l`esca di satana - Comunità del Santo Volto di Gesù

I quaderni della Comunità n° 5/2008
Comunità S. Volto di Gesù
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La Tua
L’ESCA DI SATANA
Risposta ad un’ Offesa Determina
il
Tuo Futuro
Insegnamento di Padre Maurizio Napoli
Muzzano - Agosto 2008
Questo testo non è teoria; è la Parola di Dio vissuta nella carne. Espone verità sperimentabili:
il risultato di un’offesa – ovvero l’esca di satana – è spesso l’ostacolo più difficile da affrontare
per crescere nella fede.
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INTRODUZIONE
Per cacciare animali con le trappole è importante, innanzitutto, che queste siano ben nascoste.
Il nostro nemico mortale, satana, mette in pratica questa strategia quando prepara le sue trappole
mortali, che sono sempre nascoste e pronte a scattare.
Non dimentichiamo mai che può travestirsi persino da messaggero di luce.
Se non ci lasciamo istruire dalla Parola di Dio a distinguere il bene dal male, non riusciremo a
riconoscere le sue trappole per quello che sono.
Una delle esche più insidiose che ogni credente sperimenta è l’OFFESA (= fendere - ferire).
In realtà l’offesa, in se stessa, non è mortale ma se noi ce ne lasciamo afferrare e con essa nutriamo
il nostro cuore, allora produrrà in noi molti frutti come: ferite mortali, collera, insulti, gelosie,
risentimenti, discordie, amarezze, odio, invidia, permalosità, malignità, divisioni, rottura di
amicizie, tradimenti, apostasie.
L’autore del libro illustra questa trappola mortale e ci fa capire in che modo sfuggirla e vivere liberi.
La libertà dall’offesa e dai risentimenti è essenziale per ogni credente perché Gesù afferma che è
impossibile vivere questa vita senza subire delle offese (Lc 17,1).
1. LA REAZIONE ALLE OFFESE DETERMINA IL NOSTRO FUTURO
Offese e risentimenti finiscono per occupare il posto dell’amore nel nostro cuore.
Tanti, troppi credenti sono presi al laccio da quest’insidia, per cui si finisce per pensare che è
normale che sia così.
Quanti non riescono a mettere in atto la loro vocazione, a causa delle ferite che le offese hanno
provocato nella loro vita, ed è impedito loro di potere esprimere il proprio potenziale.
Il più delle volte, tali ferite sono state provocate da un fratello di fede (potrebbe essere un caso
vicino a noi).
Questo fa sì che l’offesa sia considerata come un tradimento.
Nel Salmo 55,13-15 Davide esprime questo lamento: “Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei
sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio
compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio
camminavamo in festa”.
Più le persone sono legate strettamente e la relazione è intima, più è insopportabile l’offesa.
Così avviene nella famiglia, che dovrebbe essere uno scudo di protezione, di sostegno, di crescita,
dove imparare a offrire e ricevere amore. Spesso diventa, invece, l’origine delle sofferenze di una
vita; questo perché soltanto le persone che ci stanno più a cuore possono ferirci.
Ci si aspetta di più da loro perché gli si è dato il meglio di se stessi. E maggiore è l’attesa più viva è
la delusione.
Molti sono feriti, offesi e amareggiati e non si rendono conto di essere caduti nella trappola del
diavolo.
Dicevamo che Gesù afferma chiaramente che è impossibile vivere in questo mondo ed evitare di
venire offesi.
Tuttavia, molti credenti sono stupiti quando avviene, e quest’atteggiamento rende vulnerabili di
fronte all’amarezza.
2
Dobbiamo essere preparati ad affrontare le offese perché queste possono determinare il nostro
futuro.
Il termine greco che traduciamo con “offesa” è “skandalon”.
Anticamente questo termine si riferiva a quella parte della trappola alla quale era agganciata l’esca.
La Parola, pertanto, nel contesto, dice il “porre una trappola sul cammino di qualcuno”.
Nel N. Testamento, spesso è usata per indicare l’inganno del nemico. Paolo, ad esempio, dice a
Timoteo:
“Un servo del Signore non dev'essere litigioso ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle
offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di
convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha
presi nella rete perché facessero la sua volontà”
(2Tm 2,24-26).
Chi nella vita si lascia assorbire in continue contese, cade nella trappola del diavolo e ne rimane
prigioniero.
E il fatto più preoccupante è che non si è coscienti della propria prigionia.
L’offesa, che deriva dalle contese, è il laccio del diavolo messo in atto per rendere le persone
prigioniere.
Come il figliol prodigo, occorre rientrare in se stessi, per riconoscere la propria condizione di
frustrazione e schiavitù.
Quando una persona è frustrata, crede sempre di avere ragione, anche se non è così, e questa diviene
la sua catena.
Possiamo individuare due categorie di persone preda delle offese:
1) chi è stato trattato ingiustamente;
2) chi ritiene di essere stato trattato ingiustamente.
Le persone della seconda categoria, credono con tutto il cuore di aver subito delle ingiustizie.
Giudicano dal sentito dire, dalle apparenze e secondo i loro pregiudizi.
Uno dei mezzi che il nemico usa per mantenere una persona in costante stato di risentimento, è
quello di celare l’offesa sotto l’orgoglio.
L’orgoglio impedisce di guardare in faccia la verità; indurisce il cuore e annebbia la comprensione.
Trattiene dal pentimento, dal cambiare il cuore che renderebbe liberi.
Costringe a considerare se stessi sempre come vittime, per cui il risentimento appare giusto ai propri
occhi.
La somma di due errori, però, non fa una cosa giusta.
Molti sono accecati dal risentimento e non riescono a vedere la reale condizione del loro cuore.
Nel libro dell’Apocalisse si legge questa raccomandazione del Signore:
“Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice,
un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco
per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per
ungerti gli occhi e ricuperare la vista”. (Ap 3,17-18)
Gesù indica, a quelli di Laodicea, come fare per uscire dal loro disinganno: comprare l’oro di Dio e
riconoscere la propria condizione.
Quando l’oro è mescolato con altri metalli, diventa duro e più facile alla corrosione.
Un cuore puro è come l’oro puro: morbido, tenero e malleabile.
Ebrei 3,12-13, afferma che il nostro cuore può diventare malvagio per la seduzione del peccato.
Se non si risolve subito, l’offesa ricevuta produrrà in noi frutti di peccato: amarezza, collera,
risentimento...
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Questi “elementi” aggiunti rendono più duro il cuore, proprio come le leghe metalliche rendono più
duro l’oro.
Si riduce la dolcezza, producendo mancanza di sensibilità, e si riduce anche la capacità d’intendere
la voce di Dio.
Non siamo più in grado di vedere distintamente le cose.
Il primo passo per raffinare l’oro è ridurlo in polvere mescolandolo con una certa sostanza. Gli
elementi estranei all’oro si uniscono alla sostanza aggiunta e salgono in superficie. Le impurità sono
quindi eliminate e rimane l’oro puro.
Nella Prima lettera di Pietro si legge:
“Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il
valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro che, pur destinato a perire, tuttavia si prova
col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo” (1Pt 1,6-7).
Dio ci affina mediante le afflizioni, le prove e le difficoltà, che hanno il potere di separare le
impurità dal carattere divino che è in noi: i risentimenti, le discordie, l’amarezza, la collera,
l’invidia, ecc...
Facilmente il peccato si annida là dove non agisce il fuoco delle prove e delle afflizioni.
Anche un uomo malvagio può apparire gentile e generoso nel tempo della prosperità e del successo,
ma sotto il fuoco delle prove le impurità salgono alla superficie.
Gesù esortava a comprare del collirio per ungere gli occhi e vedere. Vedere cosa? La nostra reale
condizione.
Questo è l’unico modo per seguire il comandamento di Gesù.
Si è veramente pentiti quando si smette di criticare gli altri.
Quando, invece, incolpiamo facilmente gli altri e difendiamo le nostre posizioni, siamo ciechi.
È la rivelazione della verità su di noi che ci rende liberi.
Lo Spirito Santo ha come sua prima prerogativa quella di rivelarci il nostro peccato, ma lo fa in
modo tale da convincerci, non per condannarci. In questo modo ci libera da ogni schiavitù derivante
dalle offese.
2. L’ OFFESO È UNO CHE SA RICEVERE MA NON SA DARE
"Molti resteranno scandalizzati e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e
inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà
sino alla fine, sarà salvato” (Mt 24,10-13).
Senza Dio siamo in grado di amare solo con un amore egoista, che ha bisogno, cioè, di essere
corrisposto.
L’Agape, viceversa, è l’amore che non si preoccupa della risposta; l’amore che Gesù dimostrò sulla
croce.
I “molti” del testo di Matteo, che riporta le parole di Gesù, sono credenti cui l’amore Agapico si è
raffreddato.
Il nostro amore, in genere, è molto egoista e facile alla delusione, quando le attese non si realizzano.
Se mi attendo qualcosa dalle persone, queste possono deludermi, fino a tradire ogni mia aspettativa.
Se non mi attendo nulla, tutto ciò che ricevo diventa una benedizione gratuita e non qualcosa di
dovuto.
Noi stessi ci mettiamo nella condizione di essere scandalizzati e offesi, quando pretendiamo un
certo comportamento da parte delle persone con le quali siamo in relazione.
Maggiore è la nostra aspettativa, più acuta sarà l’offesa. E questo ha delle conseguenze in noi.
Nel libro dei Proverbi si legge che:
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“Un fratello offeso è più irriducibile di una roccaforte, le liti sono come le sbarre di un castello”
(Prov 18,19).
Quando siamo offesi, costruiamo mura intorno a noi stessi, per proteggere il nostro cuore e
prevenire le ferite future. Diventiamo selettivi, impedendo l’ingresso a tutti quelli che possono
ferirci.
Teniamo lontano chi pensiamo ci debba qualcosa; non lo lasciamo entrare fino a quando, secondo i
nostri criteri, non abbia pagato pienamente il proprio debito.
Apriamo il cuore solo a quelli che riteniamo siano dalla nostra parte.
Tutte le nostre energie si consumano, così, nell’assicurarci che non ci sia la possibilità di ferite
future.
A questo punto, non solo siamo diffidenti con chi vuole entrare nella nostra vita, ma abbiamo anche
paura di avventurarci fuori dalla nostra fortezza.
Senza che ce ne accorgiamo, le mura erette come protezione divengono la nostra prigione.
Le persone offese sono sempre più preoccupate di se stesse, egocentriche.
Pensano che amare incondizionatamente dia agl’altri la possibilità di ferirle.
In questa condizione l’amore di Dio in noi si raffredda.
Un credente offeso è uno che riceve la vita, ma per timore non la offre agl’altri.
La conseguenza è che anche la vita che riceve diventa stagnante, dentro le mura della prigione
dell’offesa.
Il N. testamento descrive queste mura come delle fortezze:
“Hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo
che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al
Cristo” (2Cor 10,4-5).
Benché originariamente le mura siano innalzate come protezione, diventano in realtà una sorta di
tormento e di distorsione, perché contrastano la conoscenza stessa di Dio.
Quando noi filtriamo ogni cosa attraverso le offese e le esperienze negative del passato, diventa
impossibile credere in Dio. Non riusciamo a credere alla verità della sua Parola.
I credenti offesi sono capaci anche di trovare passi della bibbia che sostengono le loro posizioni.
La conoscenza della Parola di Dio senza amore è una forza distruttiva perché conduce al legalismo
(1Cor 8,1-3) che spinge ad autogiustificarsi, anziché a pentirsi della propria incapacità di perdono.
La conoscenza senza l’amore di Dio conduce all’inganno.
A riguardo, Gesù, sempre nel testo citato, mette in guardia i suoi contro i falsi profeti:
“Allora sorgeranno molti falsi profeti e sedurranno molti” (Mt 24,11).
Altrove, definisce questi falsi profeti: “Lupi rapaci in veste di pecore” (Mt 7,15).
I profeti devono essere riconosciuti dai loro frutti non dal loro insegnamento o dalle loro profezie.
Ugualmente, un Pastore o un semplice credente è ciò che vive non ciò che predica.
I lupi rapaci cercano sempre le pecore ferite o ancora giovani, non quelle sane e forti.
Questi lupi predicano ciò che alle persone piace ascoltare, non ciò che devono ascoltare.
“Negli ultimi tempi - dice Paolo - verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del
denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore,
sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall'orgoglio,
attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza
interiore. Guardati bene da costoro! (2Tim 3,1-5). E poco più avanti dice:
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Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli
uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per
volgersi alle favole”
(2Tim 4,3-4).
Si rischia di avere la parvenza della pietà o del cristianesimo, rinnegandone la potenza; di gloriarsi di
essere seguaci di Gesù e di aver sperimentato la vita nuova, senza che il cuore muti o che si riesca ad
acquisire il carattere di Cristo.
Non ha importanza sapere quanto si è aggiornati circa le nuove scoperte fatte dai biblisti o dagli
esegeti, o quanti libri si sono letti o quante ore si sono trascorse in preghiera o in meditazione.
Se nel cuore alberga l’offesa ricevuta, senza saper perdonare, e non ci si pente di questo peccato, è
segno che non si è ancora giunti alla conoscenza della verità. E il frutto che ne deriva non è
certamente l’amore.
Sgorgheranno acque amare in noi, che portano inganno e non verità.
Uno scandalo (o un’offesa) conduce al tradimento e il tradimento porta all’odio. Dice il Signore:
“Molti resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda” (Mt 24,10).
Giovanni afferma che chi odia suo fratello è omicida e che nessun omicida ha la vita eterna (Cfr.
1Gv 3,15).
È triste costatare i numerosi esempi di offese tra i cosiddetti credenti del nostro tempo.
Non siamo neppure sorpresi quando vediamo una coppia cristiana che risolve i propri problemi col
divorzio.
Abbiamo dimenticato le esortazioni del Signore?
“Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?” (1Cor 6,7).
“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44).
“Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3)…
Perché non viviamo secondo queste leggi d’amore?
Il motivo sta nel fatto che il nostro amore è freddo, e lo dimostriamo nel continuo tentativo di
difendere noi stessi.
Non siamo più capaci di affidare la cura di noi stessi a Dio.
Quando Gesù fu tradito, affidò il suo Spirito al Padre che sapeva giudice retto.
E noi siamo esortati a seguire il suo esempio. Pietro scrive:
“A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio,
perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca,
oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua
causa a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,21-23).
Dobbiamo imparare a confidare in Dio, non nella carne.
Molti servono Dio Padre con le labbra ma vivono come orfani. Governano la loro vita da soli è
dicono di seguire Dio.
Se non provvediamo in tempo a rimediare a questo stato di cose, l’offesa può condurci alla morte
spirituale.
Se resistiamo alla tentazione di sentirci offesi, Dio stesso ci darà la vittoria.
3. SE IL DIAVOLO AVESSE POTUTO DISTRUGGERCI, LO AVREBBE FATTO GIÀ DA
TEMPO
Se realmente siamo stati offesi o maltrattati, abbiamo il diritto al risentimento?
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Lasciamoci illuminare dalla storia di Giuseppe figlio di Giacobbe (Gen 37-50).
Giuseppe era l’undicesimo figlio di Giacobbe, malvisto dai suoi fratelli perché il padre lo
prediligeva e gli aveva fornito una bella tunica dalle lunghe maniche. Così, lo vendettero per venti
monete d’argento.
Giuseppe li aveva offesi ed essi lo tradirono, derubandolo della sua eredità e della sua famiglia.
Teniamo presente che si trattava di fratelli: stesso padre, stessa carne, stesso sangue.
Eppure compirono un’azione così infame.
Tutto ciò che era caro a Giuseppe, ormai era sparito. Sarà stato terribile vedersi portare via tutto,
essendo nato erede di una grande ricchezza e con uno splendido futuro. Fu come essere morti. E,
certamente, in alcuni momenti Giuseppe avrà desiderato che i fratelli, piuttosto, l’avessero ucciso.
La storia di Giuseppe è ricca d’insegnamenti, quando se ne conosce l’epilogo; ma Giuseppe non
poteva saperlo mentre faceva quella dura esperienza.
Si era rassegnato a non vedere più suo padre e, tanto meno, l’adempimento dei suoi sogni.
Era ormai un povero schiavo in una nazione straniera. Apparteneva a un altro uomo per il resto
della sua vita.
Ben presto, grazie alle sue doti, Giuseppe riuscì a conquistarsi la benevolenza del padrone, Potifar,
e tutto cambiò.
Purtroppo, però, la moglie di Potifar gli aveva messo gli occhi addosso. Lui rifiutò di assecondarla
ed essa si sentì umiliata e offesa. Gridò alla violenza, e Potifar gettò Giuseppe nella prigione del
faraone.
Se fosse nato egiziano, avrebbe forse avuto qualche possibilità di essere liberato, un giorno, ma
come schiavo straniero, accusato di un tentativo di stupro, non aveva speranza.
Quali saranno stati i suoi pensieri nelle tenebre della prigione?: “Ecco ho servito il mio signore con
onestà e integrità per più di dieci anni. Sono stato più fedele di sua moglie, e leale verso Dio e verso
il mio padrone, rifiutando ogni giorno di cadere nell’immoralità sessuale. E qual è la mia
ricompensa? La prigione”.
Vogliamo tradurre questi pensieri per renderli più vicini a noi?:
- “Più cerco di comportarmi bene, più la mia situazione peggiora!”
- “Come può Dio permettere queste cose?”
- “Perché non è intervenuto in mio favore con la sua onnipotenza?”
- “È questa la cura amorevole che Dio promette ai suoi servitori?”
- “Che ho fatto di male per meritarmi questo?”…
Giuseppe, e noi come lui, aveva poca libertà nella sua vita, ma aveva ancora la possibilità di
scegliere la sua risposta a tutto quello che gli era successo.
Poteva scegliere la strada del risentimento e dell’offesa nei confronti dei suoi fratelli e nei
confronti di Dio.
Poteva rinunciare a ogni speranza nel compimento delle promesse ricevute, e perdere la ragione
per vivere.
Eppure non fu così. Imparò l’obbedienza dalle cose che stava soffrendo.
Spesso, quando attraversiamo periodi di prova, fermiamo lo sguardo sull’irrisolvibilità delle
circostanze, piuttosto che sulla grandezza di Dio.
Il risultato è lo scoraggiamento e la rabbia verso chi riteniamo responsabile delle nostre disgrazie.
Quando, poi, sorge il sospetto che Dio non fa nulla per evitarci le difficoltà, ce la prendiamo anche
con Lui.
Quante volte udiamo i nostri fratelli e le nostre sorelle, caduti in questa trappola, recriminare contro
gli altri:
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- se non fosse stato per mia moglie o marito,
- se non fosse stato per i miei genitori,
- se non fosse stato per il mio pastorale che ha mortificato i miei doni,
- se non fosse stato per quella donna in Chiesa …
Siamo convinti che le nostre delusioni e le nostre ferite siano causate dagli altri.
In realtà, nessun uomo o diavolo potrà mai portarci via dalla volontà di Dio! Solo noi stessi!
Nessuno, all’infuori di Dio, ha in mano la nostra vita.
I fratelli di Giuseppe erano ben decisi a distruggerlo. Non si trattava di un incidente: era un fatto
ben deliberato!
Non volevano che avesse alcuna possibilità di successo nella vita.
Molti credenti reagiscono ai loro momenti di crisi pensando: “Qualcuno deve pagare per questo!”.
Se Giuseppe avesse avuto quest’atteggiamento, il nemico avrebbe avuto il potere di lasciarlo
marcire in quella galera.
Lui, però, non aveva risentimenti e il piano di Dio si realizzò nella sua vita e in quella dei suoi
fratelli.
Il carcere fu un tempo di dura prova per Giuseppe ma fu anche un tempo di particolari opportunità.
Giuseppe si trovò, a un certo punto, a condividere la cella con due dignitari del faraone caduti in
disgrazia.
Rivelò a uno dei due che sarebbe stato riabilitato. Quell’uomo tornò, di fatto, al servizio del faraone
ma, dopo due anni, nessun segno di riconoscenza era ancora giunto da parte sua. Un’altra occasione
per sentirsi offeso.
Una notte il faraone ebbe un sogno preoccupante. Fu allora che quel servo riabilitato si ricordò di
Giuseppe.
Condotto alla presenza del faraone, egli diede l’interpretazione del sogno e il faraone,
immediatamente, gli conferì il titolo di secondo signore d’Egitto.
Anni dopo, i fratelli di Giuseppe, a causa di una prolungata carestia, dovettero andare in Egitto a
comprare del grano.
Se Giuseppe avesse conservato dei risentimenti nel suo cuore contro i fratelli, quella sarebbe stata
l’occasione per vendicarsi; ma non fu così e ciò portò beneficio a un popolo intero.
Giuseppe morì benedicendo e facendo del bene a chi lo aveva maledetto e odiato (Mt 5,44).
Non sono molti quelli che hanno subito un trattamento malvagio come quello che ha ricevuto
Giuseppe dai suoi fratelli, da chi avrebbe dovuto incoraggiarlo, sostenerlo, difenderlo, amarlo.
Difficilmente si può immaginare un tradimento più mostruoso.
Eppure, leggiamo ciò che disse ai suoi fratelli, quando furono tutti riuniti:
"Non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui
prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nel paese e ancora per
cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi, per
assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non
siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta
la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto” (Gen 45,5-8).
Giuseppe disse chiaramente ai suoi fratelli: “Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio”.
Come già detto nessuna creatura mortale, né alcun diavolo, può modificare il piano di Dio per la
nostra vita.
Se puntiamo su questa verità, ci renderà liberi.
Una sola persona può farci uscire dalla volontà di Dio: noi stessi!
Prendiamo in considerazione, ora, la storia del popolo di Israele dopo i tempi di Giuseppe.
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Sorse un faraone che non aveva conosciuto Giuseppe e rese schiavo il popolo d’Israele.
Dopo oltre quattrocento anni Dio inviò loro il suo servo Mosè come liberatore, per trarli fuori dalla
schiavitù d’Egitto e condurli nella terra promessa.
Conosciamo le vicende che portarono alla loro liberazione.
Lasciati liberi di partire, dopo un anno di cammino nel deserto, giunsero in vista della terra
promessa.
Alcuni uomini furono inviati in esplorazione per osservare il territorio e ritornarono con mille
lamentele.
Ad eccezione di Giosuè e di Caleb, tutti furono d’accordo nel descriverne le insidie.
Il popolo ebbe la sensazione che Dio li avesse guidati fin lì per farli morire.
Erano risentiti contro Mosè e contro Dio, e questo sentimento continuò per anni, facendo sì che
quella generazione non potesse vedere la terra promessa.
Farsi prendere dal risentimento non ottiene che realizzare il proposito del nemico di allontanarci
dalla volontà di Dio.
Si diventa suoi prigionieri e si agisce secondo la sua volontà.
Rimanendo, invece, liberi dai rancori si dimora nella volontà di Dio.
Nulla può colpirci senza che Dio lo sappia, anche prima che il fatto avvenga.
Se il diavolo avesse potuto attuare la sua volontà, ci avrebbe spazzato via già molto tempo fa,
perché ci odia.
Teniamo sempre presente l’esortazione di Paolo ai Corinti:
“Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che
siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per
sopportarla” (1Cor 10,13).
Dio ha già previsto tutte le circostanze avverse che dovremo incontrare, grandi o piccole che siano,
e ha già preparato la strada per farcene uscire. Fatti che sembravano un fallimento dei piani di Dio,
si rivelano, in realtà, la strada maestra per uscire dalla prova, se ci si mantiene nell’obbedienza e
liberi dal risentimento.
Ricordiamo quanto scrive Giacomo: “Resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi” (Gc 4,7).
Quando rifiutiamo i risentimenti, noi stiamo resistendo al diavolo.
I piani di Dio potranno avverarsi solo se non li blocchiamo con la nostra disobbedienza.
4. QUANTE FERITE DAL RIFIUTO E LA MALEVOLENZA DEL PADRE
Una cosa è sperimentare il tradimento e la cattiveria da parte di un fratello, un’altra vivere il
tradimento da un padre. Quando si parla di padri, non si allude necessariamente ai nostri genitori
biologici, ma a ogni persona che il Signore ci ha dato come maestri e guide nella vita, incaricate di
amarci, istruirci e aver cura di noi.
Possiamo avere qualche luce dalla storia della relazione tra Saul e Davide (1Sam 16-31).
Samuele, il profeta di Dio, unse Davide come re d’Israele.
Dopo avere ucciso il gigante Golia, Davide sposò la figlia del re. Si era conquistato il suo favore e
gli fu concesso di vivere nel palazzo reale.
Gionatan, il figlio maggiore del re, si legò a lui con profonda amicizia, stabilendo un patto di fedeltà
reciproca.
In tutto ciò che Saul gli chiedeva, Davide aveva successo.
Poteva vedere la profezia realizzarsi davanti ai suoi occhi e si rallegrava per l’amore e la fedeltà di
Dio.
In un solo giorno, però, ogni cosa cambiò.
Mentre Saul e Davide ritornavano dal campo di battaglia, le donne cantarono: “Saul ha ucciso i
suoi mille, Davide i suoi diecimila” (1Sam 18,7).
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Queste parole fecero infuriare Saul il quale, da quel giorno, ebbe un grande risentimento nei
confronti di Davide. Due volte, mentre Davide suonava l’arpa, cercò di ucciderlo.
La bibbia dice che Saul odiava Davide perché Dio era con lui.
Davide fu obbligato a fuggire per salvarsi la vita e, non sapendo dove andare, si rifugiò nel deserto.
Tenete presente che Dio stesso, e non il diavolo, aveva collocato Davide sotto la protezione di Saul.
Così, si chiedeva perché Dio permettesse tutto questo.
Fu la prima occasione per Davide di potersi risentire contro Saul e contro Dio stesso.
Saul diventò quasi pazzo e quando i sacerdoti della città di Nob procurarono a Davide un riparo,
fece uccidere ottantacinque innocenti sacerdoti del Signore e passò a fil di spada l’intera città di
Nob.
Era diventato un assassino.
Come aveva potuto Dio porre il suo Spirito su un tale uomo?
Un giorno Saul, accompagnato da tremila guerrieri, si fermò all’ingresso di una grande spelonca.
Davide uscì dal suo nascondiglio, tagliò un lembo del mantello di Saul e si nascose di nuovo, senza
farsi notare.
Quando Saul lasciò la caverna, Davide gli si mostrò gridando:
“Guarda, padre mio, il lembo del tuo mantello nella mia mano: quando ho staccato questo lembo
dal tuo mantello nella caverna, vedi che non ti ho ucciso. Riconosci dunque e vedi che non c'è in me
alcun disegno iniquo né ribellione, né ho peccato contro di te; invece tu vai insidiando la mia vita
per sopprimerla” (1Sam 24,12).
Il grido a Saul fu: “padre mio”. Anche quando Saul tentava di ucciderlo, Davide aveva il cuore
pieno di speranza.
Egli avrà certamente interrogato il suo cuore dicendo: “Dove avrò sbagliato?”, ed era convinto che
se avesse provato il suo amore per Saul, questi gli avrebbe restituito il favore, e la profezia sul suo
destino di re si sarebbe compiuta.
Le persone respinte da un padre o da un leader tendono a colpevolizzarsi.
Diventano prigioniere di pensieri tormentosi. Si chiedono se hanno fatto qualcosa di male.
Tentano, quindi, di dimostrare la loro innocenza, ma più si danno da fare più sono respinti.
Saul riconobbe l’innocenza di Davide, quando si rese conto che avrebbe potuto ucciderlo ma non lo
fece.
Presto, però, tornò al suo proposito di uccidere il suo rivale.
A quel punto Davide si sarà sentito totalmente respinto: Saul, pur conoscendo il suo cuore, continuava
a perseguitarlo!
Se Davide fosse stato anche solo un po’ risentito, si sarebbe considerato completamente giustificato
a concedere ad Abisai di piantare la lancia nel cuore del Re; ma non lo fece, lasciando tutto nelle
mani di Dio.
Prese questa decisione, anche se sapeva che l’unico pensiero di Saul era la sua distruzione.
Quante sono oggi le persone che hanno un cuore come quello di Davide?
Noi non ci uccidiamo più con spade di ferro o con lance, ma con un’arma più sottile: la lingua.
Gruppi si spaccano, famiglie si dividono, matrimoni vanno in frantumi perché ci si sente offesi dai
fratelli, dai familiari, dai leader, magari sulla base del sentito dire.
Ricordiamoci che la scrittura, in Proverbi 6,16-19, afferma che seminare la discordia e portare alla
separazione i fratelli è abominio per il Signore.
Quando riportiamo qualcosa con l’intenzione di creare separazione o danno, anche se si tratta di una
cosa vera, è sempre un affronto a Dio.
Davide fu saggio quando decise di lasciare a Dio ogni giudizio. E Dio lo abbandonò in mano al
nemico.
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Saul morì, infatti, insieme a suo figlio Gionatan in battaglia contro i filistei.
Quando ricevette la notizia, Davide pianse amaramente e compose un canto per la gente di giuda, da
cantarsi in onore di Saul e dei suoi figli. Vietò, però, che fosse cantato nella città dei filistei, in
modo che i nemici non avessero motivo di rallegrarsi. Ordinò anche un mese di lutto in tutto Israele.
Non uccise gli altri discendenti di Saul; dimostrò, anzi, magnanimità nei loro confronti. Diede loro
del cibo e del terreno e concesso a un discendente di sedere alla sua tavola.
Questo non è, di certo, l’atteggiamento di un uomo carico di risentimento.
Un uomo offeso avrebbe detto: “Ha avuto quello che si meritava”.
È facile essere leale con un padre o un leader che ci ama, ma è più difficile verso uno che voglia
distruggerci.
Desideriamo essere uomini e donne secondo il cuore di Dio, o preferiamo coltivare le nostre
vendette?
5. NON È LECITO CHE I SERVI DI DIO VENDICHINO SE STESSI
Molti si chiedono perché Dio permette che salgano a posti di responsabilità uomini che
compiono gravi errori e che, talvolta, sono anche malvagi.
Nel nostro tempo, uomini e donne abbandonano la Chiesa con facilità, per i motivi più diversi: a
volte è il modo in cui si organizzano le raccolte; oppure, il modo in cui il denaro viene speso;
oppure la storia stessa della Chiesa; o il fatto che la Chiesa non si aggiorna coi tempi. Altre volte
non si apprezza la predicazione di un sacerdote e si preferisce andare altrove; o lo si criticato perché
è riservato di carattere; o perché è troppo affabile, o perché si dedica troppo alle donne, o ai ragazzi,
o ai bambini, o agli anziani; oppure si rifiutano persone che frequentano quella Chiesa (o quel
gruppo)… La lista non finirebbe mai.
Piuttosto che affrontare le difficoltà, si corre là dove si pensa che le cose siano migliori.
La bibbia ci dice che: “Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto”
(1Cor 12,18).
Questo significa che ci troviamo nel posto dove Dio ci vuole e che il diavolo si adopera affinché
siamo offesi, in modo da decidere di andare altrove, contrariamente alla volontà di Dio.
Se, invece, rimarremo fermi, anche in mezzo a penosi conflitti, renderemo nulli i piani del diavolo.
Le persone offese reagiscono alle situazioni compiendo azioni che appaiono giuste, benché non
siano ispirate da Dio. In realtà, non siamo chiamati a reagire alle situazioni, bensì ad agire, guidati
dal Signore.
Se siamo stati ubbidienti a Lui e lo abbiamo cercato senza riceverne risposta, probabilmente ciò
vuol dire che dobbiamo rimanere dove siamo, che la situazione in cui ci troviamo non va cambiata.
Dio ci pone, talvolta, in situazioni difficili per aiutarci a crescere, a fortificarci, e non per
distruggerci!
La bibbia afferma che quelli che sono “piantati nella casa del Signore fioriranno negli atri del
nostro Dio” (Sal 91,13).
Notate che chi fiorirà sarà piantato nella casa del Signore.
Che cosa succede a una pianta se la trapiantate ogni due tre settimane?
Le radici s’indeboliscono e la pianta non può dare fiori. Se si continua a trapiantarla morirà.
Non dobbiamo opporci alle prove che Dio ci manda per farci maturare.
Il salmista Davide, ispirato dallo Spirito santo, ha collegato con chiarezza l’offesa, la legge di Dio e
la nostra crescita spirituale, nel Salmo 1,1-3:
“Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non
siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno
e notte. Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie
non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opera”.
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In altre parole, un credente che sceglie di cercare la sua gioia nella Parola di Dio, trovandosi nelle
avversità, eviterà di risentirsi. Ciò lo renderà maturo al punto che nessuna avversità potrà impedirgli
di portare frutto.
Un approfondimento ci viene dalla parabola di Gesù circa il seminatore:
“Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando ascoltano la Parola,
subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al
sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito si abbattono”
(Mc 4,16-17). Abbandonato il posto che Dio ha scelto per noi, il complesso delle nostre radici
comincia a inaridire.
La volta successiva è persino più facile allontanarsi perché si sta attenti a non radicarsi troppo;
finché non troveremo più la forza di sopportare contrasti o persecuzioni.
Non dimentichiamo la lezione di Caino e Abele, i primi figli di Adamo: noi siamo i discendenti di
Caino.
Gesù paragonò il cuore umano al terreno da seminare.
Proprio come i campi di Caino erano sterili, così un cuore pieno di risentimento diventa arido,
avvelenato dall’amarez-za. Persone che conservano le offese possono, tuttavia, sperimentare
miracoli, guarigioni, una predicazione potente.
Questi però sono doni dello Spirito, non il frutto, e noi saremo giudicati secondo il frutto non
secondo i doni.
Dio disse che Caino sarebbe diventato un fuggitivo, un vagabondo, come conseguenza delle sue
azioni.
Vi sono molti fuggitivi e vagabondi, nelle nostre chiese e gruppi, oggi: i loro doni di canto, di
predicazione, d’inter-cessione, non sono stati accolti in un posto? Vanno in un altro.
Purtroppo, però, portano con sé i propri risentimenti, alla ricerca della comunità perfetta che riceva i
loro doni e guarisca le loro offese.
Si sentono sempre infastiditi e perseguitati. Soffrono di manie di persecuzione e credono che siano
tutti contro di loro.
Si consolano pensando di essere dei santi perseguitati o dei profeti di Dio, dei “Geremia” dei tempi
moderni.
Sono sospettosi verso chiunque.
È esattamente ciò che successe a Caino quando affermò: “Io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e
chiunque m’incontrerà mi potrà uccidere” (Gen 4,14).
Caino soffriva di manie di persecuzione. La stessa cosa che accade oggi a queste persone.
Con quest’atteggiamento, però, è difficile scoprire quali cambiamenti siano necessari in loro.
Vivono isolati e provocano le offese con il proprio comportamento. Come dice Proverbi:
“Chi si tiene appartato cerca pretesto e con ogni mezzo attacca brighe” (Proverbi 18,1).
Dio non ci ha creati perché vivessimo separati e indipendenti l’uno dall’altro.
Il Signore è contento di vedere i suoi figli interessati gli uni agli altri; mentre non è soddisfatto
quando ci vede imbronciati e pronti a dire che gli altri sono responsabili della nostra infelicità.
Egli desidera che ciascuno di noi sia un membro attivo della sua famiglia. Vuole che riceviamo da
Lui la vita.
Una persona isolata cerca soltanto di esaudire i suoi desideri, non quelli di Dio. Sta nel proprio
isolamento e si sente sicura nella cerchia che ha creato, dove non deve misurarsi con i propri difetti
di carattere.
Piuttosto che affrontare le difficoltà, cerca di sfuggire alle prove. Non accoglie i consigli ed è nel
pericolo dell’inganno.
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Così, lo sviluppo del carattere, che avviene solo attraverso i conflitti con gli altri, inevitabilmente si
blocca.
6. VIVERE UN’OFFESA CI IMPEDISCE DI VEDERE I DIFETTI DEL NOSTRO
CARATTERE
Rm 8,14 afferma: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio”.
Il testo non dice: “tutti quelli che reagiscono alle situazioni difficili sono figli di Dio”.
Il termine “figlio” nel N. Testamento è di solito la traduzione di due termini greci: teknon e huios.
Teknon, indica “uno che è figlio di nascita”. Usato per i figli ancora piccoli o immaturi
Huios, indica “il figlio che manifesta il carattere, le caratteristiche dei suoi genitori”. Usato per
indicare i figli maturi.
In Rm 8,14 il termine giusto è huios. È chiaro che sono i figli maturi a essere guidati dallo Spirito di
Dio.
I credenti immaturi difficilmente seguono la guida dello Spirito. Spesso reagiscono o rispondono
emotivamente alle circostanze che devono affrontare. Non hanno imparato ancora ad agire
unicamente sotto la guida dello Spirito di Dio.
Dio non vuole che rimaniamo dei bambini.
In Ebrei si legge: “Pur essendo figlio (huios) Gesù imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che
patì” (Eb 5,8).
- La crescita fisica è una questione di tempo (nessun bambino di due anni è alto un metro e
ottanta!).
- La crescita intellettuale è una questione di apprendimento.
- La crescita spirituale non è né l’una né l’altra: è una questione di obbedienza.
“Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto
nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato” (1Pt 4,1).
La persona che ha smesso di peccare diventa un figlio di Dio ubbidiente e maturo che sceglie le vie di
Dio non le proprie.
Come Gesù, che imparò l’obbedienza dalle cose che patì, noi impariamo l’obbedienza dalle
circostanze difficili che dobbiamo affrontare. Non, dunque, la conoscenza della bibbia ma
l’obbedienza a essa.
Non è sufficiente dare un assenso mentale alla verità senza obbedire.
Purtroppo, continuiamo a imparare senza mai giungere alla conoscenza della verità (2Tim 3,7).
E anche se continuiamo a imparare, non maturiamo mai, a causa della disobbedienza.
Gesù disse: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non
rimessi” (Gv 20,23).
Quando conserviamo un’offesa e coltiviamo il risentimento, noi non rimettiamo i peccati degli altri.
Se lasciamo una relazione risentiti e amareggiati, entreremo nella nuova relazione con quello stesso
atteggiamento.
E sarà più facile abbandonare la nuova relazione appena sorgerà qualche problema, perché non
accuseremo soltanto le ferite di questa, ma anche quelle della relazione precedente.
A rendere le cose ancora peggiori, sorge anche il timore di venire nuovamente offesi.
Questo principio può essere applicato a qualsiasi tipo di relazione.
Molte volte il Signore permette alle persone di sfuggire alle situazioni difficili.
Egli desidera che esse riconoscano che l’idea di fuggire è già presente nel loro cuore.
Se non vogliamo affrontare le situazioni difficili, Dio ci lascerà andare, anche se non è la sua
perfetta volontà.
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Rifiutare di affrontare un’offesa non ci libera dal problema; ci dà soltanto un istante di sollievo, ma
la radice del problema rimane intatta.
L’amore, invece, dimentica i torti non precludendo il futuro di una relazione.
Se veramente abbiamo superato un’offesa, cercheremo in tutti i modi di fare pace. Può darsi che
occorra un po’ di tempo, ma nel nostro cuore cercheremo di afferrare la prima opportunità per la
riconciliazione.
Quando un cane è stato scottato dall’acqua bollente, avrà paura anche dell’acqua fresca.
Quante persone oggi hanno paura dell’acqua fresca perché sono state scottate una volta e non
riescono a perdonare!
Gesù desidera guarire le nostre ferite ma, spesso, non lo lasciamo operare, perché la strada da
percorrere è difficile.
La decisione di dare più importanza al benessere dell’altro, anche se ti ha recato dolore, è un
cammino di umiltà e di rinnegamento di se stessi che conduce alla guarigione e alla maturità
spirituale.
Solo chi desidera la pace, anche a costo di essere rifiutati, può percorrere questa strada.
Essa è il sentiero che porta all’umiliazione e al rinnegamento di se stessi, ma anche la via che
conduce alla vita.
7. QUELLO CHE IMPARIAMO DA DIO NON PUÒ ESSERE IMPARATO DAGLI
UOMINI
“Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi
crede non vacillerà” (Is 28,16).
Una persona che agisce precipitosamente è instabile perché le sue azioni non hanno fondamenta
solide.
Gesù, un giorno, domandò ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?” (Mt
16,13).
I discepoli espressero con entusiasmo le varie opinioni della folla.
Gesù improvvisamente chiese: “Voi chi dite che io sia? (Mt 16,15).
A questa domanda, quegli uomini che erano stati così pronti a riferire le opinioni degli altri,
divennero silenziosi.
Probabilmente non l’avevano mai rivolta a se stessi.
Gesù ha collocato la domanda nei loro cuori, per portarli a realizzare quel che facevano senza
saperlo: vivevano sulle speculazioni degli altri, piuttosto che stabilire nel loro cuore chi fosse Gesù.
Simone, soprannominato Pietro da Gesù, fu l’unico a rispondere con slancio: “Tu sei il Cristo il
figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
E Gesù gli disse: “Beato te Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te lo hanno
rivelato ma il Padre mio che è nei cieli” (v. 17).
Egli voleva far capire a Pietro qual era la sorgente di questa rivelazione: non aveva ricevuto tale
conoscenza ascoltando le opinioni degli altri, o quello che gli era stato insegnato, ma gliel’aveva
rivelato Dio.
Pietro ascoltava quello che dicevano gli altri, ma poi osservava interiormente ciò che Dio gli aveva
rivelato.
Quando Dio ci rivela qualcosa, non ha nessuna importanza ciò che dice il mondo. Non può
cambiare il nostro cuore.
Gesù, quindi, disse a Pietro: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non
prevarranno su di essa” (Mt 16,18).
Quando noi possediamo soltanto una conoscenza intellettuale, possono accadere due cose:
• Che siamo facile preda dell’emotività.
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• Che siamo schiavi del nostro intelletto.
Gesù ha detto che la Chiesa sarà fondata sulla Parola rivelata, non su versetti imparati a memoria.
Come dice il salmista: “La testimonianza del Signore è verace; rende saggio il semplici” (Sal
18,8).
Quando la sua Parola entra nel nostro cuore, non nella mente, ci illumina.
La Parola che illumina il nostro cuore è il fondamento sul quale Gesù vuole edificare.
Gesù paragonò la Parola di Dio rivelata a una roccia, immagine di stabilità e di forza.
Ricordiamo la parabola delle due case, una fondata sulla roccia e l’altra sulla sabbia.
Quando l’avversità (persecuzione, tribolazione, sofferenza) investì le case, quella costruita sulla
sabbia fu distrutta, mentre quella costruita sulla roccia rimase stabile.
Ci sono cose, che abbiamo bisogno di ascoltare da Dio, che non si trovano nella bibbia. Per
esempio: Chi dobbiamo sposare? Dove trovare lavoro? Quale Chiesa o gruppo frequentare?...
Eppure, dobbiamo cercare la Parola di Dio in noi anche per queste decisioni.
Senza la Parola in noi, le nostre decisioni sono fondate su un terreno molto instabile.
Ciò che Dio ci rivela col suo Spirito non può esserci strappato via.
Una persona che non è stabile o fondata sulla Parola di Dio è candidata a essere scossa dalla
tempesta dell’offesa.
Quando comprendiamo che è il Signore che ci ha collocato in una relazione o in un gruppo,
difficilmente il nemico riesca a staccarcene.
Se il nostro fondamento è la Parola di Dio, opererà anche attraverso i conflitti e anche quando
sembra impossibile.
Ad esempio nel matrimonio.
Alcuni, anche se credenti, forse non si sono sposati secondo la volontà di Dio.
La Parola dice: “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la
moglie” (1Cor 7,10-11.14).
Per entrare nella benedizione di Dio riguardo al proprio matrimonio, occorre pentirsi di non aver
cercato la sua volontà prima di sposarsi, per ricevere il suo perdono.
Ricordiamo ancora che sommando due azioni sbagliate, non se ne ottiene una giusta.
Cercate il Signore perché vi dia la sua Parola per il vostro matrimonio, nel caso foste anche voi in
questa condizione.
Gesù cambiò il nome di Simone in quello di Pietro:
“E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non
prevarranno contro di essa” (Mt 16,18).
È indicativo perché il nome Simone significa “udire” mentre il nome Pietro in greco significa
“pietra”.
Come risultato dell’ascolto della Parola di Dio rivelata nel suo cuore, l’Apostolo è diventato una
pietra forte.
Una casa costruita con pietre, su un solido fondamento roccioso, resisterà alle tempeste che le si
scateneranno contro.
La Parola roccia, in questo versetto, viene dal termine greco “Petra” che significa “una grande
roccia”.
Gesù sta dicendo a Pietro che egli stesso ormai è formato della sostanza su cui è fondata la casa.
Più tardi egli scrive nella sua lettera: “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la
costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,5).
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Forza, stabilità, potenza, sono della roccia che è la Parola di Dio, e portano frutto nella persona che
la riceve.
Come l’apostolo Paolo scrive: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si
trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).
Durante gli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, la situazione divenne difficile per il gruppo di
discepoli: i giudei perseguitavano Gesù cercando di ucciderlo.
Poi incominciò a predicare qualcosa che aveva tutto l’aspetto di un’eresia inaccettabile: “Io sono il
pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35).
Per i discepoli questo era il colmo. Così: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e
non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Tenete presente che non si trattava di pochi ma di “molti”. Pensavano di essere stati ingannati e
delusi, ma non era così. Non riuscirono a vedere la verità perché il loro sguardo era fisso sui propri
desideri egoistici.
Gesù non supplicò neanche i suoi. Al contrario, affrontò i dodici con la domanda: “Volete
andarvene anche voi?”.
E Pietro risponde per tutti: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo
creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).
A Cesarea, Pietro ebbe la rivelazione di chi realmente fosse Gesù. Ora, nel mezzo di questa prova,
esprime ciò che era ormai radicato nel suo cuore, con le stesse parole che aveva esclamato a
Cesarea.
Era ormai una pietra fondata sulla roccia stabile della Parola del Dio vivente. Non andò via offeso.
Le prove rivelano la reale condizione del nostro cuore.
Impariamo a costruire la nostra vita sulla Parola di Dio rivelata, non su ciò che dicono le persone.
-
Non mettiamoci a fare e dire cose soltanto perché tutti le fanno e le dicono.
Cerchiamo il Signore e stiamo fermi su quanto Egli ci rivela nel cuore.
Non smettiamo mai di cercarlo e di ascoltare il nostro cuore.
8. QUANDO IL NEMICO SCUOTE VUOLE DISTRUGGERE MA DIO HA UN ALTRO
PIANO
Vediamo un’altra prova alla quale Pietro venne sottoposto nella notte in cui Gesù fu tradito.
“Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell'uomo se ne va, secondo
quanto è stabilito; ma guai a quell'uomo dal quale è tradito” (Lc 22,21-22).
Gli apostoli si chiedevano chi mai fosse quell’uomo che l’avrebbe tradito. Le loro motivazioni,
però, non erano pure.
Non avevano nessuna preoccupazione per Gesù, ma si disputavano il potere e la posizione
preminente.
Molti di noi, al posto di Gesù, avrebbero detto: “Andatevene via tutti! Sono nel momento più
drammatico della vita e voi non fate altro che pensare a voi stessi”. Una possibile occasione di
risentimento.
Gesù li guardò e disse loro che agivano come uomini, non come figli del regno (Lc 22,25-27).
Benché Simon Pietro avesse ricevuto una chiara rivelazione di chi fosse Gesù, non era ancora
arrivato a incarnare il carattere del maestro. Doveva essere ancora trasformato e il suo punto di
riferimento rimaneva “l’orgoglio della vita” (1Gv 2,16).
L’orgoglio è lo stesso difetto di carattere che aveva lucifero, e che causò la sua caduta (Ez 28,1119).
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Gesù disse a Simon Pietro: “Simone Simone ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano
ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi
fratelli” (Lc 22,31-32).
L’orgoglio ha aperto le porte al nemico che è entrato in Pietro per metterlo alla prova ma Gesù non
pregò perché egli sfuggisse all’agitazione, alla paura che lo portò al rinnegamento; pregò che la sua
fede non venisse meno durante la prova. Gesù sapeva che da questa prova sarebbe emerso un nuovo
carattere, un nuovo Simon Pietro capace di compiere la sua vocazione e di confermare i suoi fratelli.
Dio permise questo per scuotere in Pietro tutto ciò che doveva essere scosso.
Si possono individuare cinque motivi per cui passare qualcosa o qualcuno al vaglio:
1. portarlo vicino al suo fondamento
2. spazzare via ciò che è morto
3. raccogliere ciò che è maturo
4. risvegliare
5. unire, in modo che non si possa più separare.
Come risultato di questo scossone tutta la fiducia che Pietro aveva in se stesso svanì e rimase
soltanto il fondamento solido di Dio: le cose morte furono rimosse e i frutti maturi raccolti. Non agì
più indipendentemente da Dio.
Pietro non era un chiacchierone e un codardo. Nel Getsèmani trasse fuori la spada e colpì un
servo del sommo sacerdote. Non molti codardi hanno il coraggio di attaccare quando sono
circondati da nemici.
La sua forza, però, era la manifestazione della propria personalità e non dell’agire in Dio.
E tutto accadde esattamente come Gesù aveva predetto.
Simon Pietro fu messo alla prova da una giovane servetta.
Alcuni pensano che siano le grandi prove della vita che fanno inciampare; in realtà sono le piccole
cose che più ci mettono alla prova.
Simon Pietro e Giuda erano simili in molte cose, incluso che entrambi rinnegarono Gesù, proprio
negli ultimi, tragici, giorni della sua vita. E, tuttavia, tra i due uomini c’era una differenza
fondamentale.
Giuda non aveva mai desiderato di conoscere Gesù come Simone; non era fondato sulla roccia che è
Cristo.
Sembrava che amasse Gesù perché aveva lasciato tutto per seguirlo. Aveva anche viaggiato
costantemente in sua compagnia e rimase con Lui persino nel pericolo della persecuzione.
Egli aveva cacciato i demoni, guarito gli ammalati, predicato il vangelo come gli altri, ma i suoi
sacrifici non erano fatti per amore di Gesù o perché sapeva chi fosse veramente.
Giuda non conobbe realmente Gesù, nonostante i tre anni e mezzo trascorsi con Lui.
Entrambi si pentirono del male fatto ma Giuda non aveva fondamento, Pietro sì.
Poiché non aveva mai desiderato di conoscere veramente Gesù, il Signore non si rivelò mai a lui.
Quando la tempesta si rovesciò sulla sua vita, tutto fu scosso e spazzato via, così:
“Vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi
sacerdoti e agli anziani dicendo: Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente. Ma quelli
dissero: Che ci riguarda? Veditela tu! Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò
e andò a impiccarsi” (Mt 27,3-5).
Disse soltanto: “ho tradito sangue innocente”.
Se avesse realmente conosciuto Gesù, come Pietro, sarebbe ritornato da Lui pentendosi e
affidandosi alla sua bontà. Suicidandosi, invece, compì un altro atto di rifiuto della grazia di Dio.
Molti, quando sopraggiunge una severa delusione, si risentono contro Dio e non vogliono più
saperne di Lui.
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Ecco come li descrive Gesù: “Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che,
quando ascoltano la Parola, subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono
incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola,
subito si abbattono” (Mc 4,16-17).
Il Signore dice che sono scandalizzati perché non hanno fondamento.
San Paolo scrive a riguardo: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati
nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza,
l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate
ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,16-18).
Dobbiamo essere edificati nell’amore. Il nostro amore per Dio è il vero fondamento.
Dobbiamo conoscere e comprendere la natura di Dio; essere certi che non farà mai nulla a nostro
danno.
Il nemico cerca di allontanarci dalla fiducia in Dio, distorcendo la nostra percezione della sua
persona.
Lo fece con Eva chiedendole: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del
giardino?” (Gen 3,1).
In realtà Dio aveva detto: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2,16-17).
In altre parole, il serpente disse a Eva: “Dio vi nega di accostarvi a tutto ciò che è buono”.
L’indicazione di Dio, invece, era esattamente l’opposto: “Mangiate liberamente di tutto tranne”...
Il nemico opera nello stesso modo anche oggi. Cerca di pervertire la personalità di Dio Padre agli
occhi dei suoi figli. Tutti abbiamo avuto sopra di noi delle autorità: genitori, insegnanti, padroni
che, talvolta, sono stati egoisti e senza amore. Poiché sono immagini dell’autorità, è facile proiettare
la loro natura su Dio.
Solo quando capiremo che Dio non ebbe mai nulla per danneggiarci o distruggerci, e tutto quello
che fa o non fa è sempre per il nostro bene, allora liberamente ci abbandoneremo in Lui.
Quelli che si sentono offesi o delusi da Dio lo sono perché lo hanno cercato per quel che può fare
per loro, non per quel che è. Quando si assume quest’atteggiamento, è facile venire delusi.
Avere come centro se stessi, significa avere la vista corta, non guardare con gli occhi dello Spirito.
In ogni circostanza la fede esclama: “Ho fiducia in te, anche se non ti capisco”.
Questo non è frutto di una forte personalità o volontà ma è dono della grazia per chi pone la fiducia
in Dio, sbarazzandosi della fiducia in se stesso; ma per offrire se stessi in totale abbandono, occorre
conoscere chi sostiene la nostra vita. Gesù non solo perdonò Pietro, ma gli diede nuova forza.
Ora che era stato provato e scosso era pronto per diventare una delle figure centrali della Chiesa.
Le prove ci rendono più amari o più forti verso Dio e il prossimo.
Se si riesce a superarle, le radici si radicano più profondamente, rendendo stabili se stessi e il
proprio futuro.
Se cadendo si resta risentiti, si rischia di abbandonare la fede con amarezza.
Molti hanno fatto l’esperienza del risentimento e della delusione nei confronti di Dio e si sono
convinti che il Signore dovrebbe tenere in maggiore considerazione tutto quello che hanno fatto per
Lui, dimenticando da quale orribile morte spirituale sono stati salvati.
Guardano le cose con i loro occhi naturali, piuttosto che con quelli spirituali.
I risentimenti rivelano le debolezze e i punti indifesi della nostra vita che rimangono nascosti,
finché una raffica di vento spazza via la copertura.
Con le nostre sole forze non possiamo fare nulla che abbia valore per il Regno.
È facile dirlo ma avere questa verità radicata nel nostro cuore, è un’altra cosa.
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9. GESÙ NON HA MAI COMPROMESSO LA VERITÀ PER NON OFFENDERE LE
PERSONE
“Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.
Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è
divenuta la pietra angolare, sasso d'inciampo e pietra di scandalo. Loro v'inciampano perché non
credono alla Parola; a questo sono stati destinati” (1Pt 2,6-8).
Oggi la concezione del credere si è molto indebolita. Secondo la maggioranza significa credere
che Gesù sia esistito. Se questo fosse vero, anche i demoni sarebbero in buoni rapporti con Dio (Gc
2,19).
Il termine credere nella bibbia significa non solo riconoscere con la mente la realtà di un fatto.
L’elemento fondamentale del credere è l’obbedienza.
Non è difficile obbedire quando si conosce la personalità di colui cui si è sottomessi.
L’amore è il punto più alto del nostro rapporto col Signore. Non l’amore per certi principi o
insegnamento, ma l’amore per la persona di Gesù Cristo.
Gesù è spesso presentato come il buon Pastore che si carica sulle spalle la pecorella smarrita.
Oppure, come chi abbraccia i bambini benedicendoli, ma il ministero di Gesù rivela un uomo che
non temeva di ferire le persone con le sue parole. Vediamo alcuni esempi.
Gesù scandalizza i farisei.
Egli li rimproverò in parecchie occasioni. Li amava tanto da dire loro la verità.
Dimostrò che la riprensione severa serve a eliminare chi non è veramente radicato nel Padre.
Per i pastori essere compiacenti verso chiunque li cerca può portare, talvolta, a compromessi con la
verità.
I pastori che rifiutano di affrontare i fratelli perché sono amici, finiscono con inaridire l’unzione che
è in loro.
Se si desidera l’approvazione degli uomini, l’unzione di Dio non può essere in noi.
È necessario annunciare la Parola di Dio e ubbidirgli, anche a rischio di offendere qualcuno.
Gesù scandalizza i suoi concittadini.
Recatosi nella sua città per predicare, la gente diceva di Lui: “Non è egli forse il figlio del
carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?
E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose? E si
scandalizzavano per causa sua. Ma Gesù disse loro: Un profeta non è disprezzato se non nella sua
patria e in casa sua” (Mt 13,55-57).
Di nuovo Gesù non scende a compromessi con la verità per impedire che fossero scandalizzati.
E quelli erano talmente adirati che tentarono di ucciderlo, spingendolo sul ciglio del monte (Lc
4,28-30).
Gesù scandalizza i propri famigliari.
Era difficile per loro credere che Gesù agisse per quel che era veramente.
Leggiamo che: “I suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: È fuori
di sé. Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno
era seduta la folla e gli dissero: ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti
cercano. Ma egli rispose loro: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Girando lo sguardo su
quelli che gli stavano seduti attorno, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà
di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,21.31-35).
Molti non riflettono sul fatto che Gesù fu rifiutato da chi gli era più vicino ma che non ricercò
l’approvazione dei suoi famigliari. Soprattutto le coppie sposate che hanno evitato di seguire Gesù
per timore di urtare qualche membro della famiglia, non hanno potuto raggiungere il pieno
potenziale della loro chiamata.
19
Se scendiamo a compromessi per compiacere i nostri familiari, impediamo la nostra e loro crescita
spirituale.
Gesù scandalizza i suoi discepoli.
In un capitolo precedente abbiamo visto le reazioni dei discepoli quando il Signore li reguardì
severamente; ma Gesù non scese a compromessi; anzi, disse a quelli rimasti che erano liberi di
andarsene, se volevano. Se fosse stato lasciato solo in quell’occasione, nulla sarebbe cambiato nella
sua vita. Era ben deciso a compiere la volontà del Padre.
Gesù scandalizza alcuni fra i suoi più cari amici.
Egli amava Marta, Maria e Lazzaro. Erano i suoi amici più cari. Trascorreva molto tempo con loro.
Quando seppe che Lazzaro era malato: “Si trattenne ancora due giorni nel luogo dove si trovava”
(Gv 11,6). Quando finalmente giunse a Betania, Lazzaro era già morto. Marta e Maria
probabilmente erano un po’ risentite. Avevano mandato un messaggero per avvisare Gesù ma Egli
ritardò il suo arrivo di due giorni. Così, spesso, i pastori sono sotto il controllo dei loro fratelli.
Pensano di dover fare qualunque cosa essi chiedono loro. Temono che se non risponderanno alle
attese della loro gente, ne urteranno i sentimenti, perdendone il sostegno. Sono schiavi del timore di
offendere gli altri; sotto il controllo dei fratelli, non di Dio. Come risultato l’intera comunità
sfuggirà al controllo di Dio.
Gesù scandalizza Giovanni il battista.
Persino Giovanni il battista corse il rischio di essere urtato dalle parole di Gesù:
“Anche Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutti questi avvenimenti. Giovanni chiamò due
di essi e li mandò a dire al Signore: Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro? Venuti
da lui, quegli uomini dissero: Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui
che viene o dobbiamo aspettare un altro?”
(Lc 7,18-20).
Giovanni il battista era la sola persona che in quel momento conoscesse veramente chi era Gesù.
Per quale ragione, quindi, chiese se Gesù era il Messia? La prigionia lo portò a domandarsi il perché
Gesù, se era veramente il Messia, non lo tirava fuori. Rischiava il risentimento.
Vediamo la risposta di Gesù: “In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità,
da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: Andate e riferite a
Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi
vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato
è chiunque non sarà scandalizzato di me!” (Lc 7,21-23).
La risposta di Gesù è profetica. Egli cita Isaia ma aggiunge: “beato è chiunque non sarà
scandalizzato di me!”.
Cercava di incoraggiarlo dicendo: “tu hai fatto quello che ti è stato ordinato. La tua ricompensa sarà
grande. Solo, non essere risentito nei miei confronti”.
Avremo sempre occasioni per essere risentiti nei confronti di Gesù. Se veramente lo amiamo e
crediamo in Lui, lotteremo per essere liberi da ogni risentimento nei suoi confronti, capendo che la
sua volontà è migliore della nostra.
E se obbediremo allo Spirito santo, ricordiamoci che vi saranno persone che si risentiranno contro
di noi, che non capiranno quando ci muoveremo seguendo lo Spirito. Non permettiamo che la loro
disapprovazione ci faccia deviare da ciò che sappiamo essere la verità. Non spegniamo la fiamma
dello Spirito per seguire i desideri degli uomini.
Viviamo nella volontà di Dio. Stabiliamo nel nostro cuore di volere obbedire allo Spirito a
qualunque costo, così non dovremo scegliere sotto la pressione degli uomini, perché avremo già
scelto.
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10. GESÙ NON HA MAI CAUSATO UN’OFFESA PER ESERCITARE LA SUA
GIUSTIZIA
“Venuti a Cafarnao, si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: Il
vostro maestro non paga la tassa per il tempio? Rispose: Sì. Mentre entrava in casa, Gesù lo
prevenne dicendo: Che cosa ti pare, Simone? I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i
tributi? Dai propri figli o dagli altri? Rispose: Dagli estranei. E Gesù: Quindi i figli sono esenti.
Ma perché non si scandalizzino, va' al mare, getta l'amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli
la bocca e vi troverai una moneta d'argento. Prendila e consegnala a loro per me e per te”
(Mt 17,24-27).
Gesù fornì costantemente prova della sua libertà; tuttavia, per non scandalizzare Pietro, pagò la
tassa del Tempio.
L’ha fatto, però, in modo speciale, da figlio di Dio.
Gesù era libero è come figlio di Dio non doveva niente a nessuno, non era soggetto ad alcun
uomo.
E, tuttavia, scelse di usare la sua libertà per servire.
“Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e
colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che
non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,2628).
Nel N. Testamento siamo esortati, come figli di Dio, a imitare il nostro fratello, ad avere in noi lo
stesso atteggiamento di Gesù: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio
gli uni degli altri” (Gal 5,13).
La libertà deve essere usata per servire gli altri. Servizio non schiavitù, perché:
- lo schiavo deve fare; il servo semplicemente fa;
- lo schiavo compie il minimo richiesto; il servo cerca di raggiungere il massimo possibile;
- lo schiavo cammina per un miglio; il servo per due;
- lo schiavo si ritiene derubato; il servo offre quello che ha;
- lo schiavo è prigioniero; il servo è libero;
- lo schiavo lotta per i suoi diritti; il servo rinuncia ai suoi diritti.
Molti servono con un atteggiamento risentito perché rimangono schiavi nel loro cuore. Non hanno
lo Spirito col quale Gesù diede i suoi comandamenti. Non hanno capito che sono stati liberati per
servire.
Continuano, così, a lottare per i loro interessi e non per aiutare gli altri.
Paolo dice qualcosa su questo punto nella prima lettera ai Corinzi. Vi afferma che c’erano alcuni
credenti deboli nella fede: “Quanto dunque al mangiare le carni immolate agli idoli, noi sappiamo
che non esiste alcun idolo al mondo e che non c'è che un Dio solo. Per noi c'è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale
esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Ma non tutti hanno questa scienza; alcuni, per la
consuetudine avuta fino al presente con gli idoli, mangiano le carni come se fossero davvero
immolate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com'è, resta contaminata” (1Cor 8,4.6-7).
Credenti che avevano una forte fede, mangiavano carne di origine incerta di fronte ai credenti più
deboli; ma sembra che questi tali fossero più interessati a rivendicare i loro diritti che non a evitare
di scandalizzare i loro fratelli.
Paolo diede questo avvertimento: “Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello
per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi
peccate contro Cristo” (1Cor 8,11-12).
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Gesù si è preoccupato di insegnare ai discepoli l’importanza dell’umile attenzione all’altro. Allora
perché mai scandalizzò tante persone, come abbiamo visto nel capitolo precedente?
Gesù scandalizzò in conseguenza della sua obbedienza al Padre. Non cercava di imporre i suoi
diritti come quelli di Corinto, a cui Paolo disse: “Badate che questa vostra libertà non divenga
occasione di caduta per i deboli” (1Cor 8,9).
La libertà ci è stata data per servire, mettendo a disposizione la nostra vita. Siamo chiamati a
costruire non a distruggere: “Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione
vicendevole” (Rm 14,19).
Dobbiamo prendere l’impegno di non essere d’inciampo agli altri, a causa della nostra libertà
personale.
Ciò che facciamo può anche essere in accordo con la scrittura ma dobbiamo sempre chiederci:
quest’azione serve per l’edificazione degli altri o serve soltanto alla mia persona?
“Tutto è lecito! - dice Paolo - Ma non tutto è utile! Tutto è lecito! Ma non tutto edifica. Nessuno
cerchi l'utile proprio, ma quello altrui. Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate
qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai
Greci, né alla Chiesa di Dio” (1Cor 10,23-24.31-32).
Permettiamo allo Spirito santo d’investire ogni zona della nostra vita con questa esortazione di
Paolo.
Non importa quale sia l’aspetto della nostra vita che deve cambiare: accettiamo la sfida vivendo a
servizio di tutti.
Usiamo la nostra libertà in Gesù Cristo per rendere liberi gli altri, non per affermare i nostri diritti.
Questa era una delle linee guida del ministero di Paolo, il quale scriveva:
“Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro
ministero” (2Cor 6,3).
11. CHI NON PUÒ PERDONARE HA DIMENTICATO CIÒ CHE DIO GLI HA
CONDONATO
“Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e
vi sarà accordato. Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate,
perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati. Se però voi non
perdonate, anche il vostro Padre che è nei cieli non vi perdonerà le vostre colpe” (Mc 11,24-26).
Gesù intendeva esprimere proprio ciò che disse.
Viviamo in un mondo dove non sempre le nostre parole corrispondono esattamente a quello che si
vuol dire.
Di conseguenza non crediamo alle parole che gli altri ci dicono.
Oggi la gente non s’impegna neppure un quarto di ciò che dice; perciò facciamo fatica per sapere
quando possiamo credere alla parola di una persona.
Gesù quando parla vuol significare proprio ciò che dice. Egli è fedele anche quando noi siamo
infedeli.
Facciamo un passo avanti: Gesù non fa quest’affermazione una sola volta nei vangeli, ma molte
volte.
Voleva sottolineare l’importanza dell’avvertimento. Vediamo alcune di queste affermazioni
pronunziate in diverse occasioni: “Perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6,37); “Rimetti a noi i nostri
debiti come noi li rimettiamo” (Mt 6,12); “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il
Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il
Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).
Quanti desiderano che Dio li perdoni nella stessa misura con cui essi hanno perdonato chi li ha
offesi?
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In Mt 18 Gesù proietta nuova luce sulle conseguenze della mancanza di perdono, insegnando ai
discepoli in che modo essere riconciliati con coloro che li hanno offesi:
“Pietro gli si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta
volte sette” (Mt 18,22).
E raccontò una parabola per illustrare questo punto: “A proposito, il regno dei cieli è simile a un re
che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore
di diecimila talenti” (Mt 18,23-24).
Un talento era l’equivalente di circa kg 37,5; quindi, diecimila talenti erano l’equivalente di 375
tonnellate. Quel servitore doveva al re 375 tonnellate d’oro. Chi avrebbe potuto pagare una cifra del
genere? È un’iperbole voluta da Gesù.
“Non avendo costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie,
con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo
supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il
padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito” (Mt 18,25-27).
Dobbiamo porre in parallelo la relazione di questo servitore verso il suo re, con la nostra relazione
con Dio.
Quando avviene un’offesa si produce un debito. Così il perdono è come la cancellazione del debito.
Non era possibile per noi pagare il debito che ci è stato condonato. Non c’era nessun modo per noi
per riuscire a pagare a Dio il debito che avevamo con Lui; era schiacciante. Perciò Dio ci ha
concesso la salvezza come dono.
“Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo,
lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! - Un denaro equivale alla paga di un giorno di lavoro - Il
suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il
debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato
il debito” (Mt 18,28-30).
Può darsi che siamo stati trattati male da qualcuno, ma ciò non può essere paragonato al’immensa
quantità di peccati che abbiamo compiuto contro Dio.
Una persona che non sa perdonare ha dimenticato il grande debito che gli è stato rimesso da Dio.
“Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone
tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho
condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo
compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli
aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a
ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,31-35).
Gesù in questa parabola non si rivolgeva ai non credenti ma ai credenti, servitori del re.
La conclusione severa della parabola ci porta a riflettere che questo è il destino del credente che
rifiuta di perdonare. Tre cose importanti:
a. il servitore che non perdona è mandato alla tortura;
b. deve versare il suo debito irrimediabile;
c. Dio, il Padre, farà la stessa cosa a ogni credente che non perdona le offese di un fratello di
fede.
a. Il servitore che non perdona è mandato alla tortura.
L’enciclopedia definisce la tortura come un’agonia del corpo e della mente oppure far subire un
dolore intenso, per punire, obbligare o trarne un piacere sadico.
Gli istigatori alla tortura sono spiriti demoniaci. Dio concede il permesso di infliggere agonia al
corpo e alla mente anche per i credenti.
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Il perdono normalmente è rifiutato al prossimo, ma qualche volta è negato anche a se stessi, e scatta
la condanna.
I medici hanno collegato la mancanza di perdono e l’amarezza a certe malattie come l’artrite e il
cancro.
Anche molti disturbi mentali sembrano dovuti alla mancanza di perdono.
Gesù dice: “Se avete qualcosa contro qualcuno perdonate” (Mt 5,24).
La Parola “qualcuno” include anche noi stessi! Se Dio ci ha perdonati chi siamo noi per non
perdonarci?
b. Il servitore che non perdona deve versare il suo debito irrimediabile
Una volta che la persona ha pregato e ha affidato la sua vita a Gesù, deve comportarsi come Lui ha
indicato.
Pietro dice: “Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del
Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima
condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la
via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era
stato loro dato” (2Pt 2,20-21).
E Gesù afferma: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel
tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però
dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7,2223).
Quali persone riconoscerà Gesù? Paolo scrive: “Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto” (1Cor
8,3).
Dio conosce coloro che lo amano. Chi rifiuta di obbedire alla sua Parola inganna il proprio cuore.
c. Dio, il Padre, farà la stessa cosa a ogni credente che non perdona le offese di un fratello di fede.
Gesù non è come noi, quel che afferma ha un significato reale. Non è più sicuro lasciarsi convincere
dallo Spirito e sperimentare il vero pentimento e il perdono di Dio?
12. ESSERE DISPOSTI A RISCHIARE CHE POSSANO APPROFITTARE ANCORA DI
NOI
Conservare il risentimento di fronte a un’offesa è come avere un debito nei confronti di
qualcuno.
Quando una persona è maltrattata, crede che le sia dovuto qualcosa. Aspetta un risarcimento di
qualche tipo.
Il nostro sistema giudiziario esiste proprio per soddisfare le persone maltrattate. Ma Paolo dice:
“Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: A me
la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore” (Rm 12,19).
Non è giusto, come figli di Dio, cercare la vendetta ma è proprio ciò che facciamo quando
rifiutiamo di perdonare.
Desideriamo, ricerchiamo e pianifichiamo le nostre vendette.
Non siamo disposti a perdonare finché il debito non è pagato completamente, e soltanto noi
determiniamo qual è il compenso accettabile.
Quando cerchiamo di correggere il male che ci è stato fatto, ci poniamo come giudici degli altri ma
sappiamo che:
“Uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e rovinare; ma chi sei tu che ti fai giudice
del tuo prossimo? Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il
giudice è alle porte” (Gc 4,12.5,9).
E Gesù dice di non opporci ai malvagi:
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“Anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in
giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio,
tu fanne con lui due. Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle”
(Mt 5,38-42).
Quando cerchiamo di rettificare il male che ci è stato fatto ci poniamo come giudici.
Impariamo a lasciare spazio al giusto giudice. Egli sa compensare o vendicare con giustizia.
Gesù ci ha perdonati prima che noi andassimo a Lui confessando le nostre colpe. L’apostolo Paolo
ci esorta dicendo: “Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi.” (Col 3,13).
Gesù paragona la condizione dei nostri cuori a quella del suolo. Il terreno produce solo ciò che vi
è piantato. Se seminiamo debito, mancanza di perdono, rancore, al posto dell’amore di Dio crescerà
l’amarezza.
L’amarezza ha radici che se sono nutrite, crescono in profondità e forza.
È una vendetta non realizzata. Si produce quando non si è stati soddisfatti nella misura che si
desiderava.
Perciò Paolo ci raccomanda di non lasciar tramontare il sole sopra la nostra ira (Ef 4,26) perché, in
tal caso, anziché vedere crescere frutti di giustizia, vedremo sbocciare ira, risentimento, gelosia,
odio e discordia.
Gesù li chiama frutti malvagi (Mt 7,19-20).
Abbiamo visto all’inizio come Davide rimase fedele al re Saul. Alla morte di Saul, Davide salì al
trono.
Ebbe molti figli. Uno di questi, Amnon, arrecò una vergognosa offesa a Tamar, la sua sorellastra.
Assalonne, fratello di Tamar, si aspettava che il re punisse il fratellastro ma Davide non fece nulla.
Dopo due anni il suo odio, coltivato e cresciuto per tutto quel tempo, diede forma a un complotto
per uccidere Amnon e, mentre questi non aveva nessun sospetto, Assalonne lo uccise.
Rimase a Ghesur tre anni e poi tornò a Gerusalemme; ma solo dopo altri due anni tornò nei favori
del re e riebbe tutti i suoi privilegi. Nel suo cuore, però, rimaneva forte il risentimento contro il
padre (2Sam 13-14).
Covando il suo risentimento, Assalonne incominciò ad attirare presso di sé tutti quelli che erano
scontenti e insorse contro suo padre. Davide dovette fuggire da Gerusalemme per salvarsi la vita.
Sembrava che Assalonne riuscisse a stabilire il suo regno, invece fu ucciso mentre era in guerra con
Davide, nonostante questi avesse vietato di ferirlo.
Quante persone sono capaci di nascondere il loro risentimento e il loro odio come faceva
Assalonne.
Ciò che avvenne per Assalonne e ciò che avviene oggi a molti di noi.
È un processo che richiede tempo. Forse non ci accorgiamo nemmeno che un risentimento è entrato
nel cuore.
La radice dell’amarezza è appena percepibile mentre si sviluppa; ma se è nutrita, cresce e si rinforza
(Eb 12,15).
Dobbiamo esaminare il nostro cuore ed essere disposti a lasciarci correggere dal Signore, poiché
soltanto tramite la sua Parola possiamo discernere i pensieri e le intenzioni del nostro cuore.
Non abbiamo timore di permettere allo Spirito santo di rivelarci ogni risentimento che è nel cuore.
Più lo si nasconde e più diventa forte, inasprendo il cuore.
Non lasciamoci afferrare dalla durezza di cuore. Come raccomanda Paolo:
“Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità.
Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha
perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,31-32).
13. SI CRESCE MOLTO NELLE OFFESE
Occorre uno sforzo per rimanere liberi dai risentimenti, come dice Atti:
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“Per questo mi sforzo di conservare in ogni momento una coscienza irreprensibile davanti a Dio e
davanti agli uomini” (At 24,16).
Quando qualcuno ci offende e non troviamo difficile perdonare, significa che abbiamo tenuto in
esercizio il nostro cuore, per cui siamo in grado di sopportare l’offesa che,
qualunque cosa accada, non si trasforma in rancore e acredine. Obbedire a Dio è facile se il cuore è
esercitato.
Il nostro grado di maturità è determinato dalla nostra capacità di sopportare un’offesa senza
risentimento.
Alcune offese possono essere più lesive di quelle alle quali siamo abituati.
Questo fatto può provocare in noi delle ferite che hanno bisogno di una nuova cura spirituale per
essere guarite.
La liberazione che otterremo merita qualunque sacrificio.
In questi casi, il primo passo verso la guarigione e la liberazione è riconoscere che siamo risentiti.
Spesso il nostro orgoglio ci impedisce di ammettere che siamo risentiti e offesi.
È facile amare coloro che a nostro giudizio non fanno niente di male. Quello è l’amore della luna di
miele.
È completamente diverso amare qualcuno di cui vediamo i difetti, specialmente se siamo vittime dei
suoi errori.
L’amore di Dio fa maturare e rende forte il cuore, facendoci passare attraverso dure prove.
Incontreremo sempre, prima o poi, passaggi aspri nel nostro cammino con il Signore. Non possiamo
evitarli, anzi vanno affrontati, perché fanno parte del processo per diventare perfetti in Cristo. Se si
cerca di schivarli, si blocca la crescita. Superati i vari ostacoli, si è più forti e comprensivi.
Alcune persone offese purtroppo non riescono a guarire e questo per loro scelta, anche se sembra
un’affermazione dura.
Gesù imparò l’obbedienza dalle cose che soffrì.
Pietro imparò l’obbedienza dalle cose che soffrì.
Paolo imparò l’obbedienza dalle cose che soffrì.
E noi abbiamo imparato, oppure siamo rimasti duri, incalliti, freddi, aspri e risentiti?
-
Se è così non abbiamo imparato l’obbedienza.
Si legge negli Atti che Paolo era ritornato in visita in tre comunità che aveva fondato.
Il suo scopo era di incoraggiare i discepoli. È interessante notare con quali argomenti cercava di
spronarli:
“Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli,
(Paolo e Barnaba) ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, rianimando i discepoli ed esortandoli a
restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare
nel regno di Dio” (At 14,21-22).
Se siamo ben determinati a seguire la via di Dio, incontreremo molte tribolazioni.
Ricordiamo che solo perdendo la nostra vita per amore di Gesù, la ritroveremo.
Impariamo a fissare la nostra attenzione sul risultato finale e non sulle fasi della lotta.
Pietro esprime bene questo concetto:
“Carissimi, non siate sorpresi per l'incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per
provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle
sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate
rallegrarvi ed esultare” (1Pt 4,12-13).
Quando la gloria di Gesù sarà manifesta, anche noi saremo glorificati con Lui.
Questa glorificazione ci riguarderà solo se avremo permesso al Signore di rendere perfetto in noi il
suo carattere.
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Perciò non diamo peso alle offese ricevute.
Teniamo lo sguardo fisso alla gloria che deve venire.
14. È PIÙ IMPORTANTE AIUTARE CHI STA INCIAMPANDO CHE DIMOSTRARE
D’ESSERE GIUSTI
“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al
fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della
Geenna. Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa
contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi
torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,21-24).
Agli occhi di Dio l’omicida non è soltanto colui che uccide una persona, ma anche colui che odia
il fratello.
Gesù indica chiaramente le conseguenze del recare offesa al prossimo, dimostrando che non frenare
la propria collera può portare all’odio. E l’odio non eliminato porta al pericolo dell’inferno.
La priorità dev’essere quella di rintracciare il fratello e riconciliarsi con lui.
Perché dobbiamo cercare la riconciliazione con il fratello con tanta urgenza, per il nostro bene o per
quello del fratello? È per nostro fratello che dobbiamo muoverci e per liberarci dal suo rancore.
Anche se non abbiamo nulla contro di lui, l’amore di Dio non permette che quel fratello viva nel
risentimento senza che noi cerchiamo di rimediare.
Può darsi che non abbiamo fatto nulla di male nei suoi confronti, non ha importanza.
È molto più importante per noi aiutare il fratello in difficoltà, che dimostrare la nostra innocenza.
Sono infinite le motivazioni dei risentimenti ma non ha importanza ciò che ha provocato
l’incidente; la capacità di comprensione di una persona risentita è sempre oscurata e fonda i suoi
giudizi su preconcetti, sulle voci, sulle apparenze, ingannando se stessa, anche se pensa di aver
scoperto le nostre vere motivazioni.
Dobbiamo essere sensibili al fatto che la persona è convinta, con tutto il suo cuore, di essere stata
ingannata.
Qualunque sia il motivo per cui ha questa sensazione, dobbiamo essere disposti a umiliarci e
chiedere perdono.
Gesù ci esorta alla riconciliazione anche se l’offesa non è causata da noi.
Occorre una certa maturità spirituale per camminare nell’umiltà e favorire la riconciliazione.
È spesso più difficile fare il primo passo per chi ha provocato l’offesa. Perciò Gesù dice: “Va prima
a riconciliarti”.
L’apostolo Paolo scrive: “Diamoci dunque alle opere della pace e all’edificazione vicendevole”
(Rm 14,19).
Questa esortazione ci indica in che modo avvicinare una persona che abbiamo offeso.
Dobbiamo mantenere l’atteggiamento di chi cerca la pace nell’umiltà, a spese del proprio orgoglio.
È la sola strada per trovare la vera riconciliazione.
Parteggiare in favore di noi stessi o dei nostri diritti non servirà mai a produrre la vera pace.
È risolutivo, invece, ascoltare tenendo la bocca chiusa, finché gli altri non abbiano terminato di dire
quello che sentono.
Se non si è d’accordo, si dirà che si rispetta ciò che hanno detto e che si esamineranno
accuratamente le proprie intenzioni. Quindi, si esprimerà il dispiacere per averli offesi.
L’orgoglio si difende. L’umiltà accetta, e dice: “Avete ragione. Perdonatemi”.
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La saggezza di Dio è conciliante. Non ha il collo duro e non è ostinata quando giunge a una
discussione personale: “La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite,
arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia.”(Gc 3,17).
Una persona sottomessa alla saggezza di Dio non ha timore di accogliere il punto di vista
dell’oppositore, purché non rinneghi la verità.
Ora consideriamo cosa fare quando il fratello offende noi:
“Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai
guadagnato il tuo fratello” (Mt 18,15).
Molti mettono in pratica questo versetto con un atteggiamento ben diverso da quello che Gesù
intendeva.
Se sono stati feriti, affrontano il colpevole con un atteggiamento di collera e di vendetta.
Usano questo versetto per giustificare la condanna della persona che li ha offesi.
Gesù ci ha esortati ad andare gli uni verso gli altri, non per emettere giudizi o condanne, ma per la
riconciliazione. Dobbiamo tentare di ricucire la frattura che ha spezzato i nostri rapporti.
Per far questo, siamo disposti a rinunciare alla nostra perenne autodifesa e morire all’orgoglio, per
ristabilire buoni rapporti con chi ci ha offesi?
La Parola della riconciliazione parte dalla base comune che tutti abbiamo peccato contro Dio.
La bontà di Dio ci spinge al ravvedimento.
Dio ha dimostrato il suo amore mandando Gesù sulla terra, il suo unigenito figlio, a morire per noi
sulla croce.
Egli ci cerca e ci raggiunge per primo, benché noi abbiamo peccato contro di Lui.
Ci raggiunge non per condannarci ma per ristabilirci in grazia e salvarci.
Poiché siamo esortati a imitare Dio (Ef 5,1), siamo tenuti a estendere la riconciliazione al fratello
che ha peccato contro di noi. Gesù ha stabilito questa linea di condotta:
“Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione
che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore,
cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”
(Ef 4,1-3).
Conserviamo il vincolo della pace con un atteggiamento di umiltà, di gentilezza, di longanimità,
sopportando le debolezze gli uni degli altri, con amore.
Che cosa succede quando noi abbiamo un atteggiamento corretto e cerchiamo la riconciliazione con
qualcuno che ci ha fatto del male, ma che non vuole ascoltarci?
“Se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla Parola di
due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà
neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,16-17).
È come se Gesù dicesse “continua a provare”.
Spesso parliamo con chiunque del nostro risentimento ma non con la persona che ci ha offeso, come
Gesù insegna.
Ci sentiamo giustificati, compiaciuti e consolati quando possiamo raccontare a tutti la nostra
versione dei fatti e gli altri sono d’accordo che siamo stati trattati male. C’è solo egoismo in questo
tipo di condotta.
Se l’amore di Dio è l’unica motivazione della nostra condotta non sbaglieremo. L’amore non verrà
mai meno.
“Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18).
Paolo dice “se possibile” perché vi sono situazioni in cui gli altri rifiutano di vivere in pace con noi.
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Poi dice: “per quanto dipende da voi”. Dobbiamo fare veramente tutto il possibile per arrivare alla
riconciliazione pur rimanendo fedeli alla verità. Spesso, invece, tronchiamo una relazione troppo
presto.
Gesù dice: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”(Mt 5,9).
Egli non ha detto beati quelli che conservano la pace. Uno che vuole conservare la pace evita di
confrontarsi, pur di mantenere la pace a tutti i costi, anche a rischio di compromettere la verità; ma
la pace che mantiene non è vera; è solo una pace superficiale, che non dura.
Uno che si adopera per la pace è uno che non teme di affrontare le persone con amore e con
fermezza, esprimendo la verità in modo che la riconciliazione che ne deriva possa durare.
Ricordiamo che la linea base è l’amore di Dio. L’apostolo Paolo scrisse che l’amore supera
qualsiasi peccato:
“Perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di
discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il
giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a
gloria e lode di Dio” (Fil 1,9-11).
L’amore di Dio è la chiave della libertà dalla trappola dell’offesa.
Un amore sovrabbondante; un amore che cresce in continuazione e rende saldo il nostro cuore.
Molti nella nostra società sono delusi da un amore superficiale, che parla molto ma non agisce.
L’amore che ci evita di inciampare è quello che dona la vita senza egoismo, anche per il bene di un
avversario. Quando camminiamo in questo tipo d’amore, non possiamo essere sedotti dall’esca di
satana.
EPILOGO
Se seguendo questo percorso, lo Spirito del Signore ci ha fatto tornare in mente qualche
risentimento verso qualcuno, non esitiamo a liberarcene. L’autore suggerisce una semplice
preghiera di liberazione.
Prima, però, di mettersi in preghiera, chiediamo allo Spirito santo di illuminare il nostro passato in
modo da ricordarci qualunque persona contro la quale abbiamo conservato qualche risentimento.
Stiamo tranquilli nello Spirito mentre ci mostra chi sono quelle persone.
Non è necessario andare a caccia di qualcosa che non c’è. Lo Spirito mostrerà tutto, in modo che
non abbiamo dubbi.
Forse ci verrà in mente il dolore provato. Non temiamo: lo Spirito sarà accanto a noi, pronto a
confortarci.
Mentre liberiamo queste persone dal rimprovero per ciò che hanno fatto, cerchiamo di vederle una
ad una nella mente. Perdoniamo a ciascuno, cancellando il suo debito. Preghiamo, quindi, con
questa semplice preghiera, che vuol essere solo una guida. Lasciamoci ispirare dallo Spirito santo:
“Padre nel nome di Gesù, riconosco di aver peccato contro di te non perdonando coloro che mi
hanno offeso. Mi pento di questo e chiedo il tuo perdono. Riconosco anche la mia incapacità a
perdonare senza il tuo aiuto. Dal profondo del cuore ho deciso di perdonare ........... Metto sotto il
sangue di Gesù tutto quello che di male hanno fatto contro di me. Non mi devono più niente;
rimetto i loro debiti verso di me. Padre celeste, come il Signore Gesù ti ha chiesto di perdonare
coloro che avevano peccato contro di Lui, così io chiedo che il tuo perdono giunga a coloro che
hanno peccato contro di me. Ti chiedo di benedirli e di guidarli verso una relazione più intima con
te. Amen”.
A questo punto possiamo segnare i nomi di chi abbiamo perdonato, e la data. Può darsi che
dovremo ancora esercitarci per essere liberi dai risentimenti. Prendiamo l’impegno di pregare per
queste persone, ogni volta che ci mettiamo in preghiera. Il quaderno aiuterà a ricordare.
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Se i cattivi pensieri continuano a bombardarci, cacciamoli via con la Parola di Dio e ripetiamo la
decisione a perdonare.
Abbiamo chiesto la grazia per essere in grado di perdonare: il risentimento non può essere più forte
di Dio.
Stiamo saldi e combattiamo il buon combattimento della fede.
Quando il cuore sarà saldo e sereno, andremo verso quelle persone per la riconciliazione, in vista
del loro bene.
Facendo questo, metteremo un sigillo sulla vittoria, guadagnando un fratello (Mt 18,15).
“A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella
letizia, all'unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e
potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!” (Gd 24-25).
COMUNITA’
SANTO VOLTO DI GESU’
Tel. e fax 011-7395152
Via Refrancore, 86/6 - presso “Centro della Divina Misericordia” - Torino
Venerdì ore 16 e sabato ore 15,30 incontro di preghiera e di guarigione.
Quarta domenica di ogni mese (da settembre a giugno) ore 9-12 preghiera di guarigione
comunitaria delle ferite emozionali;
ore14,30-18 culto a Gesù misericordioso, intercessione ed eucaristia.
(pro - manoscritto ad uso interno della comunità)
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