, dopo l’esordio nel teatrino di Gargnano, dove arrivai più sere in compagnia di uno dei loro più affezionati ammiratori, Luigi Bazoli, per vedere e rivedere quel breve, intenso ed emozionante, struggente Barbablù ripreso adesso – al Santa Chiara – da Cesare come una parte dell’omaggio a Daniele, a vent’anni dalla scomparsa. Ed è questo l’anniversario che giustifica, nella sede dell’AAB, la riproposizione di buona parte del suo lavoro, dei suoi bozzetti di scena, delle sue Carte segrete, delle sue scenografie, delle sue geniali composizioni grafiche, del suo naturale talento, condensato nei non molti anni della sua attività. Non perderne la memoria è stato l’obiettivo del comitato di amici che firmano questa esposizione; e insieme, in questa sede, consegnare Daniele, definitivamente, alla memoria della pittura e della cultura bresciane. 3 Daniele Lievi: una vita per l’arte Elena Cantarelli Verona, 14 settembre «Ed ora, della mia gita sul lago. Questa si compì felicemente con grande esultanza del mio spirito per lo splendore dello specchio d’acqua e della riva bresciana che ne è bagnata. A ponente, dove la montagna non è più a picco ed il suo suolo discende più dolcemente intorno al lago, si stendono in fila per il tratto di circa un’ora e mezzo i paesi di Gargnano, Bogliaco, Cecina, Toscolano, Maderno, Gardone e Salò, sdraiati tutti sulla riva. Non è possibile esprimere a parole l’incanto di questa lussureggiante riviera.»1 Con parole piene di meraviglia Goethe descrive la sponda bresciana del lago di Garda, durante il suo viaggio in Italia. Proprio su questa riva, per la precisione a Villa di Gargnano, uno dei piccoli paesi su citati, il 13 marzo del 1954 nasce Daniele Lievi. L’infanzia trascorsa a rimirare un simile paesaggio non può che influire sulla formazione estetica del piccolo Daniele e contribuire all’inclinazione teatrale del suo sguardo: «Dalla loro casa lo sguardo si posa sul lago che cambia aspetto ad ogni momento, mentre sull’altra sponda si vedono le linee morbide del Monte Baldo. È un grandioso paesaggio italiano, davanti al quale la piazza di Villa è come un palcoscenico: un palcoscenico della vita che ha per fondale un immenso scenario naturale. […] Quando Daniele, giovane studente di architettura, comincia a disegnare e a dipingere, è questo paesaggio a guidargli la mano.»2 L’educazione artistica ha dunque un inizio precoce; si compone oltre che della poesia dei luoghi anche del “gioco al teatro” – fatto di favole, travestimenti, siparietti costruiti con il fratello Cesare per intrattenere amici e parenti – e conduce Daniele, ormai adolescente, a vivere con attesa e ardore le prime temperie culturali con cui il Sessantotto lambisce la piccola provincia bresciana. Daniele frequenta il cineforum locale, affascinato dal cinema di Pasolini, Bellocchio, Godard. Non è però solo la provocazione tematica a toccarne la sensibilità, ma anche – forse soprattutto – quella strutturale: il montaggio, la possibilità di far convergere diversi linguaggi, le tematiche meta-cinematografiche di cui soprattutto Godard è sapiente autore. A soli quattordici anni Daniele Lievi sa già che non potrà che essere un artista: si iscrive all’Istituto Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1983, p. 34. Peter Iden, Daniele Lievi, Bühnenbilder, Freie Volksbühne, Schaperstraße, Oberes Foyer, 3-20 maggio 1991. 1 2 5 d’arte del Garda per poi “migrare” a Venezia, Facoltà di architettura, indirizzo scenografico. Venezia è la seconda tappa dell’iniziazione di Daniele. È il 1974, la Serenissima è una delle vetrine più originali del teatro italiano. C’è la Biennale, in quegli anni diretta da Luca Ronconi, che porta per la prima volta nel nostro paese l’avanguardia internazionale, quella americana di Meredith Monk e del Mama Theatre, l’esoterismo di Grotowski, e poi ancora lo sguardo surreale di Bob Wilson. Tutti nomi oggi arcinoti, allora – in Italia – pressoché sconosciuti. E c’è la Biennale di architettura, ove l’esplosione postmoderna la fa da padrone. Ma Daniele non si ferma, non gli bastano gli studi accademici; viaggia molto, respira l’internazionalità, frequenta i festival europei, in modo particolare quelli francesi, Avignone, Parigi. Suggestioni molteplici e svariate che ripensate, amalgamate, trasformate confluiranno nella sua poetica. Che non ha a che vedere solo con il teatro: scenografo, pittore, grafico, Daniele Lievi nel breve intervallo che la vita gli concede è senza dubbio un artista completo e versatile. Il teatro – non vi è dubbio – è la sua grande passione, tanto che già alle superiori muove passi significativi in tale direzione3 e già per questi primi tentativi chiama in soccorso – proprio come quando erano bambini – il fratello Cesare. Da una parte Daniele studente d’arte e architettura, appassionato di pittura, in cerca di continui stimoli per far lievitare la sua immaginazione, dall’altra il fratello intellettuale, iscritto alla Facoltà di filosofia, cultore della letteratura classica e dei pensatori tedeschi. Sguardo e parola, occhio e ragione, lo scenografo e lo scrittore (e regista). Ecco la doppia anima che si riversa nel teatro dei fratelli Lievi4, che avrà un’influenza di non poco conto sull’opera di Daniele. La sua riflessione artistica è sempre percorsa da una dialettica che solo sulla carta, meglio ancora sulla scena, si concilia: estremismi postmoderni e razionalità classica, visioni che devono già essere parole, la fugacità del teatro e l’eternità dell’architettura, la libertà del colore e le esigenze della rappresentazione, la vita e la morte, di cui infine resterà solo l’Arte, capace di vincere persino la morte. L’opera di Daniele è dunque rivolta al teatro, è rivolta al teatro anche nel momento in cui questo è ancora lontano dalla sua vita. I primi lavori che vengono raccolti ed esposti in una mostra organizzata dalla Biblioteca di Gargnano nell’agosto del 1978 coincidono con una serie di disegni fatti a penna e pennarello, su carta bianca o gialla con sovrapposizione di piccoli figurini o lettere alfabetiche trasferibili. Figure che L’esame di maturità per il corso di Educazione visiva viene svolto in forma di un saggio teatrale tratto da Quanto costa il ferro di Brecht. 4 Denominazione usata dalla critica tedesca dopo l’allestimento del Nuovo inquilino di Ionesco (Heidelberg, 1988). 3 6 già cercano di abitare lo spazio del foglio (proprio come gli attori abiteranno di lì a breve le sue scenografie) occupandolo completamente o addensandosi in un suo angolo. E sono altresì figure che rimandano a mondi fantastici, all’immaginario fiabesco, legate fra loro da associazioni quasi surreali. Una produzione sì svincolata dal teatro, ma che in certo modo ad esso già guarda o rimanda; non è un caso che troviamo personaggi mascherati, sipari nascosti, tratti di architetture teatrali e non è un caso che molti di questi oggetti andranno a popolare i primi spettacoli dei Lievi (la mezzaluna, l’albero, la barca, il sole). Ma più importante per il successivo evolversi di quella che possiamo a buon diritto chiamare la drammaturgia visiva di Daniele Lievi è la componente narrativa “disegnata”, leggibile attraverso alcuni segni che tengono insieme le figurine di queste prime opere: frecce, linee tratteggiate, segni di legatura come in uno spartito musicale, parole di raccordo stanno chiaramente ad indicare un nesso poetico tra le piccole immagini, che intendono già raccontare una loro storia fatta di legami del tutto insoliti, quelli appunto fiabeschi e spaventevoli tipici di una parte del teatro dei Lievi. Il primo passo decisivo verso la definizione di una carriera più “stabile” coincide con la fine degli anni Settanta, quando Daniele e Cesare decidono di provare a misurarsi più concretamente con il mondo del teatro. I due hanno innanzitutto bisogno di uno spazio, anche piccolo, dentro il quale poter continuare ad alimentare il loro sogno. Chiedono aiuto al Comune di Gargnano e dopo qualche peripezia ottengono una caserma militare non più in uso. Lasciano un annuncio nelle scuole del quartiere per reclutare gli attori con cui iniziare a costruire una loro compagnia. Primo spettacolo è Passaggi nel filo (1980)5, elaborazione che Cesare Lievi fa dell’Elettra di Sofocle, spettacolo che a sua volta dà avvio al Teatro dell’Acqua, nome allusivo e simbolico che omaggia sì l’amato lago, ma allo stesso tempo detta le direttive poetiche del giovane ensemble. L’acqua nasconde, confonde, non offre certezze, rende l’immagine ambigua. In misura analoga il Teatro dell’Acqua, fatto da giovani, poco più che adolescenti, che ancora stanno cercando un loro posto nel mondo, non offre risposte precostituite, ma pone interrogativi, lascia spazio al sogno, alla fiaba, alla paura e al desiderio di crescere. Per Daniele il Teatro dell’Acqua è anche lo spazio della sperimentazione; libero da esigenze produttive e commerciali il giovane scenografo può creare le soluzioni più svariate e ardite: «[…] il lavoro artigianale cui era costretto (non si trattava solo di progettare le scene, ma anche di costruirle) e la mancanza di mezzi tecnici e finanziari lo obbligavano a Lo spettacolo viene messo in scena a Villa Gardone, dal momento che la Caserma Magnolini non è ancora agibile. 5 7 sperimentare materiali normalmente ignorati in teatro e a escogitare soluzioni impreviste, accumulando così un patrimonio di idee che, realizzate più tardi in grandi teatri, sorpresero critica e pubblico»6. Da questo momento ha inizio un legame più stretto tra la creazione artistica di Daniele e la sua attività di scenografo. Un legame, si badi, del tutto originale che non deve far pensare al tradizionale rapporto bozzettoscena. Il bozzetto – ossia il disegno preparatorio alla realizzazione scenografica – non coincide con la realistica elaborazione grafica della scena teatrale; il bozzetto di Daniele Lievi è intimamente connesso allo spettacolo, ma allo stesso tempo possiede una sua vita autonoma. Rubando ancora una volta le parole a Cesare Lievi potremmo meglio definirlo «il luogo di avvicinamento e circumnavigazione dello spazio scenico alla ricerca della sua definizione, che sarà tutta volumetricospaziale»7, una sorta di studio sullo spazio e non una sua conchiusa definizione. È con il secondo spettacolo del Teatro dell’Acqua – L’ultima stanza (1980) – che la produzione grafica di Daniele si sovrappone a quella per il teatro. Ma già questi primi “bozzetti” non sono assimilabili ai consueti progetti di scena. Prova ne è la precisione del segno grafico che mira a porsi come linguaggio autonomo; l’uso “sporco” dell’acquerello che macchia e allaga il disegno rendendo impossibile leggerlo quale corrispettivo biunivoco della scena teatrale. Questi lavori anticipano per altro quello che sarà un punto nevralgico della produzione matura di Daniele: la dialettica tra razionalità architettonica, che coincide con la “naturalistica” scatola prospettica, e l’anarchia del colore, che deborda, sfonda, dilaga sul segno grafico. Dialettica che lo riporta altresì a una primordiale e ontologica riflessione sulla vita, intesa come tensione di forze contrastanti, che portano a una frattura (nella vita reale insanabile) tra pulsioni individuali – anarchiche e irrazionali – e loro costrizioni dentro le regole – spesso claustrofobiche – del mondo “sociale”. Quale ne sia il senso ultimo, appare comunque evidente la voluta impressione criptica del disegno spaziale. Daniele compie una serie di schizzi, meglio fotocopia il primo e su questo apporta via via modifiche che, anziché chiarire l’intenzione di partenza, non fanno altro che confonderla, decostruendo l’unità spaziale originale: sfonda pareti, cela parte dell’immagine, sino ad aprire la scatola scenica su una macchia blu, un’ipotetica volta celeste. Perché Daniele non ha intenzione di limitarsi a tracciare la forma della scena, quanto riflettere su di essa e a un tempo riflettere sul significato profondo del testo, in certo modo comprenderlo dentro le sue raffigurazioni, fermarlo visivamente. L’ultiCesare Lievi, L’ossessione della diagonale. Una biografia, in Daniele Lievi. Scene di teatro, catalogo della mostra, Museo Ken Damy, Brescia, novembre 1992, p. 26. 7 Ivi, p. 20. 6 8 ma stanza racconta – il testo è ancora di Cesare – di un giovane chiuso in una stanza, una soffitta (“l’ultima prima del cielo”) dalla quale sogna e immagina mondi infiniti. Percorrendo una strada analoga i disegni di Daniele sovrappongono il luogo della realtà – la stanza prospettica, che non a caso coincide con la stanza reale del Teatro dell’Acqua – con quello dell’immaginazione. Un luogo fisico e uno fantastico convivono e si fondono sulla pagina di Daniele. Questo è il significato profondo dei disegni di Daniele, questo per lo scenografo gardesano è il “miracolo” del teatro, capace di sovvertire e re-inventare la materia di cui è fatto il mondo. Dell’uso “libero” del bozzetto Daniele fa una vera e propria vocazione, sino ad arrivare a comporre quelle che lui stesso chiama Carte segrete, ovvero studi che non necessariamente hanno un legame antecedente al teatro. Queste Carte, così definite per la prima volta in occasione della mostra “Spuren in ein Theater” presso il Museo dell’Architettura di Francoforte (giugno 1987), sono disegni concepiti tra il 1984 e il 1990, che si pongono in un’ambivalente relazione con l’allestimento scenico. In effetti sino al 1987 Daniele ne parlava in termini di Studi, a indicare il carattere non assertorio e la vicinanza al disegno per la scena. «Le “Carte segrete” sono quindi studi preparatori […], banchi di prova per future realizzazioni sceniche, ma soprattutto “coagulatio” di elementi destinati a riaffiorare spaiati e spaesati nelle singole scenografie. Sono qualcosa di più rispetto alle realizzazioni sceniche […], ma anche qualcosa di meno. Di queste manca la necessaria concretezza mentre vi appare, in modo più articolato e completo anche se astrattizzato, il mondo poetico che sta alla loro base.»8 Siamo dunque di fronte a schizzi che cercano di mettere su carta una serie di suggestioni derivanti dalla lettura del testo, dallo svolgimento delle prove, dalla realizzazione stessa dello spettacolo. Dentro possiamo trovarvi una serie di possibilità che la scena teatrale non aveva previsto o non aveva voluto usare, talvolta sono solo riflessioni dell’autore che poco o nulla hanno a che vedere con quello che c’è sul palcoscenico. In pratica le Carte segrete sono realizzate per sovrapposizione di svariate tecniche artistiche: Daniele prendeva un foglio, gli versava sopra della trielina di modo che si formasse spontaneamente una macchia di colore, su questa passava delle pagine di rivista stampata, sì da creare delle fratture dentro la macchia, sulle quali andava infine ad inserirsi con il tratto grafico per disegnare elementi spaziali, più o meno realistici. L’intuizione prima è allora la macchia, il caos, l’informe. Da questa nebulosa di colore affiora una serie di impronte, linee (quelle disegnate sulle tracce della carta stampata), che la mano umana controlla e usa per inquadrare la materia 8 Ivi, p. 19. 9 entro un ordine definito, che però non riesce mai a essere del tutto compiuto: la macchia sborda sempre dai confini che la matita tenta di imporgli. Nella modalità di assemblaggio di queste Carte sta il significato recondito di molte scene di Daniele, che improvvisamente rivelano la presenza di altri mondi, palesando dietro una rigorosa cornice architettonica una prospettiva aberrante e misteriosa (dichiarato nella Caterina e nel Macbeth, ma anche in tutte le scene che si trasformano per modificazione della “Stanza”, da Tasso alla Clemenza di Tito, o ancora nell’utilizzo della Verwandlung). Sovente la ricerca teatrale di Daniele trova una soluzione concreta in spazi scarnificati, essenziali, di impianto rigoroso, che pure lasciano uno spiraglio aperto sulla possibilità di infiniti altri mondi; in maniera analoga la fantasia del giovanissimo Daniele era stata sollecitata dal lago, dal “suo” lago, “luogo dove si ha sempre la sensazione d’essere altrove”. Le Carte segrete danno modo a Daniele di studiare “visivamente” il teatro, anche quando non è direttamente coinvolto nelle vesti di scenografo. È quello che accade nel 1987, in occasione della messa in scena di La morte di Empedocle di Hölderlin. In tale circostanza Daniele si trasforma in regista, lavorando a doppie mani con il fratello, mentre le scenografie vengono curate da Nunzio, un noto scultore contemporaneo. Ciò nonostante è proprio in occasione di questo spettacolo che Daniele dà vita a uno dei suoi progetti grafici più elaborati. Dal momento che Daniele non è chiamato a misurarsi in prima persona con le scene, i disegni svolti per l’occasione nascono da una riflessione sul testo e sulla particolarità del luogo scenico ove sarà rappresentato. I fratelli Lievi si trovano infatti alle “Orestiadi” di Gibellina, la città sicula distrutta dal terremoto nel 1968. I disegni di Daniele convergono in una serie di fogli, circa una decina, sui quali il nostro artista, partendo da una fotografia dei ruderi della città vecchia, elabora una sorta di mappa geologica dell’area. Tutti i disegni mostrano una struttura identica: il contorno dell’area della città, attraversato verticalmente da una lunga macchia che somiglia alla forma di un albero sradicato. La variazione gioca sul colore, sull’omissione di certi particolari, su brevi tratti spezzati che inseguono linee centrifughe, sull’alternanza di segno pittorico e geometrico. Negli ultimi disegni il colore, la macchia – quella che abbiamo detto somigliare a un albero – finisce per prendere sempre più il sopravvento sulla linea, giusto come accade alla tragedia di Hölderlin, i cui ultimi versi fanno “morire” il teatro sotto l’altezza del verso poetico: «La morte di Empedocle e le tre scene complete dell’Empedocle sull’Etna sono tra le vette della letteratura – fredde, di difficile accesso e di una nobiltà incomparabile. […] La loro grandezza stava troppo in alto; perché il teatro potesse continuare a vivere bisognava che l’immaginazione 10 scendesse a terra»9. Ma, in certo modo, la stessa Gibellina testimonia nella tragedia della sua storia l’intuizione di Daniele. Tornando ora al Teatro dell’Acqua, si giunge finalmente al momento cruciale della sua storia, allorquando Daniele arriva ad elaborare una delle sue scene più note ed ardite, che consente altresì ai due fratelli di fare il “grande salto” verso il teatro professionistico. Nel 1984 la compagnia gardesana lavora sulla figura di Barbablù dando vita a un duplice spettacolo. Il primo, fatto a Gargnano, unisce le pagine di Ludwig Tieck a quelle di Barbablù di George Trakl, Brescia,Teatro Santa Chiara, Cesare Lievi e “costringe” dicembre 2010 Daniele a sfidare le angustie della sala costruendo un palco nel palco sul quale attori e spettatori possano partecipare a un raffinato gioco metateatrale. Su invito del professor Eugenio Bernardi, in platea è presente il giornalista Franco Quadri che – allora direttore della Biennale – invita i giovani artisti a lavorare su un tema analogo, da inserire in una sezione del Festival veneziano, dedicato alla Secessione viennese. La scelta cade ancora sul terrifico Barbablù, ora filtrato dai versi del poeta “maledetto” George Trakl. Questo secondo Barbablù costituisce a un tempo il vertice e il compimento della poetica del Teatro dell’Acqua; in esso ritroviamo un po’ tutte le ossessioni che avevano affastellato l’immaginazione di Daniele (e del fratello Cesare) sin dall’infanzia: la fiaba come luogo del gioco ma anche della paura, l’immaginazione come facoltà creatrice di mondi “impossibili” e come unico strumento di indagine della realtà, il teatro come fusione di linguaggi diversi, l’amore per il cinema e per le sue possibilità tecniche. Il Barbablù è forse il prodotto più alto della drammaturgia visiva di Daniele, risultato esemplare dell’osmosi tra il suo lavoro e quello del fratello, coincidenza praticamente perfetta tra immagine e parola. 9 George Steiner, La morte della Tragedia, Garzanti, 2005, pp. 204-205. 11 Superata la concezione spaziale del precedente Barbablù, Daniele unisce lo spazio della realtà a quello della finzione, trasformando la sala teatrale in una grande scatola nera dentro la quale è sito il pubblico, che spia dentro un pertugio realizzato sul palco lo sfilare di una sequenza ininterrotta di immagini oniriche. Dietro l’arcoscenico si apre uno spazio ridottissimo, ulteriormente sacrificato dal momento che è continuamente abbassato, scorciato, suddiviso attraverso un complesso sistema di paratie mobili, sipari a ghigliottina, pannelli neri che lasciano scorgere solo porzioni minime della rappresentazione. Il pavimento, di legno chiaro e grezzo, è solcato da tagli orizzontali dai quali compaiono e scompaiono gli attori, più simili a marionette che a esseri umani in carne e ossa, visibili spesso solo a mezzo busto. Verità e finzione, tempi e spazi diversi si sovrappongono in un sapiente gioco, che non prevede una netta separazione tra immaginazione e realtà. Le sequenze si susseguono l’una all’altra in maniera molto prossima al montaggio cinematografico, toccando tramite segni di grande effetto i punti cruciali della fabula di Barbablù: la voce fuoricampo di un vecchio che ricorda il matrimonio, molteplici veli da sposa, una mano con un coltello insanguinato, una sposa suicida, alberi in fiore e poi di nuovo l’incombere della morte con rami secchi e cieli plumbei. La parola di Trakl sopravvive solo in brevi frammenti e la capacità drammaturgica della scena è tale che buona parte della critica loda l’incantevole “poema visivo”, al quale ha appena assistito. Il successo è travolgente. I fratelli Lievi ce l’hanno fatta. Hanno superato l’impasse dell’adolescenza e sono entrati a gran voce nel mondo degli Barbablù di George Trakl, Brescia, Teatro Santa Chiara, dicembre 2010 12 adulti. Ha ora inizio una nuova fase, più matura, in cui le suggestioni fantastiche precedenti si devono coagulare in un magistero più compiuto. Questa seconda parte della storia di Daniele Lievi cambia scenario, si sposta in Germania, dove avrà luogo praticamente tutta l’ultima fase della velocissima e straordinaria parabola dello scenografo gardesano. Il sipario si apre ora su Francoforte sul Meno – dove i nostri artisti sono giunti grazie all’aiuto del critico e studioso Peter Iden – per poi spostarsi ad Heidelberg, Vienna, Basilea, acclamati nei templi sacri del teatro europeo. In Germania Daniele si trova per la prima volta a lavorare dentro un teatro “vero”, insieme ad attori professionisti, la sua opera smussa gli angoli, elimina le insicurezze, si fa più definita, senza per questo perdere il legame con le esperienze precedenti. La sua idea di un teatro creatore di mondi infiniti, di un luogo, l’unico luogo, dove è esperibile la convivenza del sogno e della realtà è viva sin dalla realizzazione dei primi esperimenti “tedeschi”. La ricchezza linguistica offerta dal teatro, già messa alla prova con la scatola nera di Barbablù, rivela ulteriori possibilità a partire da La miniera di Falun (1986), ove per la prima volta Daniele ricorre a un espediente iterato anche nella produzione successiva. Il dramma scritto da Hofmannsthal prevede di fatto due ambienti completamente diversi (uno di impianto realistico, l’altro più simbolico) e soprattutto contempla un triplice cambio di scena a sipario aperto (Verwandlung). Da queste ripetute metamorfosi è attratta la fantasia di Daniele, che intravede una grandissima possibilità estetica dietro un trucco apparentemente tecnico. Daniele usa la Verwandlung come aveva usato la scatola del Barbablù; gioca ancora alla variazione veloce di immagini, inglobando questa volta l’artificio nello spettacolo e facendolo diventare un ingrediente sostanziale della lettura registica, ma più di ogni altra cosa dà ulteriore forza alla sua idea di un teatro “magico”, capace di mostrare un luogo che all’improvviso si dissolve e si trasforma in un altro. Il potere della Verwandlung tocca uno degli esiti più compiuti nella Caterina di Heilbronn (1988), che insieme al Nuovo inquilino regala a Daniele la qualifica di migliore scenografo dell’anno, su indicazione della prestigiosa rivista «Theater heute». La Caterina di Kleist è in buona sostanza una fiaba, con tanto di principe azzurro e strega cattiva, e come tale viene raccontata dai Lievi. La realizzazione scenica di Daniele trasforma il palco in una vera e propria visione pur non facendo ricorso a immagini magiche e illusionistiche, bensì ricorrendo all’arsenale di trucchi del teatro: uso poetico e drammatico delle luci, costruzione di sagome giganti di animali, cambi scena realizzati da angeli e cherubini, scenografie che scorciano sull’infinito, rendendo impossibile all’occhio umano scorgerne la fine. Rispetto alla gran parte delle scene di Daniele, chiuse dentro una stanza, la prospettiva qui si apre. In certo modo è come se la scena volesse mostrare quello 13 che c’è oltre, quello che c’è fuori dal teatro. Ma ancora una volta l’esplicito ricorso alla fiaba non implica una dimensione giocosa dello spettacolo. Come tutti i lavori che l’hanno preceduta, anche Caterina ha un fondo tragico che si svela attraverso una lettura più profonda dell’immagine. Il mondo dove vagano i protagonisti di questa storia – fuor di metafora, il palcoscenico – appare immenso: dentro di esso Caterina, il Conte e tutti gli altri risultano piccoli e sperduti. Lo sfondamento della stanza non fa altro che precipitare Barbablù di George Trakl, Brescia,Teatro Santa Chiara, l’essere umano nel vuodicembre 2010 to, nello sconosciuto, nell’oscurità. La quasi completa mancanza di limiti spaziali e la presenza di superfici riflettenti sul piano del palcoscenico che ripetono ininterrottamente le immagini, proiettano l’attore, e con lui lo spettatore, non tanto verso l’infinito quanto verso ciò che è in-definito. Al contrario di quanto la graziosa leggerezza dello spettacolo farebbe credere «Daniele racconta una fiaba per non cedere al nero e al vuoto, è come Sharazàd: inventa incessantemente immagini per restare in bilico, per non precipitare.»10 L’esuberanza visiva della Caterina è paragonabile solo a quella del Macbeth (1990) di Verdi, l’ultimo allestimento che Daniele riesce a portare a compimento da solo; purtroppo la malattia ha ormai sopraffatto il giovane scenografo e l’imminenza della fine ne muta il tratto. A tale proposito può essere utile prendere le mosse dagli studi grafici dell’artista, in particolare da alcune delle sue Carte segrete. Al Macbeth corrisponde infatti l’ultimo disegno di Daniele. In confronto alle precedenti Carte piene di colori e ombre, di macchie caotiche, ma comunque circoscritte in proporzioni geometriche, non è qui possi- 10 Cesare Lievi, op. cit, p. 35. 14 bile non prendere atto di una trasformazione. Quest’ultima incisione, che porta a compimento una serie di studi “sulla diagonale”, riproduce un quadrato definito da linee nere e spaccato in due da una riga verticale; dentro di esso si iscrive un cerchio imperfetto e nascosta da un insieme disordinato e “rabbioso” di segni si intravede una diagonale che punta verso il basso: «Non ci sono più linee “umane” […]. Daniele giunge “al limite”. Oltre c’è il nulla.»11 Le scene di Macbeth si situano alla medesima altezza cronologica della Carta suddetta, ma a differenza di essa riescono a sublimare il non sense della vita. L’intuizione di Daniele prevede che lo spazio si trasformi a partire da pochissimi elementi: una piattaforma di rigore “elisabettiano” è lo stage destinato alle scellerate azioni di Macbeth e della Lady. La piattaforma citata è inoltre circondata da acqua (nella scena specchi), il “non luogo” abitato dalle streghe, ma allo stesso tempo luogo precipuo e specifico dell’inganno e dell’illusione (il teatro?); infine cinque torri mobili a sezione concava disegnano l’emi-perimetro della pedana. Nel primo incontro tra Macbeth e le streghe, queste torri sono disposte su due lati entro un’immagine asimmetrica, nello spazio intermedio che ivi si viene a creare si inserisce un albero spoglio, sospeso nel vuoto, calato dall’alto: la scena si colora subito di sfumature surreali e inquietanti. I mutamenti successivi si compiono a partire dallo spostamento delle cinque torri e dai giochi della luce. Per costruire la residenza di Forres, per esempio, Daniele colloca tre torri da un lato e tre dall’altro, suggerendo allo spettatore che gli specchi delle streghe siano ora un fossato di protezione; il castello di Inverness è reso mediante la copertura di due torri con un velo rosa, mentre nel mezzo viene proiettata la sagoma di un rapace nero. Daniele concepisce per la sua ultima scenografia una metamorfosi visiva mai sperimentata prima e, nonostante il disegno sia più spigoloso, la natura arida, i colori inquietanti, l’artista riesce comunque a dominare il Caos, a costringere il disordine in forme rigorose e proporzionate. Se l’esuberanza su menzionata può svilupparsi tutta a partire da un’unica immagine – lo scorrimento delle sei torri – è allora vero che ancora una volta la fragilità umana – la follia dell’ambizione, quanto la disperazione della malattia – può per qualche ora restare confinata nella bolla effimera e protettiva del teatro. Da quanto sin qui detto appare evidente che la seconda metà degli anni Ottanta sancisce la fama dei fratelli Lievi, chiamati e plauditi tanto nei teatri di prosa quanto in quelli lirici. Se questa è la situazione all’estero, ben diverso è quanto accade in Italia, che ancora fatica a riconoscere il talento dei due gardesani. Pure al nostro Paese è of- 11 Ivi. 15 ferta più di un’occasione per ammirare l’evoluzione del loro teatro. Tra il 1986 e il 1988 Daniele e Cesare mettono in scena Torquato Tasso e Clavigo di Goethe, la già citata Morte di Empedocle, ma nonostante il buon esito degli spettacoli, il breve “viaggio in Italia” si conclude – con vicende istituzionali poco felici – piuttosto in fretta. Il “riscatto” avverrà poco dopo, nel 1990, quando ai Lievi è finalmente offerta la possibilità di un ritorno in grande stile. Dopo aver visto alcune delle loro regie liriche, Cesare Mazzonis, allora diretBarbablù di George Trakl, Brescia, Teatro Santa Chiara, dicembre 2010 tore artistico del Teatro alla Scala, li contatta per il Parsifal wagneriano; accanto a loro, a dirigere cantanti e orchestra, ci sarà il maestro Riccardo Muti. Lo spettacolo è destinato ad aprire il teatro milanese il 7 dicembre 1991, certo una delle date più importanti per il mondo del teatro (non solo italiano). La soddisfazione per aver conseguito un simile traguardo e la sospirata risposta italiana è tutto quello che resta a Daniele, che riesce a preparare i bozzetti per Parsifal, ma non a vederne il trionfo. Nel 1990, a soli 36 anni, muore vinto da una malattia incurabile. Sarà la sua arte – d’ora in avanti – a parlare per lui. 16 Una mostra di Daniele Cesare Lievi Oltre a creare scenografie sorprendenti per la loro qualità figurativa e spaziale, attività testimoniata qui da alcuni “bozzetti” (La donna del mare di Ibsen, Caterina di Heilbronn di Kleist) Daniele amava molto disegnare e dipingere liberamente, per proprio diletto, per un bisogno di espressione completamente slegato dalla pratica teatrale e dai suoi bisogni, eppure ad essa unita per contenuto, linguaggio o spirito d’esecuzione. Lo faceva a Gargnano nel suo studio di casa o in quello della caserma Magnolini per periodi brevi e intensi, intervallati da lunghe pause, legati, il più delle volte, a momenti di quiete dell’attività teatrale e non pensava ad esposizioni, a gallerie: l’unica mostra che fece in vita fu quella al Museo dell’Architettura di Francoforte diretto da Klotz nel 1987. Lo faceva per sé, per la cerchia degli amici a cui li mostrava con piacere ingenuo e consapevole allo stesso tempo e a cui spesso, con lo stesso piacere, li regalava. Non era però un’attività minore, anzi. Forse per volontà, affetto e dedizione superava quella teatrale che, per lui, era spesso tormentata nella individuazione e oggettivazione dell’idea, ma facile e veloce nella sua articolazione e realizzazione pratica. Lo faceva, forse, perché il teatro non gli bastava, perché il teatro a un certo punto “finisce” e ci sono ancora cose da dire che non sono state dette, immagini da focalizzare che la scena ha rifiutato, pensieri ed emozioni da fissare ed esprimere, contrasti da illuminare e articolare, elementi e fatti che la regia ha sorvolato e forse anche dimenticato, ma che devono assolutamente essere posti in luce. Lo faceva perché a un certo punto il teatro “scompare” e di esso non rimane che un ricordo vago, un’emozione che si spegne sempre più, una nostalgia. Lo faceva contro il teatro, per lasciare segni, tracce, orme. È così che sono nate le Variazioni su scenografie da realizzare o già realizzate, gli Studi e infine le Carte segrete, centinaia di fogli in cui il teatro è continuamente ricordato, invocato, sfidato e poi negato nella sua capacità di espressione e fissazione d’un fatto, un’idea, un sentimento, un battito. Lo faceva da sempre anche se il teatro era per lui il senso della vita. Solo negli ultimi mesi, dilaniato dalla malattia, se ne distacca. Nel giugno del 1990 durante le prove del Macbeth di Verdi a Francoforte se ne va via disperato dicendo: “basta”. Se ne torna a casa e non mette più piede in un teatro. Aveva visto – purtroppo precocemente – ciò che prima o poi si deve 17 vedere. Aveva guardato oltre il sipario e, al posto del solito festoso gioco della scena, aveva visto il buio a cui però per mesi tenta ancora di dare un colore, se non proprio una forma. È così che nascono le sei Grandi carte segrete. Ed è con esse che si apre questa mostra. 18 Le Carte segrete, un dono sorprendente Eugenio Bernardi A Daniele piaceva fare regali. Donare i suoi disegni, soprattutto, e donandoli dire qualcosa di sé. Del suo lavoro accanto a quello di Cesare e prima del lavoro di Cesare, che era destinato, per la complessità dell’impegno, a diventare predominante. Dire cioè, attraverso linee e colori, che cosa di un testo fosse venuto subito in mente a lui e come questa idea meritasse di essere fissata e ricordata prima della sua utilizzazione e dell’inevitabile compromesso con le esigenze di uno spazio concreto e di un’azione che, svolgendosi in quello spazio, l’avrebbe sommerso di parole, dialoghi, movimenti, gesti. C’era nei suoi disegni la pretesa che, a guardarli bene, ci fosse già tutto quello che poi avrebbe riempito il palcoscenico. Tutto e di più. In un disegno, per esempio, regalatomi forse al tempo del Barbablù, il perimetro di una stanza è sì tracciato in modo regolare, ma è attraversato da una specie di nuvolaglia, da strie e sfrangiature, addirittura da sbarre sospese a mezza altezza che sforano le pareti della stanza e, irrealizzabili come sono, suggeriscono direzioni impreviste, evocando prospettive non contenibili nello spazio di calpestio, affini in questo agli echi delle parole. Uno spazio quindi chiuso e aperto nello stesso tempo, al punto che è attraversato da una specie di lingue di fuoco. Ho davanti a me due altri fogli avuti in regalo e pensati uno per Haute surveillance di Genet, l’altro per il Torquato Tasso di Goethe. Sono elegantemente incorniciati (un largo passe-partout grigio-perla, la cornice grigio-blu), due quadri di dimensioni notevoli, un regalo degli ultimi anni, e per la sua perfetta confezione un dono ancora più eloquente di quello che ho appena detto: della visione primaria, già esauriente, di uno spazio che di qui avrebbe preso l’ispirazione, ma da questa immagine si sarebbe inevitabilmente discostato, affollandolo di gesti, parole, messaggi e prima ancora, durante le prove, adattandolo attraverso sperimentazioni, verifiche, controlli. Da tutto questo invece i disegni (ben più che abbozzi) volevano staccarsi con la pretesa di essere, nella loro scansione, imperturbabili. Come lo sono ancora oggi: di qui si potrebbe ricominciare. Nelle Carte segrete, un dono sorprendente dell’ultimo anno (in una cartella con dedica e la scritta “Japan”), l’intenzione appare del tutto diversa, addirittura opposta. Quella pretesa di fissare la visione originaria è come avesse subito una deflagrazione e lo spazio scandito e ritmato fosse stato travolto da un vortice intorno a cui girano linee ondulate come di uccelli a stormo, prodotte da un’inquietante massa nerastra che li disperde violentemente. Come se ora lo spettacolo non fosse 19 più ripetibile ma fosse diventato un tizzone che si sta spegnendo, e del possibile spettacolo, della sua concisione e del suo tempo compatto, nella mente rimanessero solo sfilacciature, nuvolaglia, scie di un turbine irrefrenabile. Daniele Lievi a Francoforte nel 1985 20 Ai confini tra la realtà e il sogno: il pittore e scenografo Daniele Lievi Peter Iden Davanti ai miei occhi, ogni giorno, c’è un quadro di Daniele Lievi, un suo regalo di giorni ormai lontani. Si tratta di una composizione astratta, molto delicata, come un pensiero fugace. È come se i toni del blu fossero sospesi, al centro, sulla superficie bianca. E là dove il blu va sfumando appare una forma chiara semitonda: si potrebbe pensare alla falce di luna sulle acque del lago, di quel lago di Garda che il giovane Daniele aveva saputo scorgere, nelle sue infinite metamorfosi, già dalle finestre della casa dei genitori nei pressi del porticciolo di Villa di Gargnano. Daniele Lievi è sepolto nel cimitero della cittadina. Il grandioso paesaggio del lago l’aveva influenzato profondamente e per la vita, sia come pittore sia come creatore di immagini nelle scene teatrali. Nella sua pittura c’è una nostalgia che vuole trascendere il giorno, l’inquietudine di un desiderio che irrompe silenziosamente. E proprio questo è stato anche il segreto del commovente incantesimo delle sue scene. Nei suoi due lavori – le scene per l’Enrico IV di Pirandello e per Il tempo e la stanza di Botho Strauß, rappresentati rispettivamente nel 1989 e nel 1990 all’Akademietheater di Vienna – è come se Daniele Lievi avesse cercato di cogliere e di rendere visivamente la fugacità del tempo. Nel dramma di Pirandello, attraverso uno squarcio che si apriva sul fondo della scena al di là di un vetro, improvvisamente si vedeva cadere la neve. Ogni movimento sulla scena si bloccava per la durata di quel lungo attimo in cui, grazie a un segno concreto, il transeunte diventava visibile. In Il tempo e la stanza due uomini, Julius e Olaf, sono seduti in una stanza e all’inizio osservano dalla finestra la strada, da cui poi fanno salire in casa quella che sarà la protagonista delle scene successive. Di scorcio, sulle facciate delle case che hanno di fronte, nella messinscena di Vienna si vedeva la luce del giorno cambiare gradualmente dal mattino alla sera. L’effimero visto come qualcosa di duraturo, il tempo inteso come qualcosa che permane nel momento stesso in cui trascorre. Tutto ciò che della vita si manifesta sul palcoscenico si dimostra relativo rispetto a questa esperienza fondamentale, assolutamente propria del teatro, per cui la fugacità diviene paradossalmente durata. Poco tempo, appena un decennio, è stato concesso allo scenografo Daniele Lievi per dare forma alle sue fantasie teatrali. Egli è scomparso nel 1990, a soli trentasei anni. I progetti da lui realizzati partono da uno dei primissimi lavori, la scenografia per un testo del fratello Cesare, allestito allora nel minuscolo Teatro dell’Acqua sul lago di Garda, per 21 arrivare, attraverso i lavori per il teatro di Heidelberg e il Clavigo di Milano (1987), alle scene per Sonata di fantasmi di Strindberg a Vienna (1987), per la Caterinetta di Heilbronn di Basilea e per le due già citate rappresentazioni viennesi di Pirandello e di Botho Strauß. L’elemento drammaturgico della scenografia, il necessario collegamento cioè tra uno spazio e una certa scena in cui gli attori debbono recitare, per Daniele non è mai stato un vero e proprio problema, dato che le sue idee scenografiche si sono sempre sviluppate in intimo contatto con i pensieri di suo fratello, il regista Cesare Lievi. I loro spettacoli, arricchiti dai costumi di Mario Braghieri a loro affine per concezione teatrale, erano infatti interpretazioni immaginate e ideate in comune e nascevano da una quasi naturale compenetrazione e da una reciproca complementarità tra strutture drammatiche, conduzione degli attori, organizzazione delle scene da una parte e appropriato spazio scenico dall’altra. In una dozzina di spettacoli realizzati in Italia, a Francoforte, nel teatro di Peter Stoltzenberg a Heidelberg e poi a Vienna e a Basilea, questa affinità si è dimostrata una qualità del tutto particolare. Essa non escludeva le discussioni e le obiezioni fra regista e scenografo nelle singole fasi della preparazione, ma poi la storia comune rendeva comunque possibile la soluzione dei contrasti. C’era una permeabilità dell’immaginazione dell’uno e dell’altro, come poche volte capita di trovare nel mondo del teatro. È così che Otomar Krejca è riuscito a lavorare con Josef Svoboda, Giorgio Strehler con Luciano Damiani e Ezio Frigerio, Peter Stein con Karl-Ernst Herrmann, qualche volta Claus Peymann con Achim Freyer. Quando Daniele, giovane studente di architettura, inizia a disegnare e a dipingere, è il modo in cui i suoi disegni liberi si dispongono tra “vicino” e “lontano” a essere determinante: in primo piano un segno preciso, la linea ben evidente, ma poi i colori e le linee sfuggono e sfumano in lontananza. Carte segrete, così Daniele ha chiamato una serie di questi disegni, appunti presi in segreto, ma anche capaci di girare attorno a un segreto come per gioco: miracolo del trasformarsi di un’immagine esteriore in un’immagine interiore che poi, grazie alle linee, ai colori e al contesto grafico del disegno torna a realizzarsi in espressione simbolica (di una sensazione, di uno stato d’animo). Negli abbozzi per la scena è ancora molto presente il piacere di un disegno che divaga, che disperde e nello stesso tempo condensa la realtà pura e semplice, un disegno che si sa capace di una rappresentazione poetica ed è in cammino verso di essa. Eppure questo desiderio si confronta poi con le esigenze del palcoscenico, gli oggetti di scena, le inevitabili determinazioni di luogo e gli elementi architettonici che creano sulla scena lo spazio per le figure e il luogo per un’azione e rappresentano punti d’appoggio per l’attore. In queste scenografie di Daniele Lievi si nota il suo amore per l’architettura e anche il piacere per la citazione, e quindi la sua predisposi22 zione per una sorta di classicismo. Certo, nella scenografia del Torquato Tasso di Goethe rappresentato a Brescia e a Milano, la colonna è circondata a mezz’altezza da un magico cespuglio in fiore, col che ogni rigore sembra superato con la lievità di un sorriso. Ma il conflitto saldamente costruito fra ordine e seduzione della natura non è forse un tema fondamentale del teatro drammatico? Spesso in questi spazi scenici faceva irruzione la natura: natura come acqua, che ha sempre anche funzione di specchio, nei due spettacoli tratti da Hofmannsthal, La miniera di Falun allestita alla Scuola di arte drammatica di Francoforte (1985) e Il ritorno a casa di Cristina rappresentata a Heidelberg (1987), e poi anche nella Caterinetta di Heilbronn di Kleist presentata al Teatro di Basilea. Oppure natura come evocazione di cieli e paesaggi lontani negli spettacoli del Teatro dell’Acqua, nella Donna del mare di Ibsen a Heidelberg (1986) e nel Clavigo a Milano. Una delle prime fatiche dei due Lievi fu, nel 1982 a Gargnano e cinque anni più tardi sulle rovine di Gibellina in Sicilia, La morte di Empedocle di Hölderlin: un cercare nella natura la verità degli ultimi e più profondi fondamenti della vita. Non è soltanto con gli attori che gli spazi di Daniele Lievi acquistano movimento. Essi contengono già di per sé una dinamica drammatica nella misura in cui sembrano tematizzare di continuo l’alternarsi di apertura e di chiusura, di un espandersi e di un restringersi sulla scena. Nel catalogo della mostra che il Museo di architettura di Francoforte diretto da Heinrich Klotz dedicò nell’autunno del 1988 all’opera di Daniele Lievi, Eugenio Bernardi afferma di aver notato per la prima volta questo ritmo e questa alternanza nel Barbablù di Trakl, allestito nel 1983 al Teatro dell’Acqua e poi presentato l’anno seguente alla Biennale di Venezia, e da allora più e più volte rimesso in scena. «Questo frammento lirico, affine allo stile di Hofmannsthal, fu rappresentato, secondo l’indicazione di Trakl, come uno spettacolo di marionette, ma con marionette interpretate da attori in carne ed ossa che apparivano e sparivano all’interno di uno spazio molto ridotto, uno spazio che a volte si apriva su un fondale azzurro e luminoso, ma poi si richiudeva fino a diventare una sottile fessura o si riduceva alla fascia luminosa ai piedi di un sipario non perfettamente calato, dove si intravedeva passare molto lentamente il lungo strascico di un abito da sposa o dove poteva apparire forse quella scarpa color azzurro cielo trapuntata di lustrini che per il giovane Andrea era come una spada a doppio taglio che gli trapassava l’anima con la più tenera delle voluttà e la più indicibile delle nostalgie». Questo mutare delle dimensioni della cornice delle scene ha qualcosa di improvvisamente onirico: soltanto nei nostri sogni vi è questa contiguità fra una visione d’insieme e un dettaglio improvvisamente messo in risalto e con ciò ingrandito fino a sconfinare nel surreale. Il 23 cambiamento di prospettiva è di volta in volta la parafrasi di un motivo determinante nel teatro dei Lievi: per loro le figure di un dramma sono sempre figure di confine tra luce e tenebre, giorno e notte, fra un essere così e un desiderio di trascendere. La loro realtà, come quella di Kleist, è immaginazione diventata corpo, estremamente concreta e nello stesso tempo governata dal sogno. Specialmente nelle scenografie per il Clavigo di Milano, per la Sonata di fantasmi di Strindberg a Vienna e per La clemenza di Tito all’Opera di Francoforte (1989) si è notato in questo scenografo un senso per le proporzioni spaziali particolarmente sviluppato, riscontrabile nel teatro contemporaneo soltanto nelle scenografie di Karl-Ernst Herrmann. È come se Lievi fosse riuscito a definire una misura perfetta per ogni ambiente da lui costruito e per ogni singolo elemento di cui esso è composto. È da qui che deriva alla scena la sua bellezza, la bellezza di una dimensione consolidata in se stessa, di un’armonia riconciliante. Il teatro dei Lievi si presenta in verità come un teatro di contrapposizioni poetiche, ma non nel senso di un suo insistere su misura e proporzione come elementi di una bellezza intesa come fine a se stessa, quanto invece come un teatro provocato dall’esigenza, riconosciuta nei testi stessi, di un equilibrio (per quanto utopico e irraggiungibile) tra le contraddizioni: in altre parole, dal desiderio di riconciliazione. I luoghi in cui si svolge il dramma sulla scena sono luoghi di transito, di passaggio. Per Daniele Lievi ciascuno di essi era anche un momento di “casa” e di “patria” nel senso più vasto del termine, come se, nei luoghi del loro più effimero soggiorno, gli uomini avessero un’immagine interiore della meta verso cui sono eternamente in viaggio. Ciò non impedisce loro di sentirsi estranei, in posizione incerta, di essere soli nell’ambiente che li circonda. Nel Torquato Tasso pareti e colonne opprimono il poeta rinchiuso nella corte di Ferrara, come nel Nuovo inquilino di Ionesco allestito a Heidelberg il protagonista alla fine è separato dal mondo e chiuso dentro una botte. Nella Sonata di fantasmi di Vienna il meraviglioso spazio racchiude i personaggi-mummie come una prigione, nella Clemenza di Tito di Francoforte i muri scoppiano e cadono a pezzi, se ne vedono le rovine minacciose. Ma nella grande stanza in cui Clavigo e Marie muoiono, uno accanto all’altra, vi è in alto sulla parete di fondo un’apertura rettangolare, attraverso la quale una bella luce azzurra (del maestro delle luci Gigi Saccomandi, spesso collaboratore dei Lievi) splende meravigliosa come una promessa. Segni, questi, che accennano comunque ad una speranza. Nella bellezza delle immagini il dolore per la fragilità del mondo non viene negato, ma continuamente superato – come incessante impulso della nostra nostalgia. Traduzione di Laura Bignotti 24 Le opere in mostra Variazione su L’anima dannata di Michelangelo, 1988 26 Carta segreta, 1989 27 Carta segreta, 1989 28 Carta segreta, 1989 29 Carta segreta, 1989 30 Carta segreta, 1989 31 Carta segreta, 1989 32 Disegno, 1978 33 Disegno, 1978 34 Disegno, 1978 35 Disegno, 1978 36 Disegno, 1978 37 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 38 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 39 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 40 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 41 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 42 Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980 43 Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen Heidelberg, 1986 44 Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen Heidelberg, 1986 45 Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen Heidelberg, 1986 46 Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen Heidelberg, 1986 47 Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen Heidelberg, 1986 48 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 49 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 50 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 51 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 52 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 53 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 54 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 55 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 56 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 57 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 58 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 59 Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin Gibellina, 1987 60 Studio, 1985-1986 61 Studio, 1985-1986 62 Studio, 1985-1986 63 Studio, 1985-1986 64 Studio, 1985-1986 65 Studio, 1985-1986 66 Studio, 1985-1986 67 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 68 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 69 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 70 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 71 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 72 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 73 Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist Basilea, 1988 74 Carta segreta 75 Carta segreta 76 Carta segreta 77 Carta segreta 78 Carta segreta 79 Carta segreta 80 Carta segreta 81 Carta segreta 82 Carta segreta 83 Carta segreta 84 Carta segreta 85 Carta segreta eseguita con la mano sinistra 86 Carta segreta 87 Carta segreta 88 Carta segreta 89 Carta segreta 90 Carta segreta 91 Carta segreta 92 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 93 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 94 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 95 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 96 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 97 Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss Vienna, 1989 98 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 99 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 100 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 101 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 102 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 103 Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi Francoforte, 1990 104 Bozzetto per Parsifal (I atto) di Richard Wagner Milano, Teatro alla Scala, 1991 105 La torre, dipinto su cartone, 1989 106 Grande spirito infernale, dipinto su cartone, 1989 107 Sommario p. 3 Tino Bino p. 5 Elena Cantarelli p. 17 Cesare Lievi p. 19 Eugenio Bernardi p. 21 Il ricordo di Daniele Lievi Daniele Lievi: una vita per l'arte Una mostra di Daniele Le Carte segrete, un dono sorprendente Ai confini tra la realtà e il sogno: il pittore e scenografo Daniele Lievi Peter Iden p. 25 Le opere in mostra 109 Scenografia - 2 Daniele Lievi. Il teatro. I segni Mostra promossa e organizzata dall’Associazione Artisti Bresciani e dal Comitato per il ricordo di Daniele Lievi con il patrocinio di CTB Teatro Stabile di Brescia Brescia, AAB, salone del Romanino 8 gennaio – 2 febbraio 2011 Comitato scientifico-organizzativo Eugenio Bernardi, Carla Bino, Tino Bino, Elena Cantarelli, Peter Iden, Cesare Lievi, Bianca Simoni Cura della mostra Bianca Simoni ed Elena Cantarelli Cura del catalogo Vasco Frati, Giuseppina Ragusini e Bianca Simoni Traduzioni dal tedesco Laura Bignotti Progetto grafico del catalogo Martino Gerevini Allestimento Dipartimento di scenografia dell’Accademia di Belle Arti LABA docente: Albano Morandi; assistente: Marco Amedani Referenze fotografiche Studenti del Dipartimento di scenografia dell’Accademia di Belle Arti LABA Flavio Martins dos Santos Presidenza dell’AAB Vasco Frati Segreteria dell’AAB Chiara Malzanini e Corrado Venturini L'AAB e il Comitato ricordano insieme Daniele Lievi e Martino Gerevini. Fotocomposizione e stampa Arti Grafiche Apollonio – Brescia Finito di stampare nel mese di dicembre 2010. Di questo catalogo sono state stampate 200 copie.