Israele non è nato dalla Shoah
Il nuovo libro dello storico francese.
Georges Bensoussan
Un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei
d’Europa
Lo Stato di Israele è davvero nato per compensare il popolo ebraico della tragedia della Shoah?
E’ vero che lo Stato ebraico deve la sua creazione al senso di colpa del mondo occidentale per non
aver impedito il genocidio? E il mondo arabo è davvero innocente, senza responsabilità rispetto allo
sterminio di 6 milioni di persone?
Georges Bensoussan - già autore di una monumentale storia del sionismo (Il sionismo. Una storia
politica e intellettuale. 1860-1940, Einaudi, 2007) e uno dei massimi specialisti della Shoah - pur
non negando l’esistenza di un legame intrinseco tra Shoah e Stato di Israele, dimostra in questo suo
ultimo studio come la natura di tale relazione sia essenzialmente politica e non storica, ovvero non
di causalità lineare, poiché il primo evento non legittima né costruisce il secondo.
Il titolo si richiama a un versetto della Bibbia. Il nome eterno è quello che Dio,
secondo il libro di Isaia, attribuisce agli Eunuchi nel libro di Isaia, quegli uomini condannati a
morire senza discendenza e ai quali Dio dona, « meglio che dei figli o delle figlie » “un nome che
non morirà mai ». La stessa espressione che Israele sceglierà per intitolare il suo memoriale della
Shoah del 1953, che si chiama appunto Yad Vashem, dall’unione di Yad (Un monumento, una casa)
e Chem (un nome), con l’obiettivo di dare una discendenza a coloro che non possono più averla,
tramite il ricordo perenne per coloro che furono privati del diritto di vivere.
Scegliendo, dunque, questo titolo, Un nome eterno, Bensoussan ci propone, con uno
studio molto ben argomentato e documentato, una riflessione attorno all’intenso rapporto sulla
memoria della Shoah che attraversa la coscienza ebraica e israeliana. Il sotto titolo del libro,
“Israele, il sionismo e la distruzione degli ebrei d’Europa» evoca tre eventi distinti, di
importanza enorme a livello internazionale, e annuncia la trattazione di un campo molto vasto,
denso di implicazioni e complessità, tuttavia affrontati non nell’ottica di ripercorrerne la storiografia
– d’altronde Bensoussan è uno storico delle idee – ma di riprenderli in una prospettiva critica e dal
punto di vista del processo di costruzione della memoria di ognuno di essi.
Un tema certamente ambizioso e complesso per gli intrecci e le contraddizioni che lo caratterizzano,
eppure è compito dello storico non indietreggiare di fronte alla complessità di un evento e di tentare
di sbrogliare anche le matasse più aggrovigliate, tanto più che Bensoussan si è scelto il compito di
smontare una serie di miti e luoghi comuni su Israele, talmente radicati non solo nell’immaginario
collettivo, ma anche nell’opinione di molti storici e opinionisti, da risultare quasi dei dogmi.
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Il primo di questi è certamente quello secondo il quale la “creazione” dello Stato di Israele del 1948
non sarebbe che il prodotto della Shoah, vale a dire una conseguenza quasi diretta della catastrofe
ebraica del XX secolo. Questa convinzione - certo rassicurante poiché conferisce alla storia un
significato di redenzione e, in particolare, alla Shoah un carattere teleologico di riscatto finale - è
avvalorata dalla prossimità cronologica dei due avvenimenti, dal momento che solo tre anni
separano i due eventi.
Così scriveva, ad esempio, nel 1958 il celebre scrittore François Mauriac, pur animato da buoni
sentimenti : “Sion è resuscitata dai crematori e dai carnai. La nazione ebrea è resuscitata dai
milioni di morti”, traducendo quindi un’idea già molto diffusa nel dopoguerra che questo Stato sia
nato da una tragedia e da un gesto compassionevole dell’Occidente.
Ed è’ proprio questa falsa evidenza che lo storico francese contesta con forza, ricostruendo un
contesto molto più ampio del periodo solitamente citato 1945-1948. Partendo dall’assunto che
“qualunque cronologia esprime un giudizio”, Bensoussan allarga lo sguardo della sua analisi,
tracciando un vasto quadro che va dal 1933, avvento del nazismo, fino ai giorni nostri.
Il libro analizza con grande rigore e con esempi tratti da una molteplicità di fonti che spaziano dagli
archivi del sionismo, dai discorsi di politici e intellettuali israeliani e non, alle opere di altri storici e
ricercatori, ma anche dalla poesia e dalla letteratura, la complessità di questa relazione che è frutto
di una costruzione mentale ben posteriore al 1948, mettendo in luce l’incomprensione di fondo e i
diversi errori di analisi che hanno nutrito il mito estremamente coriaceo di una catastrofe all’origine
dello Stato ebraico.
Non soltanto la Shoah non ha “causato” la fondazione dello Stato ebraico, ma –al contrario – ha
rischiato di far fallire la nascita stessa di questo progetto.
E’ falso sostenere, ad esempio, che il genocidio abbia avuto come conseguenza il rafforzarsi del
sionismo perché è vero, invece, esattamente il contrario: la Shoah ha seriamente minato le basi del
sionismo, segnandone la disfatta, seppur parziale, e questo non solamente sul piano strettamente
politico, ma anche sul piano morale e demografico.
Fallimento politico, perché il movimento sionista non riuscì a convincere la maggioranza degli ebrei
a raggiungere la Palestina prima che si chiudessero le porte dell’emigrazione in Europa. Fallimento
morale, perché nel corso della guerra lo Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina prima della
costituzione dello Stato, fu incapace di salvare gli ebrei perseguitati d’Europa. E infine, fallimento
demografico, in quanto la Shoah, con le sue spaventose perdite umane, ha minato le basi stesse del
progetto sionista, accentuando quella debolezza demografica che ancora oggi pesa nel conflitto
arabo-israeliano. Del tutto consapevole di questa perdita demografica come minaccia mortale per
l’esistenza di Israele era lo stesso Ben Gurion, capo dell’esecutivo sionista in Eretz Israel (nome
ebraico della Palestina prima del 1948) il quale il 6 dicembre 1942, quando anche in Palestina era
maturata la consapevolezza che quello che stava accadendo in Europa non era un pogrom ma un
vero e proprio genocidio, così dichiarava “Lo sterminio dell’ebraismo europeo è una catastrofe per
il sionismo, non ci sarà più nessuno con cui costruire il paese!”.
D’altro canto, incalza Bensoussan nella sua analisi, se anche la Shoah fosse veramente la causa che
ha prodotto la creazione di Israele, come spiegare allora l’accoglienza fredda riservata ai
sopravvissuti arrivati in Israele? Solamente un anno dopo la sua creazione, un terzo della
popolazione israeliana è costituita da ebrei sopravvissuti o con un legame familiare diretto con la
Shoah.
E’ vero che nei primi 15 anni di vita, lo Stato ebraico fu impegnato nella duplice opera di
costruzione e di difesa dalle aggressioni dei Paesi arabi circostanti, dunque la priorità non era data
all’ascolto dei sopravvissuti, tuttavia, fino al processo Eichmann del 1961, la Shoah non venne
occultata come comunemente si crede, ma venne vissuta come un qualcosa di disincarnato e
astratto, come un evento di cui si parlava molto, onnipresente sulla scena politica israeliana, ma
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senza integrare nella memoria la parola dei testimoni. Perché tacere che i sopravvissuti, anche nello
Stato ebraico, e non solo nell’Europa del dopoguerra, trovarono indifferenza e furono costretti al
silenzio? In Israele erano inoltre percepiti come un fastidioso ricordo della diaspora e come
un’immagine che i sionisti più ideologizzati disprezzano : quella dell’ebreo vittima e umiliato,
simbolo di una presunta viltà di fronte alla deportazione e alla morte, in pieno contrasto con
l’immagine forte e vitale del nuovo Israeliano, il fiero pioniere della propaganda sionista, il cui
destino andava costruito in continuità con gli Ebrei dell’antichità.
Bensoussan analizza con coraggio le contraddizioni di una situazione in cui la Shoah è
costantemente al centro del discorso pubblico israeliano degli anni Cinquanta, ma appare quasi una
memoria astratta, una narrazione senza nome e senza volto, svincolata com’è dalla parola di chi
veramente l’ha vissuta. Il periodo 1945-1967 fu caratterizzato contemporaneamente dalla rimozione
e dall’onnipresenza della tragedia nella coscienza israeliana.
L’analisi dello storico procede per mettere in luce come lo Stato di Israele ha gestito la
memoria del genocidio dal dopoguerra a oggi, soffermandosi a lungo sulla tappa fondamentale del
processo Eichmann che non solo libera per la prima volta la parola dei sopravvissuti, finalmente
ascoltati in pubblico, ma che assegna a Israele il ruolo di portavoce universale del mondo ebraico.
Un ulteriore cambiamento di percezione della Shoah avviene con il traumatismo della guerra dei Sei
Giorni del 1967 e, ancor più, con la guerra di Kippur del 1973, quando Israele avverte
profondamente il senso della propria precarietà. L’angoscia e la paura di scomparire letteralmente
dalla terra riattivano il ricordo del genocidio e provocano un mutamento nella coscienza israeliana.
Ma il ricordo della tragedia si risolve essenzialmente nella celebrazione della rinascita nazionale
dell’ebraismo, attraverso la forza del suo esercito e la solidità, malgrado tutto, del suo Stato. La
Shoah, i sopravvissuti, diventano pertanto un evento da commemorare allo stesso modo dei soldati
israeliani morti in guerra difendendo la propria patria, poiché “Lo Stato ebraico dei primi decenni
sembrava (...) non poter concepire la memoria della Shoah senza associarla al concetto di eroismo,
(…) come se si trattasse di due parti complementari: la morte “onorevole” degli uni riscattava la
morte “vergognosa” degli altri”
Ma riappropriarsi e impossessarsi della memoria del genocidio – avverte Bensoussan – non è
solamente volontà di commemorare per Israele, ma è anche un modo, quando la fede religiosa da
sola non basta più, per creare un’identità nazionale, in un Paese vede triplicare in pochi anni la
propria popolazione, con immigrazioni di comunità diversissime tra loro come gli Ebrei originari
dal mondo arabo-musulmano, profondamente disprezzati dagli esponenti dello Yishouv, a
maggioranza ashkenazita.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, la Shoah diventerà una vera e propria religione civile in
Israele, una sorta di cemento ideologico che unisce tutti gli Ebrei.
Ed è qui che Bensoussan, rispetto ad altri storici, si distingue per la lucidità spietata della sua
analisi, segnalando il pericolo di una simile memoria trasformata in religione civile. Perché la
memoria della Shoah, se da un lato unisce tutti gli Israeliani in un unico destino, dando loro la
possibilità di ricompattarsi in un unico popolo, superando diversità spesso fortissime tra le
comunità, dall’altro li imprigiona nel perenne ricordo del genocidio, in una memoria angosciante
dalla quale non si esce.
Con il moltiplicarsi di monumenti (400 in Israele dedicati alla Shoah), commemorazioni, iniziative
di studio e, soprattutto, viaggi-pellegrinaggio ad Auschwitz-Birkenau, afferma lo storico, gli
Israeliani si sono riscoperti profondamente Ebrei, identificandosi totalmente in quell’immagine
della diaspora a lungo rimossa e disprezzata. Con il problema, però, di occultare completamente
l’immagine positiva di quel mondo ebraico scomparso nella Shoah, cioè la vita delle comunità
prima della catastrofe e, dunque, con la conseguenza di rinchiudersi ossessivamente nel ricordo del
genocidio e nella consapevolezza di un destino difficile, pesantemente segnato dalla sindrome
dell’assedio e dell’abbandono.
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Bensoussan riprende il mito della “creazione” di Israele come dono dell’Occidente alle “vittime
ebree” - oppure nella variante, ugualmente diffusa, di Israele nato come rivincita degli Ebrei di
fronte all’antisemitismo assassino dei pogrom russi di fine Ottocento –per dimostrare come
un’interpretazione così superficiale rischia di sottovalutare tutta la storia e l’importanza del
sionismo e della forza dello Yishouv, che nel corso degli anni Trenta possiede tutte le infrastrutture
necessarie per il funzionamento di un organismo statale: le organizzazioni economiche e agricole, i
sindacati, la sicurezza sociale, un esercito, delle biblioteche e delle scuole dove si insegna, si parla,
si scrive in ebraico.
Nemmeno la questione del tanto sbandierato senso di colpa come elemento decisivo per Israele
tiene a ben guardare i fatti, poiché non corrisponde alla realtà del dopoguerra. Gli archivi degli anni
1945-1948 di Londra e di Washington non lasciano trasparire nulla al riguardo, negli undici mesi
del processo di Norimberga la Shoah resta relegata in secondo piano, infine nella stessa decisione
dell’Onu del 1947 il senso di colpa ha meno importanza della consapevolezza dell’inizio della
guerra fredda e della colonizzazione.
Bensoussan sottolinea che la Gran Bretagna scelse di astenersi dal voto del 29 novembre 1947 e che
la posizione degli Stati Uniti fu a lungo influenzata dall’antisionismo del segretario di stato George
Marshall, fermo oppositore all’idea di costituire uno stato ebraico in Palestina.
Infine, lo storico si attacca a rileggere due varianti delle teorie cosiddette negazioniste che negano la
legittimità di Israele come Stato nato dalla Shoah, sulla base del fatto che sostengono la non
esistenza del genocidio ebraico, il quale sarebbe un’esagerazione, frutto dell’invenzione e delle
manipolazioni degli ebrei, usate per ottenere la conquista della terra e del diritto a essere nazione.
Dietro questa teoria, ammonisce Bensoussan, sta qualcosa di molto più pericoloso di un’opinione.
Perché chi nega il diritto all’esistenza di Israele agita lo spettro del complotto ebraico mondiale, “un
delirio antisemita ricorrente” oggi particolarmente fecondo in molti paesi arabo-musulmani.
E ancora: Israele ha usufruito della colpa occidentale a discapito dei popoli arabi? Secondo questa
interpretazione, che rispetto alla precedente costituisce una variante ancora più pericolosa,
l’Occidente avrebbe scaricato sui Palestinesi e, più in generale, gli Arabi il “problema” degli ebrei,
assegnando loro il diritto a costituirsi come stato su di un territorio non loro. Una forma di
negazionismo che, secondo Bensoussan, occulta completamente il legame tra il popolo ebraico, la
terra e la lingua che ne è scaturita. Lo storico moltiplica gli esempi, suffragati da numerose fonti
documentarie, per rimuovere l’idea che il mondo arabo non abbia nulla a che vedere con la Shoah.
Quanti conoscono la storia di profonda emarginazione delle comunità ebraiche vissute nei paesi
arabo-musulmani che proprio per affrancarsi da una situazione di umiliazione e di paura costante
per la propria vita si allinearono alla causa sionista? E chi ricorda ancora che il Libro bianco
britannico sulla Palestina del maggio 1939 che chiudeva le porte a centinaia di migliaia di ebrei che
cercavano di scappare da una morte certa in Europa fu la conseguenza della sola pressione araba su
Londra?
Con Un nome eterno Georges Bensoussan conduce il lettore in una storia dalla lettura avvincente,
dando un’analisi lucida e appassionata che si legge come un’opera di natura storica e politica, ma
anche psicanalitica e profondamente letteraria. Sessant’anni dopo la fine della Seconda Guerra
mondiale, il peso della Shoah nella vita politica israeliana è più forte che mai e influenza
l’atteggiamento e il comportamento di tutti. Israele è oggi percepita e riconosciuta come il centro
mondiale dell’ebraismo. Ma, nella battaglia dei simboli che imperversa ai nostri giorni, la memoria
della Shoah come elemento fondante può arrivare persino a delegittimarne subdolamente
l’esistenza. Perché nel momento in cui Israele pone la propria legittimità su una tragedia, cancella il
carattere veramente politico del progetto sionista che era innanzitutto quello di liberare la
condizione ebraica dalla maledizione del “popolo che dimora solo”.
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