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Letteratura e lavoro
S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, Milano
2010, pp. 368; E. Nesi, Storia della
mia gente, Bompiani, Milano 2010,
pp. 168; S. Scateni, Dove sono, nottetempo, Roma 2012, pp. 189.
Recentemente sono apparsi in libreria alcuni romanzi (S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, 2010; E. Nesi, Storia della mia gente, Bompiani, 2010; S. Scateni, Dove
sono, nottetempo, 2012) che si soffermano, nella narrazione, su alcune esperienze di lavoro. A una prima e sbrigativa lettura questi racconti possono
richiamarsi, in qualche modo, alla tradizione della letteratura industriale. Sul
rapporto tra letteratura e industria è
uscito recentemente un interessante libro di P. Mori, Scrittori nel boom. Il romanzo industriale negli anni del miracolo italiano, Edilazio, Roma 2012, pp.
337, dove si cerca, attraverso il romanzo industriale, di leggere la seconda trasformazione economica e sociale avvenuta alla fine degli anni cinquanta in
Italia. Gli autori di questa narrazione
sono noti: E. Vittorini (Industria e letteratura, 1961), I. Calvino (La «tematica
industriale», 1962), P. Volponi (Memoriale, 1962 e La macchina mondiale,
1965), O. Ottieri (Tempi stretti, 1957 e
La linea gotica, 1962), ecc. La peculiarità prevalente è il lavoro nella sua caratteristica antropologica, da cui il senso
della specifica attività (le condizioni, la
prestazione, i legami, ecc.) si fa narra-
zione e sentimento di personaggi nella
situazione di lavoro (fabbrica, comunità, ecc.). In altri termini, al di là delle diverse tradizioni narrative, il romanzo industriale si sofferma prevalentemente
sul lavoro visto soprattutto come esperienza etica, oltre che tecnica, umana e
sociale. È visto cioè come il fondamento di un vincolo che ogni persona sente
per sé, ma anche per la propria famiglia,
i propri amici, la propria comunità ed è
raccontato nelle sue implicazioni materiali e culturali sia collettive sia individuali così come queste si chiariscono
nei luoghi di lavoro. La caratteristica del
romanzo industriale, dunque, è quella di
soffermarsi sulla rappresentazione dell’esistenza delle persone nel lavoro.
Se assumiamo questa definizione, i romanzi ultimamente usciti in libreria, cui
si faceva cenno all’inizio, pur soffermandosi sulle esperienze lavorative, stridono con il romanzo industriale secondo la definizione che noi abbiamo dato.
Eppure il riferimento al lavoro è abbastanza presente. Come mai?
S. Avallone narra la storia di due ragazze
in un quartiere di operai di Piombino affacciato sul mare e, sullo sfondo, la Lucchini, una fabbrica di acciaieria con l’altoforno Afo 4 che condiziona l’esistenza
dei vari personaggi del romanzo. E. Nesi nelle sue pagine racconta la vendita dell’azienda di famiglia e il disfacimento del
distretto del tessile pratese. La globalizzazione dei mercati e la concorrenza cinese, in questa provincia, hanno avuto
un impatto inesorabile. Non è stato solo il collasso di un sistema economico e
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produttivo ma di un mondo e di un’identità culturale cui tutte le persone di
quella provincia erano strettamente legate. È un racconto crudo e pieno di
malinconia sulla decadenza del modello
industriale pratese. S. Scateni narra di
Chiara che si raccoglie nel passato della
famiglia ed evoca la storia della provincia
dalla quale è fuggita. È un racconto di
donne sfortunate, di una povertà contadina e del lavoro nelle fabbriche di tabacco. A seguito di questa memoria la
protagonista riuscirà a trovare un senso
alla sua esistenza.
Nelle pagine di S. Avallone il lavoro,
pur presente, perde la funzione d’integrazione su valori condivisi propri di
una comunità operaia. È una comunità,
cioè, che infrange la condivisione dell’etica del lavoro per configurarsi in un’umanità aperta alle diverse infiltrazioni
della droga e al richiamo di forme più disperate, consumistiche e delinquenziali.
In quelle di E. Nesi la globalizzazione
sottrae il tempo del lavoro come attesa di
una possibile scelta e speranza verso il futuro e con essa il congelamento di un destino comunitario e individuale. È la fine di una storia collettiva fondata
sull’attività e sui suoi valori che, nella dissoluzione, non possono essere più tramandati alle nuove generazioni. Mentre
nello scritto di S. Scateni la memoria
non è un ricordo ma è l’attualità del
presente della protagonista in cui il lavoro delle tabacchine àncora l’esistenza
di Chiara alla fatticità della vita riconsegnandole le parole necessarie per poter
stare con gli altri.
In questi tre romanzi il lavoro è assente.
È dissolto nella competizione globale,
nella perdita della sua centralità e dei
suoi valori economici e culturali. La sua
presenza è solo memoriale (E. Nesi, S.
Scateni) o è addirittura spettrale e irriverente (S. Avallone). Differentemente
dalla letteratura industriale o di argomento operaio – in cui il racconto si sofferma sulla descrizione letteraria della
realtà – il lavoro è ricordato nella sua
mancanza, nella sua marginalità e nella
sua lontananza. Queste distanze aprono
una sorta d’inquietudine che gli stessi
romanzi citati mostrano e testimoniano.
È un’inquietudine legata alla separazione dall’azienda del padre e dal distretto
pratese (E. Nesi), vissuta nella dissolvenza dei valori solidaristici del lavoro
industriale (S. Avallone) e nell’incapacità di vivere il presente senza alcuni fondamenti esistenziali (S. Scateni). L’inquietudine è l’esito di una perdita su
cui i romanzi citati ci danno una rappresentazione letteraria. Ma questa perdita, così a portata di mano della lettura e legata ai protagonisti dei racconti,
dischiude, nelle diverse scritture, un’inquietudine più grande. È l’apprensione
del presente in cui il vivente è neutralizzato dall’abolizione del tempo e smarrito per l’assenza di speranza. In questi casi il ricorso al lavoro, che i tre titoli
impiegano, è un appello alla necessità di
un fondamento, a una storicità di principio in cui il lavoro non è un accidente sociologico ma un fondamento dell’esistenza, senza il quale non si dà valore
alla realtà. In questi romanzi il lavoro
Franco Farina
■ Recensioni
P. Bevilacqua, Elogio della radicalità,
Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 174.
Un excursus storico ed insieme un manifesto intellettuale programmatico.
Questo il primo nitido pensiero a conclusione della lettura dell’ultimo saggio
di Piero Bevilacqua. Il volume si caratterizza come un importante lavoro di
raccordo e ricostruzione dell’evoluzione
socio-economica internazionale che ha
portato l’attuale ordine mondiale delle
cose ad essere ciò che noi quotidianamente vediamo e viviamo.
Attraverso un’indagine sì storiografica,
che abbraccia però una pluralità di elementi per farsi analisi economica ma
anche sociologica, culturale e politica,
Bevilacqua ci conduce lungo un sentiero che parte dalla metà del XIX secolo
per arrivare ai nostri giorni.
La riflessione da cui lo storico svolge le
sue considerazioni è quella dell’evoluzione negativa che il termine «moderato» ha avuto. Tale appellativo, nato per
definire un pensiero politico ed una conseguente azione rispondente a criteri di
«moderazione», ossia di capacità di equilibrio e di governo anche di forze eversive o estremiste, in grado di mettere in
atto riforme progressive e senza strappi,
ha assunto ai nostri giorni tutt’altre fattezze. I moderati del nostro tempo sono
divenuti «estremisti», portatori di una
perversione del concetto di politica riformatrice. Bevilacqua sottolinea infatti che «il loro atteggiamento e la loro col-
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non è più la rappresentazione di una
modernità ma di una necessità prima
che conferisce significato alle persone
sia nell’estinzione di un’epoca (E. Nesi)
sia nell’avvelenamento di un’etica (S.
Avallone) sia nella rammemorazione di
ciò che è stato (S. Scateni).
Questi romanzi diffondono una sensibilità e un sentimento legati al disorientamento che il presente, nelle sue illusorie manifestazioni, mostra al vivente.
Ma offrono, altresì, una risalita in cui la
responsabilità del pensiero è un’opera
aperta e in cui lo smarrimento ritrova,
nella memoria e nella realtà, il lavoro come fondamento della stessa autenticità
delle persone. La letteratura industriale
del secolo passato, per diversi e complessi motivi, non è riuscita a determinare un’attenzione letteraria generalizzata e rilevante per una scrittura
esemplare della vita industriale e dello
stesso progresso. Eppure il Novecento ha
rappresentato in Italia l’industrializzazione e il capovolgimento di un sistema
economico e sociale. Ciò che ieri la letteratura non è riuscita a rappresentare,
oggi, il valore lavoro, nonostante la sua
assenza nel dibattito politico e scientifico, è rappresentato da alcuni romanzi
che s’incaricano di figurare la lontananza dal lavoro come la vicinanza di un
fondamento indispensabile all’esistenza. È una letteratura dell’assenza che invoca la necessità di un reale, quale la
centralità del lavoro come condizione
per essere nel mondo.
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locazione politica non solo non contrasta, ma anzi favorisce il dispiegarsi di fenomeni economici, sociali ed ambientali
che sono obiettivamente estremi». Difensori di uno statu quo economico e sociale in modo pervicace e privo di respiro, essi mirano, nel nostro tempo, a
mantenere immutata la realtà preservandone i caratteri a loro favorevoli,
mentre non producono alcuna azione
migliorativa delle sperequazioni sociali
drammaticamente evidenti. Questa
aberrazione appare, secondo lo storico,
in tutti segmenti che compongono il
nostro tempo, dall’economia alla politica, dallo sfruttamento delle risorse naturali alla cultura.
Il saggio analizza, capitolo dopo capitolo, in che modo il moderatismo politico
ed il suo pari economico, ossia il liberismo, hanno prodotto l’involuzione politica, culturale, economica e sociale che
oggi viviamo, facendosi promotori di
un mondo fondato sulla smodatezza,
l’eccesso, il superamento del limite che
ogni cosa possiede, la totale assenza di rispetto per l’essere umano e la natura. E
tale analisi viene fatta partendo da quella figura grottesca, a tratti ridicola, che ha
piegato la cosa pubblica ad uso e consumo dei propri interessi e delle proprie
necessità e che ha dominato la scena politica italiana sino al novembre dello
scorso anno. «La più dirompente smodatezza Berlusconi l’ha manifestata sul
piano politico, subordinando, come mai
era accaduto nella storia dell’Italia unita,
il governo del paese e parte del Parlamento ai suoi interessi personalissimi,
mettendo in discussione la divisione dei
poteri e l’indipendenza della magistratura, occupando i mezzi di comunicazione di massa, facendo violenza alla
Costituzione, stracciando le procedure e
le regole della vita democratica, trafficando segretamente con affaristi e criminali». Ora, c’è forse qualcosa che può
apparire come estremismo immorale più
di una condotta politica con queste caratteristiche?
Non è tuttavia sull’antiberlusconismo
che Bevilacqua intesse la sua critica al
moderatismo «estremista», quanto sugli
effetti economici e sociali che la sua base ideologica ha prodotto. Le vicende
della crisi economico-finanziaria hanno
infatti avuto il pregio di risvegliare lo
spirito critico e gli studi attorno ai fondamenti teorici che l’hanno prodotta,
ossia il capitalismo ed il pensiero liberista, determinando una vasta e interdisciplinare produzione saggistica ma anche, e forse in modo più significativo,
un risveglio da quello che lo storico definisce il «sonno dogmatico». «Non solo Karl Marx è stato fatto scendere dalla soffitta [...] ma è una schiera sempre
più vasta di economisti, giornalisti, studiosi spesso conservatori, o di formazione e ispirazione liberal, che muove
critiche radicali al capitalismo nella sua
estrema incarnazione neoliberista». L’attuale società, per dirla con le parole del
Candide di Voltaire, non è più il migliore dei mondi possibili. Si va sgretolando quella visione di naturalità e di
eternità immodificabile che i modi di
produzione capitalistici hanno avuto fi-
nei processi evolutivi in campo sociale,
scientifico, tecnico.
Allo stato attuale, secondo Bevilacqua,
la spinta propulsiva verso l’emancipazione ed il cambiamento, in certo senso naturalmente connessa al modo di
produzione capitalistico, si è esaurita, lasciando spazio esclusivamente alle storture prodotte da esso. Il portato della
globalizzazione economica è fatto di individualismo, profitto per il profitto,
saccheggio dei beni comuni, sfruttamento delle popolazioni e dei territori
del Sud del mondo, in una logica di perpetuazione di una sistema che non ha
più, come contropartita, il dispiegarsi di
quegli elementi positivi che ne hanno
fatto il perno su cui è stata costruita la
società moderna. Perfino i saperi sono
stati asserviti alla logica capitalistica,
perdendo il loro carattere di autonomia e divenendo strumenti delle forze
economiche.
È venuto, dunque, il tempo di rivedere
in modo «radicale» le modalità di produzione e di fondamenti delle nostre
stesse società.
Così come per il termine «moderato»,
anche la parola «radicale» viene analizzata da Bevilacqua. Se il primo ha subito,
nel tempo, una trasformazione in senso
estremo, divenendo nei fatti l’antitesi di
ciò che originariamente incarnava, il secondo ha avuto un destino assai diverso
e certamente una minor fortuna. Nel
nostro paese l’aggettivo «radicale» ha a
lungo identificato un pensiero politico
ben definito e piuttosto elitario, salvo il
permanere del suo utilizzo più comune
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no a questo momento all’apparire, in
modo sempre più tragicamente chiaro,
delle storture e dei disastri che essi hanno prodotto nel dispiegarsi secondo
modalità incontrollate.
L’analisi non si limita tuttavia ad una
semplicistica critica della società capitalistica, sulla scia di un redivivo pensiero
marxista, ma si domanda se il capitalismo non abbia esaurito la sua «doppia
natura» e non sia arrivato il momento di
creare un nuovo concetto di vita, società, lavoro, economia: un nuovo mondo
insomma.
Da un lato, infatti, il capitalismo ha dispiegato la sua natura di sfruttamento e
di asservimento delle popolazioni in nome del profitto e dell’accrescimento del
proprio potere, in funzione di una perpetuazione dei propri modi di produzione e della sua stessa natura.
D’altro canto, però, esso ha portato, come suo naturale prodotto, una «potenzialità di lotta e di trasformazione» manifestatasi nell’ascesa economica e sociale
delle classi lavoratrici, facendosi volano,
in certo senso, della creazione di un proletariato e di una coscienza di classe, con
quelle rivendicazioni e quelle conquiste
che hanno costellato la storia socio-culturale del XX secolo. Ma c’è di più. Esso è stato anche motore del progresso
della scienza e della tecnica, strumenti
attraverso cui ha dispiegato la sua azione innovatrice. Dunque un duplice ruolo quello dell’economica capitalistica,
che ha avuto il compito di disegnare e
definire in certa misura la società moderna, nei suoi tratti negativi ma anche
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ad indicare posizioni politiche estreme,
per certi versi quasi un insulto in termini politici. «Essere radicale significa cogliere le cose, dalla radice, ma la radice
dell’uomo è l’uomo stesso». Recuperando la definizione data da Marx nel 1843,
Bevilacqua prova a dare una diversa interpretazione di questo aggettivo, capovolgendone il senso comunemente affidatogli. Essere radicale significa tornare alla
radice delle cose e dunque affondare lo
sguardo e l’analisi oltre il «belletto ideologico dell’industria culturale», nel tentativo di recuperare l’origine dei fenomeni appunto, al fine di disvelarne la
finitezza. «Per incredibile che possa apparire, viviamo una fase storica nella quale, nonostante l’immenso patrimonio di
conoscenza di cui disponiamo, stiamo
soffocando sotto la coltre di un occultamento totalitario della nostra umana radice». Se le idee dominanti sono quelle
delle classi dominanti, sempre per citare Marx, allora occorre uno sforzo per recuperare le «radici», per comprendere
che la società in cui viviamo e che ci viene presentata come natura, ossia unico
mondo possibile, è in realtà il prodotto
di una costruzione tutta umana. È una
possibilità, non l’unica possibilità, ed è
su questo che i nuovi movimenti spontanei e le nuove scienze, come l’ecologia,
vanno fondando un modello diverso di
società, di economia, di sviluppo del
territorio.
L’elogio è dunque alla volontà di andare oltre, di avere la capacità di creare un
nuovo progetto di mondo e di società.
I movimenti spontanei, da Seattle in
poi, hanno avuto un respiro mondiale,
sono stati transnazionali, hanno coinvolto persone accomunate non dalla
bandiera bensì dalla volontà di cambiamento, ed un esercito sempre più numeroso di scontenti, di privati dei propri diritti e delle possibilità di vivere in
modo dignitoso si va facendo strada,
senza trovare una interlocuzione ed una
rappresentanza a livello politico.
Una nuova Internazionale sembra auspicare Bevilacqua, con connotati politici ovviamente diversi da quelli leninisti, ma capace di dare fiato alle tante
voci che si vanno risvegliando e che
gridano a gran voce la volontà di avere
un mondo diverso.
Antonella De Marco
M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo
(quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 192.
Nel 2007 scoppia negli Stati Uniti quella che viene definita «bolla immobiliare»
le cui conseguenze non tardano a farsi
sentire su tutta la realtà economica americana. Tale grave situazione ha esattamente lo stesso effetto di una pietra gettata in un piccolo stagno che dà luogo a
cerchi concentrici che si allargano lentamente, dilagando in tutto il mondo finanziario.
L’Unione Europea ha da sempre creduto nel liberismo quale motore trainante
del mercato, convinta che quest’ultimo,
lasciato totalmente a se stesso ed alle
proprie meccaniche, fosse in grado di facilitare le produzioni giuste, creare occupazione e far crescere di conseguenza
una sana economia. In questo contesto
generale, quando nel 2011 la drammatica accelerazione della crisi finanziaria
raggiunge le sue coste come un implacabile tsunami, l’Unione Europea si lascia trovare totalmente inerme ed impreparata. La politica di austerità
proposta dal cancelliere tedesco Angela
Merkel non solo non riesce a far fronte
a tale disfatta, ma rischia di far scivolare
tutta l’Unione nel baratro di una nuova
grande depressione.
Dal canto suo l’Italia, guidata da Berlusconi prima e dal governo tecnico di
Monti dopo, ha ricalcato passo a passo
quanto già espresso nei riguardi dell’U-
nione Europea, riuscendo ad esaltare
queste due principali caratteristiche (il liberismo esagerato da un lato e la soffocante austerità dall’altro) ed ottenendo
posizioni di netta rilevanza nella classifica europea per questo triste risultato:
l’aumento spropositato del divario fra
ricchi e poveri, raggiungendo l’emblematico traguardo del rapporto di uno a
dieci.
È infatti proprio questo l’argomento
trattato, nel suo libro, da Mario Pianta,
professore di Politica economica all’Università di Urbino ed uno dei fondatori della campagna «Sbilanciamoci!».
L’autore ripercorre la storia dell’economia mondiale partendo dal Trattato di
Maastricht del ’92 che apre la strada all’Unione economica e monetaria dell’Europa, con l’abbandono degli strumenti «keynesiani» di spesa pubblica e
svalutazione del cambio, ma confidando, forse eccessivamente, nelle potenzialità della domanda privata per investimenti ed esportazioni in un’economia
in via di globalizzazione. In questo scenario però, in base all’analisi del professor Pianta, mancano una politica fiscale comune – armonizzazione delle
imposte, misure di sostegno alla domanda su scala europea, politiche di
contrasto ai paradisi fiscali – e politiche
comuni per l’economia reale che sostengano una convergenza in termini
di produttività, investimenti, esportazioni ed occupazione. Quest’integrazione europea, basata su finanza e liberismo, non ha fatto altro che rendere
più forti economie già forti, mentre per
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altri paesi, in particolar modo per quelli «periferici», non è rimasta altra via che
«arrangiarsi» prendendo direzioni diverse: paradisi fiscali, spesa pubblica finanziata dal debito, bolle immobiliari.
In pratica i governi non hanno saputo
investire, o indirizzare gli investimenti,
sull’economia reale, mentre hanno dato
spazio ad una finanza speculativa che
ha permesso ai potenti di indirizzarsi
dove, senza grandi rischi, si potevano
ottenere maggiori guadagni o minori
tasssazioni. Tutto ciò ha portato alla crisi del debito pubblico all’inizio del 2010.
Pianta ci propone un’analisi dettagliata
della situazione italiana e della distribuzione della «torta» dei redditi prodotti dall’economia, facendo un confronto con altri paesi europei, ed il
risultato è agghiacciante. Ci troviamo di
fronte ad una nazione dove i salari, la
precarietà e la disoccupazione sono tra
i peggiori del continente, ad una struttura produttiva e tecnologica non adeguata a confrontarsi con la concorrenza
internazionale, con imprese troppo piccole, scarsi investimenti in tecnologia e
comunicazione, e sempre maggior distanza tra ricchi e poveri. In media, la
posizione economica di uno degli italiani «super-stra-ricchi» vale quella di
trecentomila italiani poveri.
L’autore non si limita però a segnalare le
pecche di questa situazione politico-finanziaria e gli sbagli che ci hanno condotto ad essa, ma propone anche delle
soluzioni, indica anche cosa si può fare
per risalire la china, per riaffiorare dalle
sabbie mobili in cui stiamo affondando.
Tra le proposte illustrate nell’ultimo capitolo per far fronte al problema sociale
ed economico in cui si trova l’Italia attualmente, assume grande rilevanza una
nuova riorganizzazione della spesa pubblica in tre aree prioritarie: le tecnologie dell’informazione e comunicazione,
l’economia del verde e le attività per la
salute e i servizi sociali. Si tratta di attività ad alta intensità di lavoro con qualifiche medie e alte che permettono un
miglioramento dell’efficienza con ridotto impiego di risorse ed energie, rivolte
al mercato nazionale o a nicchie specializzate del mercato estero in modo tale
da eludere la concorrenza a basso costo
dei paesi emergenti.
Nonostante le numerose proposte che
troviamo in questo testo, alcune domande sorgono spontanee: siamo ancora in tempo per attuare tali manovre
o la crisi è ormai troppo estesa? Siamo in
grado di effettuare questi cambiamenti
nonostante siano così lontani dalla nostra realtà e ne rappresentino un radicale sconvolgimento? La speranza, vissuta
come positiva forza motrice, è l’unica risposta accettabile.
Questo è un libro che tratta argomenti
di grande interesse ed attualità in modo
semplice e diretto. Non contiene suggerimenti volti ad «addolcire la pillola»,
né punta il dito verso una persona specifica a cui attribuire tutta la colpa. L’autore si limita semplicemente a riportare la realtà dei fatti, offrendo spunti e
idee a cui ispirarsi per fronteggiare questa situazione.
È un libro indirizzato soprattutto ai gio-
re unicamente dall’alto, ma scaturire da
ognuno di noi che, nel suo piccolo, deve fare qualcosa. Come sostiene Pianta,
questi nove su dieci devono unirsi e rappresentare il punto di partenza di una
politica forte, in grado di traghettarci
fuori da questa crisi.
Tiziana Pagnani
Segnalazioni e recensioni
vani. Non parliamo certamente di un romanzo da leggere tutto d’un fiato, ma di
un testo «utile e necessario» a cui ancorare le nostre strade future. I ventenni di
oggi, che vivono sulla propria pelle questa grave situazione, devono essere in
grado di capire i motivi che ci hanno
portati fin qui, e percepire la necessità di
un cambiamento che non deve avveni-
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