catalogo LIEVI - AABAssociazione Artisti Bresciani

scenografia
COMUNE DI BRESCIA
PROVINCIA DI BRESCIA
ASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI
COMITATO PER IL RICORDO
DI DANIELE LIEVI
DANIELE
LIEVI
IL TEATRO.
I SEGNI
mostra a cura di
Bianca Simoni ed Elena Cantarelli
176
edizioni aab
aab - vicolo delle stelle 4 - brescia
dall'8 gennaio al 2 febbraio 2011
orario feriale e festivo 16.00-19.30
lunedì chiuso
Il ricordo di Daniele Lievi
Tino Bino
Bisogna pur dire: ricordo. La memoria peraltro è la sola fedeltà alla
vita. Ricordo come fosse oggi quel novembre di vent’anni fa, il giorno
dei funerali di Daniele; una giornata di pallido sole sul lago avvolto in
una bruma leggera, pacifica, conciliante, che enfatizzava il silenzio del
porticciolo di Villa a Gargnano. E ricordo il lungo corteo di amici che lo
accompagnarono nell’ultimo viaggio: teatranti e spettatori, conoscenti
e collaboratori e la gente di Gargnano, increduli per la scomparsa di un
così giovane talento della cultura.
Sì, Daniele era un talento precoce della scena e della cultura.A quell’età,
laurea in architettura, aveva già diretto con il fratello Daniele il Burgtheater di Vienna, che è, anche fisicamente, la Scala, il tempio riconosciuto
delle macchine teatrali europee. Andai qualche volta a trovarlo nel suo
ufficio viennese. E andai a vedere le prime teatrali sue e di Cesare
a Berlino, a Francoforte, a Basilea. Daniele e Cesare erano divenuti
celeberrimi nei teatri di mezza Europa, dopo l’esordio nel teatrino di
Gargnano, dove arrivai più sere in compagnia di uno dei loro più affezionati ammiratori, Luigi Bazoli, per vedere e rivedere quel breve,
intenso ed emozionante, struggente Barbablù ripreso adesso – al Santa
Chiara – da Cesare come una parte dell’omaggio a Daniele, a vent’anni
dalla scomparsa.
Ed è questo l’anniversario che giustifica, nella sede dell’AAB, la riproposizione di buona parte del suo lavoro, dei suoi bozzetti di scena, delle
sue Carte segrete, delle sue scenografie, delle sue geniali composizioni
grafiche, del suo naturale talento, condensato nei non molti anni della
sua attività.
Non perderne la memoria è stato l’obiettivo del comitato di amici
che firmano questa esposizione; e insieme, in questa sede, consegnare
Daniele, definitivamente, alla memoria della pittura e della cultura bresciane.
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Daniele Lievi: una vita per l’arte
Elena Cantarelli
Verona, 14 settembre
«Ed ora, della mia gita sul lago. Questa si compì felicemente con grande
esultanza del mio spirito per lo splendore dello specchio d’acqua e
della riva bresciana che ne è bagnata. A ponente, dove la montagna non
è più a picco ed il suo suolo discende più dolcemente intorno al lago,
si stendono in fila per il tratto di circa un’ora e mezzo i paesi di Gargnano, Bogliaco, Cecina, Toscolano, Maderno, Gardone e Salò, sdraiati
tutti sulla riva. Non è possibile esprimere a parole l’incanto di questa
lussureggiante riviera.»1
Con parole piene di meraviglia Goethe descrive la sponda bresciana
del lago di Garda, durante il suo viaggio in Italia. Proprio su questa riva,
per la precisione a Villa di Gargnano, uno dei piccoli paesi su citati, il
13 marzo del 1954 nasce Daniele Lievi. L’infanzia trascorsa a rimirare
un simile paesaggio non può che influire sulla formazione estetica del
piccolo Daniele e contribuire all’inclinazione teatrale del suo sguardo:
«Dalla loro casa lo sguardo si posa sul lago che cambia aspetto ad
ogni momento, mentre sull’altra sponda si vedono le linee morbide
del Monte Baldo. È un grandioso paesaggio italiano, davanti al quale la
piazza di Villa è come un palcoscenico: un palcoscenico della vita che
ha per fondale un immenso scenario naturale. […] Quando Daniele,
giovane studente di architettura, comincia a disegnare e a dipingere, è
questo paesaggio a guidargli la mano.»2
L’educazione artistica ha dunque un inizio precoce; si compone oltre
che della poesia dei luoghi anche del “gioco al teatro” – fatto di favole,
travestimenti, siparietti costruiti con il fratello Cesare per intrattenere amici e parenti – e conduce Daniele, ormai adolescente, a vivere
con attesa e ardore le prime temperie culturali con cui il Sessantotto
lambisce la piccola provincia bresciana. Daniele frequenta il cineforum
locale, affascinato dal cinema di Pasolini, Bellocchio, Godard. Non è
però solo la provocazione tematica a toccarne la sensibilità, ma anche
– forse soprattutto – quella strutturale: il montaggio, la possibilità di far
convergere diversi linguaggi, le tematiche meta-cinematografiche di cui
soprattutto Godard è sapiente autore. A soli quattordici anni Daniele
Lievi sa già che non potrà che essere un artista: si iscrive all’Istituto
Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1983, p. 34.
Peter Iden, Daniele Lievi, Bühnenbilder, Freie Volksbühne, Schaperstraße, Oberes Foyer,
3-20 maggio 1991.
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d’arte del Garda per poi “migrare” a Venezia, Facoltà di architettura,
indirizzo scenografico.
Venezia è la seconda tappa dell’iniziazione di Daniele. È il 1974, la Serenissima è una delle vetrine più originali del teatro italiano. C’è la
Biennale, in quegli anni diretta da Luca Ronconi, che porta per la prima
volta nel nostro paese l’avanguardia internazionale, quella americana
di Meredith Monk e del Mama Theatre, l’esoterismo di Grotowski, e
poi ancora lo sguardo surreale di Bob Wilson. Tutti nomi oggi arcinoti,
allora – in Italia – pressoché sconosciuti. E c’è la Biennale di architettura, ove l’esplosione postmoderna la fa da padrone. Ma Daniele non si
ferma, non gli bastano gli studi accademici; viaggia molto, respira l’internazionalità, frequenta i festival europei, in modo particolare quelli francesi, Avignone, Parigi. Suggestioni molteplici e svariate che ripensate,
amalgamate, trasformate confluiranno nella sua poetica. Che non ha a
che vedere solo con il teatro: scenografo, pittore, grafico, Daniele Lievi
nel breve intervallo che la vita gli concede è senza dubbio un artista
completo e versatile.
Il teatro – non vi è dubbio – è la sua grande passione, tanto che già alle
superiori muove passi significativi in tale direzione3 e già per questi primi tentativi chiama in soccorso – proprio come quando erano bambini
– il fratello Cesare. Da una parte Daniele studente d’arte e architettura,
appassionato di pittura, in cerca di continui stimoli per far lievitare la
sua immaginazione, dall’altra il fratello intellettuale, iscritto alla Facoltà
di filosofia, cultore della letteratura classica e dei pensatori tedeschi.
Sguardo e parola, occhio e ragione, lo scenografo e lo scrittore (e regista). Ecco la doppia anima che si riversa nel teatro dei fratelli Lievi4,
che avrà un’influenza di non poco conto sull’opera di Daniele. La sua
riflessione artistica è sempre percorsa da una dialettica che solo sulla
carta, meglio ancora sulla scena, si concilia: estremismi postmoderni e
razionalità classica, visioni che devono già essere parole, la fugacità del
teatro e l’eternità dell’architettura, la libertà del colore e le esigenze
della rappresentazione, la vita e la morte, di cui infine resterà solo l’Arte, capace di vincere persino la morte.
L’opera di Daniele è dunque rivolta al teatro, è rivolta al teatro anche
nel momento in cui questo è ancora lontano dalla sua vita. I primi
lavori che vengono raccolti ed esposti in una mostra organizzata dalla
Biblioteca di Gargnano nell’agosto del 1978 coincidono con una serie
di disegni fatti a penna e pennarello, su carta bianca o gialla con sovrapposizione di piccoli figurini o lettere alfabetiche trasferibili. Figure che
L’esame di maturità per il corso di Educazione visiva viene svolto in forma di un saggio
teatrale tratto da Quanto costa il ferro di Brecht.
4 Denominazione usata dalla critica tedesca dopo l’allestimento del Nuovo inquilino di
Ionesco (Heidelberg, 1988).
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già cercano di abitare lo spazio del foglio (proprio come gli attori abiteranno di lì a breve le sue scenografie) occupandolo completamente
o addensandosi in un suo angolo. E sono altresì figure che rimandano a
mondi fantastici, all’immaginario fiabesco, legate fra loro da associazioni
quasi surreali. Una produzione sì svincolata dal teatro, ma che in certo
modo ad esso già guarda o rimanda; non è un caso che troviamo personaggi mascherati, sipari nascosti, tratti di architetture teatrali e non è un
caso che molti di questi oggetti andranno a popolare i primi spettacoli
dei Lievi (la mezzaluna, l’albero, la barca, il sole). Ma più importante per
il successivo evolversi di quella che possiamo a buon diritto chiamare
la drammaturgia visiva di Daniele Lievi è la componente narrativa “disegnata”, leggibile attraverso alcuni segni che tengono insieme le figurine
di queste prime opere: frecce, linee tratteggiate, segni di legatura come
in uno spartito musicale, parole di raccordo stanno chiaramente ad
indicare un
nesso poetico tra le piccole immagini, che intendono già raccontare
una loro storia fatta di legami del tutto insoliti, quelli appunto fiabeschi
e spaventevoli tipici di una parte del teatro dei Lievi.
Il primo passo decisivo verso la definizione di una carriera più “stabile” coincide con la fine degli anni Settanta, quando Daniele e Cesare
decidono di provare a misurarsi più concretamente con il mondo del
teatro. I due hanno innanzitutto bisogno di uno spazio, anche piccolo,
dentro il quale poter continuare ad alimentare il loro sogno. Chiedono
aiuto al Comune di Gargnano e dopo qualche peripezia ottengono una
caserma militare non più in uso. Lasciano un annuncio nelle scuole del
quartiere per reclutare gli attori con cui iniziare a costruire una loro
compagnia. Primo spettacolo è Passaggi nel filo (1980)5, elaborazione
che Cesare Lievi fa dell’Elettra di Sofocle, spettacolo che a sua volta
dà avvio al Teatro dell’Acqua, nome allusivo e simbolico che omaggia sì
l’amato lago, ma allo stesso tempo detta le direttive poetiche del giovane ensemble. L’acqua nasconde, confonde, non offre certezze, rende
l’immagine ambigua. In misura analoga il Teatro dell’Acqua, fatto da giovani, poco più che adolescenti, che ancora stanno cercando un loro posto nel mondo, non offre risposte precostituite, ma pone interrogativi,
lascia spazio al sogno, alla fiaba, alla paura e al desiderio di crescere. Per
Daniele il Teatro dell’Acqua è anche lo spazio della sperimentazione;
libero da esigenze produttive e commerciali il giovane scenografo può
creare le soluzioni più svariate e ardite: «[…] il lavoro artigianale cui
era costretto (non si trattava solo di progettare le scene, ma anche di
costruirle) e la mancanza di mezzi tecnici e finanziari lo obbligavano a
Lo spettacolo viene messo in scena a Villa Gardone, dal momento che la Caserma
Magnolini non è ancora agibile.
5
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sperimentare materiali normalmente ignorati in teatro e a escogitare
soluzioni impreviste, accumulando così un patrimonio di idee che, realizzate più tardi in grandi teatri, sorpresero critica e pubblico»6. Da questo momento ha inizio un legame più stretto tra la creazione artistica
di Daniele e la sua attività di scenografo. Un legame, si badi, del tutto
originale che non deve far pensare al tradizionale rapporto bozzettoscena. Il bozzetto – ossia il disegno preparatorio alla realizzazione scenografica – non coincide con la realistica elaborazione grafica della
scena teatrale; il bozzetto di Daniele Lievi è intimamente connesso
allo spettacolo, ma allo stesso tempo possiede una sua vita autonoma.
Rubando ancora una volta le parole a Cesare Lievi potremmo meglio
definirlo «il luogo di avvicinamento e circumnavigazione dello spazio
scenico alla ricerca della sua definizione, che sarà tutta volumetricospaziale»7, una sorta di studio sullo spazio e non una sua conchiusa
definizione. È con il secondo spettacolo del Teatro dell’Acqua – L’ultima
stanza (1980) – che la produzione grafica di Daniele si sovrappone a
quella per il teatro. Ma già questi primi “bozzetti” non sono assimilabili
ai consueti progetti di scena. Prova ne è la precisione del segno grafico
che mira a porsi come linguaggio autonomo; l’uso “sporco” dell’acquerello che macchia e allaga
il disegno rendendo impossibile leggerlo quale corrispettivo biunivoco
della scena teatrale. Questi lavori anticipano per altro quello che sarà
un punto nevralgico della produzione matura di Daniele: la dialettica tra
razionalità architettonica, che coincide
con la “naturalistica” scatola prospettica, e l’anarchia del colore, che
deborda, sfonda, dilaga sul segno grafico. Dialettica che lo riporta altresì a una primordiale e ontologica riflessione sulla vita, intesa come
tensione di forze contrastanti, che portano a una frattura (nella vita
reale insanabile) tra pulsioni individuali – anarchiche e irrazionali – e
loro costrizioni dentro le regole – spesso claustrofobiche – del mondo
“sociale”. Quale ne sia il senso ultimo, appare comunque evidente la
voluta impressione criptica del disegno spaziale. Daniele compie una
serie di schizzi, meglio fotocopia il primo e su questo apporta via via
modifiche che, anziché chiarire l’intenzione di partenza, non fanno altro
che confonderla, decostruendo l’unità spaziale originale: sfonda pareti,
cela parte dell’immagine, sino ad aprire la scatola scenica su una macchia blu, un’ipotetica volta celeste. Perché Daniele non ha intenzione di
limitarsi a tracciare la forma della scena, quanto riflettere su di essa e
a un tempo riflettere sul significato profondo del testo, in certo modo
comprenderlo dentro le sue raffigurazioni, fermarlo visivamente. L’ultiCesare Lievi, L’ossessione della diagonale. Una biografia, in Daniele Lievi. Scene di teatro,
catalogo della mostra, Museo Ken Damy, Brescia, novembre 1992, p. 26.
7
Ivi, p. 20.
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ma stanza racconta – il testo è ancora di Cesare – di un giovane chiuso
in una stanza, una soffitta (“l’ultima prima del cielo”) dalla quale sogna
e immagina mondi infiniti. Percorrendo una strada analoga i disegni di
Daniele sovrappongono il luogo della realtà – la stanza prospettica, che
non a caso coincide con la stanza reale del Teatro dell’Acqua – con
quello dell’immaginazione. Un luogo fisico e uno fantastico convivono
e si fondono sulla pagina di Daniele. Questo è il significato profondo dei
disegni di Daniele, questo per lo scenografo gardesano è il “miracolo”
del teatro, capace di sovvertire e re-inventare la materia di cui è fatto
il mondo.
Dell’uso “libero” del bozzetto Daniele fa una vera e propria vocazione,
sino ad arrivare a comporre quelle che lui stesso chiama Carte segrete,
ovvero studi che non necessariamente hanno un legame antecedente al
teatro. Queste Carte, così definite per la prima volta in occasione della
mostra “Spuren in ein Theater” presso il Museo dell’Architettura di
Francoforte (giugno 1987), sono disegni concepiti tra il 1984 e il 1990,
che si pongono in un’ambivalente relazione con l’allestimento scenico.
In effetti sino al 1987 Daniele ne parlava in termini di Studi, a indicare
il carattere non assertorio e la vicinanza al disegno per la scena. «Le
“Carte segrete” sono quindi studi preparatori […], banchi di prova
per future realizzazioni sceniche, ma soprattutto “coagulatio” di elementi destinati a riaffiorare spaiati e spaesati nelle singole scenografie.
Sono qualcosa di più rispetto alle realizzazioni sceniche […], ma anche
qualcosa di meno. Di queste manca la necessaria concretezza mentre
vi appare, in modo più articolato e completo anche se astrattizzato, il
mondo poetico che sta alla loro base.»8 Siamo dunque di fronte a schizzi che cercano di mettere su carta una serie di suggestioni derivanti
dalla lettura del testo, dallo svolgimento delle prove, dalla realizzazione
stessa dello spettacolo. Dentro possiamo trovarvi una serie di possibilità che la scena teatrale non aveva previsto o non aveva voluto usare,
talvolta sono solo riflessioni dell’autore che poco o nulla hanno a che
vedere con quello che c’è sul palcoscenico. In pratica le Carte segrete
sono realizzate per sovrapposizione di svariate tecniche artistiche: Daniele prendeva un foglio, gli versava sopra della trielina di modo che si
formasse spontaneamente una macchia di colore, su questa passava
delle pagine di rivista stampata, sì da creare delle fratture dentro la
macchia, sulle quali andava infine ad inserirsi con il tratto grafico per
disegnare elementi spaziali, più o meno realistici. L’intuizione prima è
allora la macchia, il caos, l’informe. Da questa nebulosa di colore affiora
una serie di impronte, linee (quelle disegnate sulle tracce della carta
stampata), che la mano umana controlla e usa per inquadrare la materia
8
Ivi, p. 19.
9
entro un ordine definito, che però non riesce mai a essere del tutto
compiuto: la macchia sborda sempre dai confini che la matita tenta di
imporgli. Nella modalità di assemblaggio di queste Carte sta il significato recondito di molte scene di Daniele, che improvvisamente rivelano
la presenza di altri mondi, palesando dietro una rigorosa cornice architettonica una prospettiva aberrante e misteriosa (dichiarato nella
Caterina e nel Macbeth, ma anche in tutte le scene che si trasformano
per modificazione della “Stanza”, da Tasso alla Clemenza di Tito, o ancora
nell’utilizzo della Verwandlung). Sovente la ricerca teatrale di Daniele
trova una soluzione concreta in spazi scarnificati, essenziali, di impianto
rigoroso, che pure lasciano uno spiraglio aperto sulla possibilità di infiniti altri mondi; in maniera analoga la fantasia del giovanissimo Daniele
era stata sollecitata dal lago, dal “suo” lago, “luogo dove si ha sempre la
sensazione d’essere altrove”.
Le Carte segrete danno modo a Daniele di studiare “visivamente” il teatro, anche quando non è direttamente coinvolto nelle vesti di scenografo. È quello che accade nel 1987, in occasione della messa in scena di La
morte di Empedocle di Hölderlin. In tale circostanza Daniele si trasforma
in regista, lavorando a doppie mani con il fratello, mentre le scenografie vengono curate da Nunzio, un noto scultore contemporaneo. Ciò
nonostante è proprio in occasione di questo spettacolo che Daniele
dà vita a uno dei suoi progetti grafici più elaborati. Dal momento che
Daniele non è chiamato a misurarsi in prima persona con le scene, i disegni svolti per l’occasione nascono da una riflessione sul testo e sulla
particolarità del luogo scenico ove sarà rappresentato. I fratelli Lievi si
trovano infatti alle “Orestiadi” di Gibellina, la città sicula distrutta dal
terremoto nel 1968. I disegni di Daniele convergono in una serie di fogli, circa una decina, sui quali il nostro artista, partendo da una fotografia dei ruderi della città vecchia, elabora una sorta di mappa geologica
dell’area. Tutti i disegni mostrano una struttura identica: il contorno
dell’area della città, attraversato verticalmente da una lunga macchia
che somiglia alla forma di un albero sradicato. La variazione gioca sul
colore, sull’omissione di certi particolari, su brevi tratti spezzati che
inseguono linee centrifughe, sull’alternanza di segno pittorico e geometrico. Negli ultimi disegni il colore, la macchia – quella che abbiamo
detto somigliare a un albero – finisce per prendere sempre più il sopravvento sulla linea, giusto come accade alla tragedia di Hölderlin, i cui
ultimi versi fanno “morire” il teatro sotto l’altezza del verso poetico:
«La morte di Empedocle e le tre scene complete dell’Empedocle sull’Etna
sono tra le vette della letteratura – fredde, di difficile accesso e di una
nobiltà incomparabile. […] La loro grandezza stava troppo in alto; perché il teatro potesse continuare a vivere bisognava che l’immaginazione
10
scendesse a terra»9. Ma,
in certo modo, la stessa
Gibellina testimonia nella
tragedia della sua storia
l’intuizione di Daniele.
Tornando ora al Teatro
dell’Acqua, si giunge finalmente al momento cruciale della sua storia, allorquando Daniele arriva
ad elaborare una delle sue
scene più note ed ardite,
che consente altresì ai
due fratelli di fare il “grande salto” verso il teatro
professionistico. Nel 1984
la compagnia gardesana lavora sulla figura di Barbablù dando vita a un duplice
spettacolo. Il primo, fatto a
Gargnano, unisce le pagine
di Ludwig Tieck a quelle di Barbablù di George Trakl, Brescia,Teatro Santa Chiara,
Cesare Lievi e “costringe” dicembre 2010
Daniele a sfidare le angustie della sala costruendo un palco nel palco sul quale attori e spettatori
possano partecipare a un raffinato gioco metateatrale. Su invito del professor Eugenio Bernardi, in platea è presente il giornalista Franco Quadri
che – allora direttore della Biennale – invita i giovani artisti a lavorare
su un tema analogo, da inserire in una sezione del Festival veneziano,
dedicato alla Secessione viennese. La scelta cade ancora sul terrifico Barbablù, ora filtrato dai versi del poeta “maledetto” George Trakl. Questo
secondo Barbablù costituisce a un tempo il vertice e il compimento della
poetica del Teatro dell’Acqua; in esso ritroviamo un po’ tutte le ossessioni che avevano affastellato l’immaginazione di Daniele (e del fratello
Cesare) sin dall’infanzia: la fiaba come luogo del gioco ma anche della
paura, l’immaginazione come facoltà creatrice di mondi “impossibili” e
come unico strumento di indagine della realtà, il teatro come fusione di
linguaggi diversi, l’amore per il cinema e per le sue possibilità tecniche. Il
Barbablù è forse il prodotto più alto della drammaturgia visiva di Daniele, risultato esemplare dell’osmosi tra il suo lavoro e quello del fratello,
coincidenza praticamente perfetta tra immagine e parola.
9
George Steiner, La morte della Tragedia, Garzanti, 2005, pp. 204-205.
11
Superata la concezione spaziale del precedente Barbablù, Daniele unisce lo spazio della realtà a quello della finzione, trasformando la sala
teatrale in una grande scatola nera dentro la quale è sito il pubblico,
che spia dentro un pertugio realizzato sul palco lo sfilare di una sequenza ininterrotta di immagini oniriche. Dietro l’arcoscenico si apre
uno spazio ridottissimo, ulteriormente sacrificato dal momento che è
continuamente abbassato, scorciato, suddiviso attraverso un complesso
sistema di paratie mobili, sipari a ghigliottina, pannelli neri che lasciano
scorgere solo porzioni minime della rappresentazione. Il pavimento, di
legno chiaro e grezzo, è solcato da tagli orizzontali dai quali compaiono e scompaiono gli attori, più simili a marionette che a esseri umani
in carne e ossa, visibili spesso solo a mezzo busto. Verità e finzione,
tempi e spazi diversi si sovrappongono in un sapiente gioco, che non
prevede una netta separazione tra immaginazione e realtà. Le sequenze
si susseguono l’una all’altra in maniera molto prossima al montaggio cinematografico, toccando tramite segni di grande effetto i punti cruciali
della fabula di Barbablù: la voce fuoricampo di un vecchio che ricorda il
matrimonio, molteplici veli da sposa, una mano con un coltello insanguinato, una sposa suicida, alberi in fiore e poi di nuovo l’incombere della
morte con rami secchi e cieli plumbei. La parola di Trakl sopravvive solo
in brevi frammenti e la capacità drammaturgica della scena è tale che
buona parte della critica loda l’incantevole “poema visivo”, al quale ha
appena assistito.
Il successo è travolgente. I fratelli Lievi ce l’hanno fatta. Hanno superato
l’impasse dell’adolescenza e sono entrati a gran voce nel mondo degli
Barbablù di George Trakl, Brescia, Teatro Santa Chiara, dicembre 2010
12
adulti. Ha ora inizio una nuova fase, più matura, in cui le suggestioni fantastiche precedenti si devono coagulare in un magistero più compiuto.
Questa seconda parte della storia di Daniele Lievi cambia scenario, si
sposta in Germania, dove avrà luogo praticamente tutta l’ultima fase
della velocissima e straordinaria parabola dello scenografo gardesano.
Il sipario si apre ora su Francoforte sul Meno – dove i nostri artisti
sono giunti grazie all’aiuto del critico e studioso Peter Iden – per poi
spostarsi ad Heidelberg, Vienna, Basilea, acclamati nei templi sacri del
teatro europeo. In Germania Daniele si trova per la prima volta a lavorare dentro un teatro “vero”, insieme ad attori professionisti, la sua
opera smussa gli angoli, elimina le insicurezze, si fa più definita, senza
per questo perdere il legame con le esperienze precedenti. La sua
idea di un teatro creatore di mondi infiniti, di un luogo, l’unico luogo,
dove è esperibile la convivenza del sogno e della realtà è viva sin dalla
realizzazione dei primi esperimenti “tedeschi”. La ricchezza linguistica
offerta dal teatro, già messa alla prova con la scatola nera di Barbablù,
rivela ulteriori possibilità a partire da La miniera di Falun (1986), ove
per la prima volta Daniele ricorre a un espediente iterato anche nella
produzione successiva. Il dramma scritto da Hofmannsthal prevede di
fatto due ambienti completamente diversi (uno di impianto realistico,
l’altro più simbolico) e soprattutto contempla un triplice cambio di
scena a sipario aperto (Verwandlung). Da queste ripetute metamorfosi
è attratta la fantasia di Daniele, che intravede una grandissima possibilità estetica dietro un trucco apparentemente tecnico. Daniele usa
la Verwandlung come aveva usato la scatola del Barbablù; gioca ancora
alla variazione veloce di immagini, inglobando questa volta l’artificio
nello spettacolo e facendolo diventare un ingrediente sostanziale della lettura registica, ma più di ogni altra cosa dà ulteriore forza alla sua
idea di un teatro “magico”, capace di mostrare un luogo che all’improvviso si dissolve e si trasforma in un altro.
Il potere della Verwandlung tocca uno degli esiti più compiuti nella
Caterina di Heilbronn (1988), che insieme al Nuovo inquilino regala a
Daniele la qualifica di migliore scenografo dell’anno, su indicazione
della prestigiosa rivista «Theater heute». La Caterina di Kleist è in
buona sostanza una fiaba, con tanto di principe azzurro e strega cattiva, e come tale viene raccontata dai Lievi. La realizzazione scenica
di Daniele trasforma il palco in una vera e propria visione pur non
facendo ricorso a immagini magiche e illusionistiche, bensì ricorrendo all’arsenale di trucchi del teatro: uso poetico e drammatico delle
luci, costruzione di sagome giganti di animali, cambi scena realizzati
da angeli e cherubini, scenografie che scorciano sull’infinito, rendendo impossibile all’occhio umano scorgerne la fine. Rispetto alla gran
parte delle scene di Daniele, chiuse dentro una stanza, la prospettiva
qui si apre. In certo modo è come se la scena volesse mostrare quello
13
che c’è oltre, quello che
c’è fuori dal teatro. Ma
ancora una volta l’esplicito ricorso alla fiaba non
implica una dimensione
giocosa dello spettacolo.
Come tutti i lavori che
l’hanno preceduta, anche Caterina ha un fondo
tragico che si svela attraverso una lettura più
profonda dell’immagine.
Il mondo dove vagano
i protagonisti di questa
storia – fuor di metafora,
il palcoscenico – appare
immenso: dentro di esso
Caterina, il Conte e tutti
gli altri risultano piccoli
e sperduti. Lo sfondamento della stanza non
fa altro che precipitare
Barbablù di George Trakl, Brescia,Teatro Santa Chiara,
l’essere umano nel vuodicembre 2010
to, nello sconosciuto,
nell’oscurità. La quasi completa mancanza di limiti spaziali e la presenza di superfici riflettenti sul piano del palcoscenico che ripetono
ininterrottamente le immagini, proiettano l’attore, e con lui lo spettatore, non tanto verso l’infinito quanto verso ciò che è in-definito.
Al contrario di quanto la graziosa leggerezza dello spettacolo farebbe
credere «Daniele racconta una fiaba per non cedere al nero e al vuoto, è come Sharazàd: inventa incessantemente immagini per restare in
bilico, per non precipitare.»10
L’esuberanza visiva della Caterina è paragonabile solo a quella del
Macbeth (1990) di Verdi, l’ultimo allestimento che Daniele riesce a
portare a compimento da solo; purtroppo la malattia ha ormai sopraffatto il giovane scenografo e l’imminenza della fine ne muta il
tratto. A tale proposito può essere utile prendere le mosse dagli studi
grafici dell’artista, in particolare da alcune delle sue Carte segrete. Al
Macbeth corrisponde infatti l’ultimo disegno di Daniele. In confronto
alle precedenti Carte piene di colori e ombre, di macchie caotiche, ma
comunque circoscritte in proporzioni geometriche, non è qui possi-
10
Cesare Lievi, op. cit, p. 35.
14
bile non prendere atto di una trasformazione. Quest’ultima incisione,
che porta a compimento una serie di studi “sulla diagonale”, riproduce un quadrato definito da linee nere e spaccato in due da una riga
verticale; dentro di esso si iscrive un cerchio imperfetto e nascosta
da un insieme disordinato e “rabbioso” di segni si intravede una diagonale che punta verso il basso: «Non ci sono più linee “umane” […].
Daniele giunge “al limite”. Oltre c’è il nulla.»11 Le scene di Macbeth si
situano alla medesima altezza cronologica della Carta suddetta, ma a
differenza di essa riescono a sublimare il non sense della vita. L’intuizione di Daniele prevede che lo spazio si trasformi a partire da pochissimi elementi: una piattaforma di rigore “elisabettiano” è lo stage
destinato alle scellerate azioni di Macbeth e della Lady. La piattaforma
citata è inoltre circondata da acqua (nella scena specchi), il “non luogo” abitato dalle streghe, ma allo stesso tempo luogo precipuo e specifico dell’inganno e dell’illusione (il teatro?); infine cinque torri mobili
a sezione concava disegnano l’emi-perimetro della pedana. Nel primo
incontro tra Macbeth e le streghe, queste torri sono disposte su due
lati entro un’immagine asimmetrica, nello spazio intermedio che ivi si
viene a creare si inserisce un albero spoglio, sospeso nel vuoto, calato
dall’alto: la scena si colora subito di sfumature surreali e inquietanti. I
mutamenti successivi si compiono a partire dallo spostamento delle
cinque torri e dai giochi della luce. Per costruire la residenza di Forres, per esempio, Daniele colloca tre torri da un lato e tre dall’altro,
suggerendo allo spettatore che gli specchi delle streghe siano ora
un fossato di protezione; il castello di Inverness è reso mediante la
copertura di due torri con un velo rosa, mentre nel mezzo viene
proiettata la sagoma di un rapace nero. Daniele concepisce per la sua
ultima scenografia una metamorfosi visiva mai sperimentata prima
e, nonostante il disegno sia più spigoloso, la natura arida, i colori inquietanti, l’artista riesce comunque a dominare il Caos, a costringere
il disordine in forme rigorose e proporzionate. Se l’esuberanza su
menzionata può svilupparsi tutta a partire da un’unica immagine – lo
scorrimento delle sei torri – è allora vero che ancora una volta la
fragilità umana – la follia dell’ambizione, quanto la disperazione della
malattia – può per qualche ora restare confinata nella bolla effimera
e protettiva del teatro.
Da quanto sin qui detto appare evidente che la seconda metà degli
anni Ottanta sancisce la fama dei fratelli Lievi, chiamati e plauditi tanto nei teatri di prosa quanto in quelli lirici. Se questa è la situazione
all’estero, ben diverso è quanto accade in Italia, che ancora fatica a
riconoscere il talento dei due gardesani. Pure al nostro Paese è of-
11
Ivi.
15
ferta più di un’occasione
per ammirare l’evoluzione del loro teatro. Tra il
1986 e il 1988 Daniele e
Cesare mettono in scena
Torquato Tasso e Clavigo
di Goethe, la già citata
Morte di Empedocle, ma
nonostante il buon esito
degli spettacoli, il breve “viaggio in Italia” si
conclude – con vicende
istituzionali poco felici
– piuttosto in fretta. Il
“riscatto” avverrà poco
dopo, nel 1990, quando ai
Lievi è finalmente offerta
la possibilità di un ritorno in grande stile. Dopo
aver visto alcune delle
loro regie liriche, Cesare
Mazzonis, allora diretBarbablù di George Trakl, Brescia, Teatro Santa Chiara, dicembre 2010
tore artistico del Teatro
alla Scala, li contatta per
il Parsifal wagneriano; accanto a loro, a dirigere cantanti e orchestra,
ci sarà il maestro Riccardo Muti. Lo spettacolo è destinato ad aprire
il teatro milanese il 7 dicembre 1991, certo una delle date più importanti per il mondo del teatro (non solo italiano). La soddisfazione per
aver conseguito un simile traguardo e la sospirata risposta italiana è
tutto quello che resta a Daniele, che riesce a preparare i bozzetti per
Parsifal, ma non a vederne il trionfo.
Nel 1990, a soli 36 anni, muore vinto da una malattia incurabile. Sarà
la sua arte – d’ora in avanti – a parlare per lui.
16
Una mostra di Daniele
Cesare Lievi
Oltre a creare scenografie sorprendenti per la loro qualità figurativa e
spaziale, attività testimoniata qui da alcuni “bozzetti” (La donna del mare
di Ibsen, Caterina di Heilbronn di Kleist) Daniele amava molto disegnare
e dipingere liberamente, per proprio diletto, per un bisogno di espressione completamente slegato dalla pratica teatrale e dai suoi bisogni,
eppure ad essa unita per contenuto, linguaggio o spirito d’esecuzione.
Lo faceva a Gargnano nel suo studio di casa o in quello della caserma
Magnolini per periodi brevi e intensi, intervallati da lunghe pause, legati,
il più delle volte, a momenti di quiete dell’attività teatrale e non pensava
ad esposizioni, a gallerie: l’unica mostra che fece in vita fu quella al Museo dell’Architettura di Francoforte diretto da Klotz nel 1987.
Lo faceva per sé, per la cerchia degli amici a cui li mostrava con piacere
ingenuo e consapevole allo stesso tempo e a cui spesso, con lo stesso
piacere, li regalava.
Non era però un’attività minore, anzi. Forse per volontà, affetto e dedizione superava quella teatrale che, per lui, era spesso tormentata nella
individuazione e oggettivazione dell’idea, ma facile e veloce nella sua
articolazione e realizzazione pratica.
Lo faceva, forse, perché il teatro non gli bastava, perché il teatro a un
certo punto “finisce” e ci sono ancora cose da dire che non sono state dette, immagini da focalizzare che la scena ha rifiutato, pensieri ed
emozioni da fissare ed esprimere, contrasti da illuminare e articolare,
elementi e fatti che la regia ha sorvolato e forse anche dimenticato, ma
che devono assolutamente essere posti in luce.
Lo faceva perché a un certo punto il teatro “scompare” e di esso non
rimane che un ricordo vago, un’emozione che si spegne sempre più,
una nostalgia.
Lo faceva contro il teatro, per lasciare segni, tracce, orme.
È così che sono nate le Variazioni su scenografie da realizzare o già
realizzate, gli Studi e infine le Carte segrete, centinaia di fogli in cui il teatro è continuamente ricordato, invocato, sfidato e poi negato nella sua
capacità di espressione e fissazione d’un fatto, un’idea, un sentimento,
un battito.
Lo faceva da sempre anche se il teatro era per lui il senso della vita.
Solo negli ultimi mesi, dilaniato dalla malattia, se ne distacca.
Nel giugno del 1990 durante le prove del Macbeth di Verdi a Francoforte se ne va via disperato dicendo: “basta”. Se ne torna a casa e non
mette più piede in un teatro.
Aveva visto – purtroppo precocemente – ciò che prima o poi si deve
17
vedere. Aveva guardato oltre il sipario e, al posto del solito festoso
gioco della scena, aveva visto il buio a cui però per mesi tenta ancora di
dare un colore, se non proprio una forma.
È così che nascono le sei Grandi carte segrete.
Ed è con esse che si apre questa mostra.
18
Le Carte segrete, un dono sorprendente
Eugenio Bernardi
A Daniele piaceva fare regali. Donare i suoi disegni, soprattutto, e donandoli dire qualcosa di sé. Del suo lavoro accanto a quello di Cesare e
prima del lavoro di Cesare, che era destinato, per la complessità dell’impegno, a diventare predominante. Dire cioè, attraverso linee e colori,
che cosa di un testo fosse venuto subito in mente a lui e come questa
idea meritasse di essere fissata e ricordata prima della sua utilizzazione
e dell’inevitabile compromesso con le esigenze di uno spazio concreto
e di un’azione che, svolgendosi in quello spazio, l’avrebbe sommerso
di parole, dialoghi, movimenti, gesti. C’era nei suoi disegni la pretesa
che, a guardarli bene, ci fosse già tutto quello che poi avrebbe riempito
il palcoscenico. Tutto e di più. In un disegno, per esempio, regalatomi
forse al tempo del Barbablù, il perimetro di una stanza è sì tracciato in
modo regolare, ma è attraversato da una specie di nuvolaglia, da strie e
sfrangiature, addirittura da sbarre sospese a mezza altezza che sforano
le pareti della stanza e, irrealizzabili come sono, suggeriscono direzioni
impreviste, evocando prospettive non contenibili nello spazio di calpestio, affini in questo agli echi delle parole. Uno spazio quindi chiuso
e aperto nello stesso tempo, al punto che è attraversato da una specie
di lingue di fuoco.
Ho davanti a me due altri fogli avuti in regalo e pensati uno per Haute
surveillance di Genet, l’altro per il Torquato Tasso di Goethe. Sono elegantemente incorniciati (un largo passe-partout grigio-perla, la cornice grigio-blu), due quadri di dimensioni notevoli, un regalo degli ultimi
anni, e per la sua perfetta confezione un dono ancora più eloquente
di quello che ho appena detto: della visione primaria, già esauriente, di
uno spazio che di qui avrebbe preso l’ispirazione, ma da questa immagine si sarebbe inevitabilmente discostato, affollandolo di gesti, parole,
messaggi e prima ancora, durante le prove, adattandolo attraverso
sperimentazioni, verifiche, controlli. Da tutto questo invece i disegni
(ben più che abbozzi) volevano staccarsi con la pretesa di essere, nella
loro scansione, imperturbabili. Come lo sono ancora oggi: di qui si potrebbe ricominciare.
Nelle Carte segrete, un dono sorprendente dell’ultimo anno (in una
cartella con dedica e la scritta “Japan”), l’intenzione appare del tutto diversa, addirittura opposta. Quella pretesa di fissare la visione originaria
è come avesse subito una deflagrazione e lo spazio scandito e ritmato
fosse stato travolto da un vortice intorno a cui girano linee ondulate
come di uccelli a stormo, prodotte da un’inquietante massa nerastra
che li disperde violentemente. Come se ora lo spettacolo non fosse
19
più ripetibile ma fosse diventato un tizzone che si sta spegnendo, e del
possibile spettacolo, della sua concisione e del suo tempo compatto,
nella mente rimanessero solo sfilacciature, nuvolaglia, scie di un turbine
irrefrenabile.
Daniele Lievi a Francoforte nel 1985
20
Ai confini tra la realtà e il sogno:
il pittore e scenografo Daniele Lievi
Peter Iden
Davanti ai miei occhi, ogni giorno, c’è un quadro di Daniele Lievi, un suo
regalo di giorni ormai lontani. Si tratta di una composizione astratta,
molto delicata, come un pensiero fugace. È come se i toni del blu fossero sospesi, al centro, sulla superficie bianca. E là dove il blu va sfumando
appare una forma chiara semitonda: si potrebbe pensare alla falce di
luna sulle acque del lago, di quel lago di Garda che il giovane Daniele
aveva saputo scorgere, nelle sue infinite metamorfosi, già dalle finestre
della casa dei genitori nei pressi del porticciolo di Villa di Gargnano.
Daniele Lievi è sepolto nel cimitero della cittadina. Il grandioso paesaggio del lago l’aveva influenzato profondamente e per la vita, sia come
pittore sia come creatore di immagini nelle scene teatrali. Nella sua
pittura c’è una nostalgia che vuole trascendere il giorno, l’inquietudine
di un desiderio che irrompe silenziosamente. E proprio questo è stato
anche il segreto del commovente incantesimo delle sue scene.
Nei suoi due lavori – le scene per l’Enrico IV di Pirandello e per Il tempo
e la stanza di Botho Strauß, rappresentati rispettivamente nel 1989 e
nel 1990 all’Akademietheater di Vienna – è come se Daniele Lievi avesse
cercato di cogliere e di rendere visivamente la fugacità del tempo. Nel
dramma di Pirandello, attraverso uno squarcio che si apriva sul fondo
della scena al di là di un vetro, improvvisamente si vedeva cadere la
neve. Ogni movimento sulla scena si bloccava per la durata di quel
lungo attimo in cui, grazie a un segno concreto, il transeunte diventava
visibile.
In Il tempo e la stanza due uomini, Julius e Olaf, sono seduti in una stanza
e all’inizio osservano dalla finestra la strada, da cui poi fanno salire in
casa quella che sarà la protagonista delle scene successive. Di scorcio,
sulle facciate delle case che hanno di fronte, nella messinscena di Vienna si vedeva la luce del giorno cambiare gradualmente dal mattino alla
sera. L’effimero visto come qualcosa di duraturo, il tempo inteso come
qualcosa che permane nel momento stesso in cui trascorre. Tutto ciò
che della vita si manifesta sul palcoscenico si dimostra relativo rispetto
a questa esperienza fondamentale, assolutamente propria del teatro,
per cui la fugacità diviene paradossalmente durata.
Poco tempo, appena un decennio, è stato concesso allo scenografo
Daniele Lievi per dare forma alle sue fantasie teatrali. Egli è scomparso
nel 1990, a soli trentasei anni. I progetti da lui realizzati partono da uno
dei primissimi lavori, la scenografia per un testo del fratello Cesare,
allestito allora nel minuscolo Teatro dell’Acqua sul lago di Garda, per
21
arrivare, attraverso i lavori per il teatro di Heidelberg e il Clavigo di
Milano (1987), alle scene per Sonata di fantasmi di Strindberg a Vienna
(1987), per la Caterinetta di Heilbronn di Basilea e per le due già citate
rappresentazioni viennesi di Pirandello e di Botho Strauß.
L’elemento drammaturgico della scenografia, il necessario collegamento
cioè tra uno spazio e una certa scena in cui gli attori debbono recitare,
per Daniele non è mai stato un vero e proprio problema, dato che le sue
idee scenografiche si sono sempre sviluppate in intimo contatto con i
pensieri di suo fratello, il regista Cesare Lievi. I loro spettacoli, arricchiti dai costumi di Mario Braghieri a loro affine per concezione teatrale,
erano infatti interpretazioni immaginate e ideate in comune e nascevano
da una quasi naturale compenetrazione e da una reciproca complementarità tra strutture drammatiche, conduzione degli attori, organizzazione
delle scene da una parte e appropriato spazio scenico dall’altra.
In una dozzina di spettacoli realizzati in Italia, a Francoforte, nel teatro di
Peter Stoltzenberg a Heidelberg e poi a Vienna e a Basilea, questa affinità
si è dimostrata una qualità del tutto particolare. Essa non escludeva le
discussioni e le obiezioni fra regista e scenografo nelle singole fasi della
preparazione, ma poi la storia comune rendeva comunque possibile la soluzione dei contrasti. C’era una permeabilità dell’immaginazione dell’uno
e dell’altro, come poche volte capita di trovare nel mondo del teatro. È
così che Otomar Krejca è riuscito a lavorare con Josef Svoboda, Giorgio
Strehler con Luciano Damiani e Ezio Frigerio, Peter Stein con Karl-Ernst
Herrmann, qualche volta Claus Peymann con Achim Freyer.
Quando Daniele, giovane studente di architettura, inizia a disegnare e a
dipingere, è il modo in cui i suoi disegni liberi si dispongono tra “vicino”
e “lontano” a essere determinante: in primo piano un segno preciso,
la linea ben evidente, ma poi i colori e le linee sfuggono e sfumano in
lontananza. Carte segrete, così Daniele ha chiamato una serie di questi
disegni, appunti presi in segreto, ma anche capaci di girare attorno a
un segreto come per gioco: miracolo del trasformarsi di un’immagine
esteriore in un’immagine interiore che poi, grazie alle linee, ai colori e
al contesto grafico del disegno torna a realizzarsi in espressione simbolica (di una sensazione, di uno stato d’animo).
Negli abbozzi per la scena è ancora molto presente il piacere di un
disegno che divaga, che disperde e nello stesso tempo condensa la
realtà pura e semplice, un disegno che si sa capace di una rappresentazione poetica ed è in cammino verso di essa. Eppure questo desiderio
si confronta poi con le esigenze del palcoscenico, gli oggetti di scena,
le inevitabili determinazioni di luogo e gli elementi architettonici che
creano sulla scena lo spazio per le figure e il luogo per un’azione e
rappresentano punti d’appoggio per l’attore.
In queste scenografie di Daniele Lievi si nota il suo amore per l’architettura e anche il piacere per la citazione, e quindi la sua predisposi22
zione per una sorta di classicismo. Certo, nella scenografia del Torquato
Tasso di Goethe rappresentato a Brescia e a Milano, la colonna è circondata a mezz’altezza da un magico cespuglio in fiore, col che ogni rigore
sembra superato con la lievità di un sorriso. Ma il conflitto saldamente
costruito fra ordine e seduzione della natura non è forse un tema fondamentale del teatro drammatico?
Spesso in questi spazi scenici faceva irruzione la natura: natura come
acqua, che ha sempre anche funzione di specchio, nei due spettacoli
tratti da Hofmannsthal, La miniera di Falun allestita alla Scuola di arte
drammatica di Francoforte (1985) e Il ritorno a casa di Cristina rappresentata a Heidelberg (1987), e poi anche nella Caterinetta di Heilbronn di
Kleist presentata al Teatro di Basilea. Oppure natura come evocazione
di cieli e paesaggi lontani negli spettacoli del Teatro dell’Acqua, nella
Donna del mare di Ibsen a Heidelberg (1986) e nel Clavigo a Milano.
Una delle prime fatiche dei due Lievi fu, nel 1982 a Gargnano e cinque
anni più tardi sulle rovine di Gibellina in Sicilia, La morte di Empedocle
di Hölderlin: un cercare nella natura la verità degli ultimi e più profondi
fondamenti della vita.
Non è soltanto con gli attori che gli spazi di Daniele Lievi acquistano
movimento. Essi contengono già di per sé una dinamica drammatica
nella misura in cui sembrano tematizzare di continuo l’alternarsi di
apertura e di chiusura, di un espandersi e di un restringersi sulla scena.
Nel catalogo della mostra che il Museo di architettura di Francoforte
diretto da Heinrich Klotz dedicò nell’autunno del 1988 all’opera di
Daniele Lievi, Eugenio Bernardi afferma di aver notato per la prima
volta questo ritmo e questa alternanza nel Barbablù di Trakl, allestito nel 1983 al Teatro dell’Acqua e poi presentato l’anno seguente alla
Biennale di Venezia, e da allora più e più volte rimesso in scena. «Questo frammento lirico, affine allo stile di Hofmannsthal, fu rappresentato,
secondo l’indicazione di Trakl, come uno spettacolo di marionette, ma
con marionette interpretate da attori in carne ed ossa che apparivano
e sparivano all’interno di uno spazio molto ridotto, uno spazio che a
volte si apriva su un fondale azzurro e luminoso, ma poi si richiudeva
fino a diventare una sottile fessura o si riduceva alla fascia luminosa ai
piedi di un sipario non perfettamente calato, dove si intravedeva passare molto lentamente il lungo strascico di un abito da sposa o dove
poteva apparire forse quella scarpa color azzurro cielo trapuntata di
lustrini che per il giovane Andrea era come una spada a doppio taglio
che gli trapassava l’anima con la più tenera delle voluttà e la più indicibile delle nostalgie».
Questo mutare delle dimensioni della cornice delle scene ha qualcosa di improvvisamente onirico: soltanto nei nostri sogni vi è questa
contiguità fra una visione d’insieme e un dettaglio improvvisamente
messo in risalto e con ciò ingrandito fino a sconfinare nel surreale. Il
23
cambiamento di prospettiva è di volta in volta la parafrasi di un motivo determinante nel teatro dei Lievi: per loro le figure di un dramma
sono sempre figure di confine tra luce e tenebre, giorno e notte, fra un
essere così e un desiderio di trascendere. La loro realtà, come quella
di Kleist, è immaginazione diventata corpo, estremamente concreta e
nello stesso tempo governata dal sogno.
Specialmente nelle scenografie per il Clavigo di Milano, per la Sonata di
fantasmi di Strindberg a Vienna e per La clemenza di Tito all’Opera di
Francoforte (1989) si è notato in questo scenografo un senso per le
proporzioni spaziali particolarmente sviluppato, riscontrabile nel teatro
contemporaneo soltanto nelle scenografie di Karl-Ernst Herrmann. È
come se Lievi fosse riuscito a definire una misura perfetta per ogni
ambiente da lui costruito e per ogni singolo elemento di cui esso è
composto. È da qui che deriva alla scena la sua bellezza, la bellezza di
una dimensione consolidata in se stessa, di un’armonia riconciliante.
Il teatro dei Lievi si presenta in verità come un teatro di contrapposizioni poetiche, ma non nel senso di un suo insistere su misura e proporzione come elementi di una bellezza intesa come fine a se stessa,
quanto invece come un teatro provocato dall’esigenza, riconosciuta nei
testi stessi, di un equilibrio (per quanto utopico e irraggiungibile) tra le
contraddizioni: in altre parole, dal desiderio di riconciliazione.
I luoghi in cui si svolge il dramma sulla scena sono luoghi di transito,
di passaggio. Per Daniele Lievi ciascuno di essi era anche un momento
di “casa” e di “patria” nel senso più vasto del termine, come se, nei
luoghi del loro più effimero soggiorno, gli uomini avessero un’immagine
interiore della meta verso cui sono eternamente in viaggio. Ciò non
impedisce loro di sentirsi estranei, in posizione incerta, di essere soli
nell’ambiente che li circonda. Nel Torquato Tasso pareti e colonne opprimono il poeta rinchiuso nella corte di Ferrara, come nel Nuovo inquilino
di Ionesco allestito a Heidelberg il protagonista alla fine è separato dal
mondo e chiuso dentro una botte. Nella Sonata di fantasmi di Vienna il
meraviglioso spazio racchiude i personaggi-mummie come una prigione, nella Clemenza di Tito di Francoforte i muri scoppiano e cadono a
pezzi, se ne vedono le rovine minacciose. Ma nella grande stanza in cui
Clavigo e Marie muoiono, uno accanto all’altra, vi è in alto sulla parete
di fondo un’apertura rettangolare, attraverso la quale una bella luce
azzurra (del maestro delle luci Gigi Saccomandi, spesso collaboratore
dei Lievi) splende meravigliosa come una promessa.
Segni, questi, che accennano comunque ad una speranza. Nella bellezza
delle immagini il dolore per la fragilità del mondo non viene negato,
ma continuamente superato – come incessante impulso della nostra
nostalgia.
Traduzione di Laura Bignotti
24
Le opere in mostra
Variazione su L’anima dannata di Michelangelo, 1988
26
Carta segreta, 1989
27
Carta segreta, 1989
28
Carta segreta, 1989
29
Carta segreta, 1989
30
Carta segreta, 1989
31
Carta segreta, 1989
32
Disegno, 1978
33
Disegno, 1978
34
Disegno, 1978
35
Disegno, 1978
36
Disegno, 1978
37
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
38
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
39
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
40
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
41
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
42
Variazione su L’ultima stanza di Cesare Lievi
Gargnano, Teatro dell’Acqua, 1980
43
Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen
Heidelberg, 1986
44
Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen
Heidelberg, 1986
45
Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen
Heidelberg, 1986
46
Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen
Heidelberg, 1986
47
Bozzetto per La donna del mare di Henrik Ibsen
Heidelberg, 1986
48
Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
49
Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
50
Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
51
Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
54
Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
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Variazioni su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
Gibellina, 1987
60
Studio, 1985-1986
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Studio, 1985-1986
62
Studio, 1985-1986
63
Studio, 1985-1986
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Studio, 1985-1986
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Studio, 1985-1986
66
Studio, 1985-1986
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Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
68
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
69
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
70
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
71
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
72
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
73
Bozzetto per Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist
Basilea, 1988
74
Carta segreta
75
Carta segreta
76
Carta segreta
77
Carta segreta
78
Carta segreta
79
Carta segreta
80
Carta segreta
81
Carta segreta
82
Carta segreta
83
Carta segreta
84
Carta segreta
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Carta segreta eseguita con la mano sinistra
86
Carta segreta
87
Carta segreta
88
Carta segreta
89
Carta segreta
90
Carta segreta
91
Carta segreta
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Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
93
Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
94
Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
95
Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
96
Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
97
Variazioni su Il tempo e la stanza di Botho Strauss
Vienna, 1989
98
Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
99
Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
100
Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
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Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
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Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
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Variazioni su Macbeth di Giuseppe Verdi
Francoforte, 1990
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Bozzetto per Parsifal (I atto) di Richard Wagner
Milano, Teatro alla Scala, 1991
105
La torre, dipinto su cartone, 1989
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Grande spirito infernale, dipinto su cartone, 1989
107
Sommario
p. 3
Tino Bino
p. 5
Elena Cantarelli
p. 17
Cesare Lievi
p. 19
Eugenio Bernardi
p. 21
Il ricordo di Daniele Lievi
Daniele Lievi: una vita per l'arte
Una mostra di Daniele
Le Carte segrete, un dono sorprendente
Ai confini tra la realtà e il sogno:
il pittore e scenografo Daniele Lievi
Peter Iden
p. 25
Le opere in mostra
109
Scenografia - 2
Daniele Lievi. Il teatro. I segni
Mostra promossa e organizzata dall’Associazione Artisti Bresciani
e dal Comitato per il ricordo di Daniele Lievi
con il patrocinio di CTB Teatro Stabile di Brescia
Brescia, AAB, salone del Romanino
8 gennaio – 2 febbraio 2011
Comitato scientifico-organizzativo
Eugenio Bernardi, Carla Bino, Tino Bino, Elena Cantarelli,
Peter Iden, Cesare Lievi, Bianca Simoni
Cura della mostra
Bianca Simoni ed Elena Cantarelli
Cura del catalogo
Vasco Frati, Giuseppina Ragusini e Bianca Simoni
Traduzioni dal tedesco
Laura Bignotti
Progetto grafico del catalogo
Martino Gerevini
Allestimento
Dipartimento di scenografia dell’Accademia di Belle Arti LABA
docente: Albano Morandi; assistente: Marco Amedani
Referenze fotografiche
Studenti del Dipartimento di scenografia dell’Accademia di Belle Arti LABA
Flavio Martins dos Santos
Presidenza dell’AAB
Vasco Frati
Segreteria dell’AAB
Chiara Malzanini e Corrado Venturini
L'AAB e il Comitato ricordano insieme Daniele Lievi e Martino Gerevini.
Fotocomposizione e stampa
Arti Grafiche Apollonio – Brescia
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010.
Di questo catalogo sono state stampate 200 copie.