Costruttivismo e didattica - Istituto Comprensivo "N. Perotto – V. Orsini"

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La prospettiva storica.
Dalle scienze cognitive al costruttivismo.
Dagli anni ’70 il termine costruttivismo inizia a diffondersi con sempre maggiore frequenza nei
titoli di libri ed articoli. Attualmente all’interno del costruttivismo si vanno raccogliendo
epistemologi, filosofi della scienza, psicologi, studiosi dell’area cognitiva, pedagogisti e tecnologi
che, rileggendo il complesso percorso compiuto in queste discipline negli ultimi anni del novecento,
hanno in un certo senso cooptato altri autori che avevano elaborato posizioni nella direzione
costruttivista. Solo a questo punto si sono delineate con maggior chiarezza correnti interne, che, pur
concordando negli assunti di base, pongono in modo specifico l’attenzione su particolari aspetti
della costruzione del sapere.
Cerchiamo qui di offrire un sintetico quadro orientativo, a partire dai principali autori che hanno
utilizzato il termine costruttivismo o più in generale si sono riferiti all’apprendere come ad un
“costruire” e che hanno indicato nei loro lavori alcuni antecedenti filosofici che li hanno spinti a
distaccarsi dall’epistemologia corrente per collocarsi su un diverso piano interpretativo. Abbiamo
tenuto in particolare considerazione il lavoro di Von Glasersfeld per quanto riguarda le origini del
costruttivismo ed rapporti che si sviluppano tra la seconda cibernetica, la Scuola Operativa Italiana
e l’epistemologia di Piaget.
Si possono poi individuare due ambiti che sviluppano rispettivamente le premesse socio-storiche e
culturali di Vygotskij da un lato e quelle cognitivo-individuali di Piaget e della seconda cibernetica
dall’altro. I rimandi ad opere ben più analitiche e complete della nostra consentiranno a ciascuno di
approfondire autonomamente il quadro.
Le origini
Ripercorrendo la storia della filosofia, Von Glasersfeld (Von Glasersfeld, 1998) delinea le origini
storiche del pensiero costruttivista nelle teorie degli empiristi inglesi e di Giambattista Vico.
Nelle pagine di Loke, Berkeley e Hume emerge il dubbio che le qualità che associamo alle cose
dipendano non dalle cose stesse, ma dalla riflessione dell’osservatore che ne costruisce le relazioni
come successione, tempo, moto, numero, causa … Secondo Hume il bambino per iniziare ad
operare queste connessioni ha bisogno di avere un certo numero di “idee semplici”, che gli derivano
da sensazioni più volte sperimentate. Queste idee semplici sembrano essere i concetti delle cose, sui
quali poi la mente opera le relazioni. Vico con l’affermazione “verum ipsum factum” fa
corrispondere la conoscenza razionale alla costruzione della mente che organizza l’esperienza: "la
scienza è la conoscenza della genesi, cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la
mente ne conosce il modo, perché compone gli elementi, fa la cosa.” (Vico, 1976, pp. 194 -195).
Successivamente Kant ha inteso i concetti come principi regolativi dell’esperienza e le sue
“categorie” possono essere considerate i precursori di ciò che oggi chiamiamo schema o costrutto.
L’intelligenza è per Kant un potere interamente attivo dell’essere umano: tutte le sue idee e i suoi
concetti non sono altro che sue creazioni e le cose esterne sono solo occasioni che causano l’operare
dell’intelligenza, il cui prodotto sono idee e concetti (Kant, 1798).
Hans Vaihinger, elaborando il pensiero kantiano aggiunse che i concetti, oltre a non essere uno
specchio della realtà, funzionano come una sorta di guida funzionale al nostro interagire con il
mondo.
Ne La filosofia del come-se (Vaihinger, 1913), egli proclamò il carattere fittizio di concetti come
"punto", "superficie", "infinito", "materia o "cosa in sé", in quanto entità alle quali non possiamo
attribuire un'esistenza reale, anche se da esse ci facciamo guidare per conoscere la realtà come se
fossero insite in essa. Se tutta la conoscenza umana, non è che «finzione», nel senso del fingo latino
, tra le varie finzioni saranno utili quelle che rispondono alle esigenze pratiche; pertanto anche le
credenze o le teorie contraddittorie possono avere un loro valore di utilità e possono essere
utilizzate «come se» fossero verità. Da questo punto di vista non c'è differenza tra teorie scientifiche
e conoscenza comune. Si tratta pur sempre di «finzioni» e possono convivere in virtù della loro
utilità.
Il contributo della linguistica
Tra ottocento e novecento la linguistica, a partire da De Sassure, giungeva alla conclusione che il
modo di vedere il mondo fosse in gran parte determinato dalla madre lingua e che il significato
delle parole andasse ricercato nella mente di chi parla piuttosto che nell’oggetto di cui si parla. Per
la prima volta De Sassure si pone il problema di comprendere come funziona il linguaggio. La
lingua è un prodotto sociale regolato da un insieme di convenzioni. Separando la langue dalla
parole, egli separa ciò che è sociale da ciò che è individuale e ciò che è essenziale da ciò che è più o
meno accidentale. La langue riguarda infatti l'insieme di convenzioni adottate da un gruppo sociale
per permettere l'uso del linguaggio, cioè l'insieme delle norme condivise necessarie a comprendersi.
La parola è invece l'operazione personale dei parlanti, che introducono variazioni individuali nella
langue. Apprendere una lingua significa dunque operare un processo continuo di adattamento tra i
significati personali (parole) e quelli sociali (langue). I significati non possono venire
completamente condivisi perché la loro unione con le immagini ed i suoni che li rappresentano
viene creata sulla base dell’esperienza individuale.
Whorf negli anni Trenta assegna al linguaggio un preciso ruolo nella creazione dei concetti
criticando la posizione secondo cui il parlare esprime ciò che è già formulato dal pensiero, come
processo indipendente dalla natura delle lingue particolari. Secondo questa posizione, il pensiero
non verrebbe condizionato dalla grammatica, ma dalle leggi della logica o della ragione, che sono
identiche per tutti e che rappresentano una razionalità intrinseca alle cose, indipendente dagli
osservatori. Secondo Whorf invece differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici
alla stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, dato che
esiste una relatività di tutti i sistemi concettuali e una loro dipendenza dalla lingua (Whorf, 1956).
La cibernetica
Norbert Wiener nella seconda metà degli anni Quaranta riprese il termine cibernetica, peraltro già
utilizzato nel corso della storia della scienza, cercando un sostantivo appropriato per descrivere un
nuovo campo di indagine: la scienza del controllo e della comunicazione nell’animale e nelle
macchine. La parola greca kybernetike' techne significa infatti arte di pilotare, o scienza della guida
delle navi.
Assieme a studiosi come John Von Neumann, Claude Shannon, Heinz von Foerster e Gregory
Bateson, Wiener studiò i meccanismi che permettevano ad un organismo vivente di autoregolarsi,
di essere un sistema autonomo e di scambiare informazione tra le sue parti attraverso il meccanismo
di feedback o retroazione. La cibernetica propone nozioni e modelli concettuali che aprono nuovi
percorsi in molte aree di ricerca quali l’epistemologia, l’antropologia, l’ingegneria, la teoria dei
sistemi, la scienza dell’educazione, le scienze politiche, la psicologia e la comunicazione
collocandosi così su un piano metadisciplinare .
Fin dall’inizio nella cibernetica coesistono due orientamenti, il primo centrato sull’ideazione di
meccanismi automatici di autoregolazione basati su feedback, dal quale sono nate applicazioni
come i robot industriali, i piloti automatici ed i computer. Il secondo orientamento ha focalizzato la
ricerca sulla conoscenza, a partire dai meccanismi che regolano tutti gli organismi biologici,
analizzati in particolare da Maturana e Varela. Secondo la loro prospettiva un sistema biologico è
autopoietico, cioè informazionalmente chiuso ed autonomo, e possiede la capacità di riorganizzarsi.
Il suo comportamento è prodotto dalla relazione tra i differenti componenti del sistema, che reagisce
quando è perturbato da stimoli ambientali. (Maturana e Varela, 1987).
Heinz Von Foerster fondò in un secondo tempo la cibernetica di secondo ordine: mentre la
cibernetica di primo ordine studiava le modalità di funzionamento dei sistemi in sè, il passaggio alla
cibernetica di 2° ordine provoca un mutamento di prospettive; infatti, in qualsiasi campo di indagine
concepito dall’uomo, sia esso astronomico, sociologico, biologico o psicologico, l’osservatore fa
parte dell’universo studiato in quanto costruttore del campo di osservazione, che decide in cosa
consiste il sistema osservato e ne traccia il confine rispetto all’ambiente. Così nella teoria dei
sistemi un sistema è considerato come possibile parte di un sistema più ampio, le cui parti possono
essere, a loro volta, sistemi; qualsiasi sistema è contemporaneamente un sottosistema ed un
sovrasistema. L’assunzione di quest’ottica di indagine mostra all’osservatore la relatività del
proprio punto di vista rispetto a tutti quelli possibili e l’impossibilità di eliminare i vincoli che
l’essere un individuo biologico, psicologico e sociale pongono alle possibilità e capacità di
osservazione .
Il costruttivismo operatorio di Piaget
Nello stesso periodo anche Piaget, partendo da una formazione biologica e da studi
sull’adattamento all’ambiente degli organismi, sposta l’attenzione dal mondo ontologicamente
inteso al mondo percepito ed inizia a considerare la conoscenza come la più alta forma di
adattamento di un organismo complesso. Il conoscere è infatti legato all’agire sull’ambiente ed ha
lo scopo di costruire strutture concettuali viabili , così la mente costruendo sé stessa costruisce il
mondo (Piaget, 1937).
All'inizio il bambino ha a disposizione solo un corredo biologicamente determinato di riflessi, le sue
percezioni non sono né coordinate tra di loro, né coordinate alle azioni. Progressivamente si
formano le prime coordinazioni tra percezione e azione attraverso processi circolari, in cui il
bambino compie azioni per il solo piacere o interesse che ne deriva, e che quindi conducono a
ripetere e perfezionare certi schemi d'azione. I concetti degli oggetti vengono costruiti a partire dai
segnali percettivi ricorrenti associati a queste attività, solo in un secondo momento il bambino è in
grado di ricostruire l’oggetto sulla base della memoria, anche in assenza dello stimolo percettivo.
Il fatto che i concetti in formazione siano associati ad un’attività è testimoniato dall’uso linguistico:
il bambino, ad esempio, dice “bicchiere” per significare che ha sete, dove l’oggetto è per ora
indissolubilmente associato all’azione tipica e spesso insieme al contenuto “acqua”. Sembra essere
questa l’origine degli script più tardi elaborati da Schank (Shank e Abelson, 1977), come modelli
nel campo della linguistica computazionale e dell’Intelligenza Artificiale, che prenderemo
specificamente in esame dal punto di vista didattico nel prossimo capitolo.
La consapevolezza dell’identità individuale, del sé diverso dagli oggetti, e l’abilità di ricostruirli
attraverso la memoria, sviluppa l’idea di permanenza dell’oggetto, fondamentale per poter riflettere
e produrre ipotesi.
Tra le attività che svolgono un ruolo prioritario nella costruzione del mondo vi è dunque quella di
ri-presentazione, che si fonda sulla memoria e sulla differenza che si stabilisce tra il ricordato e
l’attualmente percepito, attraverso una temporanea sospensione dell’oggetto dal flusso
esperienziale. E’ questo il tipo di astrazione che permette la creazione di categorie attraverso
l’ulteriore passaggio di generalizzazione: le caratteristiche proprie degli oggetti esperienziali
confluiscono in uno schema operazionale che è in grado di riprodurre un singolo oggetto e di
riconoscerlo come facente parte di una categoria. Il concetto non è quindi un’idea figurativa, ma
piuttosto una strategia che permette al soggetto di ricostruire l’oggetto. Così, se non sembra
possibile pensare una casa se non riferendosi ad un’immagine specifica, è tuttavia possibile
riconoscere una struttura con porte, finestre e tetto come casa. La variabilità delle caratteristiche
riscontrate nell’esperienza permette di identificare quelle più frequenti, e quindi in un certo senso
irrinunciabili, e di mantenere una certa indeterminatezza che consente di riconoscere oggetti mai
visti prima come appartenenti ad una classe (Von Glasersfeld, 1998). Su questa base l’individuo
costruisce l’intelaiatura essenziale della realtà: i concetti di oggetti, spazio, tempo, cambiamento e
moto che presuppongono la capacità di porsi come osservatore del proprio campo esperienziale.
Per dare ragione della capacità di apprendere, Piaget utilizza due caratteristiche dell’evoluzione
biologica trasponendole al più alto piano dello sviluppo psicologico individuale: l’assimilazione e
l’adattamento. L’assimilazione consiste nell’incorporare un oggetto, una sua caratteristica o un
evento, in una struttura cognitiva già acquisita. Questo implica che un individuo non possa
assimilare ciò che non è compatibile con le strutture che già possiede. Ma, se fosse semplicemente
così, sarebbe difficile spiegare la capacità di apprendere nuovi elementi, ed è qui che entra in gioco
l’adattamento come capacità di modificare la struttura cognitiva e/o il comportamento al fine di
sanare un disequilibrio, una perturbazione. Per comprendere questo passaggio è utile ricordare che,
secondo Piaget, lo stimolo percettivo, che permette di riconoscere un oggetto, è inserito all’interno
di un’attività dalla quale l’individuo si aspetta un risultato; il riconoscimento dello stimolo dipende
dalla sua precedente assimilazione, dalla quale dipende anche l’attesa del medesimo risultato legato
a quello stimolo. Se però il risultato è differente, il disequilibrio che ne deriva porta l’individuo a
riconsiderare gli stimoli di partenza ed a prenderne in considerazione altre caratteristiche, il che può
condurre ad un inserimento in uno schema diverso o alla creazione di un nuovo schema .
In ogni caso lo sviluppo è sempre collegato al passato, a ciò che già esiste, e qualsiasi
comportamento consiste in un tentativo di adattamento, cioè della ricerca di un equilibrio sul piano
logico concettuale.
L’isomorfismo tra la struttura che viene percepita e quella che viene ri-presentata, e che ne permette
il riconoscimento, è anche alla base dell’apprendimento linguistico attraverso il meccanismo di
associazione. Quando ascoltiamo una parola le associamo istantaneamente un significato figurativo,
se derivato da un’esperienza sensomotoria, come il camminare, o un significato operativo, se
associato ad un’operazione mentale o ad una relazione di qualche tipo, come il calcolare. Così il
significato linguistico è strettamente legato alla personale esperienza dell’oggetto e, nell’uso del
linguaggio, il parlante presuppone che la sua ri-presentazione sia simile a quella degli altri utenti
linguistici. Si tratta effettivamente di una similitudine e non di un’identità, non potendo darsi per
nessuno un’esperienza identica.
La scuola operativa Italiana
Negli anni ’40 dall’incontro di Silvio Ceccato, Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino nacque la
Scuola Operativa Italiana che coinvolse studiosi di varia provenienza disciplinare, italiani e
stranieri, intorno al tentativo di modellizzare l’attività mentale ed i rapporti fra questa e il
linguaggio.
Il principio fondamentale della tecnica operativa consiste nel considerare ogni contenuto mentale
(percezioni, immagini mentali, concetti, pensieri, parole, etc.) come risultato di operazioni, perciò la
spiegazione di un contenuto mentale consisterà nel descrivere le operazioni di cui esso è risultato,
cioè nel farsi consapevoli delle proprie operazioni, ciò che Ceccato ha chiamato consapevolezza
operativa.
Ad esempio, una penna mi si fa incontro in primo luogo come “presenza”, poi la specifico come
oggetto osservato, e, dunque, le assegno un posto nello spazio e ne individuo la funzione (una punta
che lascia un segno, l'impugnabilità, etc.) per confronto con un paradigma costituito in precedenza
(un paradigma di caratteri indispensabili perché sia una penna).
Dispongo così di singoli contenuti mentali che nelle “operazioni correlazionali” collego per farne
un pensiero: se costituisco "carta" e se la evoco assieme a penna, ottengo "carta e penna", se
aggiungo "tavolo", ecco "carta e penna sul tavolo", ampliando così la rete correlazionale. Infine
nelle “operazioni consecutive” integro questi pensieri nella rete di conoscenze di cui dispongo,
facendo in modo che siano con essa compatibili. Dunque, si costituiscono gli elementi, si
combinano insieme a formare un pensiero e infine si integra questo nuovo pensiero nel sistema
delle conoscenze e delle esperienze personali per vedere se ha senso .
Quando i costrutti attenzionali vengono inseriti in triadi, in cui due sono correlati ed uno è il
correlatore (ovvero una categoria di rapporto), come abbiamo visto, si ottiene un “pensiero”.
Il costruttivismo radicale di Von Galsersfeld
L’attività di ricerca di Von Glasersfeld si colloca in continuità con il pensiero di Piaget e della
Scuola Operativa ed ha riguardato in modo specifico la formazione dei concetti inerenti la
matematica nei bambini.
Secondo l’autore il linguaggio ha una funzione indicante, in cui le parole/simboli indicano appunto
la possibilità di attivare percorsi verso ri-presentazioni specifiche senza obbligare a riprodurle
subito, più o meno come una indicazione stradale indica una via possibile ma non obbligatoria, cioè
contiene in modo implicito le indicazioni per arrivare in un certo luogo (Von Glasersfeld, 1998, p.
89).
Quindi, il ricevente di un’espressione linguistica si trova sempre davanti ad un compito
ermeneutico: le parole forniscono indicazioni per ricostruire una struttura concettuale i cui mattoni
vanno comunque cercati nell’esperienza personale: non esiste trasmissione diretta di significato. Il
mancato riconoscimento della soggettività dei significati, a favore di una attribuzione di stabilità e
oggettività, porta a difficoltà a volte insormontabili nella comprensione. L’elemento linguistico,
quindi, delimita quali significati possono essere scelti per quella determinata parola e la direzione di
questa scelta avviene sulla scorta della padronanza del linguaggio e dell’esperienza individuale.
Nonostante il fatto che ciascun individuo costruisca il mondo attraverso questi processi, ci sembra
tuttavia di avere a che fare con una realtà stabile e condivisibile in cui conduciamo la nostra vita
quotidiana. Per Glasersfeld si tratta di intersoggettività piuttosto che di oggettività della realtà, e
nasce non dall’adeguamento al reale in sé, ma dall’avvaloramento di altri soggetti pensanti alle
nostre interpretazioni.
Anche il riconoscimento degli altri come persone, dotate di intenzionalità propria, è costruito a poco
a poco dal bambino. Si pensa di riconoscere negli altri gli stessi concetti, ruoli e schemi che si sono
dimostrati viabili nella nostra esperienza e, quando prevediamo correttamente come si comporterà
una persona in una data situazione, questo aumenta la sensazione di stabilità della nostra realtà.
Questo meccanismo intersoggettivo conduce a pensare che i concetti, i sentimenti, gli schemi di
azione confermati dagli altri siano più reali di qualunque altra cosa esperita da soli e l’accordo con
gli altri in un gruppo produce una conoscenza viabile a più alto livello che chiamiamo verità.
La scuola di Psicologia Storico-Sociale
di L. S. Vygotskij
In altro ambito ed in parziale contrapposizione al pensiero di Piaget e dei cibernetici si sviluppa il
pensiero di Vygotskij per il quale pensiero e linguaggio sembrano svilupparsi in un percorso che va
dall’esterno verso l’interno del soggetto.
Vygotskji porta ad esempio di questo processo lo sviluppo dell’ “indicare”: il bambino tenta
inizialmente di afferrare qualcosa, quando l’adulto gli viene in aiuto realizza che il suo gesto è
significativo per altre persone, di conseguenza il significato originario di quel movimento, non
riuscito, per afferrare, è stabilito da altri. Il movimento orientato all’oggetto diventa diretto ad
un’altra persona, un mezzo per stabilire rapporti, si trasforma nell’atto dell’indicare e diventa un
vero gesto, semplificato anche dal punto di vista motorio (Vygotskji, 1978, p. 86). Successivamente
il linguaggio primario sociale diventa uno strumento intellettivo con una funzione intrapersonale: il
bambino inizia ad usare la lingua rivolto a se stesso, per guidare il proprio comportamento nella
soluzione di problemi interni, ad esempio per rappresentare un oggetto o una persona, durante il
gioco.
Ogni funzione nello sviluppo del bambino si presenta quindi due volte: prima a livello sociale e in
seguito sul piano individuale, prima tra le persone e poi interiorizzata, così pensiero e linguaggio si
influenzano reciprocamente e la lingua è insieme prodotto e strumento di pensiero.
Il linguaggio interiore è individuale e silenzioso e permette lo sviluppo della consapevolezza
metacognitiva e la costruzione del significato semantico sulla base delle azioni che il bambino
realizza, accompagnandole con il suo parlottare. Il significato resta così connotato dal complesso
degli eventi psicologici ed emozionali che hanno costituito il contesto in cui si è verificata l'azione.
Dunque anche per Vygotskij le parole possiedono primariamente una "equivalenza funzionale", non
corrispondono cioè ad un’identità di concetti e di senso nei diversi interlocutori. I significati devono
essere negoziati attraverso un continuo e reciproco lavoro di interpretazione.
Per Vygotskij il vero apprendimento, come il gioco, è anticipatorio, si forma in una "zona di
sviluppo prossimale", e consiste in una varietà di processi attivati dal bambino quando, interagendo
con i suoi pari o con gli adulti all’interno del proprio ambiente, apprende l'uso di strategie che
ancora non possiede, ma che interiorizza in attesa di farle proprie. La "zona di sviluppo prossimale"
rappresenta la differenza tra l’effettiva capacità di risolvere una problema o una prova senza aiuto, e
il livello di "sviluppo potenziale" determinato dalla stessa capacità di eseguirli sotto la guida di un
adulto o in collaborazione con coetanei più abili (Vygotskji, 1978, p. 127) .
Nel gioco il bambino inizia ad acquisire, attraverso l’imitazione, motivazioni, abilità, atteggiamenti
necessari alla sua futura partecipazione sociale. Nel gioco il bambino è sempre al di sopra della sua
età media e del suo comportamento quotidiano.
Vygotskij stesso sottolinea a questo proposito la distanza da Piaget, per il quale “lo sviluppo è
considerato come una precondizione dell’apprendimento, mai come il risultato di esso” (Vygotskji,
1978, p. 119). Mentre Piaget conferisce particolare rilievo a stadi di sviluppo universali, per quanto
non legati a precise fasce di età, l’attenzione di Vygotskji è focalizzata sulle interazioni tra le
condizioni sociali in trasformazione e il substrato biologico del comportamento.
Costruzionismo e Contestualismo
Negli ultimi vent’anni, in vari ambiti del sapere scientifico, si sono sviluppate posizioni che
articolano ed approfondiscono la dimensione culturale, sociale e storica delineata da Vygotskji ed
alcune posizioni derivate dal pragmatismo di Dewey. Queste posizioni ribadiscono che qualsiasi
attività umana è inserita in un contesto storico e sociale, costituito da una rete di significati e
relazioni che ne determinano lo sfondo di senso, costruito appunto a partire dai contesti d'uso.
Feyerabend, nell’ambito della filosofia della scienza, respinge sia l'idea di dati indipendenti dal
pensiero e assumibili come criteri oggettivi, sia la distinzione tra asserzioni teoriche e asserzioni
derivate dall’osservazione. In altre parole, i fatti dipendono dalle teorie da cui sono spiegati, dalla
cultura entro la quale gli enunciati sono giudicati sensati: qualsiasi termine concettuale è definito
solo dal contesto teorico nel quale è incorporato, esso è in sè carico di teoria. Egli definisce perciò
la costruzione scientifica un'impresa impura, nel senso che è generata e orientata da queste
componenti storico-culturali, pratiche, sociali e ideologiche. Sono gli interessi reali, molto più che
astratti dettami teorici, a delineare la strada dell’avanzamento scientifico.
Feyerabend pone l'accendo sulla dimensione temporale, dinamica e multiprospettica del sapere. La
sua costitutiva storicità comporta mutevolezza dei princìpi, dei metodi e degli obiettivi. Così, un
approccio storico alla scienza mette in evidenza che i suoi progressi spesso sono dovuti alla
trasgressione di regole e vincoli teorici.
Anche per Norman Goodman il pensiero è un'attività conferitrice di senso complessa e
differenziata, più precisamente è una costruzione simbolico-concettuale di forme e di significati che
opera in modo estremamente libero. Essa costruisce le proprie "versioni del mondo" ed i propri
concetti in rapporto ai propri fini e all’interno di precisi contesti (Goodman, 1978). Il suo pensiero
si colloca sulla linea dell’interpretazione di Kant proposta da Cassirer per il quale l’uomo “non vive
più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la
religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico,
l’aggrovigliata trama della umana esperienza.”(Cassirer, 1968, p. 79).
Così Goodman ridefinisce la funzione dell'arte che, accanto all’espressione di sentimenti e di
emozioni, in questa prospettiva, possiede la capacità costruttiva di elaborare versioni e
interpretazioni dei fenomeni dotate di una loro significazione. Se non è possibile separare il mondo
dalle modalità simboliche con cui noi lo descriviamo, e questa costruzione dà luogo ad una
molteplicità di versioni, è impossibile determinare quali siano oggettivamente più vere di altre.
Qualsiasi cosa entri nel nostro campo di esperienza è già organizzata all'interno di un quadro
interpretativo storico e culturale e non ci è possibile sapere come essa sia indipendentemente da
queste elaborazioni. Così il criterio di valutazione delle versioni del mondo non può essere quello di
verità o falsità, ma piuttosto quello pragmatico di rilevanza, di efficacia, di semplicità,
appropriatezza o congruenza.
Secondo Rorty se tutto è contingenza e circostanza storica diviene necessario un continuo
confronto delle diverse descrizioni del mondo, finalizzato al tentativo di risolvere problemi concreti.
Se non esistono essenze universali e sovratemporali, il concetto di verità deriva da una costruzione
umana connessa a precise pratiche sociali di giustificazione e di controllo definite in base a
determinati valori: è vero ciò che una determinata comunità, sulla base di determinate regole, crede
che sia tale (Rorty, 1989). Se tutte le descrizioni sono legittime e permettono di affrontare la realtà,
la filosofia porta il suo contributo accanto agli altri, rinunciando ad ergersi a giudice della
conoscenza ed aprendosi al dialogo con gli altri saperi. L'individuo è una rete complessa di
credenze ed atteggiamenti che si evolve continuamente grazie a nuovi incontri, nuove letture e
confronti di idee con altre descrizioni del mondo. Per Rorty l’ermeneutica fornisce un apporto
fondamentale in questa costante ridefinizione: solo chi ha letto molto, ha dialogato all’interno di
diverse culture e ha più volte riformulato la propria rete di pensiero alla luce di sempre nuovi
contributi può sviluppare l’ironia come consapevolezza della contingenza di ogni cosa, è evidente
come una tale prospettiva non possa che auspicare l'accoglimento ed il dialogo con tutte le culture.
La proposta dell'ironia va ancora oltre, nella direzione di una rinuncia totale all’espressione di
assoluti e verso la concezione di una razionalità intesa come apertura al diverso. Nuovo compito
della filosofia sarà quello di ricercare la felicità in senso etico e politico. Avendo abbandonato la
ricerca della verità, la filosofia può aiutare ad affinare la pratica ermeneutica ed a rafforzare un
atteggiamento di solidarietà tra le culture, a partire dal riconoscimento delle diverse contingenze
storiche e individuali.
Costruire ambienti di apprendimento
Nell'ottica costruttivista il docente diviene progettista di ambienti di apprendimento, costruiti
intenzionalmente per consentire percorsi attivi e consapevoli in cui lo studente sia orientato ma non
diretto. Luoghi ricchi e variegati per esperienze possibili e materiali di lavoro, caratterizzati da una
forte struttura, ma allo stesso tempo aperti e polisemici in cui gli studenti possano aiutarsi
reciprocamente, utilizzando una varietà di strumenti e di risorse in attività guidate. Un ambiente
arricchito da momenti di riflessione individuale e collettiva, da domande euristiche e da consegne
che lo studente può affrontare autodeterminando modi e percorsi, sulla base del proprio stile, degli
interessi e delle strategie personali.
Un insieme complesso di elementi caratterizzati da una relazione di reciproca influenza, che vede,
in una logica sistemica, il mutamento di ogni variabile non in modo indipendente, ma nella sua
stretta interazione con le altre.
Si tratta, quindi, di una attività complessa e altamente professionale, ben lontana da forme di
attivismo spontaneo che nel recente passato della scuola italiana hanno avuto una certa fortuna.
Occorre invece che in ogni attività l’impalcatura (scaffolding), in particolare il complesso di regole
comportamentali e sociali, sia molto forte e strutturata, dando spazio allo studente agendo però più
pesantemente sul contesto (norme cooperative molto precise, forte intervento di
responsabilizzazione, presenza ed impiego analitico di dispositivi e strumentazioni, ecc.)” (Calvani,
1998, p. 50) .
Allestire un ambiente di apprendimento significa tenere sotto controllo vari aspetti interagenti,
alcuni dei quali è importante vengano concordati con gli alunni in modo da renderli effettivamente
partecipi della gestione e responsabili:
ambiente fisico (spazi a disposizione, sistemazione funzionale dell’aula …);
tempi;
insieme di attori che agiscono al suo interno e delle relazioni che determinano il clima relazionale
e operativo;
aspettative;
comportamenti, regole e vincoli concordati;
compiti ed attività;
strumenti o artefatti, oggetto di osservazione, lettura, argomentazione, manipolazione.
Un cambiamento di ruolo che comporta, in ogni caso, “una diversa ripartizione del tempo di lavoro
dell’insegnante. Alleggerito il carico di lavoro in aula, in gran parte dedicato all’osservazione e alla
discussione, aumenta il tempo extrascolastico da impiegare nella predisposizione del materiale di
lavoro e nella progettazione flessibile e plurima dei percorsi e delle proposte operative” (Lodrini,
2002, p. 35).
L’atteggiamento di ascolto e l’esercizio dell’osservazione “si associa con una partecipazione
discreta e maieutica […] ed assume finalità diagnostico-interpretative avendo per oggetto non tanto
il che cosa viene detto e pensato, ma il come; non tanto l’esplicito quanto l’implicito delle
verbalizzazioni e dei comportamenti; non tanto le abilità attuali quanto quelle potenziali che ogni
studente esibisce.” (Cosentino, 2002, p. 169).
L’apprendimento significativo comporta l’assimilazione di un nuovo elemento nella rete di
conoscenze preesistenti ed è costituito dall’accomodamento dello schema che non ha funzionato in
una determinata situazione; la sua parte pregiata riguarda quindi l’organizzazione delle conoscenze.
E’ sicuramente molto complesso per il docente riuscire ad aprire una finestra sull’organizzazione
mentale dei propri alunni. Certamente le produzioni scritte ed orali, per come vengono
generalmente impostate, rischiano di dare una visione molto parziale che, inoltre, può essere
distorta da molteplici motivi come la tensione per il compito, la scarsa padronanza linguistica, la
difficoltà ad organizzare il discorso. Vedremo come modelli mentali (frames e script) e mappe
concettuali possano favorire il miglioramento di questa organizzazione e soprattutto costituiscano
uno strumento per esteriorizzare il pensiero e quindi renderlo accessibile all’alunno stesso che se ne
distacca ed impara ad agire su di esso, all’insegnante che può meglio rendersi conto delle effettive
difficoltà, senza contare che può favorire il lavoro di negoziazione e ridefinizione dei concetti da
parte del gruppo di lavoro. Sul cosa insegnare, il panorama teorico costruttivista fornisce
indicazioni su due livelli: disciplinare e metacognitivo. Porsi la domanda del cosa insegnare, al di là
della prescrizione del “programma”, comunque interpretabile e quasi mai svolto per intero, abitua a
tener conto del fatto che la materia scolastica è costituita da un insieme di aspetti di diverse
discipline, anche se non sempre in modo esplicito: "materia" e "disciplina" non sono propriamente
sinonimi. Con "disciplina" intendiamo un ben definito oggetto del sapere, definito da un preciso
ambito di ricerca, specifiche procedure e paradigmi condivisi, con "materia" intendiamo invece
un’area di insegnamento risultante dal raggruppamento di un insieme di concetti, argomenti,
principi, operazioni e strumenti selezionati in campi disciplinari contigui e interdipendenti. Se
prendiamo ad esempio la materia “Italiano” è facile vedere come sia risultato di una fusione
complessa di più discipline, ciascuna delle quali contribuisce in differente misura alla costruzione
dei curricoli dei vari ordini di scuola: la Linguistica con elementi di Fonologia, Grammatica e
Teoria del linguaggio, la Semantica, la Semiotica, la Socio-psico-linguistica, la Pragmatica, la
Storia della lingua, la Scienza della comunicazione, la Storia della letteratura, la Critica letteraria,
l’Estetica, la Filologia.
Mantenere aperto e dinamico il collegamento tra la materia e la vivacità della ricerca dei rispettivi
campi disciplinari aiuta a porsi in un’ottica meno ferrea rispetto al programma e a chiedersi se il
proprio insegnamento tenga conto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche in atto e quale
rilevanza possa avere in rapporto alle richieste provenienti dal mondo del lavoro e dalla società, ma
anche quali competenze formative e trasversali possa sviluppare. “La rilevanza esterna della
disciplina corrisponde al suo uso sociale, al suo uso culturale e professionale, la rilevanza formativa
corrisponde al contributo che una disciplina o un’area disciplinare fornisce per sviluppare e
potenziare le capacità cognitive, metacognitive, relazionali, operative, immaginative delle allieve e
degli allievi, nella direzione dell’autonomia e dell’autostima. La rilevanza epistemologica va
indagata scegliendo tra i diversi approcci di riflessione sulla conoscenza che oggi possiamo
frequentare” (Zaccherini Marangoni, 2004).
L’analisi della disciplina nei suoi aspetti diacronici e sincronici, permette di seguire lo sviluppo di
un corpus di conoscenze a partire dalle esigenze da cui sono nate, in un preciso contesto culturale e
storico-politico, per seguirne l’evoluzione ed il cambiamento. “Viste come costrutti storici, le
discipline presentano una multidimensionalità corrispondente ai diversi processi che concorrono a
generarle. Non è più sufficiente riferirsi alla concezione che ne evidenzia gli aspetti concettuali e
proposizionali (sapere che cosa) e gli aspetti procedurali (sapere come), ma occorre correlare questi
aspetti con gli aspetti propri del contesto culturale, che corrispondono, in un momento storico dato,
alle visioni del mondo prevalenti, ai paradigmi in ambito scientifico, alle emozioni, ai valori, alle
immagini e rappresentazioni sociali (sapere perché); sono infatti questi aspetti di contesto che
consentono o meno di formulare le domande e/o esprimere i bisogni da cui scaturiscono i diversi
domini cognitivi che costituiscono le discipline (sapere per).” (Zaccherini Marangoni, 2004).
La prospettiva storica permette anche di considerare gli sviluppi possibili, di generare domande, di
comprendere come il percorso di conoscenza sia magmatico e continuo, individuandone i vari
ambiti complementari e comunque falsificabili e rivedibili.
Anche all’interno di un approccio storico, sarà comunque necessario esplicitare che qualsiasi
individuazione e designazione di un “fatto storico” è comunque un costrutto, risultato di confronti
con altri fatti e passibile di differenze interpretative. Non si tratta quindi di fare storia della
disciplina, ma di rendere evidente come una determinata teoria sia il portato di un’evoluzione socioculturale, come spesso essa renda conto solo di un aspetto parziale del fenomeno in esame e come,
di uno stesso fenomeno esistano differenti interpretazioni, anche all’interno dello stesso ambito
disciplinare. A causa dell'irripetibilità costitutiva dell’oggetto storico, l'affidabilità dei risultati di
un’analisi storica dipenderà dall'esplicitazione della logica procedurale che li ha conseguiti .
Una prospettiva storica permette di recuperare quello che nel manuale scolastico, in quanto risultato
di una costruzione compiuta dagli autori, viene perso a causa di operazioni di semplificazione, di
estrapolazione e riaggregazione che trasformano la disciplina in qualcosa di dato e statico, lontano
dagli sviluppi reali della ricerca: “un manuale è una costruzione che, come tale, è il risultato di
un’impresa conoscitiva i cui processi vengono sottratti all’attività didattica. Sarebbe, invece più
formativo recuperare nello spazio interno dell’azione educativa la serie di operazioni intellettuali
messe in atto per la costruzione di un manuale” (Cosentino, 2002, p. 172).
La didattica non dovrebbe, infatti, semplificare ma rendere invece visibile la complessità della
realtà e le sue multiprospettiche rappresentazioni, sviluppando situazioni di apprendimento basate
su casi reali, che inducano la curiosità per altre visioni del mondo e la capacità di porsi domande.
Non si sta evidentemente dicendo che qualsiasi interpretazione degli studenti vada accolta per
quello che è, al contrario, il rigore delle informazioni e dei metodi è di primaria importanza perché
gli alunni si avvicinino alla conoscenza disciplinare vista come mediazione simbolica del mondo e
se ne approprino organizzando strutture cognitive personali e significative per loro.
Ne può risultare un laboratorio in cui il contesto disciplinare viene esplorato a partire dagli
orientamenti degli allievi, attraverso l’esercizio dell’ermeneutica e utilizzando una pluralità di
strumenti informativi.
La prospettiva socio-culturale
Le analisi di Vigotskij e le posizioni costruzioniste e contestualiste, sono quelle che hanno trovato
maggior adesione nella recente ricerca didattica statunitense, che ha sviluppato proposte e
metodologie che vedono come elemento centrale la valorizzazione delle relazioni interpersonali e
l’appartenenza culturale e sociale. L’enfasi viene posta sul gruppo, la cooperazione, le forme di peer
tutoring e reciprocal teaching, le comunità di pratica, come situazioni essenziali nei processi di
apprendimento.
Inoltre, poichè la trama di significati propria di ogni cultura è mediata all'interno di rapporti
intergenerazionali, la loro rinegoziazione tra giovani e adulti crea le premesse della costruzione di
identità e di senso di appartenenza sociale. All’interno di questo processo, l’insegnante deve avere
la consapevolezza di svolgere inevitabilmente un ruolo rilevante tramite l’implicita proposta di
determinati modelli culturali di riferimento.
La posizione culturalista di Bruner (1997) sottolinea come l’appartenenza culturale offra una sorta
di "cassetta degli attrezzi", un insieme di credenze, regole, valori e visioni del mondo che dovrebbe
essere valorizzata e coniugata con i processi di apprendimento scolastico, assieme alla
consapevolezza delle diverse forme di sviluppo della mente proprie di ciascun individuo (Gardner,
1993a). Bruner sottolinea come la cultura di appartenenza delinei gli schemi cognitivi che stanno
alla base del conoscere e dell’esperienza quotidiana. Modelli e concetti provenienti dalla cultura di
appartenenza vengono usati anche nei processi percettivi, predeterminando la categorizzazione
degli oggetti. In questo senso i modelli mentali elaborati dalle scienze cognitive, possono essere uno
strumento che consente di analizzare i processi attraverso cui matura la formazione dei concetti.
Bruner considera tre diversi sistemi di rappresentazione della conoscenza, che sono interdipendenti
e compresenti nei diversi momenti della vita dell'individuo: il sistema attivo in cui prevale il
pensiero centrato sull'azione (si impara a fare una cosa attraverso la pratica e la sperimentazione); il
sistema iconico che è legato agli stimoli provenienti dalla vista e dall'udito e dà origine
all’apprendimento per osservazione (si impara guardando fare qualcosa e imitando l'azione); il
sistema simbolico che, attraverso l’uso di simboli, permette di condividere il significato.
Il gioco tra questi molteplici percorsi di attribuzione di significato tra generazioni, individui e
gruppi implica un'idea distributiva della cultura intesa come organizzazione della diversità. Non si
tratta semplicemente di accettare che gli individui non sono tutti uguali, ma di instaurare un
confronto programmatico e costante. In questa prospettiva si sviluppa la sua psicologia
dell’apprendimento , che tende a coniugare l'ambito situazionale e contestuale della cultura con lo
sviluppo ontogenetico. Le sue riflessioni sullo sviluppo cognitivo sembrano caratterizzate dal
tentativo di integrare il pensiero di Piaget e di Vygotskij, l'approccio centrato sulle strutture
cognitive individuali con la posizione socioculturale.
L’approccio situazionista di Cole evidenzia ulteriormente come l’apprendimento si verifichi
soprattutto come atto di appartenenza ad una comunità e sia permesso e facilitato dal
coinvolgimento nelle sue attività. Così, non si impara quando ci è negata la partecipazione alle
pratiche rilevanti della comunità o quando non ne accettiamo regole e valori condivisi (Cole, 1996).
Gli studi sulle Comunità di pratica di Etienne Wenger mostrano come queste comunità rifuggano
dalla formalizzazione e dall’istituzionalizzazione, si tratta di gruppi spontanei regolati da norme
informali, con una partecipazione fluida legata a motivazioni pratiche di ricerca di soluzioni intorno
a problemi ed obiettivi comuni, per poi applicarle nel proprio lavoro e nelle organizzazioni di
appartenenza.
A. Brown e J. Campione elaborano un ulteriore approccio che coniuga le istanze del costruttivismo
sociale con alcuni enunciati del situazionismo, per applicarle nelle situazioni formali e istituzionali
di apprendimento. Il principio fondamentale è che l'attività della mente deve essere esaminata nei
contesti della vita quotidiana, da cui vanno tratte le indicazioni per evitare di rendere artificioso
l'apprendimento. Le loro Community of Learners si sviluppano quindi come ambienti di ricerca
cooperativa che, al pari di una comunità scientifica, mirano ad affrontare problemi reali ed hanno
come principio ispiratore la riflessione sulla conoscenza e la condivisione delle risorse intellettuali,
valorizzando gli aspetti metacognitivi e riflessivi. Nella Community sono previsti numerosi spazi di
discussione per favorire decisioni condivise sul percorso di conoscenza da sviluppare, negoziato
con gli alunni in funzione dei diversi bisogni e competenze, e attivare zone di sviluppo prossimale.
La classe viene organizzata come una comunità di "apprendisti" , in cui ogni membro può divenire
"esperto" in un particolare settore di conoscenza e offrire consulenza agli altri componenti del
gruppo. Tutti gli studenti svolgono molteplici attività: ricercano su libri, CD-ROM, in internet,
fanno esperimenti, partecipano a discussioni on line, producono materiali per i compagni, spiegano
e commentano il loro lavoro. Il docente, come esperto, è a disposizione per rispondere a domande,
fornire chiarimenti o materiali supplementari, riformulare i problemi.
La proposta delle Knowledge Building Community di C. Bereiter e M. Scardamalia ha come
caratteristica fondamentale la produzione di idee di valore non solo per gli studenti, ma anche per la
comunità sociale di cui fanno parte, collocando i compiti di apprendimento su un piano di realtà ed
effettiva utilità.
Anche in questo caso insegnare e apprendere sono attività intercambiabili e nel gruppo tutti sono
consapevoli di favorire a tutti l'avanzamento nella comprensione; ogni partecipante mette a
disposizione la conoscenza da lui costruita e si assume precise responsabilità quali il massimo
impegno per il miglioramento delle idee e la disponibilità alla discussione e all’approfondimento.
La continua analisi di risorse, che non sono testi scolastici ma reali fonti informative come
quotidiani, pubblicazioni, articoli on line e off line, porta a raffinare le prime elaborazioni anche
attraverso la progettazione di esperimenti e prove e mediante le critiche portate dagli altri
componenti del gruppo. Anche il docente è un "knowledge builder" pienamente implicato nel
processo di ricerca e codecisione, tuttavia come ricercatore più esperto coordina l'attività e fornisce
consulenza.
Un’ulteriore enfatizzazione del ruolo produttivo e comunicativo delle tecnologie, già presente nelle
Community of Learners e nelle Knowledge Building Community, viene proposta da M. Riel nei
Circoli di Apprendimento che si basano fondamentalmente sull'agire collaborativo e cooperativo tra
scuole, classi e gruppi di lavoro in rete, in “comunità virtuali globali dove è possibile conoscersi,
elaborare e realizzare progetti comuni, documentarsi e documentare gli altri su tematiche
specifiche” (Riel, 1993). Ciascun Circolo di Apprendimento è formato da un numero limitato di
classi che interagiscono telematicamente per il conseguimento di un obiettivo comune. Gli
insegnanti non hanno il controllo globale sull'indirizzo che prenderà il progetto, apprezzando le
occasioni inattese di apprendimento che si evolvono dall'interazione. L’entusiasmo dei docenti per
la possibilità di apprendere a distanza da terzi è percepito chiaramente dagli studenti e diviene prova
dell'alto valore attribuito all'apprendimento (Riel, 1993).
La metacognizione
E’ evidente come una approfondita riflessione sulla costruzione dei costrutti e sui relativi processi
linguistici introduca la dimensione metacognitiva. Non a caso, oltre agli aspetti sin qui illustrati,
molte, fra le correnti didattiche costruttiviste, sottolineano l’importanza di prevedere, all’interno
degli ambienti di apprendimento allestiti, momenti, spazi e sollecitazioni ad una riflessione
individuale e collettiva sui processi cognitivi e motivazionali personali e del gruppo di
appartenenza. “Apprendimento consapevole e attività sono complementari, interattivi e
interdipendenti (non c’è azione senza pensiero, non c’è pensiero senza azione).[…] L’attività è però
condizione necessaria ma non sufficiente all’apprendimento: per costruire significato è infatti
necessaria la riflessione sulle azioni percepite e consapevoli.” (Varisco, 2002, p. 184).
Se l’apprendimento non è semplice assimilazione di nuove informazioni ma costante ricostruzione
di schemi interpretativi della realtà, che solo chi apprende può decidere di mettere in atto, la
consapevolezza di questo processo e la capacità di analizzarlo diventano elementi centrali per
arrivare a dare significato e valore all'esperienza apprenditiva. “La costruzione di significato
coinvolge i pensieri, i sentimenti e le azioni e questi tre aspetti vanno integrati all’interno di un
nuovo apprendimento significativo e in particolare di una nuova creazione di conoscenza” (Novak,
2001, p. 20). Riconnettere e reintegrare questi tre piani, spesso nella scuola disgiunti, significa
attivare quel processo di profonda modifica dell’identità personale che è alla base di ogni
apprendimento significativo.
Per una didattica costruttivista
Una didattica che voglia ispirarsi all'epistemologia costruttivista non dovrebbe mai venire meno
all’assunto di base che la nostra conoscenza della realtà è una costruzione individuale e sociale;
senza di esso una pratica costruttivista perde di incisività e di fatto si avvicina molto a metodologie
già ampiamente sperimentate.
La questione non è meramente teorica ma ricca di implicazioni pratiche:
il valore delle discipline viste come costrutto storico, che testimonia l’evoluzione del rapporto
dell’uomo con il mondo, e non come descrizioni oggettive di realtà;
la conseguente impostazione storico-critica dei curricola che metta in luce il susseguirsi di
modelli interpretativi e la variazione di significato dei concetti chiave delle discipline, in relazione
ai contesti geografici, epocali e culturali, soffermandosi anche sulle aree di contraddizione e di
costante ricerca;
il radicamento e la legittimazione profonda della diversità tra le culture, assieme alla possibilità di
evolvere i propri punti di vista;
la dignità e la legittimità dei modelli di spiegazione degli allievi che non è possibile interpretare
semplicisticamente come errore e dei quali è necessario tenere conto per impostare qualsiasi azione
didattica; l’importanza della costante negoziazione di significati e l’inutilità di un nozionismo che,
nel migliore dei casi, semplicemente si sovrappone alle strutture concettuali soggettive, senza
minimamente intaccarle;
lo sviluppo di un’attitudine metacognitiva e riflessiva che fondi l’idea di un apprendimento
costante durante tutta la vita.
Linee di ricerca per una didattica costruttivista
Se la conoscenza è legata al contesto ed all’attività dell’individuo, non c’è mai un solo modo giusto
di fare qualcosa, non esistono quindi procedure di insegnamento fisse, meccaniche e standardizzate.
L’approccio costruttivista offre piuttosto, all’insegnante, una struttura teorica dalla quale ricavare
alcune importanti indicazioni sul significato dell’apprendere, sul cosa insegnare e come farlo e, di
non secondaria importanza, cosa è opportuno evitare.
Al di là di una critica generalizzata di questi autori al modello attuale di scuola, che sembra
rispondere poco sia alle esigenze degli alunni sia alle necessità sociali e produttive, caratterizzata da
modalità didattiche sostanzialmente trasmissive che sottendono posizioni di sostanziale
oggettivismo, sono stati elaborati alcuni orientamenti generali e condivisi che tendono a ridisegnare
la figura professionale ed il ruolo dell’insegnante.
Se la conoscenza è un’attiva e personale costruzione di significato attraverso meccanismi di
assimilazione e accomodamento, coerente con la storia individuale, un docente può offrire allo
studente stimolo ed indirizzamento, ma non può influire direttamente sul suo apprendimento:
“l’istruzione non è causa dell’apprendimento, essa crea un contesto in cui l’apprendimento prende
posto come fa in altri contesti” (Wenger, 1998, p. 266), quali la famiglia o il gruppo dei pari.
Quindi l’insegnante non determina meccanicamente l’apprendimento, che va visto piuttosto come
un processo continuo e pervasivo, che vede l’insegnamento come una delle tante risorse possibili.
In altre parole, il docente può svolgere efficacemente e consapevolmente la sua funzione, solo
riconoscendo l’illusorietà di un rapporto diretto e causale tra insegnamento e apprendimento,
vedendolo invece come risposta, possibile ma non predeterminabile e pianificabile, alle finalità
pedagogiche del setting che ha predisposto.
Anche la comunicazione e l’azione del docente possono essere considerate un oggetto tra gli altri
oggetti a disposizione per apprendere. Infatti, ciò che l’insegnante dice e propone, viene sempre e
comunque interpretato dallo studente e le interpretazioni quasi mai coincidono con quello che si
voleva trasmettere, in quanto il significato viene ricostruito a partire dalle conoscenze pregresse e
dagli scopi personali: “l’insegnante e i materiali d’istruzione diventano risorse per l’apprendimento
in molti modi complessi, attraverso le loro intenzioni pedagogiche” (Varisco, 2002, p. 176).
Per quanto riguarda l’uso del linguaggio da parte dell’insegnante si tende a dimenticare che
l’approccio ai simboli da parte di un docente è governato da un abitudine personale acquisita da
molto tempo, così come il modo di guardare gli oggetti di una disciplina. L’insegnante, quindi, ha
una funzione costantemente orientativa nella costruzione del significato; attraverso un uso attento
del linguaggio indica la direzione di senso e, senza offrire risposte precostituite, innalza limitazioni
e delinea un orizzonte entro il quale condurre nella direzione corretta (Von Glasersfeld, 1998,
p.160).
In quest’ottica perde la sua centralità la lezione tradizionale a favore dell’esperienza diretta, intesa
non solo come manipolazione e costruzione di oggetti, ma anche fruizione e decostruzione di
materiali e testi diversi. Anche nel proporre esperienze dirette è bene ricordare che qualsiasi
percepito non è in sè significante; il “cosa si percepisce” è, come abbiamo visto, orientato e reso
possibile dall’intenzionalità del soggetto e dipende dalla costruzione interna, potremmo dire che
anch’esso è occasione e non causa di apprendimento. E’ infatti frequente che, durante un
esperimento od un’attività di osservazione, gli studenti non sappiano letteralmente cosa guardare;
ciò che per il docente è della massima evidenza, resta per gli alunni confuso in uno sfondo poco
districabile di stimoli che potrebbero avere tutti la stessa importanza.
Tuttavia, non ci troviamo di fronte studenti privi di idee o di spiegazioni sui diversi domini di
conoscenze che affrontano a scuola. Al contrario, essi sviluppano precocemente “teorie ingenue”
sulla realtà, microteorie utilizzate come cornici interpretative, come paradigmi validi fin quando
non vengono smentiti; modelli mentali anche fortemente strutturati che tendono a modificarsi a
fatica. L’apprendimento, allora, va considerato come un processo di modifica e ristrutturazione di
questi schemi rappresentativi, un progressivo adeguamento delle strutture cognitive che si rivelano
inadeguate alle nuove situazioni che si presentano. Il docente fornisce assistenza all’interno del
processo per facilitare la rielaborazione dell’esperienza individuale che resta, comunque, compito e
fatica dell’alunno.
Le teorie ingenue hanno spesso qualcosa di corretto e funzionano nel quotidiano, per economicità
cognitiva risultano difficili da sostituire con quelle esperte di cui non è altrettanto evidente la
viabilità; è quindi necessario porre gli alunni in condizione di scoprire dove la teoria ingenua non
funziona.
Compito del docente sarà dunque quello di accertare le pre-concezioni spontanee degli alunni, farne
emergere l’eventuale inadeguatezza (conflitto o spiazzamento cognitivo), per tendere a ristabilire
l’equilibrio mediante ipotesi e tentativi, fino a elaborare una nuova struttura interpretativa coerente
e più vicina a quella socialmente condivisa, depositata nel patrimonio disciplinare.
Se l’acquisizione della conoscenza avviene attraverso percorsi multipli fra loro interagenti,
determinati anche dalle diverse comunità sociali a cui apparteniamo, ciò significa che
l’apprendimento individuale non può rispondere a standard e fasi predefinite, lineari e segmentate; è
necessario offrire a tutti le condizioni per seguire un proprio percorso individuale all’interno di un
processo ricorsivo e reticolare, in cui ciascuno possa autodeterminare, attraverso la molteplicità
delle piste percorribili, il suo itinerario e parte degli obiettivi stessi.
All’interno di questo processo è fondamentale valorizzare la dimensione sociale della conoscenza,
le potenzialità che può esprimere la classe come gruppo, nell’imparare dagli altri e con gli altri,
nella negoziazione di interpretazioni ad un livello sempre più raffinato e condiviso. Abbiamo visto
come le relazioni interpersonali abbiano un ruolo essenziale e costitutivo nella costruzione del
pensiero, rispondendo al duplice bisogno del singolo di venire confermato e sentirsi parte di una
certa comunità condividendone le trame di significati e di trovare in essa forme di scaffolding che lo
aiutino a realizzare le proprie potenzialità.
In questo senso le comunità di pratica e le svariate tecniche di cooperative learning possono offrire
ai docenti molteplici spunti operativi. A nostro avviso, non si tratta di “sposare” una singola e
specifica modalità, come spesso avviene nelle scuole statunitensi, sembra più interessante scegliere
le modalità più adatte ad un determinato progetto e contesto, pur mantenendo fermi alcuni principi
regolativi di fondo e la funzione di monitoraggio dei processi da parte dell’insegnante.
La ricaduta e l’applicazione sul piano didattico delle teorie costruttiviste riflettono, evidentemente,
le diverse focalizzazioni e il differente peso che le varie correnti attribuiscono ai piani individuali e
collettivi. In alcuni casi, queste differenze vengono enfatizzate assumendo la forma di
contrapposizione. Il tentativo del nostro lavoro è stato quello di estrapolare, attraverso la ricercaazione, le modalità più funzionali e le pratiche più efficaci delle diverse proposte e di trovare i piani
di convergenza dei diversi approcci.
Per una prospettiva di integrazione
In Italia il pensiero di Vygotskij si è diffuso in una prima fase tra gli anni ’60 e ’70 per arrivare ad
una più intensa applicazione, soprattutto nelle situazioni di emarginazione sociale e ritardo
culturale, dopo gli anni ’80. Ciò ha portato ad una minor considerazione delle teorie di Piaget,
anche a causa di una lettura piuttosto riduttiva della sua analisi degli stadi di sviluppo, e ad una
conseguente applicazione meccanica e rigida.
Rimane tuttavia aperto il problema di comprendere meglio attraverso quali strade un soggetto faccia
proprie le forme di interpretazione della cultura di appartenenza. Le recenti teorie evolutive della
mente rifiutano l’asserzione che le forme e le convenzioni culturali possano essere estratte dal
contesto sociale semplicemente perchè costituiscono l’ambiente in cui i bambini crescono; sembra
essenziale la disponibilità di alcune competenze sottostanti come la capacità di tenere a mente, di
distaccare gli schemi dalle loro condizioni di input-output e di inserire gli schemi all’interno di altri
schemi.
In questo senso dovrebbero essere recuperate alla ricerca le potenzialità costruttive e creative che
Piaget, Von Glasersfeld e la Scuola Operativa riconoscono al soggetto in apprendimento. In Italia
Alberto Munari e Donata Fabbri hanno utilizzato le tesi di fondo dell’epistemologia genetica,
puntando a coniugare questo punto di vista con il paradigma della complessità (Cosentino, 2002, p.
134) e con un approccio ermeneutico e negoziale, in cui il soggetto deve confrontarsi con la
polisemia degli enunciati per decidere, in base alla situazione e al personale sistema di conoscenze,
quale significato sia pertinente, dovendo anche condividere questo percorso di costruzione con altri
soggetti.
Se dal discorso comune passiamo a considerare la specificità della comunicazione scolastica, si
delinea una strada che consiste nel far entrare in interazione l’esercizio della negoziazione e
dell’ermeneutica con strategie che rendano capaci gli studenti di riconoscere ed agire sui propri
schemi interpretativi.
Pratiche discorsive formalizzate, come discutere su un tema specifico, inferire, ricordare, spiegare o
argomentare, forniscono contemporaneamente nuove procedure conoscitive, riapplicabili in diversi
contesti, e nuove organizzazioni concettuali e modi di leggere la realtà. Infatti “la discussione non si
realizza naturalmente a scuola: è piuttosto il risultato dell'inserimento di un insieme di condizioni
artefattuali che consentono il processamento congiunto dei contenuti, degli stili e degli
atteggiamenti che gli attori pongono in gioco. La situazione sociale di costruzione collettiva della
conoscenza e della spiegazione è la condizione matrice che presiede tanto allo sviluppo dei saperi e
delle discipline, quanto a quello delle competenze” .
Gli studenti, con i propri schemi interpretativi, entrano in contatto con quelli dei compagni e con i
modelli esperti prodotti all’interno delle discipline; perché questo contatto si evolva in
appropriazione significativa e non in mera giustapposizione di saperi, è necessario il lavoro di
negoziazione, ristrutturazione e revisione continua dei concetti, degli schemi e delle teorie.
Per facilitare questo delicato passaggio, che ci sembra essere il punto critico dell’educazione,
riteniamo sia molto utile l’uso esplicito di modelli come i frames e gli script accanto all’uso delle
mappe concettuali.
Gli schemi sono strutture che organizzano la memoria e che servono a interpretare eventi, oggetti o
situazioni e a fare ipotesi e previsioni su di essi, sono interfacciati, dinamici e articolati in
sottoschemi, il loro insieme rappresenta tutte le conoscenze di un individuo.
Utilizzati nella didattica, diventano strumento metacognitivo, in quanto permettono al soggetto di
esprimere la propria rete concettuale esplicitandola al di fuori della mente, e strumento di
negoziazione, in quanto facilitano lo scambio e la co-costruzione con il gruppo. In particolare, nelle
mappe concettuali i dati e le informazioni sono organizzati in modo spaziale, offrendo la possibilità
di dominare simultaneamente un campo di indagine, di scoprire relazioni nuove, di trasformare la
conoscenza tacita in conoscenza esplicita.
Ci sembra che l’uso di questi strumenti cognitivi, all’interno di una pratica costante di discussione e
negoziazione e assieme alla riflessione metacognitiva, possa costituire una via per il superamento di
quella che a lungo è stata letta come opposizione tra la costruzione interno-esterno piagettiana e
quella esterno-interno vygotskijana, tenendo presente l’importanza che ambedue gli autori
ascrivono ai fattori storico-sociali ed al linguaggio.
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