La prospettiva storica. Dalle scienze cognitive al costruttivismo. Dagli anni ’70 il termine costruttivismo inizia a diffondersi con sempre maggiore frequenza nei titoli di libri ed articoli. Attualmente all’interno del costruttivismo si vanno raccogliendo epistemologi, filosofi della scienza, psicologi, studiosi dell’area cognitiva, pedagogisti e tecnologi che, rileggendo il complesso percorso compiuto in queste discipline negli ultimi anni del novecento, hanno in un certo senso cooptato altri autori che avevano elaborato posizioni nella direzione costruttivista. Solo a questo punto si sono delineate con maggior chiarezza correnti interne, che, pur concordando negli assunti di base, pongono in modo specifico l’attenzione su particolari aspetti della costruzione del sapere. Cerchiamo qui di offrire un sintetico quadro orientativo, a partire dai principali autori che hanno utilizzato il termine costruttivismo o più in generale si sono riferiti all’apprendere come ad un “costruire” e che hanno indicato nei loro lavori alcuni antecedenti filosofici che li hanno spinti a distaccarsi dall’epistemologia corrente per collocarsi su un diverso piano interpretativo. Abbiamo tenuto in particolare considerazione il lavoro di Von Glasersfeld per quanto riguarda le origini del costruttivismo ed rapporti che si sviluppano tra la seconda cibernetica, la Scuola Operativa Italiana e l’epistemologia di Piaget. Si possono poi individuare due ambiti che sviluppano rispettivamente le premesse socio-storiche e culturali di Vygotskij da un lato e quelle cognitivo-individuali di Piaget e della seconda cibernetica dall’altro. I rimandi ad opere ben più analitiche e complete della nostra consentiranno a ciascuno di approfondire autonomamente il quadro. Le origini Ripercorrendo la storia della filosofia, Von Glasersfeld (Von Glasersfeld, 1998) delinea le origini storiche del pensiero costruttivista nelle teorie degli empiristi inglesi e di Giambattista Vico. Nelle pagine di Loke, Berkeley e Hume emerge il dubbio che le qualità che associamo alle cose dipendano non dalle cose stesse, ma dalla riflessione dell’osservatore che ne costruisce le relazioni come successione, tempo, moto, numero, causa … Secondo Hume il bambino per iniziare ad operare queste connessioni ha bisogno di avere un certo numero di “idee semplici”, che gli derivano da sensazioni più volte sperimentate. Queste idee semplici sembrano essere i concetti delle cose, sui quali poi la mente opera le relazioni. Vico con l’affermazione “verum ipsum factum” fa corrispondere la conoscenza razionale alla costruzione della mente che organizza l’esperienza: "la scienza è la conoscenza della genesi, cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la mente ne conosce il modo, perché compone gli elementi, fa la cosa.” (Vico, 1976, pp. 194 -195). Successivamente Kant ha inteso i concetti come principi regolativi dell’esperienza e le sue “categorie” possono essere considerate i precursori di ciò che oggi chiamiamo schema o costrutto. L’intelligenza è per Kant un potere interamente attivo dell’essere umano: tutte le sue idee e i suoi concetti non sono altro che sue creazioni e le cose esterne sono solo occasioni che causano l’operare dell’intelligenza, il cui prodotto sono idee e concetti (Kant, 1798). Hans Vaihinger, elaborando il pensiero kantiano aggiunse che i concetti, oltre a non essere uno specchio della realtà, funzionano come una sorta di guida funzionale al nostro interagire con il mondo. Ne La filosofia del come-se (Vaihinger, 1913), egli proclamò il carattere fittizio di concetti come "punto", "superficie", "infinito", "materia o "cosa in sé", in quanto entità alle quali non possiamo attribuire un'esistenza reale, anche se da esse ci facciamo guidare per conoscere la realtà come se fossero insite in essa. Se tutta la conoscenza umana, non è che «finzione», nel senso del fingo latino , tra le varie finzioni saranno utili quelle che rispondono alle esigenze pratiche; pertanto anche le credenze o le teorie contraddittorie possono avere un loro valore di utilità e possono essere utilizzate «come se» fossero verità. Da questo punto di vista non c'è differenza tra teorie scientifiche e conoscenza comune. Si tratta pur sempre di «finzioni» e possono convivere in virtù della loro utilità. Il contributo della linguistica Tra ottocento e novecento la linguistica, a partire da De Sassure, giungeva alla conclusione che il modo di vedere il mondo fosse in gran parte determinato dalla madre lingua e che il significato delle parole andasse ricercato nella mente di chi parla piuttosto che nell’oggetto di cui si parla. Per la prima volta De Sassure si pone il problema di comprendere come funziona il linguaggio. La lingua è un prodotto sociale regolato da un insieme di convenzioni. Separando la langue dalla parole, egli separa ciò che è sociale da ciò che è individuale e ciò che è essenziale da ciò che è più o meno accidentale. La langue riguarda infatti l'insieme di convenzioni adottate da un gruppo sociale per permettere l'uso del linguaggio, cioè l'insieme delle norme condivise necessarie a comprendersi. La parola è invece l'operazione personale dei parlanti, che introducono variazioni individuali nella langue. Apprendere una lingua significa dunque operare un processo continuo di adattamento tra i significati personali (parole) e quelli sociali (langue). I significati non possono venire completamente condivisi perché la loro unione con le immagini ed i suoni che li rappresentano viene creata sulla base dell’esperienza individuale. Whorf negli anni Trenta assegna al linguaggio un preciso ruolo nella creazione dei concetti criticando la posizione secondo cui il parlare esprime ciò che è già formulato dal pensiero, come processo indipendente dalla natura delle lingue particolari. Secondo questa posizione, il pensiero non verrebbe condizionato dalla grammatica, ma dalle leggi della logica o della ragione, che sono identiche per tutti e che rappresentano una razionalità intrinseca alle cose, indipendente dagli osservatori. Secondo Whorf invece differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, dato che esiste una relatività di tutti i sistemi concettuali e una loro dipendenza dalla lingua (Whorf, 1956). La cibernetica Norbert Wiener nella seconda metà degli anni Quaranta riprese il termine cibernetica, peraltro già utilizzato nel corso della storia della scienza, cercando un sostantivo appropriato per descrivere un nuovo campo di indagine: la scienza del controllo e della comunicazione nell’animale e nelle macchine. La parola greca kybernetike' techne significa infatti arte di pilotare, o scienza della guida delle navi. Assieme a studiosi come John Von Neumann, Claude Shannon, Heinz von Foerster e Gregory Bateson, Wiener studiò i meccanismi che permettevano ad un organismo vivente di autoregolarsi, di essere un sistema autonomo e di scambiare informazione tra le sue parti attraverso il meccanismo di feedback o retroazione. La cibernetica propone nozioni e modelli concettuali che aprono nuovi percorsi in molte aree di ricerca quali l’epistemologia, l’antropologia, l’ingegneria, la teoria dei sistemi, la scienza dell’educazione, le scienze politiche, la psicologia e la comunicazione collocandosi così su un piano metadisciplinare . Fin dall’inizio nella cibernetica coesistono due orientamenti, il primo centrato sull’ideazione di meccanismi automatici di autoregolazione basati su feedback, dal quale sono nate applicazioni come i robot industriali, i piloti automatici ed i computer. Il secondo orientamento ha focalizzato la ricerca sulla conoscenza, a partire dai meccanismi che regolano tutti gli organismi biologici, analizzati in particolare da Maturana e Varela. Secondo la loro prospettiva un sistema biologico è autopoietico, cioè informazionalmente chiuso ed autonomo, e possiede la capacità di riorganizzarsi. Il suo comportamento è prodotto dalla relazione tra i differenti componenti del sistema, che reagisce quando è perturbato da stimoli ambientali. (Maturana e Varela, 1987). Heinz Von Foerster fondò in un secondo tempo la cibernetica di secondo ordine: mentre la cibernetica di primo ordine studiava le modalità di funzionamento dei sistemi in sè, il passaggio alla cibernetica di 2° ordine provoca un mutamento di prospettive; infatti, in qualsiasi campo di indagine concepito dall’uomo, sia esso astronomico, sociologico, biologico o psicologico, l’osservatore fa parte dell’universo studiato in quanto costruttore del campo di osservazione, che decide in cosa consiste il sistema osservato e ne traccia il confine rispetto all’ambiente. Così nella teoria dei sistemi un sistema è considerato come possibile parte di un sistema più ampio, le cui parti possono essere, a loro volta, sistemi; qualsiasi sistema è contemporaneamente un sottosistema ed un sovrasistema. L’assunzione di quest’ottica di indagine mostra all’osservatore la relatività del proprio punto di vista rispetto a tutti quelli possibili e l’impossibilità di eliminare i vincoli che l’essere un individuo biologico, psicologico e sociale pongono alle possibilità e capacità di osservazione . Il costruttivismo operatorio di Piaget Nello stesso periodo anche Piaget, partendo da una formazione biologica e da studi sull’adattamento all’ambiente degli organismi, sposta l’attenzione dal mondo ontologicamente inteso al mondo percepito ed inizia a considerare la conoscenza come la più alta forma di adattamento di un organismo complesso. Il conoscere è infatti legato all’agire sull’ambiente ed ha lo scopo di costruire strutture concettuali viabili , così la mente costruendo sé stessa costruisce il mondo (Piaget, 1937). All'inizio il bambino ha a disposizione solo un corredo biologicamente determinato di riflessi, le sue percezioni non sono né coordinate tra di loro, né coordinate alle azioni. Progressivamente si formano le prime coordinazioni tra percezione e azione attraverso processi circolari, in cui il bambino compie azioni per il solo piacere o interesse che ne deriva, e che quindi conducono a ripetere e perfezionare certi schemi d'azione. I concetti degli oggetti vengono costruiti a partire dai segnali percettivi ricorrenti associati a queste attività, solo in un secondo momento il bambino è in grado di ricostruire l’oggetto sulla base della memoria, anche in assenza dello stimolo percettivo. Il fatto che i concetti in formazione siano associati ad un’attività è testimoniato dall’uso linguistico: il bambino, ad esempio, dice “bicchiere” per significare che ha sete, dove l’oggetto è per ora indissolubilmente associato all’azione tipica e spesso insieme al contenuto “acqua”. Sembra essere questa l’origine degli script più tardi elaborati da Schank (Shank e Abelson, 1977), come modelli nel campo della linguistica computazionale e dell’Intelligenza Artificiale, che prenderemo specificamente in esame dal punto di vista didattico nel prossimo capitolo. La consapevolezza dell’identità individuale, del sé diverso dagli oggetti, e l’abilità di ricostruirli attraverso la memoria, sviluppa l’idea di permanenza dell’oggetto, fondamentale per poter riflettere e produrre ipotesi. Tra le attività che svolgono un ruolo prioritario nella costruzione del mondo vi è dunque quella di ri-presentazione, che si fonda sulla memoria e sulla differenza che si stabilisce tra il ricordato e l’attualmente percepito, attraverso una temporanea sospensione dell’oggetto dal flusso esperienziale. E’ questo il tipo di astrazione che permette la creazione di categorie attraverso l’ulteriore passaggio di generalizzazione: le caratteristiche proprie degli oggetti esperienziali confluiscono in uno schema operazionale che è in grado di riprodurre un singolo oggetto e di riconoscerlo come facente parte di una categoria. Il concetto non è quindi un’idea figurativa, ma piuttosto una strategia che permette al soggetto di ricostruire l’oggetto. Così, se non sembra possibile pensare una casa se non riferendosi ad un’immagine specifica, è tuttavia possibile riconoscere una struttura con porte, finestre e tetto come casa. La variabilità delle caratteristiche riscontrate nell’esperienza permette di identificare quelle più frequenti, e quindi in un certo senso irrinunciabili, e di mantenere una certa indeterminatezza che consente di riconoscere oggetti mai visti prima come appartenenti ad una classe (Von Glasersfeld, 1998). Su questa base l’individuo costruisce l’intelaiatura essenziale della realtà: i concetti di oggetti, spazio, tempo, cambiamento e moto che presuppongono la capacità di porsi come osservatore del proprio campo esperienziale. Per dare ragione della capacità di apprendere, Piaget utilizza due caratteristiche dell’evoluzione biologica trasponendole al più alto piano dello sviluppo psicologico individuale: l’assimilazione e l’adattamento. L’assimilazione consiste nell’incorporare un oggetto, una sua caratteristica o un evento, in una struttura cognitiva già acquisita. Questo implica che un individuo non possa assimilare ciò che non è compatibile con le strutture che già possiede. Ma, se fosse semplicemente così, sarebbe difficile spiegare la capacità di apprendere nuovi elementi, ed è qui che entra in gioco l’adattamento come capacità di modificare la struttura cognitiva e/o il comportamento al fine di sanare un disequilibrio, una perturbazione. Per comprendere questo passaggio è utile ricordare che, secondo Piaget, lo stimolo percettivo, che permette di riconoscere un oggetto, è inserito all’interno di un’attività dalla quale l’individuo si aspetta un risultato; il riconoscimento dello stimolo dipende dalla sua precedente assimilazione, dalla quale dipende anche l’attesa del medesimo risultato legato a quello stimolo. Se però il risultato è differente, il disequilibrio che ne deriva porta l’individuo a riconsiderare gli stimoli di partenza ed a prenderne in considerazione altre caratteristiche, il che può condurre ad un inserimento in uno schema diverso o alla creazione di un nuovo schema . In ogni caso lo sviluppo è sempre collegato al passato, a ciò che già esiste, e qualsiasi comportamento consiste in un tentativo di adattamento, cioè della ricerca di un equilibrio sul piano logico concettuale. L’isomorfismo tra la struttura che viene percepita e quella che viene ri-presentata, e che ne permette il riconoscimento, è anche alla base dell’apprendimento linguistico attraverso il meccanismo di associazione. Quando ascoltiamo una parola le associamo istantaneamente un significato figurativo, se derivato da un’esperienza sensomotoria, come il camminare, o un significato operativo, se associato ad un’operazione mentale o ad una relazione di qualche tipo, come il calcolare. Così il significato linguistico è strettamente legato alla personale esperienza dell’oggetto e, nell’uso del linguaggio, il parlante presuppone che la sua ri-presentazione sia simile a quella degli altri utenti linguistici. Si tratta effettivamente di una similitudine e non di un’identità, non potendo darsi per nessuno un’esperienza identica. La scuola operativa Italiana Negli anni ’40 dall’incontro di Silvio Ceccato, Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino nacque la Scuola Operativa Italiana che coinvolse studiosi di varia provenienza disciplinare, italiani e stranieri, intorno al tentativo di modellizzare l’attività mentale ed i rapporti fra questa e il linguaggio. Il principio fondamentale della tecnica operativa consiste nel considerare ogni contenuto mentale (percezioni, immagini mentali, concetti, pensieri, parole, etc.) come risultato di operazioni, perciò la spiegazione di un contenuto mentale consisterà nel descrivere le operazioni di cui esso è risultato, cioè nel farsi consapevoli delle proprie operazioni, ciò che Ceccato ha chiamato consapevolezza operativa. Ad esempio, una penna mi si fa incontro in primo luogo come “presenza”, poi la specifico come oggetto osservato, e, dunque, le assegno un posto nello spazio e ne individuo la funzione (una punta che lascia un segno, l'impugnabilità, etc.) per confronto con un paradigma costituito in precedenza (un paradigma di caratteri indispensabili perché sia una penna). Dispongo così di singoli contenuti mentali che nelle “operazioni correlazionali” collego per farne un pensiero: se costituisco "carta" e se la evoco assieme a penna, ottengo "carta e penna", se aggiungo "tavolo", ecco "carta e penna sul tavolo", ampliando così la rete correlazionale. Infine nelle “operazioni consecutive” integro questi pensieri nella rete di conoscenze di cui dispongo, facendo in modo che siano con essa compatibili. Dunque, si costituiscono gli elementi, si combinano insieme a formare un pensiero e infine si integra questo nuovo pensiero nel sistema delle conoscenze e delle esperienze personali per vedere se ha senso . Quando i costrutti attenzionali vengono inseriti in triadi, in cui due sono correlati ed uno è il correlatore (ovvero una categoria di rapporto), come abbiamo visto, si ottiene un “pensiero”. Il costruttivismo radicale di Von Galsersfeld L’attività di ricerca di Von Glasersfeld si colloca in continuità con il pensiero di Piaget e della Scuola Operativa ed ha riguardato in modo specifico la formazione dei concetti inerenti la matematica nei bambini. Secondo l’autore il linguaggio ha una funzione indicante, in cui le parole/simboli indicano appunto la possibilità di attivare percorsi verso ri-presentazioni specifiche senza obbligare a riprodurle subito, più o meno come una indicazione stradale indica una via possibile ma non obbligatoria, cioè contiene in modo implicito le indicazioni per arrivare in un certo luogo (Von Glasersfeld, 1998, p. 89). Quindi, il ricevente di un’espressione linguistica si trova sempre davanti ad un compito ermeneutico: le parole forniscono indicazioni per ricostruire una struttura concettuale i cui mattoni vanno comunque cercati nell’esperienza personale: non esiste trasmissione diretta di significato. Il mancato riconoscimento della soggettività dei significati, a favore di una attribuzione di stabilità e oggettività, porta a difficoltà a volte insormontabili nella comprensione. L’elemento linguistico, quindi, delimita quali significati possono essere scelti per quella determinata parola e la direzione di questa scelta avviene sulla scorta della padronanza del linguaggio e dell’esperienza individuale. Nonostante il fatto che ciascun individuo costruisca il mondo attraverso questi processi, ci sembra tuttavia di avere a che fare con una realtà stabile e condivisibile in cui conduciamo la nostra vita quotidiana. Per Glasersfeld si tratta di intersoggettività piuttosto che di oggettività della realtà, e nasce non dall’adeguamento al reale in sé, ma dall’avvaloramento di altri soggetti pensanti alle nostre interpretazioni. Anche il riconoscimento degli altri come persone, dotate di intenzionalità propria, è costruito a poco a poco dal bambino. Si pensa di riconoscere negli altri gli stessi concetti, ruoli e schemi che si sono dimostrati viabili nella nostra esperienza e, quando prevediamo correttamente come si comporterà una persona in una data situazione, questo aumenta la sensazione di stabilità della nostra realtà. Questo meccanismo intersoggettivo conduce a pensare che i concetti, i sentimenti, gli schemi di azione confermati dagli altri siano più reali di qualunque altra cosa esperita da soli e l’accordo con gli altri in un gruppo produce una conoscenza viabile a più alto livello che chiamiamo verità. La scuola di Psicologia Storico-Sociale di L. S. Vygotskij In altro ambito ed in parziale contrapposizione al pensiero di Piaget e dei cibernetici si sviluppa il pensiero di Vygotskij per il quale pensiero e linguaggio sembrano svilupparsi in un percorso che va dall’esterno verso l’interno del soggetto. Vygotskji porta ad esempio di questo processo lo sviluppo dell’ “indicare”: il bambino tenta inizialmente di afferrare qualcosa, quando l’adulto gli viene in aiuto realizza che il suo gesto è significativo per altre persone, di conseguenza il significato originario di quel movimento, non riuscito, per afferrare, è stabilito da altri. Il movimento orientato all’oggetto diventa diretto ad un’altra persona, un mezzo per stabilire rapporti, si trasforma nell’atto dell’indicare e diventa un vero gesto, semplificato anche dal punto di vista motorio (Vygotskji, 1978, p. 86). Successivamente il linguaggio primario sociale diventa uno strumento intellettivo con una funzione intrapersonale: il bambino inizia ad usare la lingua rivolto a se stesso, per guidare il proprio comportamento nella soluzione di problemi interni, ad esempio per rappresentare un oggetto o una persona, durante il gioco. Ogni funzione nello sviluppo del bambino si presenta quindi due volte: prima a livello sociale e in seguito sul piano individuale, prima tra le persone e poi interiorizzata, così pensiero e linguaggio si influenzano reciprocamente e la lingua è insieme prodotto e strumento di pensiero. Il linguaggio interiore è individuale e silenzioso e permette lo sviluppo della consapevolezza metacognitiva e la costruzione del significato semantico sulla base delle azioni che il bambino realizza, accompagnandole con il suo parlottare. Il significato resta così connotato dal complesso degli eventi psicologici ed emozionali che hanno costituito il contesto in cui si è verificata l'azione. Dunque anche per Vygotskij le parole possiedono primariamente una "equivalenza funzionale", non corrispondono cioè ad un’identità di concetti e di senso nei diversi interlocutori. I significati devono essere negoziati attraverso un continuo e reciproco lavoro di interpretazione. Per Vygotskij il vero apprendimento, come il gioco, è anticipatorio, si forma in una "zona di sviluppo prossimale", e consiste in una varietà di processi attivati dal bambino quando, interagendo con i suoi pari o con gli adulti all’interno del proprio ambiente, apprende l'uso di strategie che ancora non possiede, ma che interiorizza in attesa di farle proprie. La "zona di sviluppo prossimale" rappresenta la differenza tra l’effettiva capacità di risolvere una problema o una prova senza aiuto, e il livello di "sviluppo potenziale" determinato dalla stessa capacità di eseguirli sotto la guida di un adulto o in collaborazione con coetanei più abili (Vygotskji, 1978, p. 127) . Nel gioco il bambino inizia ad acquisire, attraverso l’imitazione, motivazioni, abilità, atteggiamenti necessari alla sua futura partecipazione sociale. Nel gioco il bambino è sempre al di sopra della sua età media e del suo comportamento quotidiano. Vygotskij stesso sottolinea a questo proposito la distanza da Piaget, per il quale “lo sviluppo è considerato come una precondizione dell’apprendimento, mai come il risultato di esso” (Vygotskji, 1978, p. 119). Mentre Piaget conferisce particolare rilievo a stadi di sviluppo universali, per quanto non legati a precise fasce di età, l’attenzione di Vygotskji è focalizzata sulle interazioni tra le condizioni sociali in trasformazione e il substrato biologico del comportamento. Costruzionismo e Contestualismo Negli ultimi vent’anni, in vari ambiti del sapere scientifico, si sono sviluppate posizioni che articolano ed approfondiscono la dimensione culturale, sociale e storica delineata da Vygotskji ed alcune posizioni derivate dal pragmatismo di Dewey. Queste posizioni ribadiscono che qualsiasi attività umana è inserita in un contesto storico e sociale, costituito da una rete di significati e relazioni che ne determinano lo sfondo di senso, costruito appunto a partire dai contesti d'uso. Feyerabend, nell’ambito della filosofia della scienza, respinge sia l'idea di dati indipendenti dal pensiero e assumibili come criteri oggettivi, sia la distinzione tra asserzioni teoriche e asserzioni derivate dall’osservazione. In altre parole, i fatti dipendono dalle teorie da cui sono spiegati, dalla cultura entro la quale gli enunciati sono giudicati sensati: qualsiasi termine concettuale è definito solo dal contesto teorico nel quale è incorporato, esso è in sè carico di teoria. Egli definisce perciò la costruzione scientifica un'impresa impura, nel senso che è generata e orientata da queste componenti storico-culturali, pratiche, sociali e ideologiche. Sono gli interessi reali, molto più che astratti dettami teorici, a delineare la strada dell’avanzamento scientifico. Feyerabend pone l'accendo sulla dimensione temporale, dinamica e multiprospettica del sapere. La sua costitutiva storicità comporta mutevolezza dei princìpi, dei metodi e degli obiettivi. Così, un approccio storico alla scienza mette in evidenza che i suoi progressi spesso sono dovuti alla trasgressione di regole e vincoli teorici. Anche per Norman Goodman il pensiero è un'attività conferitrice di senso complessa e differenziata, più precisamente è una costruzione simbolico-concettuale di forme e di significati che opera in modo estremamente libero. Essa costruisce le proprie "versioni del mondo" ed i propri concetti in rapporto ai propri fini e all’interno di precisi contesti (Goodman, 1978). Il suo pensiero si colloca sulla linea dell’interpretazione di Kant proposta da Cassirer per il quale l’uomo “non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza.”(Cassirer, 1968, p. 79). Così Goodman ridefinisce la funzione dell'arte che, accanto all’espressione di sentimenti e di emozioni, in questa prospettiva, possiede la capacità costruttiva di elaborare versioni e interpretazioni dei fenomeni dotate di una loro significazione. Se non è possibile separare il mondo dalle modalità simboliche con cui noi lo descriviamo, e questa costruzione dà luogo ad una molteplicità di versioni, è impossibile determinare quali siano oggettivamente più vere di altre. Qualsiasi cosa entri nel nostro campo di esperienza è già organizzata all'interno di un quadro interpretativo storico e culturale e non ci è possibile sapere come essa sia indipendentemente da queste elaborazioni. Così il criterio di valutazione delle versioni del mondo non può essere quello di verità o falsità, ma piuttosto quello pragmatico di rilevanza, di efficacia, di semplicità, appropriatezza o congruenza. Secondo Rorty se tutto è contingenza e circostanza storica diviene necessario un continuo confronto delle diverse descrizioni del mondo, finalizzato al tentativo di risolvere problemi concreti. Se non esistono essenze universali e sovratemporali, il concetto di verità deriva da una costruzione umana connessa a precise pratiche sociali di giustificazione e di controllo definite in base a determinati valori: è vero ciò che una determinata comunità, sulla base di determinate regole, crede che sia tale (Rorty, 1989). Se tutte le descrizioni sono legittime e permettono di affrontare la realtà, la filosofia porta il suo contributo accanto agli altri, rinunciando ad ergersi a giudice della conoscenza ed aprendosi al dialogo con gli altri saperi. L'individuo è una rete complessa di credenze ed atteggiamenti che si evolve continuamente grazie a nuovi incontri, nuove letture e confronti di idee con altre descrizioni del mondo. Per Rorty l’ermeneutica fornisce un apporto fondamentale in questa costante ridefinizione: solo chi ha letto molto, ha dialogato all’interno di diverse culture e ha più volte riformulato la propria rete di pensiero alla luce di sempre nuovi contributi può sviluppare l’ironia come consapevolezza della contingenza di ogni cosa, è evidente come una tale prospettiva non possa che auspicare l'accoglimento ed il dialogo con tutte le culture. La proposta dell'ironia va ancora oltre, nella direzione di una rinuncia totale all’espressione di assoluti e verso la concezione di una razionalità intesa come apertura al diverso. Nuovo compito della filosofia sarà quello di ricercare la felicità in senso etico e politico. Avendo abbandonato la ricerca della verità, la filosofia può aiutare ad affinare la pratica ermeneutica ed a rafforzare un atteggiamento di solidarietà tra le culture, a partire dal riconoscimento delle diverse contingenze storiche e individuali. Costruire ambienti di apprendimento Nell'ottica costruttivista il docente diviene progettista di ambienti di apprendimento, costruiti intenzionalmente per consentire percorsi attivi e consapevoli in cui lo studente sia orientato ma non diretto. Luoghi ricchi e variegati per esperienze possibili e materiali di lavoro, caratterizzati da una forte struttura, ma allo stesso tempo aperti e polisemici in cui gli studenti possano aiutarsi reciprocamente, utilizzando una varietà di strumenti e di risorse in attività guidate. Un ambiente arricchito da momenti di riflessione individuale e collettiva, da domande euristiche e da consegne che lo studente può affrontare autodeterminando modi e percorsi, sulla base del proprio stile, degli interessi e delle strategie personali. Un insieme complesso di elementi caratterizzati da una relazione di reciproca influenza, che vede, in una logica sistemica, il mutamento di ogni variabile non in modo indipendente, ma nella sua stretta interazione con le altre. Si tratta, quindi, di una attività complessa e altamente professionale, ben lontana da forme di attivismo spontaneo che nel recente passato della scuola italiana hanno avuto una certa fortuna. Occorre invece che in ogni attività l’impalcatura (scaffolding), in particolare il complesso di regole comportamentali e sociali, sia molto forte e strutturata, dando spazio allo studente agendo però più pesantemente sul contesto (norme cooperative molto precise, forte intervento di responsabilizzazione, presenza ed impiego analitico di dispositivi e strumentazioni, ecc.)” (Calvani, 1998, p. 50) . Allestire un ambiente di apprendimento significa tenere sotto controllo vari aspetti interagenti, alcuni dei quali è importante vengano concordati con gli alunni in modo da renderli effettivamente partecipi della gestione e responsabili: ambiente fisico (spazi a disposizione, sistemazione funzionale dell’aula …); tempi; insieme di attori che agiscono al suo interno e delle relazioni che determinano il clima relazionale e operativo; aspettative; comportamenti, regole e vincoli concordati; compiti ed attività; strumenti o artefatti, oggetto di osservazione, lettura, argomentazione, manipolazione. Un cambiamento di ruolo che comporta, in ogni caso, “una diversa ripartizione del tempo di lavoro dell’insegnante. Alleggerito il carico di lavoro in aula, in gran parte dedicato all’osservazione e alla discussione, aumenta il tempo extrascolastico da impiegare nella predisposizione del materiale di lavoro e nella progettazione flessibile e plurima dei percorsi e delle proposte operative” (Lodrini, 2002, p. 35). L’atteggiamento di ascolto e l’esercizio dell’osservazione “si associa con una partecipazione discreta e maieutica […] ed assume finalità diagnostico-interpretative avendo per oggetto non tanto il che cosa viene detto e pensato, ma il come; non tanto l’esplicito quanto l’implicito delle verbalizzazioni e dei comportamenti; non tanto le abilità attuali quanto quelle potenziali che ogni studente esibisce.” (Cosentino, 2002, p. 169). L’apprendimento significativo comporta l’assimilazione di un nuovo elemento nella rete di conoscenze preesistenti ed è costituito dall’accomodamento dello schema che non ha funzionato in una determinata situazione; la sua parte pregiata riguarda quindi l’organizzazione delle conoscenze. E’ sicuramente molto complesso per il docente riuscire ad aprire una finestra sull’organizzazione mentale dei propri alunni. Certamente le produzioni scritte ed orali, per come vengono generalmente impostate, rischiano di dare una visione molto parziale che, inoltre, può essere distorta da molteplici motivi come la tensione per il compito, la scarsa padronanza linguistica, la difficoltà ad organizzare il discorso. Vedremo come modelli mentali (frames e script) e mappe concettuali possano favorire il miglioramento di questa organizzazione e soprattutto costituiscano uno strumento per esteriorizzare il pensiero e quindi renderlo accessibile all’alunno stesso che se ne distacca ed impara ad agire su di esso, all’insegnante che può meglio rendersi conto delle effettive difficoltà, senza contare che può favorire il lavoro di negoziazione e ridefinizione dei concetti da parte del gruppo di lavoro. Sul cosa insegnare, il panorama teorico costruttivista fornisce indicazioni su due livelli: disciplinare e metacognitivo. Porsi la domanda del cosa insegnare, al di là della prescrizione del “programma”, comunque interpretabile e quasi mai svolto per intero, abitua a tener conto del fatto che la materia scolastica è costituita da un insieme di aspetti di diverse discipline, anche se non sempre in modo esplicito: "materia" e "disciplina" non sono propriamente sinonimi. Con "disciplina" intendiamo un ben definito oggetto del sapere, definito da un preciso ambito di ricerca, specifiche procedure e paradigmi condivisi, con "materia" intendiamo invece un’area di insegnamento risultante dal raggruppamento di un insieme di concetti, argomenti, principi, operazioni e strumenti selezionati in campi disciplinari contigui e interdipendenti. Se prendiamo ad esempio la materia “Italiano” è facile vedere come sia risultato di una fusione complessa di più discipline, ciascuna delle quali contribuisce in differente misura alla costruzione dei curricoli dei vari ordini di scuola: la Linguistica con elementi di Fonologia, Grammatica e Teoria del linguaggio, la Semantica, la Semiotica, la Socio-psico-linguistica, la Pragmatica, la Storia della lingua, la Scienza della comunicazione, la Storia della letteratura, la Critica letteraria, l’Estetica, la Filologia. Mantenere aperto e dinamico il collegamento tra la materia e la vivacità della ricerca dei rispettivi campi disciplinari aiuta a porsi in un’ottica meno ferrea rispetto al programma e a chiedersi se il proprio insegnamento tenga conto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche in atto e quale rilevanza possa avere in rapporto alle richieste provenienti dal mondo del lavoro e dalla società, ma anche quali competenze formative e trasversali possa sviluppare. “La rilevanza esterna della disciplina corrisponde al suo uso sociale, al suo uso culturale e professionale, la rilevanza formativa corrisponde al contributo che una disciplina o un’area disciplinare fornisce per sviluppare e potenziare le capacità cognitive, metacognitive, relazionali, operative, immaginative delle allieve e degli allievi, nella direzione dell’autonomia e dell’autostima. La rilevanza epistemologica va indagata scegliendo tra i diversi approcci di riflessione sulla conoscenza che oggi possiamo frequentare” (Zaccherini Marangoni, 2004). L’analisi della disciplina nei suoi aspetti diacronici e sincronici, permette di seguire lo sviluppo di un corpus di conoscenze a partire dalle esigenze da cui sono nate, in un preciso contesto culturale e storico-politico, per seguirne l’evoluzione ed il cambiamento. “Viste come costrutti storici, le discipline presentano una multidimensionalità corrispondente ai diversi processi che concorrono a generarle. Non è più sufficiente riferirsi alla concezione che ne evidenzia gli aspetti concettuali e proposizionali (sapere che cosa) e gli aspetti procedurali (sapere come), ma occorre correlare questi aspetti con gli aspetti propri del contesto culturale, che corrispondono, in un momento storico dato, alle visioni del mondo prevalenti, ai paradigmi in ambito scientifico, alle emozioni, ai valori, alle immagini e rappresentazioni sociali (sapere perché); sono infatti questi aspetti di contesto che consentono o meno di formulare le domande e/o esprimere i bisogni da cui scaturiscono i diversi domini cognitivi che costituiscono le discipline (sapere per).” (Zaccherini Marangoni, 2004). La prospettiva storica permette anche di considerare gli sviluppi possibili, di generare domande, di comprendere come il percorso di conoscenza sia magmatico e continuo, individuandone i vari ambiti complementari e comunque falsificabili e rivedibili. Anche all’interno di un approccio storico, sarà comunque necessario esplicitare che qualsiasi individuazione e designazione di un “fatto storico” è comunque un costrutto, risultato di confronti con altri fatti e passibile di differenze interpretative. Non si tratta quindi di fare storia della disciplina, ma di rendere evidente come una determinata teoria sia il portato di un’evoluzione socioculturale, come spesso essa renda conto solo di un aspetto parziale del fenomeno in esame e come, di uno stesso fenomeno esistano differenti interpretazioni, anche all’interno dello stesso ambito disciplinare. A causa dell'irripetibilità costitutiva dell’oggetto storico, l'affidabilità dei risultati di un’analisi storica dipenderà dall'esplicitazione della logica procedurale che li ha conseguiti . Una prospettiva storica permette di recuperare quello che nel manuale scolastico, in quanto risultato di una costruzione compiuta dagli autori, viene perso a causa di operazioni di semplificazione, di estrapolazione e riaggregazione che trasformano la disciplina in qualcosa di dato e statico, lontano dagli sviluppi reali della ricerca: “un manuale è una costruzione che, come tale, è il risultato di un’impresa conoscitiva i cui processi vengono sottratti all’attività didattica. Sarebbe, invece più formativo recuperare nello spazio interno dell’azione educativa la serie di operazioni intellettuali messe in atto per la costruzione di un manuale” (Cosentino, 2002, p. 172). La didattica non dovrebbe, infatti, semplificare ma rendere invece visibile la complessità della realtà e le sue multiprospettiche rappresentazioni, sviluppando situazioni di apprendimento basate su casi reali, che inducano la curiosità per altre visioni del mondo e la capacità di porsi domande. Non si sta evidentemente dicendo che qualsiasi interpretazione degli studenti vada accolta per quello che è, al contrario, il rigore delle informazioni e dei metodi è di primaria importanza perché gli alunni si avvicinino alla conoscenza disciplinare vista come mediazione simbolica del mondo e se ne approprino organizzando strutture cognitive personali e significative per loro. Ne può risultare un laboratorio in cui il contesto disciplinare viene esplorato a partire dagli orientamenti degli allievi, attraverso l’esercizio dell’ermeneutica e utilizzando una pluralità di strumenti informativi. La prospettiva socio-culturale Le analisi di Vigotskij e le posizioni costruzioniste e contestualiste, sono quelle che hanno trovato maggior adesione nella recente ricerca didattica statunitense, che ha sviluppato proposte e metodologie che vedono come elemento centrale la valorizzazione delle relazioni interpersonali e l’appartenenza culturale e sociale. L’enfasi viene posta sul gruppo, la cooperazione, le forme di peer tutoring e reciprocal teaching, le comunità di pratica, come situazioni essenziali nei processi di apprendimento. Inoltre, poichè la trama di significati propria di ogni cultura è mediata all'interno di rapporti intergenerazionali, la loro rinegoziazione tra giovani e adulti crea le premesse della costruzione di identità e di senso di appartenenza sociale. All’interno di questo processo, l’insegnante deve avere la consapevolezza di svolgere inevitabilmente un ruolo rilevante tramite l’implicita proposta di determinati modelli culturali di riferimento. La posizione culturalista di Bruner (1997) sottolinea come l’appartenenza culturale offra una sorta di "cassetta degli attrezzi", un insieme di credenze, regole, valori e visioni del mondo che dovrebbe essere valorizzata e coniugata con i processi di apprendimento scolastico, assieme alla consapevolezza delle diverse forme di sviluppo della mente proprie di ciascun individuo (Gardner, 1993a). Bruner sottolinea come la cultura di appartenenza delinei gli schemi cognitivi che stanno alla base del conoscere e dell’esperienza quotidiana. Modelli e concetti provenienti dalla cultura di appartenenza vengono usati anche nei processi percettivi, predeterminando la categorizzazione degli oggetti. In questo senso i modelli mentali elaborati dalle scienze cognitive, possono essere uno strumento che consente di analizzare i processi attraverso cui matura la formazione dei concetti. Bruner considera tre diversi sistemi di rappresentazione della conoscenza, che sono interdipendenti e compresenti nei diversi momenti della vita dell'individuo: il sistema attivo in cui prevale il pensiero centrato sull'azione (si impara a fare una cosa attraverso la pratica e la sperimentazione); il sistema iconico che è legato agli stimoli provenienti dalla vista e dall'udito e dà origine all’apprendimento per osservazione (si impara guardando fare qualcosa e imitando l'azione); il sistema simbolico che, attraverso l’uso di simboli, permette di condividere il significato. Il gioco tra questi molteplici percorsi di attribuzione di significato tra generazioni, individui e gruppi implica un'idea distributiva della cultura intesa come organizzazione della diversità. Non si tratta semplicemente di accettare che gli individui non sono tutti uguali, ma di instaurare un confronto programmatico e costante. In questa prospettiva si sviluppa la sua psicologia dell’apprendimento , che tende a coniugare l'ambito situazionale e contestuale della cultura con lo sviluppo ontogenetico. Le sue riflessioni sullo sviluppo cognitivo sembrano caratterizzate dal tentativo di integrare il pensiero di Piaget e di Vygotskij, l'approccio centrato sulle strutture cognitive individuali con la posizione socioculturale. L’approccio situazionista di Cole evidenzia ulteriormente come l’apprendimento si verifichi soprattutto come atto di appartenenza ad una comunità e sia permesso e facilitato dal coinvolgimento nelle sue attività. Così, non si impara quando ci è negata la partecipazione alle pratiche rilevanti della comunità o quando non ne accettiamo regole e valori condivisi (Cole, 1996). Gli studi sulle Comunità di pratica di Etienne Wenger mostrano come queste comunità rifuggano dalla formalizzazione e dall’istituzionalizzazione, si tratta di gruppi spontanei regolati da norme informali, con una partecipazione fluida legata a motivazioni pratiche di ricerca di soluzioni intorno a problemi ed obiettivi comuni, per poi applicarle nel proprio lavoro e nelle organizzazioni di appartenenza. A. Brown e J. Campione elaborano un ulteriore approccio che coniuga le istanze del costruttivismo sociale con alcuni enunciati del situazionismo, per applicarle nelle situazioni formali e istituzionali di apprendimento. Il principio fondamentale è che l'attività della mente deve essere esaminata nei contesti della vita quotidiana, da cui vanno tratte le indicazioni per evitare di rendere artificioso l'apprendimento. Le loro Community of Learners si sviluppano quindi come ambienti di ricerca cooperativa che, al pari di una comunità scientifica, mirano ad affrontare problemi reali ed hanno come principio ispiratore la riflessione sulla conoscenza e la condivisione delle risorse intellettuali, valorizzando gli aspetti metacognitivi e riflessivi. Nella Community sono previsti numerosi spazi di discussione per favorire decisioni condivise sul percorso di conoscenza da sviluppare, negoziato con gli alunni in funzione dei diversi bisogni e competenze, e attivare zone di sviluppo prossimale. La classe viene organizzata come una comunità di "apprendisti" , in cui ogni membro può divenire "esperto" in un particolare settore di conoscenza e offrire consulenza agli altri componenti del gruppo. Tutti gli studenti svolgono molteplici attività: ricercano su libri, CD-ROM, in internet, fanno esperimenti, partecipano a discussioni on line, producono materiali per i compagni, spiegano e commentano il loro lavoro. Il docente, come esperto, è a disposizione per rispondere a domande, fornire chiarimenti o materiali supplementari, riformulare i problemi. La proposta delle Knowledge Building Community di C. Bereiter e M. Scardamalia ha come caratteristica fondamentale la produzione di idee di valore non solo per gli studenti, ma anche per la comunità sociale di cui fanno parte, collocando i compiti di apprendimento su un piano di realtà ed effettiva utilità. Anche in questo caso insegnare e apprendere sono attività intercambiabili e nel gruppo tutti sono consapevoli di favorire a tutti l'avanzamento nella comprensione; ogni partecipante mette a disposizione la conoscenza da lui costruita e si assume precise responsabilità quali il massimo impegno per il miglioramento delle idee e la disponibilità alla discussione e all’approfondimento. La continua analisi di risorse, che non sono testi scolastici ma reali fonti informative come quotidiani, pubblicazioni, articoli on line e off line, porta a raffinare le prime elaborazioni anche attraverso la progettazione di esperimenti e prove e mediante le critiche portate dagli altri componenti del gruppo. Anche il docente è un "knowledge builder" pienamente implicato nel processo di ricerca e codecisione, tuttavia come ricercatore più esperto coordina l'attività e fornisce consulenza. Un’ulteriore enfatizzazione del ruolo produttivo e comunicativo delle tecnologie, già presente nelle Community of Learners e nelle Knowledge Building Community, viene proposta da M. Riel nei Circoli di Apprendimento che si basano fondamentalmente sull'agire collaborativo e cooperativo tra scuole, classi e gruppi di lavoro in rete, in “comunità virtuali globali dove è possibile conoscersi, elaborare e realizzare progetti comuni, documentarsi e documentare gli altri su tematiche specifiche” (Riel, 1993). Ciascun Circolo di Apprendimento è formato da un numero limitato di classi che interagiscono telematicamente per il conseguimento di un obiettivo comune. Gli insegnanti non hanno il controllo globale sull'indirizzo che prenderà il progetto, apprezzando le occasioni inattese di apprendimento che si evolvono dall'interazione. L’entusiasmo dei docenti per la possibilità di apprendere a distanza da terzi è percepito chiaramente dagli studenti e diviene prova dell'alto valore attribuito all'apprendimento (Riel, 1993). La metacognizione E’ evidente come una approfondita riflessione sulla costruzione dei costrutti e sui relativi processi linguistici introduca la dimensione metacognitiva. Non a caso, oltre agli aspetti sin qui illustrati, molte, fra le correnti didattiche costruttiviste, sottolineano l’importanza di prevedere, all’interno degli ambienti di apprendimento allestiti, momenti, spazi e sollecitazioni ad una riflessione individuale e collettiva sui processi cognitivi e motivazionali personali e del gruppo di appartenenza. “Apprendimento consapevole e attività sono complementari, interattivi e interdipendenti (non c’è azione senza pensiero, non c’è pensiero senza azione).[…] L’attività è però condizione necessaria ma non sufficiente all’apprendimento: per costruire significato è infatti necessaria la riflessione sulle azioni percepite e consapevoli.” (Varisco, 2002, p. 184). Se l’apprendimento non è semplice assimilazione di nuove informazioni ma costante ricostruzione di schemi interpretativi della realtà, che solo chi apprende può decidere di mettere in atto, la consapevolezza di questo processo e la capacità di analizzarlo diventano elementi centrali per arrivare a dare significato e valore all'esperienza apprenditiva. “La costruzione di significato coinvolge i pensieri, i sentimenti e le azioni e questi tre aspetti vanno integrati all’interno di un nuovo apprendimento significativo e in particolare di una nuova creazione di conoscenza” (Novak, 2001, p. 20). Riconnettere e reintegrare questi tre piani, spesso nella scuola disgiunti, significa attivare quel processo di profonda modifica dell’identità personale che è alla base di ogni apprendimento significativo. Per una didattica costruttivista Una didattica che voglia ispirarsi all'epistemologia costruttivista non dovrebbe mai venire meno all’assunto di base che la nostra conoscenza della realtà è una costruzione individuale e sociale; senza di esso una pratica costruttivista perde di incisività e di fatto si avvicina molto a metodologie già ampiamente sperimentate. La questione non è meramente teorica ma ricca di implicazioni pratiche: il valore delle discipline viste come costrutto storico, che testimonia l’evoluzione del rapporto dell’uomo con il mondo, e non come descrizioni oggettive di realtà; la conseguente impostazione storico-critica dei curricola che metta in luce il susseguirsi di modelli interpretativi e la variazione di significato dei concetti chiave delle discipline, in relazione ai contesti geografici, epocali e culturali, soffermandosi anche sulle aree di contraddizione e di costante ricerca; il radicamento e la legittimazione profonda della diversità tra le culture, assieme alla possibilità di evolvere i propri punti di vista; la dignità e la legittimità dei modelli di spiegazione degli allievi che non è possibile interpretare semplicisticamente come errore e dei quali è necessario tenere conto per impostare qualsiasi azione didattica; l’importanza della costante negoziazione di significati e l’inutilità di un nozionismo che, nel migliore dei casi, semplicemente si sovrappone alle strutture concettuali soggettive, senza minimamente intaccarle; lo sviluppo di un’attitudine metacognitiva e riflessiva che fondi l’idea di un apprendimento costante durante tutta la vita. Linee di ricerca per una didattica costruttivista Se la conoscenza è legata al contesto ed all’attività dell’individuo, non c’è mai un solo modo giusto di fare qualcosa, non esistono quindi procedure di insegnamento fisse, meccaniche e standardizzate. L’approccio costruttivista offre piuttosto, all’insegnante, una struttura teorica dalla quale ricavare alcune importanti indicazioni sul significato dell’apprendere, sul cosa insegnare e come farlo e, di non secondaria importanza, cosa è opportuno evitare. Al di là di una critica generalizzata di questi autori al modello attuale di scuola, che sembra rispondere poco sia alle esigenze degli alunni sia alle necessità sociali e produttive, caratterizzata da modalità didattiche sostanzialmente trasmissive che sottendono posizioni di sostanziale oggettivismo, sono stati elaborati alcuni orientamenti generali e condivisi che tendono a ridisegnare la figura professionale ed il ruolo dell’insegnante. Se la conoscenza è un’attiva e personale costruzione di significato attraverso meccanismi di assimilazione e accomodamento, coerente con la storia individuale, un docente può offrire allo studente stimolo ed indirizzamento, ma non può influire direttamente sul suo apprendimento: “l’istruzione non è causa dell’apprendimento, essa crea un contesto in cui l’apprendimento prende posto come fa in altri contesti” (Wenger, 1998, p. 266), quali la famiglia o il gruppo dei pari. Quindi l’insegnante non determina meccanicamente l’apprendimento, che va visto piuttosto come un processo continuo e pervasivo, che vede l’insegnamento come una delle tante risorse possibili. In altre parole, il docente può svolgere efficacemente e consapevolmente la sua funzione, solo riconoscendo l’illusorietà di un rapporto diretto e causale tra insegnamento e apprendimento, vedendolo invece come risposta, possibile ma non predeterminabile e pianificabile, alle finalità pedagogiche del setting che ha predisposto. Anche la comunicazione e l’azione del docente possono essere considerate un oggetto tra gli altri oggetti a disposizione per apprendere. Infatti, ciò che l’insegnante dice e propone, viene sempre e comunque interpretato dallo studente e le interpretazioni quasi mai coincidono con quello che si voleva trasmettere, in quanto il significato viene ricostruito a partire dalle conoscenze pregresse e dagli scopi personali: “l’insegnante e i materiali d’istruzione diventano risorse per l’apprendimento in molti modi complessi, attraverso le loro intenzioni pedagogiche” (Varisco, 2002, p. 176). Per quanto riguarda l’uso del linguaggio da parte dell’insegnante si tende a dimenticare che l’approccio ai simboli da parte di un docente è governato da un abitudine personale acquisita da molto tempo, così come il modo di guardare gli oggetti di una disciplina. L’insegnante, quindi, ha una funzione costantemente orientativa nella costruzione del significato; attraverso un uso attento del linguaggio indica la direzione di senso e, senza offrire risposte precostituite, innalza limitazioni e delinea un orizzonte entro il quale condurre nella direzione corretta (Von Glasersfeld, 1998, p.160). In quest’ottica perde la sua centralità la lezione tradizionale a favore dell’esperienza diretta, intesa non solo come manipolazione e costruzione di oggetti, ma anche fruizione e decostruzione di materiali e testi diversi. Anche nel proporre esperienze dirette è bene ricordare che qualsiasi percepito non è in sè significante; il “cosa si percepisce” è, come abbiamo visto, orientato e reso possibile dall’intenzionalità del soggetto e dipende dalla costruzione interna, potremmo dire che anch’esso è occasione e non causa di apprendimento. E’ infatti frequente che, durante un esperimento od un’attività di osservazione, gli studenti non sappiano letteralmente cosa guardare; ciò che per il docente è della massima evidenza, resta per gli alunni confuso in uno sfondo poco districabile di stimoli che potrebbero avere tutti la stessa importanza. Tuttavia, non ci troviamo di fronte studenti privi di idee o di spiegazioni sui diversi domini di conoscenze che affrontano a scuola. Al contrario, essi sviluppano precocemente “teorie ingenue” sulla realtà, microteorie utilizzate come cornici interpretative, come paradigmi validi fin quando non vengono smentiti; modelli mentali anche fortemente strutturati che tendono a modificarsi a fatica. L’apprendimento, allora, va considerato come un processo di modifica e ristrutturazione di questi schemi rappresentativi, un progressivo adeguamento delle strutture cognitive che si rivelano inadeguate alle nuove situazioni che si presentano. Il docente fornisce assistenza all’interno del processo per facilitare la rielaborazione dell’esperienza individuale che resta, comunque, compito e fatica dell’alunno. Le teorie ingenue hanno spesso qualcosa di corretto e funzionano nel quotidiano, per economicità cognitiva risultano difficili da sostituire con quelle esperte di cui non è altrettanto evidente la viabilità; è quindi necessario porre gli alunni in condizione di scoprire dove la teoria ingenua non funziona. Compito del docente sarà dunque quello di accertare le pre-concezioni spontanee degli alunni, farne emergere l’eventuale inadeguatezza (conflitto o spiazzamento cognitivo), per tendere a ristabilire l’equilibrio mediante ipotesi e tentativi, fino a elaborare una nuova struttura interpretativa coerente e più vicina a quella socialmente condivisa, depositata nel patrimonio disciplinare. Se l’acquisizione della conoscenza avviene attraverso percorsi multipli fra loro interagenti, determinati anche dalle diverse comunità sociali a cui apparteniamo, ciò significa che l’apprendimento individuale non può rispondere a standard e fasi predefinite, lineari e segmentate; è necessario offrire a tutti le condizioni per seguire un proprio percorso individuale all’interno di un processo ricorsivo e reticolare, in cui ciascuno possa autodeterminare, attraverso la molteplicità delle piste percorribili, il suo itinerario e parte degli obiettivi stessi. All’interno di questo processo è fondamentale valorizzare la dimensione sociale della conoscenza, le potenzialità che può esprimere la classe come gruppo, nell’imparare dagli altri e con gli altri, nella negoziazione di interpretazioni ad un livello sempre più raffinato e condiviso. Abbiamo visto come le relazioni interpersonali abbiano un ruolo essenziale e costitutivo nella costruzione del pensiero, rispondendo al duplice bisogno del singolo di venire confermato e sentirsi parte di una certa comunità condividendone le trame di significati e di trovare in essa forme di scaffolding che lo aiutino a realizzare le proprie potenzialità. In questo senso le comunità di pratica e le svariate tecniche di cooperative learning possono offrire ai docenti molteplici spunti operativi. A nostro avviso, non si tratta di “sposare” una singola e specifica modalità, come spesso avviene nelle scuole statunitensi, sembra più interessante scegliere le modalità più adatte ad un determinato progetto e contesto, pur mantenendo fermi alcuni principi regolativi di fondo e la funzione di monitoraggio dei processi da parte dell’insegnante. La ricaduta e l’applicazione sul piano didattico delle teorie costruttiviste riflettono, evidentemente, le diverse focalizzazioni e il differente peso che le varie correnti attribuiscono ai piani individuali e collettivi. In alcuni casi, queste differenze vengono enfatizzate assumendo la forma di contrapposizione. Il tentativo del nostro lavoro è stato quello di estrapolare, attraverso la ricercaazione, le modalità più funzionali e le pratiche più efficaci delle diverse proposte e di trovare i piani di convergenza dei diversi approcci. Per una prospettiva di integrazione In Italia il pensiero di Vygotskij si è diffuso in una prima fase tra gli anni ’60 e ’70 per arrivare ad una più intensa applicazione, soprattutto nelle situazioni di emarginazione sociale e ritardo culturale, dopo gli anni ’80. Ciò ha portato ad una minor considerazione delle teorie di Piaget, anche a causa di una lettura piuttosto riduttiva della sua analisi degli stadi di sviluppo, e ad una conseguente applicazione meccanica e rigida. Rimane tuttavia aperto il problema di comprendere meglio attraverso quali strade un soggetto faccia proprie le forme di interpretazione della cultura di appartenenza. Le recenti teorie evolutive della mente rifiutano l’asserzione che le forme e le convenzioni culturali possano essere estratte dal contesto sociale semplicemente perchè costituiscono l’ambiente in cui i bambini crescono; sembra essenziale la disponibilità di alcune competenze sottostanti come la capacità di tenere a mente, di distaccare gli schemi dalle loro condizioni di input-output e di inserire gli schemi all’interno di altri schemi. In questo senso dovrebbero essere recuperate alla ricerca le potenzialità costruttive e creative che Piaget, Von Glasersfeld e la Scuola Operativa riconoscono al soggetto in apprendimento. In Italia Alberto Munari e Donata Fabbri hanno utilizzato le tesi di fondo dell’epistemologia genetica, puntando a coniugare questo punto di vista con il paradigma della complessità (Cosentino, 2002, p. 134) e con un approccio ermeneutico e negoziale, in cui il soggetto deve confrontarsi con la polisemia degli enunciati per decidere, in base alla situazione e al personale sistema di conoscenze, quale significato sia pertinente, dovendo anche condividere questo percorso di costruzione con altri soggetti. Se dal discorso comune passiamo a considerare la specificità della comunicazione scolastica, si delinea una strada che consiste nel far entrare in interazione l’esercizio della negoziazione e dell’ermeneutica con strategie che rendano capaci gli studenti di riconoscere ed agire sui propri schemi interpretativi. Pratiche discorsive formalizzate, come discutere su un tema specifico, inferire, ricordare, spiegare o argomentare, forniscono contemporaneamente nuove procedure conoscitive, riapplicabili in diversi contesti, e nuove organizzazioni concettuali e modi di leggere la realtà. Infatti “la discussione non si realizza naturalmente a scuola: è piuttosto il risultato dell'inserimento di un insieme di condizioni artefattuali che consentono il processamento congiunto dei contenuti, degli stili e degli atteggiamenti che gli attori pongono in gioco. La situazione sociale di costruzione collettiva della conoscenza e della spiegazione è la condizione matrice che presiede tanto allo sviluppo dei saperi e delle discipline, quanto a quello delle competenze” . Gli studenti, con i propri schemi interpretativi, entrano in contatto con quelli dei compagni e con i modelli esperti prodotti all’interno delle discipline; perché questo contatto si evolva in appropriazione significativa e non in mera giustapposizione di saperi, è necessario il lavoro di negoziazione, ristrutturazione e revisione continua dei concetti, degli schemi e delle teorie. Per facilitare questo delicato passaggio, che ci sembra essere il punto critico dell’educazione, riteniamo sia molto utile l’uso esplicito di modelli come i frames e gli script accanto all’uso delle mappe concettuali. Gli schemi sono strutture che organizzano la memoria e che servono a interpretare eventi, oggetti o situazioni e a fare ipotesi e previsioni su di essi, sono interfacciati, dinamici e articolati in sottoschemi, il loro insieme rappresenta tutte le conoscenze di un individuo. Utilizzati nella didattica, diventano strumento metacognitivo, in quanto permettono al soggetto di esprimere la propria rete concettuale esplicitandola al di fuori della mente, e strumento di negoziazione, in quanto facilitano lo scambio e la co-costruzione con il gruppo. In particolare, nelle mappe concettuali i dati e le informazioni sono organizzati in modo spaziale, offrendo la possibilità di dominare simultaneamente un campo di indagine, di scoprire relazioni nuove, di trasformare la conoscenza tacita in conoscenza esplicita. Ci sembra che l’uso di questi strumenti cognitivi, all’interno di una pratica costante di discussione e negoziazione e assieme alla riflessione metacognitiva, possa costituire una via per il superamento di quella che a lungo è stata letta come opposizione tra la costruzione interno-esterno piagettiana e quella esterno-interno vygotskijana, tenendo presente l’importanza che ambedue gli autori ascrivono ai fattori storico-sociali ed al linguaggio.