Università degli studi Roma Tre Dipartimento di Giurisprudenza A.A. 2015-2016 - Secondo Semestre Diritto amministrativo I (lett. M-Z) Giulio Napolitano Casi di diritto amministrativo DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Modulo I. Funzioni pubbliche, bisogni della collettività e carenze del mercato 2 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 1. Riqualificazione urbana e tutela dei beni culturali: la Piazza Verdi di La Spezia e il tweet del Ministro Cons. St., VI, 12 febbraio 2015, n. 769 1. I fatti Nel luglio del 2009 il Comune di La Spezia, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, del Fondo Ambiente Italiano - FAI e dell’Ordine degli architetti di La Spezia, bandisce un concorso internazionale finalizzato alla selezione di un progetto di riqualificazione artistica e architettonica di una storica piazza cittadina, Piazza Verdi. Nel febbraio del 2010 la commissione giudicatrice, composta da esperti, assegna la vittoria a un progetto presentato congiuntamente da un gruppo di architetti italiani e da un noto artista francese, Daniel Buren, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1986. Il progetto prevede l’installazione di gradoni, di vasche e di 14 portali di tre metri e mezzo di altezza, il taglio di 10 pini marittimi, la creazione di un aranceto con 75 aranci, la piantumazione di ulteriori 40 alberi e quella di 480 metri di siepi fiorite. Nel 2012 il Comune di La Spezia approva definitivamente il piano. Prima di dare avvio ai lavori, l’8 maggio 2012 il Comune chiede alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria l’autorizzazione all’esecuzione del previsto intervento. L’autorizzazione della Soprintendenza giunge il 6 novembre 2012. A quel punto il Comune provvede a stipulare il contratto d’appalto per la realizzazione dell’opera con l’impresa aggiudicataria il 29 maggio 2013. Tuttavia, singoli cittadini, comitati di residenti e associazioni ambientaliste si oppongono ai lavori, contestando, in particolare, l’abbattimento del lungo filare di pini marittimi che adorna la piazza. Il 15 giugno 2013 il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo posta un messaggio sul suo profilo Twitter nel quale preannuncia la richiesta al Comune di sospendere i lavori in attesa della verifica del progetto da parte del Ministero. Pochi giorni dopo, in effetti, la Soprintendenza invita il Comune a non procedere alla rimozione delle componenti il cui interesse culturale non sia definitivamente accertato e autorizzando la prosecuzione dei lavori, con esclusione delle opere che possano riguardare l’area centrale della piazza e le sue componenti arboree. La decisione della Soprintendenza di sospendere l’esecuzione dei lavori induce l’amministrazione comunale a impugnare il provvedimento innanzi al Tar Liguria. I motivi di ricorso sono vari: in primo luogo, si sostiene che la sospensione si porrebbe in netto contrasto con la precedente autorizzazione rilasciata sempre dalla Soprintendenza; in secondo luogo, si sottolinea che le motivazioni addotte per la sospensione sarebbero insufficienti; in terzo luogo, si afferma che il potere cautelare di sospensione sarebbe esercitabile solo in assenza di atti autorizzatori, che, al contrario, nel caso di specie sono sussistenti; infine, si lamenta che le dichiarazioni via tweet del Ministro integrano un’inammissibile usurpazione di funzioni amministrative di esclusiva competenza dirigenziale. Poco tempo dopo la presentazione del ricorso, sulla vicenda interviene anche il Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Liguria che dichiara l’interesse culturale della piazza in questione e del filare alberato di pini. Tale provvedimento viene subito impugnato con motivi aggiunti dal Comune di La Spezia. Nel giudizio che si viene a instaurare intervengono ad opponendum alcune associazioni ambientaliste. Il 3 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V giudice di primo grado accoglie il ricorso condividendo buona parte delle censure proposte dal Comune di La Spezia. Dichiara il tweet del ministro atto non impugnabile, ma lo considera una spia di eccesso di potere, ossia un indizio della volontà del Ministero di intervenire nella vicenda. Le parti soccombenti, ossia il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e le associazioni ambientaliste, propongono appello avverso la sentenza del Tar Liguria. Il Comune di La Spezia, a propria volta, propone appello incidentale e, tra le varie richieste, chiede che sia affermata la natura provvedimentale del tweet e la sua l’illegittimità per eccesso di potere. Al Consiglio di Stato spetta verificare se la sospensione dei lavori e la dichiarazione dell’interesse culturale della piazza siano il risultato di provvedimenti legittimi, nonché esprimersi sul carattere provvedimentale o meno del tweet del ministro, che ha anticipato la sospensione dell’autorizzazione e la dichiarazione dell’interesse culturale della piazza. 2. La sentenza del Consiglio di Stato (...) 4. Vanno ora esaminati i motivi di appello con i quali si tende ad affermare la erroneità della sentenza di accoglimento di primo grado, nel punto in cui ha stigmatizzato l’operato della Soprintendenza, ritenendo che la richiesta di autorizzazione ai sensi dell’art. 21 da parte dell’ente proprietario del bene e il suo successivo rilascio da parte della Soprintendenza, presupponendo necessariamente l’interesse culturale del bene sussistente ope legis, rendevano del tutto superflua e ultronea la verifica negativa di cui al comma 2 dell’art. 12, finalizzata alla esclusione dell’interesse culturale del bene. L’art. 12 del D. Lgs. 22.1.2004, n. 42 prevede quanto segue: “1. Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2. I competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione. 3. Per i beni immobili dello Stato, la richiesta di cui al comma 2 è corredata da elenchi dei beni e dalle relative schede descrittive. I criteri per la predisposizione degli elenchi, le modalità di redazione delle schede descrittive e di trasmissione di elenchi e schede sono stabiliti con decreto del Ministero adottato di concerto con l’Agenzia del demanio e, per i beni immobili in uso all’amministrazione della difesa, anche con il concerto della competente direzione generale dei lavori e del demanio. Il Ministero fissa, con propri decreti, i criteri e le modalità per la predisposizione e la presentazione delle richieste di verifica, e della relativa documentazione conoscitiva, da parte degli altri soggetti di cui al comma 1. 4. Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato riscontrato l’interesse di cui al comma 2, le cose medesime sono escluse dall’applicazione delle disposizioni del presente Titolo. 4 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 5. Nel caso di verifica con esito negativo su cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, la scheda contenente i relativi dati è trasmessa ai competenti uffici affinché ne dispongano la sdemanializzazione qualora, secondo le valutazioni dell’amministrazione interessata, non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse. 6. Le cose di cui al comma 4 e quelle di cui al comma 5 per le quali si sia proceduto alla sdemanializzazione sono liberamente alienabili, ai fini del presente codice. 7. L’accertamento dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, effettuato in conformità agli indirizzi generali di cui al comma 2, costituisce dichiarazione ai sensi dell’articolo 13 ed il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dall’articolo 15, comma 2. I beni restano definitivamente sottoposti alle disposizioni del presente Titolo. 8. Le schede descrittive degli immobili di proprietà dello Stato oggetto di verifica con esito positivo, integrate con il provvedimento di cui al comma 7, confluiscono in un archivio informatico, conservato presso il Ministero e accessibile al Ministero e all’Agenzia del demanio, per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi in funzione delle rispettive competenze istituzionali. 9. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di cui al comma 1 anche qualora i soggetti cui esse appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica. 10. Il procedimento di verifica si conclude entro centoventi giorni dal ricevimento della richiesta”. La disposizione ha introdotto cautelarmente un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa, in quanto finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e conseguentemente al definitivo esonero dall’applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12 comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12 commi 5 e 6); diversamente, in caso contrario e quindi di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del codice restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali (ai sensi dell’art. 12 comma 7). Fino alla verifica effettiva dell’interesse culturale, i beni di cui all’art. 10 (tra cui anche le pubbliche piazze) rimangono comunque assoggettati alle disposizioni di tutela, sicché colui che intenda eseguire su di essi opere e lavori di qualunque genere deve preliminarmente munirsi dell’autorizzazione del soprintendente, che “è resa su progetto” e può contenere prescrizioni (art. 21 commi 4 e 5 del codice). Il Comune di La Spezia ha in effetti presentato istanza di autorizzazione ex art. 21 per i lavori di riqualificazione della piazza, autorizzazione rilasciata con provvedimento soprintendentizio n. 33062 del 6 novembre 2012. Una volta che, pertanto, sia stata ottenuta l’autorizzazione in generale prevista per ogni intervento che riguarda beni assoggettati a tutela, non si vede quale spazio possa esservi per sostenere eventualmente una ulteriore verifica, che, se non positiva, potrebbe pervenire alle opposte conseguenze della mancanza di interesse culturale (o verifica negativa). Non si vede, in sostanza, quale interesse possa muovere la Soprintendenza, una volta che essa abbia autorizzato positivamente un intervento, dando per assodata la sussistenza dell’interesse culturale dell’oggetto, a stimolare una ulteriore verifica negativa, finalizzata alla esclusione del bene dall’interesse culturale, che, al massimo, sarebbe 5 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V nell’interesse della parte diretta ad effettuare l’intervento. In presenza di una regolare autorizzazione emessa ai sensi dell’art. 21, non vi è nemmeno spazio alcuno per le misure cautelari quali l’ordine di sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 28 (tra gli atti impugnati con il ricorso originario), tranne che si tratti di opere effettuate in difformità dal progetto autorizzato, cosa che non ricorre nella specie, oppure qualora si contesti una infedele rappresentazione dello stato originario dei luoghi o delle cose di potenziale interesse culturale. L’articolo 28 su menzionato prevede la possibilità di adottare misure cautelari o preventive, ma la ratio della disposizione (in continuità storica con l’art. 28 del testo Unico del 1999 e in precedenza dall’art. 20 della L. 1 giugno 1939, n. 1089) non può che essere relativa a lavori eseguiti senza autorizzazione o in difformità della stessa, non già in caso di lavori autorizzati presupponendo positivamente l’interesse culturale, per la mancata verifica tesa, in ipotesi, a negare tale interesse. 5. Va ora esaminata la parte dei motivi di appello con i quali le appellanti associazioni e il Ministero competente sostengono la erroneità della sentenza, nel punto in cui ha annullato l’atto di annullamento in autotutela (decreto del 15 novembre 2013, n.26) della precedente autorizzazione della Soprintendenza del 6 novembre 2012 e sostengono la legittimità del decreto con cui si è affermato l’interesse culturale del filare alberato, in quanto di epoca superiore ai settanta anni. Le questioni sono strettamente connesse tra di loro, in quanto l’auto annullamento della precedente autorizzazione è giustificato dalla induzione in errore relativamente alla precisa epoca (se superiore o inferiore ai settanta anni), mentre il secondo provvedimento afferma l’interesse culturale proprio sulla base della superiorità ai settanta anni, in conformità al comma 1 dell’art. 12 del codice. (...) Il Collegio ritiene che l’autorizzazione originariamente rilasciata dalla competente Soprintendenza sia esente dai vizi di travisamento istruttorio rilevante dei fatti e pertanto non era giustificabile e legittimo l’auto annullamento motivato in tal senso, come già rilevato dal primo giudice. L’autorizzazione del 6 novembre 2012 è stata rilasciata dalla Soprintendenza sulla base di un progetto che chiaramente descriveva e implicava la rimozione del filare dei pini marittimi, sicché è difficile ritenere che su un aspetto così qualificante del chiesto intervento la competente amministrazione preposta alla tutela possa essere caduta in errore, trattandosi dell’oggetto principale (o di uno degli oggetti principali) dell’atto autorizzatorio. L’istanza di autorizzazione presentata dal Comune comprendeva, oltre a tutte le tavole progettuali ed al rendering del progetto, documentazione fotografica con chiara evidenziazione del filare di pini e anche della sua eliminazione. (...) Sulla base delle sopra esposte considerazioni, vanno pertanto respinti in quanto infondati gli appelli principali proposti dalle associazioni ambientaliste; va respinto l’appello incidentale proposto dal Ministero dei beni culturali. 6. In considerazione della reiezione degli appelli principali e dell’appello del Ministero, con conseguente conferma della sentenza appellata nella sua sostanza, si rende irrilevante l’esame degli appelli incidentali proposti dal Comune di La Spezia, divenuti improcedibili per carenza di interesse. Infatti, nel caso di pronuncia di infondatezza dell’appello principale, diventa improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l’appello incidentale condizionato svolto dall’appellato (tra varie, Cons. Stato, V, 2 ottobre 2010, n. 4921, ma già Cons. Stato, V, 21 gennaio 1992, n. 57). In realtà il 6 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Comune ha proposto appello incidentale senza qualificarlo oltremodo, chiedendo la riforma della sentenza nel punto in cui essa non ha ritenuto di annullare il “tweet” o “cinguettio” del Ministro, ma ne ha solo dedotto una spia di eccesso di potere, avendo gli organi statali avuto un ripensamento rispetto alle precedenti valutazioni soprattutto, o addirittura solo, per compiacere o per non discostarsi da posizioni pubblicamente assunte dall’autorità politica. La pretesa svolta nell’appello incidentale, ad opinione del Collegio, deve ritenersi pienamente assorbita dal confermato accoglimento della domanda di annullamento del ricorso originario, sicché è superflua sia la ricerca di una ulteriore e distinta causa di illegittimità (per quanto sia evidente quantomeno la “spia” della disfunzione) sia soprattutto l’esame della domanda, da ritenersi per logica elementare condizionata, diretta ad annullare l’atto dell’autorità politica, perché da intendersi esso già quale manifestazione di volontà attizia. Al riguardo, solo per scrupolo di completezza, il Collegio osserva che gli atti dell’autorità politica, limitati all’indirizzo, controllo e nomina ai sensi del decreto legislativo n. 165 del 2001, debbono pur sempre concretarsi nella dovuta forma tipica dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 24 settembre 2003, n. 5444, Cassazione civile, sezione II, 30 maggio 2002, n. 7913; III, 12 febbraio 2002, n. 1970), anche, e a maggior ragione, nell’attuale epoca di comunicazioni di massa, messaggi, cinguettii, seguiti ed altro, dovuti alle nuove tecnologie e alle nuove e dilaganti modalità di comunicare l’attività politica. (...) P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti, previa riunione degli stessi, respinge gli appelli proposti dalle associazioni ambientaliste e respinge altresì l’appello incidentale proposto dal Ministero per i beni culturali; dichiara improcedibili gli appelli incidentali proposti dal Comune di La Spezia. (...) 7 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. Le funzioni di certezza pubblica e il registro di stato civile. La trascrizione del matrimonio omosessuale celebrato all’estero e i poteri del Prefetto Cons. St., III, 26 ottobre 2015, n. 4899 1. I fatti Nell’ottobre 2014, due cittadine italiane, entrambe di sesso femminile, dopo aver celebrato il loro matrimonio in Spagna, presentano istanza di trascrizione dell'atto nel registro dei matrimoni tenuto presso l'Ufficio di stato civile dell'Amministrazione di Roma Capitale. Il Sindaco, in qualità di Ufficiale di stato civile, provvede alla trascrizione. Subito dopo, il Prefetto della Provincia di Roma dispone l'annullamento in via gerarchica della trascrizione e ordina all'Ufficiale di stato civile di provvedere agli adempimenti consequenziali, compresa l'annotazione del provvedimento stesso nel registro civile. Avverso il decreto prefettizio le due nubendi (già spose per l’ordinamento spagnolo) presentano ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio con lo scopo di conservare la trascrizione originaria del matrimonio contratto all’estero. Il Tar accoglie il ricorso e per effetto annulla il provvedimento con il quale era stata disposto l’annullamento della trascrizione del matrimonio. Secondo il giudice di primo grado, allo stato attuale della normativa le coppie omosessuali non vantano in Italia un diritto a contrarre matrimonio né la pretesa alla trascrizione di unioni celebrate all’estero. Allo stesso tempo, però, il decreto prefettizio è illegittimo in quanto, secondo la legge, la rettifica o la cancellazione degli atti dello stato civile costituisce prerogativa esclusiva del giudice ordinario. La sentenza viene quindi impugnata dinanzi al Consiglio di Stato in via principale dal Ministero dell’Interno e in via incidentale da Roma Capitale e dalle due ricorrenti in primo grado. 2. La decisione del Consiglio di Stato […] Il rispetto dell'ordine logico nella disamina delle censure ritualmente introdotte nel giudizio di appello impone di principiare dall'esame dell'appello incidentale, siccome afferente ad una questione (la trascrivibilità in Italia di matrimoni omosessuali contratti all'estero) logicamente antecedente rispetto a quella (il potere del Prefetto di annullare le loro trascrizioni in Italia) oggetto dell'appello principale. 2.- Mediante le censure articolate nell'appello incidentale gli originari ricorrenti reclamano, a ben vedere, il (o, meglio, l'affermazione del) diritto alla trascrizione in Italia di matrimoni omosessuali celebrati all'estero, insistendo, perciò, nel dedurre l'illegittimità della gravata circolare del Ministro dell'interno (là dove aveva impartito istruzioni impeditive di esse). (omissis) 8 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2.7- Non appare, in definitiva, configurabile, allo stato del diritto convenzionale europeo e sovranazionale, nonché della sua esegesi ad opera delle Corti istituzionalmente incaricate della loro interpretazione, un diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale, sicché il divieto dell'ordinamento nazionale di equiparazione di quest'ultimo a quello eterosessuale non può giudicarsi confliggente con i vincoli contratti dall'Italia a livello europeo o internazionale. Ne consegue che, a fronte della pacifica inconfigurabilità di un diritto (di genesi nazionale o sovranazionale) al matrimonio omosessuale, resta preclusa all'interprete ogni opzione ermeneutica creativa che conduca, all'esito di un'operazione interpretativa non imposta da vincoli costituzionali o (latu sensu) internazionali, all'equiparazione (anche ai meri fini dell'affermazione della trascrivibilità di matrimoni contratti all'estero tra persone dello stesso sesso) dei matrimoni omosessuali a quelli eterosessuali. 2.8- Non solo, ma il dibattito politico e culturale in corso in Italia sulle forme e sulle modalità del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali sconsiglia all'interprete qualsiasi forzatura (sempre indebita, ma in questo contesto ancor meno opportuna) nella lettura della normativa di riferimento che, allo stato, esclude, con formulazioni chiare e univoche, qualsivoglia omologazione tra le unioni eterosessuali e quelle omosessuali. 2.9- Si aggiunga, quale argomento conclusivo, che, aderendo alla tesi prospettata dagli originari ricorrenti, si finirebbe per ammettere, di fatto, surrettiziamente ed elusivamente il matrimonio omosessuale anche in Italia, tale essendo l'effetto dell'affermazione della trascrivibilità di quello celebrato all'estero tra cittadini italiani, nonostante l'assenza di una previsione legislativa che lo consenta e lo regoli (e, anzi, in un contesto normativo che lo esclude chiaramente, ancorché tacitamente) e, quindi, della relativa scelta (libera e politica) del Parlamento nazionale (che, si ripete, resta l'unica autorità titolare della relativa decisione, come chiarito anche dalla Corte di Strasburgo). 2.10- Alle considerazioni che precedono consegue, quindi, la reiezione dell'appello incidentale. 3.- Occorre, a questo punto, procedere all'esame dell'appello principale, con il quale il Ministero dell'interno critica il giudizio di illegittimità del decreto prefettizio di annullamento delle trascrizioni, disposte dal Sindaco di Roma Capitale, di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all'estero e della presupposta circolare. 3.1- Come già rilevato in fatto, i giudici di prima istanza, pur avendo riconosciuto l'illegittimità delle predette trascrizioni, hanno negato al Prefetto il potere di annullarle d'ufficio, reputando la relativa potestà riservata in via esclusiva al giudice ordinario (per effetto del combinato disposto degli artt. 95 d.P.R. cit. e 453 c.c.). Il Ministero appellante critica tale statuizione, sulla base dell'assunto (in sintesi) che il potere gerarchico di sovraordinazione del Prefetto al Sindaco, quale ufficiale di governo delegato alla tenuta dei registri di stato civile, comprende, in sé, anche quello (generale) di autotutela sugli atti adottati contra legem dall'organo subordinato. 3.2- Lo scrutino della fondatezza della predetta tesi esige una preliminare ricognizione dei caratteri della relazione interorganica tra Prefetto e Sindaco, nell'espletamento delle competenze considerate. Nel nostro ordinamento l'esercizio di alcune funzioni di competenza statale è stato affidato al Sindaco, che le esercita non come vertice dell'ente locale, ma nella diversa qualità di ufficiale di governo. Tale peculiare modalità organizzatoria è stata, in 9 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V particolare, decisa con riferimento alle funzioni che esigono un rapporto di prossimità con i cittadini e il cui esercizio è parso al legislatore più efficacemente esercitabile dall'organo di vertice dell'ente locale più vicino ai cittadini (il Comune). Tra le materie affidate alla cura del Sindaco quale ufficiale di governo è compresa anche la tenuta dei registri di stato civile, ad esso attribuita dall'art. 54, comma 3, d.lgs. 18 ottobre 2000, n. 267. Il particolare modello organizzativo in esame implica che la titolarità della funzione resta intestata all'amministrazione centrale (e, segnatamente, al Ministero dell'interno) e che il Sindaco la esercita solo quale organo delegato dalla legge. Un ulteriore corollario della titolarità statale della funzione attinente alla tenuta dei registri di stato civile è che il Sindaco resta soggetto, nell'esercizio delle pertinenti funzioni, alle istruzioni impartite dal Ministero dell'interno, alle quali è tenuto a conformarsi (art. 54, comma 12, d.lgs. cit. e art. 9, comma 1, d.P.R. cit.). La potestà di sovraordinazione dell'Amministrazione centrale sull'organo per legge delegato all'esercizio di una sua funzione si esplica, poi, per mezzo dell'assegnazione al Prefetto, che esercita istituzionalmente l'autorità del Ministero dell'interno sul territorio, dei poteri di vigilanza sulla tenuta degli atti dello stato civile (art. 9, comma 2, d.P.R. cit.) e di sostituzione al Sindaco, in caso di sua inerzia nell'esercizio di taluni compiti (art. 54, comma 11, d.lgs. cit.). Si tratta, come si vede, di un sistema coerente e coordinato di disposizioni che configurano la relazione interorganica in questione come di subordinazione del Sindaco al Ministero dell'interno, e, per esso, al Prefetto, e che assoggettano, quindi, il primo ai poteri di direttiva e di vigilanza del secondo (Cass. SS. UU., 13 ottobre 2009, n. 21658; Cass. Civ., sez. I, 14 febbraio 2000, n. 1599). Tale soggezione risulta, in particolare, il più logico corollario della titolarità della funzione in capo al Ministero dell'interno e della mera assegnazione al Sindaco, quale ufficiale di governo, dei compiti attinenti al suo esercizio. Il vincolo di subordinazione del Sindaco al Ministero dell'interno obbedisce, inoltre, all'esigenza di assicurare l'uniformità di indirizzo nella tenuta dei registri dello stato civile su tutto il territorio nazionale e che resterebbe vanificata se ogni Sindaco potesse decidere autonomamente sulle regole generali di amministrazione della funzione o, peggio, se potesse disattendere, senza meccanismi correttivi interni all'apparato amministrativo, le istruzioni ministeriali impartite al riguardo. 3.3- Così ricostruita la natura del rapporto interorganico in questione, occorre accertare se, tra i poteri assegnati al Prefetto, resti o meno incluso quello di annullare gli atti dello stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione. Reputa il Collegio che la potestà in questione debba intendersi implicitamente implicata dalle funzioni di direzione (art. 54, comma 12, d.lgs. cit.), sostituzione (art. 54, comma 11, d.lgs. cit.) e vigilanza (art. 9, comma 2, d.P.R. cit.). In ossequio ai criteri ermeneutici sistematico e teleologico, infatti, le predette disposizioni devono necessariamente intendersi come comprensive anche del potere di annullamento gerarchico d'ufficio da parte del Prefetto degli atti illegittimi adottati dal Sindaco, nella qualità di ufficiale di governo, senza il quale, peraltro, il loro scopo evidente, agevolmente identificabile nell'attribuzione al Prefetto di tutti i poteri idonei ad assicurare la corretta gestione della funzione in questione, resterebbe vanificato. A ben vedere, infatti, se si negasse al Prefetto la potestà in questione, la sua posizione di sovra ordinazione rispetto al Sindaco (allorché agisce come ufficiale di governo), in quanto chiaramente funzionale a garantire l'osservanza delle direttive impartite dal Ministro dell'interno ai Sindaci e, in definitiva, ad impedire disfunzioni o irregolarità nell'amministrazione dei registri di stato civile, rimarrebbe inammissibilmente 10 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V sprovvista di contenuti adeguati al raggiungimento di quel fine. Tale conclusione è stata già raggiunta dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. V, 19 giugno 2008, n. 3076), se pur nell'esame dell'esercizio di una diversa funzione amministrata dal Sindaco quale ufficiale di governo (la sicurezza pubblica), proprio in esito ad una coerente ricostruzione della natura e delle finalità della relazione interorganica in questione ed alla conseguente valorizzazione dell'esigenza di assicurare la correttezza e l'uniformità dell'amministrazione dei compiti statali delegati dalla legge al Sindaco. E non vale enfatizzare le differenze tra le due situazioni, trattandosi, in entrambi i casi, della correzione, da parte del Prefetto, di disfunzioni amministrative imputabili al Sindaco (ed apparendo, anzi, nel caso di specie, ancora più pregnante l'esigenza di autotutela, a fronte di un atto non solo illegittimo, ma inesistente o, comunque, abnorme, nel senso etimologico latino di "fuori dalla norma"). Dev'essere, quindi, affermata la sussistenza, in capo al Prefetto, della potestà di annullare le trascrizioni in questione, quale potere compreso certamente, ancorché implicitamente, nelle funzioni di direzione, sostituzione e vigilanza attribuitegli dall'ordinamento nella materia in discussione. 3.5- Non è, quindi, necessario invocare l'art. 21-nonies legge 7 agosto 1990, n. 241 a fondamento del potere di autotutela controverso, potendosi risolvere favorevolmente il problema della sua esistenza in esito all'analisi interpretativa che precede. Non può, tuttavia, non osservarsi, al riguardo, che non si ravvisano ostacoli all'applicazione della predetta, generale disposizione alla fattispecie in esame, là dove attribuisce il potere di annullare d'ufficio un atto illegittimo non solo all'organo che lo ha emanato, ma anche "ad altro organo previsto dalla legge". Non può, in particolare, ritenersi preclusiva, a tal fine, l'osservazione del difetto di una disposizione legislativa che preveda il potere del Prefetto di annullare d'ufficio gli atti dello stato civile illegittimamente adottati dal Sindaco, posto che, se si accedesse all'opzione ermeneutica per cui la norma citata esige, per la sua applicazione, l'esplicita attribuzione legislativa del potere di annullare in autotutela gli atti adottati da un altro organo, la stessa risulterebbe priva di qualunque senso in quanto inutilmente ripetitiva di una potestà già assegnata da un'altra norma (con la conseguenza che la stessa prospettazione interpretativa dev'essere disattesa). La disposizione in esame dev'essere, viceversa, letta ed applicata nel senso che è ammesso l'annullamento d'ufficio di un atto illegittimo da parte di un organo diverso da quello che lo ha emanato in tutte le ipotesi in cui una disposizione legislativa attribuisce al primo una potestà di controllo e, in generale, di sovraordinazione gerarchica che implica univocamente anche l'esercizio di poteri di autotutela. E non vale neanche a negare l'applicabilità al caso controverso dell'art. 21 nonies legge cit. il rilievo, a dire il vero poco comprensibile, che la trascrizione di un atto dello stato civile non può essere qualificata come un provvedimento amministrativo, ma come un "atto pubblico formale" (e come tale, pare di capire, estraneo all'ambito applicativo della predetta disposizione). È sufficiente, al riguardo, osservare che la suddetta distinzione non trova alcun fondamento positivo e che vanno qualificati come provvedimenti amministrativi tutti gli atti, con rilevanza esterna, emanati da una pubblica amministrazione, ancorché privi di efficacia autoritativa o costituiva e dotati di soli effetti accertativi o dichiarativi, con la conseguenza che anche gli atti dello stato civile devono essere compresi nel perimetro dell'ambito applicativo della disposizione in commento (e che, per la sua valenza generale, non tollera eccezioni o deroghe desunte in esito a incerti percorsi ermeneutici). 11 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 3.6. Così riconosciuto, in capo al Prefetto, il potere di autotutela in questione, occorre verificare se il sistema di regole che assegna al giudice civile i poteri di controllo, rettificazione e cancellazione degli atti dello stato civile (e integrato dal combinato disposto degli artt. 95 d.P.R. cit. e 453 c.c.) costituisca o meno un limite o, addirittura, una preclusione al suo esercizio (come ritenuto dai giudici di primo grado). Le disposizioni citate, in effetti, paiono (a una prima lettura) devolvere in via esclusiva al giudice ordinario i poteri di cognizione e di correzione degli atti dello stato civile. Sennonché, a ben vedere, il relativo apparato regolatorio postula, per la sua applicazione, l'esistenza di atti astrattamente idonei a costituire o a modificare lo stato delle persone, tanto da imporre un controllo giurisdizionale sulla loro corretta formazione, con la conseguenza dell'estraneità al suo ambito applicativo di atti radicalmente inefficaci, quali le trascrizioni in parola, e, quindi, del tutto incapaci (per quanto qui rileva) di assegnare alle persone menzionate nell'atto lo stato giuridico di coniugato. L'esigenza del controllo giurisdizionale, infatti, si rivela del tutto recessiva (se non inesistente), a fronte di atti inidonei a costituire lo stato delle persone ivi contemplate, dovendosi, quindi, ricercare, per la loro correzione, soluzioni e meccanismi anche diversi dalla verifica giudiziaria. Non solo, ma il sistema di regole in esame risulta costruito come funzionale (unicamente) alla tutela dei diritti e degli interessi delle persone fisiche contemplate (o pretermesse) nell'atto, e non anche alla protezione di interessi pubblici, tanto che l'art. 95, comma 2, d.P.R. cit., assegna al Procuratore della Repubblica una iniziativa meramente facoltativa (usando appositamente il verbo potere: "Il Procuratore della Repubblica può...promuovere"). Se la norma fosse stata concepita anche a tutela di un interesse pubblico, infatti, la disposizione sarebbe stata formulata con l'uso del verbo promuovere all'indicativo presente, e, cioè, con la previsione della doverosità dell'istanza, quando risulta necessaria a ripristinare la legalità violata (sarebbe stata cioè formulata con l'espressione: "Il Procuratore della Repubblica promuove il procedimento..."). L'art. 453 c.c., peraltro, per la sua univoca formulazione testuale, deve intendersi limitato all'affidamento al giudice ordinario dei soli poteri di annotazione e non può, di conseguenza, ritenersi ostativo all'esercizio dei (diversi) poteri di eliminazione dell'atto da parte dell'autorità amministrativa titolare della funzione di tenuta dei registri dello stato civile. 3.7- Né la già rilevata inefficacia degli atti in questione priva di significato l'intervento di autotutela in questione, posto che, al contrario, proprio la permanenza di un'apparenza di atto, che, ancorché inefficace, potrebbe legittimare (finché materialmente esistente) richieste ed istanze alla pubblica amministrazione di prestazioni connesse allo stato civile di coniugato (con conseguenti complicazioni burocratiche e, probabilmente, ulteriori contenziosi), impone la sua eliminazione dal mondo del diritto. E tale esigenza risulta soddisfatta solo dall'identificazione di uno strumento (anche) amministrativo (e non necessariamente giurisdizionale) di correzione di atti dello stato civile abnormi (nel senso etimologico già ricordato) ed eseguiti in difformità dalle istruzioni impartite dall'autorità statale titolare della funzione. Solo gli interventi dei Prefetti in autotutela gerarchica valgono, in effetti, a rimuovere, con garanzie di uniformità su tutto il territorio nazionale, un'apparenza di atto (che, finché resta in vita, appare idoneo a generare incertezze e difficoltà amministrative) e, quindi, in definitiva, ad assicurare la certezza del diritto connessa a questioni relative allo stato delle persone. L'esigenza appena segnalata non risulta, infatti, garantita dalla riserva in 12 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V via esclusiva del potere di cancellazione delle trascrizioni al giudice ordinario che, proprio per il carattere diffuso e indipendente della sua attività, rischia di vanificare, con interpretazioni diverse e contrastanti, l'esigenza di uniformità di indirizzo su una questione così delicata (come dimostra il decreto in data 13 marzo 2015, con cui la Corte d'Appello di Napoli ha ordinato la trascrizione di un matrimonio omosessuale celebrato all'estero). 3.8- Alle considerazioni che precedono consegue, in definitiva, l'accoglimento dell'appello del Ministero e, in riforma del capo di decisione impugnato, l'integrale reiezione del ricorso di primo grado contro il provvedimento con cui il Prefetto di Roma ha annullato le trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all'estero dagli originari ricorrenti. 4.- La novità della questione trattata e la natura degli interessi controversi giustificano la compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l'appello incidentale, accoglie quello principale e, per l'effetto, in parziale riforma della decisione appellata, respinge il ricorso di primo grado e compensa tra tutte le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio. [Omissis]». 13 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 3. I ‘volontari per la sicurezza’ e la tutela dell'ordine pubblico Corte Costituzionale, 24 giugno 2010, n. 22 6 1. I fatti Con la legge 94/2009, il legislatore introduce nuove disposizioni in materia di sicurezza pubblica, così modificando le modalità di esercizio di una delle più importanti funzioni amministrative, quella di tutela dell’ordine pubblico. Tali norme vengono emanate come reazione al clima di timore per la sicurezza pubblica e, probabilmente, sfiducia nei confronti delle ordinarie forze dei polizia, che si è diffuso nei mesi precedenti, soprattutto grazie all’eco mediatica di alcuni casi di cronaca che hanno alimentato una sensazione di mancanza di sicurezza. La volontà del Governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene è dare una risposta a questo clima prevedendo la possibilità per i privati di collaborare alla tale funzione; tuttavia, una simile scelta solleva diverse polemiche nell'ambito del dibattito parlamentare e nella società civile. Inoltre, il Consiglio Superiore della Magistratura, in un parere del 2 aprile del 2009, manifesta la sua perplessità di ordine generale sulla possibilità di derogare al principio che assegna all’autorità pubblica l’esercizio delle competenze in materia di tutela della sicurezza, escludendo che questa possa in ogni caso essere affidata ai privati. In questo quadro, viene comunque emanato l’art. 3, commi 40-44, della legge 94/2009, che prospetta la possibilità di disciplinare la formazione di gruppi di volontari che affianchino i mezzi normalmente preposti alla tutela dell’ordine pubblico - le c.d. “ronde” – come risposta al percepito incremento della violenza urbana. Il legislatore, quindi, interviene con la disciplina sopra citata, prevedendo le condizioni alle quali i Comuni possano avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio. Sul tema c’erano già stati alcuni precedenti nella legislazione di alcune Regioni, che avevano previsto i c.d. ‘volontari per la sicurezza’, anche se con differenze rispetto al modello delineato a livello statale. Contro queste disposizioni, tre regioni, la Toscana, l’Emilia Romagna e l’Umbria, ricorrono davanti alla Corte costituzionale, per contestare la violazione della competenza legislativa regionale. 2. La sentenza della Corte costituzionale […] 5. – (…) la questione di costituzionalità relativa al comma 40 dell' art. 3 della legge n. 94 del 2009 è fondata, nei limiti di seguito specificati. 5.1. - La facoltà di avvalersi di gruppi di osservatori privati volontari (cosiddette «ronde») per il controllo del territorio rappresenta un ulteriore strumento offerto ai sindaci, a fini di salvaguardia della sicurezza urbana, dai tre provvedimenti legislativi statali, recanti misure in materia di sicurezza pubblica, intervenuti, in rapida successione, a cavallo degli anni 2008-2009 (cosiddetti «pacchetti sicurezza»). Esso si affianca, infatti, al potere dei sindaci di adottare, nella veste di ufficiali del Governo, provvedimenti, «anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano [Omissis] la sicurezza urbana»: potere loro conferito dal primo dei predetti provvedimenti legislativi (art. 6 d.l. 23 maggio 2008 n. 14 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 92, recante «misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla l. 24 luglio 2008 n. 125), tramite novellazione del 4° comma dell’art. 54 d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). Nell'occasione, il legislatore - con tecnica poi reiterata in rapporto all'intervento normativo che qui interessa - ha demandato ad un decreto del Ministro dell'interno la determinazione [Omissis] della definizione del concetto di «sicurezza urbana» (art. 54, comma 4-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000 , come modificato). Tale compito è stato assolto dal d.m. 5 agosto 2008 [Omissis]. 5.2. - Tanto premesso, il problema nodale posto dalle odierne questioni di costituzionalità attiene alla valenza delle formule «sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale», che compaiono nel comma 40 dell'art. 3 della legge da ultimo citata a fini di identificazione dell'oggetto delle attività cui le associazioni di volontari sono chiamate («i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale»). In particolare, si tratta di stabilire se dette formule individuino o meno ambiti d'intervento inquadrabili nella materia «ordine pubblico e sicurezza», demandata alla legislazione esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.: materia che - in contrapposizione alla «polizia amministrativa locale», da essa espressamente esclusa - deve essere intesa, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in termini restrittivi, ossia come relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l'ordinata e civile convivenza della comunità nazionale (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2009; n. 237 e n. 222 del 2006; n. 383 e n. 95 del 2005; n. 428 del 2004). L'interrogativo richiede una risposta differenziata in rapporto alle due locuzioni che vengono in rilievo. 5.3. - Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», il dettato della norma impugnata non è in contrasto con la previsione costituzionale. Come già ricordato, questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi sul d.m. 5 agosto 2008 , che ha definito il concetto in questione con riferimento al potere dei sindaci di adottare provvedimenti secondo la previsione dell' art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000. Ai sensi dell'art. 1 del citato decreto ministeriale, la nozione di «sicurezza urbana» identifica «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». Nell'occasione, questa Corte ha ritenuto che - nonostante l'apparente ampiezza della definizione ora riprodotta - il decreto ministeriale in questione abbia comunque ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati. In tale direzione, si sono valorizzati sia la titolazione del d.l. n. 92 del 2008 (che si riferisce appunto alla «sicurezza pubblica»); sia il richiamo, contenuto nelle premesse del decreto, come fondamento giuridico dello stesso, all'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., oggetto dell'interpretazione restrittiva dianzi ricordata ad opera della giurisprudenza costituzionale; sia, ancora, la circostanza che, sempre nelle premesse, il decreto escluda espressamente dal proprio ambito di riferimento la polizia amministrativa locale [Omissis]. Alla stessa conclusione si deve pervenire con riguardo al concetto di «sicurezza urbana» che figura nella norma legislativa statale oggi impugnata, risultando anche più numerosi e stringenti gli argomenti in tale senso. A 15 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V fianco della titolazione della legge n. 94 del 2009 , che, anche in questo caso, richiama la «sicurezza pubblica», viene in particolare rilievo l'evidenziato collegamento sistematico tra il comma 40 dell'art. 3 di detta legge - che affida al sindaco la decisione di avvalersi della collaborazione delle associazioni di volontari - e il citato art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000: collegamento reso, peraltro, più evidente dalla disposizione del comma 5 di tale articolo, che già prefigurava il coinvolgimento di «soggetti privati» in rapporto ai provvedimenti sindacali a tutela della sicurezza urbana che interessassero più comuni. Di qui, dunque, la logica conseguenza che il concetto di «sicurezza urbana» debba avere l'identica valenza nei due casi: cioè quella che, in rapporto ai provvedimenti previsti dal testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, la citata sentenza n. 196 del 2009 ha già ritenuto non esorbitante dalla previsione dell'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Quanto precede trova, del resto, conferma nel d.m. 8 agosto 2009 , che, in attuazione del comma 43 della legge n. 94 del 2009 , individua gli ambiti operativi dell'attività delle associazioni in questione [Omissis]. Sotto diverso profilo, poi, l'intera disciplina dettata dalle norme impugnate si presenta coerente con una lettura del concetto di «sicurezza urbana» evocativa della sola attività di prevenzione e repressione dei reati. Significative, in tale direzione, appaiono segnatamente le circostanze che la decisione del sindaco di avvalersi delle associazioni di volontari richieda una intesa con il prefetto; che le associazioni debbano essere iscritte in un registro tenuto a cura dello stesso prefetto, previo parere, in sede di verifica dei requisiti, del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica; che il sindaco debba preferire le associazioni costituite da personale in congedo delle Forze dell'ordine, delle Forze armate o di altri Corpi dello Stato, ossia da soggetti già impegnati istituzionalmente, o talvolta utilizzati in funzione integrativa nell'esercizio di attività di prevenzione e repressione dei reati; che, infine, le segnalazioni degli osservatori siano indirizzate in via esclusiva alle Forze di polizia, statali o locali. Né può condividersi, per questo verso, l'obiezione della Regione Toscana, stando alla quale si dovrebbe escludere che il ricorso alle associazioni di volontari, previsto dalle norme impugnate, resti circoscritto nell'ambito della competenza legislativa statale di cui alla lett. h) dell'art. 117, secondo comma, Cost. , perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica, quale appunto quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell'ordine pubblico. Tale obiezione non tiene conto, a tacer d'altro, del fatto che le associazioni di volontari svolgono una attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili di ufficio, di cui venga a conoscenza ( art. 333 del codice di procedura penale ) e addirittura procedere all'arresto in flagranza nei casi previsti dall'art. 380 cod. proc. pen. , sempre quando si tratti di reati perseguibili d'ufficio ( art. 383 cod. proc. pen. ); mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa eserciti le proprie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini, «sollecitandone la collaborazione». 5.4. - La conclusione è diversa per quanto attiene al riferimento alternativo alle «situazioni di disagio sociale»: una espressione in rapporto alla quale non risulta, di contro, praticabile una lettura conforme al dettato costituzionale. La valenza semantica propria della locuzione «disagio sociale» - già di per sé assai più distante, rispetto a quella di «sicurezza urbana», dall'ambito di materia previsto dall'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. - si coniuga, difatti, all'impiego della disgiuntiva «ovvero» 16 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V («eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale»), che rende palese l'intento del legislatore di evocare situazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle sottese dalla locuzione precedente. Il rilievo letterale [Omissis] impedisce di interpretare la formula in questione in senso fortemente limitativo, tale da ridurne l'inquadramento nell'ambito dell'attività di prevenzione dei reati: ossia di ritenerla riferita a quelle sole «situazioni di disagio sociale» che, traducendosi in fattori criminogeni, determinino un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente rilevanti. In questa accezione, essa risulterebbe, infatti, già interamente inclusa nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana [Omissis]. Nella sua genericità, la formula «disagio sociale» si presta, dunque, ad abbracciare una vasta platea di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell'individuo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e altre): situazioni, che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili segnatamente alla materia dei «servizi sociali». Per reiterata affermazione di questa Corte, tale materia appartenente alla competenza legislativa regionale residuale (tra le ultime, sentenze n. 121 e n. 10 del 2010) - individua, infatti, il complesso delle attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario (ex plurimis, sentenze n. 168 e n. 124 del 2009; n. 50 del 2008; n. 287 del 2004). Non può, al riguardo, condividersi la tesi della difesa dello Stato, secondo cui le disposizioni impugnate non inciderebbero su tale competenza regionale, in quanto gli osservatori volontari previsti dalla legge n. 94 del 2009 si limitano a segnalare «situazioni critiche», senza erogare servizi. Il monitoraggio delle «situazioni critiche» rappresenta, infatti, la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del «disagio sociale» [Omissis]. Neppure può essere utilmente invocato, al fine di ricondurre l'intera disciplina in esame nell'alveo della competenza statale - come pure sostiene l'Avvocatura dello Stato - il criterio della prevalenza. L'applicazione di questo strumento per comporre le interferenze tra competenze concorrenti implica, infatti, da un lato, una disciplina che, collocandosi alla confluenza di un insieme di materie, sia espressione di un'esigenza di regolamentazione unitaria, e, dall'altro, che una tra le materie interessate possa dirsi dominante, in quanto nel complesso normativo sia rintracciabile un nucleo essenziale appartenente ad un solo ambito materiale, ovvero le diverse disposizioni perseguano una medesima finalità (sentenza n. 222 del 2006). Nell'ipotesi in esame, per contro, il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» si presenta come un elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate, quale dianzi delineata, finendo per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata [Omissis]. 6. - Il comma 40 dell' art. 3 della legge n. 94 del 2009 deve essere dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 117, quarto comma, Cost. , limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale». È da escludere, per contro, che - una volta circoscritta l'attività delle associazioni di volontari alla segnalazione dei soli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, intesa nei sensi dianzi indicati - il legislatore statale sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento di tale attività con la disciplina della polizia amministrativa locale, secondo quanto sostenuto dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria. L'art. 118, terzo comma, Cost. 17 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V prevede una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'art. 117 (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provvedere in tal senso. 7. - Le restanti questioni, concernenti i commi 41, 42 e 43 della legge n. 94 del 2009 , non sono fondate. La lesione del riparto costituzionale delle competenze deriva, infatti, esclusivamente dalla eccessiva ampiezza della previsione del comma 40 [Omissis]» 18 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 4. Programmazione territoriale e libero esercizio delle attività economiche. Il problema dell’autorizzazione ai grandi impianti per la distribuzione commerciale Tar Lombardia, Milano, I, 10 ottobre 2013, n. 2271 1. I fatti Il 9 agosto 2012, la società LIDL Italia s.r.l., uno dei maggiori operatori nel settore della grande distribuzione commerciale, presenta al Comune di San Giuliano Milanese una domanda per il rilascio dell’autorizzazione all’ampliamento della propria superficie di vendita. Obiettivo della società è l’estensione della superficie aperta al pubblico da 600 mq. a 804 mq., tramite una redistribuzione degli spazi interni dell’edificio. In particolare, l’area adibita a magazzino sarebbe ridotta a vantaggio della zona commerciale, senza modificazioni di volume e di sagoma. Il Comune, tuttavia, nega il rilascio dell’autorizzazione. Ad avviso dell’amministrazione comunale, infatti, l’ampliamento richiesto non sarebbe consentito dalle vigenti disposizioni di urbanistica commerciale recepite dal PGT (Piano di Governo del Territorio). Tali disposizioni, in particolare, escludono l’insediamento di strutture di vendita con superfici superiori ai mq. 600 all’interno di zone caratterizzate dalla prevalenza di edifici residenziali. Di conseguenza, il Comune ritiene di non poter fare altro che rigettare la richiesta. Contro questo diniego la società LIDL propone ricorso al Tar della Lombardia, sezione di Milano. 2. La sentenza del Tribunale (…) Con la prima censura la ricorrente assume che la previsione di un incondizionato divieto di apertura di medie strutture di vendita di superficie superiore a 600 mq. nella zona denominata "ambito urbano consolidato n. 2", contenuta nel PGT e, prima ancora, nei criteri di urbanistica commerciale adottati dal Comune di S. Giuliano Milanese, contrasterebbe con la direttiva servizi n. 132/2006/CE e con tutte le successive disposizioni nazionali finalizzate alla liberalizzazione dei mercati e, segnatamente, delle attività commerciali. Il motivo è fondato. (…) Le norme sopra menzionate impongono al giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica che dispongono limiti o restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, l'obbligo di effettuare un riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche, dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime (sul punto si veda la sentenza 15/3/2013 n. 38 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 31 del D.L. 201 del 2011 dell'art. 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell'art. 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 marzo 2012, n. 7, perché con essi veniva precluso l'esercizio del commercio 19 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V al dettaglio in aree a destinazione artigianale e industriale, in assenza di plausibili esigenze di tutela ambientale che potessero giustificare il divieto). L'Amministrazione intimata ha, però, obiettato che le norme sopra richiamate non potrebbero trovare applicazione nel caso di specie perché sopravvenute rispetto alla disciplina urbanistica e commerciale da essa adottata, la cui efficacia, in difetto di tempestiva impugnazione, non potrebbe più essere rimessa in discussione nell'ambito dei ricorsi riguardanti gli atti applicativi. L'obiezione non può, tuttavia, essere accolta. Invero, i provvedimenti legislativi sopra menzionati non dispongono solo per il futuro, ma contengono clausole di abrogazione attraverso le quali il legislatore statale ha manifestato la volontà di incidere sulle norme regolamentari e sugli atti amministrativi generali vigenti, imponendo alle regioni ed agli enti locali una revisione dei propri ordinamenti finalizzata ad individuare quali norme siano effettivamente necessarie per la salvaguardia degli interessi di rango primario annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale e quali, invece, siano espressione diretta o indiretta dei principi dirigistici che la direttiva servizi ha messo definitivamente fuori gioco (vedasi l'ultimo periodo del comma 2 dell'art. 31 del D.L. 201 del 2011 e il comma 4 dell'art. 1 del D.L. n. 1 del 2012). Il problema se, una volta decorso il periodo assegnato agli enti territoriali per recepire i nuovi principi nei propri ordinamenti, le norme regolamentari e gli atti amministrativi generali con essi incompatibili debbano o considerarsi automaticamente abrogati (e, quindi, non più applicabili anche nei giudizi concernenti l'impugnazione di atti applicativi) ha già trovato risposta nella giurisprudenza amministrativa, la quale ha sancito che l'inutile decorso del termine assegnato dal legislatore statale per l'adeguamento degli ordinamenti regionali e locali ai principi in materia di concorrenza determina la perdita di efficacia di ogni disposizione regionale e locale, legislativa e regolamentare, con essi incompatibili. E ciò in forza di quanto sancito dal comma 2 dell'art. 1 della L. 131 del 2003 a mente del quale le disposizioni regionali vigenti nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia (Cons. Stato, V, 5/5/2009, n. 2808; TAR Toscana 6400/2010; TAR Sicilia, Palermo, 6884/2010, TAR Friuli Venezia Giulia 145/2011). Venendo così all'esame dei vincoli posti dalla disciplina commerciale e urbanistica adottata dal Comune di S. Giuliano Milanese, il Collegio non può esimersi dall'osservare che dagli atti prodotti dall'ente territoriale a seguito dell'istruttoria disposta in corso di giudizio non è emerso alcun elemento che possa ricollegare il divieto di insediamento di medie strutture di vendita di superficie superiore a mq 600 nella zona denominata ambito urbano consolidato n. 2 ad esigenze di ordine ambientale o urbanistico. Al contrario, dalla lettura dell'indagine conoscitiva che accompagna la variante di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle disposizioni regionali disciplinanti l'attività di pianificazione e di gestione degli enti locali in materia commerciale (con la quale è stata introdotta la limitazione contestata da Lidl) emerge in modo lampante che l'istruttoria compiuta dall'ente non ha avuto riguardo ai problemi relativi all'assetto del territorio urbano, ma si è concentrata esclusivamente su un'analisi socio - economica relativa alla sufficienza e adeguatezza della rete distributiva nelle sue varie articolazioni a soddisfare la domanda. Ne deriva che i vincoli in parola, essendo il frutto di valutazioni relative ad interessi di natura economica, non attinenti profili strettamente ambientali o urbanistici, appaiono incompatibili con i principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai provvedimenti legislativi in tema di liberalizzazione sopra menzionati. Né, peraltro, a 20 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V conclusioni diverse conduce la lettura della relazione a chiarimento depositata dal Comune in esito alla richiesta istruttoria formulata dal Collegio. Ivi si afferma per la prima volta che la scelta effettuata in sede di pianificazione sarebbe stata quella di collocare all'esterno del centro abitato le medie strutture di superficie superiore a mq. 600 in quanto ciò garantirebbe una migliore accessibilità e consentirebbe di riutilizzazione di aree produttive dismesse attraverso interventi di riqualificazione urbanistica. Viceversa nelle aree residenziali, come quella in cui è ubicata la struttura gestita da Lidl, si sarebbe voluto evitare un impatto negativo sulla viabilità e, al contempo, salvaguardare la "rete distributiva storica". Siffatte considerazioni cozzano, tuttavia, con dati di comune esperienza e appaiono, inoltre, assolutamente generiche ed apodittiche. Infatti, non appare esservi alcuna incompatibilità urbanistica fra le medie strutture di vendita (anche di superficie superiore a 600 mq.) e le zone residenziali, essendo, anzi, normale, in contesti urbani moderni, la presenza di supermercati nell'ambito di zone destinate alla residenza. Con ciò non vuol negarsi il potere dei comuni di tutelare ambiti particolari come i centri storici (problema estraneo alla presente controversia) o di porre particolari limitazioni in presenza di situazioni di viabilità particolarmente critiche o di assenza di infrastrutture. Ma ciò presupporrebbe delle specifiche analisi relative al'impatto dei flussi di traffico in relazione all'assetto delle rete viaria che il Comune di S. Giuliano Milanese non risulta aver effettuato. Senza contare poi che Lidl aveva dato la sua disponibilità ad adeguare la dotazione di spazi adibiti a parcheggio in relazione alla nuova superficie di vendita (doc. n. 9 allegato al ricorso) e che la ubicazione della struttura esistente su un asse viario principale non sembra in astratto (e salvo dimostrazione del contrario che il Comune non ha fornito) essere incompatibile con un possibile aumento del flusso di autovetture dirette verso la stessa. Si consideri, inoltre, che la disciplina dell'ambito urbano consolidato n. 3, ove è consentito l'insediamento di medie strutture fino a mq 2.500, non prevede che le relative autorizzazioni possano essere rilasciate in modo indiscriminato, ma impone al richiedente di dimostrare la compatibilità del nuovo insediamento con la viabilità ed il tessuto urbano circostante. Non si comprende allora il perché una tale più flessibile disciplina non sia stata prevista anche per l'ambito urbano consolidato n. 2, consentendo alla p.a. di operare caso per caso una valutazione di compatibilità della destinazione commerciale da imprimere all'immobile con il contesto urbano circostante. Anche tale considerazione conforta la conclusione del Collegio in ordine al carattere irragionevole e sproporzionato della scelta di introdurre un generalizzato divieto di insediamento di medie strutture commerciali di superficie superiore a 600 mq. per una intera zona della città a prescindere da una specifica valutazione in ordine alle caratteristiche urbanistiche della stessa (che, lo si ripete, nella specie, appare del tutto assente). In assenza di una giustificazione ambientale e urbanistica l'esclusione delle medie strutture di superficie superiore a mq. 600 dall'ambito urbano consolidato 2 si risolve, quindi, in una misura anti concorrenziale che, di fatto, salvaguarda le imprese commerciali già presenti nella zona senza apportare alcun beneficio più generale per la collettività. La predetta disposizione contenuta nelle NTA del PGT del Comune di S. Giuliano Milanese al momento della adozione dell'impugnato provvedimento di diniego di autorizzazione all'ampliamento della superficie di vendita doveva, quindi, ritenersi abrogata per incompatibilità con la normativa sopravvenuta in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi, non avendo il Comune adempiuto all'obbligo di adeguare alla stessa i propri atti di pianificazione entro il termine previsto dall'art. 31 comma 2 ultimo periodo del 21 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V D.L. 201 del 2011. Ne consegue che anche il provvedimento impugnato, avendo fatto applicazione di una disposizione non più efficace, deve considerarsi illegittimo e deve, quindi, essere annullato. In esecuzione della presente sentenza il Comune dovrà rideterminarsi ora per allora sulla domanda di rilascio della autorizzazione all'ampliamento della superficie di vendita senza tener conto del divieto di insediamento di medie strutture commerciali con superficie superiore a mq. 600 nell'ambito urbano consolidato n. 2”. 22 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 5. La riduzione dei livelli essenziali di assistenza da parte delle Regioni per esigenze di spending review Cons. St., sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604 1. l fatti All’origine della vicenda in rassegna si pone una delibera della Giunta della Regione Piemonte – la d.G.R. n. 45-4248 del 30 luglio 2012, recante «Il nuovo modello integrato di assistenza residenziale e semiresidenziale socio-sanitaria a favore delle persone anziane non autosufficienti» – volta a ridefinire le modalità di presa in carico degli anziani non autosufficienti da parte delle strutture socio-sanitarie residenziali. La Regione modifica radicalmente il proprio modello assistenziale per le persone anziane e non autosufficienti, introducendo un meccanismo a scaglioni di definizione delle liste di attesa e disponendo un differente riparto del carico degli oneri di compartecipazione. La delibera viene impugnata dinanzi al Tar Piemonte da una pluralità di ricorrenti – Associazione promozione sociale, Unione per la tutela degli insufficienti mentali (U.T.I.M.) e Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale (U.L.C.E.S.) – per asserita violazione dei Livelli essenziali di assistenza (d’ora in poi Lea), relativamente all’area di integrazione socio-sanitaria di cui al d.P.C.M. 29 novembre 2001, Allegato n. 1, C), sub punto 9. La resistente amministrazione regionale si costituisce in giudizio eccependo, in quanto sottoposta a Piano di rientro – approvato con D.G.R. n. 1-415 del 2010 – le necessarie esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica. Il Tar adito, con ordinanza n. 609 del 2012, accoglie la domanda cautelare proposta dalle ricorrenti – seppur limitatamente alla parte relativa all’istituzione delle liste di attesa per la presa in carico dell’anziano non autosufficiente. La Regione, pertanto, con una nota del 14 dicembre 2012, comunica a tutte le ASL che, relativamente alle liste di attesa, rimane in vigore la normativa precedente (ossia la d.G.R. 42-8390 del 10 marzo 2008). Le ricorrenti, tuttavia, impugnano altresì la predetta nota, chiedendone l’annullamento, previa sospensione. Il Tar, anche in tal caso, accoglie il gravame (con ordinanza n. 141/2013). La Regione, dunque, ottempera con la nuova d.G.R. n. 14-5999, del 25 giugno 2013 – recante «Interventi per la revisione del percorso di presa in carico della persona non autosufficiente in ottemperanza all’ordinanza del TAR Piemonte n. 141/2013» – e adotta, altresì, la d.G.R. n. 85-6287, del 2 agosto 2013 – recante «Approvazione del piano tariffario delle prestazioni di assistenza residenziale per anziani non autosufficienti come previsto dalla D.G.R. 45- 4248 del 30 luglio 2012». Entrambe le nuove delibere vengono impugnate con motivi aggiunti dagli originari ricorrenti, che continuano a lamentare la violazione dei Lea (intervengono ad adiuvandum altre associazioni di categoria rappresentative di interessi collettivi, degli enti territoriali e alcuni privati). Con la sentenza n. 199 del 2014, i Giudici di prime cure si pronunciano definitivamente, nel rito e nel merito, affermando, tra l’altro: (i) l’illegittimità dell’Allegato A della d.G.R. n. 14-5999, del 25 giugno 2013 – sopravvenuta alla d.G.R. n. 45-4248 del 30 luglio 2012 – relativamente alle liste d’attesa, poiché il meccanismo ivi previsto per la presa in carico dell’anziano non autosufficiente non assicura l’inserimento immediato nelle strutture assistenziali, come invece previsto dall’ordinamento e, in particolare, dalla normativa sui Lea (normativa 23 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V che, ad avviso del Tar, non può ricevere compressione in nome di alcun altro interesse di rilievo costituzionale); (ii) l’illegittimità della d.G.R. n. 85-6287, del 2 agosto 2013, relativamente all’aumento delle quote di compartecipazione della spesa (fissate al 50%) tra Servizio sanitario regionale e utente/comune per gli inserimenti nelle strutture dedicate ai malati di Alzheimer. Tale aumento, infatti, si pone in contrasto con i Lea, i quali prevedono che le prestazioni socio-sanitarie a favore dei malati psichiatrici – tra cui rientrano anche i pazienti malati di Alzheimer – sono a totale carico del Servizio sanitario, indipendentemente dai contesti in cui vengono erogate. Ad avviso del Tar, dunque, si evidenzia un quadro complessivo denotato da carenze non accettabili a fronte del diritto degli anziani non autosufficienti di vedersi garantite cure ed assistenza sociosanitarie almeno nella misura imposta per legge e direttamente derivante dal «nucleo irriducibile» del diritto alla salute costituzionalmente garantito dall’art. 32. La Regione Piemonte presenta ricorso in appello dinanzi al Consiglio di Stato, riproducendo sostanzialmente le controdeduzioni già espresse nei confronti dell’originario ricorso. Il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 1894 del 2014, accoglie in parte la domanda cautelare dell’appellante e sospende l’esecuzione della sentenza impugnata. Ad avviso dei Giudici di seconde cure, infatti, «in presenza di inderogabili vincoli di bilancio, il livello essenziale di assistenza sanitaria costituisce un vincolo di priorità all’interno delle risorse disponibili», cosi come statuito anche dalla Consulta (cfr. Corte Cost., 27 febbraio 2013, n. 36). Con la stessa ordinanza, il Collegio dispone un‘istruttoria per richiedere al Ministero della Salute e all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) indicazioni interpretative circa gli aspetti oggetto della pronuncia del Tar e, dunque, per verificare se vi è stato o meno un uso «appropriato» delle risorse. Con la sentenza in esame, il Collegio definisce conclusivamente la vicenda. 2. La sentenza del Consiglio di Stato […] 16.2. [Omissis] Il giudizio del TAR è imperniato su valutazioni relative al rispetto o alla violazione dei livelli essenziali (LEA) con riferimento alle statuizioni di cui all'Allegato n. 1. C, punto 9, del d.P.C.M. 29 novembre 2001, sostenute anche da criteri di ordine interpretativo. Il TAR ritiene non valide le giustificazioni della Regione Piemonte che fanno riferimento agli stringenti vincoli di bilancio derivanti dal Piano di rientro, che non possono comunque valere di fronte alla violazione di livelli essenziali. [Omissis] 16.5. [Omissis] Nella impostazione della Corte il vincolo di bilancio e il rispetto dei diritti fondamentali si commisurano l'uno con l'altro nel senso che il vincolo di bilancio deve includere il rispetto dei diritti e i diritti devono a loro volta commisurarsi ad un nucleo essenziale, che sia di fatto compatibile con una prospettiva di effettiva sostenibilità e di lunga durata. I valori che si confrontano all'interno dell'equilibrio di bilancio - come risultante contabile dell'ordinamento costituzionale e legislativo compreso il sistema delle autonomie - sono quindi tutti inderogabili e coessenziali, in quanto necessari per la legittimità e la effettività l'uno dell'altro. Può succedere che - in ambito legislativo o anche amministrativo - si violino i vincoli di bilancio o si determinino scostamenti rispetto ad obiettivi vincolanti ovvero, al contrario, che si spingano i vincoli di bilancio oltre i limiti della legalità costituzionale fino a intaccare lo 24 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V spazio proprio ed essenziale dei diritti fondamentali: in entrambi i casi l'ordinamento predispone monitoraggi, controlli e meccanismi compensativi o comunque reattivi rispetto alle infrazioni, come avviene per ogni violazione dell'ordine giuridico. [Omissis] 16.6. Per quanto concerne in particolare la sanità, il sistema di contenimento e controllo della spesa - come espressione dei sopra esposti principi - si è da tempo compiutamente configurato in via normativa fino a costituire un vero, organico e assai incisivo ordinamento di settore. [Omissis] 16.7. La Corte costituzionale ha in numerosissime sentenze confermato la piena legittimità costituzionale delle norme che stabiliscono limiti alla autonomia regionale ai fini del coordinamento della finanza pubblica e della salvaguardia degli obiettivi a cui lo stesso coordinamento è finalizzato. Tali sentenze hanno quindi sancito il carattere vincolante del piano di rientro esplicitamente stabilito in via legislativa. [Omissis] Nello stesso senso va con decisione la giurisprudenza del Consiglio di Stato lungo le linee fissate in via generale sugli atti di programmazione finanziaria dall'Adunanza plenaria con le decisioni 2 maggio 2006, n. 8, e 12 aprile 2012, n. 3 e n. 4, e poi - sui temi dell'applicazione dei piani di rientro - con la costante giurisprudenza di questa Sezione per la quale si vedano da ultimo le sentenze: Consiglio di Stato, sez. III, 7 gennaio 2014, n. 2, e 2 aprile 2014, n. 1582). 16.8. [Omissis] il piano di rientro persegue contestualmente e paritariamente due ordini di obiettivi vincolanti e sottoposti a penetranti controlli nelle sedi nazionali, con conseguenti meccanismi premiali o sanzionatori: a) l'esigenza di ripristinare l'equilibrio economico-finanziario del sistema sanitario regionale interessato; b) la necessità di salvaguardare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni secondo gli standard acquisiti in campo nazionale. [Omissis] 16.9. Nel contesto normativo della finanza pubblica, con particolare riferimento alla evoluzione in corso per il controllo dei flussi di spesa nel settore della sanità, si inquadra anche la parallela evoluzione delle definizioni normative di livello essenziale per le prestazioni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria, fin dall'inizio incentrate sul criterio della massima appropriatezza (e quindi economicità), nella quale assume un crescente rilievo il collegamento della determinazione del livello essenziale stesso con la decisione sulle risorse disponibili. [Omissis] 16.10. Come risulta dalla ricostruzione svolta dell'ordinamento di settore per la spesa sanitaria, i sistemi normativi che disciplinano piani di rientro e livelli essenziali sono tra loro coerenti e coordinati. Dal combinato disposto di tali sistemi normativi derivano i tre parametri per la valutazione delle delicate ed estremamente complesse questioni sollevate nella presente causa. 16.10.1. In primo luogo, il livello essenziale è una prestazione caratterizzata da un livello uniforme che deve essere garantito a tutti i cittadini e che deve essere pertanto determinato a livello statale in rapporto alle risorse disponibili. Nei limiti in cui il livello essenziale non è determinato in modo preciso e tassativo da una fonte normativa abilitata, le singole prestazioni corrispondenti a livelli essenziali devono essere concretamente definite attraverso i processi attuativi, di monitoraggio, valutativi e negoziali, che si svolgono in ambito nazionale [Omissis] . Agli stessi processi di rango nazionale deve essere necessariamente affidata la "uniforme" interpretazione dei livelli essenziali quali risultano fissati dal d.P.C.M. 29 novembre 2001, intorno ai quali verte la presente controversia. [Omissis] 25 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Di conseguenza, in un caso come quello in esame, per i due motivi del ricorso in primo grado accolti dal TAR con riferimento alle liste di attesa e alla individuazione della categoria cui ascrivere i malati di Alzheimer, è necessario integrare il dato normativo relativo al livello della prestazione, facendo riferimento alle prassi e ai criteri riconosciuti a livello nazionale o comunque definiti dalla competente autorità statale. A maggior ragione, quando oggetto della valutazione interpretativa sono i parametri di appropriatezza associati al livello essenziale. Non bastano nei casi dubbi le norme né i dati di esperienza che emergono dal confronto tra le parti in ambito regionale. La richiesta istruttoria rivolta da questa Sezione ai competenti organi statali è pertanto, nel caso di specie, un passaggio necessario, non esistendo agli atti sufficienti dati in ordine alla esatta configurazione del livello essenziale per gli aspetti ulteriori rispetto a quelli deducibili direttamente da norme vigenti. 16.10.2. [Omissis] La giurisprudenza della Corte costituzionale ha più volte chiarito che la implementazione di prestazioni ulteriori o superiori rispetto al livello essenziale, quale risulta stabilito in ambito nazionale, non è consentita se non è contemplata dal Piano di rientro [Omissis]. Da tale giurisprudenza si ricava che una delimitazione o anche una riduzione delle prestazioni che sono al di sopra dei livelli essenziali non costituisce una loro violazione, ma al contrario, per una Regione sottoposta al Piano di rientro, costituisce un obbligo o un atto necessario, che può essere evitato solo previa dimostrazione della sua inutilità. Pertanto, gli atti di programmazione sanitaria e socioassistenziale in attuazione del Piano di rientro comportano scelte di recupero o redistribuzione di risorse anche con riferimento ai LEA se questi sono erogati al di sopra degli standard nazionali. 16.10.3. Una volta esclusa la sussistenza di una formale e diretta violazione di legge sui livelli essenziali, il terzo profilo concerne la valutazione di ragionevolezza e logicità delle scelte operate dalla Regione Piemonte nell'uso di risorse limitate attraverso il bilanciamento nell'uso tra diversi tipi di prestazioni e dei valori ad essi sottesi nonché attraverso la considerazione delle diverse alternative. È evidente che, fuori dai vincoli relativi ai livelli essenziali e da oggettivi criteri di economicità e appropriatezza, quest'ordine di scelte rientra nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa. Pertanto in ossequio al principio democratico, i soggetti abilitati dall'ordinamento ad attuare siffatta graduatoria di valori sono coloro che vantano la legittimazione elettorale e che rispondono in sede politica delle scelte effettuate. Rispetto a queste ultime il giudice può (e deve) esercitare il potere di controllo, con la cautela conseguente alla consapevolezza della estrema difficoltà delle scelte che spettano all'autorità politico-amministrativa e ai limiti della sua stessa conoscenza quando le questioni hanno portata politica generale e comportano scelte di vasta portata tra diverse alternative (di bilanciamento costi/benefici e di equa distribuzione dei sacrifici in varie ed eterogenee direzioni), alternative che quasi sempre, salvo casi del tutto eccezionali, restano estranee al singolo giudizio. Perciò, il giudice deve - secondo i principi generali in presenza di sfere di forte discrezionalità limitarsi a valutare se sussistono profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza della determinazione e dei modi di adozione della stessa; e non può esercitare un sindacato di dettaglio. Deve infatti affermarsi che, nelle valutazioni relative al recupero o alla redistribuzione di risorse derivanti dalla ridefinizione o riduzione delle prestazioni - per riportarle nei 26 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V limiti risultanti dai LEA secondo la logica propria del Piano di rientro - la discrezionalità da riconoscere alla autorità politico amministrativa è assai ampia. 16.11. Passando ad applicare i tre parametri, va considerato per primo il riferimento al primo parametro relativo alla verifica di eventuali violazioni dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali ex art. 117, comma 2, lettera m), Cost.. Deve osservarsi in primo luogo che la normativa statale sui livelli essenziali di assistenza ed in particolare, nel caso di specie, l'Allegato n. 1.C, punto 9, del d.P.C.M. 29 novembre 2001, non definisce i tempi e le modalità di erogazione per ciascuna delle prestazioni correlate a detti livelli e quindi non contiene riferimenti espliciti ai tempi di attesa, alle procedure, ai punteggi per la presa in carico degli assistiti e ai criteri da seguire. Anche in materia del regime da riservare ai malati da Alzheimer non vi sono specifici riferimenti nella normativa statale al livello essenziale in materia, così da rendere necessario estrapolare da altre norme di maggior latitudine la disciplina da applicare. [Omissis] 16.13. - Sulla base quindi dei soli dati informativi contenuti nella relazione istruttoria - e dunque prescindendo dalle considerazioni valutative, contestate dalle parti resistenti all'appello - si può escludere che allo stato siano configurabili formali livelli essenziali definiti su base normativa sugli aspetti individuati dal TAR, né che siano fino ad ora emersi nei processi attuativi e negoziali che caratterizzano l'evolversi di questa materia elementi integrativi, che consentano di riscontrare per i vari profili considerati violazioni di parametri individuati come livelli essenziali. 16.14. Le conclusioni del TAR, non risultando validamente motivate sotto il profilo della formale violazione di legge relativa a livelli essenziali come pronunciato dallo stesso Tribunale, devono tuttavia valutarsi sotto i concorrenti profili di appropriatezza e ragionevolezza delle soluzioni adottate dalla Regione Piemonte, che potrebbero giustificare le stesse conclusioni. 16.15. [Omissis] I dati forniti dalla relazione ministeriale in ordine alle prestazioni oggetto del giudizio confermano la esistenza di margini di riduzione di prestazioni ulteriori rispetto ai livelli essenziali per come sono rilevabili in ambito nazionale. Per quanto riguarda le prestazioni residenziali, la Regione Piemonte risulta essere nella fascia più alta tra le Regioni italiane dai dati desumibili dal monitoraggio sullo stato di attuazione dei livelli essenziali per il 2012 di recente pubblicato dal Ministero della sanità. In materia di prestazioni residenziali i criteri di miglioramento dei livelli di appropriatezza richiedono di ridurle a beneficio di quelle di assistenza (sanitaria o socio-assistenziale) domiciliare e semiresidenziale nei limiti in cui non siano necessarie. Tale criterio generale di appropriatezza si accentua ulteriormente nel caso degli anziani non autosufficienti, dove l'esperienza dimostra la tensione - di cui le procedure non possono non tener conto - conseguente ad una separazione di interessi tra gli anziani assistiti e le loro famiglie nella individuazione della migliore soluzione per il caso singolo, nel senso che le famiglie potrebbero spingere per la piena istituzionalizzazione dell'assistito anche ove sussistono le condizioni per la permanenza presso il nucleo familiare e le ragioni per il trattamento domiciliare o semiresidenziale. Tutto ciò concorre a confermare le motivazioni addotte dalla Regione a supporto delle procedure adottate per la presa in carico degli anziani non autosufficienti ai fini del ricovero presso strutture residenziali, salva la verifica di ragionevolezza e di specifica appropriatezza delle misure adottate nel caso di specie. Ne risulta, quindi, comprovata la esistenza di margini utilizzabili ai fini di quel particolare tipo di razionalizzazione della 27 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V spesa che il Piano di rientro necessariamente richiede e che comporta la ragionevole ripartizione dei costi del rientro, applicando nel modo più rigoroso i criteri di appropriatezza ed anche riducendo le prestazioni ulteriori rispetto ai livelli essenziali. [Omissis] 16.17. [Omissis] il TAR identifica, impropriamente, l'accesso ai servizi socio sanitari con l'accesso ad una sola delle modalità in cui questi si articolano e cioè a quella dei servizi residenziali. Né può certo sostenersi che tutte le persone non autosufficienti abbiano, per ciò stesso, diritto ad accedere ai servizi residenziali, perché l'inserimento in strutture residenziali di soggetti non autosufficienti in grado di essere efficacemente assistiti in strutture semiresidenziali o a domicilio risulterebbe una misura del tutto inappropriata, oltre che eccessivamente costosa e di fatto inapplicabile per l'enorme dilatazione del numero di posti letto che comporterebbe. 16.18. [Omissis] In sostanza, il sistema previsto dalla delibera regionale del 25 giugno 2013, se da un lato prevede una valutazione e un'attribuzione di punteggio per verificare che la persona anziana sia effettivamente non autosufficiente e per regolare l'accesso alle strutture residenziali sulla base degli effettivi bisogni sanitari e sociali dei richiedenti, dall'altro assicura la presa in carico di tutti gli anziani non autosufficienti attraverso progetti alternativi semiresidenziali e domiciliari e consente all'organo di valutazione di prevedere l'accesso alla struttura residenziale anche a favore di anziani che, pur non raggiungendo il punteggio minimo complessivo di 19 punti, presentino condizioni particolari che rendano appropriata tale soluzione. [Omissis] 16.20. [Omissis] In questa situazione di incertezza non è illogico e non può certamente essere considerato, illegittimo che, mancando uno specifico riferimento ai malati di Alzheimer nel d.P.C.M. 29 novembre 2001, la Regione abbia considerato il trattamento di tali malati come rientrante nel trattamento delle persone anziane non autosufficienti. In ogni caso resta fermo che il citato d.P.C.M. individua una quota di compartecipazione per le prestazioni residenziali terapeutiche a bassa intensità assistenziale, mentre pone a totale carico del Servizio sanitario nazionale le prestazioni sanitarie in fase intensiva ed estensiva. Ne consegue che allo stato la compartecipazione prevista dalla delibera 85-6287/2013 può considerarsi legittima interpretandola nel senso che la quota di compartecipazione non si applica per i trattamenti concernenti tale tipo di prestazioni con le modalità indicate nelle competenti sedi nazionali. [Omissis] P.Q.M . Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso in primo grado. […]» 28 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 6. Le gestione dei servizi pubblici locali e il prezzo dell’acqua Cons. St., II, par. 25 gennaio 2013, n. 267 1. l fatti Nel corso degli ultimi anni, la regolazione del servizio idrico ha conosciuto una serie di bruschi e improvvisi mutamenti. In origine il modello regolatorio era delineato nelle sue linee essenziali dalla l. 5 gennaio 1994, n. 36 e dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Esso prevedeva la cooperazione di più attori istituzionali. La CoNViRi (Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche), istituita presso il Ministero dell’ambiente, stabiliva le componenti di costo per la determinazione della tariffa del servizio. Le singole AATO (Autorità d’ambito territoriale ottimale) definivano la tariffa base e stabilivano le modalità di applicazione della stessa. Ciascun gestore, infine, era chiamato a calcolare e applicare la tariffa agli utenti. In seguito, tuttavia, le AATO sono state soppresse dalla l. 29 dicembre 2009, n. 191, sebbene il termine sia stato più volte prorogato. Allo stesso tempo, le funzioni della CoNViRi sono state assegnate prima all’Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, poi all’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG), che, per l’occasione, ha cambiato nome (diventando l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico - AEEGSI). L’AEEGSI è ora l’unica autorità che ha competenza a stabilire e ad aggiornare la tariffa base del servizio idrico, nonché i parametri di riferimento per la determinazione delle tariffe e le modalità di recupero dei costi sostenuti nell’interesse generale dai gestori del servizio. Nell’esercizio del potere di regolazione, l’AEEGSI deve attenersi ai criteri stabiliti dall’art. 154, 1° c., d.lgs. 152/2006, norma sottoposta a referendum di abrogazione parziale nei giorni 12 e 13 giugno 2011. Nella sua formulazione originaria, la norma richiamata stabiliva che il valore delle tariffe dovesse essere commisurato alla qualità del servizio prestato e ai costi di gestione delle opere, e consentire di remunerare il capitale investito dai singoli gestori privati. All’esito della consultazione popolare, la disposizione è stata abrogata nella parte in cui prevedeva che la tariffa dovesse garantire l’adeguata remunerazione del capitale. Il problema è che l’art. 154, 1° c., d.lgs. 152/2006, come risultante dal referendum, mal si coordina con altre norme dello stesso decreto legislativo. In particolare, l’art. 154, 2° c, demandava l’attuazione dei criteri tariffari di cui al comma 1 a un successivo decreto ministeriale. Poiché tale decreto non era stato ancora emanato, in virtù del richiamo operato dall’art. 170, 3° c., lett. l), d.lgs. 152/2006, ai fini dell’attuazione dei criteri tariffari, continuava a trovare applicazione il d.m. 1° agosto 1996. Quest’ultimo, tuttavia, contemplava tra i criteri di fissazione delle tariffe anche quello dell’adeguatezza della remunerazione del capitale, ossia il medesimo criterio che, contenuto nell’art. 154, 1° c., d.lgs 152/2006, era stato bocciato dal referendum. In virtù delle competenze acquisite nel 2011, l’AEEGSI approva il 28 dicembre 2012 il nuovo metodo tariffario transitorio, che non contempla il requisito della remunerazione del capitale investito dai gestori, per la determinazione delle tariffe negli anni 29 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2012 e 2013, nella prospettiva della successiva determinazione del metodo definitivo. Tuttavia, nel corso del suddetto procedimento di determinazione delle tariffe, sorgono due problemi: il primo consiste nel comprendere se il nuovo metodo transitorio si applichi ai rapporti già in essere, ossia trovi applicazione nei confronti di quegli operatori ai quali la legge riconosceva, prima del referendum, un corrispettivo per il servizio offerto tale da remunerare il capitale investito; il secondo riguarda la decorrenza del metodo transitorio elaborato dall’AEEGSI. L’Autorità risolve il primo problema in maniera netta, sostenendo che le innovazioni prodotte dal referendum possano applicarsi ai rapporti in essere. Sul secondo problema, invece, l’Autorità si mostra più titubante. Da una parte, essa ritiene possibile far decorrere l’applicazione del nuovo metodo transitorio, che non contempla la remunerazione del capitale, a partire dal 21 luglio 2011, cioè dalla data in cui è diventata efficace l’abrogazione referendaria. Dall’altra, gli operatori del settore idrico sostengono che il metodo transitorio troverebbe applicazione a partire dal 1° gennaio 2012, mentre nel periodo compreso tra il 21 luglio e il 31 dicembre 2011 rimarrebbe valido il metodo che tiene conto della remunerazione del capitale. A questa interpretazione gli operatori giungono sulla base di due motivi: in primo luogo, il referendum abrogativo non aveva intaccato né l’art. 170, d.lgs. n. 152/2006, né il d.m. 1° agosto 1996; in secondo luogo, l’AEEGSI, essendo dotata di poteri tariffari nell’ambito del servizio idrico a partire dal dicembre 2011, può esercitare quegli stessi poteri a decorrere dal 1° gennaio 2012, ma non prima. Allo scopo di sciogliere il dubbio, il 23 ottobre 2013 l’AEEGSI richiede un parere al Consiglio di Stato. In particolare, l’Autorità chiede se per effetto della parziale abrogazione referendaria dei criteri di cui all’art. 154, 1° c., d.lgs. n. 152/2006, debba ritenersi che sia stato ipso iure parzialmente abrogato in modo implicito anche il decreto ministeriale del 1996 nella parte in cui prevede la remunerazione del capitale investito, oppure se l’art. 170, 3° c., d.lgs. n. 152/2006, non inciso dal referendum, determini la vigenza del medesimo decreto fino all’adozione del nuovo metodo tariffario da parte dell'Autorità. Al Consiglio di Stato spetta pertanto pronunciarsi su tale quesito, concernente la delimitazione dell’oggetto e degli effetti del referendum del 12 e 13 giugno 2011. 2. Il parere del Consiglio di Stato (...) Premesso Con nota in data 23 ottobre 2012 l'Autorità per l'energia elettrica e il gas (d'ora in avanti Autorità) ha chiesto al Consiglio di Stato parere in merito alla decorrenza temporale delle funzioni di regolazione tariffaria che l'art. 21, comma 19, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con l. 22 dicembre 2011, n. 214, ha assegnato alla stessa Autorità nel settore dei servizi idrici. Anche al fine di meglio chiarire la portata del quesito sottoposto al Consiglio di Stato è necessario ricostruire il quadro normativo di riferimento. Come osservato, l’art. 21, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con l. 22 dicembre 2011, n. 214, disposta al comma 13 la soppressione dell'Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, ha assegnato le relative funzioni all'Autorità (comma 19), 30 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V precisando che le stesse "vengono esercitate con i medesimi poteri attribuiti all'Autorità stessa dalla legge 14 novembre 1995, n. 481". Prima che il richiamato art. 21, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, intervenisse ad investire l’Autorità delle funzioni di regolazione e controllo dei servizi idrici, l’art. l0, comma 14, lett. d), del d. l. 13 maggio 2011, n. 70, conv., con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, istitutivo della richiamata Agenzia, aveva assegnato a tale organismo, tra le altre, la funzione di "predispo[rre] il metodo tariffario per la determinazione, con riguardo a ciascuna delle quote in cui tale corrispettivo si articola, della tariffa del servizio idrico integrato, sulla base della valutazione dei costi e dei benefici dell’utilizzo delle risorse idriche e tenendo conto, in conformità ai principi sanciti dalla normativa comunitaria, sia del costo finanziario della fornitura del servizio che dei relativi costi ambientali e delle risorse, affinché siano pienamente attuati il principio del recupero dei costi ed il principio 'chi inquina paga". Ancora, l'art. 2, comma 12, lett e), l. n. 481/95 - il cui ambito di applicazione è stato esteso al settore dei servizi idrici per effetto del richiamato art. 21, comma 19, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 - prevede che l'Autorità "stabilisce e aggiorna, in relazione all'andamento del mercato, la tariffa base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe (...), nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell'interesse generale in modo da assicurare la qualità, l'efficienza del servizio e l'adeguata diffusione del medesimo sul territorio nazionale, nonché la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse di cui al comma l dell’articolo 1, tenendo separato dalla tariffa qualsiasi tributo od onere improprio". Con specifico riferimento ai criteri da seguire nella determinazione della tariffa, l'art. 154, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, prevedeva, prima del referendum popolare svoltosi in data 12 e 13 giugno 2011, che "La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina paga". Tutte le quote della tariffa del servizio idrico integrato hanno natura di corrispettivo". Gli esiti della richiamata consultazione referendaria sono stati proclamati con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 116, che ha determinato l’abrogazione parziale dell’art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a far data dal 21 luglio 2011; nella odierna formulazione, la citata disposizione prevede quindi che "La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina paga". Tutte le quote della tariffa del servizio idrico integrato hanno natura di corrispettivo". 31 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V L'art. 154, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è stato pertanto abrogato nella parte in cui prevedeva, tra i criteri per la determinazione della tariffa per il servizio idrico integrato, "l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito". Giova sin d'ora osservare che il comma 2 del medesimo art. 154 demandava l'attuazione di tali criteri tariffari ad un apposito decreto ministeriale (sino ad oggi non emanato), disponendo che: "Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, su proposta dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, tenuto conto della necessità di recuperare i costi ambientali anche secondo il principio "chi inquina paga", definisce con decreto le componenti di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell’acqua". L’art. 170, comma 3, lett. l), del medesimo d.lgs. n. 152/2006, stabilisce infine che "fino all’emanazione del decreto di cui all'art. 154, comma 2, continua ad applicarsi il D.M. 1° agosto 1996". Da ultimo, l’art. 3, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 luglio 2012 prevede che l'Autorità "definisce le componenti di costo - inclusi i costi finanziari degli investimenti e della gestione - per la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, ovvero di ciascuno dei singoli servizi che lo compongono compresi i servizi di captazione e adduzione a usi multipli e i servizi di depurazione ad usi misti civili e industriali, per i vari settori di impiego (...)" e "predispone e rivede periodicamente il metodo tariffario per la determinazione della tariffa del servizio idrico integrato, ovvero di ciascuno dei singoli servizi che lo compongono compresi i servizi di captazione e adduzione a usi multipli e i servizi di depurazione ad usi misti civili e industriali, di cui alla precedente lettera c) sulla base del riconoscimento dei costi efficienti di investimento e di esercizio sostenuti dai gestori". Ebbene, l'Autorità, sulla base del descritto quadro normativo, ha avviato il procedimento per l’esercizio del potere tariffario assegnatole in materia di servizi idrici ed in specie per l'adozione del provvedimento tariffario transitorio a valere dal 1° gennaio 2012, ma con effetto sulle tariffe degli utenti finali a decorrere dal 1° gennaio 2013: provvedimento da applicarsi nelle more dell’adozione del metodo definitivo. Con il quesito in oggetto l’Autorità chiede quindi se già a far data dal 21 luglio 2011 - ossia dalla data in cui ha avuto effetto l’intervenuta abrogazione referendaria dell’art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella parte in cui prevedeva, tra i criteri per la determinazione della tariffa per il servizio idrico integrato, "l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito" - debba attendere all’adeguamento della componente remunerativa degli investimenti riconosciuti ai gestori, con espunzione dalla tariffa, quindi, a partire dalla data suindicata, della parte relativa all’"adeguata remunerazione del capitale investito". La questione - che l'Autorità prospetta in considerazione delle posizioni divergenti al riguardo emerse nel corso delle consultazioni pubbliche avviate in vista dell’adozione del provvedimento tariffario - presenta profili di problematicità, perché se è vero, come rilevato, che a far data dal 21 luglio 2011 è stato abrogato l'art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella parte in cui prevedeva, tra i criteri per la determinazione della tariffa per il servizio idrico integrato, il criterio dell’"adeguatezza della remunerazione del capitale investito", è anche vero che quello stesso criterio è contemplato dal D.M. 1° agosto 1996, di cui l’art. 170, comma 3, lett. l), d. lgs. n. 152/2006, dispone l’ultrattività fino all’emanazione del decreto (non adottato) al 32 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V quale il citato art. 154, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 152/2006, rinvia per l'attuazione dei criteri tariffari indicati al comma 1 dello stesso art. 154. Con il quesito l'Autorità chiede, pertanto, se per effetto della parziale abrogazione per via referendaria dei criteri di cui all'art. 154, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, debba ritenersi che sia stato ipso iure parzialmente abrogato in modo implicito anche il D.M. 1° agosto 1996 nella parte in cui prevede la remunerazione del capitale investito, "o se invece l’art. 170, comma 3, lett. l), non inciso dal referendum, determini la vigenza del D.M. 1° agosto 1996 fino all’adozione del nuovo metodo tariffario da parte dell'Autorità, da emanarsi sulla base dei criteri stabiliti dall'art 154, comma 1, d.lgs. 152/06, come modificati dal d.P.R. n. 116/11, dall’art. 10, comma 14, lett. d), del d.l. n. 70111, dall'art. 3, comma 1, del d.P.C.M. 20 luglio 2012, oltre che, ovviamente, nel rispetto delle previsioni del Diritto dell’Unione europea". Considerato Con il quesito formulato l'Autorità, "premesso che l'art. 21, comma 19, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, come convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, ha sancito che i poteri di regolazione e controllo che l'Autorità può esercitare nel settore dei servizi idrici sono tutti quelli attribuiti all'Autorità (..) dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 e fermo restando che l'Autorità si atterrà scrupolosamente, nell'emanazione dei propri provvedimenti, a quanto disposto dal d.P.R. n. 116/11", chiede "se - alla stregua del quadro normativo come sopra ricostruito - l'Autorità debba tener conto, nell'ambito del richiamato provvedimento tariffario transitorio, anche del torno temporale, precedente al trasferimento ad essa delle funzioni di regolazione e controllo del settore, intercorrente tra il 21 luglio 2011 e il 31 dicembre 2011, chiarendo in particolare in quale rapporto si pongano l'abrogazione referendaria dell'art. 154, comma 1, del D.Lgs. n. 152/06, determinatasi con effetto dal 21 luglio 2011 ai sensi del d.P.R. n. 116/11, e la disposizione di cui all'art. 170, comma 3, lett. I) del medesimo D. lgs. n. 152/06". Ad avviso della Sezione assume rilievo decisivo, in sede di soluzione della questione interpretativa prospettata, la esatta determinazione della portata da riconoscere all’effetto abrogante prodottosi in conseguenza del referendum del 12 e 13 giugno 2011, i cui esiti sono stati proclamati con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 116. Come ricostruito, l’abrogazione referendaria è intervenuta sulla disposizione (art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) che, statuita la natura di corrispettivo della tariffa del servizio idrico integrato, prevede i criteri — tra i quali quello "abrogato" della adeguata remunerazione del capitale investito — per la determinazione della tariffa, la cui attuazione era demandata al decreto ministeriale cui rinvia il successivo comma 2 dello stesso art. 154. Come posto in rilievo, peraltro, per effetto della mancata adozione del decreto ministeriale previsto dall'art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ha continuato a trovare applicazione, in forza di quanto disposto dalla norma transitoria dettata dall’art. 170 dello stesso d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 , il decreto ministeriale 1° agosto 1996, recante il "Metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato". Tale provvedimento, emanato in attuazione della normativa-quadro all’epoca vigente (art. 13, l. 5 gennaio 1994, n. 36), prevede espressamente che la 33 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V tariffa di riferimento del servizio idrico integrato sia costituita, in uno ad altre componenti, dalla "remunerazione del capitale investito". Ebbene, la Sezione ritiene che per effetto del referendum svoltosi in data 12 e 13 giugno 2011, i cui esiti sono stati proclamati con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 116, in vigore a far data dal 21 luglio 2011, è stato espunto dall’ordinamento il frammento normativo incluso nell'art. 154, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 - che indicava, quale parametro di cui tener conto in sede di determinazione della tariffa per il servizio idrico integrato, quello della "adeguatezza della remunerazione del capitale investito": criterio, tuttavia, già previsto, come osservato, dall'art. 13, l. 5 gennaio 1994, n. 36 (abrogato dall'art. 175, comma 1, lett. u), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), che, nel fissare i parametri per la determinazione della tariffa, quale corrispettivo del servizio idrico integrato, rinviava ad un decreto del Ministro dei lavori pubblici, d'intesa con il Ministro dell'ambiente, l'elaborazione di un metodo normalizzato per definire le componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento. È necessario, allora, chiarire in che termini l’intervenuta abrogazione referendaria dell’art. 154, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, limitatamente alla parte in cui lo stesso aveva riguardo al parametro della "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", abbia inciso sul riferimento che allo stesso parametro era contenuto nel D.M. 1° agosto 1996. Anticipando le conclusioni, la Sezione ritiene che l'applicazione fatta dello stesso decreto 1° agosto 1996 a far data dal giorno (21 luglio 2011) in cui il referendum del 12 e 13 giugno del 2011 ha prodotto effetti non sia stata coerente - nei limiti in cui quel decreto contemplava e applicava, per la determinazione della tariffa, il criterio della adeguata remunerazione del capitale investito - con il quadro normativo risultante dalla consultazione referendaria. Tanto non già in conseguenza - è utile precisarlo - di una estensione degli effetti propri del referendum del 2011 all’art. 170, comma 3, lett. l), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, laddove stabilisce che "fino all'emanazione del decreto di cui all'art. 154, comma 2, continua ad applicarsi il D.M. 1° agosto 1996": si tratta di un’estensione che va invero certo esclusa, quella disposizione non essendo in alcun modo stata coinvolta dalla consultazione referendaria e dai relativi esiti. Al risultato interpretativo illustrato la Sezione ritiene debba pervenirsi sul rilievo per cui gli effetti propri del referendum del 2011 non possono non essersi estesi al D.M. 1° agosto 1996 (cui il richiamato art. 170 rinvia), nella parte in cui lo stesso richiamava ed applicava il criterio della "adeguatezza della remunerazione del capitale investito". Giova, al riguardo, considerare che, come ritenuto in dottrina, al referendum abrogativo è stata riconosciuta una sorta di valenza espansiva rispetto alle disposizioni legislative non coinvolte in maniera espressa dal quesito referendario, ma comunque incompatibili con la volontà manifestata dagli elettori; malgrado la l. 25 maggio 1970, n. 352, nulla disponga in merito, deve infatti ritenersi che il positivo esito referendario incida anche su tali ulteriori norme. In altri termini, l’abrogazione espressa dichiarata in esito all’accoglimento della domanda referendaria può produrre effetti con riguardo a quelle discipline legislative che, ancorché non oggetto del quesito, siano tuttavia strettamente connesse ad esso in quanto recanti norme contrastanti con la volontà abrogativa popolare. 34 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Si è al cospetto in casi siffatti, con maggiore precisione, più che di un’abrogazione tacita conseguente, di una sopravvenuta inapplicabilità o inoperatività di disposizioni legislative collegate a quelle oggetto del quesito. Spunti in tal senso si rinvengono anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale laddove è stato sostenuto che “l’eventuale esito positivo dell’iniziativa referendaria ... determina in modo automatico l’inoperatività” anche di “altre norme che si ricollegano, sul piano degli effetti pratici, a quelle oggetto del quesito” (sentenza 12 gennaio 1995, n. 3) o che, eliminata mediante referendum la possibilità di emettere certi provvedimenti a cui è collegato un onere tributario, “non può non discendere anche l’eliminazione dei relativi oneri, che verrebbero meno in ogni caso, ossia anche se non espressamente compresi nella richiesta di referendum” (sentenza 2 febbraio 1990, n. 63). Si tratta, del resto, di esito interpretativo che pare alla Sezione in linea con quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nel dichiarare ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. La Corte, invero, con sentenza 26 gennaio 2011, 26, nel sostenere che "il quesito, benché formulato con la cosiddetta tecnica del ritaglio, presenta (...) i necessari caratteri della chiarezza, coerenza ed omogeneità", ha evidenziato come sotteso al quesito fosse "chiaramente, la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua”, concludendo con la constatazione per cui “il quesito incorpora l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (…), in quanto dall’inciso proposto per l'abrogazione è dato trarre con evidenza «una matrice razionalmente unitaria” (…). Alla stregua delle esposte considerazioni, il D.M. 1° agosto 1996, limitatamente alla parte in cui considera il criterio dell’adeguatezza della remunerazione dell’investimento, ha avuto applicazione nel periodo compreso tra il 21 luglio e il 31 dicembre 2011 in contrasto con gli effetti del referendum del 12 e 13 giugno del 2011. Di tanto l’Autorità - fermo il rispetto del complessivo ed articolato quadro normativo che, sul piano nazionale ed europeo, regolamenta i criteri di calcolo della tariffa, in specie imponendo che si assicuri la copertura dei costi - terrà conto, nell’esercizio dei poteri riconosciuti alla stessa e nello svolgimento dei conseguenti ed autonomi apprezzamenti tecnici, in sede di adozione dei nuovi provvedimenti tariffari. P.Q.M. La Sezione esprime il parere nei termini di cui in motivazione. 35 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Modulo II Il disegno organizzativo dell’amministrazione e la competizione-collaborazione tra apparati pubblici 36 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 7. Il potere sostitutivo del Consiglio dei Ministri in sede di Conferenza di servizi Tar Campania, sez. I, 19 settembre 2014, n. 1617 1. I fatti Il caso prende avvio dalla richiesta avanzata da ***, in qualità di legale rappresentante della Ben-essere di Maria Vittoria Chiti e C. sas (d’ora in avanti Benessere sas), al fine di ottenere le autorizzazioni necessarie per la realizzazione di un complesso ricettivo composto da quattro fabbricati ed opere accessorie, definito country house, su un appezzamento di terreno di sito in località Sinna a Marina di Camerota (lotto individuato in Catasto terreni dal foglio n.15, particelle nn.110,256,258,260 e 273). La vicenda va scomposta in due tappe: da un parte si pone l’iter procedimentale per l’ottenimento del permesso di costruire e dall’altra il procedimento volto al conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica. Pertanto, è bene chiarire che il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e quello per il nulla osta di compatibilità paesaggistica dell’intervento, anche se connessi, restano due procedimenti distinti aventi ad oggetto beni diversi ed essendo articolati sulla base di un diverso riparto di competenze. Per motivi di coerenza logica sistematica il fatto va descritto analizzando, preliminarmente, la prima delle due tappe nella quale il Comune di Camerota, accertata la sussistenza dei presupposti normativi per l’attivazione della procedura in variante urbanistica ai sensi dell’articolo 5 dpr 20 ottobre 1998, n.447 (disposizione successivamente sostituita dall’articolo 8 del dpr 7 settembre 2010, n.160), convoca una Conferenza di servizi invitando tutte le amministrazioni coinvolte ad esprimere parere o a rilasciare la relativa autorizzazione. Vengono, in tal modo, acquisiti tutti i pareri, in particolare: il parere del Parco Nazionale del Cilento, il parere dell’azienda sanitaria locale, il parere della Soprintendenza, il parere favorevole reso come controllo di conformità in Conferenza dalla Regione Campania. In seguito all’acquisizione dei pareri, il responsabile del procedimento del Comune di Camerota, con provvedimento del 12 gennaio 2006, n.6, conclude positivamente la procedura della Conferenza di Servizi ed invia, contemporaneamente, al Consiglio Comunale di Camerota la relativa proposta di variante al Piano regolatore generale (PRG). Con deliberazione del 25 gennaio 2006 n. 2 il Consiglio approva la variante al PRG in modo tale da consentire la realizzazione della country house. Pertanto, con atto del 19 novembre 2009, n.13809 è stipulata la convenzione tra il Comune di Camerota e la società Ben-essere sas avente ad oggetto l’adempimento degli obblighi assunti dalla società richiedente e gli adempimenti di competenza del Comune per il rilascio del permesso di costruire. Il Responsabile del procedimento del Comune di Camerota rilascia alla società il permesso di costruire in variante (con provvedimento del 10 dicembre 2009, n.60) che consente alla società Ben-essere sas (con comunicazione effettuata il 4 gennaio 2010) di dare inizio ai lavori volti alla preventiva demolizione del rudere esistente e alla preparazione adeguata del sito in cui ubicare i nuovi fabbricati di residenza agricola. 37 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V A questo punto prende avvio la seconda fase della vicenda. L’approssimarsi della scadenza dell’autorizzazione paesaggistica, di cui all’articolo 146 del decreto legislativo del 22 gennaio 2004, n.42, spinge la società ad inoltrare la richiesta di rinnovo. Lo sportello unico telematico del Cilento procede, quindi, all’invio della relativa documentazione al Comune di Camerota per ricevere la prescritta relazione ambientale, la quale, una volta trasmessa, è inviata alla Soprintendenza per l’emissione del parere di competenza. La Soprintendenza, con nota del 2 settembre 2010, n.21852, chiede al Comune di Camerota di verificare l’effettiva compatibilità dell’intervento con le norme di attuazione del Piano Territoriale Paesistico del Cilento. Nonostante il Servizio Urbanistica e Funzioni delegate, in materia paesistica del Comune di Camerota, fornisce i chiarimenti richiesti, confermando la compatibilità dell’intervento proposto, la Soprintendenza solleva la necessità di dover procedere alla revisione del proprio precedente parere favorevole sul progetto in questione, comunicando l’avvio del procedimento. La società, evidenziando che la Soprintendenza tardava ad esprimere il proprio parere, chiede direttamente al Comune di Camerota l’adozione del provvedimento finale consistente nel rilascio o nel diniego dell’autorizzazione paesistica. L’autorizzazione si qualifica, infatti, come atto presupposto del permesso di costruire rilasciato e un suo ritardo nell’emanazione rischia di creare ingenti danni economici a danno della società. Il Comune, peraltro, comunica che non può concludere il procedimento sulla base di un paventato silenzio della Soprintendenza. Quest’ultima reputa, pertanto, necessario il rilascio di una nuova autorizzazione paesaggistica decidendo di archiviare il procedimento aperto per la revisione del proprio precedente parere favorevole espresso sul progetto, in quanto l’autorizzazione paesistica, emessa in seguito a tale parere, è ormai decaduta in virtù della sua validità quinquennale. Si arriva, dunque, all’epilogo dell’intera vicenda quando lo Sportello Unico Telematico del Cilento indice una conferenza di servizi per la definizione del procedimento al fine di comporre i contrasti sorti. In sede di Conferenza di Servizi la Soprintendenza continua a mostrare perplessità culminate con l’emanazione di un parere che nega l’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di una country house. La società Ben-essere sas propone, quindi, un primo ricorso innanzi al Tar Amministrativo Regionale della Campania impugnando il parere negativo della Soprintendenza del 13 ottobre 2011, n.26081 unitamente al verbale conclusivo della conferenza. Il Tar, con sentenza in forma semplificata decide in data 3 febbraio 2012 accogliendo il ricorso e annullando il provvedimento impugnato, facendo salve le successive determinazioni amministrative. In motivazione si legge che la determinazione è assunta in violazione degli obblighi di partecipazione disposti dall’articolo 10-bis della legge del 7 agosto 1990, n.241 discendendone, in via conformativa, l’obbligo, per l’amministrazione procedente, di rideterminarsi sulla materia del contendere previa attivazione di formale contraddittorio sulle questioni oggetto di analisi. In seguito alla suddetta sentenza, lo Sportello Unico Telematico del Cilento indice una Conferenza di Servizi per il giorno 25 giugno 2012. Considerando che, in sede di conferenza di servizi tutti i pareri resi sono positivi eccetto che quello della Soprintendenza, lo Sportello Unico, alla riunione del 8 aprile 2013, sospende i lavori e, 38 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V ai sensi dell’articolo 14-quater della legge 7 agosto 1990, n.241 rinvia la questione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il Consiglio dei Ministri si è riunito venerdì 26 luglio alle ore 8.45 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Presidente del Consiglio, Enrico Letta. La qualità di Segretario è rivestita dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Filippo Patroni Griffi. Il Consiglio si trova ad esaminare una serie di questioni tra le quali rientra il caso in esame. Previo incontro tecnico del 27 giugno 2013 (e preso atto del dissenso espresso in Conferenza dei Servizi dalla Soprintendenza) il Consiglio condivide il parere contrario in merito al rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di una country house nel Comune di Camerota. L’organo si pronuncia in tal senso con verbale del 26 luglio 2013. Avverso gli esiti sfavorevoli del procedimento indetto, la ricorrente propone nuovamente ricorso innanzi il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania per sentire dichiarare l’illegittimità dei provvedimenti adottati dalle diverse amministrazioni. 2. La decisione del TAR Campania Tribunale Amministrativo regionale Campania, sez. I, 19 settembre 2014, n. 1617 – Pres. Urbano – Est. Grasso – Ben-Essere d iMa. Vi. Ch. e C. S.a.s./Ministero per i beni e le attività culturali e omissis, omissis «[Omissis] 3.- Le censure, così come articolate, non appaiono persuasive. Quanto al primo motivo di doglianza, con il quale si prospetta l'abusivo superamento del termine per la conclusione del procedimento di cui all'art. 146 d. lgs. n. 42/2004 non meno che di quello di novanta giorni di cui all'art. 14 ter della l. n. 241/1990, va condiviso l'assunto, di recente ribadito da Cons. Stato, sez. IV, 4 ottobre 2013, n. 4914, della natura non perentoria dello stesso: e ciò in coerenza con il principio generale, desumibile dall'art. 152 c.p.c., secondo cui la perentorietà del termine richiede una espressa o, quanto meno, in equivoca, previsione di legge, nella specie insussistente. Per l'effetto, la contestata tardività - stante la regola che non impedisce all'Amministrazione di determinarsi anche una volta superato il termine per provvedere - non costituisce, in via di principio, ragione di possibile illegittimità dell'atto (né, per analogo ordine di ragioni, della determinazione conclusiva della conferenza di servizi). 4.- Pure destituito di fondamento è l'assunto per cui - essendo stato annullato l'esito negativo della prima conferenza di servizi - la "riedizione" del potere avrebbe dovuto sortire esito sostanzialmente vincolato, preordinato all'esclusivo rilascio dell'assenso, stante la intervenuta formalizzazione dell'assenso per silentium: tesi che si scontra, a tutto voler tacere, con la circostanza che, fin dal primo momento, la Soprintendenza aveva, anche mercé la partecipazione dei motivi ostativi, ribadito e prospettato le ragioni a sostegno del proprio dissenso in ordine alla realizzabilità, sotto il profilo paesaggistico, dell'intervento in contestazione. 39 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 5.- La ricorrente sostiene, nel merito, che l'intervento per cui è controversia (consistente, nei rammentati sensi, nella realizzazione ex novo di un complesso ricettivo turistico in zona agricola) sarebbe stato, contrariamente a quanto opinato a sostegno del parere negativo, pienamente conforme al PTP. L'assunto è, tuttavia, smentito dalla puntuale lettura ed interpretazione dell'art. 13 delle NN.TT.AA. del piano territoriale paesistico del Cilento Costiero, alla cui stregua sono vietati l'incremento dei volumi esistenti, con esclusione di quelli consistenti: a) nella realizzazione di case rurali (nel caso di suolo agricolo totalmente inedificato sotto il profilo residenziale), fermo il rispetto degli indici volumetrici previsti dalle leggi regionali di settore, con un lotto minimo di intervento di 8.000 mq ed altezza massima di ml 6,50; b) nella realizzazione di pertinenze agricole, il cui volume non deve (tra l'altro) superare gli indici previsti dalle leggi regionali di settore; c) nell'adeguamento impiantistico-funzionale, anche attraverso ampliamento fino al 10% della volumetria esistente; d) negli interventi di ristrutturazione edilizia sugli edifici o complessi di edifici destinati, ovvero da destinare, ad attività turistico -ricettiva o agrituristica; e) nella ristrutturazione urbanistica (con le prescritte limitazioni e nel rispetto di un lotto minimo di 20.000 mq) per edifici o complessi di edifici da recuperare ad uso turistico-ricettivo o agri-turistico. La stessa disciplina normativa consente che tali interventi, da realizzare comunque nel rispetto dei criteri della tutela ambientata e del prospettico migliore inserimento paesistico, possono prevedere gli incrementi necessari per il conseguimento delle dimensioni previste dalle leggi di settore prevedendo la ricomposizione tipologica e volumetrica delle preesistenze. Per quanto di interesse, giova, dunque, rilevare che la realizzazione di case rurali e di pertinenze agricole (così come il "recupero di edifici o complessi di edifici destinati, ovvero da destinare ad uso turistico-ricettivo o agri-turistico") è concessa nei soli "limiti fissati dalle norme regionali di settore". Sul punto, la L.R. 24 novembre 2001, n. 17, al comma 1 dell'art. 6 (così come modificato dalla L.R. n. 24 del 29 dicembre 2005), prevede che "al fine della valorizzazione turistica delle zone interne della Campania sono consentite attività ricettive in case rurali autorizzate dai comuni. Le strutture devono essere localizzate in fabbricati esistenti, rurali o case padronali, in comuni con non più di 10.000 abitanti secondo i dati dell'ultimo censimento oppure in comuni che ricadono anche parte nelle delimitazioni di parchi nazionali o regionali, composte da camere con eventuale angolo cottura, situate anche in fabbricati divisi ma facenti parte della stessa pertinenza di terreno". La prescrizione che impone che le strutture realizzande debbano essere localizzate in fabbricati esistenti (impeditiva della auspicata possibilità di realizzazione ex novo dell'intervento) non solo - diversamente da quanto fa mostra di opinare la ricorrente - era già entrata in vigore (con la pubblicazione sul BURC n. 69 del 30.12.2005) al momento della sfavorevole conclusione della contestata conferenza di servizi, ma soprattutto (con considerazione da riguardarsi, sotto il profilo in esame, quale assorbente) si raccordava ad analogo e preesistente limite già desumibile, ancor prima dell'emanazione della L.R. n. 17/2001, dalla generale "Disciplina dell'agriturismo" di cui alla legge legge quadro 5.12.1985, n. 730, che, all'art. 3, prescriveva come potessero essere utilizzati per attività agrituristiche "i locali siti 40 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V nell'abitazione dell'imprenditore agricolo ubicata nel fondo, nonché gli edifici o pane di essi esistenti nel fondo e non più necessari alla conduzione dello stesso". Si appalesa evidente, dunque, che, ai sensi della normativa vigente fin da epoca antecedente perfino all'istanza formulata dalla soc. Ben-Essere, l'allocazione di country house poteva avvenire soltanto in fabbricati esistenti: fabbricati che (in disparte di quanto si dovrà subito dire in ordine al rudere presente in loco) non vi era traccia nel lotto interessato dal progetto in contestazione: donde la valorizzata (ed erroneamente contestata) difformità, per quanto di ragione, dalle evocate previsioni del piano territoriale paesistico. A quanto precede va aggiunto, del resto, che ulteriore conferma dell'impossibilità normativa di realizzare ex novo country house in zona agricola si ricava dai provvedimenti di approvazione, da parte della Regione Campania, di strumenti urbanistici sia in epoca antecedente che successiva alla conferenza di servizi. La Soprintendenza ha, in proposito, a sostegno della propria posizione, utilmente richiamato: 1) il D.P.G.R.C. n. 623 del 02.11.2004 (pubblicato sul B.U.R.C. n. 57 del 22 novembre 2004), recante "ammissione al visto di conformità" del PRG del Comune di Pollica, espressamente condizionato alla eliminazione delle norme che consentivano la realizzazione di nuovi volumi e superfici da destinare ad attività ricettive, in quanto, per l'appunto, "le previsioni edificatorie per l'esercizio dell'agriturismo contrasta [va] no con le disposizioni vigenti in materia di agriturismo, le quali consentono soltanto, ai fini dell'agriturismo, l'utilizzo delle opere agricole esistenti dismesse dall'imprenditore agricolo"; 2) il D.D. n. 157/2007 (pubblicato sul BURC n. 56 del 28.10.2007), di ammissione al "visto di conformità" del PRG del Comune di Montecorvino Rovella, condizionato, in analoga guisa, all'eliminazione delle norme che prevedevano la possibilità di realizzare, in zona agricola, nuovi volumi e superfici da adibire all'uso agrituristico, in quanto "in contrasto con la norma regionale che permette [va] l'attività turistica solo attraverso il recupero delle strutture esistenti in zona agricola nei limiti della disciplina di settore". In definitiva, gli strumenti urbanistici comunali non avrebbero mai potuto consentire la realizzazione, in zona agricola, di nuovi fabbricati da destinare ad agriturismo, impedimento sussistente ancor prima dell'emanazione della legge regionale 24/2005. A tanto non sfugge, del resto, il PRG del Comune di Camerota che, in ossequio alle disposizioni normative richiamate, non prevedeva, né prevede, questa possibilità insediativa. Tale circostanza, erroneamente contestata in ricorso, impediva, con ogni evidenza, la ricorrenza della condizione prevista dall'art. 5, comma 1 del DPR 447/1998 (ora DPR 160/2010, art. 8) che consente l'approvazione di interventi in variante urbanistica solo allorquando "lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato". E ciò nel senso - esattamente valorizzato dalla Soprintendenza per cui l'istituto derogatorio previsto dall'art. 5 del DPR 447/1998 citato non avrebbe comunque potuto consentire di realizzare "in variante urbanistica" proprio ciò che era ed è esplicitamente impedito dalla legge, com'è il caso dei nuovi fabbricati da destinare ad attività ricettiva in zona agricola. Le conclusioni che precedono si palesano conformi all'orientamento già espresso, in re, dal questo Tribunale, che non ha mancato di rimarcare (cfr. TAR Salerno, sez. II, n. 550/2011), in fattispecie analoga, che "per ottenere il rilascio del 41 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V permesso di costruire ai sensi dell'art. 6 della legge r. n. 17/01, come sostituito dall'art. l comma 3 della L.R. n .24/05, occorre il presupposto dell'esistenza di un fabbricato rurale, cioè adibito già a casa rurale", in quanto "la disposizione prevede il recupero in senso turistico delle case rurali preesistenti e non è quindi possibile recuperare a tal fine un fabbricato che era un rustico anche se quasi ultimato". Anche il Consiglio di Stato ha, negli stessi sensi, confermato (cfr. sent. 5801/2011) che "la circostanza che il legislatore espressamente preveda la localizzazione di tali attività in "fabbricati esistenti, rurali o case padronali" sottende con chiarezza che il rilascio del relativo titolo edilizio è subordinato alla comprovata, materiale esistenza di un'attività rurale già avviata, e non soltanto di un fabbricato nella quale l 'attività stessa deve ancora essere iniziata: ossia, il carattere della "ruralità" dell'edificio deve risultare materialmente impresso dall'attualità dello svolgersi nel relativo fondo di pratiche agricole, di selvicoltura o di allevamento di bestiame, tipiche della "ruralità" medesima e dell'imprenditore agricolo cosi come definito dall'art. 2135 cod. civ. come sostituto dall'art. 1 del D. lgs. 18 maggio 2001 n. 228", e ciò in quanto "la finalità perseguita dal legislatore regionale si identifica [...]nel sostegno di un'attività collaterale rispetto a quelle poste in atto dall'imprenditore agricolo nel contesto di un'azienda già funzionante". Depone in tal senso anche la generale nozione di "fabbricato rurale" di cui all'art. 9 del D.L. 30 dicembre 1993 n. 557 convertito con modificazioni in L. 26 febbraio 1994 n. 133, laddove dispone che, sia pure "ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti fiscali", gli stessi debbano essere utilizzati "quale abitazione [...]dal soggetto titolare del diritto di proprietà o di altro diritta reale sul terreno per esigenze connesse all'attività agricola svolta". Nel caso di specie, non appare contestato che in loco si svolgesse un'attività rurale già avviata (essendo il terreno dichiaratamente pressoché abbandonato da anni), ma, quel che più conta, non v'è traccia di fabbricati che, sussistendone i presupposti, avrebbero potuto essere riconvertiti ad attività ricettiva. Da un diverso e concorrente punto di vista, neppure può ipotizzarsi la ricorrenza di una ipotesi di "ristrutturazione edilizia", riferita alla sussistenza, sulle aree di interesse, di un preesistente rudere. Di là da ogni altro rilievo, è noto che "una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la presenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e come tale è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione", di guisa che "la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, che non può essere equiparata al recupero edilizio non essendoci nulla da recuperare o mantenere come entità edilizia esistente e quale unità abitativa, per simile attività, perciò, deve essere richiesta apposita concessione edilizia" (così, in conformità ad orientamento consolidato, TAR Sicilia, Palermo, 4.1.2012 n. 1; TAR Campania, Salerno, sez. I, n. 608/2012; Cons. Stato, sez. V, 15aprile 2004, n. 2142). 6.- Le esposte considerazioni danno, in definitiva, conferma della fondatezza nel merito dei rilievi ostativi valorizzati, a sostegno del proprio diniego, dalla Soprintendenza. 42 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V In diverso senso, non ha pregio l'ulteriore assunto critico fondato sulla valorizzata contraddittorietà con il parere favorevole già reso con la nota n. 9090 del 17 marzo 2005. In realtà, in ordine al parere in questione (tra l'altro, formatosi sulla scorta del previgente meccanismo normativo, che legittimava l'Amministrazione statale solo al postumo annullamento tutorio per ragioni di mera legittimità) la stessa Soprintendenza, secondo risulta dalla documentazione versata in atti, aveva già attivato l'iter preordinato alla sua revisione in autotutela, arrestatosi solo in considerazione della sopravvenuta (ed assorbente) inefficacia della pregressa autorizzazione per decorso del relativo termine quinquennale. La evidenziata contraddizione, dunque, in effetti sussisteva: ma ben poteva rappresentare (non potendo la precedente, riscontrata illegittimità legittimare per ciò solo la necessaria reiterazione contra legem) presupposto per una opportuna e corretta revisione del proprio precedente operato, ricorrendone le condizioni. 7.- Non è, ancora, esatto che la Soprintendenza avrebbe avuto l'onere, giusta la normativa che disciplina la conferenza di servizio, di formalizzare, al più, un dissenso "propositivo", indicando, cioè, le soluzioni progettuale idonee a superare l'impasse procedimentale: ciò che, va detto, non può valere, per logico e diffuso intendimento, quando il parere negativo si palesi pregiudizialmente ostativo, come nella specie, a qualsiasi intervento. 8.- Le esposte considerazioni appaiono idonee anche a giustificare la reiezione degli ulteriore motivi di gravame, con i quali si mira a contestare la determinazione conclusiva assunta, in sede di "alta amministrazione", dalla Presidenza del Consiglio dei ministri: determinazione che, per quanto precede, non avrebbe potuto avere esito sostanziale difforme da quello sortito. 9.- Il ricorso, in definitiva, deve essere respinto. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. [Omissis]>> 43 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 8. Il riparto di competenze tra il Ministro dell’Economia e delle Finanze e la Banca d’Italia nella procedura di amministrazione straordinaria delle banche Cons. St., sez. III, 9 febbraio 2015, n. 657 1. I fatti La Banca Popolare di Spoleto, un istituto di credito italiano costituito il 28 aprile del 1985 con sede legale nella Regione Umbria, versa in una situazione di grave dissesto, a causa di un rilevante squilibrio nei conti che ha indotto la Banca d’Italia ad avviare la sua attività ispettiva al fine di valutare la presenza o meno di irregolarità nella gestione della Banca. Al termine dell’istruttoria, il 30 gennaio 2013 con lettera numero n.105750 la Banca d’Italia, in qualità di autorità vigilante, formula la proposta di sottoporre la Banca alla procedura di amministrazione straordinaria ai sensi dell’articolo 70, comma 1, lett a) e b) del dlgs 1 settembre 1993, n.385 del Testo unico bancario (d’ora in avanti Tub). La proposta è motivata sulla base dell’accertamento di un deficit patrimoniale di 19,4 milioni di euro. In ogni caso, le gravi perdite patrimoniali sono, secondo l’autorità indipendente, solo uno dei presupposti per i quali è stata avviata la procedura tenuto che l’avvio della amministrazione straordinaria si reputa necessario anche per l’autonomo presupposto delle gravi irregolarità nell’amministrazione e dalle gravi violazioni normative, come evidenziato nella stessa nota del 30 gennaio. In accoglimento di tale proposta, l’8 febbraio 2013, il Ministro dell’Economia e delle Finanze emana il decreto ministeriale con il quale viene disposto lo scioglimento degli organi con funzione di amministrazione e di controllo della Banca Popolare di Spoleto. La Banca è così sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria. Successivamente, con nota del 21 marzo del 2013, n.286464 la Banca d’Italia nega, altresì, l’approvazione della decisione della Banca di procedere all’aumento del capitale sociale motivando nel senso che la componente azionaria del rafforzamento ammontava a soli euro trenta milioni, mentre la restante parte dell’aumento contemplava l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni, non computabili ai fini patrimoniali prima di diciotto mesi. Peraltro, l’effettivo fabbisogno patrimoniale della banca è poi risultato di gran lunga più elevato. Su proposta delle Banca d’Italia, formulata con lettera del 28 gennaio 2014, n.93233, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con decreto del 31 gennaio 2014, n.42, proroga di ulteriori sei mesi la procedura di amministrazione straordinaria. I sigg. M.C., C.U. e M.Z., (i primi due nella qualità di consiglieri di amministrazione della Banca Popolare di Spoleto spa e il terzo nella qualità di vice Presidente del Consiglio di Amministrazione) propongono, quindi, ricorso avverso: (i) il decreto emesso dal Ministro dell’Economia e delle Finanze n.16 dell’ 8 febbraio 2013 prima citato; (ii) la proposta formulata con nota della Banca d’Italia n.0105750/13 del 30 gennaio 2013 ed il provvedimento di nomina del Collegio commissariale straordinario; (iii) il provvedimento della Banca d’Italia n.0286464/13 del 21 marzo con il quale è stato espresso diniego di approvazione della decisione della Banca Popolare di Spoleto di procedere all’aumento di capitale sociale. Contro il decreto ministeriale, i rappresentanti legali della Banca propongono ricorso innanzi al Tribunale Regionale di 44 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Giustizia Amministrativa del Lazio. Il 10 marzo 2014, il Tribunale rigetta i ricorsi affermando la legittimità del decreto ministeriale e degli atti presupposti. In seguito alla decisione del Tar, in data 13 maggio 2014, la Banca d’Italia (con provvedimento 049460/14) autorizza la convocazione dell’assemblea straordinaria degli azionisti della Banca Popolare di Spoleto ai fini della deliberazione dell’aumento di capitale per un controvalore totale di 155.277.778,00. Nello specifico, viene deliberato un aumento di capitale inscindibile in denaro con esclusione del diritto di opzione riservato al Banco Desio per un controvalore di 139.750.000,00 e un aumento di capitale scindibile in denaro di Banca Popolare di Spoleto con esclusione del diritto di opzione riservato ai dipendenti della Banca. In conseguenza di ciò, la Banca accerta con provvedimento del 13 maggio 2014, n. 0494615 la conformità delle modifiche avvenute nello statuto della Banca al principio di sana e prudente gestione. La procedura termina in data 31 luglio 2014 con la restituzione della Banca alla gestione ordinaria. Vengono, così, nominati il Consiglio di Amministrazione e il Collegio sindacale e l’acquisizione, da parte dei nuovi organi ordinari, della situazione dei conti ai sensi degli articoli 73 e 75 Tub. La decisione del giudice di prime cure, adottata in data 10 marzo 2014, è impugnata dai ricorrenti davanti al Consiglio di Stato. Gli appellanti, in particolare, censurano la decisione del Tar per non aver accolto i motivi di ricorso presentati in primo grado avverso il decreto con il quale si è disposto lo scioglimento degli organi con funzione di amministrazione e controllo e gli atti presupposti. 2. La sentenza del Consiglio di Stato Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2015, n. 657 – Pres. Giorgio Giacardi – Est. Nicola Russo – Banca Popolare di Spoleto / Ministero dell’Economia e delle Finanze e omissis, omissis «[Omissis] Nel complesso, la censura in esame concerne le relazioni istituzionali fra le amministrazioni coinvolte nella procedura di commissariamento disposta dagli artt. 70 e ss. TUB ed i limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle scelte discrezionali adottate dall’amministrazione. Giova preliminarmente evidenziare che l’art. 70 TUB, nell’individuare i presupposti soggettivi ed oggettivi necessari ai fini dell’avvio della procedura di amministrazione straordinaria, disciplina anche le competenze istituzionali nella fase iniziale della stessa. Ruolo primario viene conferito alla Banca d’Italia, la quale propone al Ministro dell’Economia e delle Finanze lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo di una banca al ricorrere di tassative condizioni. Ricevuta la proposta, il Ministro dell’Economia e delle Finanze “può disporre” con decreto detto scioglimento: questa facoltà di scelta implica una valutazione discrezionale – o, meglio, di opportunità – che il Ministro è tenuto ad effettuare sulla base della proposta avanzata dall’autorità di vigilanza. A ben vedere, infatti, l’atto di impulso della Banca d’Italia costituisce una proposta obbligatoria, senza la quale, cioè, non potrebbe iniziarsi il procedimento che conduce all’eventuale scioglimento degli organi di amministrazione e controllo dell’istituto di credito. 45 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Tuttavia, ciò non impone al Ministro dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto, in quanto l’ordinamento gli attribuisce la facoltà di discostarsi dalla proposta qualora non ritenga sussistenti i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria. La possibilità di giungere ad una conclusione differente rispetto a quella configurata dall’autorità di vigilanza implica il preventivo esperimento, da parte del Ministro, di un’istruttoria autonoma o quantomeno di una valutazione critica della proposta avanzata dalla Banca d’Italia. Pertanto, a prescindere dalla decisione – conforme o meno alla proposta dell’autorità di vigilanza – cui giungerà il Ministro dell’Economia e delle Finanze, è doverosa un’esplicita valutazione degli elementi posti a fondamento delle risultanze della Banca d’Italia. Da ciò non deriva l’illegittimità della motivazione ob relationem del decreto che dispone l’amministrazione straordinaria, ma deve censurarsi l’omesso esame critico delle “gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie” e delle previsione di “gravi perdite del patrimonio” evidenziate nella proposta dell’autorità di vigilanza. Deve, cioè, ritenersi contrario alle disposizioni legislative ivi richiamate il decreto che rinvii puramente e semplicemente agli atti ispettivi della Banca d’Italia senza averne preliminarmente esaminato in modo analitico il contenuto. I rilievi sin qui esposti vanno necessariamente analizzati alla luce dei limiti del sindacato del giudice amministrativo rispetto agli atti della pubblica amministrazione. Come è noto, la distinzione fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica presuppone, per la prima, la coesistenza del momento del giudizio – acquisizione ed esame dei fatti – e del momento della scelta – determinazione della situazione maggiormente opportuna ai fini della miglior tutela dell’interesse sottostante -, mentre la discrezionalità tecnica si concreta nella mera analisi di fatti e, perciò, non concerne il merito. In tema di sindacato del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità tecnica, una recente pronuncia di questo Consiglio ha specificato che “anche materie o discipline connotate da un forte tecnicismo settoriale, infatti, sono rette da regole e principi che, per quanto “elastiche” o “opinabili”, sono pur sempre improntate ad una intrinseca logicità e ad un’intima coerenza, alla quale anche la p.a., al pari e, anzi, più di ogni altro soggetto dell’ordinamento in ragione dell’interesse pubblico affidato alla sua cura, non può sottrarsi senza sconfinare nell’errore e, per il vizio che ne consegue, nell’eccesso di potere”. Pertanto ed a prescindere dalla denominazione del sindacato intrinseco – debole o forte – che viene effettuato in tali materie, si ritiene che il giudice possa “solo verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione” (cfr. Cons. St., sez. III, 2 aprile 2013 n. 1856, in tal senso, più di recente, anche Cons. St., sez. IV, 22 dicembre 2014 n. 6313). Per quanto attiene al merito amministrativo, invece, il sindacato del giudice deve arrestarsi dopo aver verificato la legittimità delle regole tecniche sottostanti alla scelta dell’amministrazione, poiché “diversamente vi sarebbe un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, titolare del potere esercitato” (cfr. Cons. St., sez. VI, 13 settembre 2012 n. 4873). 46 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Delineato l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in subiecta materia, occorre individuare, nel caso in esame, le attività che possono essere ricondotte all’esercizio della discrezionalità tecnica e quelle che al contrario afferiscono al merito amministrativo, non sindacabile dall’autorità giurisdizionale. Alla luce di quanto sin qui esposto, deriva che nella fase di impulso del procedimento descritto dagli artt. 70 e ss. Del TUB, una valutazione di merito, insindacabile dal giudice amministrativo, sussista in relazione alla scelta di disporre o meno l’amministrazione straordinaria ad un istituto di credito. Esula da questa tipologia di valutazione, rientrando nell’alveo della discrezionalità tecnica, l’individuazione delle modalità di esercizio del potere istruttorio sui fatti che costituiscono il presupposto della scelta effettuata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. In definitiva, il Collegio ritiene erronea la decisione impugnata nella parte in cui non ha rilevato l’eccesso di potere per difetto di istruttoria con riferimento al decreto n. 16 dell’8 febbraio 2013: il Ministro dell’Economia e delle Finanze, nel condividere gli esiti e le soluzioni contenuti nella proposta avanzata dall’autorità di vigilanza, avrebbe dovuto eseguire un’attività istruttoria, anche al fine di dare contezza della permanenza dei requisiti oggettivi e soggettivi necessari ad attivare la procedura di amministrazione straordinaria, nonostante l’intervenuto mutamento della situazione patrimoniale della Banca Popolare di Spoleto spa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, e previamente riuniti, li accoglie e, per l’effetto, riforma le sentenze impugnate nei sensi di cui in motivazione. 47 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 9. L’imposizione alle autorità indipendenti di limiti e vincoli di carattere finanziario Cons St. VI, ord. 15 maggio 2015, n. 2475 1. I fatti L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (di seguito AGCOM o Autorità) è stata istituita nel 1997 dalla legge n. 249 quale autorità indipendente deputata alla regolazione e alla vigilanza nel settore delle telecomunicazioni (oltre che in quello della radiotelevisione). La legge istitutiva ha fin dall’origine riconosciuto ampia autonomia contabile, finanziaria ed economica all’Autorità, nell’implicito presupposto che ciò costituisse una delle condizioni fondamentali della sua indipendenza. L’elevato grado di autonomia non è venuto meno nel momento in cui la legge 23 dicembre 2005, n. 266, ha introdotto per diverse autorità indipendenti un meccanismo di finanziamento basato non più su trasferimenti statali ma su prelievi a carico dei soggetti regolati. Nel frattempo, anche le direttive comunitarie nn. 2002/21/CE e 2009/140/CE hanno inteso tutelare espressamente l’autonomia finanziaria delle autorità nazionali di regolamentazione nel settore delle comunicazioni elettroniche nell’ambito di una più complessiva disciplina europea del settore volto a favorire l’introduzione della concorrenza nel mercato interno e la tutela dei consumatori. La legge n. 196/2009, però, nell’ambito delle misure di contenimento della spesa pubblica, adottava una definizione omnicomprensiva di pubblica amministrazione, rinviando a un apposito elenco predisposto dall’Istat l’individuazione puntuale delle amministrazioni e degli enti soggetti ai vincoli di finanza pubblica via via introdotti dal legislatore. A seguito del decreto-legge n. 16/2012, che provvedeva ad allargare ulteriormente i criteri per la predisposizione della lista menzionando espressamente anche le autorità indipendenti, l’Istat pubblicava sulla Gazzetta ufficiale del 28/09/2012 il comunicato contenente il nuovo Elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato ai sensi dell'art. 1, comma 3, Legge n. 196/2009. L’AGCOM con il ricorso al TAR del Lazio n. 10096/2012, impugnava il suddetto elenco, perché tra i soggetti qualificati come amministrazioni pubbliche ai fini della soggezione alle misure di finanza pubblica veniva inserita anche l’AGCOM. A sostegno del ricorso l’AGCOM lamentava la non pertinenza dell’inserimento della stessa nell’elenco, in quanto soggetto finanziato a carico degli operatori regolati e non della fiscalità generale. L’Autorità inoltre evidenziava la violazione degli articoli 111 e 117 della Costituzione, per mancata osservanza delle direttive numm. 2002/21/CE e 2009/140/CE, atteso che il complesso di atti amministrativi e legislativi emanati sortirebbe l’effetto di imporre nei confronti di AGCOM vincoli di natura organizzativa e finanziaria idonei a ridurre l’efficienza dell’intervento regolatorio nel settore delle telecomunicazioni. Si eccepiva, infine, la non corretta applicazione del Regolamento (CE) n. 2223/96, relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità, dal momento che l’AGCOM risultava carente dei requisiti che consentirebbero la sua inclusione nell’ambito del Settore S13, amministrazioni 48 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V pubbliche, del Regolamento in questione. Il Consiglio di Stato con sentenza 6014/12, emessa in un giudizio relativo a un precedente elenco e prima che il TAR giudicasse sul ricorso in oggetto, affermava però la legittimità dell’inserimento dell’AGCOM nell’elenco ISTAT, motivandola con la natura di amministrazione in senso stretto di tale ente. L’AGCOM, infatti, a prescindere dalla natura, esercita comunque funzioni pubbliche, con la conseguente necessaria soggezione di questa ai vincoli generali volti al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e in coerenza con la natura tributaria dei contributi imposti dall’AGCOM ai soggetti sottoposti alla sua vigilanza. Con la sentenza n. 5945/2013, quindi, il TAR Lazio respingeva il ricorso dell’AGCOM, allineandosi a quanto sostenuto dal Consiglio di Stato. Tale sentenza veniva appellata dinanzi al Consiglio di Stato, ma con motivazioni diverse da quelle di primo grado. Infatti, non si contestava più l’inclusione dell’AGCOM all’interno dell’elenco ISTAT, sia perché la citata sentenza del Consiglio di Stato 6014/2012 aveva già definito la questione in senso avverso all’appellante, sia perché nel frattempo il DL 16/2012 aveva espressamente esteso all’AGCOM la normativa di finanza pubblica. Al contrario, l’Autorità appellante lamentava come il primo Giudice non avesse considerato che le disposizioni legislative e amministrative che le impongono il rispetto delle disposizioni in materia di finanza pubblica risultino incompatibili con il principio di autonomia finanziaria che le deve essere assicurata in quanto ANR nel settore delle reti e servizi di comunicazione elettronica. In particolare, con l’atto di appello l’Autorità osservava che l’incondizionato assoggettamento delle ANR alle norme nazionali in tema di finanza pubblica è idonea a privare tali Autorità “di qualsiasi margine di autonomia nella scelta dei modi e delle tecniche attraverso le quali realizzare il contenimento della spesa”, e che l’assoggettamento a tali norme comportava l’applicazione nei suoi confronti “[di] misure limitative estremamente specifiche, tali da escludere qualsiasi margine di autodeterminazione delle stesse con riguardo alle strategie da adottare per conseguire l’obiettivo del contenimento della spesa”. 2. L’ordinanza del Consiglio di Stato (…) Ad avviso del Collegio la questione della legittimità de iure communitario dell’elenco ISTAT pubblicato il 28 settembre 2012 non risulta rilevante ai fini del decidere e se ne può prescindere ai fini della presente decisione. E’ infatti pacifico in atti che, a seguito delle modifiche introdotte dall’articolo 5 del decreto-legge n. 16 del 2012, l’attuale testo della l. 196 del 2009, articolo 1, comma 2 includa in ogni caso le “Autorità indipendenti” (quale l’AGCOM) fra gli enti ed organismi nei cui confronti trovano applicazione le disposizioni in materia di finanza pubblica. […] Consapevole di ciò, in sede di appello l’AGCOM ha in parte precisato ed emendato i propri motivi di ricorso e ha affermato che l’applicazione nei suoi confronti delle disposizioni in materia di finanza pubblica (che discenda da fonte amministrativa o da fonte legislativa) risulti comunque violativa delle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione e, segnatamente, delle direttive 2002/20/CE, 2002/21/CE e 2009/140/CE. […] D’altra parte, è innegabile che le questioni sollevate dall’AGCOM (che comunque non risultano manifestamente infondate) siano rilevanti ai fini della decisione finale. […] Siccome nel caso in esame la questione di interpretazione ed applicazione del 49 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V diritto dell’Unione risulta rilevante ai fini della decisione finale, questo Giudice di ultima istanza ritiene che essa debba comunque essere sottoposta alla Corte a prescindere dal suo maggiore o minore grado di opinabilità. […] Ai fini del presente giudizio risulta necessario stabilire se la normativa nazionale dinanzi descritta (la quale assoggetta anche le autorità nazionali di regolamentazione di cui all’articolo 13 della direttiva 2002/21/CE alle generali disposizioni in materia di finanza pubblica che interessano tutte le pubbliche amministrazioni e, in particolare, alle disposizioni in tema di contenimento e razionalizzazione delle spese delle amministrazioni pubbliche) risulti in contrasto: - con i principi di imparzialità ed indipendenza - anche sotto il profilo finanziario ed organizzativo - che devono essere necessariamente riconosciuti alle richiamate autorità nazionali di regolamentazione; - con il principio di sostanziale autofinanziamento delle attività di gestione, controllo e applicazione del regime di autorizzazione generale ai sensi dell’articolo 12 della direttiva 2002/20/CE (c.d. ‘direttiva autorizzazioni’). Per quanto riguarda le ragioni che fanno sorgere i dubbi di compatibilità fra le disposizioni nazionali richiamate e le pertinenti disposizioni del diritto dell’UE, si osserva quanto segue. In primo luogo, la pertinente normativa comunitaria (direttiva 2002/21/CE, articolo 11) sottolinea in modo puntuale la necessaria indipendenza che deve essere assicurata dagli Stati membri alle Autorità nazionali di regolamentazione, al fine di assicurare l’imparzialità delle loro decisioni. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha a sua volta sottolineato che gli Stati membri sono tenuti a garantire l’indipendenza delle ANR affinché queste ultime esercitino i loro poteri in modo imparziale e trasparente (in tal senso: CGUE, sentenza 3 dicembre 2009 in causa C-424/07, punto 54; id., sentenza 6 marzo 2008 in causa C- 82/07, punto 13). Vi è ragione di ritenere che la richiamata indipendenza possa comportare non solo il riconoscimento di “risorse finanziarie e umane adeguate per svolgere i compiti loro assegnati” (direttiva 2002/21/CE, articolo 3, paragrafo 3) ma anche una piena autonomia per le ANR nel decidere se e in quale misura operare eventuali riduzioni di spesa complessiva. In primo luogo si potrebbe ritenere che il richiamato principio di indipendenza (al quale la direttiva 2009/140/CE aggiunge anche il principio dell’autonomia di bilancio) comporti – in alternativa -: i) o una integrale sottrazione delle ANR alle disposizioni in materia di finanza pubblica che valgono per la generalità delle amministrazioni pubbliche; ii) oppure la sola possibilità per il Legislatore nazionale di imporre alle ANR vincoli e obiettivi ‘di risultato’, lasciando comunque le Autorità medesime libere di individuare, nell’ambito della loro autonomia, le modalità concrete con cui perseguire le finalità generali di finanza pubblica (si tratta di un modello che il Legislatore italiano ha riservato, ad esempio, alla Banca d’Italia (- articolo 3 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 -). In tal caso, resterebbe vietato al Legislatore nazionale di imporre alle ANR tagli di bilancio di tipo ‘lineare’ –i.e.: in misura percentuale fissa - quali quelli di cui alla legge 311 del 2004, articolo 1, comma 5 e di cui al decreto-legge 223 del 2006, articolo 22. In terzo luogo si potrebbe ritenere che il principio di tendenziale autofinanziamento delle attività di gestione, controllo ed applicazione del regime di autorizzazione (direttiva 50 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2002/20/CE, articolo 12) consenta ai Legislatori nazionali di imporre tagli di bilancio alle ANR, ma soltanto per le quote di bilancio che derivano da fonte statale (e che esulano, quindi, dal regime di autofinanziamento). In tal caso, quindi, i tagli di bilancio non potrebbero operare nei confronti delle quote di bilancio delle ANR che derivano da un regime di autofinanziamento. Il Consiglio di Stato arrivato a questo punto si avvale della facoltà riconosciuta ai giudici di rinvio di indicare succintamente il proprio punto di vista sulla soluzione da dare alla questione pregiudiziale sollevata. In primo luogo sembra al Collegio che i principi di indipendenza e imparzialità delle ANR non risultino violati e compressi in modo – per così dire – ‘automatico’ per il solo fatto che nei confronti di tali Autorità vengano applicate le generali disposizioni nazionali in materia di finanza pubblica (ovvero, disposizioni specifiche di riduzione delle spese quali quelle di cui alla legge 311 del 2004, articolo 1, comma 5 o quelle di cui al decreto-legge 223 del 2006, articolo 22). Allo stadio attuale di evoluzione del diritto dell’Unione europea e nazionale, alle ANR sono certamente riconosciuti particolari prerogative di indipendenza e imparzialità. Tuttavia, a tali Autorità non è riconosciuto uno status talmente differenziato e speciale rispetto alla generalità delle altre amministrazioni pubbliche da rendere ipso facto illegittima una qualunque disposizione nazionale la quale assoggetti tali Autorità alle disposizioni in materia di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica che operano per la generalità delle amministrazioni pubbliche. Una siffatta disposizione nazionale potrebbe essere considerata in contrasto con la pertinente normativa dell’Unione europea solo laddove sia dimostrato in concreto che, per i caratteri quantitativi o qualitativi del taglio disposto si determini un impedimento effettivo e concreto alla capacità, per la singola ANR, di disporre “di tutte le risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati” (direttiva 2002/21/CE, considerando 11). Ma un siffatto impedimento non può essere presunto per il solo fatto che una normativa di contenimento e razionalizzazione sia stata in concreto estesa anche alle ANR, risultando al contrario necessaria una prova adeguata in tal senso […]. Ma l’Autorità appellante non ha fornito una siffatta prova, essendosi – piuttosto – limitata a contestare che l’applicazione in proprio favore delle più volte richiamate disposizioni risulti in assoluto violativa della sua autonomia finanziaria e, in definitiva, della sua stessa indipendenza. In ogni caso […] ai Legislatori nazionali dovrebbe essere riconosciuto un certo margine di apprezzamento e discrezionalità normativa nell’individuare e modulare le misure di razionalizzazione da applicare anche alle ANR. Allo stesso modo, una volta che tali misure siano state in concreto applicate, dovrebbe essere riconosciuto ai Giudici nazionali il potere di valutare se le caratteristiche qualitative e quantitative della singola misura di contenimento e razionalizzazione abbia superato – anche in termini di adeguatezza e proporzionalità - il minimo necessario per conseguire generali obiettivi di finanza pubblica senza ledere il contenuto minimo essenziale delle garanzie richiamate dalla direttiva 2002/21/CE. Come si è detto in precedenza, l’Autorità osserva poi che, anche a voler ritenere la possibilità – in via di principio – di assoggettarla a generali obiettivi di contenimento e razionalizzazione delle spese, alla stessa dovrebbero essere imposti soltanto ‘obiettivi e vincoli di scopo’, lasciandole comunque un ampio margine di autodeterminazione nell’individuazione delle misure concrete con cui conseguire i 51 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V richiamati obiettivi e vincoli. Ad avviso del Collegio il motivo in questione non può essere condiviso in quanto: i) anche in questo caso, la pretesa al riconoscimento in favore delle ANR di semplici ‘obiettivi e vincoli di scopo’ sembra presupporre il contemporaneo riconoscimento di uno status differenziato e speciale rispetto alla generalità delle altre amministrazioni pubbliche. Si tratta di un’aspettativa comprensibile, ma che non può fondare – allo stato attuale di evoluzione del diritto dell’Unione europea e nazionale – una pretesa in senso giuridico; ii) per ragioni del tutto simili, non può essere condiviso l’argomento con cui si è lamentata una sostanziale disparità di trattamento con quanto stabilito dal Legislatore nazionale nei confronti della Banca d’Italia. Anche in questo caso il motivo non può essere condiviso in quanto esso non mira a lamentare la violazione di una puntuale norma del diritto dell’Unione, quanto – piuttosto – a censurare l’esercizio della discrezionalità normativa del Legislatore nazionale. […] iii) si osserva, infine, che le due disposizioni puntuali di contenimento e razionalizzazione richiamate dall’Autorità appellante (…) non hanno a ben vedere comportato gli stringenti limiti applicativi contestati dall’AGCOM, ma hanno in effetti lasciato alla stessa proprio quegli apprezzabili margini attuativi di cui la stessa lamenta la mancanza. Il Collegio qui ricostruisce i tipi di vincolo economico-finanziario non puntuali a cui l’AGCOM è assoggettata (es. riduzione della spesa per consumi intermedi pari al 10% senza indicazione di quali spese si dovrebbero ridurre). Infine il Collegio osserva che non sembra condivisibile il motivo con cui AGCOM ha affermato che le richiamate disposizioni di contenimento e razionalizzazione della spesa sarebbero risultate legittime solo se si fossero limitate alla quota di finanziamento riferibile al bilancio statale, senza potersi estendere alla quota di sostanziale autofinanziamento che l’Autorità trae dalle proprie attività di vigilanza ed autorizzazione (quest’ultima ai sensi della direttiva 2002/20/CE, articolo 20). Al riguardo si osserva: i) che è innegabile che la direttiva 2002/20/CE fissi il principio della tendenziale corrispondenza fra i diritti amministrativi riscossi dalle ANR e “i costi amministrativi veri e propri di tali attività”. Tuttavia il principio in questione mira in primo luogo ad impedire che la fissazione di diritti amministrativi finisca per “distorcere la concorrenza o creare ostacoli per la concorrenza sul mercato”. Al contrario, non sembra che da tali disposizioni possa essere tratto il principio (invocato dall’AGCOM) del sostanziale divieto per i Legislatori nazionali di imporre misure di contenimento e razionalizzazione della spesa nei confronti delle ANR quando queste traggano dal sistema dei costi amministrativi una parte prevalente delle proprie entrate; ii) che, […] i contributi e i diritti amministrativi che le Autorità amministrative indipendenti possono riscuotere dai soggetti sottoposti alla relativa attività di vigilanza, controllo e regolazione hanno pur sempre natura sostanzialmente tributaria, e dunque rientranti nella potestà impositiva dello Stato, in quanto consistono in prestazioni patrimoniali imposte da puntuali disposizioni di legge (articolo 23 della Costituzione). Per le ragioni sin qui esaminate, si ritiene di sospendere il presente giudizio e di rimettere alla Corte di giustizia il seguente quesito interpretativo: “Se i principi di imparzialità ed indipendenza anche sotto il profilo finanziario ed organizzativo che devono essere riconosciuti alle autorità nazionali di regolamentazione di cui all’articolo 13 della direttiva 2002/21/CE, nonché il principio di sostanziale autofinanziamento di cui all’articolo 12 della direttiva 2002/20/CE ostino a una 52 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V normativa nazionale”, quale quella su esposta. Le riflessione in tema di eventuali questioni di legittimità Costituzionale vengono invece rinviate alla fase di giudizio successiva alla decisione della Corte di Giustizia europea. 53 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 10. A chi spetta la tutela del consumatore? Il riparto di competenze tra Agcm e Agcom in materia di pratiche commerciali scorrette. Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016, nn. 3 e 4 1. I fatti Nel 2011, un consumatore e l’associazione di consumatori «Altroconsumo» presentano una segnalazione contro la Wind Telecomunicazioni S.p.A. e la Vodafone Omnitel N.V. all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm). Nella specie, contestano la commercializzazione di schede SIM su cui sono preimpostati servizi di navigazioni internet e di segreteria telefonica, i cui costi sono direttamente addebitati all’utente, se non disattivati su espressa richiesta dello stesso. L’Agcm, in data 14 settembre 2011, comunica alle predette società l’avvio di un procedimento istruttorio (rispettivamente, PS7001 e PS7002), ai sensi dell’art. 27, comma 3, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), nonché dell’art. 6 del Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette. Le condotte poste in essere dalle stesse società risultano, invero, idonee ad integrare un’ipotesi di violazione degli artt. 20, 21 e 22 del Codice del Consumo. Gli operatori, in particolare, «non avrebbero fornito informazioni sufficientemente precise e complete», relativamente alle condizioni contrattuali applicate e alla tipologia e ai costi di fruizione dei servizi associati all’acquisto delle schede SIM – con particolare riguardo ai servizi di segreteria telefonica e di navigazione internet già funzionanti al momento dell’attivazione. L’Autorità dispone, altresì, degli accertamenti ispettivi presso le sedi di entrambe le società operanti nel settore della telefonia. La Wind e la Vodafone formulano alcune osservazioni per dimostrare la correttezza delle proprie condotte e, contestualmente, presentano un’offerta formale di impegni – ex artt. 27, comma 7, Codice del Consumo e 8, comma 1, del sopra citato Regolamento – impegnandosi a migliorare il grado di chiarezza e precisione delle informazioni fornite ai consumatori e a garantire la consegna ad ogni consumatore, nel momento di acquisto della scheda SIM, della documentazione contrattuale e informativa completa. L’Agcm, tuttavia, in data 19 gennaio 2012, comunica ad entrambi gli operatori l’estensione oggettiva del procedimento, volta ad accertare la violazione degli artt. 20, 24, 25, 26, lett. f) del Codice del Consumo. Gli operatori presentano, dunque, le proprie difese in merito alle contestate pratiche commerciali aggressive. L’Agcm, con i provvedimenti 6 marzo 2012, nn. 23356 e 23357, delibera che le pratiche commerciali poste in essere rispettivamente dalla Wind Telecomunicazioni S.p.A. e dalla Vodafone Omnitel N.V. risultano aggressive ai sensi degli artt. 24, 25, 26, lett. f), Codice del Consumo. La stessa Autorità, dunque, irroga – in applicazione dell’art. 20, commi 2 e 3, Codice del Consumo – una sanzione amministrativa pecuniaria pari a € 200.000,00 alla Wind e una sanzione amministrativa pecuniaria pari a € 250.000,00 alla Vodafone. La condotta posta in essere da entrambe le società risulta, 54 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V invero, «idonea a determinare un indebito condizionamento tale da limitare considerevolmente, e in alcuni casi addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti in ordine al pagamento di servizi preimpostati, quali la segreteria telefonica e la navigazione internet, determinando, inoltre, una possibile decurtazione automatica derivante dalla fruizione di servizi onerosi che il consumatore non ha richiesto e non ha avuto la possibilità di scegliere consapevolmente anche con riferimento al profilo tariffario più aderente alle proprie esigenze». Il comportamento di Wind e Vodafone non risulta, inoltre, conforme al grado di ordinaria diligenza richiesto agli operatori del settore, in considerazione delle evidenti asimmetrie informative caratterizzanti il rapporto tra professionisti e consumatori. Con particolare riguardo alle proposte di impegni, l’Autorità osserva che non possono essere accolte, poiché relative a «condotte manifestamente scorrette e gravi, per le quali l’art. 27, comma 7, Codice del Consumo, non può trovare applicazione». Avverso i suddetti provvedimenti, la Wind e la Vodafone propongono ricorso dinanzi al TAR Lazio, chiedendone l’annullamento. Le ricorrenti contestano, principalmente, la competenza dell’Agcm ad emettere i provvedimenti de quibus, in applicazione della normativa generale del Codice del Consumo in materia di pratiche commerciali scorrette, stante l’esistenza di una normativa speciale nel settore delle comunicazioni elettroniche. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato si costituisce in entrambi i giudizi, insistendo per il rigetto dei ricorsi. Il TAR, con le sentenze 18 febbraio 2013, nn. 1742 e 1754 – che, di fatto, ripercorrono il percorso logico-argomentativo e le conclusioni delle Adunanze Plenarie del 2012 (nn. 11, 12, 13, 14, 15, 16 dell’11 maggio 2012) sul tema del rapporto tra normativa generale in materia di tutela del consumatore e disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche – accoglie entrambi i gravami proposti dalle società telefoniche e dispone l’annullamento dei provvedimenti Antitrust. Tale Autorità ha, invero, sanzionato delle condotte la cui repressione è riservata dall’ordinamento ad un altro soggetto pubblico, ossia l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). Dalla lettura degli artt. 4 e 3 e, più genericamente, delle disposizione della Sezione III del Capo IV del D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (Codice delle Comunicazioni Elettroniche) emerge, chiaramente, che la tutela del consumatore/utente rientra appieno tra i fini istituzionali dell’Agcom. Ciò si pone, altresì, in linea con quanto previsto dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 e dalla legge 2 aprile 2007, n. 40, che affidano in via esclusiva all’Agcom l’attuazione delle disposizioni concernenti il relativo settore di competenza. I Giudici invocano, inoltre, l’applicazione del «principio di specialità», e richiamano una giurisprudenza consultiva del Consiglio di Stato (parere della I Sezione, 3 dicembre 2008, n. 3999), secondo cui la disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette non può essere applicata, laddove sussista una disciplina settoriale speciale che regoli non solo il contenuto degli obblighi di correttezza, sotto il profilo informativo e di condotta, ma, definisca, altresì, i relativi poteri sanzionatori, attribuendoli ad una Autorità settoriale. L’evidente carenza di attribuzioni dell’Agcm risulta, da ultimo, dalla circostanza che l’Autorità ha agito come se operasse nell’esercizio di un potere di regolamentazione, peraltro estraneo alla sua sfera di attribuzioni. L’Autorità soccombente propone ricorso in appello avverso entrambe le sentenze sopra citate. L’Agcm insiste, in particolare, sull’inapplicabilità della normativa 55 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V settoriale invocata dai Giudici di prime cure, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado, previo eventuale rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea – ai sensi dell’art. 267 TFUE – della questione concernente l’interpretazione dell’art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/CE. Wind e Vodafone si costituiscono nei rispettivi giudizi, chiedendo il rigetto del ricorso in appello. Il rapporto tra la disciplina settoriale e la disciplina generale in tema di pratiche commerciali scorrette è governata dal principio di specialità. Ne deriva che, la condotta sanzionata con il provvedimento impugnato in primo grado deve ritenersi disciplinata dalla specifica normativa di settore e non dalle clausole generali del Codice del Consumo, con conseguente riconducibilità di tale normativa – in punto di competenza – nella sfera di attribuzioni esclusive di Agcom e non di Agcm. Il Consiglio di Stato, tenuto conto del rilievo delle questioni oggetto di giudizio, per evitare il possibile insorgere di un contrasto giurisprudenziale, rimette la definizione della controversia all’esame dell’Adunanza Plenaria – ai sensi dell’art. 99 c.p.a. Con ordinanze 18 settembre 2015, nn. 4351 e 4352, la invita ad esprimersi su due questioni. La prima concerne l’interpretazione dell’art. 27, comma 1-bis del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 e, più specificamente, se lo stesso articolo deve essere interpretato quale «norma attributiva di una competenza esclusiva all’Agcm in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea». In caso affermativo, se la circostanza che lo jus superveniens abbia attribuito ad Agcm tale competenza «comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza […], anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione». 2. Le decisioni Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 3 – Pres. Virgilio, Est. Lotti – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato c. Vodafone Omnitel NV e altri Cons. St., Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 4 – Pres. Virgilio, Est. Lotti – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato c. Wind Telecomunicazioni S.p.A. e altri «[Omissis] 1. [Omissis] La condotta oggetto di sanzione da parte dell'Antitrust, è contestata nella misura in cui dà luogo a conflitti di norme sostanziali applicabili appartenenti a corpus normativi differenti, segnatamente riferibili nel caso di specie, nella prospettiva dell'appellata, al settore regolato dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ("AgCom"). Ciò anche in considerazione del fatto che questa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 11 maggio 2012, n. 11 (e successive sentenze da 12 a 16-2012) ha stabilito l'incompetenza dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (artt. 21 e ss. Codice del Consumo) nei settori in cui la tutela del consumatore è attribuita ad un'autorità regolamentare, secondo lo schema della cd. specialità "per settori". 56 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. [Omissis] Secondo questa Adunanza, la fattispecie in esame integra pacificamente una condotta anticoncorrenziale ai sensi della normativa appena citata, pur attuata mediante l'inosservanza di obblighi imposti dal Codice delle comunicazioni elettroniche e dalla normativa ad esso riferibile. Tali condotte, infatti, consistono specificamente in pratiche commerciali aggressive messe in opera attraverso la violazione di obblighi informativi circa i servizi telefonici reimpostati. Nel nostro sistema, mentre la pratica commerciale aggressiva è inequivocabilmente attratta nell'area di competenza dell'Autorità Antitrust appellante, la violazione degli obblighi informativi suddetta è invece, di per sé, suscettibile di sanzione da parte dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. E' evidente, quindi, che nel caso di specie si assiste ad una ipotesi di specialità per progressione di condotte lesive che, muovendo dalla violazione di meri obblighi informativi comportano la realizzazione di una pratica anticoncorrenziale vietata ben più grave per entità e per disvalore sociale, ovvero di una pratica commerciale aggressiva. Si realizza quindi nell'ipotesi in esame, sempre ai fini dell'individuazione dell'Autorità competente, più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall'Autorità Antitrust appellante. Infatti, la violazione dei predetti obblighi informativi di per sé non è sufficiente ad integrare la fattispecie di illecito concorrenziale, poiché da tali obblighi è necessario inferire l'esistenza di un condizionamento tale da limitare considerevolmente, e in alcuni casi addirittura escludere, la libertà di scelta degli utenti in ordine all'utilizzo e al pagamento dei servizi reimpostati e, per conseguenza, ritenere integrata la condotta del "pagamento immediato o differito di prodotti che il consumatore non ha richiesto" che costituisce, ai sensi dell'art. 26 del Codice del consumo citato, "pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva". 3. Tale conclusione non è in contrasto con le citate pronunce dell'Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012, atteso che le stesse stabilivano (al punto 6 della sentenza n. 11-2012) da un lato che "occorre impostare il rapporto tra la disciplina contenuta nel Codice del consumo e quella dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche e dai provvedimenti attuativi/integrativi adottati dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni", muovendo dalla circostanza che "la disciplina recata da quest'ultimo corpus normativo, presenti proprio quei requisiti di specificità rispetto alla disciplina generale, che ne impone l'applicabilità alle fattispecie in esame". Dall'altro, tuttavia, si specificava che "ciò evidentemente non basta: per escludere la possibilità di un residuo campo di intervento di Antitrust occorre anche verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore". Proprio attuando tale ultimo inciso nel caso di specie, si può evidenziare, alla luce di quanto appena descritto che il comportamento contestato all'operatore economico con il provvedimento Antitrust impugnato in questa sede non è per nulla interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore, che non comprende affatto un'ipotesi 57 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V di illecito come quella considerata, ovvero una "pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva", ricostruita sulla base dei processi inferenziali sopra descritti. 4. Peraltro, ritiene questo Collegio di dovere parzialmente ritornare sulle decisioni citate di questa Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012, optando per un revirement parziale delle medesime nella misura in cui esse possano essere lette come mera applicazione del criterio di specialità per settori e non per fattispecie concrete. Tale revirement, nel senso ora precisato, si impone anche in considerazione del fatto che, con lettera di costituzione in mora in data 18 ottobre 2013, ex art. 258 TFUE, la Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione (n. 2013-2169) nei confronti della Repubblica Italiana per scorretta attuazione ed esecuzione della direttiva 2005/29/UE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e della direttiva al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica. La Commissione ha contestato l'inadeguata applicazione da parte italiana dell'art. 3, par. 4, e degli artt. da 11 a 13 della direttiva in materia di pratiche sleali poiché, in sostanza, nell'ordinamento italiano non sarebbe correttamente applicato il principio della "lex specialis" contenuto nella direttiva, che regola il coordinamento tra tale disciplina (a carattere transettoriale) e le normative specifiche di settore. In particolare, la Commissione ha addebitato all'Italia che tale errata applicazione del diritto europeo, riconducibile a criteri interpretativi delle disposizioni italiane di recepimento della normativa europea stabiliti in alcune sentenze di giudici amministrativi e in delibere dell'AGCM, avrebbe provocato la mancata attuazione della direttiva pratiche commerciali sleali nel settore delle comunicazioni elettroniche. La Commissione contesta, in particolare, la tesi per cui l'esistenza di una disciplina specifica settoriale, in quanto considerata esaustiva, comporterebbe la prevalenza di tale disciplina su quella generale, ancorché di derivazione europea, in materia di tutela dei consumatori. Nell'interpretazione data dalle autorità italiane si determinerebbe un contrasto tra legge speciale e norma generale non soltanto quando esista una opposizione - tesi sostenuta dalla Commissione europea - ma anche in presenza di una sovrapposizione per cui la disciplina speciale regolerebbe la totalità delle fattispecie al punto che non avrebbe ragione l'applicazione, sia pure in funzione sussidiaria o come norma di chiusura, della disciplina generale. Secondo la Commissione, inoltre, a causa di tale lacuna in Italia non vi sarebbe alcuna autorità indipendente competente a far rispettare la direttiva pratiche commerciali sleali nel settore delle comunicazioni elettroniche. Nell'atto di avvio della procedura d'infrazione si legge tra l'altro che "l'art. 3, par. 4, della direttiva non consente di concludere che l'applicazione della stessa possa essere esclusa solo perché esiste una legislazione più specifica per un dato settore. Tale affermazione è corretta solo se tale legislazione più specifica si fonda su altre norme dell'Unione e se è limitata agli aspetti da essa disciplinati". 5. Tale procedura di infrazione, che si è aperta sul presupposto che questo Consiglio avesse completamente integralmente e senza eccezioni adottato lo schema della specialità per settori, presupposto per altro erroneo come si è visto, poiché una tale lettura ermeneutica, eccessivamente rigida e schematica oblitera il contenuto articolato e complesso delle pronunce, induce comunque ad un ripensamento di tale schema. 58 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Schema che non può che essere quello della specialità basato sul raffronto tra le fattispecie, secondo il collaudato principio di specialità conosciuto nel nostro ordinamento che assurge a criterio generale di regolazione dei rapporti tra norme sanzionatorie, penali e amministrative, in tutte le materie disciplinate dalla legge nel nostro ordinamento ove si verifichino conflitti apparenti di norme e sia necessario, pertanto, risolvere le antinomie giuridiche. Pertanto, ove disposizioni appartenenti ai due diversi ambiti convergano sul medesimo fatto se ne applica una sola, quella speciale, individuata in base ai criteri noti nel nostro ordinamento e in modo compatibile, come è ovvio, con l'ordinamento comunitario nella specifica materia di pertinenza comunitaria. Nel caso di specie, e sempre ai fini della competenza ad irrogare la sanzione, è evidente che l'art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/UE impone che vi sia sempre l'intervento di un'Autorità indipendente competente a far rispettare la predetta direttiva, sanzionando all'uopo le pratiche commerciali sleali anche nel settore delle comunicazioni elettroniche. L'Autorità indipendente menzionata dalla direttiva è, nel nostro sistema nazionale, l'Autorità Antitrust. 6. Sul tema della competenza si deve peraltro osservare che con l'art. 1, comma 6, lett. a), d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, recante l'attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori (v. anche l'art. 1, e l'Allegato B, della l. n. 96/2013 - legge di delega europea 2013), è stato inserito, nell'art. 27 del codice del consumo, il comma 1bis, secondo cui "anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente". La relazione illustrativa allo schema del citato d.lgs. n. 21-2014 evidenzia che la norma di modifica del codice del consumo con la quale si attribuisce in via esclusiva all'Antitrust, acquisito il parere dell'Autorità di settore, la competenza a intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, ha l'obiettivo di superare la citata procedura d'infrazione n. 2013-2069 avviata dalla Commissione europea con lettera di costituzione in mora del 18 ottobre 2013. Ciò posto, alla luce di quanto appena detto, è evidente che tale norma ha una portata esclusivamente di interpretazione autentica, atteso che, come detto, anche alla luce di una corretta analisi ermeneutica delle sentenze dell'Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012 e dell'applicazione dei principi da essa scaturenti è indubbia la competenza dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette nel caso oggetto del presente giudizio già in base alla normativa antecedente che l'art. 1, comma 6, lett. a), d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 si è limitata, per quanto qui rileva, soltanto a confermare. 7. Né in senso contrario può opporsi la previsione, contenuta in tale norma sopravvenuta, di un eventuale previo parere dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, poiché tale segmento procedimentale, ora previsto nell'art. 16 della Delibera AGCM 1° aprile 2015, n. 25411 (Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore) era già previsto in precedenti delibere (cfr. Delibera AGCM 15 novembre 2007, n. 17589); il legislatore, pertanto, non ha fatto altro che 59 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V innalzare al rango di norma primaria una disposizione già esistente nell'ordinamento, che, per tale motivo, non può ritenersi avere portata sostanzialmente innovativa. Tale considerazione esime l'Adunanza dall'esaminare il tema del principio del "tempus regit actum", peraltro correttamente applicato dalla sentenza della VI Sezione 5 marzo 2015, n. 1104, in base al quale l'Amministrazione adotta i provvedimenti di sua competenza sulla base della normativa anche, appunto, relativa alla competenza vigente nel momento (nella specie, posteriore alla modifica normativa intervenuta) dell'adozione del nuovo provvedimento da emanare nel riesercizio del potere amministrativo. 8. Inoltre, deve essere rilevato che in nessun modo potrebbe porsi nel caso di specie, con specifico riferimento all'individuazione dell'Autorità competente, un problema di compatibilità comunitaria della normativa italiana, su cui insistono le controparti in appello, tenendo conto del noto principio di indifferenza dell'Unione rispetto all'organizzazione interna. A questo riguardo, si osserva, infatti, che in numerose occasioni la Corte di Giustizia ha affermato l'indifferenza dell'ordinamento europeo rispetto all'articolazione delle competenze amministrative all'interno degli Stati membri [Omissis]. [Omissis] 9. Né, infine, si può condividere la tesi di una violazione del principio ne bis in idem, poiché l'art. 4, Prot. n. 7 CEDU implica soltanto, nella sostanza, la tendenziale messa al bando del c.d. "doppio binario" sanzionatorio, vale a dire della previsione, per il medesimo fatto, di sanzioni di natura distinta (sul piano della qualificazione interna) applicabili alla stessa persona tramite procedimenti di diverso tipo. La violazione della norma convenzionale è innescata non dalla mera pendenza contemporanea di due procedimenti (peraltro, nel caso di specie, ne risulta pendente soltanto uno), ma dal fatto che uno di essi venga instaurato o prosegua dopo che l'altro si è chiuso con una decisione definitiva, non importa se di assoluzione o di condanna (cfr. Corte CEDU, decisione Grande Stevens contro Italia 4 marzo 2014 e i c.d. criteri Engel , elaborati in una vecchia decisione del 1976 e progressivamente affinati). Pertanto, nessuna violazione del principio del ne bis in idem può dedursi come sussitente nel caso in esame. [Omissis] P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, enuncia i seguenti principi di diritto: - la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; - non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza. Restituisce per il resto il giudizio alla Sezione remittente ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a. [Omissis]». 60 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 11. Enti pubblici e personale onorario: la nomina del presidente dell’Autorità portuale di Brindisi e il problema della cittadinanza straniera Cons. stato, IV, 10 marzo 2015, n. 1210 1. I fatti Con decreto in data 7 giugno 2011, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha nominato il prof. Iraklis Haralambidis, cittadino greco, presidente dell’Autorità portuale di Brindisi. Il provvedimento di nomina, insieme con gli atti connessi, viene però impugnato presso il T.A.R. del Lazio dall’ing. Calogero Casilli, incluso nelle terne di esperti designati dagli enti competenti a norma dell’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, che sostiene l’impossibilità di nominare a quel ruolo un cittadino non italiano, chiedendo di ripetere la selezione. Dichiaratosi incompetente il Tribunale capitolino, il giudizio è stato riassunto presso il T.A.R. per la Puglia – Lecce, che dopo aver ricostruito la normativa di settore ha ricollegato all’Autorità portuale il carattere di ente pubblico non economico, esercitante poteri qualificabili come pubblici. In conseguenza a norma dell’articolo 51 Cost. si è statuito come la cittadinanza italiana sia un requisito indispensabile per l’accesso alla carica, annullando così la nomina in questione. Il prof. Haralambidis ha proposto dunque appello contro la sentenza, chiedendone anche la sospensione dell’efficacia esecutiva, deducendone preliminarmente una serie di vizi procedurali e sostanziali. Tra i primi vengono eccepiti il difetto assoluto di giurisdizione, perché la nomina avrebbe natura di atto politico; l’inammissibilità del ricorso di primo grado per mancanza di un interesse differenziato, attuale e concreto dell’ing. Casilli, il quale anche in caso di accoglimento non otterrebbe il bene di vita a cui aspira; la mancata impugnazione degli atti presupposti alla nomina; l’erroneità della sentenza, che avrebbe accolto il ricorso sulla base di un motivo dedotto tardivamente con memoria e non notificato con motivi aggiunti; la nullità della sentenza per omessa integrazione del contraddittorio, con riguardo agli altri due soggetti designati alla carica dagli enti competenti. Nel merito invece l’appellante censura la sentenza di primo grado per avere considerato le Autorità portuali quali enti pubblici non economici, in contrasto con la giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, trascurando il fatto che tali Autorità sarebbero sottratte alle regole previste per l’assunzione del personale pubblico e svolgerebbero la propria attività secondo criteri di rapidità ed efficacia, propri di un soggetto imprenditoriale. Si eccepiscono anche ulteriori quattro motivi gradatamente subordinati di ricorso, sintetizzabili in: l’aver erroneamente valutato l’art. 51 Cost. come fonte di un principio inderogabile, che non consentirebbe al legislatore ordinario di nominare un cittadino straniero a presidente dell’Autorità; l’aver affermato la giurisdizione amministrativa laddove, alla luce dell’interpretazione data dal T.A.R. all’art. 51 Cost., verrebbero in questione diritti soggettivi e dunque la giurisdizione ordinaria; il non avere sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge n. 84 del 1994, che, dichiarando inapplicabile il decreto 61 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V legislativo n. 29 del 1993, escluderebbe la necessità di possedere la cittadinanza italiana per accedere agli uffici dell’Autorità portuale; il non avere ritenuto la giurisdizione del G. O., prevista invece dall’art. 63, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001 per tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle concernenti gli incarichi dirigenziali, eccezion fatta per quelle caratterizzate da una procedura concorsuale, che nel caso di specie non sarebbe dato cogliere per la mancanza di un bando, di una fase valutativa e di un’approvazione della graduatoria; e in ultimo l’avere operato una non consentita disamina di merito; Si eccepisce anche una violazione della normativa comunitaria, dato che l’articolo 45 co. 4 TFUE consentirebbe la riserva ai cittadini nazionali di alcuni impieghi e non farebbe obbligo agli Stati membri di avvalersi in termini generali di tale possibilità. In caso di dubbio, occorrerebbe sollevare la questione pregiudiziale interpretativa di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’ing. Casilli resiste con controricorso all’appello, per aderire al quale si sono poi costituiti in giudizio il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l’Autorità portuale di Brindisi. Con ordinanza cautelare 9 gennaio 2013, n. 11, la Sezione ha disposto la sospensione interinale dell’efficacia della sentenza impugnata nelle more della definizione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, deliberato in pari data con ordinanza 8 maggio 2013, n. 2492. Con tale ultima ordinanza la Sezione ha ritenuto che la normativa vigente configuri l’esercizio, da parte dell’Autorità portuale e del suo presidente, di pubbliche funzioni, con il conseguente utilizzo di poteri autoritativi. È tuttavia riconosciuto che l’art. 51 Cost. riservi ai soli cittadini italiani, in linea di principio, l’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive, mentre la normativa primaria e secondaria successiva, in sostanziale correlazione con l’art. 11 Cost., ha ammesso i cittadini di Stati membri della CEE ad accedere a posti di pubblico impiego. Secondo il giudice del rinvio però tale deroga analoga non vale per l’assunzione di cariche pubbliche, quale quella del caso di specie, e non si può neanche ricorrere all’art. 45, par. 4, TFUE., relativo a ipotesi di lavoro subordinato con le pubbliche amministrazioni, dato che nel caso specifico non vi è appunto il rapporto di lavoro subordinato. Il quadro così definito si conclude dunque per la necessità di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni del se l’impossibilità per un cittadino di altro Stato dell’UE di accedere alla carica di presidente di un’Autorità portuale italiana integri una discriminazione fondata sulla nazionalità e come tale in contrasto con: l’art. 45 TFUE sul diritto di libera circolazione dei lavoratori, essendo comunque l’incarico fiduciario di presidente dell’Autorità portuale un’attività di lavoro; ovvero in via successivamente subordinata, con l’art. 49 TFUE sul diritto di stabilimento; o ancora con la direttiva 2006/123/CE sulla libera prestazione di servizi; o infine con l’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, intesa come fonte di una prerogativa generale “di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro” e l’art. 21, comma 2, della stessa Carta, recante il divieto di discriminazione in base alla cittadinanza. A seguito del rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. II, ha pronunziato la sentenza 10 settembre 2014 n. C-270/13, centrale per la decisione del ricorso. 62 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La sentenza del Consiglio di Stato Nel caso di specie l’appellante contesta la sentenza che l’ha visto soccombente con una pluralità di censure preliminari riguardanti giurisdizione, ammissibilità del ricorso e vizi formali della sentenza di primo grado. Nessuna di tali censure appare persuasiva, […] tuttavia non richiedono un esame più approfondito, perché, alla luce della sentenza della Corte di giustizia, l’appello è fondato nel merito. Infatti, nel rispondere alla prima delle questioni sollevate dalla Sezione, con assorbimento delle questioni subordinate, la Corte di giustizia ha statuito che l'art. 45, par. 4, TFUE debba essere interpretato nel senso di non consentire a uno Stato membro di riservare ai propri cittadini l'esercizio delle funzioni di presidente di un'Autorità portuale. La Corte ha osservato che la nozione di “lavoratore”, ai sensi dell’art. 45 TFUE, ha portata autonoma propria del diritto dell’Unione e non va interpretata restrittivamente, pertanto, deve essere qualificato come “lavoratore” ai sensi dell’art. 45 citato chiunque svolga attività reali ed effettive, ad esclusione di attività talmente ridotte da porsi come puramente marginali e accessorie. La caratteristica del rapporto di lavoro è data, secondo la giurisprudenza della Corte, dalla circostanza che una persona fornisca per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione, nozione dalla quale consegue che il rapporto di subordinazione e il pagamento di una retribuzione formano gli elementi costitutivi di qualsiasi rapporto di lavoro dipendente, purché l’attività professionale in questione presenti un carattere reale ed effettivo. Ora in merito al rapporto di subordinazione, dalla legge n. 84 del 1994 risulta che il ministro dispone di poteri direttivi e di controllo nonché, se del caso, di sanzione nei confronti del presidente di un’Autorità portuale; quanto alla remunerazione invece, essa è definita da un decreto del ministro del 31 marzo 2003 ed è determinata in base al trattamento economico fondamentale previsto per i dirigenti generali del ministero, essendo versata come corrispettivo per lo svolgimento di compiti affidati dalla legge, avendo così i requisiti di prevedibilità e regolarità. Pertanto, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il presidente di un’Autorità portuale deve essere considerato un lavoratore ai sensi dell’art. 45, par. 1, TFUE, mentre la natura di diritto pubblico o di diritto privato del nesso giuridico del rapporto di lavoro è irrilevante quanto all’applicazione dell’art. 45 citato. Inoltre secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di “pubblica amministrazione” ai sensi dell’art. 45, par. 4, TFUE deve ricevere un’interpretazione e un’applicazione uniformi nell’intera Unione e non può pertanto essere rimessa alla totale discrezionalità degli Stati membri, mentre un’eventuale deroga deve ricevere un’interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi che essa consente agli Stati membri di tutelare. Ora, secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di “pubblica amministrazione” ai sensi dell’art. 45, par. 4, TFUE riguarda i posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno a oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche e presuppongono pertanto, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità dei diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza. Nel caso di specie, le funzioni attribuite al presidente di un’Autorità portuale comportano sì poteri d’imperio 63 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V in astratto suscettibili di rientrare nella deroga prevista dall’art. 45, par. 4, TFUE, tuttavia il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio al presidente di un’Autorità portuale, ma è necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale dal titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività. Peraltro tale deroga deve ricevere un’interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi generali dello Stato membro interessato, che non possono risultare in pericolo qualora poteri d’imperio vengano esercitati solo in modo sporadico, o addirittura eccezionalmente, da parte di cittadini di altri Stati membri. Nel caso concreto risulta che i poteri del presidente di un’Autorità portuale costituiscono una parte marginale della sua attività, la quale presenta in generale un carattere tecnico e di gestione economica che non può essere modificato dal loro esercizio e i medesimi poteri possono essere esercitati unicamente in modo occasionale o in circostanze eccezionali: in tale contesto, un’esclusione generale dell’accesso dei cittadini di altri Stati membri alla carica di presidente di un’Autorità portuale italiana costituisce una discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’art. 45, paragrafi da 1 a 3, TFUE. Così risolta la questione dalla Corte di giustizia, è irrilevante il punto della natura giuridica, alla stregua del diritto interno, delle Autorità portuali. […] Nell’esprimere adesione alla decisione della Corte di giustizia, l’Avvocatura generale, dal canto suo, manifesta riserve su una soluzione della controversia articolata in chiave di disapplicazione dell’art. 51 Cost., certo consentita ma fonte di possibili future controversie e dell’apertura di procedure di infrazione a carico del nostro Paese. Il Collegio ritiene che queste preoccupazioni vadano prese nella giusta considerazione. E’ noto l’orientamento della Corte costituzionale in tema di rapporto fra ordinamento interno e ordinamento europeo: “Questa Corte, fin dalle prime occasioni nelle quali è stata chiamata a definire il rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario, ne ha individuato il “sicuro fondamento” nell'art. 11 Cost. È in forza di tale parametro, collocato non senza significato e conseguenze tra i principi fondamentali della Carta, che si è demandato alle Comunità europee, oggi Unione europea, di esercitare in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate materie, nei limiti del principio di attribuzione. È sempre in forza dell'art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e prima ancora dell'amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto. È, infine, in forza delle limitazioni di sovranità consentite dall'art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto la portata e le diverse implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali (sentenza n. 126 del 1996), individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell'assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona (sentenza n. 170 del 1984)”. In particolare, nella sentenza n. 183 del 1973, la Corte costituzionale ha affermato: 64 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V “Esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie, - non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno dei singoli Stati -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari. Risponde altresì alla logica del sistema comunitario che i regolamenti della C.E.E., - sempreché abbiano compiutezza di contenuto dispositivo, quale caratterizza di regola le norme intersoggettive -, come fonte immediata di diritti ed obblighi sia per gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti della Comunità, non debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possano comunque differirne o condizionarne l'entrata in vigore, e tanto meno sostituirsi ad essi, derogarvi o abrogarli, anche parzialmente”. Sulla base di questa giurisprudenza costituzionale, ritiene il Collegio che, per il tramite dell’art. 11 Cost., le disposizioni sulla libertà di circolazione all’interno dell’Unione, poste dall’art. 45 TFUE, siano da considerarsi recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale il diritto dei cittadini dell’Unione di accedere a posti di lavoro nel nostro Paese è assistito dalla garanzia generale dell’art. 45 citato. Deve pertanto dirsi […] che l’art. 51 Cost. non richiede alcuna disapplicazione, poiché va piuttosto letto in conformità all’art. 11, nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 TFUE, salvo gli eventuali limiti espressi o legittimamente ricavabili dal sistema, con riguardo alla concreta partecipazione all’esercizio di pubblici poteri o comunque alle circostanze poste in rilievo nella ricordata sentenza della Corte di giustizia. E’ alla luce delle disposizioni dell’art. 45 ricordato, come interpretato dalla Corte di giustizia, che, in definitiva, deve essere interpretata, applicata e, occorrendo, integrata la normativa dettata al riguardo dal legislatore nazionale. Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è fondato e va pertanto accolto, con annullamento della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado. 65 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 12. L’attualità e l’utilità della nozione di ente pubblico economico Cons. St., sez. III, 10 aprile 2015, n. 1842 1. I fatti L’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale” avvia una selezione pubblica, mediante titoli ed esami, per la formazione di una graduatoria finalizzata all’assunzione di un direttore di farmacia ed eventualmente alla copertura di analoghe posizioni di lavoro che si rendano disponibili nel periodo di validità della graduatoria medesima. L’avviso specifica che è comunque facoltà dell’azienda, una volta completata la selezione, non procedere ad alcuna nomina nel caso in cui tale opzione si riveli come la scelta migliore nell’interesse dell’azienda medesima. All’esito della procedura, che vede l’inserimento nella graduatoria di merito di un’unica candidata, il consiglio d’amministrazione dell’azienda ritiene opportuno annullare il concorso. Esso, infatti, non aveva risposto all’esigenza più ampia di ottenere una graduatoria dalla quale trarre personale qualificato non solo per l’assunzione di un direttore di farmacia, ma anche, più in generale, per sostituzioni o per copertura di vacanze di organico nello stesso ambito lavorativo. Il provvedimento dell’azienda viene impugnato dalla candidata risultata idonea presso il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, che accoglie il ricorso ritenendo illegittimo l’annullamento della selezione. L’azienda, tuttavia, propone appello al Consiglio di Stato lamentando l’erroneità della sentenza del giudice di primo grado sia sotto il profilo dell’infondatezza del ricorso nel merito, sia sotto quello del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, per essere l’azienda in questione un ente pubblico economico non rientrante nella categoria delle pubbliche amministrazioni. Al giudice amministrativo sono infatti devolute le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, mentre al giudice ordinario spetta la cognizione delle controversie sulla stessa materia che coinvolgano enti pubblici economici e soggetti di diritto privato. Il Consiglio di Stato è dunque chiamato a esaminare in via preliminare la questione relativa alla carenza di giurisdizione del giudice amministrativo, sciogliendo i dubbi sulla natura di ente pubblico economico o di ente pubblico tout court dell’azienda speciale appellante. Nel caso in cui quest’ultima sia equiparata a una pubblica amministrazione, il Consiglio di Stato è poi ulteriormente tenuto a pronunciarsi sulla legittimità dell’annullamento della selezione. 2. La decisione del Consiglio di Stato Cons. St., sez. III, 10 aprile 2015, n. 1842 – Pres. Lignani – Est. Noccelli Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) 66 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V ha pronunciato la presente SENTENZA (...) FATTO e DIRITTO 1. L’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale”, Azienda speciale del Comune di Chieti, ha indetto pubblica selezione, per titoli ed esami, «per la formazione di una graduatoria per l’assunzione di n.1 Direttore di farmacia», stabilendone la possibile utilizzazione «per la copertura di analoghe posizioni di lavoro che si rendessero eventualmente disponibili nel periodo di validità della graduatoria medesima, come meglio specificato nel successivo art. 8». 2. Il citato art. 8 ha previsto l’obbligo, per chi avesse superato la prova orale, di inviare, entro i successivi 15 giorni, i titoli di preferenza indicati nella domanda di partecipazione: il rinvio a questa disposizione va inteso, quindi, come possibilità di utilizzare la graduatoria per i posti che si fossero resi disponibili durante l’espletamento della selezione. 3. L’art. 9, punto 2, dell’avviso, ha poi così disposto: «È facoltà dell’Azienda di non procedere ad alcuna nomina e di annullare, quindi, la selezione, quando ritenga che non possa essere garantita una buona scelta nell’interesse dell’Azienda». 4. Alla selezione ha partecipato la dott.ssa F. A., odierna appellata ed unica ad essere ammessa alla prova orale, poi superata e, quindi, unica candidata inserita nella graduatoria di merito. 5. L’interessata ha chiesto notizie all’Azienda sul prosieguo del procedimento e il Presidente dell’Azienda, dopo averle comunicato l’esistenza di un’attività istruttoria sulla valutazione dello svolgimento della prova e dei suoi effetti, a seguito di successiva diffida dell’interessata, con raccomandata del 24.12.2008, le ha comunicato che il Consiglio di amministrazione dell’Azienda, con atto del 10.9.2008 n. 65, in applicazione dell’art. 9, comma 2, dell’avviso, aveva deciso di non procedere ad alcuna nomina e di annullare la selezione perché: - «non è stato raggiunto l’obiettivo minimo perseguito dall’Azienda stessa, quale la formazione di una graduatoria di merito da utilizzarsi, oltre che per l’assunzione di un direttore di farmacia, anche per la copertura di analoghe posizioni di lavoro che si rendessero eventualmente necessarie per sostituzioni e/o vacanze d’organico»; - «il risultato selettivo ottenuto non ha soddisfatto e garantito la soluzione di una problematica più ampia e duratura derivante dalla necessità di ottenere una graduatoria specifica dalla quale trarre personale qualificato nell’ambito lavorativo evidenziato». 6. Il provvedimento n. 65/2008, dianzi menzionato, è stato impugnato dall’interessata avanti al T.A.R. Abruzzo, sezione staccata di Pescara, deducendo alcuni profili di violazione di legge e di eccesso di potere (...). 9. Con la sentenza n. 346 dell’11.5.2009 il T.A.R. Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha accolto il ricorso e ha annullato il provvedimento n. 10 del 2008, adottato dal Consiglio di amministrazione dell’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale”, mentre ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento danni proposta con il ricorso stesso. 67 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 10. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale” e ne ha chiesto, previa sospensione, la riforma, lamentandone l’erroneità sotto tre distinti profili: a) il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per essere l’Azienda Speciale un ente pubblico economico e, in quanto tale, non rientrante nel novero degli enti pubblici contemplati dall’art. 1, comma 2, del d. lgs. 165/2001; b) l’inammissibilità del ricorso per violazione delle norme in materia di litisconsorzio passivo necessario; c) l’infondatezza, nel merito, del ricorso ex adverso proposto in primo grado. 11. Si è costituita nel presente grado di giudizio l’appellata, dott.ssa F. A., chiedendo la reiezione dell’avversario gravame. (...) 14. L’appello è infondato e va respinto. 15. Deve essere esaminato in via pregiudiziale, secondo l’ordine logico-giuridico delle questioni proposte, il primo motivo di appello (pp. 6-13 del ricorso), con il quale l’Azienda Speciale ha eccepito che il giudice amministrativo non potrebbe conoscere della presente controversia, relativa alla procedura concorsuale bandita dall’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale”, per la ragione che tale Azienda non rientrerebbe nel novero delle strutture inquadrabili tra le strutture pubbliche, intendendosi per tali, secondo l’appellante, solo ed esclusivamente quegli apparati che svolgono attività costituenti «l’Amministrazione pubblica in senso oggettivo» (p. 6 del ricorso) e, cioè, le attività svolte nell’interesse dei cittadini, in attuazione dell’indirizzo degli apparati politici e nel rispetto dei principi costituzionali e di una articolata disciplina che ne rappresenta lo svolgimento. 15.1. In particolare, sottolinea l’Azienda appellante, essa non sarebbe ascrivibile alla categoria degli «enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali», di cui all’art. 1, comma 2, del d. lgs. 165/2001, in quanto essa non sarebbe dotata di poteri autoritativi e, più in generale, di potestà di ordine o effetto pubblicistico, ma opererebbe nel campo della produzione di beni e di servizi e svolgerebbe attività prevalentemente ed esclusivamente economiche, improntando l’esercizio di queste al criterio della obiettiva economicità, intesa quale necessità minima di copertura dei costi dei fattori produttivi attraverso i ricavi. 15.2. Il motivo è infondato. 15.3. È vero in linea di principio, come sostiene l’appellante, che un ente pubblico è di natura economica se produce, per legge e per statuto (e quindi in modo non fattuale e non contingente) beni o servizi con criteri di economicità, ossia con equivalenza, almeno tendenziale, tra costi e ricavi, analogamente ad un comune imprenditore. 15.4. Se tuttavia l’ente può normativamente perseguire molte finalità con finanziamenti dello Stato e di altri enti pubblici e, cioè, diversi dai corrispettivi ottenuti, indipendentemente dall’utilizzazione concreta, la gestione, comunque, non è economica, non avendo effetti automatici, come ha precisato la Corte regolatrice della giurisdizione, la sopravvenienza della l. 142/1990, contenente la riforma degli enti locali, in assenza di trasformazione o soppressione della struttura associativa preesistente (Cass., Sez. Un., 20.10.2000, n. 1132). 15.5. Secondo la Suprema Corte l’indagine rivolta a stabilire se un ente pubblico sia o meno economico, in diversi termini, deve essere compiuta tenendo presente la 68 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V disciplina legale e statutaria che ne regola l’attività con riferimento agli scopi dell’ente medesimo, non rilevando, a tal fine, l’oggetto dell’attività stessa (Cass., Sez. Un., 11.7.2006, n. 15661). 15.6. Rifuggendo quindi da fuorvianti e aprioristiche categorizzazioni, alla stregua dei criteri interpretativi di massima indicati dalle Sezioni Unite, deve osservarsi che nel caso di specie è particolarmente significativo quanto dispone l’art. 37ter dello Statuto dell’Azienda, secondo cui «qualora l’Amministrazione comunale, per ragioni di carattere sociale, disponga che l’Azienda effettui un servizio ovvero svolga un’attività senza il completo recupero dei relativi costi sull’utenza, oppure attraverso contributi di altri Enti, e non si copra l’intero costo del servizio o dell’attività assegnata, deve versare all’Azienda stessa il contributo finanziario occorrente alla copertura dei relativi costi, fino al raggiungimento del pareggio aziendale». 15.7. È dunque evidente che l’Azienda non opera secondo un unico e rigoroso criterio di economicità, almeno non nei modi e nei limiti che sono propri e tipici di un ente pubblico economico, poiché essa per statuto può e deve far assegnamento sulle risorse finanziarie del Comune nell’ipotesi, si badi, di attività non puramente volte alla produzione di beni e servizi, ma anche dettate da «ragioni di carattere sociale», ciò che connota indubbiamente l’Azienda in questione come un ente pubblico non economico, al di là del tendenziale principio, pure affermato nell’art. 37bis dello Statuto, che le tariffe e i prezzi dei servizi forniti dall’Azienda, in via generale, «mirano ad assicurare» – ma non è detto né certo che assicurino – la «copertura dei costi». 15.8. E tanto è ben evidente nel caso di specie, relativo alla selezione pubblica, bandita dall’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale”, per la formazione di una graduatoria per l’assunzione di un Direttore di farmacia – livello Q2 del CCNL per i dipendenti da Aziende Farmaceutiche Speciali e, cioè, delle farmacie pubbliche che, secondo la contrattazione collettiva, sono controllate dalle imprese dagli enti locali, in qualsiasi forma gestite o partecipate, esercenti farmacie, magazzini all’ingrosso e laboratori. 15.9. Ne segue che, rientrando l’Azienda in questione – alla stregua delle coordinate sistematiche individuate dalle Sezioni Unite – tra gli enti pubblici non economici comunali, la procedura pubblica da essa bandita per la selezione del Direttore di Farmacia spetta alla cognizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, del d. lgs. 165/2001. (...) 17. Deve infine essere esaminato il terzo, invero confusamente e genericamente articolato, motivo di appello (p. 13 del ricorso), con il quale l’Azienda deduce che il ricorso di primo grado doveva essere respinto in quanto l’unico obiettivo della selezione era quello di formare una graduatoria da utilizzare per la copertura di posti da Direttore di farmacia in un ambito temporale rappresentato dal biennio di validità della graduatoria, mentre tale obiettivo non sarebbe stato raggiunto, sicché si giustificherebbe e sarebbe legittimo l’annullamento dell’intera selezione in ottemperanza di quanto previsto dal bando. 17.1. Il motivo è destituito di fondamento. 17.2. Bene ha rilevato il T.A.R., al riguardo, che l’annullamento è illegittimo perché l’art. 9, comma 2, dell’avviso in nessun modo aveva previsto che finalità essenziale o precipua della selezione fosse quella di formare una graduatoria comprendente più candidati alla quale attingere nel corso dei due anni, bensì quella 69 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V appunto di assumere in servizio un Direttore di farmacia che, all’esito della selezione, risultasse idoneo, come idonea è risultata essere la dott.ssa F. A. 17.3. Il richiamato art. 9, comma 2, dell’avviso fa solo riferimento alla facoltà di non procedere ad alcuna nomina e di annullare, quindi, l’intera selezione quando l’Azienda ritenga che non possa essere garantita una buona scelta nell’interesse dell’Azienda, previsione, questa, tanto vaga e imprecisata da far dubitare, peraltro, della sua legittimità, ma non allude in alcun modo alla necessità di ottenere una graduatoria specifica dalla quale trarre personale qualificato da utilizzarsi, oltre che per l’assunzione di un Direttore di Farmacia, anche per la copertura di analoghe posizioni di lavoro che si rendessero eventualmente necessarie per sostituzioni e/o vacanze di organico. 17.4. Evidente è quindi l’eccesso di potere in cui è incorsa l’Amministrazione, anche per violazione del principio utile per inutile non vitiatur e del fondamentale canone di proporzionalità e di efficienza e, in ultima analisi, di buon andamento, non essendo consentito annullare una procedura 18. Ne segue che l’appello, per i motivi esposti, deve essere respinto. 18.1. Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza dell’Azienda appellante. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’Azienda Speciale Multiservizi “Chieti Solidale” a rifondere in favore di F. A. le spese del presente grado di giudizio, che liquida nell’importo di € 4.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. 70 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 13. «To the victor belong the spoils»: il rapporto tra politica ed amministrazione nell'ordinamento italiano Corte Costituzionale, sentenza 25-02-2014, n. 27 1. I fatti La controversia ha ad oggetto alcune disposizioni che la Regione Molise ha emanato nell'ambito della legge 17 gennaio 2013, n. 4 (legge finanziaria regionale 2013) ed offre l’occasione alla Corte Costituzionale per tornare ad occuparsi della legittimità o meno della decadenza automatica dagli incarichi dirigenziali, in particolare nel settore sanitario, secondo il meccanismo c.d. dello spoils system. La prima delle censure sollevate, tuttavia, si riferisce all’asserito mancato rispetto da parte della Regione Molise di alcune disposizioni della l. 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), come modificate con d.l. 78 del 2010, con conseguente elusione di alcune norme dettate in vista del c.d. patto di stabilità interno. Quest’ultimo può identificarsi con una cornice normativa con dei contenuti economici che vengono modificati ogni anno in modo diverso (a partire dal 1999, anno di entrate in vigore a livello internazionale del Patto di Stabilità e Crescita) in base agli obiettivi programmatici che vengono fissati ogni anno, anche in base ai risultati raggiunti nel corso dell’anno precedente. Nel 2006, e poi nuovamente nel 2010, in particolare, il legislatore nazionale interviene con lo scopo di limitare la continua espansione della spesa per il personale e detta, quindi, un precetto che indichi il comportamento corretto da parte degli enti locali e regionali per quanto riguarda gli aspetti organizzativo-gestionali. La pronuncia sulla seconda questione, invece, interviene a proposito di una pratica sulla quale sia il legislatore che il giudice delle leggi si sono a più riprese confrontati, secondo vedute spesso non allineate; la Consulta, infatti, si è più volte pronunciata, anche prima della sentenza in questa sede esaminata, sulla decadenza automatica di figure dirigenziali dal loro incarico al termine del mandato politico, a partire dalla sentenza n. 223 del 2006, con diverse puntualizzazioni volte a valorizzare, in particolare, il principio di continuità dell'azione amministrativa, delimitando con il tempo i casi di compatibilità del “sistema delle spoglie” con i nostri principi costituzionali, con specifiche indicazioni proprio in riferimento alla revoca dagli incarichi nel settore sanitario. 2. La sentenza della Corte costituzionale Corte Cost., Sent., 25-02-2014, n. 27 – Pres. Silvestri- Red. Napolitano «[Omissis] Considerato in diritto 71 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 12, comma 1, e 34, comma 1, della legge della Regione Molise 17 gennaio 2013, n. 4 (Legge finanziaria regionale 2013), in riferimento agli artt. 97, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione. 1.1.− Secondo la parte ricorrente l’art. 12, comma 1, della legge reg. n. 4 del 2013 nella parte in cui prevede che «gli Enti inseriti nella Sezione II della Tabella A1, allegata alla medesima legge regionale n. 2/2012, sono transitoriamente autorizzati a procedere alla copertura della dotazione organica e del relativo fabbisogno triennale di personale con le modalità indicate dalle leggi istitutive» contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost. perché, prevedendo la possibilità di nuove assunzioni, violerebbe il principio fondamentale in materia di «coordinamento della finanza pubblica» stabilito dall’art. 1, comma 557, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2007), come modificato dall’art. 14, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, secondo il quale gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale con azioni rivolte ai seguenti ambiti: a) riduzione dell’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative; c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa. La medesima norma regionale violerebbe anche il principio fondamentale in materia di «coordinamento della finanza pubblica» di cui all’art. 1, comma 557-ter, della medesima legge n. 296 del 2006 secondo il quale: «In caso di mancato rispetto del comma 557, si applica il divieto di cui all’art. 76, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133», che vieta di procedere ad assunzioni di personale. 1.2.− La questione è fondata. In primo luogo, deve affermarsi che l’interpretazione data alla disposizione da parte del ricorrente è corretta. L’art. 12, comma 1, della legge reg. n. 4 del 2013, infatti, consente agli enti di cui alla Sezione II della Tabella A1 allegata alla legge della Regione Molise 26 gennaio 2012, n. 2 (Legge finanziaria regionale 2012), di procedere a nuove assunzioni senza alcun riferimento ai limiti di spesa per esse previsti, contenuti nella normativa nazionale in materia di personale delle pubbliche amministrazioni. [Omissis] I commi 557 e 557-ter dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 (come risultanti a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 14, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010) sono già stati qualificati da questa Corte come principi generali di «coordinamento della finanza pubblica» che le Regioni devono rispettare. In particolare con la sentenza n. 108 del 2011 si è detto che: «Tali norme statali, ispirate alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituiscono princìpi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono obiettivi di riequilibrio, senza, peraltro, prevedere strumenti e modalità per il perseguimento dei medesimi. [Omissis]». In altra occasione si è ulteriormente ribadita la natura di principio fondamentale in materia di «coordinamento della finanza pubblica» dell’art. 1, comma 557-ter, della legge n. 296 del 2006 [Omissis]. 72 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V A sua volta l’art. 76, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008 sopra citato prevede che «In caso di mancato rispetto del patto di stabilità interno nell’esercizio precedente è fatto divieto agli enti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione continuata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della presente disposizione». La norma impugnata, dunque, consente agli enti di cui alla Sezione II della Tabella A1 allegata alla legge reg. n. 2 del 2012 di procedere a nuove assunzioni in assenza, tuttavia, di un piano per il raggiungimento degli obiettivi di cui all’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, in particolare con riferimento alla riduzione dell’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti ed alla razionalizzazione ed allo snellimento delle strutture burocraticoamministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici. Come si è ricordato, l’art. 1, comma 557-ter, nel caso di mancato rispetto di quanto previsto dal comma 557 dell’art. 1, prevede che si applichi il divieto tassativo di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale ex art. 76, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008. Risulta, quindi, palese la violazione dei principi di «coordinamento della finanza pubblica» e di conseguenza dell’art. 117, terzo comma, Cost. 2.− La seconda questione ha ad oggetto l’art. 34 della legge reg. n. 4 del 2013. Secondo il ricorrente la norma impugnata, nella parte in cui prevede, al comma 1, che «al termine della legislatura decadono tutte le figure nominate a vario titolo, ragione o causa dal Presidente della Giunta, dalla Giunta regionale e dal Consiglio regionale», applicandosi anche alle nomine dei direttori generali delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale, violerebbe il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. Inoltre, risulterebbe violato anche l’art. 117, terzo comma, Cost. perché la norma si porrebbe in contrasto con la normativa statale in materia di incarichi dei direttori generali e in particolare con il principio fondamentale in materia di «tutela della salute» stabilito dall’art. 3-bis, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), secondo cui «Il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile, stipulato in osservanza delle norme del titolo terzo del libro quinto del codice civile [Omissis]». Infine, il Presidente del Consiglio lamenta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. perché l’art. 34, comma 1, impugnato inciderebbe su rapporti contrattuali vigenti, determinandone la decadenza, con invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile». 2.1.− La questione è fondata. Il legislatore regionale individua un’ipotesi di decadenza di tutte le figure nominate a vario titolo, ragione o causa dal Presidente della Giunta, dalla Giunta regionale e dal Consiglio regionale. In questa definizione estremamente ampia e generica rientrano certamente anche le nomine dei direttori generali delle aziende sanitarie. Questa Corte più volte ha 73 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme regionali che prevedevano la decadenza automatica dei direttori generali delle aziende sanitarie locali (sentenze n. 152 del 2013; n. 228 del 2011; n. 304, n. 224 e n. 34 del 2010; n. 104 del 2007). In particolare, da ultimo si è ribadito che i direttori generali delle ASL costituiscono «una figura tecnico-professionale che ha il compito di perseguire, nell’adempimento di un’obbligazione di risultato (oggetto di un contratto di lavoro autonomo), gli obiettivi gestionali e operativi definiti dal piano sanitario regionale (a sua volta elaborato in armonia con il piano sanitario nazionale), dagli indirizzi della Giunta, dal provvedimento di nomina e dal contratto di lavoro con l’amministrazione regionale» (sentenze n. 152 del 2013 e n. 104 del 2007). Le funzioni svolte dai direttori sono di carattere tecnico-gestionale, come confermato anche dai requisiti che la legge richiede per la loro nomina ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 502 del 1992 e delle relative norme regionali di dettaglio (sentenza n. 34 del 2010). Sotto il profilo organizzativo, tra l’organo politico e i predetti direttori generali «non vi è un rapporto istituzionale diretto e immediato», ma vi è «una molteplicità di livelli intermedi lungo la linea di collegamento che unisce l’organo politico ai direttori generali delle Asl» (sentenze n. 34 del 2010 e n. 104 del 2007). La disposizione impugnata, trovando applicazione nei confronti della tipologia di figure dirigenziali appena descritta – che esercita funzioni di carattere gestionale e non è legata all’organo politico da un rapporto diretto –, viola l’art. 97 Cost. sotto più profili. Innanzitutto, essa è in contrasto con il principio di buon andamento, perché il meccanismo di decadenza automatica incide sulla continuità dell’azione amministrativa (sentenze n. 228 del 2011, n. 304 e n. 224 del 2010). Come questa Corte ha statuito nella sentenza n. 124 del 2011, infatti, «il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve essere [Omissis] connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa [Omissis]». In secondo luogo, il carattere automatico della decadenza dall’incarico del direttore, previsto dalla disposizione impugnata, viola i principi di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa, perché esclude una valutazione oggettiva dell’operato del funzionario (sentenze n. 224 e n. 34 del 2010). In terzo luogo, la disposizione impugnata viola il principio di imparzialità dell’azione amministrativa, perché introduce un’ipotesi di cessazione anticipata e automatica dall’incarico del direttore generale dipendente da un atto dell’organo politico (sentenze n. 228 del 2011 e n. 224 del 2010). Infine, la disposizione impugnata viola il principio del giusto procedimento, perché non prevede «il diritto del funzionario di intervenire nel corso del procedimento che conduce alla sua rimozione e di conoscere la motivazione di tale decisione» (sentenze n. 34 del 2010 e n. 390 del 2008). Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal ricorrente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, della legge della Regione Molise 17 gennaio 2013, n. 4 (Legge finanziaria regionale 2013); 74 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, della legge della Regione Molise n. 4 del 2013 nella parte in cui non esclude gli incarichi di funzione dirigenziale di cui all’art. 3-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421). 75 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 14. Quanto sono private le società pubbliche? Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283 1. I fatti Sulla base di alcune segnalazioni della Guardia di Finanza, il 9 marzo 2009 il procuratore della Repubblica presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio avvia un’azione di responsabilità per danno erariale nei confronti del direttore generale, del sindaco e dell’amministratore unico di una società per azioni interamente partecipata dal Comune di Civitavecchia, denominata Etruria Trasporti e Mobilità s.p.a. e incaricata della gestione del servizio pubblico locale. Il procuratore accusa i convenuti di avere arrecato danno a tale società nell’espletamento delle loro funzioni. In primo luogo, essi avrebbero impegnato le risorse della società per lo svolgimento di un’attività non prevista di trasporto merci per conto terzi. In tale contesto, sono stati acquistati automezzi per il trasporto di cose, si è proceduto all’assunzione di autisti e si è impiegato personale della società ETM. In secondo luogo, i convenuti avrebbero remunerato, per mansioni mediatorie in realtà mai effettuate, un’altra società privata, la Santa Rita Logistica s.r.l., gestita in parallelo dallo stesso sindaco e dal medesimo amministratore dell’ETM. Dalla condotta dei tre convenuti sarebbero scaturiti effetti patrimoniali negativi, pari a circa 675 mila euro, in via immediata sul patrimonio della società, ma che si sarebbero riverberati sull’erario del Comune che è il socio unico dell’ETM. Con la sentenza del 4 maggio 2010, la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio, riconoscendo la natura di società in house dell’ETM, accoglie la domanda del procuratore e condanna i convenuti a risarcire il danno sofferto dalla società. La sentenza è oggetto di appello presso la sezione giurisdizionale centrale della Corte dei conti, la quale si pronuncia l’11 ottobre 2012. La sezione adita ritiene che l’azione per il risarcimento dei danni da mala gestio nei confronti degli organi di una società di diritto privato, anche se partecipata da soci pubblici, rientri nella sfera giurisdizionale del giudice ordinario. Di conseguenza, riforma la decisione di primo grado e dichiara il difetto di giurisdizione del giudice contabile. Il procuratore generale presso la Corte dei conti propone ricorso per cassazione su quest’ultima pronuncia, affermando che vi sono validi motivi per riconoscere la sussistenza della giurisdizione del giudice contabile. Alla Corte di Cassazione spetta dunque stabilire se l’azione di risarcimento del danno arrecato da organi di una società a partecipazione pubblica alla società medesima spetti alla cognizione del giudice ordinario o contabile. 76 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La sentenza della Cassazione Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283 – Pres. Rovelli – Est. Rordorf ESPOSIZIONE DEL FATTO Il 9 marzo 2009 il Procuratore della Repubblica presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei conti citò in giudizio dinanzi a detta sezione i sigg.ri R.S.A., C.A. e L.M.F., i quali avevano rispettivamente ricoperto le cariche di direttore generale, sindaco ed amministratore unico di una società interamente partecipata dal Comune di Civitavecchia, denominata Etruria Trasporti e Mobilità s.p.a. (in prosieguo indicata come ETM). Il Procuratore lamentò che i convenuti, nell’espletamento delle rispettive funzioni, avessero arrecato danno alla società, costituita per l’esercizio del trasporto pubblico locale, impegnandone le risorse in una non prevista attività di trasporto merci per conto terzi e remunerando per mansioni mediatorie, in realtà non effettuate, una diversa società costituita dal sig. C. e gestita di fatto dal sig. R.. L’adito giudice contabile, con sentenza del 4 maggio 2010, accolse le domande del Procuratore e condannò i convenuti a risarcire il danno sofferto dalla ETM. Fu proposto appello e la sezione giurisdizionale centrale della Corte dei conti, con sentenza depositata l’11 ottobre 2012, avendo ritenuto che l’azione per risarcimento dei danni da mala gestio nei confronti degli organi di una società di diritto privato, ancorché partecipata da soci pubblici, rientri nella sfera giurisdizionale del giudice ordinario, riformò la decisione di primo grado e dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice contabile. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte dei conti, formulando due motivi di doglianza entrambi volti ad affermare la sussistenza, nel caso in esame, della giurisdizione del giudice contabile. I sigg.ri R. e L. hanno resistito con distinti controricorsi. Il sig. L. ha anche depositato una successiva memoria. Nessuna difesa ha svolto invece in questa sede il sig. C.. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Le sezioni unite sono nuovamente chiamate a stabilire se sussista, ed eventualmente entro quali limiti, la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di soggetti che abbiano svolto funzioni amministrative o di controllo in società di capitali (nella specie una società per azioni) costituite e partecipate da enti pubblici, quando a quei soggetti vengano imputati atti contrari ai loro doveri d'ufficio con conseguenti danni per la società. Su tale questione, come più diffusamente si dirà tra un momento, questa corte è già intervenuta negli ultimi anni con molteplici pronunce. Conviene dire subito, però, che la fattispecie ora in esame presenta una connotazione particolare, cui solo di sfuggita v'era stata occasione di far cenno in alcune precedenti occasioni: cioè che la società asseritamente danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house. Cosa con tale espressione debba intendersi e perché ciò rilevi ai fini della giurisdizione lo si chiarirà meglio in seguito. Qui giova sottolineare che la qualifica della ETM come società in house del Comune di Civitavecchia discende da un 77 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V accertamento in fatto compiuto dal giudice di primo grado, il quale ne ha dato dettagliatamente atto nella propria sentenza (si vedano, in particolare, le pagg. 9 e 10), nella quale è infatti puntualizzato: che l'anzidetta società è stata costituita dall'ente pubblico comunale, il quale ne è l'unico socio e le cui azioni non possono essere neppure parzialmente alienate a terzi; che essa ha per oggetto l'esercizio del servizio di trasporto pubblico locale e di altri servizi inerenti alla mobilità urbana ed extraurbana (quali il servizio degli ausiliari della sosta e quello dei parcheggi); che la parte più importante dell'attività sociale è svolta in favore del comune partecipante; e che sulla medesima società detto comune esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. (...) 4. Nelle considerazioni ora svolte assume un ruolo centrale, come s’è già sottolineato, la distinzione tra la società di capitali (soggetto di diritto privato) ed i propri soci (ancorché eventualmente pubblici). Distinzione che - è appena il caso di ricordarlo - in via di principio non vien meno neppure nell'eventualità in cui la società sia unipersonale ed il capitale sociale appartenga quindi ad un unico socio, in base alle regole di matrice comunitaria introdotte nel nostro ordinamento prima per le sole società a responsabilità limitata e poi anche per le società azionarie. È proprio partendo da questo profilo che si manifesta, però, la necessità di un’ulteriore riflessione quando ci si trovi in presenza di quel particolare fenomeno giuridico, al quale si è già dovuto far cenno all'inizio di questa sentenza, che ha trovato ampia diffusione negli ultimi decenni e che va sotto il nome di in house providing. 4.1. La direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d'interesse economico generale (art. 1, par. 6). È perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del diritto comunitario, gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi direttamente o tramite terzi e che, in quest’ultimo caso, individuino diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso l'affidamento a società partecipate dall'ente pubblico medesimo. In tale ambito, peraltro, si possono dare ipotesi ben distinte: l’affidamento a società totalmente estranee alla pubblica amministrazione, l’affidamento a società con azionariato misto, in parte pubblico ed in parte privato, ed infine l’affidamento a società c.d. in house. Solo in quest’ultimo caso la Corte di Giustizia Europea (sin dalla nota sentenza Teckal del 18 novembre 1999, n. 107/98) ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica, muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza quando la società affidataria sia interamente partecipata dall'ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici. Siffatte indicazioni sono state pienamente recepite, in ambito nazionale, sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (si vedano tra le tante, a mero titolo d'esempio, le pronunce n. 7636/04, 962/06, 1513/07, 2765/09, 5808/09, 7092/10 ed 1447/11), sia da ultimo dalla Corte dei conti (si veda la sentenza n. 546/13). Anche queste stesse sezioni unite hanno avuto occasione, sia pur fuggevolmente, di farvi recentemente riferimento (si vedano le ordinanze del 5 aprile 2013, n. 8352, e del 3 maggio 2013, n. 10299) se ne è occupata più volte, infine, la Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza 20 marzo 2013, n. 46, sulla quale si dovrà poi brevemente tornare). 78 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Pur trattandosi all’origine di una figura di stampo eminentemente giurisprudenziale, la società in house non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla citata giurisprudenza Europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perché tale figura ricorra. Particolare risalto assume, in questo contesto, il disposto dell’art. 113, comma 4, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti a locali (D.Lgs. n. 267 del 2000), come riformulato dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 14, (convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326), che, in presenza di determinate condizioni, consente espressamente l’affidamento di servizi pubblici, anziché ad imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a società di capitali costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purché esse realizzino la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che le controllano e purché questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. È dunque possibile considerare ormai ben delineati nell’ordinamento i connotati qualificanti della società in house, costituita per finalità di gestione di pubblici servizi e definita dai tre requisiti già più volte ricordati: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. Ma s’intende che, per poter parlare di società in house, è necessario che detti requisiti sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale. 4.2. Poche brevi osservazioni paiono ancora opportune per meglio puntualizzare le tre caratteristiche salienti della società in house. In ordine alla prima di esse giova ricordare come già la giurisprudenza Europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (si vedano le sentenze della Corte di giustizia 10 settembre 2009, n. 573/07, Sea, e 13 novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/10 ed 8970/09). È quasi superfluo aggiungere che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari. Il requisito della prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Ma, come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439 (anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria: si veda, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia 11 maggio 2006, n. 340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche impiegate, dovendosi invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui l’attività accessoria eventualmente si ponga. In definitiva - e segnatamente per quel che interessa ciò che si andrà a dire in ordine alla reale natura delle società in house ai fini del riparto di giurisdizione - quel che soprattutto importa è che l’eventuale attività accessoria, oltre ad essere marginale, 79 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V rivesta una valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d'interesse economico generale svolto dalla società in via principale. Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, quel che rileva è che l'ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica. L'espressione 'controllo' non allude perciò, in questo caso, all'influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale (si vedano, in tal senso, le chiare indicazioni di Cons. Stato, Ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1, e della conforme giurisprudenza amministrativa che ne è seguita). 4.3. Le caratteristiche ora sommariamente descritte - e soprattutto la terza bastano a rendere evidente l'anomalia del fenomeno dell’in house nel panorama del diritto societario. È già anomalia non piccola il fatto che si abbia qui a che fare con società di capitali non destinate (se non in via del tutto marginale e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriali a fine di lucro, così da dover operare necessariamente al di fuori del mercato. Forse entro certi limiti una siffatta anomalia la si potrebbe ancora giustificare, in un contesto storico nel quale la causa lucrativa delle società di capitali è andata via via sbiadendosi in favore di una concezione che vede in quelle società dei modelli organizzativi utilizzabili per scopi diversi. Ma ciò che davvero è difficile conciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell'ente pubblico titolare della partecipazione sociale. (...) La società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione denuncia, non pare invece in grado di collocarsi come un'entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna. È stato osservato, infatti, che essa non è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte cost. n. 46/13, cit.); di talché ‘l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa’ (così Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/08, cit.). Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva. L’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa come persona giuridica 80 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare. 5. (...) Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico. L’analogia tra le due situazioni, che si è visto essere una delle caratteristiche salienti del fenomeno dell’in house, non giustificherebbe una conclusione diversa nei due casi, né quindi un diverso trattamento in punto di responsabilità e di relativa giurisdizione. D’altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità. 6. Il ricorso deve quindi esser accolto, in base al principio di diritto qui di seguito enunciato: 'La Corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici'. La sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio della causa alla Corte dei conti per un nuovo giudizio. (...) 81 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Modulo III Poteri e forme dell’azione amministrativa 82 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 15. Atto politico o discrezionalità tecnica? Il rifiuto dell’intesa con l’Unione atei e agnostici razionalisti (perché non è una confessione religiosa) Tar Lazio, Roma, sez. I, 3 luglio 2014, n. 7068 3. I fatti L’Unione Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR) – costituita di fatto nel 1987 e legalmente, come associazione non riconosciuta ai sensi degli artt. 36 ss. cod. civ., nel 1991 – è l’unica associazione italiana che aggrega gli atei e gli agnostici. Sin dai primi anni della sua costituzione, tenta di inoltrare alle autorità competenti la richiesta di intraprendere le trattative volte alla stipulazione di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione. L’associazione, tuttavia, riceve sempre risposte negative, fondate principalmente sulla non equiparabilità tra confessioni religiose e organizzazione ateistiche. L’UAAR, pertanto, nel 2004, per vedere tutelata la propria posizione, decide di adire il giudice amministrativo, presentando ricorso avverso il diniego espresso dal Governo di avvio delle trattative per la stipulazione dell’intesa. La Presidenza del Consiglio dei Ministri si costituisce in giudizio, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del gravame per difetto assoluto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo, ex art. 31 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, in relazione alla natura politica della gravata delibera del Consiglio dei Ministri. Con la sentenza n. 12539 del 2008, il Tar del Lazio, aderendo alla tesi prospettata dalla difesa erariale, dichiara l’inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, poiché riconduce il provvedimento impugnato nel novero dei c.d. atti politici. L’associazione, dunque, propone appello dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, con la sentenza n. 6083 del 2011, accoglie il gravame ed esclude la natura politica della determinazione governativa sull’avvio dell’intesa. Il Collegio, in particolare, riqualifica il diniego quale atto espressione di discrezionalità tecnica, in quanto tale, sindacabile da parte del giudice amministrativo. Difetta, invero, il requisito oggettivo dell’atto politico, ossia «la riconducibilità dell’atto alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri». La riforma della sentenza impugnata determina la rimessione della causa in primo grado. L’UAAR riassume, quindi, il giudizio dinanzi al Tar Lazio. La Presidenza del Consiglio dei Ministri, successivamente, impugna la sopra citata sentenza del Consiglio di Stato mediante ricorso per Cassazione per motivi di giurisdizione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 28 giugno 2013, n 16305, respingono il ricorso, affermando che l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa costituisce esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale. Il Collegio, in particolare, ritenendo che la stipulazione dell’intesa è volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose, afferma che il Governo avrebbe l’obbligo giuridico di avviare le trattative ex 83 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V art 8 Cost. per il solo fatto che una qualsiasi associazione lo richieda e, a prescindere dalle evenienze che si possano verificare nel prosieguo dell’iter legislativo. Con la sentenza in rassegna, il Tar del Lazio definisce la questione nel merito, confrontandosi con quanto statuito dal Consiglio di Stato, da un lato, e dalle Sezioni Unite, dall’altro. costituiscono in giudizio. 2. La decisione Tar Lazio, Roma, sez. I, 3 luglio 2014, n. 7068 – Pres. Piscitello – Est. Perna – Unione Atei e Agnostici Razionalisti c. Presidenza del Consiglio dei Ministri e altri «[Omissis] 3.1. La questione giuridica sostanziale, sottesa all'intera vicenda in controversia, risiede nella controversa natura dell'UAAR, sostenendosi da parte ricorrente che si tratterebbe di una vera e propria confessione religiosa ex art. 8, comma 3, della Costituzione, laddove la resistente Presidenza del Consiglio dei Ministri ha invece negato tale natura, così pervenendo al contestato rifiuto dell'avvio delle ripetute trattative con l'Associazione. 3.1. A tale riguardo, il Collegio deve preliminarmente considerare che con la sentenza n. 16305 del 2013, resa tra le parti sul ricorso del Governo ai sensi dell'art. 111 Cost., le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel confermare la sussistenza della giurisdizione del Giudice amministrativo sulla vicenda contenziosa all'esame, hanno sostanzialmente affermato che le confessioni religiose sarebbero portatrici di una pretesa costituzionalmente tutelata (e quindi azionabile in giudizio) all'apertura delle trattative per la stipula dell'intesa di cui all'art. 8, comma 3, Cost., e all'implicito riconoscimento della loro natura confessionale. 3.2. Orbene, seppure è vero, per costante giurisprudenza di legittimità, che la Corte di Cassazione, quando regola la giurisdizione, è giudice del "fatto" - nel senso che, agli effetti dell'identificazione del giudice munito di giurisdizione, può apprezzare elementi probatori acquisiti al processo - ciò non di meno, è parimenti incontestato che le valutazioni del materiale istruttorio effettuate dalla S.C. ai fini della individuazione del giudice munito di potestas iudicandi non condizionano la decisione di merito della controversia, che rimane comunque riservata in via esclusiva al giudice individuato dalla Corte regolatrice (Cass. n. 9325/2007). Ne discende pertanto che la sentenza n. 16305 del 2013, nel ritenere che la presente controversia sia devoluta alla cognizione del G.A., non spiega tuttavia un effetto vincolante quanto alla definizione nel merito del presente giudizio e, nella specie, in particolare, quanto all'accertamento della natura giuridica dell'UAAR. 3.3. Peraltro, la richiamata sentenza n. 16305 del 2013 reca alcuni interessanti enunciati che conviene senz'altro richiamare ai fini della decisione del presente gravame. 3.3.1. È utile prendere le mosse dalla osservazione, che la S.C. trae dalla relazione dell'ufficio del Massimario, secondo cui "la Corte europea dei diritti dell'uomo 84 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V riconosce ad ogni confessione un interesse giuridicamente qualificato per l'accesso agli status promozionali, anche su base pattizia; impone alle autorità nazionali di predisporre criteri di accesso non discriminatori e di adottare congrue motivazioni d'esercizio; ammette il sindacato giurisdizionale sulla ragionevolezza dei criteri predisposti e sull'idoneità delle motivazioni adottate, in funzione di tutela della posizione soggettiva incisa" (CEDU, 31 luglio 2008, n. 40825/98; 19 marzo 2009, n. 28648/03; 30 giugno 2011, n. 8916/05; 9 dicembre 2010, n. 7798/08; 6 novembre 2008, n. 8911/00)." Afferma quindi il Giudice di legittimità che "l'assenza di normazione specifica sui fenomeni religiosi non è di per sé un impedimento a contrastare in sede giurisdizionale il rifiuto di intesa che sia fondato sul mancato riconoscimento, in capo al richiedente, della natura di confessione religiosa". E, nel confermare la correttezza di fondo della soluzione prescelta dal Consiglio di Stato nella sentenza 6083 del 2011 (che nella presente controversia ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo), la decisione n. 16305 all'esame prosegue, stabilendo che "Il principio di laicità dello Stato, 'che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della repubblica' (Corte Cost. 203/1989) implica che in un regime di pluralismo confessionale e culturale sia assicurata l'eguale liberta delle confessioni religiose"; che "Al tempo stesso i rapporti tra Stato e confessione religiosa sono regolati secondo un principio pattizio, con la stipula delle intese"; che "Anche se l'assenza di una intesa con lo Stato non impedisce di professare liberamente il credo religioso, è in funzione dell'attuazione della eguale libertà religiosa che la Costituzione prevede che normalmente laicità e pluralismo siano realizzati e contemperati anche tramite il sistema delle intese stipulate con le rappresentanze delle confessioni religiose", non senza specificare, infine, che "si devono garantire contemporaneamente, di regola, tramite le intese: l'indipendenza delle confessioni nel loro ambito, nell'accezione più estesa; il loro diritto di essere ugualmente libere davanti alla legge; il diritto di diversificarsi l'una dall'altra; ma anche la garanzia per lo Stato - ecco il senso della regolamentazione dei rapporti - che l'esercizio dei diritti di libertà religiosa non entri in collisione, per quanto è possibile, con le sfere in cui si manifesta l'esercizio dei diritti civili e del principio solidaristico cui ogni Cittadino è tenuto". 3.3.2. La pronuncia delle Sezioni Unite perviene quindi all'affermazione che lo "stabilire la qualificazione di confessione religiosa è una premessa basilare per la salvaguardia dei valori di cui si discute"; e, a tal riguardo, la stessa sentenza richiama l'enunciato della Corte costituzionale secondo il quale (v. ancora Cost. 346/02) "all'assenza, nell'ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le «confessioni religiose» si può sopperire con i "diversi criteri, non vincolati alla semplice autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del 1992), che nell'esperienza giuridica vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali"; e, ancora, "(C. Cost. 195/93) [la quale] aveva ritenuto che la natura di confessione può risultare 'anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione'". Per concludere che "È nel giusto quindi la sentenza impugnata quando sostiene che rientra tutt'al più nell'ambito della discrezionalità tecnica l'accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell'istante come confessione religiosa". 3.3.3. Tanto considerato, la Corte ritiene, per quanto di interesse nel presente giudizio, che "Il procedimento di cui all'art. 8 è in funzione [...] della difesa delle confessioni religiose dalla lesione discriminatoria che si potrebbe consumare con una 85 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V immotivata e incontrollata selezione degli interlocutori confessionali"; che "La posizione del richiedente l'intesa mira dunque a ottenere che il potere di avviare la trattativa sia esercitato in conformità alle regole che l'ordinamento impone in materia, che attengono in primo luogo all'uso di canoni obbiettivi e verificabili per la individuazione delle confessioni religiose legittimate"; che "L'attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non può quindi essere rimessa alla assoluta discrezionalità del potere dell'esecutivo, che è incompatibile con la garanzia di eguale liberta di cui all'art. 8 c. 1 [Cost.]". 3.3.4. I richiamati enunciati della Corte risultano in linea con le chiare indicazioni recate dalla richiamata sentenza del Consiglio di Stato n. 6063 del 2011, che, in relazione all'avvio di trattative finalizzate all'eventuale stipula di intese ai sensi dell'art. 8, comma 3, Cost., aveva già evidenziato l'ampia discrezionalità che indubbiamente le connota, con riferimento sia all'an dell'intesa, sia - prima ancora - alla stessa individuazione dell'interlocutore in quanto confessione religiosa; e, ciò che più in questa sede rileva, aveva ritenuto connotato da discrezionalità tecnica l'accertamento preliminare relativo alla riconducibilità alla categoria delle "confessioni religiose" dell'organizzazione richiedente, con conseguente acclarata possibilità, nell'esercizio di tale discrezionalità tecnica, di escludere motivatamente che il soggetto interessato presenti le caratteristiche che gli consentirebbero di rientrare fra le "confessioni religiose" (come è avvenuto nel caso di specie). 4. Alla luce dei principi espressi dalle richiamate pronunce deve dunque ritenersi che la questione della natura giuridica dell'UAAR, sollevata dalla odierna ricorrente, si sostanzia nella contestazione degli esiti dell'accertamento preliminare compiuto dal Governo in merito alla riconducibilità dell'Associazione richiedente alla categoria delle "confessioni religiose", accertamento connotato da una lata discrezionalità tecnica; esso rimane dunque assoggetto al sindacato di legittimità del Giudice amministrativo secondo le regole e nei limiti elaborati dalla giurisprudenza, anche di legittimità. 4.1. Nel caso all'esame, il secondo motivo di impugnazione si profila nel suo complesso inammissibile, poiché con esso si sollecita lo scrutinio dell'adìto Giudice sull'operazione di accertamento compiuta dall'Autorità resistente sulla natura confessionale dell'Associazione ricorrente, al fine di sostituirla con una diversa valutazione basata su una diversa ricostruzione dei caratteri e degli indici rilevanti per una siffatta qualificazione, proposta dalla ricorrente; scrutinio all'evidenza non consentito al Giudice, senza invadere l'ambito della discrezionalità tecnica riservato all'Autorità, come pacificamente affermato dalla giurisprudenza (Cons. St., III, 2 aprile 2013, n. 1856; id., 28 marzo 2013, n. 1837; Tar Lazio, I, 21 giugno 2013, n. 6259; Cons. Stato, VI, 12 febbraio 2007, n. 550; Cons. St., VI, 10 marzo 2006, n. 1271; TAR Lazio, I, 24 agosto 2010, n. 31278; id., 29 dicembre 2007, n. 14157; id., 30 marzo 2007, n. 2798; id., 13 marzo 2006, n. 1898) e come, da ultimo, autorevolmente ribadito dalla Suprema Corte, in tema di sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità amministrativa nella materia del diritto della concorrenza, caratterizzata da un alto tasso di discrezionalità tecnica, ricordando che "Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità - come 86 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza - detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini" (Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013). [Omissis] 4.4. Osserva il Collegio che la valutazione compiuta dal Governo in ordine al carattere non confessionale dell'Associazione ricorrente, in quanto richiama una concezione di confessione religiosa avente un contenuto positivo e, quale presupposto, "un fatto di fede rivolto al divino" - escludendo per converso da tale nozione un contenuto negativo rivolto a negare l'esistenza del trascendente e del divino - non sembra manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con il significato che, nell'accezione comune, ha la religione, quale insieme delle credenze e degli atti di culto che legano la vita di un individuo o di una comunità con ciò che ritiene un ordine superiore e divino; e tenuto altresì conto del fatto che la stessa UAAR si autodefinisce (nello "Statuto") "organizzazione filosofica non confessionale", che "si propone di rappresentare le concezioni del mondo razionaliste, atee o agnostiche, come le organizzazioni filosofiche confessionali rappresentano le concezioni del mondo di carattere religioso": con ciò autoqualificandosi essa stessa al di fuori dell'ambito delle confessioni religiose [Omissis] P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge [Omissis]». 87 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 16. Poteri impliciti, determinazioni urgenti e garanzie procedurali. L’intervento urgente dell’Aeegsi in materia di disciplina degli sbilanciamenti di energia elettrica in Sardegna Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2015, n. 1532 4. I fatti Nel 2012, l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il settore idrico (d’ora in poi Aeegsi o Autorità) registra in Sardegna una consistente differenza tra l’energia programmata in prelievo in esito al Mercato del giorno prima (MGP) e quella misurata in prelievo. Ciò sarebbe il risultato di una precisa scelta degli operatori del settore finalizzata alla vendita dell’energia acquistata in eccesso sul MGP. L’Autorità, al fine di evitare un aumento ingiustificato dei costi per il sistema elettrico e garantire la sicurezza del medesimo, adotta la delibera del 2 agosto 2012, n. 342/2012/R/EEL – recante «Intervento urgente in materia di disciplina di sbilanciamenti di energia elettrica e avvio di un’istruttoria conoscitiva in merito alle dinamiche del mercato dell’energia elettrica in Sardegna» – imponendo a Terna S.p.A. di calcolare i prezzi di sbilanciamento, a partire dal luglio 2012. Terna è, infatti, la società per azioni che esercita le attività di trasmissione e di dispacciamento dell’energia elettrica, ivi compresa la gestione unificata della rete di trasmissione nazionale. E’, dunque, compente a monitorare i flussi elettrici e a correggere i livelli di immissione e prelievo di energia, in modo che siano perfettamente bilanciati in ogni momento, inviando, ove necessario, ordini a ridurre o ad aumentare l’energia immessa in rete alle unità di produzione. Contro la predetta decisione dell’Aeegsi ricorre la società Illumia S.p.A. La società Illumia fornisce energia elettrica ai clienti finali. Per approvvigionarsi, si rivolge al mercato e pertanto usufruisce del servizio di dispacciamento in prelievo. Tra i mercati in cui opera, vi è anche quello della Regione Sardegna, una delle zone in cui è diviso il territorio nazionale al fine del monitoraggio e dell’applicazione dei corrispettivi di sbilanciamento. La società Illumia ritiene che la determinazione dell’Autorità – insieme agli ulteriori provvedimenti successivamente adottati sempre in tema di contenimento degli oneri di dispacciamento sulle isole maggiori – sia illegittimamente lesiva dei propri interessi, in quanto viziata per eccesso di potere, difetto di motivazione, travisamento dei fatti, irragionevolezza e carenza di istruttoria, anche in relazione all’omissione della previa procedura di consultazione. Per tale ragione, propone azione di annullamento dinanzi al Tar Lombardia. L’Aeegsi si costituisce in giudizio, insistendo per il rigetto del ricorso. Il Tar, con la sentenza n. 1648 del 2014, accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati. I Giudici di prime cure rilevano l’insussistenza del presupposto di straordinaria urgenza ad intervenire – non prospettandosi invero alcun rischio per la stabilità e la sicurezza in senso strutturale del sistema elettrico isolano – nonché il mancato esperimento di una previa procedura di consultazione con i potenziali stakeholders, ossia i soggetti che operano nel mercato regolato. Contro la decisione del Tar, la soccombente Autorità propone appello dinanzi al Consiglio di Stato. 88 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La decisione Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2015, n. 1532 – Pres. Patroni Griffi – Est. Contessa – Aeegsi c/ Illumia S.p.A. e altri «[Omissis] 2. Il primo motivo di appello (con il quale si chiede la riforma della sentenza in epigrafe in relazione al presupposto della mancanza di un effettivo carattere di urgenza per ciò che riguarda la possibilità di aumenti dei costi e la presenza di rischi immediati per il sistema elettrico) è infondato. [Omissis] 3. Va premesso al riguardo che la deliberazione dell'Autorità appellante del 30 ottobre 2009 n. 46 (recante “Disciplina della partecipazione ai procedimenti di regolazione dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas”) prevede in via generale che l'adozione degli atti di regolazione da parte dell'Autorità appellante debbano essere preceduti da adeguata consultazione pubblica e che sia possibile procedere in assenza di previa consultazione solo "quando essa è incompatibile con esigenze di straordinaria urgenza, emergenza o segretezza”. La previsione in parola (e la disposizione derogatoria appena richiamata) declina in modo piuttosto coerente il consolidato - e qui condiviso - orientamento secondo cui, in settori sostanziali quale quello che qui viene in rilievo, l'esercizio dell'attività di regolazione da parte delle Autorità di settore impone di assicurare in modo quanto mai ampio la c.d. legalità in senso procedimentale. Si è osservato al riguardo che negli ambiti caratterizzati da particolare tecnicismo, quale quello che qui viene in rilievo, le leggi di settore attribuiscono alle Autorità di regolazione e controllo, al fine di assicurare il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, non solo poteri amministrativi individuali ma anche poteri di regolazione. Come è noto, il principio di legalità impone non solo la indicazione dello scopo che l'Autorità amministrativa deve perseguire ma anche la predeterminazione, in funzione di garanzia, del contenuto e delle condizioni dell'esercizio dell'attività (come nel caso dell'esercizio dell'attività regolamentare ordinariamente esercitata dallo Stato ai sensi dell'articolo 17 della L. 23 agosto 1988, n. 400). Nel caso degli atti di regolazione adottati dalle Autorità amministrative di settore (quali quelli della cui legittimità qui si discute) la legge, tuttavia, normalmente non indica nei dettagli il relativo contenuto, né descrive in modo prescrittivo le condizioni e i limiti di esercizio della relativa attività. La parziale deroga al principio di legalità in senso sostanziale (che si estrinseca, in particolare, attraverso la tipica forma di esercizio del potere regolamentare ai sensi dell'articolo 17, cit., secondo un sistema ispirato a una rigorosa tipicità) si giustifica, nel caso delle Autorità indipendenti, in ragione dell'esigenza di assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina: il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorità il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all'evoluzione del sistema. Una predeterminazione legislativa rigida risulterebbe invero di ostacolo al perseguimento di tali scopi: da qui la conformità a Costituzione, in relazione agli atti regolatori in esame, dei poteri impliciti. 89 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V D'altra parte, la dequotazione del tipico principio di legalità in senso sostanziale giustificata, come detto, dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in particolari settori quali quelli demandati alle Autorità amministrative indipendenti impone, tuttavia, il rafforzamento del principio di legalità in senso procedimentale il quale si sostanzia, tra l'altro, nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore nell'ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari (in tal senso: Cons. Stato, VI, 2 maggio 2012, n. 2521; id., VI, 27 dicembre 2006, n. 7972). 3.1. [Omissis] evitare che la mera affermazione relativa all'esistenza di generiche ragioni di "straordinaria urgenza" possa legittimare l'Autorità di settore a svincolare sé medesima dal necessario (e tendenzialmente indefettibile) presidio di legalità in senso procedimentale rappresentato dal previo esperimento della consultazione pubblica. Ed infatti, laddove si ammettesse che la sussistenza delle richiamate ragioni possa essere invocata in modo - per così dire - ampio ed elastico, ne conseguirebbe un'ulteriore e indebita (in quanto tendenzialmente autoprodotta) estensione della deroga al generale principio secondo cui l'esercizio dell'attività di regolazione deve essere ricondotto in modo diretto o indiretto a un circuito di legittimazione democratica (ovvero, in carenza - e in via eccezionale -, accompagnato da pregnanti e indefettibili garanzie di carattere partecipativo). 3.2. Tanto premesso dal punto di vista sistematico, i primi Giudici hanno condivisibilmente affermato che, nel caso in esame, l'Autorità appellante non avesse correttamente esplicitato le asserite "ragioni di urgenza" di cui al richiamato articolo 4.4. (inteso quale disposizione di centrale rilievo sistemico volta a presidiare - con valenza, per così dire, 'di chiusura' - le stringenti condizioni di legittimità dell'esercizio di un potere regolatorio del tutto peculiare nell'ambito dell'ordinamento giuridico vigente e la cui mancata osservanza non può essere riguardata attraverso l'angolo visuale della mera strumentalità delle forme). [Omissis] 3.5. Si deve infatti affermare il carattere del tutto preliminare e assorbente del vizio derivante dalla mancata osservanza degli obblighi partecipativi che necessariamente devono precedere l'adozione degli atti di regolazione. Si intende con ciò dire che il carattere del tutto fondante che il rispetto della legalità in senso procedimentale riveste nell'ambito della legittimazione dell'esercizio delle attività di regolazione delle Autorità indipendenti non ammette lo svolgimento ex post di un giudizio controfattuale (o di prognosi postuma) circa gli esiti che la pur doverosa partecipazione - in concreto omessa - avrebbe prodotto laddove fosse stata correttamente ammessa. Un siffatto approccio, lo si ripete, può essere compatibile con il principio di strumentalità delle forme che, nell'attuale evoluzione dell'ordinamento amministrativo, accompagna il dibattito sul rilievo che le omissioni di carattere meramente procedimentale sortisce sull'atto finale nell'ambito delle attività amministrative - per così dire - 'tipiche'. Al contrario, gli esiti del medesimo approccio non possono essere sic et simpliciter traslati nel diverso settore dell'esercizio dell'attività di regolazione delle Autorità indipendenti, nel cui ambito il corretto, doveroso e diligente esercizio dell'interlocuzione procedimentale ex ante costituisce di per sé una delle condizioni (non eliminabili e non sostituibili) di conformità a costituzione dello stesso modello regolatorio prima ancora che di conformità a legge del suo concreto esercizio. 90 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Ne consegue che il mancato rispetto delle richiamate garanzie e regole procedimentali determini ex se l'illegittimità dell'atto regolatorio finale, senza che sia possibile invocare il ricorso al richiamato giudizio di carattere controfattuale. 3.6. Per le medesime ragioni, non può essere condivisa la tesi dell'Autorità, la quale invoca una sorta di efficacia sanante 'postuma' per effetto dell'adozione della delibera n. 285/2013/R/EEL (la quale era stata accompagnata da una sorta di consultazione "ora per allora" in ordine a un contenuto regolatorio invero già in precedenza adottato). 3.7. Ebbene, in sede di adozione della Delib. n. 342/2012/R/EEL l'Autorità si è limitata ad affermare che "risulta necessario adottare misure volte ad evitare con effetto immediato le condotte opportunistiche sopra descritte, le quali stanno comportando costi e rischi per il sistema elettrico, specie in termini di esercizio in sicurezza del sistema stesso". Pertanto, dal tenore della richiamata delibera emerge che le ragioni di straordinaria urgenza ed emergenza che hanno indotto ad omettere la necessaria consultazione preliminare consisterebbero unicamente nei 'costi e rischi' per la sicurezza del sistema elettrico determinati dalle condotte opportunistiche degli operatori i quali (al pari dell'odierna appellata) avrebbero programmato i prelievi di energia attestandoli su livelli strutturalmente e sensibilmente diversi - e maggiori - rispetto a quelli ragionevolmente prevedibili, in tal modo realizzando "un uso parassitario e indebito del servizio di dispacciamento" (delibera 342, cit., pag. 3). Ebbene, ad avviso del Collegio le richiamate ragioni e finalità non risultavano ex se idonee a giustificare l'adozione di un atto di regolazione di carattere straordinario e derogatorio del generale principio di partecipazione procedimentale. Non viene qui negata, naturalmente, la possibilità per l'Autorità di settore di adottare un atto generale di regolazione della materia degli sbilanciamenti, così come degli oneri di dispacciamento. Ciò che è invece precluso all'Autorità è adottare una revisione tendenzialmente organica e strutturale della disciplina degli sbilanciamenti e degli oneri di dispacciamento attraverso strumenti di estrema urgenza in assenza dei relativi presupposti legittimanti. 3.7.1. Si osserva al riguardo: - che in sede di adozione della prima delle richiamate delibere l'Autorità non avesse allegato elementi concreti atti a dimostrare il carattere di somma urgenza dell'intervento di regolazione (limitandosi - e in modo apodittico - a paventare "costi e rischi per il sistema elettrico, specie in termini di esercizio in sicurezza del sistema stesso"); - che solo in sede di appello l'Autorità ha mutato prospettiva, affermando che il paventato pericolo alla sicurezza del sistema sarebbe stato di ordine meramente economico e sarebbe consistito nel rischio, per Terna s.p.a., di non essere in grado di fare fronte agli ingentissimi costi relativi alle attività di 'trading' in Sardegna; - che, tuttavia (in disparte i profili di ammissibilità di una siffatta - tardiva prospettazione), i relativi assunti non risultano condivisibili in quanto la tendenziale insostenibilità dei richiamati oneri aggiuntivi è stata soltanto affermata, senza che fossero addotti elementi inconfutabili atti a dimostrarne la sussistenza (e una siffatta allegazione sarebbe risultata tanto più necessaria in considerazione degli ingentissimi flussi finanziari che caratterizzano l'ordinario esercizio dell'attività di dispacciamento da parte di Terna s.p.a.). [Omissis] 91 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V - che, allo stesso modo, non è stato allegato alcun elemento concreto idoneo a suffragare l'affermazione secondo cui il peso dei richiamati oneri aggiuntivi sarebbe stato idoneo a determinare un "pericolo di interruzione del servizio"; - che, invero, dall'esame della richiamata Delib. n. 342/2012/R/EEL emerge che l'Autorità, lungi dall'allegare elementi concreti in ordine alla sussistenza di un rischio effettivo e concreto per la continuità del servizio, avesse piuttosto allegato rischi meramente potenziali ed ipotetici relativi ad incrementi di oneri per la gestione del sistema (a pagina 3 della delibera si legge infatti che "tale attività potrebbe (...) avere causato un significativo e improprio incremento dei costi sostenuti da T. per la regolazione degli sbilanciamenti che non trova giustificazione nelle reali condizioni di esercizio del sistema elettrico in Sardegna"). Si tratta invero di circostanze che, anche laddove provate in concreto (e non basate su mere asserzioni di carattere ipotetico), avrebbero semmai giustificato l'adozione di una nuova regolamentazione di settore 'a regime' e non anche l'adozione di un provvedimento asseritamente caratterizzato da straordinaria urgenza o emergenza; [Omissis] - che l'insussistenza delle richiamate ragioni di urgenza ed emergenza risulta ulteriormente confermata dalla circostanza per cui anche le ulteriori delibere impugnate in primo grado (si tratta della n. 239/2013/R/EEL del 30 maggio 2013 e della 285/2013/R/EEL del 28 giugno 2013) fossero state adottate in assenza di una consultazione preventiva, pur seguendo di circa un anno l'adozione della prima di esse e pur introducendo numerosi e rilevanti elementi di regolazione. Per quanto riguarda, in particolare, la delibera 285/2013/R/EEL si è già osservato in precedenza che essa avesse tentato di introdurre una sorta di 'consultazione postuma' avente ad oggetto un contenuto regolatorio nella sostanza già in vigore da alcuni mesi, in tal modo derogando in modo inammissibile al tipico - quanto necessario - carattere preventivo dell'istruttoria prodromica all'adozione degli atti di regolazione delle Autorità di settore; - che non può contraddirsi l'affermazione dell'Autorità appellante secondo cui la gestione del sistema elettrico a un costo giustificato e ragionevole costituisca "l'essenza stessa del servizio di dispacciamento" (ragione per cui le misure regolatorie volte a conseguire tale finalità mirerebbero al soddisfacimento di un interesse pubblico generale). Il punto è che il perseguimento di finalità di interesse generale (quali quelle cui mira in via generale l'attività istituzionale dell'AEEG) deve avvenire utilizzando gli strumenti che l'ordinamento appronta in via ordinaria, non essendo predicabile il sostanziale parallelismo invocato dall'appellante fra il perseguimento di siffatte finalità e il generalizzato ricorso a strumenti regolatori di carattere eccezionale (e in parte extra ordinem). [Omissis] 4. Le ragioni e gli argomenti sin qui svolti presentano carattere assorbente e risultano di per sé idonei a determinare la reiezione dell'appello. Ed infatti, la sentenza in epigrafe deve essere confermata per la parte in cui (punto 3.1. della motivazione) ha rilevato che gli atti impugnati in primo grado fossero radicalmente illegittimi per violazione delle garanzie procedimentali che necessariamente devono presiedere all'adozione degli atti di regolazione delle Autorità amministrative indipendenti (secondo un principio generale di cui l'articolo 4 della delibera n. 46/2009 rappresenta mera quanto coerente attuazione). [Omissis] 92 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. [Omissis]». 93 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 17. La nuova acquisizione sanante, ovvero il provvedimento “riparatore” che piace alla Consulta Corte Costituzionale, sentenza 30-04-2015, n. 71 3. I fatti La sentenza n. 71/2015 della Corte Costituzionale interviene all'esito di un lungo percorso normativo e giurisprudenziale che ha avuto ad oggetto modelli di espropriazione non conformi pienamente all'iter che il legislatore fissa nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, il d.P.R. n. 327/2001. In particolare, nell'aprile 2015 la Consulta è chiamata a pronunciarsi nei giudizi di legittimità costituzionale promossi dalla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con due ordinanze del 13 gennaio 2014 e dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione II, con ordinanze del 12 maggio e del 5 giugno 2014. La pronuncia, quindi, trae origine da quattro distinti giudizi di merito. Il primo tra questi viene instaurato innanzi al TAR Puglia, sezione distaccata di Lecce; il ricorrente, il cui terreno era stato sottoposto a procedura espropriativa da parte del Comune di Porto Cesareo per la realizzazione di strade, parchi e parcheggi, ne chiede la condanna alla restituzione, in quanto il bene era stato, a sua detta, sottoposto ad occupazione senza titolo, per l'inutile scadenza della dichiarazione di pubblica utilità. Il 25 giugno 2010 il TAR ordina con sentenza n. 1614/2010 l'adozione del provvedimento acquisitivo delle aree ai sensi dell'art. 43 del d.P.R. n. 327/2001. In seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma, il ricorrente adisce il medesimo TAR per ottenere la restituzione del fondo ed il risarcimento del danno. Nelle more viene introdotto l'art 42bis nel medesimo testo di legge e, conseguentemente, l'amministrazione comunale dispone l'acquisizione dei terreni al suo patrimonio, con contestuale liquidazione di indennizzo in base alle nuove previsioni; tale liquidazione viene contestata dal ricorrente con motivi aggiunti. A questo punto, tuttavia, il Comune di Porto Cesareo propone regolamento di giurisdizione, ritenendo che la controversia attenga esclusivamente all'entità del ristoro economico, e chiede alla Corte di Cassazione di attribuirla al giudice ordinario - invece che a quello amministrativo fin dall'inizio adito – ai sensi dell'art. 133, comma I, lett. f), del d. lgs. 104/2010 (c.d. codice del processo amministrativo). I giudici li legittimità, dunque, ritengono di dover sottoporre l'art. 42bis al giudizio di legittimità costituzionale. Il secondo giudizio di merito, invece, è originato da una procedura espropriativa portata avanti dall'AIPO (Agenzia interregionale del fiume Po), al fine della realizzazione di argini lungo un torrente. Il Tribunale Superiore delle acque pubbliche, adito dai proprietari, con una sentenza del febbraio 2006, confermata anche dalla Cassazione, Sezioni Unite Civili, con sent. 28652/2008, annulla gli atti ablatori, ma l'AIPO non esegue la sentenza. 94 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Pertanto, il Tribunale Superiore delle acque pubbliche nomina un commissario ad acta, conferendogli il potere di provvedere alla restituzione degli immobili espopriandi ovvero di acquisirli ai sensi dell'art. 43 t.u. espropri. Nelle more, tale disposizione viene dichiarata incostituzionale e sostituita dall'art. 42bis; sulla base della nuova disciplina il commissario dispone l'acquisizione dei terreni e liquida l'indennizzo. Il provvedimento viene impugnato presso il Tribunale superiore delle acque pubbliche, che lo rigetta; segue, dunque, l'impugnazione della decisione in Cassazione, con contestuale eccezione di incostituzionalità dell'art. 42bis, condivisa dalla Suprema Corte, che la rimette con ordinanza n. 90/2014 ai giudici delle leggi. Il terzo giudizio di merito, invece, vede contrapposti, da un lato, una società – la Corrida srl – e, dall'altro, il Comune di Roma. Questo, nel 1981, con delibera della Giunta comunale approva un progetto per la realizzazione di opere di edilizia scolastica comunale, con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell'acquisizione di alcuni fondi di proprietà della Corrida srl, dei quali viene disposta l'occupazione d'urgenza. Le opere vengono realizzate, ma non viene regolarmente terminata la procedura con l'adozione del decreto di esproprio. Pertanto, tutti gli atti fino a quel momento emanati vengono annullati dal TAR Lazio, nel frattempo adito dalla società, con sentenza n. 5711/2002, confermata anche dal Consiglio di Stato con sentenza n. 3731/2009. Conseguentemente, la Corrida srl, dopo essersi rivolta in prima battuta al Tribunale civile di Roma al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell'occupazione qualificata come “usurpativa” ed aver da questo ricevuto una pronuncia di difetto di giurisdizione, riassume il giudizio innanzi al TAR Lazio, al quale domanda l'accertamento della propria abdicazione del diritto di proprietà sul bene e del diritto ad ottenere il risarcimento del danno per equivalente, oltre a quello per mancata utilizzazione nel periodo di occupazione abusiva. Il TAR, a questo punto, solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42bis che sottopone alla Consulta con ordinanza numero 163/2014. Il quarto ed ultimo giudizio di merito, infine, trae origine da un'occupazione d'urgenza disposta dal Comune di Roma nei confronti una porzione di fondo di proprietà di alcuni privati, che viene trasformato per intero in maniera irreversibile, nonostante la procedura ablativa sia eseguita in modo legittimo solo in parte, con decreti del Presidente della Giunta regionale del Lazio nn. 1420 e 1421 del 1993. I privati si rivolgono alla Corte di Appello, affinché questa determini l'indennità di occupazione e, per la parte espropriata, l'indennità di esproprio vera e propria. Il giudice adito emette le sentenza n. 2043/2009, che passa in giudicato. Nel corso di questo giudizio, inoltre, emerge che anche la porzione restante di fondo era stata occupata e su di essa era stata realizzata l'opera pubblica. Pertanto, i privati, con motivi aggiunti, rappresentano di aver inutilmente diffidato il Comune a procedere all'acquisizione del terreno ed alla determinazione di un ulteriore importo indennitario ai sensi dell'art. 42bis sopra citato. Il TAR, quindi, rimette alla Corte Costituzionale la questione relativa alla compatibilità o meno con la Costituzionale della norma invocata con ordinanza 219/2014. 95 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La decisione Corte cost., Sent., 30-04-2015, n. 71 - Pres. Criscuolo - Red. Zanon «[Omissis] Motivi della decisione 4.- In via preliminare, deve essere dichiarata l'inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni sollevate con le due ordinanze (r.o. n. 163 del 2014 e n. 219 del 2014) del TAR Lazio, sezione seconda. In entrambi i casi, infatti, non risulta essere stato emanato alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni da parte della pubblica amministrazione [Omissis]. 6.- Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze r.o. n. 89 e n. 90 del 2014, non sono fondate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. Con riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., tali questioni non sono fondate nei sensi di cui in motivazione.[Omissis] Come è noto, in presenza di una serie di patologie rilevabili nei procedimenti amministrativi di espropriazione, la giurisprudenza di legittimità aveva elaborato gli istituti dell'occupazione "appropriativa" ed "usurpativa". In sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto ablativo, mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. Nel primo caso (a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 26 febbraio 1983, n. 1464), l'acquisto della proprietà conseguiva ad un'inversione della fattispecie civilistica dell'accessione di cui agli artt. 935 e seguenti cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava l'acquisto a titolo originario, da parte dell'ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della "occupazione acquisitiva", limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l'interesse pubblico su quello privato. L'"occupazione usurpativa", invece, non accompagnata da dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell'intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei relativi termini, in quanto tale non determinava l'effetto acquisitivo a favore della pubblica amministrazione. 6.3.- Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per eccesso di delega, questa Corte (sentenza n. 293 del 2010) ha rilevato che l'intervento della pubblica amministrazione sulle procedure ablatorie, come disciplinato dalla norma da ultimo richiamata, eccedeva gli istituti della occupazione appropriativa ed usurpativa, così come delineati dalla giurisprudenza di legittimità, prevedendo un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva commesso l'illecito, addirittura a dispetto di un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Nella medesima pronuncia, questa Corte aveva, inoltre, prospettato in termini dubitativi la compatibilità del meccanismo di "acquisizione sanante", per come 96 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V disciplinato dalla norma allora impugnata, con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Quest'ultima, infatti, sia pure incidentalmente, ha più volte osservato che l'espropriazione cosiddetta indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all'amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da "azioni illegali". Ciò accade sia allorché tale situazione costituisca conseguenza di un'interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge (con espresso riferimento all'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni), in quanto l'espropriazione indiretta non può comunque costituire un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo "buona e debita forma" (sentenza 12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri contro Italia). 6.4.- È dunque opportuno che lo scrutinio della norma censurata nel presente giudizio di legittimità costituzionale sia preceduto da un suo raffronto con l'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni [Omissis]. Come evidenziato dalla difesa erariale, tuttavia, il nuovo meccanismo acquisitivo presenta significative differenze rispetto all'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni [Omissis]. 6.6.- La prima censura attiene al supposto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. Il parametro di cui all'art. 3 Cost. viene invocato dai giudici rimettenti sotto il duplice versante della violazione del principio di eguaglianza - con profili involgenti anche la violazione dell'art. 24 Cost. , sub specie di compressione del diritto di difesa - e dell'intrinseca irragionevolezza della norma impugnata. La questione non è fondata. 6.6.1.- Quanto al primo versante della questione così posta, i giudici rimettenti rilevano che la norma riserverebbe un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento [Omissis]. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, ma non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenza n. 155 del 2014; ordinanze n. 41 del 2009 e n. 109 del 2004), sempre con il limite generale dei principî di proporzionalità e ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013). Nel caso di specie, i giudici rimettenti omettono di considerare che, se pure il presupposto di applicazione della norma sia "l'indebita utilizzazione dell'area" (…), tuttavia l'adozione dell'atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con l'adozione di tale atto, quest'ultima riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito[Omissis]. Sotto questo punto di vista, trascurato dai rimettenti, la situazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "... la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie [Omissis]". (così la sentenza n. 138 del 1981). Di conseguenza, neppure potrebbe dirsi violato l'art. 24 Cost., come sostengono i rimettenti. Tale norma costituzionale è infatti posta a presidio del diritto alla tutela 97 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V giurisdizionale (ordinanza n. 32 del 2013), assumendo così una valenza processuale (ordinanze n. 244 del 2009 e n. 180 del 2007). In particolare, l'art. 24, come pure il successivo art. 113 Cost. , enunciano il principio dell'effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione, ed entrambi tali parametri sono volti a presidiare l'adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall'ordinamento [Omissis]. Ne deriva che la violazione di tale parametro costituzionale può considerarsi sussistente solo nei casi di "sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 della Costituzione " (sentenza n. 237 del 2007) [Omissis] e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013). Tale tutela viene bensì parzialmente "conformata", in modo da garantire comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l'esclusione delle sole azioni restitutorie; ma queste ultime non sarebbero congruamente esperibili rispetto ad un comportamento non più qualificato in termini di illecito [Omissis]. 6.6.2.- Sotto altro aspetto [Omissis] la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella misura pari al valore venale del bene (così come accade per l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una somma a titolo di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10 per cento del valore venale del bene. Si è perciò in presenza di un importo ulteriore, non previsto per l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie, determinato direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile [Omissis]. Quanto all'indennità dovuta per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione [Omissis] il terzo comma della norma impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva la prova di una diversa entità del danno. 6.6.3.- Sollecitano i giudici rimettenti un ulteriore vaglio di conformità al principio di eguaglianza, in quanto nel sistema delineato dalla norma censurata il bene privato detenuto sine titulo sarebbe sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione, mentre nel procedimento ordinario di espropriazione l'esposizione al pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo è temporalmente limitata all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità. La norma impugnata, in effetti, non prevede alcun termine per l'esercizio del potere riconosciuto alla pubblica amministrazione. Ma i rimettenti non hanno preso in considerazione le molteplici soluzioni, elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, per reagire all'inerzia della pubblica amministrazione autrice dell'illecito: a seconda degli orientamenti, infatti, talvolta è stato posto a carico del proprietario l'onere di esperire il procedimento di messa in mora, per poi impugnare l'eventuale silenzio-rifiuto dell'amministrazione; in altri casi, è stato riconosciuto al giudice amministrativo anche il potere di assegnare all'amministrazione un termine per scegliere tra l'adozione del provvedimento di cui all'art. 42-bis e la restituzione dell'immobile [Omissis]. 6.6.4.- I rimettenti lamentano, infine, l'intrinseca irragionevolezza dell'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, con presunta violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto questo profilo. Secondo i giudici rimettenti, in primo luogo, la norma avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di 98 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta, non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria. Lamentano, inoltre, i rimettenti che il ristoro economico assicurato resterebbe pur sempre inferiore nel confronto con l'espropriazione per le vie ordinarie dello stesso immobile [Omissis]. È noto che lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un'ampia discrezionalità legislativa, impone alla Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale [Omissis]. Orbene, alla luce di tali premesse, anche queste censure non sono fondate. Quanto a quella relativa alla mutata natura del ristoro, la norma prevede bensì la corresponsione di un indennizzo, ma determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione. Quanto alle restanti censure, è appena il caso di sottolineare che l'aumento del 10 per cento previsto dal comma 2 dell'art. 37 del T.U. sulle espropriazioni non si applica a tutte le procedure, ma solo nei casi in cui sia stato concluso l'accordo di cessione [Omissis] senza contare che ai destinatari del provvedimento di acquisizione spetta sempre un surplus pari proprio al 10 per cento del valore venale del bene, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale. Va, ancora, considerato che l'inapplicabilità del comma 1 dell'art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure non richiamato dalla norma censurata per i terreni a vocazione edilizia) esclude anche la riduzione del 25 per cento dell'indennizzo - prevista invece per le espropriazioni legittime - imposta quando la vicenda è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale [Omissis]. 6.7.- I giudici rimettenti dubitano della compatibilità della norma censurata con l'art. 42 Cost. In particolare, ritengono che l'art. 42 Cost. - disciplinando la potestà espropriativa come avente carattere eccezionale, esercitabile solo nei casi in cui sia la legge a prevederla e nella necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale" - imponga che questi ultimi siano predeterminati dall'amministrazione ed emergano da un apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà. L'emersione del pubblico interesse, culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica utilità, dovrebbe perciò risultare da una fase preliminare, autonoma e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, cioè in un momento in cui sia possibile un'effettiva comparazione tra l'interesse pubblico e l'interesse privato [Omissis]. La questione, così posta, non è fondata, nei sensi qui di seguito indicati. Da una parte, la norma censurata delinea pur sempre una procedura espropriativa, che in quanto tale non può non presentare alcune caratteristiche essenziali. Ma non si deve trascurare, dall'altra parte, che si tratta di una procedura "eccezionale", che ha necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a risolvere, in cui la previa dichiarazione di pubblica utilità dell'opera sarebbe distonica rispetto ad un'opera pubblica già realizzata. La norma censurata presuppone evidentemente una già avvenuta modifica dell'immobile, utilizzato per scopi di pubblica utilità [Omissis]. 99 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Si è, invece, in presenza di una procedura espropriativa che, sebbene necessariamente "semplificata" nelle forme, si presenta "complessa" negli esiti, prevedendosi l'adozione di un provvedimento "specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione". L'adozione del provvedimento acquisitivo presuppone, appunto, una valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo. E l'assenza di ragionevoli alternative all'adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione in esame [Omissis]. Ne deriva che l'adozione dell'atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l'extrema ratio per la soddisfazione di "attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico", come recita lo stesso art. 42-bis del T.U. delle espropriazioni [Omissis] Soltanto adottando questa prospettiva ermeneutica, l'attribuzione del potere ablatorio (in questa forma eccezionale) può essere ritenuta legittima, sulla scia della giurisprudenza costituzionale che impone alla legge ordinaria di indicare "elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell'Amministrazione" (sentenza n. 38 del 1966). 6.8.- Si lamenta, inoltre, dai giudici rimettenti che l'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni violerebbe il principio del giusto procedimento, desumibile dall'art. 97 Cost. Ciò perché il provvedimento acquisitivo consentirebbe il trasferimento della proprietà in assenza di una sequenza procedimentale partecipata dal privato. Il principio di legalità dell'azione amministrativa sarebbe leso anche sotto il profilo della tutela giurisdizionale effettiva di cui all'art. 113 Cost. Anche tale questione non è fondata. Bisogna, innanzitutto, ricordare che il principio del "giusto procedimento" [Omissis], non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312, n. 210 e n. 57 del 1995, n. 103 del 1993 e n. 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987). Questa constatazione non sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l'entrata in vigore della L. 7 agosto 1990, n. 241 [Omissis]. Per parte sua, il provvedimento disciplinato dalla norma in esame non potrebbe, innanzitutto, sottrarsi all'applicazione delle ricordate, generali, regole di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, come, infatti, è riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio del procedimento. Ma, soprattutto, in virtù della effettiva comparazione degli interessi contrapposti richiesta dalla norma in questione, il privato sarà ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il proprio ruolo partecipativo, eventualmente facendo valere l'esistenza delle "ragionevoli alternative" all'adozione dell'annunciato provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene. 6.9.- I giudici rimettenti dubitano, ancora, della conformità della norma impugnata all'art. 117, primo comma, Cost. , in quanto la norma sarebbe in contrasto con i principi della CEDU, secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, sotto due distinti profili [Omissis]. 100 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 6.9.1.- Le doglianze possono essere esaminate congiuntamente, per concludere nel senso della loro infondatezza, nei sensi della motivazione che segue [Omissis]. È vero, infatti, che la norma trova applicazione anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, per i quali siano pendenti processi, ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato. Ma è anche vero che questa previsione risponde alla stessa esigenza primaria sottesa all'introduzione del nuovo istituto (così come del precedente art. 43): quella di eliminare definitivamente il fenomeno delle "espropriazioni indirette", che aveva fatto emergere quella che la Corte EDU (nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva definito una "défaillance structurelle", in contrasto con l'art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU. Né si deve trascurare che [Omissis] l'art. 42-bis contiene significative innovazioni, che rendono il meccanismo compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropriazioni cosiddette indirette [Omissis]. Le differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono nel carattere non retroattivo dell'acquisto (ciò che impedisce l'utilizzo dell'istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato), nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione e, infine, nello stringente obbligo motivazionale che circonda l'adozione del provvedimento. Anche alla luce dell'asserita violazione degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., questo obbligo motivazionale, in base alla significativa previsione normativa, che richiede "l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione", deve essere interpretato, come già chiarito al punto 6.7., nel senso che l'adozione dell'atto è consentita - una volta escluse, all'esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita - solo quando non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà. Va, infine, valorizzata nella giusta misura la previsione del comma 7 dell'art. 42bis del T.U. sulle espropriazioni, in base alla quale "l'autorità che emana il provvedimento di acquisizione ... ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti". Questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso della vicenda espropriativa, si siano discostati dalle regole di diligenza previste dall'ordinamento risponde, infatti, ad un invito della stessa Corte EDU (sempre sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia), secondo cui "lo Stato convenuto dovrebbe scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le responsabilità degli autori di tali pratiche". P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara inammissibile, nel presente giudizio di costituzionalità, l'intervento di D.G.G.; 2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell' art. 42-bis del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità 101 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V - Testo A), sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze indicate in epigrafe; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell' art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. , dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze indicate in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell' art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con le ordinanze indicate in epigrafe. [Omissis]». 102 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 18. Ancora sul rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dei grandi impianti commerciali: il silenzio-assenso come strumento di semplificazione e l’impossibilità per l’Amministrazione di emettere un diniego tardivo. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521 1. Il fatto In data 13 aprile 2012, la società Chic s.r.l. presenta al Comune di Como domanda di autorizzazione per l’apertura di una media struttura, della superficie di mq. 1200, per il commercio al dettaglio di prodotti non alimentari. Nel mese seguente viene pertanto avviato dall’amministrazione il relativo procedimento, nel corso del quale viene altresì convocata la conferenza di servizi. Trascorso il termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento, il Comune non rilascia tuttavia alcun provvedimento. Solo in data 23 ottobre 2012 invia alla società una nota contente i motivi ostativi all’accoglimento della domanda, senza tuttavia trasmettere alcun provvedimento di diniego. Successivamente, nel gennaio 2013, la società Chic s.r.l. cede il ramo d’azienda relativo alla media struttura di vendita in questione alla società XXL s.r.l. Quest’ultima, sul presupposto che sulla domanda di autorizzazione della Chic s.r.l. si era formato il silenzio assenso, non avendo il Comune mai emanato un provvedimento di rigetto, in data 18 marzo 2013 presenta la comunicazione di apertura della media struttura di vendita; ancora una volta, decorre il termine previsto dalla legge per l’esercizio di poteri inibitori senza che il Comune adotti alcun divieto di prosecuzione dell’attività. Solo il successivo 21 maggio la società XXL riceve il provvedimento di rigetto della domanda di autorizzazione, presentata ormai più di un anno prima dalla Chic s.r.l.: ad avviso del Comune, difatti, la Chic s.r.l. (e, dunque, anche la XXL subentrata) non vanterebbe alcuna autorizzazione, dal momento che non può ritenersi formato il silenzio – assenso sulla domanda presentata. Contro tale determinazione entrambe le società propongono ricorso al Tar di Milano, chiedendone l’annullamento. 5. La decisione T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 20 febbraio 2015, n. 521 – Pres. Mariuzzo – Est. Simeoli – Chic s.r.l. XXL s.r.l./ Comune di Como “IV. È possibile, a questo punto, entrare nel merito della vicenda. Come si è sopra accennato, il diniego della domanda di autorizzazione si fonda sulla motivazione per cui non sarebbe "possibile riscontrare elementi totalmente convergenti rispetto alla sussistenza del presupposto richiesto dall'art. 23.3.2.2. delle N.T.A. del P.R.G.". In particolare, l'amministrazione ritiene che l'attività che si vorrebbe intraprendere non sia conforme sul piano urbanistico della destinazione d'uso dell'immobile; ciò in quanto quest'ultimo, alla data del 31/12/1996, sarebbe stato destinato principalmente ad attività produttiva e non commerciale (ai sensi dell'art. 23.3.2.2 della N.T.A. del P.R.U.G. vigente all'epoca della presentazione della domanda di Chic. s.r.l., per la zona B4, si prevede che: "per le attività del terziario non connesse a attività produttive, insediate o 103 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V da insediare, in sostituzione di attività terziarie esistenti al 31.12.1996, sono ammesse opere sino alla ristrutturazione edilizia"). V. Sennonché, ritiene il Collegio che, ai fini dell'accoglimento della domanda di annullamento, sia dirimente rilevare la circostanza per cui, sulla domanda di autorizzazione, essendo trascorso inutilmente il termine di 90 giorni (decorrenti dal 13 aprile 2012), si è già irrimediabilmente formato il silenzio assenso, previsto dall'art. 8 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (il quale recita: Il comune adotta le norme sul procedimento concernente le domande relative alle medie strutture di vendita; stabilisce il termine, comunque non superiore ai novanta giorni dalla data di ricevimento, entro il quale le domande devono ritenersi accolte qualora non venga comunicato il provvedimento di diniego, nonché tutte le altre norme atte ad assicurare trasparenza e snellezza dell'azione amministrativa e la partecipazione al procedimento ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche"). V. 1. In senso contrario, non vale replicare, come fa il Comune, che la non conformità urbanistica dell'istanza presentata da Chic S.r.l. in data 13 aprile 2012, avrebbe reso impossibile la formazione del silenzio assenso. Secondo questa tesi, in sostanza, la possibilità di conseguire l'autorizzazione implicita non sarebbe legata solamente al decorso del termine, ma esigerebbe anche la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo. V. 2. Invero, il dispositivo tecnico denominato "silenzio-assenso" risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l'inerzia "equivale" a provvedimento di accoglimento. Tale equivalenza non significa altro che gli effetti promananti dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell'atto amministrativo; con il corollario che, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge; fermo restando, come si specificherà a breve, l'autotutela per l'amministrazione e l'impugnativa giudiziale per il controinteressato. Reputare, invece, che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi alla disciplina della annullabilità: tale trattamento differenziato, per l'altro, neppure discenderebbe da una scelta legislativa oggettiva, aprioristicamente legata al tipo di materia o di procedimento, bensì opererebbe (in modo del tutto eventuale) in dipendenza del comportamento attivo o inerte della p.a. Inoltre, l'impostazione di "convertire" i requisiti di validità della fattispecie "silenziosa" in altrettanti elementi costitutivi necessari al suo perfezionamento, vanificherebbe in radice le finalità di semplificazione dell'istituto: nessun vantaggio, infatti, avrebbe l'operatore se l'amministrazione potesse, senza oneri e vincoli procedimentali, in qualunque tempo disconoscere gli effetti della domanda. V. 3. Dovendo, in forza di quanto appena teorizzato, distinguere tra elementi essenziali e requisiti di validità, i primi vanno correttamente individuati nella presentazione della domanda di autorizzazione nei termini e secondo le indicazioni di legge. Nella specie, la domanda di CHIC s.r.l. era corredata di tutti gli elementi individuati dall'art. 8, comma 2 del d.lgs. n. 114/1998 (le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà rese dai sigg. Luraschi e della Torre, cui si riferisce il Comune nella propria memoria, oltre a non essere richieste, non erano state presentate a corredo della domanda di Chic S.r.l. del 13.4.2012, ma solo successivamente, in data 25.6.2012, e dal proprietario dell'immobile). Per contro, nell'alveo dei requisiti di validità si colloca la conformità alle prescrizioni urbanistiche (la presentazione del progetto di adeguamento 104 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V viabilistico chiesto dal Settore Mobilità, poi, sembra riguardare il distinto procedimento concernente gli aspetti di carattere edilizio). IV. 4. Ovviamente il conseguimento di un provvedimento amministrativo favorevole da parte del privato, formatosi a seguito del silenzio assenso, non esclude che l'amministrazione possa disporre, in via di autotutela e in presenza dei necessari presupposti, anche l'annullamento postumo dell'autorizzazione tacitamente assentita. Il diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma atto che si sostituisce all'assenso tacito, quale ulteriore rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela. Tuttavia, deve ritenersi illegittimo il provvedimento che, come accade nel caso che ci occupa, non abbia né la forma, né la sostanza di un atto di autotutela, atteggiandosi a mero diniego tardivo dell'autorizzazione, privo della necessaria fase partecipativa, nonché dell'esplicazione dei motivi di interesse pubblico posti a sostegno dell'intervento postumo in autotutela. IV. 5. In definitiva, il diniego di autorizzazione impugnato è illegittimo, in quanto disposto sulla base della non conformità urbanistica della destinazione d'uso, sebbene si fosse già consolidato sull'istanza il silenzio-assenso. A fronte dell'inutile decorso del termine, l'amministrazione, ritenendo mancanti i presupposti per il rilascio dell'autorizzazione, non avrebbe potuto considerare quest'ultima come inesistente, ma avrebbe dovuto dar corso all'unico rimedio legittimamente esperibile consistente nel suo annullamento d'ufficio in via di autotutela. V. Possono assorbirsi tutti gli altri motivi, in quanto i profili di illegittimità accertati garantiscono alle società istanti il conseguimento della massima utilità sostanziale. Ai fini conformativi, occorre rimarcare i vincoli discendenti dai recenti sviluppi legislativi. Questo stesso Tribunale (Sez. I, 10 ottobre 2013, n. 2271) ha chiarito in quali termini le recenti innovazioni normative (nella specie, l'art. 11, comma 1, lett. e del D.lgs. n. 59 del 2010, nonché l'art. 34, comma 3, lett. a del D.lgs. 201/2011) subordinano, oramai, la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica, che dispongono limiti o restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, ad uno scrutinio molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche; dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime (sul punto si veda la sentenza 15/3/2013 n. 38 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 31 del D.L. 201 del 2011 dell'art. 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell'art. 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 marzo 2012, n. 7, perché con essi veniva precluso l'esercizio del commercio al dettaglio in aree a destinazione artigianale e industriale, in assenza di plausibili esigenze di tutela ambientale che potessero giustificare il divieto)”. 105 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 19. La prassi degli Enti locali di stipulare contratti derivati per sostenere il proprio debito: un’arma a doppio taglio Cons. Stato (Ad. Plen.), 5 maggio 2014, n. 13 1. I fatti Nel 2005 la Regione Piemonte decide di finanziare i propri investimenti attraverso il ricorso all’indebitamento presso il mercato dei capitali. Indice una gara informale volta a selezionare tra alcuni istituti bancari quello cui affidare l’incarico di ”arranger” per l’organizzazione di un programma di emissione obbligazionarie a medio lungo periodo e il collocamento sul mercato della prima emissione. Nel novembre 2006, delibera l’emissione di due tranches di prestito obbligazionario c.d.“bullet”, ovvero con restituzione del capitale in un’unica soluzione alla scadenza, per un valore nominale complessivo di 57,800 milioni di euro; contestualmente, concorda con gli istituti bancari selezionati di stipulare contratti derivati di swap, volti ad assicurare l’accantonamento delle somme da restituire a scadenza delle obbligazioni e disporre delle risorse necessarie per pagare le cedole agli azionisti. In questo modo la Regione, emittente delle obbligazioni, si protegge dalle fluttuazioni dei tassi di interesse e allo stesso tempo gli istituti bancari sono garantiti dal rischio di default dell’Ente. Nel 2012 la Regione Piemonte, rilevate una serie di criticità in merito alla struttura dei contratti derivati stipulati, matura la convinzione che questi sono illegittimi e provvede in autotutela ad annullare le deliberazioni di Giunta Regionale con le quali, tra l’altro, è autorizzata la stipula degli swaps. Nell’ottica dell’amministrazione, l’annullamento delle delibere “a monte” di autorizzazione alla stipula dei contratti implica automaticamente l’inefficacia “a valle” del contratto stipulato. Chiaramente un contratto nullo vuol dire che nulla è più dovuto per il futuro e quanto è già stato prestato deve essere restituito. Il provvedimento è lesivo dell’interesse dell’istituto bancario inglese cui erano stipulati i contratti di swap, Dexia Crediop. Questa pertanto ricorre davanti al giudice amministrativo, impugnando il provvedimento regionale di annullamento in autotutela dell’autorizzazione alla sottoscrizione dei contratti derivati di swap. Conseguentemente, la Regione Piemonte presenta ricorso incidentale chiedendo l’accertamento dell’inefficacia dei contratti e la condanna della ricorrente principale alla restituzione di quanto indebitamente percepito. Da evidenziarsi, peraltro, che la controversia in esame viene incardinata davanti al giudice amministrativo italiano, nelle more di altro giudizio pendente davanti alla Corte inglese relativo ai medesimi contratti, in cui era stata già accertata la propria competenza da parte del giudice straniero. Con sentenza n. 1390/2012, la Sezione I del T.a.r. Piemonte - Torino dichiara l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione in favore del giudice ordinario, che nel caso specifico è il giudice inglese, vista la pattuizione delle parti di devolvere a quest’ultimo le eventuali controversie insorte circa la validità dei contratti. In particolare, il giudice di primo grado ritiene che l’amministrazione non disponesse del potere di procedere all’annullamento in autotutela, in quanto il petitum sostanziale 106 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V emergente dagli atti portava a concludere nel senso della natura privatistica del rapporto controverso. La Regione Piemonte, però, non si arrende; avendo interesse a che in secondo grado il giudice riformi la sentenza e accolga la domanda da lei proposta, appella la sentenza dinanzi al Consiglio di Stato. Gli argomenti spesi dall’appellante sono volti a dimostrare che l’atto di autorizzazione alla sottoscrizione dei contratti derivati di swap ha natura amministrativa e che pertanto l’amministrazione ha il potere di intervenire in autotutela su questo, annullandolo. Dexia Crediop, di contro, si costituisce in giudizio al fine di ottenere il rigetto del ricorso in appello e veder confermata la decisione di primo grado a lei favorevole. In particolare, la difesa da lei proposta si basa sull’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione in favore del giudice inglese. Dirimente sul punto è la interpretazione della clausola del contratto di devoluzione della giurisdizione al giudice straniero, la quale, secondo la parte, va condotta alla luce del disciplina euro unitaria sulla competenza in materia civile (Regolamento CE n. 44 del 2001), la quale prevede, in forza del principio di prevenzione, che la giurisdizione spetta al giudice previamente adito sulla controversia. Il ricorso è assegnato alla Sezione V del Consiglio di Stato, la quale, preso atto dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali e valutata la rilevanza anche economica della questione, rimette l’esame del caso all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a.. 2. La decisione. Cons. Stato (Ad. Plen.), 5 maggio 2014, n. 13 – Pres. G. Giovannini – Est. Deodato – Regione Piemonte c/Dexia Credop spa (omissis) DIRITTO (omissis) 1.2. In relazione alla detta dichiarazione della sussistenza della giurisdizione inglese, merita di essere esaminato innanzi tutto l’appello della Regione Piemonte, nella parte in cui ha sostenuto l’irrilevanza della clausola di deroga alla giurisdizione italiana in favore del giudice inglese (punto 13 del documenti ISDA – International Swap Dealers Association Ic. – Master Agreement), facendo leva sull’art. 4, comma 2, della legge 31 maggio 1995, n. 218, a norma del quale la giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un giudice straniero solo se la causa verte su diritti disponibili, e tali non potrebbero qualificarsi le posizioni tutelate dalla ricorrenteappellata Dexia Crediop s.p.a., posto che nella specie si verterebbe su una domanda di annullamento di atti esercizio di potestà pubblica, cui pacificamente fanno riscontro interessi legittimi. In tal senso, si aggiunge, si è pronunciata la stessa Sezione remittente con la sentenza n. 5032 del 7 settembre 2011, concernente fattispecie analoga, sulla quale si tornerà più avanti. 1.3. La parte appellata ha osservato, invece, che l’appello dovrebbe dichiararsi inammissibile o infondato proprio a causa del rilievo preliminare ed assorbente che andrebbe attribuito alla, non contestata, sottoscrizione della deroga alla giurisdizione del giudice italiano; alla prevalenza da riconoscere sulla materia alla normativa di rango 107 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V comunitario, dettata dal Regolamento (CE) 22 dicembre 2000 n. 44/2001 (in seguito Regolamento); alla circostanza che il giudice inglese è già stato investito della medesima controversia e ha emesso pronunce che hanno accertato la sussistenza sulla vertenza della giurisdizione inglese, come anche ricordato dall’ordinanza di rimessione. In particolare la banca appellata ha sostenuto che: a) il Regolamento CE n. 44 del 2001, che ha sostituito la Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968, ratificata con la legge 21 giugno 1971 n. 804, è pienamente applicabile nella specie, posto che, come richiesto dall’art. 1, la presente vicenda concerne materia civile e non materia amministrativa, dovendosi tener conto, a tal fine, non dell’organo giurisdizionale investito ma della natura del rapporto controverso; (omissis) d) inoltre, nella specie dovrebbe trovare applicazione l’art. 27 del Regolamento, posto che il giudice inglese è stato adito per primo sulla identica vicenda, ed ha accertato la propria giurisdizione con due successive pronunce. Recita infatti la norma invocata: “1. Qualora davanti a giudici di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d'ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza del giudice adito in precedenza. 2. Se la competenza del giudice precedentemente adito è stata accertata, il giudice successivamente adito dichiara la propria incompetenza a favore del primo”. (omissis) 1.5. Ad avviso del Collegio, le contrapposte tesi svolte sul punto dalle due parti non colgono il nodo centrale della presente controversia e quindi non hanno portata dirimente. La prevalenza della fonte comunitaria sulla normativa interna, anche di fonte legislativa, infatti, non esplica nella specie alcun effetto concreto, posto che, anche ammesso, in ipotesi, il superamento dell’art. 4 della legge n. 218 del 1995 ad opera del Regolamento n. 44 del 2001, la invalidità del patto sulla deroga alla giurisdizione italiana sulla presente controversia, ove risultasse fondata la tesi della Regione appellante, discenderebbe comunque dall’art. 1 del Regolamento nella parte in cui menziona, tra quelle escluse dall’efficacia del medesimo, la materia amministrativa. (omissis) Il quesito sulla applicabilità alla fattispecie del Regolamento n. 44 del 2001, dunque, rimanda a quello che logicamente lo precede, e che consiste nella corretta individuazione della materia oggetto della controversia, sostenendosi dall’appellante che si verte in materia di impugnazione di atti autoritativi emessi nell’esercizio del potere di autotutela, mentre la parte appellata, con tesi condivisa dai primi giudici, configura gli atti impugnati come determinazioni volte a recedere unilateralmente dai contratti in essere al di fuori di un contesto idoneo a connotare l’adozione di atti di imperio. (omissis) 3.2. La Regione sostiene la sussistenza del potere di intervenire in autotutela sugli atti sopra trascritti affermandone la natura prodromica rispetto ai contratti perché “la gara condotta dalla Regione Piemonte ha avuto ad oggetto anche la stipulazione dei contratti derivati.” (pag.19 appello). L’assunto non trova riscontro negli atti di causa. 108 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Sebbene possa definirsi non del tutto precisa l’espressione, che figura nella sentenza impugnata, che la deliberazione 135-3655 “non conteneva alcuno specifico riferimento alla sottoscrizione dei contratti derivati qui in esame”, non per questo può negarsi che la menzione dei contratti derivati, quale risulta dai testi trascritti, è assolutamente generica e riferita a mere eventualità di cui si sarebbe valutata la convenienza e l’opportunità nel successivo percorso attuativo dell’operazione riguardante il prestito obbligazionario. Non era affatto stabilito, alla data di adozione della deliberazione ( 2 agosto 2006), se si sarebbe deciso di procedere alla restituzione del prestito in unica soluzione alla scadenza, e, anche in tal caso, la scelta poteva cadere, secondo quanto prescritto dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001, sulla creazione di un fondo per l’ammortamento oppure sulla stipula di swaps. Le tre banche selezionate, infatti, con una nuova proposta presentata il 28 settembre 2006 (doc.7 allegato all’appello), quindi a circa due mesi dalla delibera del 2 agosto oggetto di parziale annullamento, ancora si diffondevano sulla dimostrazione della convenienza di optare per una forma di ammortamento mediante derivati, piuttosto che mediante costituzione di un apposito fondo. Se ne può desumere che ancora nessuna decisione era stata assunta al riguardo. E, allo stesso modo, non vi fu la motivata consapevolezza che sarebbero stati necessari altri contratti derivati finalizzati a garantire dalle oscillazioni dei tassi di interesse o da rischi di altra natura (“…operazioni in derivati esaminate in delibera che dovessero rendersi opportune in relazione all’emissione obbligazionaria.”). La deliberazione n. 135-3655, dunque, ad onta delle espressioni usate, non conteneva, e non poteva contenere, alcuna “descrizione” delle eventuali operazioni in derivati. E questo spiega perché la deliberazione abbia demandato (comprensibilmente con i più ampi poteri) al Responsabile della Direzione Bilancio e Finanza, la negoziazione e il perfezionamento delle operazioni in derivati. Ed infatti “le condizioni e i termini finali delle operazioni di derivati” furono descritte, come risulta testualmente dalle determinazioni n. 61, 72 e 174 del 2007, nella Confirmation approvata dal Responsabile della Direzione, molti mesi dopo l’adozione della deliberazione annullata, in esito alle intervenute negoziazioni. 3.3. Neppure è possibile reperire elementi documentali che inducano a convenire sulla tesi che la gara espletata “ha avuto ad oggetto anche la stipulazione dei contratti derivati.”. (omissis) 4.1. Con diversa censura l’appellante osserva che – “anche laddove la stipulazione dei contratti non si ritenga propriamente riconducibile alla gara” – l’iniziativa di riesame posta in essere dall’Amministrazione sarebbe egualmente espressione di autotutela, perché gli atti prodromici, o comunque preliminari, alla conclusione di un contratto da parte dell’Amministrazione avrebbero natura pubblicistica, perché il procedimento di formazione della volontà contrattuale della p.a. non si svolge integralmente ed esclusivamente sul piano del diritto privato. E ciò in ragione del fatto che nell’attività contrattuale delle pubbliche Amministrazioni vengono inevitabilmente in giuoco interessi patrimoniali pubblici, oltre che imprescindibili esigenze di imparzialità negli affidamenti. 4.2.L’argomentazione, invero, sembra trovare autorevole conforto nelle proposizioni che si leggono nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011, in 109 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V cui, a proposito della deliberazione di un ente di pubblico di costituire una società, è detto che gli “..atti prodromici vanno, sul piano logico, cronologico e giuridico, tenuti nettamente distinti dai successivi atti negoziali, sempre imputabili all’ente pubblico, con cui l’ente, spendendo la sua capacità di diritto privato, pone in essere un contratto societario. Gli atti prodromici attengono al processo decisionale, che da ultimo si esterna nel compimento di un negozio giuridico societario. Mentre per un soggetto privato il processo decisionale resta ordinariamente relegato nella sfera interna del soggetto, e ciò che rileva è solo il negozio giuridico finale, per un ente pubblico esso assume la veste del procedimento amministrativo, …”. 4.3. Il principio testé riferito, da cui il Collegio non avrebbe motivo di discostarsi, non può trovare applicazione nella presente fattispecie. Affinché un determinazione amministrativa possa assumere la natura dell’atto prodromico, nel senso tecnico considerato dalla giurisprudenza, occorre che sia individuabile nell’atto stesso il compimento di un processo decisionale ossia la formazione della volontà di compiere un atto di diritto privato, di cui l’ente abbia valutato ed approvato il contenuto, e che ciò risulti verificabile in base al procedimento seguito. In tal caso l’atto assume dignità provvedimentale e può essere autonomamente valutato sul piano della legittimità, e formare oggetto di impugnazione in sede giurisdizionale ovvero di autotutela. In tal senso la Corte di Cassazione a SS.UU. 27 luglio 2013, n. 17780, che ha affermato la giurisdizione su un atto perché da considerarsi prodromico in quanto assunto a conclusione di un procedimento amministrativo e indirizzato a sintetizzare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione. Nella vicenda in esame, come si è visto, non è possibile ravvisare nelle determinazioni cui si vorrebbe attribuire la natura di atti prodromici, né alcuna veste procedimentale e neppure la precisa volontà di procedere ad una stipula di derivati, salva la generica possibilità di farvi ricorso, ove se ne ravvisasse l’opportunità, e salvo il rinvio alle future negoziazioni che ne stabilissero i concreti contenuti. (omissis) 5. Le considerazioni esposte depongono nel senso dell’infondatezza dell’appello della Regione Piemonte e della conferma della sentenza appellata. L’indagine condotta ha messo in evidenza che nella vicenda in esame non è ravvisabile una determinazione autoritativa con riferimento alla stipula dei contratti derivati a corredo dell’emissione obbligazionaria pari a euro 1 miliardo e 800 milioni. Le decisioni assunte al riguardo, pur genericamente ipotizzate nella deliberazione n. 135-3655 del 2006 riguardante l’operazione finanziaria principale, non hanno assunto carattere di concretezza ed effettiva determinatezza fino a quando, nel corso delle negoziazioni privatistiche aventi ad oggetto la definizione dell’emissione obbligazionaria, non si è ritenuto che il rimborso del prestito sarebbe avvenuto alla scadenza in unica soluzione, rendendosi necessario costituire un fondo di ammortamento ovvero ricorso agli swaps, in osservanza di quanto prescritto dall’art. 41 della legge n. 448 del 2001 e del D.M. n. 389 del 2003. Nelle trattative tra le parti contraenti si è anche raggiunto in condiviso convincimento che i contratti derivati rappresentassero lo strumento più adeguato ad assicurare il contenimento del costo dell’indebitamento e la copertura dalle varie forme di rischio connesse ad operazioni finanziarie del genere in questione. 110 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Consegue da tali circostanze che lo scopo dell’annullamento dei contratti in questione, a carico dei quali le Regione aveva ravvisato, secondo gli esiti di apposita consulenza, molteplici cause di illegittimità, doveva essere perseguito tenendo conto della natura privatistica degli atti di cui assume l’invalidità e della conseguente posizione paritaria rivestita dall’ente pubblico che si sia vincolato contrattualmente al soggetto privato (art. 1, comma 1-bis l. n. 241 del 1990). La Regione, invece, ha ritenuto di poter perseguire lo stesso scopo annullando –in parte qua - la deliberazione n. 135-3655 del 2006, puntando sull’effetto caducante (o viziante) che può prodursi a carico del contratto per effetto dell’annullamento dell’atto presupposto. Ma affinché tale scelta risultasse praticabile occorreva che l’atto presupposto assumesse il carattere dell’atto realmente prodromico rispetto alla successiva contrattazione, ossia si configurasse come determinazione autoritativa procedimentalizzata e riferita ai contenuti essenziali dell’operazione da porre in essere (Sez. V. sent. n. 5032 del 2001, § citato). L’atto di annullamento impugnato reca, bensì, l’imputazione dei vizi dei contratti alla deliberazione del 2006, ma si tratta di un mero artificio che non impedisce di riconoscere che la materia del contendere nella presente controversia è costituita, non dal sindacato sulla legittimità di un atto di imperio, ma dal giudizio sulla fondatezza dei vizi addebitati ai contratti, che, secondo il fondamentale principio affermato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 204 del 2004, esula dalla giurisdizione amministrativa. Per la stessa ragione, va rigettato l’appello nella parte in cui chiede la riforma della sentenza che ha dichiarato inammissibile il ricorso incidentale proposto dalla Regione Piemonte in primo grado, e volto all’accertamento dell’inefficacia dei contratti swap e la condanna della banca appellata a restituire quanto incassato per effetto dei detti contratti. 6. Le spese del presente appello, secondo il principio della soccombenza vanno poste a carico della Regione appellante, come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta; condanna la Regione Piemonte al pagamento delle spese, competenze e onorari del presente giudizio in favore della parte appellata e ne liquida l’importo in Euro 10.000,00 (diecimila), oltre gli accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 111 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 20. Contratto di appalto e sopravvenuti motivi di inopportunità: il rapporto tra lo strumento pubblicistico della revoca e quello privatistico del recesso Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 giugno 2014, n. 14 1. I fatti Il Consiglio di Amministrazione dell’Azienda per la Mobilità del Comune di Roma (ATAC s.p.a), autorizza l’indizione di una gara pubblica con procedura aperta per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori necessari alla realizzazione di un deposito tranviario e delle opere connesse. La gara, con successiva delibera dello stesso Consiglio, viene aggiudicata ad un’associazione temporanea di imprese (c.d. a.t.i.) composta da varie società con conseguente stipula del relativo contratto di appalto. L’ATAC, con provvedimento emanato a distanza di circa sei anni dalla conclusione del contratto, dispone la revoca definitiva di tutti gli atti della procedura di gara, incluso il provvedimento di aggiudicazione. Tale revoca è basata su diversi motivi di interesse pubblico, tra i quali: la sostanziale non esecuzione dell’appalto, l’aggravio dei costi prospettati dall’appaltatrice, le proprie sopravvenute mutate esigenze operative, l’incertezza sulla effettiva disponibilità di risorse per finanziare l’opera. Viene altresì preannunciato che, con separato provvedimento, avrebbe proceduto a liquidare all’appaltatrice l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990. L’ATI aggiudicataria ricorre al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio chiedendo l’annullamento del provvedimento di revoca, sostenendo in particolare che: - la stazione appaltante avrebbe esercitato un potere di autotutela al di fuori dei presupposti di legge, sugli atti della procedura di gara, ormai privati di efficacia in conseguenza della sopravvenuta stipulazione del contratto; - il provvedimento impugnato non avrebbe ponderato il contrapposto interesse privato, consolidatosi nei sei anni intercorsi dalla stipula del contratto; - con la revoca l’appaltante avrebbe esercitato in realtà un diritto di recesso o di risoluzione unilaterale, finalizzato a sottrarsi alle conseguenze derivanti dall’esercizio di dette facoltà privatistiche, maggiormente onerose dal punto di vista economico, perché non limitate all’indennizzo commisurato al solo danno emergente. Il Tar adito accoglie il primo ordine di censure, affermando che la revoca è stata adottata “in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti”, non essendo tale l’aggiudicazione della gara in seguito alla stipulazione del contratto, cosicché, secondo il primo giudice, per sciogliersi dal vincolo discendente da quest’ultimo, l’amministrazione avrebbe dovuto ricorrere all’istituto del recesso ai sensi dell’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici). Avverso tale pronuncia l’ATAC propone appello al Consiglio di Stato, chiedendone la riforma. Quest’ultimo rimette all’esame dell’Adunanza plenaria la questione di merito relativa al principio di diritto formulato dal primo giudice, secondo cui il potere di revoca dell’aggiudicazione non può essere esercitato dall’amministrazione una volta intervenuta la stipula del contratto. 112 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La decisione Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 20 giugno 2014, n. 14 – Pres. Giovannini – Est. Meschino – ATAC c. Consorzio cooperative costruttori e altri “ (Omissis) 2. Si passa ora all'esame del quesito sottoposto all'Adunanza plenaria precisando, in via preliminare, che si prescinde da questioni attinenti alla giurisdizione, che pure possano essere connesse al quesito stesso, considerato che nel caso di specie la questione di giurisdizione è stata espressamente decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado, essendosi perciò formato al riguardo il giudicato. 3. L'Adunanza plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che, intervenuta la stipulazione del contratto per l'affidamento dell'appalto di lavori pubblici, l'amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l'esercizio del diritto di recesso. 3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche "codice"), la fase della scelta del contraente, conclusa con l'aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l'aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell'offerta (art. 11, comma 7, primo periodo, del codice) e che, pur divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta comunque salvo "L'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti" (art. 11, comma 9). Il vincolo sinallagmatico nasce perciò soltanto con il separato e distinto atto della stipulazione del contratto quando, essendo stata fino a quel momento irrevocabile soltanto l'offerta dell'aggiudicatario (art. 11, comma 7, secondo periodo), l'amministrazione a sua volta si impegna definitivamente. 3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che la fase conclusa con l'aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre quella che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l'attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è quindi retta dalle norme civilistiche (Corte costituzionale, sentenze n. 53 e n. 43 del 2011; Cassazione, Sez. un. civ. n. 391 del 2011; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 450 del 2009). 3.3. Nella fase privatistica l'amministrazione si pone quindi con la controparte in posizione di parità che però, è stato anche precisato, è "tendenziale" (Corte Cost. n. 53 e n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l'effetto delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un rapporto paritetico, sono apprestate per l'amministrazione norme speciali, derogatorie del diritto comune, definite di autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014); ciò, evidentemente, perché l'attività dell'amministrazione, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell'interesse pubblico, con la conseguente previsione, su tale presupposto, di regole specifiche e distinte. 3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme con tratti di specialità riguardo specificamente alla fase dell'esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici, cui attiene la questione all'esame. 113 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Ci si riferisce a norme collocate nella Parte II, Titolo III del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal contratto e della sua risoluzione, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 134 - 136 del codice (collocate nel Capo II del Titolo III e perciò riferite agli appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della risoluzione per inadempimento e, specificamente, della revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi dell'art. 158 del medesimo codice, ovvero della sospensione dei lavori ai sensi dell'art. 158 e seguenti del regolamento di attuazione (d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207). In questo contesto la specialità della disciplina del recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché l'art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione, lo regola in modo diverso rispetto all'art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all'appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al "valore dei materiali utili esistenti in cantiere" mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero ("il mancato guadagno") e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute. 3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto segue. 3.5.1. La posizione dell'amministrazione nella fase del procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta con la stipulazione del contratto è definita dall'insieme delle norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali, individuate dal codice dei contratti pubblici, operando l'amministrazione, in forza di quest'ultime, in via non integralmente paritetica rispetto al contraente privato, fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo l'amministrazione comunque parte di un rapporto che rimane privatistico, restano limitate alle singole norme che le prevedono. Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell'interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità (Cass. n. 391 del 2011 cit.; Cons. Stato, Sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455); la specialità della previsione del recesso di cui al citato art. 134 del codice preclude, di conseguenza, l'esercizio della revoca. Se infatti, come correttamente indicato dal giudice rimettente, nell'ambito della normativa che regola l'attività dell'amministrazione nella fase del rapporto negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è stata in particolare prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell'interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale); richiamato anche che, quando il legislatore ha ritenuto di consentire la revoca "per motivi di pubblico interesse" a contratto stipulato, lo ha fatto espressamente, in riferimento, come visto, alla concessione in finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici (o la gestione di servizi pubblici; art. 158 del codice). In caso contrario la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, risultando nell'ordinamento, che per definizione reca un sistema di regole destinate a operare, una 114 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V normativa priva di portata pratica, dal momento che l'amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando in tale modo nel rapporto una posizione comunque privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V Sezione, che per l'amministrazione la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell'obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale. 3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità della revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l'affidamento dell'appalto di lavori pubblici, che è l'oggetto specifico del quesito all'esame. Resta perciò impregiudicata, nell'inerenza all'azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell'art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l'aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso (Cass. sezioni unite, 8 agosto 2012, n. 14260; Cons. Stato: sez III, 23 maggio 2013, n. 2802; sez. V: 7 settembre 2011, n. 5032; 4 gennaio 2011, n. 11, 9 aprile 2010, n. 1998). Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste la speciale previsione in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. n. n. 391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell'autotutela autoritativa, poiché potere "del tutto alternativo a quello generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F" (oggi art. 134 del codice dei contratti pubblici); qualificazione questa che può ritenersi tuttora valida poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della normativa oggi vigente in materia, devono comunque valutare l'esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti l'altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso (art. 94, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 159 del 2011). 3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché dall'ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell'art. 134 del codice (così, come, per la medesima logica, né è esclusa la revoca di cui all'art. 158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall'amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai contratti attivi. 4. Sulla base di quanto esposto l'Adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: &lt;&lt;Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell'aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall'art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006” 115 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Modulo IV Le tecniche di regolazione dell’azione amministrativa 116 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 21. L’atto amministrativo contrario all’Unione europea: regime di nullità o di annullabilità? Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sez.II, 23 dicembre 2014, n.1295 1.Il fatto Il fatto prende avvio dalla richiesta avanzata dalla società Akron spa alla giunta regionale dell’Emilia Romagna volta alla realizzazione di un impianto di smaltimento e recupero dei rifiuti. L’istanza viene presentata unitamente al progetto e alla documentazione tecnica conformemente alle disposizioni in materia ambientalepaesaggistica, urbanistica e di sicurezza degli impianti sui luoghi di lavoro. La società opera, tra gli altri, nel settore dei servizi ambientali di recupero e smaltimento dei rifiuti attraverso la gestione di impianti autorizzati a ritirare rifiuti urbani e speciali che derivano dall’attività di raccolta differenziata. L’impresa è inserita nell’ambito del Gruppo Hera il quale ha una solida struttura organizzativa alle spalle vantando un modello imprenditoriale, fortemente radicato sul territorio nazionale, che ha registrato una notevole crescita nell’offerta dei servizi pubblici nel settore ambientale. All’interno del gruppo si riscontrano alcuni legami societari particolarmente rilevanti per lo studio del caso. In particolare: la società Akron spa è direttamente controllata da Herambiente spa a sua volta controllata da Hera spa. Hera spa, società a prevalente capitale pubblico, detiene dunque una partecipazione indiretta in Akron spa. A seguito dell’istanza viene convocata una Conferenza di servizi dal responsabile del procedimento della regione ai fini della valutazione della documentazione. Sulla base dell’istruttoria tecnica compiuta dalla conferenza di servizi, la giunta della Regione Emilia Romagna adotta, in data 18 febbraio 2013 n.164, la delibera avente ad oggetto il rilascio dell’autorizzazione alla società Akron spa per la realizzazione della nuova piattaforma di recupero di rifiuti urbani e speciali ubicata nel comune di Granarolo Emilia. La creazione della nuova piattaforma permette alla società di ampliare i siti che ha in gestione consentendole di smaltire gli scarti di imballaggio in carta e cartone che derivano dalla raccolta differenziata. La raccolta di tali rifiuti è però nelle mani della società Hera spa, gestore che opera in regime di monopolio nel mercato conservando l’esclusiva disponibilità rifiuti solidi urbani. L’autorizzazione regionale diventa, quindi, la causa scatenante dell’insorgere di alcuni malcontenti. Il timore paventato dalle imprese concorrenti è che la realizzazione dell’impianto possa sottrarre gran parte dei rifiuti cartacei provenienti dalla raccolta pubblica alle piattaforme indipendenti facenti parte del circuito Comieco. Trattasi di un Consorzio nazionale al quale partecipano circa 3400 imprese suddivise nelle diverse categorie di produttori, importatori di carta e cartone per imballaggi, trasformatori, importatori di imballaggi e piattaforme di lavorazione macero. Il Consorzio si propone quindi, tra le altre, la finalità di riciclare e di recuperare gli imballaggi di origine cellulosica. Tramite esso le imprese, acquistando una maggiore capacità di 117 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V contrattazione nel mercato, stipulando con le amministrazioni locali convenzioni per la raccolta differenziata, con l’obiettivo di riciclare i rifiuti provenienti dalla raccolta comunale. Per contrastare la costruzione del nuovo impianto la società Centro Bolognese Recupero Carta srl, con sede nella provincia di Bologna, denuncia la strategia di Hera spa davanti l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (d’ora in avanti Agcm). Nel procedimento davanti l’Autorità indipendente si sostiene che l’intera operazione è volta a danneggiare i concorrenti nel mercato a valle. Ciò avverrebbe sia tramite il conferimento integrale ad Akron spa dei rifiuti cellulosici da raccolta differenziata della provincia di Bologna a prezzi inferiori a quelli di mercato sia mediante la costruzione e la messa in funzione dell’impianto di Granarolo Emilia. Inoltre emerge che Hera spa ha sottratto alle piattaforme indipendenti del circuito Comieco la maggior parte dei rifiuti cartacei provenienti dalla raccolta pubblica allo scopo di affidarli direttamente ad Akron spa senza la previa indizione di apposita gara pubblica. Risulta, inoltre, che Akron spa, in attesa della realizzazione dell’impianto, ha provveduto a stipulare direttamente i contratti con le altre imprese indipendenti del settore, rendendole di fatto sue contoterziste. Ciò allo scopo di conferire ad esse la lavorazione dei propri rifiuti. L’accordo attribuirebbe ad Hera spa il diritto di utilizzo esclusivo della risorsa mediante l’intermediaria Akron spa. A conclusione della relativa indagine, l’Agcm emana in data 27 febbraio 2014 un provvedimento sanzionatorio con il quale ritiene responsabile la società Hera spa di abuso di posizione dominante ai sensi dell’articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n.287. Parallelamente al procedimento amministrativo davanti l’autorità indipendente si svolge il giudizio promosso dalla società Special Trasporti srl innanzi il Tribunale Amministrativo regionale per la Emilia Romagna. Trattasi di una società avente sede nel territorio di Sala Bolognese (BO) dal 1983 anch’essa specializzata nella raccolta e nel trasporto dei rifiuti urbani e speciali che gestisce in proprio impianti di stoccaggio e recupero dei rifiuti. Il ricorso è proposto avverso la delibera della Regione Emilia Romagna adottata in data 18 febbraio 2013 n.164. Secondo la Special Trasporti srl, la delibera della giunta regionale impugnata, affidando la gestione dei rifiuti alla società Akron spa, rafforza la condotta anticoncorrenziale di un gruppo di società attive nel settore dei rifiuti urbani nel territorio dell’Emilia Romagna. Così disponendo, la delibera in oggetto renderebbe concreta un’intesa tra una società a prevalente capitale pubblico, Hera spa, operante in regime di monopolio legale nella raccolta e trasporto di rifiuti urbani, e la società Akron spa da essa indirettamente controllata (tramite Herambiente spa). L’intesa tra le due società avrebbe l’effetto di far acquisire ad Akron una posizione dominate nel settore del recupero dei rifiuti urbani nella provincia di Bologna riducendo o eliminando del tutto la concorrenza degli operatori economici indipendenti. Per tale motivo la ricorrente, nel caso in esame, sostiene che dalla nullità dell’intesa, illecita ai sensi del Trattato europeo e della normativa nazionale per la tutela della concorrenza e del mercato, possa derivare, a sua volta, la nullità ex articolo 21 septies della legge 7 agosto del 1990 n.241 (legge sul procedimento amministrativo), della delibera regionale quale atto volto a dare concreta attuazione allo stesso accordo. 118 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2.Decisione Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, sez.II, 23 dicembre 2014, n.1295 – Pres. Giancarlo Mozzarelli – Est. Umberto Giovannini – Specialtrasporti s.r.l. c/ Regione Emilia «[Omissis] Il Collegio ritiene che l’azione proposta dalla ricorrente ex art. 21 septies L. n. 241 del 1990 non possa essere accolta. La norma, nell’unico comma che la compone, prescrive che: “E' nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.” Da un’attenta lettura della disposizione si evince che tale tipologia di “illegittimità forte”, così individuata in quanto più grave, negli effetti, rispetto all’ordinaria patologia dell’atto amministrativo sfociante nell’illegittimità e nel conseguente necessario annullamento dello stesso da parte del giudice amministrativo o della stessa P.A., costituisce ipotesi eccezionale rispetto all’ordinaria invalidità dell’atto, con conseguente sua concreta applicazione solo nei casi espressamente indicati nella norma che l’ha innovativamente introdotta nel testo della legge sul procedimento amministrativo e, quindi, nel vigente diritto amministrativo positivo. Anche la giurisprudenza amministrativa che si è occupata della questione è ferma nel ritenere che le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo di cui all’art. 21-septies L. n. 241 del 1990 costituiscano un numerus clausus, con conseguente inapplicabilità della suddetta disposizione all’infuori dei casi riferibili a: 1) atto amministrativo sprovvisto degli elementi essenziali; 2) atto adottato da organismo pubblico in difetto assoluto di attribuzioni; 3) atto adottato in violazione o elusione del giudicato; 4) in tutti gli altri casi in cui la legge prevede specificamente la nullità dell’atto amministrativo. Pertanto, in riferimento alla fattispecie in esame, si può pacificamente escludere l’applicabilità della norma riguardo alle ipotesi rubricate sub 1), 2) e 3); ciò anche tenendo conto delle considerazioni in proposito svolte dalla stessa ricorrente, secondo le quali la nullità della deliberazione regionale di cui è causa deriverebbe direttamente da un’intesa illecita a monte del provvedimento, asseritamente posta in essere da hera (ed herambiente) e akron, in violazione dei principi e della normativa comunitaria in tema di comportamenti e attività anticoncorrenziali di cui all’art. 101 T.F.U.E., così come è stata recepita dall’ordinamento nazionale nell’art. 2 della L. n. 287 del 1990. Pertanto, sulla base di tale interpretazione dell’art. 21 septies della L. n. 241 del 1990 e della relativa azione giurisdizionale, si deve ora verificare se la nullità della deliberazione regionale possa o meno derivare da un contrasto tra l’atto stesso e il diritto comunitario, oppure se, sotto diverso angolo di visuale della stessa questione, la normativa comunitaria (come recepita nell’ordinamento nazionale) che si ritiene violata, preveda espressamente, quale conseguenza di detta violazione, la nullità dell’atto amministrativo o, invece, la semplice annullabilità dello stesso. Il Collegio ritiene – sul punto condividendo il largamente maggioritario indirizzo della giurisprudenza amministrativa sul punto – che la violazione del diritto comunitario da parte dell’atto amministrativo implichi solo un vizio di legittimità dello stesso, con conseguente semplice annullabilità dell’atto, stante che il vizio consistente nella 119 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V violazione di norma del diritto comunitario non rientra – come si è visto- tra i casi espressamente elencati nell’art. 21 septies L. n. 241 del 1990 (v. Cons. Stato, sez. VI, 15/2/2012 n. 750; 31/3/2011 n. 1983; 22/11/2006 n. 6832 e n. 6833; da ultima: T.A.R. Basilicata 25/7/2014 n. 510). La stessa giurisprudenza ha inoltre rilevato che “…quando la norma comunitaria è entrata a far parte integrante dell’ordinamento giuridico interno, essa gode del medesimo regime di illegittimità-annullabilità degli atti amministrativi non conformi alle altre norme dell’ordinamento giuridico nazionale, per cui, se si consentisse al Giudice adito (o all’Amministrazione, al di fuori dell’esercizio del potere di autotutela) la disapplicazione delle norme processuali che impongono l’impugnazione a pena di decadenza, si creerebbe una discriminazione alla rovescia a danno delle norme nazionali, invece sottoposte a quel regime.” Ancora, altra condivisibile giurisprudenza ha sostenuto che la violazione, da parte dell'atto amministrativo nazionale, di norme appartenenti al diritto comunitario (primario o derivato), comporti una illegittimità dell'atto da inquadrare nell'ambito dell'annullabilità, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti, delle ordinarie regole sostanziali e processuali in materia di efficacia, di inoppugnabilità per decorso dei termini di impugnazione e di non disapplicabilità dell'atto in sede di giurisdizione amministrativa (omissis). Il Collegio deve quindi conclusivamente rilevare che, al di fuori delle tassative ipotesi eccezionali previste dall’art. 21 septies L. n. 241 del 1990, la violazione di una norma comunitaria, da parte di un provvedimento amministrativo, comporta l’onere, in capo al soggetto interessato, di impugnare detto provvedimento entro l’ordinario termine decadenziale, al fine di poterne ottenere l’annullamento in sede giurisdizionale. Né può giovare alla ricorrente – quale elemento asseritamente favorevole all’applicazione, nel caso di specie, dell’azione di nullità ex art. 21 septies L. n. 241 del 1990 il riferimento alla pretesa violazione dell’art. 101 del Trattato sul Funzionamento della Comunità Europea, nella parte in cui la norma comunitaria commina la sanzione della nullità di pieno diritto per le intese o accordi anti concorrenziali tra imprese. Oltre a quanto detto circa la esclusione della violazione anche diretta del diritto comunitario dal novero delle fattispecie in cui è esperibile l’azione di nullità, va anche rilevato che trattasi, come si è visto, di norme e principi in materia di illecito anticoncorrenziale che sono stati compiutamente recepiti dall’ordinamento italiano con l’entrata in vigore della completa ed organica normativa antitrust di cui alla più volte citata L. n. 287 del 1990. Pertanto, la ricorrente avrebbe dovuto impugnare la deliberazione regionale di cui invoca declaratoria di nullità entro l’ordinario termine decadenziale. Nella specie, però, ciò non è avvenuto e, di conseguenza, deve essere respinta l’azione ex art. 21 septies L. n. 241 del 1990. Ciò premesso e tenuto conto del ritenuto carattere dirimente delle precedenti conclusioni ai fini della decisione – il Collegio ritiene di dovere ulteriormente esaminare la peculiare azione intrapresa dalla ricorrente, nella parte in cui essa risulta imperniata su un ulteriore elemento, costituito dal procedimento avviato dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato nei confronti delle società facenti parte del gruppo HERA. L’avvio di tale procedimento comproverebbe, a dire della ricorrente, che il complessivo comportamento delle società del gruppo (che è lo stesso comportamento oggetto del presente ricorso), integri palesemente tutti gli elementi di quell’intesa anticoncorrenziale tra HERA (ed HERAMBIENTE) ed AKRON di cui si chiede in questa sede sentenza dichiarativa della nullità. 120 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Al riguardo, il Collegio osserva che dalle risultanze in atti e, in particolare, dalla documentazione concernente l’avvio di procedimento di accertamento da parte dell’Autorità Garante per la concorrenza ed il Mercato nei riguardi di HERA e AKRON e dal provvedimento sanzionatorio della stessa Autorità deliberato in data 27/2/2014, a conclusione della relativa indagine (atto intervenuto nelle more del presente giudizio v. doc. n. 46 della ricorrente), emerge chiaramente che HERA è stata ritenuta responsabile di “abuso di posizione dominante” di cui all’art. 3 della L. n. 287 del 1990 e non di “illecita intesa concorrenziale”, che è diversa violazione disciplinata dal precedente art. 2 della stessa legge. La Sezione deve peraltro osservare che, ai sensi delle disposizioni contenute nell’art. 8, commi 2 bis e 2 quater della L. n. 287 del 1990, solo la condotta anticoncorrenziale descritta dall’art. 3 risulta oggettivamente attribuibile ad impresa pubblica o ad organismo comunque esercitante la gestione di servizi di interesse generale, ovvero operante – come HERA ed il gruppo di società dalla stessa controllate nel caso di specie - in regime di monopolio, in relazione al mercato della raccolta dei R.S.U. nell’ambito di gran parte delle province della regione Emilia – Romagna. In merito a tale questione, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è chiara nell’affermare che l’art. 3 della L. n. 287 del 1990 ha lo scopo di impedire che tali posizioni (dominante o di monopolio) una volta (legalmente) raggiunte, possano togliere competitività al mercato di riferimento, ledendone la sua essenziale struttura concorrenziale e possano, di conseguenza, privare gli altri imprenditori operanti nello stesso mercato del diritto a competere con il soggetto dominante. In questi casi, pertanto, dovrà essere l’impresa dominante a dimostrare che il comportamento anti concorrenziale denunciato sia, invece, strettamente necessario al fine di assolvere al compito da essa svolto nell’interesse economico generale. Oltre a ciò, la differenza tra le due diverse fattispecie di illecito anti concorrenziale rileva soprattutto sul piano sanzionatorio, posto che solo l’ipotesi di cui all’art. 2 è sanzionata dal legislatore con la nullità dell’intesa fra più imprese, mentre l’abuso di posizione dominante è invece sanzionata unicamente con la pena pecuniaria prevista dall’art. 15 della stessa legge n. 287 del 1990. Anche sotto tale esaminato profilo non è pertanto condivisibile la tesi della ricorrente fondata sull’esistenza di un accordo anti concorrenziale tra HERA e AKRON, posto che la compiuta integrazione di tale illecito richiede necessariamente che l’intesa coinvolga due o più autonome (una dall’altra o dalle altre) imprese che operano, alla pari, nello stesso mercato di riferimento e che la stessa si ponga in contrasto con le disposizioni ed i principi contenuti nell’art. 2 della L. n. 287 del 1990. Il Collegio ritiene, in proposito, che tale specifico comportamento anticoncorrenziale del gruppo HERA sia stato accertato, correttamente qualificato giuridicamente e infine sanzionato dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, 15 e 31 della L. n. 287 del 1990 quale “abuso di posizione dominante”. Di qui, in conclusione, l’inconsistenza della tesi della ricorrente in quanto incentrata sulla asserita violazione di specifica normativa comunitaria che è stata recepita dall’ordinamento nazionale, ma che non risulta oggettivamente applicabile alla fattispecie in esame. Per le suesposte considerazioni, l’azione intrapresa dalla ricorrente ex art. 21 septies della L. n. 241 del 1990 deve essere respinta. Ricorrono, ad avviso del Tribunale, giusti motivi per disporre, tra le parti, la compensazione delle spese processuali, in considerazione della novità delle questioni 121 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V esaminate, nonché della peculiarità ed oggettiva complessità dell’intera vicenda contenziosa. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia - Romagna, Bologna (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.[Omissis]» 122 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 22. La motivazione per relationem del provvedimento amministrativo. La non ammissione della Centrale del Latte di Roma al regime di aiuti regionali co-finanziato dall’Unione Europea. Cons. St., sez. V, 24 marzo 2014, n. 1420 6. Il fatto Nel 1997, la Giunta della Regione Lazio, con deliberazione n. 2786, approva il Programma operativo per gli anni 1994-1999 con cui – in applicazione del Regolamento CEE n. 866/1990 – vengono individuati gli interventi necessari per la razionalizzazione delle strutture di lavorazione, trasformazione e commercializzazione nel settore del latte. La Commissione Europea, con decisione C (96) 2602 del 3 ottobre 1996, concede un contributo a sostegno del predetto Programma regionale. Si tratta, più specificamente, di un contributo posto a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEOGA). Nell’ambito degli interventi autorizzati è prevista l’erogazione di un contributo a favore degli operatori agricoli corrispondente al 50% delle spese necessarie all’adeguamento degli impianti. L’azienda comunale Centrale del Latte di Roma, con istanza presentata in data 19 settembre 1997, chiede alla Regione Lazio di essere ammessa al descritto regime di aiuti, al fine di ottenere un contributo di £ 913.481.500, sulla spesa preventivata di £ 1.826.964.000, per la realizzazione di un progetto concernente il trattamento dei reflui di lavorazione del latte, volto alla riduzione del carico organico affluente al depuratore. Nel corso dell’istruttoria, alla originaria azienda comunale succede la Centrale del Latte di Roma S.p.A., il cui pacchetto azionario di maggioranza viene acquistato dalla Cirio S.p.A. Nel 1988, la Regione Lazio adotta la deliberazione 4 agosto 1988, n. 4285, con cui nega alla Centrale del Latte di Roma S.p.A. la concessione del richiesto finanziamento. La Centrale del Latte di Roma impugna, dunque, innanzi al Tar Lazio la predetta delibera giuntale recante la non ammissione al regime di aiuti e contributi comunitari. Il Tar adito, con la sentenza n. 5604 del 2002, accoglie il ricorso proposto dalla società e annulla il provvedimento di esclusione per insufficiente e illogica motivazione, nonché per errata valutazione dei presupposti di fatto e delle risultanze istruttorie. La motivazione addotta dalla Regione Lazio si limitava ad affermare l’impossibilità di determinare il soggetto beneficiario del contributo a seguito del verificarsi di alcuni mutamenti societari. Ad avviso dei Giudici di prime cure, invece, la trasformazione societaria della Centrale del Latte in società per azioni e il successivo acquisto del pacchetto azionario di controllo da parte della Cirio S.p.A. non hanno comportato alcuna modifica soggettiva, né incertezze in ordine al beneficiario del contributo. Tali circostanze avrebbero giustificato, al più, lo svolgimento, da parte della Regione, di 123 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V ulteriori approfondimenti circa la situazione patrimoniale e finanziaria del nuovo socio di maggioranza ed, eventualmente, la richiesta di comprovante documentazione. La soccombente Regione Lazio propone appello innanzi al Consiglio di Stato. La pronuncia del Consiglio di Stato interviene a distanza di oltre 10 anni dalla sentenza di primo grado. Prima del 2009 – più specificamente prima delle modifiche introdotte dalla legge 18 giugno 2009 n. 69 – il termine lungo per impugnare era di un anno dalla pubblicazione della sentenza. Si rinviava, infatti, al disposto di cui all’art. 327 del codice di procedura civile. Si può, inoltre, ipotizzare che, a seguito del deposito dell’atto di appello e della iscrizione della causa a ruolo, le parti abbiano «tardato» nel presentare l’istanza di fissazione dell’udienza. Ecco il perché di un così ampio intervallo temporale. 2. La decisione Cons. St., sez. V, 24 marzo 2014, n. 1420 – Pres. Pajno – Est. Franconiero – Regione Lazio c/ Centrale del Latte di Roma S.p.A. e altri. «[Omissis] 4. In base alle risultanze istruttorie finora esaminate, si apprezza l'errore in cui è incorso il TAR nell'accogliere il motivo di violazione dell' art. 3 L. n. 241 del 1990 ed eccesso di potere per insufficiente ed illogica motivazione. 4.1. Giova al riguardo premettere, in diritto, che il rispetto dell'obbligo di motivazione di cui alla citata disposizione della legge generale sul procedimento amministrativo va valutato in coerenza con la funzione che esso riveste, consistente nell'imporre all'amministrazione di esternare il percorso logico-giuridico seguito nell'emanazione dell'atto finale che essa svolge. In questo senso è ormai saldamente attestata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (solo per citare le più recenti pronunce: Sez. III, 30 maggio 2013, n. 2941, Sez. IV, 16 gennaio 2014, n. 137, 4 giugno 2013, n. 3070, 26 marzo 2013, n. 1715; Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3235 V, 15 novembre 2012, n. 5772). Il citato indirizzo ha dunque posto in luce la finalità di tale obbligo, la quale consiste nel rendere possibile il controllo esterno circa il corretto esercizio della discrezionalità amministrativa. In questa chiave di lettura, le concezioni formali della motivazione sono ormai state superate da quelle che intendono l'obbligo in questione in senso funzionale, per cui quest'ultimo può ritenersi assolto allorché le ragioni della decisione pubblica possano essere colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento amministrativo, il quale - come anche la dottrina ha sottolineato - costituisce la forma dell'esercizio di detta discrezionalità. Ed in coerenza con la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo ora accennata si spiega il citato art. 3, il quale consente espressamente che detto obbligo possa essere anche assolto per relationem agli atti dell'istruttoria, a condizione che siano indicati e resi disponibili gli atti cui si fa rinvio. La giurisprudenza amministrativa formatasi al riguardo è infatti costante nell'affermare che tale norma è rispettata mediante l'indicazione degli estremi e la messa a disposizione dell'interessato degli atti endoprocedimentali o comunque che dal tenore motivazionale del provvedimento emerga che l'autorità decidente si è basata su di essi (C.d.S., Sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 6169, 22 marzo 2013, n. 1632, 3 agosto 2010, n. 5150; Sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 124 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 227, 15 ottobre 2013, n. 5008, 4 ottobre 2013, n. 4896, 20 settembre 2012, n. 4984, 24 febbraio 2011, n. 1156). [Omissis] 4.3. La società appellata obietta peraltro al riguardo che la Giunta ha fatto propria unicamente la proposta del gruppo intersettoriale nella parte concernente la pretesa inidoneità della Cirio a fornire sufficienti garanzie, mentre per il resto se ne sarebbe discostata, come affermato dal TAR. 4.4. A confutazione di tale assunto è tuttavia il caso di osservare che il richiamo agli atti dell’istruttoria contenuto nel provvedimento di non ammissione è integrale, cosicché non è possibile cogliere profili di dissenso dell’organo decisionale attraverso la sintetica espressione adoperata, rispetto alle proposte degli organi istruttori. Nel preambolo della delibera impugnata, infatti, è riportato quanto segue: "considerato che, conseguentemente alla selezione delle domande operata dalle commissioni istruttorie, il gruppo intersettoriale (...) ha esaminato i verbali istruttori ed (...) ha dichiarato non ammissibili n. 78 progetti specificando per ciascuno di essi le motivazioni di inammissibilità (Allegato 3)". Quindi è chiaro che l'organo giuntale ha inteso fare integralmente propria la proposta del gruppo intersettoriale di non ammissione del progetto della Centrale del Latte di Roma, le cui ragioni sono chiaramente esternate nel verbale del 27 maggio 1998. In quest'ultimo è innanzitutto operato un rinvio alla "valutazione di non ammissibilità specifica" del suddetto progetto formulata dalla commissione tecnica, ed in particolare alle ingenti perdite di bilancio della azienda proponente (circa 28 miliardi; 11,5 miliardi; e circa 20 miliardi di lire, rispettivamente negli anni 1994, 1995 e 1996); quindi si prende in esame la comunicazione di Cirio s.p.a. sopra detta, rilevandosi tuttavia che la dichiarazione di acquisto del controllo societario della Centrale del Latte di Roma s.p.a. non risulta supportata da "ulteriore documentazione sulla acquisizione". Quindi, il gruppo intersettoriale trae la conclusione che la valutazione sul progetto presentato "possa essere svolta sulla base della documentazione presentata dalla A.C.C.L. che come già evidenziato documenta una perdita di rilevante entità", tenuto conto che di Cirio "non si conoscono le risultanze economiche". In questa prospettiva emerge quindi la perfetta sovrapponibilità della succinta motivazione del provvedimento conclusivo, laddove motiva il diniego per "mancanza risultanze economiche nuovo soggetto beneficiario", con la prodromica proposta dell'organo deputato all'istruttoria delle domande di finanziamento. In particolare, alla luce di quanto finora detto, questa espressione deve essere letta come integrale recepimento della proposta del gruppo intersettoriale, essendo evidente che la mancata conoscenza delle condizioni economiche del preteso acquirente dell'azienda impedisce di modificare il dato pacifico delle rilevanti perdite di bilancio documentate da quest'ultima. [Omissis] P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso di Centrale del Latte di Roma s.p.a. [Omissis]». 125 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 23. La partecipazione ai procedimenti generali delle Autorità Amministrative Indipendenti:il meccanismo di consultazione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Cons. Stato Sez. III, Sent., 31/08/2012, n. 4659 1. Il fatto La sentenza in commento si inserisce all'interno del processo di trasformazione che ha interessato negli ultimi anni il servizio televisivo, passato dal sistema analogico a quello digitale. Tale passaggio ha origine dalle decisioni prese nel giugno 2006 dalla Conferenza di Ginevra, in seno alla quale vengono stabilite le regole per la transizione, quelle di coordinamento internazionale, la data di spegnimento definitivo delle reti analogiche e l’uso, in ampie aree di servizio, di una singola frequenza da assegnare in modo esclusivo ad un unico operatore. L’Italia decide di procedere gradualmente alla digitalizzazione del Paese, fissando un calendario con diverse tappe che prevede l'intervento coordinato di diversi soggetti istituzionali, anche sulla base delle indicazioni derivanti dall'Unione Europea. Uno degli aspetti che necessitano di specifica regolamentazione è il c.d. «ordinamento automatico dei canali televisivi» (in inglese Logical Channel Numbering; o LCN). Tramite le trasmissioni digitali – a differenza che in passato - è possibile far avere all'apparecchio dell'utente, oltre al contenuto trasmesso, tutta una serie di informazioni aggiuntive, tra le quali una stringa di dati in base alla quale ogni singolo palinsesto viene posizionato in modo automatico nel numero indicato nei predetti dati; in questo modo l'utente visualizza sul proprio televisore e sceglie, con il telecomando, i vari palinsesti proprio secondo l'ordine già predefinito dall'LCN. Questo significa che se più emittenti decidono di attribuire contemporaneamente ai propri palinsesti lo stesso numero, la gran parte degli apparecchi registrerà un conflitto tra LCN e lo risolverà in maniera automatica attraverso svariati criteri tecnici prestabiliti dai produttori degli apparecchi stessi. Anche se teoricamente il singolo utente potrebbe decidere di riorganizzare la numerazione dei vari canali, trattandosi di un intervento piuttosto complesso difficilmente viene fatto e, quindi, l'LCN fissato tende a rimanere invariato per tutti. In Italia, durante le prime fasi del passaggio al digitale – tra il 2008 al 2010 – si verifica una situazione di confusione nella gestione dell'LCN, in quanto numerosi operatori, tanto locali che nazionali, si auto-attribuiscono la stessa numerazione. Questo rende, quindi, necessario l'intervento dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), tanto per garantire un'ordinata fruizione dei programmi televisivi da parte dei cittadini, quanto per la tutela della concorrenza e del pluralismo, considerando anche che l'attribuzione di un determinato posizionamento nella numerazione dei canali è in grado di influire fortemente sulla competitività di un operatore del settore. Pertanto, l'Agcom effettua una consultazione pubblica sullo schema di Piano di numerazione automatica (interpellando circa 43 soggetti scelti tra operatori del settore, 126 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V associazioni di emittenti e di consumatori, nonché Enti Locali), in seguito alla quale commissiona un'apposita indagine di mercato alla Demoskopea spa (con Delib. n. 220 del 2010 - 11 maggio), facendone propri i risultati. Successivamente, in data 15.07.2010, con Delibera n. 366/10/CONS, approva il «Piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre», in attuazione dell'art. 32 del d.lgs. 177/2005, come modificato dall'art. 5 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 44, su delega conferita con la l. 88/2009 (legge comunitaria del 2008) al fine di rispettare gli obblighi imposti dalla direttiva CE 2007/65 sui Servizi Media audiovisivi (SMA). Con il Piano l'Agcom regolamenta il sistema LCN, dettando i criteri per l'assegnazione automatica del numero per ciascun canale della televisione digitale terrestre ai fornitori di servizi di media audiovisivi, nonché le modalità di attribuzione e di utilizzo. In particolare, fissati i criteri di ripartizione della numerazione all'art. 3, all'art. 4 assegna ai canali generalisti nazionali i numeri da 1 a 9 nel rispetto delle preferenze degli utenti, mentre all'art. 5 assegna alle emittenti locali i numeri da 10 a 19 ( e da 71 a 99) del primo arco di numerazione. Nel 2010 con ricorso al TAR Lazio il Comitato Radio Televisioni Locali ed il Gruppo Europeo Telecomunicazioni s.r.l. - G.E.T. - impugnano la la delibera Agcom n. 366/2010, chiedendone l'annullamento, previa sospensione, perché la ritengono affetta da molteplici vizi di violazione di legge e da eccesso di potere. In particolare, le ricorrenti deducono la violazione dal termine di 30 giorni previsto ai sensi dell'art. 11, comma I del d. lgs. n. 259/2003 per consentire agli interessati di partecipare al procedimento di consultazione. Inoltre, deducono la violazione del criterio di preferenza stabilito dall'art. 32, comma 2, d.lgs. 177/2005 ai fini dell'assegnazione alle emittenti locali del numero del canale sul telecomando; infatti, l'Agcom all'art. 5 del Piano ha utilizzato le graduatorie predisposte dai Comitati Regionali Comunicazioni – CORECOM - per l'assegnazione dei contributi a sostegno dell'innovazione tecnologica degli impianti di trasmissione radiotelevisivi ai sensi del D. Min. Comunicazioni 5 novembre 2004 n. 292. Nel corso del giudizio di primo grado, con motivi aggiunti, le medesime ricorrenti impugnano i provvedimenti con cui il Ministero Sviluppo Economico, tra l'altro, ha assegnato alla G.E.T. il numero del canale per trasmettere in Lombardia e Piemonte ed ha attribuito i numeri ai canali nazionali generalisti, fissando anche gli ulteriori elenchi di palinsesti assegnatari di numerazione in ambito nazionale. Il TAR Lazio, disposta l'integrazione del contraddittorio mediante notifica per pubblici proclami, con sentenza n. 6814/2011 accoglie alcuni dei motivi del ricorso ed annulla la delibera Agcom n. 366/2010 ed il Piano di numerazione automatica per violazione di legge ed eccesso di potere. Vengono annullati anche i provvedimenti ministeriali applicativi per illegittimità derivata. Contro la sentenza propongono appello, con quattro distinti ricorsi, sia l'Agcom ed il Ministero dello Sviluppo Economico che alcune emittenti radio televisive che erano intervenute nel giudizio di primo grado, cioè Telecom Italia Media spa, MTV Italia srl e Multimedia San Paolo srl. 127 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La decisione Cons. Stato Sez. III, Sent., 31/08/2012, n. 4659 - Pres. Ligani – Est. Spezia «[Omissis] A) RG. 6650/2011: appello principale proposto da AGCOM e Ministero Sviluppo Economico ed appello incidentale proposto da CRTL e GET srl. [Omissis]. 2.2. Nel merito la sentenza appellata merita conferma con specifico riguardo all'accoglimento delle censure di violazione dell' art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 259 del 2003 (che prescrive un termine di giorni 30 per la consultazione degli interessati) e di violazione dell'art. 32, comma 2, T.U.S. M.A.R. 31 luglio 2005 n. 177, (che prescrive la semplicità dell'uso del sistema LCN nonché il rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti, con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali ed alle emittenti locali) e di eccesso di potere per difetto di istruttoria ed illogicità e contraddittorietà. Infatti, come ha rilevato il giudice di prima grado (pag. 23), per l'assegnazione del numero automatico del canale sul telecomando va applicato l'art. 11 del codice dell'elettronica, T.U. 259/2003, poiché l'adozione del Piano di LCN non attiene ai servizi che forniscono contenuti e, quindi, non è ricompresa nell'ambito delle fattispecie (enumerate dall'art. 1, letta. g, del T.U. n. 259/2003) escluse dall'applicazione della disciplina del Codice sull'elettronica. Pertanto l'AGCOM non poteva limitare tale termine esercitando il suo potere regolamentare. D'altra parte la stessa AGCOM, nella Delib. n. 122 del 2010 di indizione della consultazione preliminare al piano, ha richiamato il D.Lgs. n. 259 del 2003 (che prevede 30 giorni per trasmettere le osservazioni) e, quindi, si è, altresì, auto vincolata. 2.3.Né tanto meno è condivisibile l'altro profilo del motivo di appello secondo il quale la esigenza di partecipazione al procedimento sarebbe stata soddisfatta, comunque, dai contributi forniti dagli interessati nell'ambito della consultazione disposta con la delibera AGCOM n. 647/2009. Infatti, (come rileva la stessa AGCOM nelle premesse della Delib. n. 366 del 2010) tale precedente istruttoria riguardava la proposta di autoregolamentazione convenzionale, in materia di numerazione dei canali, avanzata nel 2009 autonomamente dalla Associaz. Dg. TVI (in cui confluiscono circa 300 delle complessive 550 emittenti operative) e poi archiviata dalla stessa AGCOM a seguito del'entrata in vigore del nuovo testo dello art. 32 D.Lgs. n. 177 del 2005 (modificato dall' art. 5 comma 2, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44) che introduceva un sistema di LCN di chiara matrice autoritativa (attraverso la potestà regolamentare dell'AGCOM), e non più di origine convenzionale. Infine il procedimento in controversia, presupponendo l'esercizio di poteri discrezionali, esula dall'ambito di applicazione della disposizione di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, che (come è noto) consente di non annullare i provvedimenti vincolati adottati in violazione delle norme sul procedimento. Né tantomeno l'urgenza di provvedere potrebbe giustificare la riduzione dei termini della consultazione da parte dell'AGCOM: invero si tratta di una situazione di fatto ampiamente prevedibile e di una problematica conosciuta dalla stessa Autorità, trattandosi di una esigenza (quella degli obblighi posti dalla legge comunitaria n. 128 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 88/2009) ampiamente studiata dagli organi preposti al settore TLC, in quanto derivante da recepimento della direttiva 2007/65/CE . Pertanto il piano LCN risulta viziato a causa della illegittimità del termine per la consultazione degli interessati fissato nella delibera AGCOM n. 122/2010 che lo ha approvato. 2.4. Come si è detto, inoltre, la sentenza TAR va confermata anche con riguardo alla illegittimità dell'utilizzazione delle graduatorie CORECOM (vedi art. 5 del Piano) ai fini dell'attribuzione alle emittenti locali del numero del sistema LCN, nel range da 10 a 19 e da 71 a 99 (con replica analoga dopo il primo blocco) [Omissis] approvate, alla data di entrata in vigore del Piano stesso, dai Comitati Regionali delle Telecomunicazioni ai sensi del D. Min. comunicazioni 5 novembre 2004, n. 292, recante il regolamento per la concessione alle emittenti TU locali dei benefici previsti dalla legge finanziaria n. 448/1998, art. 45 per incentivare l'adeguamento degli impianti alle soluzioni tecnologicamente più innovativa. [Omissis] Pertanto, considerata la finalità delle graduatorie in questione e la metodologia di redazione delle medesime, appare evidente che la ratio che presiede alla formazione di queste non è omogenea o sovrapponibile a quella desumibile per il sistema LCN, dall' art. 32 D.Lgs. n. 177 del 2005, che richiama -in primo luogo- i principi della semplicità d'uso e del rispetto delle abitudini e preferenze degli utenti, con particolare riferimento ai canali generalisti nazionali e alle emittenti locali. 2.5. Invero, poiché le suddette graduatorie vengono compilate sulla base del fatturato (cioè "ricavi delle vendite e delle prestazioni", art. 1, D.M. n. 292 del 2004), ne consegue che, anche ove si consideri che una delle principale voci di fatturato è rappresentata dalla raccolta della pubblicità, cionondimeno l'ulteriore passaggio, tra la raccolta della pubblicità e le preferenze degli utenti, rimane non dimostrato. Infatti la raccolta della pubblicità, pur se è un utile indicatore della preferenza degli utenti ( in quanto di solito gli inserzionisti si rivolgono alle emittenti con maggior numero di utenti), tuttavia da solo non è univoco né sufficiente . [Omissis] Quindi l'utilizzo delle graduatorie Corecom per applicare i criteri di abitudini e preferenza degli utenti risulta del tutto inappropriato, mentre, sotto diverso ma non accessorio profilo, l'AGCOM avrebbe dovuto essere a conoscenza della circostanza che (come riferiscono alcuni interventori in giudizio) in Puglia ed in Campania alcune graduatorie Corecom erano state sospese per brogli e falsi ideologici in giudizi penali ed amministrativi i cui esiti, comunque, non sono stati riferiti in questo giudizio. Ritiene il Collegio, invece, che le abitudini e le preferenze degli utenti si prestano ad essere soppesati più correttamente con riferimento all'unico indice di carattere diretto ed endogeno cioè il livello di ascolto di ciascuna emittente ed il suo radicamento nel territorio, fermo restando che il legislatore ha attribuito al criterio "abitudine dell'utente" una valenza autonoma rispetto agli ascolti-preferenze. [Omissis]. 2.7.Pertanto, mentre, da un lato, il criterio di attribuzione del numero del canale collegato alle graduatorie CORECOM non è idoneo o misurare la preferenza degli utenti per ciascuna emittenti locale, dall'altro l'esigenza di provvedere con urgenza all'assegnazione della numerazione dell'ordinamento automatico dei canali (LCN) non è 129 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V giustificazione sufficiente perché l'AGCOM, in un contesto conosciuto e prevedibile, non osservi il dettato normativo. Peraltro, ove il legislatore avesse voluto, avrebbe chiaramente richiamato, tra i criteri direttivi, quello del fatturato di ciascuna emittente per introiti pubblicitari, anziché riferirsi genericamente alle abitudini e preferenze degli utenti, le quali attengono ad aspetti socio-culturali e di costume non quantificabili in termini direttamente monetari, ma direttamente esponenziali dei legami con la vita del territorio e rappresentano, sotto altro profilo, anche mezzi di salvaguardia del pluralismo delle comunità locali. [Omissis] Inoltre (come rappresentato in primo grado dagli appellati) le graduatorie CORECOM, compilate su base regionale, sono intrinsecamente disomogenee rispetto alle aree di servizio delle emittenti irradianti il segnale su aree interregionali oppure soltanto provinciale: ne discende che un'emittente che, trasmettendo in più regioni, avesse numeri di LCN diversi per ciascuna delle aree servite dovrebbe provvedere ad onerosi adeguamenti tecnici per differenziare la trasmissione del numero LCN da impianto ad impianto ed evitare facili sovrapposizioni di segnale [Omissis]. Pertanto, anche in considerazione di tali effetti indotti, l'utilizzazione delle graduatorie CORECOM appare illogica e contrastante con i principi del buon andamento e del pluralismo, nonché, per l'ulteriore aspetto specifico, viziata da difetto di istruttoria. 2.8. Quanto al pluralismo dell'informazione, poi, garantito dagli artt. 4 e 5 del TUS.M.A.R., appare di intuitiva portata il ruolo strategico acquisito di fatto dalle emittenti locali di qualità che hanno valorizzato usi e costumi di specifiche aree geografiche, costituenti in patrimonio di cultura locale tradizionale, profana e religiosa che (attraverso servizi giornalistici e trasmissioni divulgative su feste, cibi, luoghi di culto e beni storico ambientali ) viene proposta alle nuove generazioni ed alla platea di cultori ed operatori commerciali [Omissis]. Alla luce delle esposte considerazioni, quindi, le statuizioni di accoglimento della sentenza appellata meritano conferma e, pertanto, l'appello va respinto . [Omissis] … il Collegio, per valorizzare la funzione conformativa della sentenza, ritiene utile esaminare anche la censura di errore nei presupposti e violazione dell' art. 32 D.Lgs. n. 177 del 2005 ed illogicità dedotta innanzi al TAR nel terzo mezzo dei primi motivi aggiunti (nonché anche riproposto nel secondo atto di motivi aggiunti) avverso gli elenchi dei palinsesti assegnatari di numeri LCN in ambito nazionale ed i connessi provvedimenti ministeriali. Le censure sono fondate e, quindi, i provvedimenti suddetti sono illegittimi non solo in via derivata, come statuito dalla sentenza appellata, ma anche per vizi propri. Infatti l'assegnazione dei numeri ricompresi nel primo range dei programmi generalisti alle emittenti "Music Television" - MTV e "Deejay Television" non risulta corrispondente né ai criteri fissati dalla normativa di rango legislativo né ai risultati della indagine di mercato effettuata su incarico della AGCOM dalla Soc. Demostopea s.p.a. [Omissis]. Dall'indagine della spa Desmoskopea, quindi, emerge, innanzitutto, che l'assegnazione- quanto meno- della nona posizione nelle emittenti nazionali ex analogiche appare disposta in difetto di rilevazioni istruttorie adeguate ed univoche. 130 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Inoltre appare chiaro che, comunque, le posizioni otto e nove devono essere attribuite (in conformità alle abitudini e preferenze degli utenti nella sintonizzazione dei canali) ad emittenti generaliste, ove operative, fermo restando che il criterio delle abitudini consolidate (come si è detto) ha una valenza sua propria rispetto agli ascolti, mentre Music TV e Deejay Television non possono essere inserite nella categoria delle emittenti generaliste c.d. storiche che trasmettono programmi generalisti da decenni. Infatti [Omissis] appare evidente che le due suddette emittenti nazionali ex analogiche- a prescindere da altre considerazioni- si rivolgono, invece, ad una fascia di pubblico/utenza di riferimento predeterminata e con programmi dalle corrispondenti caratteristiche. Per le esposte considerazioni, quindi, i provvedimenti ministeriali di assegnazione alle emittenti televisive nazionali dei numeri 8 e 9 del sistema di LCN non appaiono rispondenti, sotto più profili, all'esito del sondaggio effettuato dalla stessa AGCM sulle abitudini e preferenze degli utenti per evidente difetto di istruttoria, mentre lo stesso sondaggio Demoskopea, come si è detto, è viziato dalla disomogeneità dei dati assemblati, i quali, provenendo sia dalle aree già passate al digitale sia da quelle riceventi ancora il segnale analogico, risultano inidonei a valutazioni comparative. [Omissis] 3. Passando al ricorso incidentale proposto (in via autonoma) dagli appellati CRTL e GET s.r.l., se ne dichiara improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse, visto che l'appello principale è stato respinto e che l'AGCOM deve ripronunciarsi, dopo nuova istruttoria, valutando discrezionalmente gli esiti delle indagini e la situazione di fatto effettiva . In conclusione, quindi, l'appello principale R. G. n. 6650/2011, unitamente agli interventi ad adiuvandum, va respinto e, per l'effetto, la sentenza impugnata va confermata con motivazione in parte diversa, mentre l'appello incidentale va dichiarato improcedibile . 3.Quanto, poi, agli appelli RG. 7872/2011-R.G. 7906/2011 e R .G. 10205/2011, proposti da: Telecom Italia Media s.p.a. [Omissis]; MTV Italia s.r.l., [Omissis]; Multimedia San Paolo s.r.l. [Omissis], visto che la sentenza TAR n. 6814/2011 viene censurata da ciascuno degli appellanti con mezzi di impugnazione analoghi a quelli formulati nell'appello R.G. 6650/2011, il collegio li respinge, richiamandone espressamente la motivazione . 4.Concludendo, quindi,gli appelli in epigrafe, previa riunione, sono respinti e, per l'effetto, la sentenza TAR Lazio n. 6814/2011 è confermata nei sensi di cui in motivazione; l'appello incidentale proposto da CRTL e G E T s r l nel giudizio di cui all'appello R G 6650/2011 è dichiarato improcedibile. [Omissis] Nelle more delle nuove determinazioni della AGCOM in ordine alla adozione del nuovo Piano T L C sarà inevitabile un corrispondente vuoto regolamentare e, quindi, è probabile che si determini una situazione di confusione nella programmazione delle emittenti conseguente alla possibilità di acquisire liberamente il numero del telecomando su cui irradiare i palinsesti . Pertanto, al fine di ridurre tale problematica conseguenza dell'annullamento in questione, è necessario che, in osservanza del principio del buon andamento, l'AGCOM medio tempore adotti, con l'urgenza del caso, ogni misura transitoria ritenuta utile allo 131 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V scopo di consentire l'ordinata fruizione della programmazione televisiva da parte degli utenti e degli operatori del settore . Data l'urgenza e la necessità di provvedere, tra le soluzioni possibili appare ipotizzabile anche l'adozione di una proroga di fatto del Piano LCN annullato, fermo restando che si tratta di un rimedio da adottare in via di straordinaria urgenza.» 132 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 24. Si può abusare del diritto di partecipazione al procedimento? Cons. St., VI, 8 aprile 2014, n. 1673 1. I fatti Con delibera del 23 febbraio 2011, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) avvia un procedimento istruttorio ai sensi dell’articolo 14, 1° c., l. 10 ottobre 1990, n. 287 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), nei confronti della “Coop Estense”, società cooperativa a responsabilità limitata. Il procedimento dell’AGCM è volto a verificare se tale società abbia integrato un abuso di posizione dominante lesivo della concorrenza, come tale vietato dall’art. 3, l. n. 287/1990. La “Coop Estense” è attiva nella distribuzione commerciale al dettaglio di prodotti alimentari e di altri beni di largo consumo. Essa opera nel distretto adriatico con l’insegna “Ipercoop” per quanto attiene agli ipermercati, con l’insegna “Coop” per i supermercati, con l’insegna “Dico” per i discount, e aderisce, insieme con altre otto grandi cooperative, al consorzio “Coop Italia”. Nel corso del procedimento istruttorio, l’Antitrust contesta alla “Coop Estense” di essersi resa protagonista di condotte anticoncorrenziali e di avere sfruttato la posizione di vantaggio rivestita nel mercato di riferimento per impedire, o comunque per ritardare, in provincia di Modena, l’espansione nel settore della grande distribuzione della società “Esselunga”. In particolare, la “Coop Estense” è accusata di avere ingiustificatamente condizionato, attraverso atti ostruzionistici e dilatori, l’iter amministrativo per il rilascio delle autorizzazioni all’avvio di attività commerciali da parte di “Esselunga”, in due procedimenti urbanistici, l’uno svolto dal comune di Modena, l’altro dal comune di Vignola. Nel primo procedimento pianificatorio, curato dal comune di Modena, la “Coop Estense” avrebbe realizzato un acquisto manifestamente antieconomico di un terreno, situato nella stessa zona del fondo appartenente alla concorrente “Esselunga”, al solo scopo di ostacolare l’approvazione del piano particolareggiato, in modo tale da ritardare la realizzazione dei punti vendita della società concorrente. Nel secondo procedimento, relativo all’approvazione, da parte del comune di Vignola, di un accordo edificatorio in un’area in possesso dell’Esselunga, la “Coop Estense” si sarebbe inserita avanzando una proposta edificatoria alternativa, raggiungendo così l’obiettivo di ritardare l’accordo tra il Comune e l’Esselunga. All’esito dell’istruttoria, con provvedimento del 6 giugno 2012, n. 23639, l’AGCM conclude che i vari atti di ostruzionismo compiuti dalla Coop nell’ambito dei procedimenti autorizzatori riguardanti l’Esselunga costituiscano un abuso di posizione dominante restrittiva della concorrenza. Di conseguenza, l’Antitrust prescrive alla “Coop Estense” di porre fine agli effetti delle infrazioni contestate e di astenersi in futuro dal tenere comportamenti analoghi a quelli oggetto dell’infrazione accertata. L’Autorità ordina altresì alla cooperativa di rinunciare all’esercizio di un potere di veto sulle scelte pianificatorie del comune di Modena, in modo da consentire l’elaborazione di un piano condiviso che 133 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V permetta l’avvio di attività commerciali da parte di “Esselunga”. Infine, l’AGCM decide di irrogare alla cooperativa una sanzione amministrativa pecuniaria dal valore complessivo di circa 4,5 milioni di euro. La “Coop Estense” impugna il provvedimento in questione dinanzi al TAR Lazio, contestandolo sotto una pluralità di profili. In primo luogo, l’Autorità avrebbe errato nell’accertare il presupposto del provvedimento impugnato, ossia la posizione di dominanza rivestita nel mercato della grande distribuzione dalla cooperativa. Secondo quest’ultima, infatti, in provincia di Modena la quota di mercato della cooperativa è del 40%, ma sono comunque attivi altri concorrenti, come la “Conad”, con una quota di mercato del 20%, la “Selex”, con una quota del 6%, e la stessa “Esselunga”, con una quota del 6%. In secondo luogo, l’Autorità avrebbe indebitamente ritenuto che la “Coop Estense” avesse realizzato delle barriere all’ingresso nel settore della grande distribuzione. In particolare, nel decennio 2000-2010, sarebbero stati aperti numerosi punti vendita concorrenti della Coop nella provincia di Modena. In terzo luogo, l’Autorità non avrebbe individuato esattamente le condotte poste in essere dalla “Coop Estense” in grado di integrare un abuso di posizione dominante. L’Autorità si sarebbe limitata, infatti, a qualificare come strumentali a impedire l’avvio di punti vendita da parte di Esselunga gli interventi della Coop nei due procedimenti pianificatori e urbanistici del comune di Modena e del comune di Vignola, ma non avrebbe adeguatamente dimostrato il nesso causale tra il comportamento della cooperativa e i presunti effetti lesivi della concorrenza. Infine, la cooperativa lamenta la non proporzionalità della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dall’AGCM. Il TAR Lazio, sede di Roma, con sentenza del 2 agosto 2013, n. 7826, accoglie il ricorso della “Coop Estense”. Il giudice di primo grado, pur riconoscendo la posizione dominante assunta dalla cooperativa, non ritiene sussistere tutti gli estremi dell’abuso di posizione dominante, di cui elemento costitutivo essenziale è il nesso di causalità tra la condotta dell’impresa dominante e l’effetto escludente. Il TAR Lazio annulla pertanto il provvedimento dell’AGCM per carenza di istruttoria e per difetto di motivazione. In particolare, per quanto riguarda i fatti di Modena, il giudice osserva che la mancata adozione del piano particolareggiato da parte del Comune non era dipesa solo dall’opposizione della cooperativa, ma anche dal parere negativo formulato dall’Ausl/Arpa competente, nonché dal mancato adeguamento del piano al parere della Commissione edilizia. Per quanto concerne la vicenda di Vignola, il giudice dichiara che l’eventuale buon esito dell’accordo tra il Comune e l’Esselunga non avrebbe comunque determinato l’automatico insediamento di strutture commerciali da parte della società medesima, dovendo l’accordo essere seguito da ulteriori procedimenti. Avverso la sentenza del TAR Lazio propongono appello l’AGCM, l’Esselunga e la “Coop Estense”, sebbene quest’ultima solo in riferimento alla parte in cui il giudice di primo grado aveva riconosciuto la sussistenza della posizione dominante. Al Consiglio di Stato spetta dunque dirimere la controversia, verificare se la “Coop Estense” si sia trovata in una posizione dominante e se abbia abusato della propria posizione, avvalendosi indebitamente degli strumenti di partecipazione ai procedimenti urbanistici dei comuni di Modena e Vignola. 134 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 7. La decisione Cons., St., VI, 8 aprile 2014, n. 1673 – Pres. Severini – Est. De Felice (...) Motivi della decisione (...) 3.Va ora esaminata la questione sottoposta con gli appelli dell’AGCM e di Esselunga s.p.a., con cui si mette in discussione la decisione del primo giudice, che ha ritenuto insussistente l’abuso perché il comportamento dell’impresa in posizione dominante, pur intenzionalmente diretto ad assumere carattere abusivo con "intento escludente" di Esselunga, tuttavia, nei fatti, non avrebbe davvero generato un effetto utile, a causa dell'interruzione del nesso di causalità, dato che le barriere, di ordine amministrativo, erano state determinate, invece, da cause amministrative e burocratiche non ascrivibili a Coop Estense, come emergerebbe dall’esame delle circostanze. Insomma, una volta ritenuta la sussistenza della posizione di dominanza del mercato rilevante di Coop Estense, nell’esaminare l’ipotesi dell’eventuale abuso della posizione dominante, l’abuso stesso è stato escluso dalla sentenza per difetto di un effettivo nesso di causalità tra la condotta ipotizzata come escludente e l’evento dell’esclusione di Esselunga. Il primo giudice ha deciso sull’assunto - contestato dagli appelli principali dell’AGCM e di Esselunga - che, per dimostrare la ricorrenza dell’illecito, l’Autorità avrebbe dovuto anche dimostrare la sussistenza del nesso di causalità collegato alla condotta c.d. escludente, non ritenendo sufficiente il mero intento escludente, né la mera capacità di un tale effetto. La sua sentenza ha quindi adottato una nozione di abuso diposizione dominante e di effetto escludente che - ai fini della configurazione della fattispecie anticoncorrenziale di abuso di posizione dominante - ritiene necessario non solo l’evento dell’esclusione dal mercato che rileva ma anche, in rapporto a quell’evento, l’accertamento dell’effettività dell’effetto escludente. In sostanza, il nesso di causalità tra la condotta e l’effetto escludente rileverebbe perché l’effetto escludente è parte costitutiva dell’illecito. Il primo giudice ha così aderito alla tesi per cui, per distinguere tra condotta concorrenziale lecita e abuso illecito di posizione dominante, si dovrebbe guardare alla ricorrenza dell’effetto anticompetitivo collegato causalmente alla condotta, elemento che (solo) “colora” di illecito la condotta dell’impresa in posizione dominante. A fronte di questo assunto, i motivi di appello dell’Autorità e di Esselunga appaiono degni di positiva considerazione. Infatti, nell’opposto assunto dell’impresa esclusa (Esselunga), esiste in capo a ogni concorrente dell’impresa in posizione dominante (Coop Estense) il diritto a non essere contrastata in senso esclusivo da atti illeciti, a ciò orientati, della dominante: il che prescinde dal fatto che una tale esclusione comporti una concreta diminuzione della concorrenza o dell’efficienza del mercato, perché si deve aver riguardo, ai fini del disvalore, alla sola condotta tenuta dall’impresa dominante. L’illecito, altrimenti detto, sarebbe di mera condotta. 135 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Costituiscono abuso di posizione dominante i comportamenti idonei ad incidere sulla struttura di un mercato rilevante dove, per effetto della presenza della dominante, il livello della concorrenza è già debole e che consistono non solo nell’effettivamente impedire, ma anche soltanto nel tentare di impedire, con mezzi diversi da quelli dell’ordinaria e proporzionata competizione in prodotti o servizi, che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo. L’articolo 102 TFUE (come anche l’art. 3 L. n. 287 del 1990) si limita a vietare l’abuso di posizione dominante, ma non ne fornisce la definizione. L’elenco di condotte ivi riportate non è esaustivo e le pratiche menzionate sono solo alcuni esempi di siffatti abusi: l’elenco delle pratiche abusive contenute in tale disposizione è un numero aperto, che non esaurisce le modalità di sfruttamento abusivo di posizione dominante contrastanti con il Trattato. Ai fini dell’art. 102 TFUE, la prova dell’oggetto e quella dell’effetto anticoncorrenziale si confondono tra loro: se si dimostra che lo scopo perseguito dal comportamento di un’impresa dominante è di restringere la concorrenza, un tale comportamento è di per sé pregiudizievole, in quanto può anche comportare tale effetto (sentenza del Tribunale Ue, del 29 marzo 2012, causa T-336/07, Telefonica; sentenza del Tribunale Ue, del 30 settembre 2003, causa T-203/01 Michelin; così sentenza del Tribunale Ue, del 17 dicembre 2003, causa T-219/99 dove si dice che “qualora un’impresa in posizione dominante ponga effettivamente in essere una pratica che produca un effetto preclusivo nei confronti dei propri concorrenti, la circostanza secondo cui il risultato voluto non sia stato raggiunto non è sufficiente ad escludere la sussistenza di un abuso di posizione dominante ai sensi dell'art. 102 TFUE”). L’illecito, cioè, si perfeziona con la condotta anticoncorrenziale, purché di suo idonea a turbare il suo funzionamento corretto e in esso la libertà stessa del mercato. È sufficiente a integrarlo già la mera potenzialità dell’effetto restrittivo. Ed è perciò già la correttezza del comportamento economico del concorrente che l’ordinamento intende garantire, non necessariamente la sola, oggettiva, concorrenzialità del mercato. (...) Dunque, per quanto in via statistica la più parte dei comportamenti abusivi di dominante generi effetti restrittivi della concorrenza, va sottolineato che (Corte di giustizia, del 9 aprile 2012, causa C-549/2012 P, Tomra) per accertare un abuso di posizione dominante sia sufficiente che il comportamento abusivo dell'impresa dominante miri a restringere la concorrenza, ovvero che sia tale da avere, o da poter avere, un tale effetto. Al più, è stato ritenuto che se la prassi di un’impresa dominante non può essere qualificata abusiva se manca del tutto un minimo effetto anticoncorrenziale, tale effetto non deve comunque essere concreto e totale rispetto alle intenzioni, essendo sufficiente un effetto anticoncorrenziale potenziale (sentenza della Corte di giustizia, del 6 dicembre 2012, causa C-457/10, Astrazeneca). A parte questo aspetto, secondo quanto emerge da questa sentenza Europea (AstraZeneca), la condotta dell’impresa in posizione dominante può comunque essere ritenuta abusiva se: 1) sia inserita nell’ambito di una strategia escludente; 2) non vi siano giustificazioni oggettive; 3) vi sia un limitato grado di discrezionalità da parte della pubblica amministrazione. Il fatto che l’obiettivo restrittivo perseguito non sia stato in realtà raggiunto non è di suo sufficiente a ritenere che dichiarazioni ingannevoli siano inidonee a produrre 136 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V effetti e che non vadano perciò sanzionate (in quel caso questo mancato raggiungimento avvenne per effetto di informazioni inesatte rilevate dalle autorità; mentre qui, secondo il primo giudice, rileverebbero altre cause di ordine amministrativo, come pareri negativi di organismi o enti pubblici). (...) È perciò essenziale, per l’effettività della tutela del mercato dai comportamenti distorsivi, valutare le condotte per quello che economicamente significano, adeguandole alla utilità economica che perseguono: considerandole come stretti atti economici, in rapporto agli interessi concreti cui sono orientate. Il che postula di renderle, a questi fini, indifferenti alle qualificazioni che eventualmente ricevono altrove: e perciò di assumerle solo nella loro dimensione utilitaristica, prescindendo dalle attribuzioni formali che possono caratterizzarle alla luce di altri ordinamenti di settore. Diversamente, alcuni comportamenti potrebbero sfuggire all’operatività della tutela della concorrenza e al divieto di distorsione del mercato: ad esempio, le condotte elusive o quelle di abuso; e più ancora se ne sottrarrebbero i comportamenti tipizzati o comunque leciti sotto altri e diversi punti di vista. L’effetto di sistema che ne deriverebbe sarebbe quello di un intervento di garanzia intermittente e claudicante, a dispetto del carattere sistemico del mercato e interdipendente dei comportamenti dei suoi attori. Coerentemente, il medesimo riguardo all’effettività dell’ordinamento di tutela della concorrenza impone anche di considerare che la posizione di impresa dominante in un mercato rilevante genera speciali doveri concorrenziali, realisticamente legati al suo particolare potere di mercato e alla conseguente particolare sensibilità del mercato rilevante alle sue operazioni anticoncorrenziali. Il cennato limite, a questo riguardo, tra uso e abuso della posizione di concorrente dominante è dunque, in ragione del principio generale di proporzionalità, da individuare in concreto, comparando questo potere economico alle distorsioni della concorrenza che la condotta di quell'impresa in quello specifico ambito è in grado di generare. Questa posizione particolare è dunque in concreto fonte, in quel mercato, di una - come è evidenziato dalla giurisprudenza Europea sin da Corte giust. CE, 9 novembre 1983, n. 322/81, Michelin c. Commissione - 'speciale responsabilità' che incombe sull'impresa dominante, con conseguenti obblighi particolari di astenersi da comportamenti che avrebbero un effetto distorsivo proprio in quanto originati dalla dominanza (cfr., ad es., Cons. Stato,VI, 13 settembre 2012, n. 4873). Qui il principio della 'speciale responsabilità' si estrinsecava nel particolare dovere di prendere atto delle previsioni urbanistiche locali e nel non interferirvi, e nel non interferire circa la disponibilità interprivata dei terreni che interessavano al riguardo, lasciandoli come possibile spazio materiale per l'insediamento di terzi ipotetici concorrenti (contro i quali poi agire competitivamente in base al corretto principio del merito). Interferirvi negativamente dal punto di vista amministrativo, ovvero sottrarle a una tale disponibilità commerciale avrebbe infatti significato tenere una condotta preventiva, volta a generare a priori una barriera all’accesso nel mercato rilevante in questione e dunque precludere in pratica una delle condizioni essenziali della concorrenza, cioè la libertà di ingresso nel mercato. Condotta che, in ragione del principio generale di proporzionalità, sarebbe stata invece ben lecita a un soggetto estraneo a quel mercato, ovvero anche a un soggetto di quel mercato ma non in posizione dominante (ovvero collegato all'impresa dominante), giacché non sarebbe 137 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V stata idonea a generare l’effetto distorsivo. Ma per l’impresa in posizione dominante era interdetta, come a quanti a questi fini collegati con essa. Sicché non può essere condivisa la tesi esposta da Coop Estense di ricondurre le sue azioni al mero ambito dei procedimenti amministrativi di tipo urbanistico ed edilizio. (...) Non è qui questione di legittimo esercizio di attività di impresa o dell’ordinaria capacità negoziale in tema di proprietà da parte dell’impresa in posizione dominante. Qui in concreto le circostanze di fatto, per come accertate, hanno ragionevolmente dimostrato all’AGCM, per quanto emerge dall’atto impugnato, che i comportamenti contestati erano non diretti alla semplice difesa o cura di impresa, ma espressione di una articolata strategia intesa a precludere Esselunga da parte di Coop Estense. Questi comportamenti, invero, considerato anche il loro costo, non avevano altra ragione pratica che impedire l’ingresso in quel mercato del serio concorrente potenziale Esselunga; e il loro obiettivo era di restringere, o meglio mantenere ristretta, la concorrenza in quel medesimo mercato. Nella specie, correttamente ha operato l’Autorità, nell’accertare, dopo adeguata istruttoria e dandone congrua motivazione l’esistenza dell’abuso di esclusione da infrastrutture necessarie ed essenziali per l’attività commerciale in quel mercato. Questo è stato realizzato da Coop Estense mediante un’intensa, lunga e articolata azione, espressa con un concorso di sue condotte commerciali finalizzate ad estromettere il nuovo e paventato concorrente con il costruirgli una barriera all’ingresso del mercato mediante la preclusione materiale della possibilità di realizzare, nel territorio in questione, insediamenti di strutture commerciali. La strumentalità e la stessa emulatività dei comportamenti di Coop Estense viene in evidenza dalle circostanze fattuali: nel caso di Modena, con l’acquisto, in modo patentemente antieconomico perché squilibrato rispetto al valore e al prezzo corrente di uno dei restanti comparti di terreno dove era possibile realizzare strutture di grande distribuzione - e quando già Esselunga aveva effettuato un ingente investimento di capitali, al solo evidente fine di impedirvi l'insediamento della struttura di Esselunga, e con la successiva opposizione di Coop Estense all'approvazione del piano particolareggiato da parte del Comune: condotte dalle quali è conseguita per Esselunga l'impossibilità di realizzare l'insediamento e dunque di avere un effettivo ingresso in quel mercato. Nella specie dal provvedimento dell'Autorità emerge che: 1) Coop Estense nel 2001 aveva acquistato ad un “prezzo esorbitante” - a dire di Esselunga, fino a cinque volte il prezzo di mercato: e su tale punto, si osserva, non sono svolte contestazioni - una porzione minoritaria del comparto (l'area dell’“ex Fallimento Rizzi”), soltanto dopo che la parte maggioritaria dello comparto stesso era entrata nella disponibilità di Esselunga tramite Edilmontanari (1999) e che la presentazione del Piano di riqualificazione del comparto medesimo era stata già autorizzata dal Comune nel corso dell'anno 2000: acquisto fatto all'esclusivo fine di incidere sulle soluzioni pianificatorie del comparto e, quindi, di rimettere in discussione le scelte edificatorie effettuate, mediante l'esercizio di un correlato potere che, per gli effetti pratici cui era orientato, risulta di sostanziale veto nei confronti delle proposte di Esselunga; 2) Coop Estense nel 2001 si era quindi opposta in via amministrativa al Piano particolareggiato, la cui presentazione era stata già autorizzata nel 2000 dal Comune a 138 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V seguito di una compiuta attività istruttoria, e di aver messo poi in atto, tra il 2001 e il 2004, una condotta dilatoria e di attesa: condotta che ha impedito, mancando il necessario consenso tra i proprietari, l'adozione del Piano; 3) Coop Estense ha posto successivamente in essere un comportamento solo apparentemente volto a trovare una soluzione al conflitto originato dall'opposizione al Piano, e consistente nella proposta di uno scambio di aree con Esselunga, in realtà irrealizzabile sia economicamente che tecnicamente; 4) Coop Estense, nel 2009, aveva presentato, un proprio Piano autonomo e non caratterizzato dal pur necessario consenso tra le proprietà; 5) Coop Estense ha così a tutt’oggi determinato lo stallo del recupero del comparto, su cui però mantiene il diritto di proprietà. Nella corretta ricostruzione dell’Autorità garante, quindi, l’acquisto dell’area da parte di Coop Estense si pone come in realtà finalizzata alla sola adozione di tale comportamento ostruzionistico: le vicende successive ne costituiscono, coerentemente, una mera applicazione. (...) In realtà. il mutato assetto proprietario, mediante l’acquisto di Coop Estense finalizzato di fatto al veto ha costituito e costituiva, di per sé, una sufficiente causa efficiente idonea ad impedire una normale attività imprenditoriale del potenziale concorrente mediante l'insediamento di una nuova struttura nell'area del mercato rilevante. (...) L’allarme generato dal paventato ingresso di Esselunga - al quale il corretto imprenditore in posizione dominante pur avrebbe potuto reagire con metodi leciti secondo le regole di mercato - è stato ammesso in audizione da Coop Estense, che a mezzo dei suoi rappresentanti ha dichiarato che la realizzazione di un punto di vendita di Esselunga avrebbe posto quest’ultima “in diretta concorrenza con il punto di vendita di Coop Estense e ne avrebbe determinato la chiusura” (doc.2.80 fascicolo istruttorio AGCM, richiamato dall'appellante Esselunga s.p.a.). In relazione poi alla vicenda di Vignola, Coop Estense è intervenuta strumentalmente e all’evidenza, al solo fine di ostacolare il potenziale concorrente Esselunga. Così ha fatto rispetto al procedimento di approvazione, da parte del comune di Vignola, di un accordo ai sensi dell’allora art. 18 (Semplificazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica) della L.R. dell'Emilia-Romagna 24 marzo 2000, n. 20 (Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio): accordo in base al quale quel comune avrebbe introdotto una variante al P.R.G., per consentire l'edificabilità di un'area già da tempo a disposizione di Esselunga (di converso Esselunga avrebbe finanziato un’opera di interesse pubblico). Il provvedimento dell’Autorità, al riguardo, illustra come Esselunga, nella impossibilità di dar seguito alla costruzione del punto di vendita a Modena a causa dello stallo determinato dalla opposizione di Coop Estense al progetto, si interessava di un’area nel vicino territorio di Vignola, di proprietà della società Vignola Due, compresa in un comparto da sottoporre a interventi di urbanizzazione, riqualificazione e recupero del tessuto urbano: area che offriva una nuova opportunità di insediamento commerciale prima non esistente. Tale area della superficie complessiva di 22.000 mq viene riconosciuta, dal provvedimento dell’AGCM, idonea in particolare alla realizzazione di una grande 139 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V struttura di vendita, cioè con superficie superiore ai 2.500 mq, che si sarebbe posta in diretta concorrenza con il solo altro punto di vendita di grandi dimensioni attivo nel territorio di quel comune, di proprietà di Coop. L’8 aprile 2005, il comune di Vignola avrebbe dovuto autorizzare l’accordo ai sensi dell’articolo 18 L.R. n. 20 del 2000 su domanda di Vignola Due, il che avrebbe consentito l’edificabilità dell’area e la realizzazione di un punto vendita, anche di grandi dimensioni, per Esselunga. Il 7 aprile 2005, cioè appena un giorno prima dell’effettiva attesa approvazione comunale del progetto di Esselunga, Coop Estense espresse al comune il proprio interesse ad avvalersi di una soluzione analoga a quella proposta da Esselunga. Una tale manifestazione induceva il comune a sospendere e a rinviare (in pratica, sine die) ogni decisione di merito in ordine alla avanzata proposta di Esselunga, al fine di valutare proposte urbanistiche alternative. Questa sospensione, come bene ha rilevato l’AGCM, ha nei fatti determinato un pratico arresto procedimentale. In base alle norme di legge regionale allora vigenti, il Comune avrebbe potuto direttamente adottare una variante al P.R.G., ma con procedura semplificata fino all’11 aprile 2005: ma non più poi, per effetto della normativa sopravvenuta. Questa sospensione ha avuto nella realtà delle cose una valenza definitiva, per la sopravvenuta impossibilità di deliberare la variante entro l'11 aprile 2005, data questa che la legge regionale poneva come ultima per l'adozione diretta da parte comunale di varianti al PRG, dunque per la concreta possibilità - per quel che qui interessa - di rendere effettivamente edificabili aree sulla base di decisioni proprie. Dopo un tale data, la reperibilità di una nuova area da rendere edificabile ai fini commerciali o altro avrebbe dovuto attendere i lunghi tempi della definizione di una nuova disciplina di pianificazione provinciale e comunale (POIC e PSC), ossia intraprendere una procedura più lunga, complessa e differita nel tempo, incerta - come poi è stato - su se e sul quando. Correttamente il provvedimento sanzionatorio qui al vaglio ha ravvisato in questi comportamenti la fattispecie dell'intento abusivo a finalità escludente: la tempistica dei fatti, per quanto legittima dal punto di vista dell'ordinamento del settore urbanistico, dal punto di vista dell'ordinamento della tutela della concorrenza si rivela inequivocabilmente, in ragione di quanto sopra rammentato, come una condotta della dominante il mercato orientata a una sua indebita utilità economica, consistente nella preclusione dell'ingresso, surrettiziamente realizzato mediante la descritta 'distrazione' dell'azione amministrativa, del nuovo paventato concorrente. È dunque - proprio in applicazione del principio generale di proporzionalità coerente e lineare rapportare con l'atto impugnato siffatta condotta alla figura dell'abuso di posizione dominante. Abuso è qui infatti l'esercizio di un potere che, per quanto possa apparire conforme al suo contenuto dal punto di vista urbanistico o proprietario, è in realtà - cioè economicamente - funzionale al conseguimento di un'utilità inaccettabile dal punto di vista della finalità generale di esclusione dei comportamenti discorsivi del mercato. Tanto è sufficiente a concretare l'illecito in parola, anche considerando che è, per quanto sopra esposto, da considerare come illecito di mera condotta. Non è dunque necessario procedere all'indagine - su cui invece si è soffermato con conclusioni non condivisibili il 140 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V primo giudice - della sussistenza del nesso di causalità rispetto all'effetto di esclusione di Esselunga da quel mercato rilevante. Solo ad abundantiam il Collegio comunque specifica, in ordine a quel nesso di causalità, che per la vicenda di Modena non rilevano le circostanze del mancato adeguamento da parte di Esselunga ai pareri negativi degli uffici sanitari o a quanto prescritto dalla commissione edilizia, essendo già adeguatamente sufficienti a realizzare l'arresto pratico del procedimento i descritti interventi frapposti dalla dominante: il che renderebbe di suo apprezzabile la sussistenza del nesso eziologico. Invero, alla luce del criterio della causalità adeguata (o anche della penalistica causalità alternativa ipotetica), gli ostacoli frapposti da parte di Coop Estense erano da soli, come detto, in grado di generare la pratica barriera all'insediamento di nuove strutture commerciali di Esselunga e dunque al suo ingresso, anche a prescindere dalla esistenza di altri ostacoli: ostacoli peraltro nel tempo superabili adeguandosi senza particolari difficoltà alle prescrizioni istruttorie ostative. Anche se Esselunga s.p.a. li avesse superati conformandosi ai rilievi sanitari ed edilizi (di Arpa, ASL, commissione edilizia), l’intervento di Coop avrebbe in ogni caso impedito - a causa della mancanza dell'assenso di parte della proprietà e cioè di tutti i titolari dei vari comparti interessati la possibilità dell'insediamento commerciale di Esselunga. (...) 9. Sulla base delle esposte considerazioni, previa riunione dei giudizi, vanno respinti gli appelli incidentali; vanno accolti gli appelli principali e, in riforma dell'appellata sentenza, va respinto il ricorso originario proposto da Coop Estense nei confronti del provvedimento adottato dall'AGCM. La condanna alle spese del doppio grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo. (...) 141 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 25. I principi del giusto procedimento per l’applicazione delle sanzioni Consob Cons. St., sez. III, 26 marzo 2015, n. 1595 1.Fatto La Arepo BP spa (di seguito Arepo spa), holding finanziaria di un gruppo imprenditoriale, avvia nell’arco temporale che va dal giugno del 2011 al maggio 2013 una serie di operazioni societarie finalizzate all’acquisto di titoli azionari della banca controllata Profilo spa. L’intervento non è ben visto dalla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (di seguito denominata Consob) che, nell’ambito della potestà regolamentare riconosciutale dall'art. 187-septies dal decreto legislativo del 24 febbraio del 1998, n.58 (di seguito denominato Tuf), decide di avviare un procedimento sanzionatorio nei confronti della Arepo spa. Il procedimento riguarda l’accertamento dell’illecito di cui all'art. 187-ter del TUF che punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria chiunque, tramite mezzi di informazione, diffonde voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false o fuorvianti in merito agli strumenti finanziari. Secondo la Consob, dunque, va accertato se l’intera manovra è stata compiuta con intenti elusivi: manipolando il mercato e sostenendo artificialmente il titolo Profilo in borsa. La verifica non può che essere condotta seguendo la procedura individuata dalla autorità e racchiusa all’interno del regolamento approvato con la delibera del 21 giungo 2005, n.15086 (di seguito denominato Regolamento del 2005) e che vede la suddivisione delle competenze tra tre Uffici: l’Ufficio Abusi di Mercato, l’Ufficio Sanzioni e la Commissione in qualità di organo decidente. Il procedimento sanzionatorio inizia, dunque, con l’atto di contestazione (per presunta manipolazione) dell'Ufficio Abusi di Mercato adottato in data 6 dicembre 2013 nei confronti della Banca Profilo spa contestando al rappresentante legale della società la violazione dell'art. 187-ter, comma 1, lettere a) e b), del TUF e alla società Arepo spa la violazione dell'art. 187-quinquies, comma 1, lettere a) e b), del TUF. In particolare si afferma che le contestazioni del 6 dicembre 2013 sono frutto degli elementi acquisiti dalla Commissione sin dal 28 maggio 2013, mediante ispezioni e indagini a largo spettro che hanno consentito di monitorare l’attività intercorsa tra il 21 giugno 2011 e il 27 maggio 2013 Ricevute le contestazioni del 6 dicembre 2013, con nota del 14 aprile 2014, la Arepo spa presenta una memoria difensiva a seguito della quale l'Ufficio Abusi di Mercato, in data 27 giugno 2014, adotta la propria relazione istruttoria, disattendendo tutte le controdeduzioni di parte, ivi comprese quelle relative al paventato contrasto tra la disciplina regolamentare ed i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (di seguito denominata Corte EDU) nella sentenza del 4 marzo 2014, n. 18640. 142 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V In data 30 luglio 2014 la società inoltra all'Ufficio Sanzioni la seconda memoria, così esaurendo le facoltà difensive ad essa concesse dal Regolamento del 2005. La Arepo spa continua, tuttavia, ad assumere un atteggiamento difensivo contestando non tanto il potere sanzionatorio attribuito all’autorità indipendente bensì le modalità di esercizio di tale potere. Si ritiene che esso violi i più elementari principi del giusto processo, del diritto al contraddittorio e della parità delle parti. La procedura indicata dal Regolamento del 2005 consente ai soggetti sottoposti al procedimento sanzionatorio soltanto il diritto di accedere agli atti e di formulare controdeduzioni scritte. Nulla si dice, invece, in merito: alla possibilità di farsi interrogare in fase d'indagine, alla possibilità di partecipare personalmente alle sedute dell'organo di vertice della Commissione e alla possibilità di partecipare alla valutazione dell'organo di vertice finalizzata all'adozione del provvedimento sanzionatorio. Inoltre, non è prevista la possibilità di essere giudicati da un soggetto terzo ed imparziale perché gli uffici che formulano le contestazioni e valutano le controdeduzioni degli interessati sono articolazioni della medesima struttura. Infine, si ritiene che la disciplina regolamentare è in contrasto con quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014, n. 18640 in ordine alla portata applicativa dell'art. 6, comma 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (di seguito denominata Convenzione EDU). Per i motivi sopra esposti in data 18 luglio 2014 (ossia tra la prima e la seconda memoria difensiva), a margine del procedimento sanzionatorio, la società presenta un atto di diffida con il quale intima all'organo di vertice della Consob, all'Ufficio Abusi di Mercato e all'Ufficio Sanzioni di procedere, nel termine di 30 giorni, all'emanazione di un nuovo regolamento conforme ai principi affermati e nelle more, di procedere all'annullamento o alla revoca degli atti del procedimento sanzionatorio in corso, previa immediata sospensione dello stesso. In risposta a tale diffida l'Ufficio SA in data 11 agosto 2014 riafferma la legittimità della procedura dichiarando infondate le osservazioni contenute nell'istanza della Società, volte a censurare la fondatezza sostanziale ovvero la legittimità della pretesa punitiva azionata dall'Autorità. Il fallimento dei tentativi stragiudiziali intrapresi dalla società portano la vicenda nelle aule giudiziarie. Viene così impugnato, innanzi al Tribunale Amministrativo regionale del Lazio, il regolamento Consob del 2005, recante "disposizioni organizzative e procedurali relative all'applicazione di sanzioni amministrative e istituzione dell'Ufficio Sanzioni Amministrative" al fine di farne accertare la sua illegittimità. Durante il processo di primo grado i ricorrenti evidenziano innanzi tutto l'incidenza della sentenza della Corte Edu sulla disciplina posta dal Regolamento del 2005. In particolare, dopo aver ricordato che con la predetta sentenza si è precisato che il procedimento finalizzato all'applicazione delle sanzioni amministrative previste dall'art. 187-ter del TUF si configura come una "accusa in materia penale" nel senso indicato dall'art. 6, comma 1, della Convenzione EDU, si evidenzia che la Corte stessa ha rilevato il contrasto esistente tra la disciplina posta dal Regolamento del 2005 e i principi del giusto processo di cui all'art. 6, comma 1, della Convenzione EDU. Si sostiene, a tal proposito, che la Corte ha espresso una valutazione negativa sul Regolamento del 2005. Ciò perché il rapporto che conteneva le conclusioni dell'Ufficio sanzioni, destinato a servire come base legittimante della decisione della Commissione, non è stato comunicato ai ricorrenti togliendoli la possibilità di 143 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V difendersi. Ed inoltre, perché gli interessati non hanno avuto la possibilità di partecipare e dunque di difendersi davanti la Commissione. In aggiunta, si sottolinea come l'Ufficio Abusi di Mercato, l'Ufficio Sanzioni e l'organo di vertice della Commissione sono suddivisioni dello stesso organo amministrativo. Tale ultima circostanza determina la riunione sotto uno stesso soggetto delle funzioni di indagine e di giudizio che dovrebbero, invece, in omaggio al principio di imparzialità, rimanere distinte. In conclusione, i ricorrenti sostengono che, per effetto di tale sentenza, è sorto in capo alla Consob l'obbligo di porre fine alle violazioni dell'art. 6 della Convenzione Edu. Le norme della Convenzione Edu, come interpretate dalla Corte Edu, costituiscono canone interpretativo ed applicativo dell'art. 187-septies, comma 2, del Tuf allorquando si sia in presenza di un procedimento amministrativo diretto a comminare sanzioni che rientrino nell'ambito della materia penale. Rientrano certamente in tale fattispecie quelle disciplinate dall'art. 187-ter (e 187-quater) del TUF e regolate dai relativi regolamenti Consob. Conseguentemente anche la Consob, nell'esercizio del proprio potere regolamentare, deve interpretare l'art. 187-septies del Tuf in conformità ai principi sanciti dalla Corte Edu dalla sentenza n. 18640 del 2014. Le conclusioni di parte non sono peraltro accolte dal Tar che, con sentenza del 27 novembre 2014, n.1887, ritiene non sussistente l'obbligo della Consob di adeguare il proprio regolamento sanzionatorio alle prescrizioni della sentenza della Corte Edu. Secondo il Collegio il sistema di irrogazione e di impugnazione delle sanzioni relative agli illeciti di cui all'art. 187-ter del TUF ha superato indenne lo scrutinio operato dalla Corte EDU. Da ciò deriva che non è dato ravvisare alcun obbligo in capo allo Stato Italiano e alla stessa Consob di adeguare la disciplina del predetto procedimento sanzionatorio ai principi del giusto processo sanciti dall'art. 6, par. 1, della Cedu. Secondo il Tar, la citata sentenza della Corte Edu dovrebbe essere letta nel senso che le violazioni dell'art. 6, par. 1, CEDU, riscontrate nel procedimento amministrativo, possono trovare contemperamento nelle successive fasi che si svolgono in sede giurisdizionale, nel rispetto del principio del giusto processo. Il Tar ha concluso, dunque, nel senso che il procedimento amministrativo volto all'applicazione delle sanzioni per market abuse altro non sarebbe che una prima fase, affidata alla Consob, di un procedimento unitario, seguito da fasi di natura giurisdizionale, rappresentate per l’appunto dal giudizio di opposizione dinnanzi alla Corte d'appello e dal giudizio innanzi alla Corte di Cassazione. All’interno delle fasi giurisdizionali la decisione amministrativa della Consob viene effettivamente sottoposta al controllo. Ebbene, per valutare se vi sia stata o meno una lesione del diritto al giusto processo si dovrebbe considerare il procedimento nel suo complesso. E’ infatti ben possibile che lo Stato italiano attribuisca ad un'autorità amministrativa come la Consob, priva delle caratteristiche di imparzialità e di indipendenza tipiche degli organi giurisdizionali, il potere di applicare sanzioni con natura sostanzialmente penale, come quelle relative agli illeciti di cui all'art. 187-ter del Tuf. Tutto ciò a condizione che la decisione possa essere successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione, titolare del potere di riformare, in fatto come in diritto, la decisione impugnata. Pertanto, il ricorso è respinto perché infondato. 144 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Non condividendo le argomentazioni del Tribunale di primo grado i ricorrenti impugnano la sentenza davanti al Consiglio di Stato chiedendone la riforma. 2.Decisione Cons. St., sez. III, 26 marzo 2015, n. 1595 – Pres. Luciano Barra Caracciolo– Est. Roberto Giovagnoli – Arebo Pb spa c/ Comissione Nazionale per la Società e la Borsa «[Omissis] 13. L'appello principale risulta fondato nei limiti di seguito precisati. Occorre sin da ora premettere che la disciplina del procedimento sanzionatorio contenuta nel regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, sebbene non presenti direttamente profili di contrasto con l'art. 6, par. 1, CEDU, né con gli artt. 24 e 111 Cost., non risulta, tuttavia, conforme ai principi del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti, che, con specifico riferimento ai procedimenti sanzionatori di competenza della Consob, sono espressamente richiamati dalla legge nazionale (in particolare dagli artt. 187-septies e 195 T.U.F. e nell'art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 "Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari"). Il legislatore, in altri termini, pur non essendo obbligato a farlo né in base all'art. 6, par. 1, CEDU, né in base a precetti costituzionali, ha, comunque, scelto di estendere al procedimento sanzionatorio di competenza della Consob alcune garanzie tipiche del c.d. giusto processo (come appunto il contraddittorio, la piena conoscenza degli atti e la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie). Il regolamento in questa sede impugnato, come si evidenzierà dettagliatamente nel prosieguo, non rispetta alcune di queste garanzie e, in relazione a tali profili, risulta, quindi, illegittimo per violazione di legge. Procedendo con ordine, deve, in primo luogo, escludersi che il regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, nel disciplinare il procedimento di irrogazione delle sanzioni previste dagli artt. 187-ter e 187-quater del T.U.F., presenti direttamente profili di contrasto con l'art. 6, par. 1 CEDU. L'art. 6, par. 1, CEDU non impone, infatti, che il procedimento amministrativo di irrogazione delle sanzioni per la fattispecie di c.d. market abuse sia disciplinato in modo da assicurare, già nella fase amministrativa, l'imparzialità oggettiva dell'Autorità che applica la sanzione e il pieno rispetto del principio del c.d. giusto processo. La CEDU, in altri termini, non impone che le sanzioni inflitte dalla Consob siano assistite, già nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio che precede la fase giurisdizionale, da garanzie assimilabili a quelle che valgono per le sanzioni penali in senso stretto. 14. Giova al riguardo premettere che la nozione di "pena" o "sanzione penale" rispettivamente accolta dall'ordinamento nazionale e da quello della CEDU non sono coincidenti. La nozione di "pena" elaborata dalla Corte EDU è significativamente più ampia rispetto a quella conosciuta dall'ordinamento nazionale, atteso che mentre quest'ultimo 145 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V utilizza essenzialmente in criterio di qualificazione prevalentemente giuridico-formale, in ambito europeo rilevano anche criteri di carattere sostanziale e funzionale. Come è noto, la Corte EDU, anche in risposta al processo di depenalizzazione della repressione di certe condotte da parte delle Alte parti contraenti, ha sviluppato una nozione di "accusa penale" ai sensi dell'art. 6, par. 1, avente portata autonoma dalle classificazioni utilizzate negli ordinamenti statali. Questa nozione è oggetto di una giurisprudenza consolidata (a partire dalla sentenza Engel ed altri v. Paesi Bassi, 8 giugno 1976 ), che richiede di tener conto di tre criteri, da considerarsi alternativi e non cumulativi: i) la qualificazione giuridicoformale dell'infrazione nel diritto interno; ii) la natura dell'infrazione; iii) la natura o il grado di severità della sanzione. Pertanto, la qualificazione che l'infrazione riceve nell'ordinamento nazionale non ha che un valore formale e relativo, e può cedere ove si accerti la natura intrinsecamente penale della stessa, avendo riguardo alla funzione deterrente e repressiva della sanzione, e al tipo di sanzione prevista. Affinché quindi l'art. 6, par. 1, trovi applicazione (nella parte in cui fa riferimento all'accusa penale), è sufficiente che l'infrazione in questione sia di natura penale rispetto all'ordinamento nazionale oppure che abbia esposto l'interessato ad una sanzione che, per la sua natura e gravità, ricada generalmente nella materia penale, avendo carattere punitivo e deterrente e non semplicemente risarcitorio o ripristinatorio. La Corte EDU si è riservata la possibilità di adottare un approccio cumulativo qualora l'analisi separata di ciascun criterio non le consenta di pervenire ad una conclusione chiara quanto all'esistenza di una accusa in materia penale. Per esempio, nell'analizzare se sia soddisfatto il secondo criterio (natura dell'infrazione), considerato il più importante, essa prende in considerazione vari fattori, in particolare: se sia di applicazione generale (perché, ove riguardasse solo gli appartenenti a un ordinamento particolare, acquisirebbe natura disciplinare); se abbia una funzione repressiva o dissuasiva, il che fa sì che non possano essere ritenute di natura "penale" sanzioni aventi un carattere meramente risarcitorio o ripristinatorio (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, 1 febbraio 2005, Ziliberberg v. Moldova, § 32); se la condanna dipenda da una constatazione di colpevolezza. Quanto poi al terzo criterio (natura e gravità della sanzione), esso è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata (Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 giugno 2009, Dubus S.A.v. c. France, § 37). Con specifico riguardo alle sanzioni pecuniarie, la severità è legata alla significatività del sacrificio economico, valutato però avendo riguardo alle condizioni soggettive del destinatario: così, anche una sanzione di pochi euro è stata considerata di natura penale sull'assunto che il suo ammontare fosse comunque significativo rispetto al reddito del destinatario (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, Ziliberberg v. Moldova, cit., § 3). Peraltro, all'interno della più ampia categoria di accusa penale così ricostruita, la giurisprudenza della Corte EDU ha distino tra un diritto penale in senso stretto ("hard core of criminal law") e casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale. Al di fuori del c.d. hard core, le garanzie offerte dal profilo penale non devono necessariamente essere applicate in tutto il loro rigore, in particolare qualora l'accusa 146 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V all'origine del procedimento non comporti un significativo grado di stigma nei confronti dell'accusato. La pragmaticità dell'approccio della Corte europea dei diritti dell'uomo ha dunque portato quest'ultima a riconoscere che non tutte le garanzie di cui all'art. 6, par. 1, CEDU devono essere necessariamente realizzate nella fase procedimentale amministrativa, potendo esse, almeno nel caso delle sanzioni non rientranti nel nocciolo duro della funzione penale, collocarsi nella successiva ed eventuale fase giurisdizionale (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo 23 novembre 2006, caso n. 73053/01, Jussila c. Finlandia). È, pertanto, ritenuto compatibile con l'art. 6, par. 1, della Convenzione che sanzioni penali siano imposte in prima istanza da un organo amministrativo - anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di effettività del contraddittorio - purché sia assicurata una possibilità di ricorso dinnanzi ad un giudice munito di poteri di "piena giurisdizione", e, quindi, le garanzie previste dalla disposizione in questione possano attuarsi compiutamente quanto meno in sede giurisdizionale. 15. Con riferimento alla fattispecie di illecito di manipolazione di mercato cui all'art. 187-ter T.U.F., la Corte EDU, nella sentenza Grande Stevens ha stabilito che le conseguenti sanzioni pecuniarie abbiano carattere penale, ritenendo così applicabile il profilo penale dell'art. 6, par. 1, CEDU. La Corte EDU è giunta a questa conclusione tenendo conto sia della natura dell'infrazione (che ha tra i suoi scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici, ovvero la tutela di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale), sia della natura e particolare severità delle sanzioni che può essere inflitta (in grado di ledere il credito delle persone interessate e di produrre conseguenze patrimoniali importanti). La Corte EDU, tuttavia, implicitamente richiamando la distinzione sopra tratteggiata tra diritto penale in senso stretto e casi non strettamente rientranti nel c.d. hard core, ha ritenuto che nell'ipotesi in esame, vertendosi nella seconda situazione, "il rispetto dell'articolo 6 della Convenzione non esclude [...] che in un procedimento di natura amministrativa, una "pena" sia imposta in primo luogo da un'autorità amministrativa. Esso presuppone, tuttavia, che la decisione di un'autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni dell'articolo 6 sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione (omissis) La Corte di Strasburgo, andando poi ad esaminare se il sindacato giurisdizionale esercitato nel giudizio di opposizione innanzi alla Corte di Appello fosse tale da assicurare il rispetto dei requisiti della piena giurisdizione, ha affermato che la Corte d'Appello è un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione, tale da assicurare il rispetto dell'art. 6, par. 1. In concreto, tuttavia, poiché nel caso di specie la Corte d'appello di Torino non aveva tenuta una udienza pubblica, la Corte EDU ha riscontrato, solo rispetto a tale profilo, la violazione, nel caso di specie, dell'art. 6, par. 1, della Convenzione. 16. Alla luce del percorso giurisprudenziale così sinteticamente ricostruito, emerge, dunque, che le sanzioni che la Consob può irrogare all'esito del procedimento cui sono stati sottoposti gli odierni appellanti non appartengono al diritto penale in senso stretto, ma sono sanzioni solo in senso lato assimilabili a quelle penali. Questo 147 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V implica che esse possono essere irrogate in prima battuta da un'Autorità amministrativa priva dei connotati di indipendenza e imparzialità e all'esito di un procedimento che non offre le garanzie richieste dalla piena giurisdizione. È tuttavia, necessario, ai sensi dell'art. 6, par. 1, della CEDU, che contro il provvedimento sanzionatorio sia assicurata agli interessati la possibilità di attivare un controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione, quale, in linea di principio, deve ritenersi essere la Corte di appello competente a decidere sul relativo giudizio di opposizione, salva la necessità della pubblica udienza. 17. Questo risultato interpretativo, che riconosce la possibilità che una sanzione (in senso lato) penale possa essere applicata anche da un'autorità amministrativa, priva di imparzialità oggettiva, all'esito di un procedimento che non offre le garanzie giurisdizionali proprie del processo penale, non rappresenta, contrariamente a quanto deducono gli appellanti, una sorta di anomala o impropria sanatoria giurisdizionale di una fase amministrativa di per sé, comunque, illegittima perché condotta senza rispettare i principi del giusto processo. Questa forma di apparente compensazione giurisdizionale delle garanzie mancanti nella fase processuale è il frutto di un ragionamento molto diverso, che affonda le sue radici nella stessa formulazione dell'art. 6, par. 1, della CEDU e nell'interpretazione tradizionalmente fornitane dalla Corte EDU. L'art. 6, par. 1, della CEDU testualmente prevede, infatti, che "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle contestazioni sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta". Limitando l'attenzione al profilo penale di tale disposizione, occorre ricordare come la Corte EDU, al fine di individuare quale sia l'ambito di applicazione e la portata precettiva dell'art. 6, par. 1, attribuisce un significato sostanziale e autonomo, rispetto a quelli dei vari ordinamenti nazionali, non solo al concetto di "accusa penale" (nel cui ambito vengono incluse, come si è visto, pure alcune sanzioni formalmente qualificate come amministrative dagli ordinamenti nazionali), ma anche al concetto di "tribunale indipendente e imparziale". Secondo la Corte EDU non è affatto necessario che i "tribunali" siano organi giurisdizionali in senso proprio secondo la qualificazione dell'ordinamento del foro: basta, sul piano formale, che vi sia un'autorità pubblica che svolga funzioni materialmente giurisdizionali e che sia chiamata a decidere le questioni di sua competenza in maniera indipendente e imparziale nell'ambito di un procedimento amministrativo rispettoso delle garanzie del giusto processo. In altri termini, secondo la Corte EDU le garanzie del diritto di difesa e del giusto processo possono essere realizzate anche all'interno del procedimento amministrativo, non essendo di ostacolo la natura formalmente non giurisdizionale dell'autorità che decide sulla fondatezza dell'accusa penale, purché questa sia indipendente dall'esecutivo e terza rispetto alle parti (ovvero tra il soggetto che chiede l'applicazione della sanzione e il potenziale destinatario della stessa). 18. L'art. 6, par. 1, non richiede, quindi, una trasformazione in senso paragiurisdizionale del procedimento amministrativo (e la necessaria applicazione in esso delle garanzie del giusto processo, prima fra tutte quella del contraddittorio orizzontale tra due parti poste in posizioni di parità rispetto all'autorità decidente), ma, 148 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V semplicemente, l'eventuale connotazione in senso quasi-judicial del procedimento amministrativo sanzionatorio consente di ritenere soddisfatte già in tale sede le garanzie sottese al principio del giusto processo. Nei casi in cui, come accade negli ordinamenti di molti Stati membri, il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabile a quelle del processo giurisdizionale, allora l'art. 6, par. 1, postula che l'interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell'accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato del potere di esercitare un sindacato di full jurisdiction. Il sindacato di full jurisdction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l'esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale. La piena giurisdizione implica il potere del giudice di condurre un'analisi "point by point" su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini dell'applicazione della sanzione, senza ritenersi vincolato all'accertamento compiuto dagli organi amministrativi e anzi dovendo sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell'amministrazione. In altre parole, quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco. Sarebbe, quindi, errato ritenere che, nel pensiero della Corte EDU, la fase giurisdizionale valga a sanare una fase amministrativa illegittima perché priva delle garanzie del giusto processo. La prospettiva da cui occorre partire è molto differente. Non vi è alcun obbligo di estendere le garanzie del giusto processo alla fase amministrativa. La fase amministrativa eventualmente priva delle garanzie del giusto processo giurisdizionale non deve, pertanto, essere considerata ontologicamente illegittima: essa è soltanto inidonea a soddisfare già nella fase amministrativa le garanzie di tutela di cui all'art. 6, par. 1, della CEDU. Nel caso in cui tale estensione dovesse avvenire, allora, nell'ambito del procedimento amministrativo connotato in senso quasi-judicial, l'autorità che applica la sanzione, nonostante la sua natura formalmente amministrativa, verrebbe già considerata un "tribunale indipendente e imparziale" e non vi sarebbe la necessità, ai fini del rispetto dell'art. 6, par. 1, della CEDU, di assicurare al soggetto sanzionato la possibilità di un successivo ricorso giurisdizionale di piena giurisdizione di fronte ad un'autorità giudiziaria indipendente e imparziale. In base all'art. 6, par. 1, della CEDU, quindi, gli Stati possono scegliere: o realizzare le garanzie del giusto processo già nella fase amministrativa - e, in questo caso, un successivo controllo giurisdizionale potrebbe persino (dal punto di vista della CEDU) non essere neppure previsto (cfr. ad esempio la sentenza della Grand Chambre, 22 novembre 1995, caso 19178/91, Brian c. Regno Unito) - , ovvero assicurare il ricorso di piena giurisdizione, consentendo che la sanzione applicata dall'autorità amministrativa sia sottoposta ad un sindacato pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva. 149 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V La scelta per la seconda opzione non dà evidentemente vita ad una anomala forma di sanatoria processuale di un procedimento oggettivamente illegittimo perché privo di adeguate garanzie. La fase amministrativa pur non connotata dal rispetto delle garanzie del giusto processo è perfettamente legittima, solo che essa postula l'esistenza di una fase processuale in grado di offrire quelle garanzie. In questo senso deve intendersi il principio di continuità tra la fase amministrativa e quella giurisdizionale e la più volte menzionata possibilità di recuperare in sede processuale il rispetto dei principi del contraddittorio, dell'imparzialità e della parità delle parti. 20. Il nostro ordinamento (non diversamente dagli ordinamenti di molti altri Stati membri) ha scelto di strutturare il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative senza assicurare le garanzie del giusto processo. È vero, infatti, che la giurisprudenza nazionale, ha, ormai da tempo, elaborato il principio del "giusto procedimento" (riconoscendone, entro certi limiti, anche la valenza costituzionale: cfr. Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103), in forza del quale ogni procedimento amministrativo deve svolgersi nel rispetto di un nucleo irriducibile di garanzie procedimentali che assicurino, fra l'altro, la partecipazione degli interessati e il conseguente contraddittorio endoprocedimentale, la conoscenza degli atti del procedimento, il diritto di difesa, l'obbligo di motivazione. È altrettanto vero che vi è nell'ordinamento nazionale una crescente tendenza ad assimilare il "giusto procedimento" al "giusto processo", anticipando, già in sede procedimentale, molte garanzie tradizionalmente tipiche del processo e dell'esercizio della giurisdizione. Tale fenomeno di assimilazione è ancora più evidente con riferimento ai procedimenti sanzionatori di competenza delle c.d. Autorità amministrative indipendenti. In questo caso, infatti, le tradizionali garanzie del giusto procedimento si rafforzano in ragione della particolare configurazione strutturale-organizzativa delle stesse Autorithies, sottratte al circuito politico governo-parlamentare e, quindi, non sottoposte alla funzione di indirizzo politico dell'Esecutivo. Proprio questi tratti di indipendenza e di neutralità hanno talvolta condotto ad ipotizzarne una natura paragiurisdizionale. Spesso, inoltre, il legislatore (cfr., con riferimento a Banca d'Italia, Consob, Isvap e Covip, art. 34 della legge 28 dicembre 2005, n. 262) nel disciplinare il procedimento sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti ha espressamente prescritto la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, attuando il principio per cui un soggetto non può essere al tempo stesso judge and jury). Analoghe forme di separazione tra organi con funzioni istruttorie e organi con funzioni decidenti vengono per lo più assicurate, in maniera più o meno intensa, nell'ambito dei procedimenti sanzionatori di pressoché tutte le altre Autorità amministrative indipendenti, alla luce di quanto previsto dei relativi regolamenti sanzionatori. In questa direzione si muove, con specifico riferimento alla Consob, anche l'art. 187-septies, comma 2, del TUF ai sensi del quale "il procedimento sanzionatorio è retto da principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie". Proprio dando attuazione a questo principio di separazione, la Consob, con le delibere n. 15086 del 2005 e n. 18750 del 2013, ha delineato un assetto organizzativo e 150 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V una procedura per l'accertamento e l'applicazione delle sanzioni di propria competenza caratterizzato da una fase istruttoria "bifasica" che si svolge dapprima dinanzi alla Divisione competente per materia e successivamente dinnanzi all'ufficio Sanzioni Amministrative all'uopo istituito, e da una fase decisoria di competenza della Commissione. Tale separazione, tuttavia, è, come si evidenzierà meglio nel prosieguo, di carattere meramente funzionale, e non è tale, pertanto, da assicurare la c.d. imparzialità oggettiva, ovvero che il soggetto che decide sulla sanzione sia diverso, da un punto di vista strutturale e organizzativo, da quello che svolge l'istruttoria. Nel caso della Consob (così come nel caso di molte Autorità indipendenti) funzione istruttoria e funzione decisoria, sebbene affidate a organi e uffici tra loro distinti, sono, comunque, da un punto di vista, soggettivo-strutturale concentrate in capo da un'unica Autorità. Il contraddittorio che si svolge nell'ambito del procedimento sanzionatorio rimane, quindi, un contraddittorio di tipo verticale, in cui il privato si confronta con un soggetto che non si colloca in posizione di parità, ma ha un ruolo di superiorità, essendo lo stesso soggetto titolare del potere di irrogare la sanzione. Come ha rilevato la Corte EDU, con la sentenza Grande Stevens, rimane comunque il fatto che l'Ufficio competente, l'Ufficio sanzioni e la Commissione non sono che suddivisioni dello stesso organo amministrativo, che agiscono sotto l'autorità e la supervisione di uno stesso Presidente. Secondo la Corte EDU, ciò si esprime nel consecutivo esercizio di funzioni di indagine e di giudizio in seno ad una stessa istituzione; ed in materia penale tale cumulo non è compatibile con le esigenze di imparzialità richieste dall'articolo 6 § 1 della Convenzione. 21. Una reale separazione soggettiva tra funzione istruttoria e funzione decisoria (nel modo necessario per assicurare il rispetto della c.d. imparzialità oggettiva come tratteggiato dalla Corte EDU) non è, tuttavia, praticabile de jure condito. Essa richiederebbe un radicale ripensamento del sistema delle Autorità indipendenti, attraverso la creazione, ad esempio, di Autorità indipendenti con funzioni soltanto inquirenti e l'attribuzione al giudice del potere di irrogare le relative sanzioni sul modello del sistema anglo-americano. Si pensi, in tal senso, alla soluzione accolta dall'Administrative Procedure Act degli Stati Unti, in base al quale nelle Agenzie la funzione istruttoria è separata da quella decisionale che è attribuita agli Administrives Law Judges). Analogamente nel sistema inglese la fase investigativa ed istruttoria è svolta dalla Financial Conduct Authority (FCA) mentre il potere decisorio è attribuito ad un Comitato del tutto indipendente (il Regulatory Decision Committee), composto da professionisti che rappresentano l'interesse pubblico e che non sono titolari di un rapporto di lavoro con la FCA. In alternativa, sempre de jure condendo, una più netta separazione può essere realizzata attraverso la creazione di due Autorità con funzioni chiaramente distinte (l'una istruttoria, l'altra decisoria), sulla falsariga di quanto accaduto in Francia, dove, in seguito alla sentenza Dubus (Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 giugno 2009, caso 5242/04, Dubus S.A.v. c. Francia), è stata creata, in luogo della Commission bancaire (COB), una nuova autorità di controllo sul sistema bancario (l'Autoritè de control prudentiel) composta da due organi con funzioni chiaramente distinte e non più da una commissione unica (cfr. l'art. L 612-4 dell'Ordonnance n. 2010-76 del 21 gennaio 2010). 151 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Tali sistemi alternativi, tuttavia, sebbene praticabili (e, per alcuni versi, forse anche auspicabili) de jure condendo, non solo non corrispondono al diritto vigente, ma tantomeno costituiscono soluzioni imposte o obbligate dagli obblighi sovranazionali derivanti dall'appartenenza alla CEDU. 22. Appurato che il regolamento Consob non presenta motivi di contrasto con l'art. 6, par. 1, della CEDU, occorre ora, tuttavia, vagliarne la legittimità alla luce delle disposizioni di rango sia costituzionale sia legislativo dell'ordinamento nazionale. 23. Rispetto ai precetti costituzionali non emergono profili di illegittimità. Le norme della Costituzione che garantiscono il diritto di difesa e il giusto processo riguardano espressamente il giudizio cioè il procedimento in cui il giudice è chiamato ad esercitare funzioni giurisdizionali al fine di statuire su posizioni soggettive, e sono rivolte a garantire che, nel dibattito prodromico alla decisione, siano presenti tutti gli interessati, in situazione di parità e con effettiva possibilità di formulare le deduzioni difensive ritenute opportune. Il procedimento amministrativo, ancorché sia finalizzato ad un provvedimento incidente su diritti soggettivi non è assimilabile al giudizio, sicché l'assenza di una totale equiparazione del procedimento amministrativo e giusto processo non autorizza ad ipotizzare un contrasto con i principi costituzionali propri esclusivamente del giudizio (Civ., Sez. Un., 20 settembre 2009, n. 20935). La nozione di "giusto processo", enunciata dall'art. 111, è dunque direttamente riferibile soltanto ai giudizi destinati a svolgersi dinanzi ad organi giurisdizionali, come inequivocabilmente conferma già l'intestazione della sezione II ("Norme sulla giurisdizione"), del titolo IV della Costituzione (a propria volta intestato alla "Magistratura"). Sotto il profilo costituzionale, la disciplina del procedimento amministrativo anche sanzionatorio è vincolata solo al rispetto dei più generici principi di eguale trattamento, imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, posti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonché al generalissimo principio di legalità che è sempre sotteso all'operare della pubblica amministrazione. È appena il caso di aggiungere, peraltro, che lo stesso ordinamento processuale penale interno prevede un procedimento a contraddittorio (totalmente) differito - il procedimento per decreto - transitato costantemente indenne al vaglio di legittimità costituzionale. La considerazione secondo cui il provvedimento amministrativo sanzionatorio, in forza della sua immediata esecutività (ciò diversamente da quanto accade per il decreto penale di condanna, la cui esecutività è subordinata alla mancata proposizione dell'opposizione), potrebbe produrre effetti gravemente lesivi in danno al privato che ne sia destinatario ancor prima che quest'ultimo possa eventualmente invocare rimedi giurisdizionali, non basta, di per sé a giustificare sul piano costituzionale un obbligo di estendere le garanzie del giusto processo alla fase procedimentale sanzionatoria. Se così fosse, infatti, una tale estensione dovrebbe predicarsi non solo per i provvedimenti sanzionatori, ma per molti altri provvedimenti amministrativi, i quali, pur senza connotazione sanzionatoria, possono ugualmente essere fonte di gravissimi pregiudizi per il privato che ne è destinatario e dare parimenti luogo al pericolo di lesioni ingiustificate prima dell'intervento giurisdizionale. Tale pericolo non può essere però risolto invocando la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo. Al contrario, la soluzione corretta e costituzionalmente compatibile è quella che passa attraverso un bilanciamento tra le 152 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V esigenze di tutela del privato e il contrapposto interesse alla prontezza e alla efficacia dell'azione amministrativa. Da tale punto di vista, l'ampiezza, l'efficacia e l'immediatezza della tutela cautelare, anche ante causam e monocratica, è certamente in grado di assicurare, tanto nel processo amministrativo quanto in quello civile di opposizione alle sanzioni amministrative, un equilibrato contemperamento degli opposti interessi, scongiurando così il pericolo che il destinatario del provvedimento sia privato della ineliminabile garanzia della tutela effettiva. 25. Resta da esaminare, a questo, punto la compatibilità del regolamento Consob con le previsioni di rango primario contenute negli artt. 187-septies e 195 del T.U.F., nel testo risultante dopo le modifiche introdotte con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (che ha modificato integralmente l'intero procedimento sanzionatorio allora vigente, attribuendo alla Consob la competenza sia della fase istruttoria che di quella decisoria, prima riservata al Ministero dell'Economia e delle Finanze). Le disposizioni appena menzionate stabiliscono, come si è già evidenziato, che il procedimento sanzionatorio di competenza della Consob debba essere retto dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie. Sono, nella sostanza, gli stessi principi richiamati dall'art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che ne ha esteso l'applicazione anche ai procedimenti sanzionatori della Banca d'Italia, dell'Ivass e della Covip. In attuazione delle citate disposizioni, la Consob ha esercitato la propria potestà organizzatoria con la delibera 21 giugno 2005 n. 15086, poi abrogata e sostituita dalla delibera 19 dicembre 2013, n. 18750 (non rilevante tuttavia ratione temporis nel presente giudizio in quanto applicabile solo ai procedimenti sanzionatori avviati successivamente alla sua entrata in vigore, ovverosia successivamente al 10 marzo 2014, mentre nei confronti degli odierni appellanti il procedimento sanzionatorio è stato avviato il 6 dicembre 2013). In base a detto regolamento, prodromica a ogni procedimento sanzionatorio è una fase preliminare, nella quale la Consob raccoglie gli elementi di fatto e le informazioni sulle quali si basa l'eventuale successiva fase istruttoria. Nell'ambito dei propri poteri di vigilanza ispettiva l'Autorità di controllo dispone, infatti, di ampi poteridoveri di indagine per l'accertamento di violazioni potendo, in base al T.U.F., accedere alla sfera giuridica dei soggetti informati sui fatti: la Commissione può richiedere notizie, dati e documenti, registrazioni telefoniche, disporre audizioni personali e sequestrare beni, ed effettuare perquisizioni; l'Autorità si può peraltro avvalere della collaborazione di altre pubbliche amministrazioni. Ad esito dell'attività di vigilanza, il dialogo tra gli uffici della Consob può condurre l'ufficio competente ad avviare il procedimento sanzionatorio vero e proprio, che ha inizio con la formale contestazione per iscritto degli addebiti ai soggetti interessati (con requisiti minimi di contenuto). Dalla notifica delle contestazioni, i soggetti interessati hanno 120 giorni di tempo per presentare proprie memorie scritte e documenti. Il procedimento sanzionatorio, all'epoca dei fatti, si divideva in una fase istruttoria e una decisoria. La prima, a sua volta, comprendeva due sotto-fasi: "parte istruttoria di valutazione delle deduzioni", che si svolgeva dinanzi alla Divisione competente, e "parte istruttoria della decisione", per la quale era competente l'Ufficio 153 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Sanzioni Amministrative ("U.S.A."). La Divisione competente, ricevute le eventuali controdeduzioni da parte degli interessati, formulava proprie valutazioni e trasmetteva il fascicolo all'U.S.A. Quest'ultimo inviava agli interessati un avviso e la relazione della Divisione, i quali avevano a disposizione 30 giorni per presentare ulteriori memorie e documenti. L'U.S.A., effettuate le proprie valutazioni anche sulla base degli scritti difensivi, predisponeva una relazione sulla violazione ed eventualmente contenente una proposta di sanzione, che veniva trasmessa ai Commissari, ai quali spetta la decisione circa il provvedimento sanzionatorio. Punto delicato è che le deduzioni dell'U.S.A. non sono condivise con gli interessati, né questi hanno la facoltà di presentare documenti o essere uditi dalla Commissione. La Commissione quindi, con decreto motivato, irroga la sanzione o archivia il procedimento. Si tratta di verificare se la disciplina del procedimento sanzionatorio contenuta nel regolamento Consob impugnato assicuri il rispetto dei principi richiamati dalla norma legislativa e, segnatamente, del principio del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti. 26. Il Collegio ritiene che il quesito debba trovare una risposta negativa. Va preliminarmente evidenziato che la disposizione legislativa, nel richiamare il principio del contraddittorio non fissa esplicitamente un livello minimo di tutela, né tantomeno impone l'adozione di un modulo procedimentale che offra garanzie del tutto equiparabili a quelle proprie del giusto processo giurisdizionale, Il legislatore non fornisce direttamente una definizione della nozione di contraddittorio di cui impone il rispetto. Tale nozione deve essere, pertanto, ricavata in via interpretativa, tenendo conto del complessivo contesto in cui si inserisce la disposizione in esame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l'appello incidentale condizionato e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado. [Omissis]>>. 154 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 26. Procedura di gara e offerta anomala. La partecipazione alla gara degli enti no profit. Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2015, n. 84 1. Il fatto Nel 2012 il Comune di Frosinone indice una gara per l’affidamento della gestione del servizio dell’Asilo Nido Pollicino, per la durata di un anno, da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. La gara viene aggiudicata alla R.T.I. Leonardo Società Cooperativa Sociale e Cooperativa Sociale Nuovi Orizzonti a r.l., un ente no profit, che ha fornito l’offerta economicamente più conveniente. Secondo in graduatoria è Parsifal, Consorzio di Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale (di seguito solo Parsifal), il quale ritiene tuttavia che la gara si è svolta in modo illegittimo in quanto la vincitrice avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, avendo presentato una offerta anormalmente bassa in relazione alla mancata previsione di un utile di impresa. Il 15 gennaio 2013, pertanto, Parsifal ricorre davanti al Tar Lazio, sede di Latina, chiedendo l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione di gara, lesivo dei propri interessi, e ritenuto illegittimo. Il Tribunale adito accoglie il ricorso e annulla il provvedimento, ritenendo che ai fini dell’attendibilità e dell’affidabilità dell’offerta sia necessaria l’indicazione di una percentuale di utile. Tale regola, secondo i giudici, deve ritenersi applicabile anche all’ente che istituzionalmente agisca senza scopo di produrre profitto, in quanto, al fine di assicurare la par condicio tra i concorrenti, tutti i soggetti partecipanti alla gara sono soggetti alla medesima disciplina. La sentenza del Tar viene appellata dal Comune di Frosinone con ricorso al Consiglio di Stato. 2. La decisione Cons. Stato. Sez. V, 15 gennaio 2015, n. 84 – Pres. Poli – Est. Caringella – P.A.R.S.I.F.A.L contro A.t.i. costituita da Leonardo Società Cooperativa Sociale e Cooperativa Sociale Nuovi Orizzonti Sociali a r.l.. FATTO e DIRITTO (omissis) 3. Il Collegio, in adesione ai rilievi svolti dal Comune appellante, reputa che l’orientamento giurisprudenziale, sul quale fa perno la sentenza appellata, che considera inattendibili le offerte prive di un margine di utile non sia estensibile, per mancanza della ratio che lo spiega e lo giustifica, all’ipotesi in cui la proposta economica sia 155 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V formulata da soggetti costituzionalmente non animati da uno scopo di lucro, quali le Onlus e le cooperative sociali. Assume rilievo centrale, al fine di pervenire alla conclusione ora esposta, la considerazione che il principio del c.d. ”utile necessario” trova condivisibile fondamento, in assenza di una base normativa espressa, nel carattere innaturale e, quindi, intrinsecamente inaffidabile di un’offerta in pareggio che contraddica lo scopo di lucro e, in definitiva, la ratio essendi delle imprese e, più in generale, dei soggetti che operano sul mercato in una logica strettamente economica (cfr. ex plurimis e da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 17 luglio 2014, n. 3805, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 120, co. 10, c.p.a.). Detta finalità, che è alla base del principio e ne definisce di conseguenza i confini applicativi, non è estensibile a soggetti che operano per scopi non economici, bensì sociali o mutualistici, per i quali l’obbligatoria indicazione di un utile d’impresa si tradurrebbe in una prescrizione incoerente con la relativa vocazione non lucrativa, con l’imposizione di un’artificiosa componente di onerosità della proposta. Ne deriva che, diversamente da quanto accade per gli enti a scopo di lucro, l’offerta senza utile presentata da un soggetto che tale utile non persegue non è, solo per questo, anomala o inaffidabile in quanto non impedisce il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio stricto sensu economico. Non giova alla tesi opposta l’invocazione del principio della par condicio, posto che detto canone richiede l’applicazione delle medesime regole di gara a tutti i concorrenti, ma certo non impedisce che, in sede di applicazione delle medesime regole, ogni concorrente esprima le proprie potenzialità competitive valendosi di asimmetrie virtuose collegate alle proprie caratteristiche ontologiche e alle proprie capacità concorrenziali. In definitiva - una volta ammesso, in conformità alle statuizioni della Corte di Giustizia (sentenza n. 305 del 23.12.2009) che <<…la definizione comunitaria di impresa non discende da presupposti soggettivi ma da elementi puramente oggettivi quali l’offerta di beni e servizi da scambiare con altri soggetti - con la conseguenza che non v’è ragione di escludere che anche soggetti economici senza scopo di lucro possano soddisfare, ai fini della partecipazione ad una gara di appalto, i necessari requisiti ed essere qualificati come “imprenditori”, “fornitori” o "prestatori di servizi" ai sensi delle disposizioni vigenti in materia sempre che questa possibilità trovi riscontro nella disciplina statutaria del singolo soggetto giuridico>> - si deve ritenere che proprio lo statuto sociale e mutualistico debba disciplinare il modus operandi di tali soggetti in sede di partecipazione alle procedure d’evidenza pubblica. Si deve soggiungere che la previsione dell’indefettibilità dell’utile, oltre che distonica rispetto alla vocazione di tali soggetti, lederebbe ingiustificatamente anche l’interesse pubblico a usufruire delle offerte più vantaggiose conseguibili in un mercato contendibile da attori con diverse caratteristiche. 3.1. Può ammettersi, pertanto, la sussistenza di una relazione biunivoca fra l’idoneità soggettiva degli enti no profit alla partecipazione alla gara e la possibilità di presentare offerte con utile pari a zero, basata sul principio di non contraddizione imposto dall’opzione ermeneutica prescelta sul punto dalla richiamata Corte di giustizia: le misure correttive che, ai sensi del 4° considerando della direttiva 2004/187CE, devono essere prese per evitare distorsioni della concorrenza qualora agli appalti partecipino organismi non profit o enti pubblici (destinatari di benefici tributari, 156 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V previdenziali o di veri e propri aiuti di Stato), gravano infatti sugli Stati membri e non sulle singole stazioni appaltanti; queste ultime possono, e in taluni casi devono, prendere in considerazione tali benefici esercitando un rigoroso controllo in sede di verifica dei requisiti generali e di anomalia dell’offerta, ma non possono considerare ex se invalida un’offerta che sia priva di utile, purché non sia sottocosto o non disveli, unitamente ad altri elementi, un fine predatorio o anticoncorrenziale. In conclusione, l’inapplicabilità della tesi rigorosa (ovvero quella che ravvisa presuntivamente un’offerta incongrua in caso di utile pari a zero), non sta a significare che sia consentito agli enti no profit di praticare politiche di dumping salariale, dovendo l’amministrazione appaltante vigilare affinché ciò non accada. 3.2. Tali conclusioni risultano avvalorate dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE (cfr. 11 dicembre 2014, C-113, relativa all’affidamento di servizi di trasporto sanitario d’urgenza ad organismi no profit in regime di convenzione quadro), secondo cui: a) un contratto non può esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione in esso prevista sia limitata al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto da parte dell’onlus concorrente, in quanto ha scarsa rilevanza accertare se i costi che devono essere rimborsati dalle pubbliche amministrazioni alle associazioni no profit coprano unicamente i costi diretti collegati allo svolgimento delle prestazioni interessate o, in aggiunta, una parte delle spese generali; b) il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e, in particolare, quello concernente gli appalti pubblici di servizi: I) è diretto a garantire la libera circolazione dei servizi e l’apertura ad una concorrenza non falsata e più ampia possibile negli Stati membri; II) presume che gli appalti relativi ai servizi ricompresi nell’allegato II B della direttiva 2004/18 non presentino, a priori, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga in esito ad una procedura di gara d’appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d’appalto; c) la presenza sul mercato delle associazioni di volontariato si giustifica perché tende a garantire che i servizi (specie di interesse generale), siano assicurati in condizioni di equilibrio economico a livello del bilancio (evitandosi ogni spreco di risorse finanziarie, umane e tecniche) ma al contempo secondo standard di elevata qualità; d) in tale contesto è necessario che le associazioni di volontariato non perseguano obiettivi diversi da quelli menzionati al precedente punto e, pertanto, che non traggano alcun profitto dalle loro prestazioni (anche se destinato ai loro membri), a prescindere dal rimborso di costi variabili, fissi e durevoli nel tempo necessari per fornire le medesime; e) al contempo, pur essendo ammissibile che le onlus si avvalgano di lavoratori (poiché, in caso contrario, dette associazioni sarebbero in molti casi private della possibilità effettiva di agire), l’attività delle associazioni in parola deve rispettare rigorosamente i requisiti loro imposti dalla legislazione nazionale in considerazione del principio generale del diritto dell’Unione del divieto dell’abuso di diritto; quindi, l’attività delle associazioni di volontariato può essere svolta da lavoratori unicamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento. 157 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 3.3. All’interno di tali limiti – in particolare: la regolarità della retribuzione e delle garanzie previdenziali in favore dei lavoratori (in modo che si escluda ogni fenomeno di deflazione salariale o di dumping sociale), nonché il divieto generale di operare sotto costo - può ammettersi, pertanto, che le onlus che partecipino ad una gara di appalto di servizi possano presentare una offerta economica priva di margini di utile. (omissis) 5. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento dell’appello. 6. La complessità e la novità della questione di diritto giustificano la compensazione delle spese di giudizio a mente del combinato disposto degli artt. 26, co. 1, c.p.a. e 92, c.p.c. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge integralmente il ricorso di primo grado. 158 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 27. L’esclusione dalla procedura di evidenza pubblica e il potere di soccorso istruttorio. E’ sufficiente la mancanza formale di una dichiarazione per escludere un concorrente dalla gara? Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1006 a cura di Flaminia Ielo 1. Il fatto Nel 2013, la Società San Giorgio D.P. presenta un’offerta per partecipare alla procedura comparativa indetta dal Comune di Camogli per l’assentimento in concessione di un’area demaniale marittima in ambito portuale destinata a scalo di alloggio natanti, cantiere navale e piattaforma per deposito di imbarcazioni. Successivamente all’apertura delle buste, a fronte di un primo esame della documentazione richiesta, l’amministrazione aggiudicatrice esclude la società San Giorgio dalla procedure, perché la domanda è carente di alcuni dei documenti richiesti dalla legge e, a pena di esclusione, anche dalla lex specialis di gara. La società ritenendosi illegittimamente pretermessa dalla possibilità di partecipare alla gara e dunque di conseguire l’aggiudicazione di un contratto economicamente rilevante, si rivolge al Tar Liguria al fine di richiedere l’annullamento del provvedimento di esclusione. Il Tribunale accoglie il gravame e annulla l’atto impugnato, ritenendo la società ricorrente essere stata illegittimamente esclusa dalla gara. Secondo i giudici di primo grado, l’onere di allegare la documentazione richiesta deve ritenersi adeguatamente adempiuto dalla presentazione di una sola dichiarazione comprovante l’insussistenza di cause di esclusione sottoscritta dal legale rappresentante, e riferita anche agli altri rappresentanti della società, senza necessità che questi siano espressamente indicati. La sentenza è impugnata con distinti appelli sia dal Comune di Camogli sia dalla Società C.N., controinteressata nel giudizio de quo. Il Comune ha interesse a difendere la legittimità del proprio operato e vedere perciò confermata l’esclusione della società ricorrente in primo grado; in questo modo sarebbe confermata la validità di tutta la procedura, la quale non dovrebbe essere reiterata. La Società appellante, altrettanto, ha interesse a confermare la legittimità dell’esclusione della San Giorgio, poiché l’eventuale riammissione di quest’ultima potrebbe incidere sull’esito della procedura di gara, invertendo l’aggiudicazione a vantaggio della società esclusa. 2. La decisione Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1006 – Pres. Severini – Est. Buricelli – Comune di Camogli contro O.M.N. e F. “S.G.D.P.” Spa e nei confronti di C.N.D.C. srl; C.N.D.C. srl contro O.M.N. e F. “S.G.D.P.” Spa nei confronti di Comune di Camogli. (omissis …) 159 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 4.Gli appelli sono fondati e da accogliere. Il ricorso di primo grado della S.G.D.P. andava respinto poiché infondato. E infatti: - la signora O.G., Presidente della San Giorgio e come tale dotata della legale rappresentanza della società, non ha reso alcuna dichiarazione. Viene pertanto in rilievo la fattispecie della radicale mancanza delle dichiarazioni di cui all'art. 38 del Codice dei contratti pubblici (applicabile alla procedura in questione, in quanto recepita attraverso la lex specialis, come si dirà); - in ogni caso l'AD F.G. ha adempiuto l'obbligo di rendere la dichiarazione di cui all'art. 38, previsto a pena di esclusione dal disciplinare di gara, solo per se stesso, non avendo reso la dichiarazione prescritta (anche) per l'altro soggetto munito di poteri di rappresentanza legale dell'impresa, vale a dire per la Presidente G., non menzionata dall'AD; e comunque avendo, il G., reso una dichiarazione "di non avere a carico delle persone aventi i poteri provvedimenti definitivi ostativi all'assunzione di pubblici appalti" generica, poiché priva di indicazioni nominative dei soggetti cui si riferiva e comunque insufficiente poiché non rapportata all'art. 38 del Codice dei contratti pubblici, come avrebbe dovuto essere, ma relativa solo ad alcune delle condizioni ostative all'assunzione di appalti pubblici specificate dalla norma, con conseguente inesistenza in parte qua e in ogni caso insufficienza e inidoneità della dichiarazione medesima nel suo complesso. Venendo in questione una dichiarazione mancante, non poteva darsi luogo al c.d. soccorso istruttorio; - alla procedura, finalizzata come detto all'assentimento, per quattro anni, di un'area demaniale marittima in ambito portuale, trova applicazione rigorosa il citato art. 38, richiamato in modo esplicito e reiterato, e quindi recepito, dalla lex specialis. Più in dettaglio, vero è che, come non manca di sottolineare l'appellata e come riconosce anche l'appellante C.N., l'orientamento "sostanzialistico" in tema di dichiarazioni ex art. 38 fatto proprio dal Tribunale amministrativo regionale è stato recepito mediante l'introduzione, da parte dell'art. 39, comma 1, del decreto -L. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, del comma 2-bis al suddetto art. 38, secondo cui la mancanza, l'incompletezza e l'irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento di una sanzione pecuniaria e non comporta l'esclusione dalla procedura; e se le irregolarità non sono essenziali, o le dichiarazioni mancanti o incomplete non sono indispensabili, la stazione appaltante non ne chiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. E' altrettanto vero però che, per il principio tempus regit actus, la nuova norma si applica solo alle procedure indette dopo la sua entrata in vigore: Anzi, riguardo al caso in esame proprio l'innovazione testuale conferma implicitamente che la regolarizzazione ex post non è consentita - ferma la giurisprudenza dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato - per le mancanze, le incompletezze o le irregolarità essenziali delle dichiarazioni, antecedenti alla modifica normativa. Ciò premesso, sempre in via preliminare va rammentato che per Cons. Stato, Ad. plen., 16 ottobre 2013, n. 23: -gli obblighi di dichiarazione dei requisiti di moralità prescritti per l'ammissione alle procedure di affidamento di concessioni e di appalti pubblici (imposti all'impresa partecipante del possesso, ex art. 38, comma 1, ett. b) e c), D.Lgs. n. 163 del 2006) 160 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V gravano su quelle persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica ed allo statuto sociale, sono abilitate ad agire per l'attuazione degli scopi societari e che proprio in tale veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di moralità e di affidabilità, l'intera compagine sociale; - peraltro, qualora l'onere di rendere la dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006 per i procuratori ad negotia non sia contemplato, a pena di esclusione, dalla lex specialis, l'esclusione può essere disposta non già per l'omissione di siffatta dichiarazione, ma soltanto laddove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione. Qualora cioè la lex specialis non contenga una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006 cit., ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione. E' vero che l'obbligo di rendere le dichiarazioni suddette da parte di tutte le persone abilitate ad agire per l'attuazione degli scopi societari risulta attenuato alla luce della sentenza Cons. Stato, Ad. plen.,30 luglio 2014, n. 16 con la quale si è considerato che "la dichiarazione sostitutiva relativa all'assenza delle condizioni preclusive previste dall'art. 38, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell'impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l'accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici...". Peraltro, qualora la lex specialis consenta che un soggetto con legale rappresentanza possa rendere le dichiarazioni ex art. 38 anche per conto di altri legali rappresentanti della società concorrente, affinché tale dichiarazione sia validamente resa occorre che i soggetti in questione siano indicati in modo preciso, non potendo essere resa in modo valido una dichiarazione in incertam personam (per una fattispecie sotto alcuni aspetti analoga a quella odierna si fa rinvio, anche ai sensi degli articoli 60, 74 e 88, comma 2, lett. d), cod. proc. amm., alla sentenza Cons. Stato, III, 7 aprile 2014, n. 1634, che ha affermato che la dichiarazione ex art. 38 formulata dal legale rappresentante della società anche con riguardo a soggetti terzi (qualora ciò sia consentito dal bando) non può essere resa in incertam personam ma "deve necessariamente indicare il soggetto nei cui riguardi è rilasciata...comportando, inoltre, la dichiarazione resa l'assunzione di responsabilità sul piano penale per falsità o mendacio, deve necessariamente recare l'individuazione della persona che si afferma indenne dai pregiudizi che possono impedire la partecipazione alla gara, restando altrimenti vanificata la comminatoria di responsabilità. Va ancora aggiunto che l'eventuale controllo a campione nei ristretti termini previsti dal richiamato art. 48 del D.Lgs. n. 163 del 2006, della veridicità di quanto auto dichiarato, impone che da subito la stazione appaltante sia posta in condizione di conoscere i nominativi degli amministratori muniti del potere di rappresentanza nei cui confronti procedere al successivo riscontro documentale. Va, quindi, condivisa la conclusione cui è pervenuto il T.A.R. secondo la quale una dichiarazione del tutto astratta e generica, oltre a vanificare i poteri di verifica dell' Amministrazione, è priva in radice di ogni valenza probatoria. Quando, pertanto, il dichiarante non si riferisca a sé stesso deve necessariamente identificare il terzo cui sono riferiti gli stati, fatti e qualità. La dichiarazione generica ed incompleta fa, pertanto, venir meno uno degli elementi essenziali della domanda prodotta per l'ammissione della gara e comporta l'esclusione del candidato proprio per l'omesso adempimento dell'onere certificativo del possesso dei 161 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V requisiti prescritti per la valida partecipazione, indipendentemente da ogni espressa comminatoria nel bando di gara...". In base a questa condivisibile pronuncia, una dichiarazione ex art. 38 astratta, generica e incompleta preclude la possibilità di dare luogo al c. d. "soccorso istruttorio", dovendo venire in questione un'integrazione documentale, non consentita. Tornando al caso in esame, anche a ritenere che potessero non essere necessarie a pena di esclusione singole e autonome dichiarazioni di insussistenza di cause di esclusione ex art. 38 da parte di ciascun legale rappresentante e amministratore, resta comunque che la dichiarazione - unica- del legale rappresentante andava riferita anche agli altri amministratori individuati - o agevolmente individuabili - in via nominativa (il che non è avvenuto), e che la dichiarazione stessa doveva essere rapportata all'art. 38. Invece, la dichiarazione dell'AD F.G. "ex art. 38" è stata resa solo per se stesso; e la dichiarazione - sempre all'Allegato "B" al disciplinare di gara, pag. 3 - "di non avere a carico delle persone aventi i poteri provvedimenti definitivi ostativi all'assunzione di pubblici appalti", non solo non è rapportata all'art. 38 del Codice dei contratti pubblici ma riguarda solo alcune delle condizioni ostative all'assunzione di appalti pubblici specificate dalla norma, con conseguente non qualificabilità come dichiarazione resa da un legale rappresentante per conto di altri soggetti dotati di poteri di rappresentanza legale. La dichiarazione non coincide con le previsioni dell'art. 38, con conseguente inesistenza in parte qua e in ogni caso insufficienza e inidoneità (della dichiarazione medesima) nel complesso. Venendo in questione una dichiarazione mancante, non poteva darsi luogo al c.d. soccorso istruttorio, pena la lesione della par condicio. La dichiarazione di non trovarsi nelle condizioni previste dall'art. 38 andava presentata a pena di esclusione, ex art. 10 del disciplinare di gara, come si dirà più avanti. (omissis …) In definitiva, non è condivisibile quanto viene affermato in sentenza, cioè che la dichiarazione circa l’ effettivo possesso dei requisiti da parte della società concorrente può essere sempre resa da un solo soggetto anche in nome e per conto di altri, neppure individuati, legali rappresentanti (e quindi in difetto dell’assunzione della relativa responsabilità), e che l’interesse dell’Amministrazione si concentra sull’esclusione dei soggetti a carico dei quali sussistano cause ostative. La norma, infatti, nel porre a carico dei concorrenti oneri formali e procedimentali, mira a garantire l’efficienza dell’azione amministrativa e l’interesse pubblico alla sollecita definizione della procedura, attraverso una verifica immediata della sussistenza o meno dei requisiti, oltre a salvaguardare la par condicio dei concorrenti medesimi, dato che il dovere di soccorso va circoscritto a irregolarità riferite a documenti comunque ritualmente presentati in sede di gara e non a casi di vere e proprie omissioni. Nel contesto normativo indicato, esistenza e completezza della dichiarazione sono dunque di per sé valori da perseguire, consentendo una rapida decisione sull’ammissione dei concorrenti alla procedura. Gli appelli riuniti vanno dunque accolti e la sentenza impugnata riformata. Il ricorso di primo grado della società C.N. andava respinto. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo (il che implica lassorbimento della IV e della V censura dappello del Comune incentrate sullerroneità della statuizione della sentenza di condanna del 162 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Comune al rimborso delle spese di lite e alla rifusione dellimporto versato dalla S.G.D.P. a titolo di contributo unificato). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe, previa riunione degli stessi li accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado proposto dall’appellata società O.M.N. e F. "S.G.D.P. spa". Condanna l’appellata a rimborsare le spese e gli onorari del giudizio: -nella misura di Euro 1.500,00 (Euro millecinquecento/00), oltre a IVA e CPA, a favore del Comune di Camogli, e -nella misura di Euro 1.500,00 (Euro millecinquecento/00), oltre a IVA e CPA, a favore della s.r.l. C.N.D.C.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 163 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Caso n. 28 Lotta alla corruzione e completamento di opere pubbliche: quale priorità? Consiglio di Stato, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143 1. Il fatto La pronuncia in esame costituisce l’approdo finale del contenzioso che ha visto come protagonisti la società Expo 2015 s.p.a. e un’impresa aggiudicataria, successivamente coinvolta in indagini penali legate a episodi corruttivi nell’ambito degli appalti indetti ai fini della realizzazione dell’Esposizione universale di Milano. Al fine di comprendere la sentenza del Consiglio di Stato si ritiene opportuno ripercorrere brevemente i fatti che sono all’origine della causa ed il procedimento di primo grado. La società Expo 2015 s.p.a., incaricata dell’organizzazione e della gestione dell’Esposizione Universale, nel febbraio 2013 indice una procedura ristretta per l’affidamento di un appalto integrato avente ad oggetto “la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori delle c.d. Architetture di Servizio, afferenti al sito per l’Esposizione Universale del 2015”, per un importo totale a base d’asta pari a € 67.080.501,72. La procedura si conclude nel novembre 2013 con l’aggiudicazione definitiva della gara a favore del costituendo raggruppamento temporaneo di imprese (c.d. r.t.i.) con capogruppo l’impresa di Costruzioni Giuseppe Maltauro s.p.a. (di seguito “impresa Maltauro”) cui segue la sottoscrizione del contratto nel febbraio 2014. Nel maggio 2014 e, dunque, in un momento successivo alla conclusione del contratto, le cronache nazionali diffondono la notizia delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Milano in relazione agli appalti affidati da Expo 2015 s.p.a. per svariate e gravi ipotesi di reato, in particolare quelle di corruzione e turbativa d’asta. Fra le procedure oggetto delle indagini figura, altresì, quella relativa alle suddette Architetture di servizio. In conseguenza di ciò, viene emanata una serie di misure cautelari, di cui risultano destinatari anche il Direttore Generale di Expo 2015 s.p.a. e il legale rappresentante dell’impresa Maltauro. Apprese tali gravi notizie, la società capogruppo del r.t.i. classificatosi secondo nella procedura (di seguito “impresa Perregrini e altri”) dapprima invita la stazione appaltante a valutare l’opportunità di risolvere il contratto stipulato, sollecitando il proprio subentro; successivamente, si rivolge al Tar della Lombardia chiedendo l’annullamento dell’aggiudicazione e la declaratoria di inefficacia del contratto. Nel corso del giudizio di primo grado, il Tribunale adito in parte accoglie il ricorso proposto: dopo aver respinto l’eccezione di tardività dell’impugnativa dell’aggiudicazione sollevata dalla resistente Expo 2015, annulla l’aggiudicazione sulla base della presunta violazione del Protocollo di legalità sottoscritto tra la Prefettura di Milano ed Expo 2015 s.p.a. nel febbraio 2012; rigetta la domanda di declaratoria di inefficacia del contratto e, infine, esclude l’applicabilità al caso di 164 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V specie della sopravvenuta disciplina di cui al d.l. n. 90/2014 (convertito con modificazioni dalla l. n. 114 del 11 agosto 2014), medio tempore entrato in vigore. Avverso tale sentenza la società Expo propone appello, al quale si associano, altresì, la Prefettura di Milano, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Commissario unico del Governo per Expo 2015, chiedendo, in sostanza, la riforma della sentenza di primo grado. 4. La decisione Consiglio di Stato – sezione IV – sentenza 20 gennaio 2015, n. 143 – Pres. Giaccardi Rel. Greco – Expo 2015 s.p.a. c. Costruzioni Perregrini s.r.l., Panzeri s.p.a. e Milani Giovanni & C. s.r.l. e nei confronti di Amministrazione straordinaria dell’impresa Giuseppe Maltauro s.p.a., Prefettura di Milano, Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissario Unico del Goverbo per Expo 2015 “ (Omissis) 16. Nel merito, gli appelli sono fondati e pertanto meritevoli di accoglimento. 17. In particolare, merita condivisione il primo motivo di entrambi gli appelli, con cui è reiterata l’eccezione di tardività dell’originaria impugnazione dell’aggiudicazione definitiva. 17.1. In punto di fatto, risulta incontestato che il ricorso di primo grado è stato notificato a controparte ben oltre il trentesimo giorno dal ricevimento da parte del r.t.i. istante della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva di cui all’art. 79 del d.lgs. nr. 163 del 2006, con conseguente superamento del termine decadenziale di cui all’art. 120, comma 5, cod. proc. amm. 17.2. A fronte dell’eccezione in tal senso sollevata dalle parti intimate, il primo giudice ha però ritenuto tempestiva la domanda assumendo che nella specie il termine d’impugnazione dovesse considerarsi decorrente dalla data, successiva all’aggiudicazione ed alla relativa comunicazione, in cui le imprese ricorrenti avevano acquisito conoscenza dei vizi che inficiavano la procedura selettiva, data coincidente con le sopravvenute notizie di cronaca in ordine alle indagini penali ed alle misure cautelari eseguite per gravi reati commessi (anche) in occasione della gara di che trattasi. 17.3. Questa Sezione non condivide siffatta ricostruzione, ritenendo che anche nella presente fattispecie vada riaffermato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, poiché il procedimento di scelta del privato contraente si conclude con l’aggiudicazione, relativamente alla quale il termine per proporre l’impugnazione decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l’autorità emanante, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo), non può assumere alcun rilievo la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi, la quale semmai può giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ma non consente la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione in via principale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2004, nr. 3298; id., sez. V, 2 aprile 1996, nr. 381; id., 4 ottobre 1994, nr. 1120; C.g.a.r.s., 20 aprile 1998, nr. 261). (Omissis) 18. La fondatezza dei motivi d’appello testé esaminati, comportando, in riforma della sentenza impugnata, la declaratoria di irricevibilità del ricorso di primo grado, è suscettibile di esaurire il presente giudizio d’appello esonerando il Collegio dall’esame di ogni residua questione. 165 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Tuttavia, in considerazione del fatto che risulta tuttora pendente dinanzi al T.A.R. della Lombardia il giudizio relativo alla domanda risarcitoria formulata dalle originarie ricorrenti in una alle domande già esaminate con la sentenza qui impugnata, e tenuto conto della proponibilità della domanda risarcitoria anche in via autonoma e indipendente dalle altre (art. 30, comma 1, cod. proc. amm.), non è fuori luogo, anche al fine di orientare le successive determinazioni giudiziali, svolgere qualche ulteriore osservazione in ordine alle ragioni di merito poste dal primo giudice a base dell’annullamento dell’aggiudicazione, soffermandosi sulle questioni sostanziali esaminate e prescindendo dai vizi “formali” lamentati dalle parti odierne appellate (violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., difetto di interesse in ragione della potenziale caducabilità dell’intera gara etc.). 19. Orbene, come già sopra anticipato, il primo giudice ha ritenuto che il vizio suscettibile di determinare l’illegittimità dell’aggiudicazione fosse nella specie ravvisabile nella violazione del Protocollo di legalità sottoscritto in data 13 febbraio 2012 tra la Prefettura di Milano ed Expo 2015 S.p.a. e richiamato dal bando di gara in ottemperanza all’art. 1, comma 17, della legge nr. 190 del 2012 (ovvero, come oggi parte appellata preferisce argomentare, de plano nella violazione di tale ultima disposizione). 19.1. Per chiarezza, si rammenta il contenuto della disposizione dianzi citata: “…Le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”. 19.2. Avvalendosi di tale facoltà, Expo 2015 S.p.a. aveva previsto, nella lex specialis di gara, l’obbligo delle imprese partecipanti di sottoscrivere la dichiarazione sostitutiva di cui all’art. 4, comma 1, punto iii), del Protocollo suindicato, con la quale il concorrente si impegnava a “dare notizia senza ritardo alla prefettura, dandone comunicazione a EXPO 2015 s.p.a., di ogni tentativo di estorsione, intimidazione o condizionamento di natura criminale in qualunque forma esso si manifesti nei confronti dell’imprenditore, degli eventuali componenti la compagine sociale o dei loro familiari (richiesta di tangenti, pressioni per indirizzare l’assunzione di personale o l’affidamento di lavorazioni, forniture, servizi o simili a determinate imprese, danneggiamenti o furti di beni personali o in cantiere ecc.)” (clausola nr. 1), a “denunciare all’autorità giudiziaria o agli Organi di Polizia ogni illecita richiesta di denaro, prestazione o altra utilità ad essa formulata prima della gara e/o dell’affidamento o nel corso dell’esecuzione dei lavori (…) e comunque ogni illecita interferenza nelle procedure di aggiudicazione o nella fase di esecuzione dei lavori” (clausola nr. 2) e ad “accettare il sistema sanzionatorio” previsto dal medesimo Protocollo di legalità (clausola nr. 3). Sotto tale ultimo profilo, l’art. 4, comma 2, del Protocollo stabiliva che la violazione degli obblighi suindicati fosse “espressamente sanzionata ai sensi dell’art. 1456 c.c.”, e il successivo art. 7, comma 3, prevedeva “…la risoluzione automatica del contratto o la revoca dell’affidamento da parte di Expo nei casi indicati dal presente Protocollo”. 19.3. Tutto ciò premesso, nella sentenza si assume che le indagini penali di cui si è appreso nel mese di maggio del 2014, facendo emergere l’ipotesi di gravi collusioni e accordi fraudolenti, coinvolgenti fra gli altri rappresentanti dell’impresa aggiudicataria e della stessa stazione appaltante, al fine di “orientare” in favore del 166 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V r.t.i. Maltauro S.p.a. l’esito della procedura selettiva de qua, avrebbero disvelato la violazione degli obblighi suindicati: ciò in quanto, rispetto alla condotta di chi in violazione degli impegni assunti ometta di segnalare o denunciare condotte illecite e interferenze di terzi, ancor più grave dovrebbe qualificarsi il comportamento di chi in prima persona si renda responsabili dei medesimi illeciti, di modo che non potrebbe non pervenirsi ad annullamento dell’aggiudicazione per la sostanziale violazione degli obblighi assunti all’atto della presentazione della domanda di partecipazione. 19.4. La Sezione reputa non condivisibile tale impostazione. 19.4.1. Ed invero, va innanzi tutto evidenziato come l’assunzione degli obblighi di denuncia e/o segnalazione sopra richiamati fosse destinata a valere per tutta la durata del rapporto tra concorrente e stazione appaltante, e pertanto non solo per le eventuali interferenze e condotte illecite di cui si avesse notizia in corso di gara, ma anche, quanto all’impresa aggiudicataria, per quelle che avessero dovuto manifestarsi nella successiva fase dell’esecuzione dell’appalto; naturalmente, diverse sarebbero state la violazione dell’impegno in ragione del diverso momento in cui questo si fosse verificato, potendo solo nella prima fase predicarsi un’esclusione dalla procedura del concorrente inottemperante, mentre nella seconda avrebbe dovuto farsi luogo alla risoluzione del contratto e/o alla revoca dell’aggiudicazione (come stabilito dall’art. 7 del Protocollo, sopra citato). 19.4.2. Posta dunque la fondamentale distinzione tra la fase pubblicistica della procedura selettiva e quella privatistica e paritetica del rapporto contrattuale, assumono le parti odierne appellanti, che con riguardo alla prima fase, l’esclusione era espressamente comminata dalla lex specialis per il solo caso di “omissione” della sottoscrizione della dichiarazione d’impegno (pag. 8 della lettera d’invito: cfr. documento nr. 3 delle produzioni della appellante Expo 2015 S.p.a.), omissione che pacificamente non vi fu da parte del r.t.i. poi risultato aggiudicatario; pertanto, non potrebbe in alcun modo discorrersi di violazione dell’art. 1, comma 17, della legge nr. 190 del 2012, atteso che nella specie la stazione appaltante non si era avvalsa della facoltà di ricollegare l’esclusione del concorrente anche al “mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità”. Ma, in ogni caso, quand’anche si reputasse, sulla base del tenore complessivo delle prescrizioni dianzi richiamate, che anche la violazione degli impegni assunti avrebbe potuto indurre la stazione appaltante ad escludere il concorrente interessato (ed al di là dei problemi di compatibilità col principio di tassatività di cui all’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. nr. 163 del 2006 che una tale opzione ermeneutica porrebbe), tale esclusione in tanto avrebbe potuto essere disposta in quanto l’inottemperanza agli impegni fosse stata accertata durante la fase pubblicistica dell’affidamento; al contrario, nel caso che qui occupa è incontestato che nessuna violazione emerse né fu accertata durante la fase selettiva, essendo le notizie delle indagini penali e gli arresti di molto successivi all’aggiudicazione ed alla stessa stipulazione del contratto d’appalto. 19.4.3. Né può affermarsi, come torna a fare parte appellata (senza però gravare in via incidentale la sentenza in epigrafe, che ha respinto in parte qua le doglianze attoree), che l’accaduto rileverebbe sotto il profilo della falsità delle dichiarazioni rese in sede di gara, dovendo quindi condurre all’esclusione del concorrente ex art. 38, comma 1, lettera m), del d.lgs. nr. 163 del 2006. 167 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Al riguardo - in disparte ogni approfondimento della questione relativa alla configurabilità o meno di un falso in relazione a dichiarazioni non di scienza o comunque aventi a oggetto rappresentazioni di fatti, stati o qualità, ma di impegno a tenere determinati comportamenti - risulta in radice discutibile che possa contestarsi un falso a chi abbia omesso di segnalare o denunciare condotte illecite da egli stesso commesse, ostandovi il fondamentale principio nemo tenetur se detegere. 19.4.4. Superata dunque la fase pubblicistica, e con riguardo alla fase esecutiva del contratto d’appalto, risulta incontestabile che l’unico strumento azionabile, a fronte dell’emergere di un’ipotetica violazione del Protocollo di legalità, sarebbe stata la risoluzione contrattuale: quest’ultima, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, attiene all’esercizio di un diritto potestativo di tipo privatistico e paritetico, con la conseguenza che ogni controversia relativa al suo esercizio (o mancato esercizio) sfugge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 19.4.5. Alla luce di quanto fin qui svolto, risulta evidente che nella specie ogni ipotetica violazione del Protocollo di legalità, che dovesse ricollegarsi alle indagini della Procura della Repubblica di Milano ed alla conseguente esecuzione di misure cautelari, giammai avrebbe potuto viziare l’aggiudicazione definitiva determinandone l’illegittimità: perché, verificatosi l’evento in un momento successivo all’esaurimento della fase pubblicistica di scelta del contraente, esso non avrebbe potuto mai “retroagire” in modo da viziare ex post gli atti della gara. 19.5. Ma vi è di più, ché nel caso che occupa è quanto meno discutibile che una violazione del Protocollo, nei sensi stigmatizzati dal primo giudice, effettivamente vi sia stata. E, difatti, è vero – come sottolineato dalle parti appellanti – che la dichiarazione d’impegno di cui all’art. 4 del Protocollo mirava a “responsabilizzare” i concorrenti rispetto a eventuali condotte illecite commesse da terzi, dei quali essi fossero vittima o comunque avessero conoscenza restandovi estranei, imponendo loro di segnalarle alla stazione appaltante e denunciarle alle competenti Autorità; non v’è chi non veda, invece, l’incongruità di ricavare dalla predetta dichiarazione un analogo obbligo anche a carico di chi fosse egli stesso artefice o responsabile di abusi e illeciti: un siffatto impegno alla “autodenuncia” sarebbe da considerare in ogni caso tamquam non esset, siccome contrario al già evocato principio nemo tenetur se detegere. Né vale obiettare, come fa la parte odierna appellata, che nella specie i soggetti sottoposti a indagini e a misure cautelari personali sarebbero stati tenuti al rispetto dell’impegno de quo in quanto anche “vittime” dei reati contestati, alla cui commissione sarebbero stati indotti dagli altri indagati: sul punto, è sufficiente rilevare che, dalla documentazione prodotta dalle stesse appellate, i soggetti cui esse fanno riferimento risultano sottoposti a indagini da parte del P.M. milanese per concorso nei reati ascritti agli altri indagati (qualità che, notoriamente, è incompatibile con quella di persona offesa dei medesimi reati). 19.6. In definitiva, la vicenda penale che a partire dal maggio del 2014 ha coinvolto anche l’affidamento per cui qui è causa, senza necessariamente ridondare a vizio di legittimità degli atti della procedura selettiva, avrebbe potuto al più indurre la stazione appaltante a valutare l’opportunità di un intervento in via di autotutela sull’aggiudicazione ovvero di una risoluzione del contratto di appalto già stipulato; 168 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V ma su questi punti nulla è dato aggiungere nella presente sede, in considerazione dell’essere tali interventi rimessi alla piena discrezionalità dell’Amministrazione (e, nel secondo caso, anche estranei alla sfera delle questioni conoscibili da questo giudice), nonché della già evidenziata opzione normativa che privilegia, anche in presenza di gravi vizi di legittimità (la cui sussistenza comunque nella specie non è stata provata), il mantenimento in essere del rapporto contrattuale in funzione della sollecita esecuzione dei lavori. 19.7. Sotto tale ultimo profilo, mette conto richiamare nuovamente la sopravvenuta disciplina di cui al già citato d.l. nr. 90 del 2014, la quale secondo l’avviso di questa Sezione costituisce la miglior conferma del carattere non automaticamente viziante di fatti come quelli emersi durante l’esecuzione dell’appalto di che trattasi (come dimostrato dal fatto che il legislatore ha dovuto escogitare uno strumento ad hoc per impedire all’affidatario di continuare a percepire quello che potrebbe essere il profitto di un reato), e al tempo stesso dell’opzione normativa in favore del mantenimento in essere del rapporto contrattuale scaturito dall’originario affidamento (come dimostrato dall’avere il legislatore bilanciato unicamente i due interessi pubblici alla sollecita realizzazione dell’opera pubblica e ad impedire al possibile reo di lucrare sul proprio illecito, lasciando sullo sfondo l’interesse delle altre imprese partecipanti alla gara a monte). Tale ultimo interesse, se del caso, potrà trovare tutela in via risarcitoria attraverso la costituzione di parte civile nel giudizio penale ovvero attraverso la proposizione di autonoma azione nei confronti di coloro che dovessero risultare responsabili di reati (laddove, quanto ai pubblici funzionari, l’effettivo e definitivo accertamento della loro responsabilità penale confermi l’interruzione del rapporto di immedesimazione organica con l’Amministrazione di appartenenza). 20. In considerazione della novità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.” 169 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Modulo V Sindacato giurisdizionale e tutela dei diritti 170 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Caso 29 I costi di accesso alla giustizia nel settore degli appalti pubblici: la compatibilità del contributo unificato con il diritto europeo T.R.G.A. – sezione di Trento – ordinanza 29 gennaio 2014, n. 23 Corte di Giustizia dell’Unione Europea – sezione Quinta – sentenza 6 ottobre 2015 C – 61/14 1. Il fatto La questione trattata trae origine dal ricorso presentato da un’associazione operante nel settore dei servizi infermieristici avverso la deliberazione del Consiglio di amministrazione di un’azienda pubblica con cui viene prorogato il servizio di assistenza infermieristica svolto da altra associazione. Nel corso del giudizio il ricorso introduttivo viene integrato da ulteriori ricorsi per motivi aggiunti, riguardanti le successive determinazioni adottate dagli organi direttivi dell’azienda pubblica aventi ad oggetto la riedizione della gara per l’affidamento del servizio e l’aggiudicazione della stessa ad una società controinteressata. L’associazione ricorrente, all’atto di introduzione del giudizio, ha pagato un contributo unificato pari ad Euro 650. Dopo la presentazione di questi ultimi motivi aggiunti, il Segretario generale del Tar invita il difensore della ricorrente ad integrare il pagamento del contributo unificato, in quanto, trattandosi di controversia ricadente in materia di contratti pubblici, la misura dello stesso non è quella ordinaria di Euro 650, ma quella speciale di Euro 2000. Con ulteriori motivi aggiunti la ricorrente impugna anche tale ultimo provvedimento, deducendone la illegittimità per violazione dell’art. 13 comma 6 bis del D.P.R. n. 115/2002 ed eccependo, altresì, l’illegittimità costituzionale di tale norma. Dall’impugnazione di tale provvedimento prende le mosse il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia disposto dal Tar, avente ad oggetto la questione relativa alla corretta interpretazione della disciplina nazionale sul contributo unificato dovuto per i ricorsi in materia di appalti alla luce della normativa europea e, segnatamente, della Direttiva 89/665/CEE e dei principi di effettività ed equivalenza. 2. Le decisioni T.R.G.A. – sezione di Trento – ordinanza 29 gennaio 2014, n. 23 Pres. Pozzi, Est. Stevanato - Orizzonte Salute Studio Infermieristico Associato c. Azienda Pubblica di Servizi alla Persona "San Valentino" - Città di Levico Terme, Ministero della Giustizia ed altri ed Associazione Infermieristica D & F. Care “ (omissis) 16.11 Dall’esame che precede emerge un quadro assai frastagliato, non sempre logico né coerente nella determinazione e nella diversificazione degli importi del contributo unificato, dal quale, comunque, spicca l’evidente, sproporzionata penalizzazione nella tassazione dei ricorsi davanti al giudice amministrativo soprattutto in materia di contratti pubblici. Tale impianto legislativo pone evidenti problemi di conformità ai parametri e principi dell’ordinamento comunitario, ancor prima che di conformità ai precetti costituzionali come invocato dalla parte ricorrente. 171 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 17. Più in particolare, venendo alla fattispecie in esame, l’appalto di servizio in contestazione risulta avere un valore, stimato dalla stessa Azienda pubblica di servizi alla persona "San Valentino", complessivamente ben superiore alla soglia comunitaria fissata, per questa categoria di appalti di servizi, in 200.000 euro dall’art. 7 della direttiva comunitaria 31.3.2004, n. 18, secondo il metodo di calcolo stabilito dall’art. 9, comma 7, della direttiva stessa per gli appalti di servizio di durata, soggetti a rinnovo. Infatti, la deliberazione del C.d.A. 14.12.2011, n. 24, di affidamento del servizio infermieristico alla controinteressata per il 2012, prevede un costo di € 149.891,00; la successiva deliberazione del C.d.A. 21.12.2012, n. 35, di proroga del medesimo servizio fino al 30.6.2013, prevede un costo di € 71.681,00; infine, la determinazione del direttore 25 marzo 2013, n. 61, recante l’indizione della gara per l’affidamento del servizio infermieristico per i successivi 12 mesi, prevede un costo di € 133.550,00. Trova, pertanto, qui applicazione la "Direttiva ricorsi" 21/12/1989, n.665 e successive modificazioni. Tale Direttiva, all’art. 1 ("Ambito di applicazione e accessibilità delle procedure di ricorso"), fissa i fondamentali principi di efficacia, celerità, non discriminazione ed accessibilità, che nell’ordinamento interno possono condensarsi nelle formule dell’effettività e satisfattività della tutela (…); l’esborso anticipato di cifre così elevate, in molti casi superiori allo stesso utile d’impresa da calcolare in relazione all’importo dell’appalto (determinabile nella misura presuntiva del dieci per cento, secondo il criterio forfetario ed automatico elaborato dalla giurisprudenza, in applicazione analogica dell'art. 134, comma 1, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, che quantifica in tale percentuale il guadagno presunto dell'appaltatore: cfr., ad es.: Cons. St., sez. V 30/7/2008, n. 3806; id., 20/4/2012, n. 2317; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 5/3/2013, n. 2358), può facilmente comportare, specialmente per appalti di non elevatissimo importo, come quello in discussione, comprensibili esitazioni o, addirittura, rinunce da parte dell’interessato alla scelta di proporre il ricorso giurisdizionale. Per altro verso, l’entità dell’esborso, anche per atti processuali (motivi aggiunti; ricorsi incidentali) successivi a quello originario, genera atteggiamenti di autorinuncia, da parte del difensore, a tutti gli strumenti processuali che potrebbero essere fatti valere in giudizio. In tal modo, si va ad incidere sotto ulteriore profilo sul diritto di difesa, attraverso la lesione dello, strumentalmente connesso, fondamentale principio di libertà di scelta di strategie processuali ad opera del difensore. (…) l’eccessiva somma da versare, non solo all’atto di deposito del ricorso principale, ma anche per il deposito di ogni atto per motivi aggiunti o ricorso incidentale, nonché nella successiva eventuale fase di appello, incide in modo decisivo ed intollerabile: a) sul diritto di agire in giudizio, cioè sulla libertà di scelta di ricorrere al giudice amministrativo, da parte di tutti gli operatori economici interessati al mercato dei contratti pubblici, che intendano chiedere l'annullamento di un provvedimento illegittimo; b) sulle strategie processuali dei difensori, che saranno oltretutto condizionate anche dalla discriminazione tra operatori economici "ricchi", per i quali resta comunque conveniente accettare l’alea della tassazione elevata a fronte della prospettiva di ottenere un rilevante beneficio economico, all’esito eventualmente 172 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V favorevole del giudizio, rispetto ad operatori economici modesti, per appalti non particolarmente lucrativi, per i quali potrebbe rivelarsi non affatto conveniente anticipare le anzidette somme così sproporzionate al valore (effettivo) dell’appalto; c) sulla pienezza ed effettività del controllo giurisdizionale sugli atti della pubblica amministrazione e sull’osservanza dello stesso principio costituzionale di buon andamento, al quale si ricollega strumentalmente il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (ex artt. 24 e 113 Cost.; art. 1 del codice del processo amministrativo; art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; artt. 6 e 13 della Convenzione CEDU) e non solo apparente: cfr, sul punto, ad es.: Corte giustizia UE, grande sezione, 18/7/2013, n. 584, id., sez. III, 27/6/2013, n. 93; Consiglio di Stato, Ad. plen., 15/1/ 2013 n. 2; id., sez. V, 9/9/2013, n. 4474; id., sez. V, 15/7/2013, n. 3801. (omissis) 21. A supporto dell’assoluta irrazionalità ed iniquità della scelta del legislatore nazionale, va inoltre osservato che esso ha discriminato coloro che si rivolgono al giudice amministrativo rispetto a coloro che invocano la tutela del giudice civile o tributario: per i secondi, infatti, la tassazione è di gran lunga meno onerosa. Al riguardo, basti considerare che: a) per una controversia civile di valore elevatissimo (miliardi di euro, non paragonabile a quella in esame) il contributo massimo - avanti alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale di cui al D.lgs. 168/2003 - è di (soli) € 2.932; b) lo stesso criterio vale anche per le cause innanzi alle commissioni tributarie, per le quali è previsto un contributo massimo di € 1.500 per tutte le cause di valore superiore ad euro 200.000; c) negli ordinari giudizi civili, il cui valore di controversia si pone tra € 5.200 ed € 26.000, cioè di valore analogo a quelli amministrativi avverso procedure di gara di modesto importo (come quella in questione, il cui utile sperato è, come detto, circa il 10 per cento dell’importo a base d’asta), il contributo è di soli euro 206. 22. Per tornare all’esempio fatto sopra, la stessa impresa che intenda contestare davanti al giudice civile la risoluzione del contratto di appalto del valore di € 201,000,00, nel primo grado dovrà sostenere un contributo unificato pari ad € 660,00, nel grado di appello un contributo unificato di € 990,00, mentre nel giudizio di Cassazione un ulteriore contributo unificato di € 1.320,00, per un totale di € 2.970,00. Invece, come detto sopra, l’impresa che volesse contestare davanti al giudice amministrativo la fase a monte della stipula del contratto, dovrà preventivare un costo di € 24.000 per il pagamento del contributo unificato. Non è chi non veda, dunque, l’abnorme ed irragionevole sproporzione, nonché l’evidente e macroscopica disparità di trattamento nella tassazione tra i diversi giudizi appena menzionati. 23. A salvare dall’intollerabile iniquità il perverso meccanismo impositivo considerato, neppure può valere la rimborsabilità del contributo in caso di vittoria. 24. Tutto ciò chiarito, proprio a causa dell’inspiegabile misura del contributo e degli effetti irrazionalmente distorsivi sulla concorrenza e sull’effettività della tutela giurisdizionale davanti al g.a. in materia di contratti pubblici, il Collegio dubita che la ricordata normativa italiana sul contributo unificato, così come spropositamente ed illogicamente quantificato, sia conforme all’anzidetta Direttiva dell’Unione europea 173 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 89/665, che impone agli stati membri di rendere accessibili le procedure di ricorso, sembrando costituire un ostacolo all’accesso alla giustizia amministrativa da parte di chiunque sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione in materia di appalti. 25. Non va sottaciuto, peraltro, che l'aumento continuo e progressivo del contributo unificato, via via attuato con i diversi interventi normativi citati sopra, sembra in contrasto anche con i principi comunitari di proporzionalità e di divieto di discriminazione, nonché, soprattutto, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che è centrale nella logica della stessa direttiva 89/665 e che costituisce un principio generale non solo dell’ordinamento interno, ma anche e vieppiù del diritto dell’Unione (v. ancora, in tal senso, Corte giustizia Unione Europea, sent. 13/3/2007, causa C-432/05, e giurisprudenza ivi citata; cfr. anche, ibidem: sent. n. 145 del 6/5/2010; sent. n. 406 del 28/1/2010; sent. n. 584 del 18/7/2013; n. 93 del 27/6/2013; n. 393 del 30/4/2009; Grande sezione, 3/9/2008, n. 402; Grande sezione, 13/3/2007, n. 432). Invero, l’imposizione di un’elevata tassazione, come condizione per poter tutelare le proprie ragioni in giudizio, significa discriminare coloro che non hanno adeguati mezzi economici per farle valere, nonché scoraggiare o impedire la tutela di interessi economici non sufficientemente robusti, rispetto all’entità della somma da sborsare a titolo di contributo unificato. 26. Sotto ulteriore profilo, la normativa interna sul contributo unificato comporta, ad avviso del Collegio, altresì la violazione del principio di proporzionalità, che, com’è noto, costituisce parte integrante dei principi generali del diritto comunitario ed esige che la normativa nazionale non ecceda i limiti di ciò che è idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi pur legittimamente perseguiti da ciascuno Stato. (…) 27. Alla luce dei principi sinteticamente ricordati, risulta che l’imposizione del pagamento di uno specifico contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa, in misura generalmente elevata ma, addirittura, spropositata nella particolare materia degli appalti pubblici, appare confliggente con i ricordati principi di livello comunitario. (…) Tutto ciò chiarito, il Tar rimette alla Corte la seguente questione: “se i principi fissati dalla Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE e successive modifiche ed integrazioni, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 13, commi 1-bis, 1-quater e 6-bis, e 14, comma 3-ter, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (come progressivamente novellato dagli interventi legislativi successivi) che hanno stabilito elevati importi di contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici”. Corte di Giustizia dell’Unione Europea – sezione Quinta – sentenza 6 ottobre 2015 C – 61/14“ (omissis) Sulla questione pregiudiziale 174 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 42 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1 della direttiva 89/665 nonché i principi di equivalenza e di effettività debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, la quale impone, all’atto di proposizione di un ricorso nei procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici, il versamento di tributi giudiziari più elevati che in altre materie. (Omissis) 50 Occorre pertanto verificare se una normativa come quella oggetto del procedimento principale possa essere considerata conforme ai principi di equivalenza e di effettività nonché all’effetto utile della direttiva 89/665. 51 I due aspetti di questa verifica riguardano, da una parte, l’importo del contributo unificato da versare per la proposizione di un ricorso in procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici e, dall’altra, l’ipotesi di cumulo di tali contributi versati nel contesto di una stessa procedura giurisdizionale amministrativa in materia di appalti pubblici. Sul contributo unificato da versare per la proposizione di un ricorso in procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici 52 In primo luogo, occorre ricordare, al pari del governo austriaco, che, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 89/665, detta direttiva si applica agli appalti di cui alla direttiva 2004/18, a meno che tali appalti siano esclusi a norma degli articoli da 10 a 18 di quest’ultima direttiva. 53 Orbene, ai sensi dell’articolo 7, che si trova nel capo II della direttiva 2004/18, intitolato «Campo di applicazione», detta direttiva si applica solo agli appalti pubblici il cui valore stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto è pari o superiore alle soglie previste dalla stessa disposizione. 54 Ne consegue che agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici diverse da autorità governative centrali il cui valore sia inferiore a EUR 193 000 non si applica la direttiva 2004/18 e, conseguentemente, nemmeno la direttiva 89/665. 55 Per quanto riguarda il principio di effettività, occorre ricordare che il regime dei tributi giudiziari oggetto del procedimento principale prevede tre importi fissi di contributo unificato pari a EUR 2 000, 4 000 e 6 000, per le tre categorie di appalti pubblici, vale a dire quelli di valore pari o inferiore a EUR 200 000, quelli il cui valore si situa tra EUR 200 000 e 1 000 000, e quelli il cui valore è superiore a EUR 1 000 000. 56 Dagli atti sottoposti alla Corte risulta che il sistema degli importi fissi di contributo unificato è proporzionale al valore degli appalti pubblici che ricadono in queste tre differenti categorie a possiede, complessivamente inteso, carattere degressivo. 57 Infatti, il contributo unificato da versare, espresso in percentuale dei valori «limite» delle tre categorie di appalti pubblici, varia dall’1,0% all’1,036% del valore dell’appalto se esso si situa tra EUR 193 000 e 200 000, dallo 0,4 al 2,0% se tale valore si situa tra EUR 200 000 e 1 000 000, e corrisponde allo 0,6% del valore dell’appalto o a una percentuale inferiore, se detto valore è superiore a EUR 1 000 000. 175 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 58 Orbene, i tributi giudiziari da versare per proporre ricorsi giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici che non siano superiori al 2% del valore dell’appalto in questione non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione in materia di appalti pubblici. 59 Nessuno degli elementi dedotti dal giudice del rinvio o dagli interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte rimette in questione tale affermazione. 60 Segnatamente, per quanto riguarda la fissazione del contributo unificato in funzione del valore dell’appalto oggetto del procedimento principale e non in funzione del beneficio che l’impresa partecipante al bando di gara può legittimamente attendersi dall’appalto stesso, occorre indicare, da un canto, che diversi Stati membri riconoscono la possibilità di calcolare i tributi processuali da versare basandosi sul valore dell’oggetto della controversia. 61 D’altro canto, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 40 delle conclusioni, nell’ambito degli appalti pubblici un sistema che imponga calcoli specifici per ogni procedura di aggiudicazione di un appalto e per ogni impresa, il cui risultato potrebbe essere contestato, risulterebbe complicato e imprevedibile. 62 Quanto all’applicazione del contributo unificato italiano a svantaggio degli operatori che possiedono una debole capacità finanziaria, occorre rilevare, da un canto, al pari della Commissione, che tale contributo è imposto indistintamente, quanto alla sua forma e al suo importo, nei confronti di tutti gli amministrati che intendano proporre ricorso avverso una decisione adottata dalle amministrazioni aggiudicatrici. 63 Occorre rilevare che tale sistema non crea una discriminazione tra gli operatori che esercitano nel medesimo settore di attività. 64 Peraltro, risulta dalle disposizioni delle direttive dell’Unione in materia di appalti pubblici, quali l’articolo 47 della direttiva 2004/18, che la partecipazione di un’impresa ad un appalto pubblico presuppone una capacità economica e finanziaria adeguata. 65 Infine, sebbene la parte ricorrente abbia l’obbligo di anticipare il contributo unificato all’atto di proposizione del proprio ricorso giurisdizionale avverso una decisione in materia di appalti pubblici, la parte soccombente è tenuta, in linea di principio, a rimborsare i tributi giudiziari anticipati dalla parte che risulta vincitrice. 66 Quanto al principio di equivalenza, la circostanza per la quale, nell’ambito delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, il contributo unificato da versare è considerevolmente più elevato, da una parte, degli importi da versare per le controversie amministrative assoggettate al procedimento ordinario e, dall’altra parte, dei tributi giudiziari percepiti nei procedimenti civili, non può, di per sé, dimostrare una violazione di detto principio. 67 Il principio di equivalenza, infatti, come è stato ricordato al punto 46 della presente sentenza, implica un pari trattamento dei ricorsi fondati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, simili, fondati su una violazione del diritto dell’Unione, e non l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi di diversa natura, quali il contenzioso civile, da un lato, e quello amministrativo, dall’altro, o a contenziosi che ricadono in due differenti settori del diritto (v. sentenza ÖBB Personenverkehr, C 417/13, EU:C:2015:38, punto 74). 68 Nella specie, nessuno degli elementi fatti valere dinanzi alla Corte è tale da supportare l’argomento secondo cui il sistema del contributo unificato italiano si 176 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V applicherebbe in modo diverso ai ricorsi fondati su diritti che spettano agli amministrati in forza del diritto dell’Unione relativo agli appalti pubblici rispetto a quelli che si fondano sulla violazione del diritto interno aventi il medesimo oggetto. 69 Se ne deve trarre la conclusione che i tributi giudiziari da versare all’atto di proposizione di un ricorso nei procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici, quali il contributo unificato oggetto del procedimento principale, non lede né l’effetto utile della direttiva 89/665 né i principi di equivalenza e di effettività. Sul cumulo dei contributi unificati versati nel contesto di una stessa procedura giurisdizionale amministrativa in materia di appalti pubblici 70 Secondo la normativa nazionale, il contributo unificato deve essere versato non solo all’atto del deposito del ricorso introduttivo del giudizio avverso la decisione adottata da un’amministrazione aggiudicatrice in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, ma il medesimo importo deve essere parimenti versato per i ricorsi incidentali e i motivi aggiunti che introducono domande nuove nel corso del giudizio. 71 Dalla decisione di rinvio risulta che, ai sensi di una circolare del Segretario generale della Giustizia Amministrativa del 18 ottobre 2001, solo l’introduzione di atti procedurali autonomi rispetto al ricorso introduttivo del giudizio e intesi ad estendere considerevolmente l’oggetto della controversia dà luogo al pagamento di tributi supplementari. 72 La percezione di tributi giudiziari multipli e cumulativi nel contesto del medesimo procedimento giurisdizionale amministrativo non si pone in contrasto, in linea di principio, né con l’articolo 1 della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, né con i principi di equivalenza e di effettività. 73 Una tale percezione, infatti, contribuisce, in linea di principio, al buon funzionamento del sistema giurisdizionale, in quanto essa costituisce una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri e dissuade l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate o siano intese unicamente a ritardare il procedimento. 74 Tali obiettivi possono giustificare un’applicazione multipla di tributi giudiziari come quelli oggetto del procedimento principale solo se gli oggetti dei ricorsi o dei motivi aggiunti sono effettivamente distinti e costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente. 75 Se la situazione non è in tali termini, l’obbligo di pagamento aggiuntivo di tributi giudiziari in ragione della presentazione di tali ricorsi o motivi si pone, invece, in contrasto con l’accessibilità dei mezzi di ricorso garantita dalla direttiva 89/665 e con il principio di effettività. 76 Quando una persona propone diversi ricorsi giurisdizionali o presenta diversi motivi aggiunti nel contesto del medesimo procedimento giurisdizionale, la sola circostanza che la finalità di questa persona sia quella di ottenere un determinato appalto non comporta necessariamente l’identità di oggetto dei suoi ricorsi o dei suoi motivi. 77 Nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto dello stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un 177 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi. 78 Peraltro, dinanzi alla Corte non è stato sollevato alcun argomento tale da rimettere in questione la conformità del cumulo delle contribuzioni unificate con il principio di equivalenza. 79 Considerato quanto precede, occorre risolvere la questione presentata come segue: – L’articolo 1 della direttiva 89/665 nonché i principi di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziari, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi. – L’articolo 1 della direttiva 89/665 nonché i principi di equivalenza e di effettività non ostano né alla riscossione di tributi giudiziari multipli nei confronti di un amministrato che introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziari aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso. Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi”. 178 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 30. La legittimazione a ricorrere di associazioni straniere per la cura degli interessi collettivi Cons. St., sez. III, 22 settembre 2014, n. 4775 1. Il fatto Il caso in esame trae origine dalla richiesta inoltrata dalla società WPP UNO spa alla Giunta provinciale di Bolzano finalizzata alla costruzione di un parco eolico per la produzione di energia rinnovabile. La giunta provinciale di Bolzano con delibera del 21 ottobre 2011, n.1618 approva il progetto (con relativo assoggettamento dell’intera procedura alla valutazione di impatto ambientale ai sensi della legge provinciale 5 aprile 2007, n.2) costituito da 22 torri eoliche dell’altezza complessiva di novantacinque metri e del peso di cinquantadue tonnellate ciascuna in un’area sita sul dorso montuoso Sattelberg nel Comune di Brennero lungo il confine di Stato italo-austriaco. Averso il provvedimento della giunta e verso tutti gli atti amministrativi, presupposti e consequenziali propongono ricorso cumulativo il Comune di Gries am Brenner, l’Osterreichscher Alpenverein-Club Alpino Austriaco (d’ora in avanti Oav) e la WWF Italia Onlus al fine di contrastare la legittimità della delibera stessa. Il Tribunale di giustizia amministrativa, sezione autonoma di Bolzano, accoglie il ricorso con sentenza del 2012, n.330, statuendo l’illegittimità della deliberazione di valutazione di impatto ambientale (Via) adottata dalla Giunta provinciale di Bolzano. In via preliminare il Collegio afferma la legittimazione a ricorrere in capo al WWF e al Comune di Gries am Brenner argomentando nel senso che il WWF è una associazione ambientale riconosciuta ai sensi dell’articolo 13 legge 18 luglio 1986, n.349. Il Comune, invece, pur se straniero, può far valere i propri interessi al di fuori dello Stato di appartenenza in quanto l’area occupata dal parco eolico si estende fino al confine italo-austriaco; sicché la legittimazione a ricorrere si radica nella vicinitas e nell’impatto dell’impianto sul territorio del confinante Comune austriaco. In aggiunta, la legittimazione a ricorrere trova fondamento nelle Convenzioni internazionali di Espoo del 25 febbraio 1991 e di Arhus del 25 giugno 1998, in materia di valutazione d’impatto ambientale in un contesto transfrontaliero e, rispettivamente, in materia di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale. Il Giudice di primo grado accoglie, invece, l'eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo all'OAV, non essendo il Club alpino austriaco riconosciuto come associazione di protezione ambientale ai sensi dell'art. 13 legge del 18 luglio 1986 n. 349. Nel merito il Collegio individua il contrasto dell’impugnato provvedimento con una precedente delibera della giunta provinciale di Bolzano adottata in data 21 febbraio 2011 dalla quale si evinceva che: nel bilanciamento degli interessi tra le esigenze sottese alla produzione di energia rinnovabile tramite impianti eolici e le esigenze di tutela del 179 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V paesaggio alpino nel territorio della provincia di Bolzano doveva darsi prevalenza a quest’ultima. In conclusione il Tribunale rileva il vizio di eccesso di potere per travisamento di fatti, insufficienza e contraddittorietà motivazionali e istruttorie ritenendo che la Giunta provinciale avrebbe dovuto, altresì, tenere in debita considerazione le osservazioni formulate dai soggetti e dagli organi pubblici e privati che avevano partecipato al procedimento dalle quali erano emersi numerosi effetti pregiudizievoli dal punto di vista ambientale e paesaggistico. In tal modo il Tribunale condanna la Provincia di Bolzano, il Comune di Brennero e la WWP-UNO spa a rifondere al WWF e al Comune di Gries am Brenner le spese di causa e dichiara illegittima la delibera impugnata. Avverso tale sentenza propone appello innanzi il Consiglio di Stato l'originaria controinteressata WPP UNO spa, chiedendo la riforma della sentenza impugnata. Si costituisce, inoltre, nel giudizio di secondo grado l'OAV, proponendo appello incidentale avverso la statuizione escludente la propria legittimazione a ricorrere. 2. La decisione Cons. St., sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4775 – Pres. Giuseppe Severini – Est. Bernhard Lageder– Österreichischer Alpenverein - ÖAV (Club Alpino Austriaco) c/ Provincia autonoma di Bolzano e omissis, omissis «[Omissis] 9.2. Analoghe ragioni impongono l'accoglimento dell'appello incidentale proposto dall'ÖAV avverso la statuizione escludente la propria legittimazione a ricorrere. Premesso che, per le esposte ragioni di non discriminazione e di parità di accesso alla tutela giurisdizionale a prescindere dalla appartenenza ad ordinamenti esteri, il carattere straniero dell'associazione in questione non può costituire ostacolo a ricorrere avverso l'atto autorizzatorio promanante da un'autorità amministrativa interna, si osserva che la motivazione del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, secondo cui l'ÖAV difettava della legittimazione attiva per non essere riconosciuto come associazione di protezione ambientale ai sensi dell'art. 13 l. n. 349 del 1986, deve ritenersi erronea. A parte infatti ogni considerazione di irragionevolezza sul conflitto tra, da un alto, la naturale esclusione di un tale riconoscimento per enti stranieri, intrinseca alla rammentata disposizione, e dall'altro, la configurabilità effettiva della descritta presenza di effetti pregiudizievoli transfrontalieri, vale rilevare che questa motivazione contrasta non solo con il principio generale dell'art. 310, comma 1, in relazione al comma 1 (non già: al comma 2) dell'art. 309 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152; ma anche con il richiamato art. 25 l. n. 218 del 1995, che ai fini dell'individuazione dello statuto delle associazioni e degli altri soggetti comunque entificati (tra cui " ogni altro ente, pubblico o privato") rinvia alla disciplina della legge dello Stato, nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione; e contrasta altresì con l'art. 2, 180 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V comma 5, della Convenzione di Arhus, secondo cui, ai fini della definizione dell'ivi accolta nozione di "pubblico interessato" - da intendersi per "pubblico che subisce o può subire gli effetti dei processi decisionali in materia ambientale o che ha un interesse da far valere al riguardo" -, "si considerano titolari di tali interessi le organizzazioni non governative che promuovono la tutela dell'ambiente e che soddisfano i requisiti prescritti dal diritto nazionale", in tal modo pure rimandando, alla disciplina dell'ordinamento di appartenenza [v. altresì la definizione di "pubblico interessato", contenuta nell'art. 1, comma 2, della citata direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, e ss.mm.ii.]. Circa il regime dell'associazione in questione, va considerato il suo riconoscimento, con decreto (Bescheid) del Bundesministerium für Land- und Forstwirtschaft, Umwelt und Wasserwirtschaft (ossia, del Ministero federale per l'ambiente) del 20 aprile 2005, come associazione ambientalista (Umweltorganisation) ai sensi del § 19, comma 6, UVP-G 2000, alle quali il comma 10 del citato § 19 garantisce, oltre il diritto di partecipazione alle procedure di impatto ambientale, anche il diritto di azione dinanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa. Tanto è sufficiente, dal punto di vista dell'ordinamento italiano, non già a presumerne comunque la legittimazione a ricorrere davanti al giudice italiano, ma certo a identificarlo come portatore di un interesse qualificato ai fini che qui occupano: dal che discende l'analogo effetto della riconoscibilità, seppure in concreto (e mostrata da quanto sopra evidenziato), della legittimazione a ricorrere. In accoglimento dell'appello incidentale ed in riforma della statuizione sub 2.(iii) deve, pertanto, affermarsi la sussistenza della legittimazione a ricorrere in capo all'ÖAV. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto (ricorso n. 1155 del 2013), provvede come segue: - accoglie l'appello incidentale proposto dall'ÖAV e, per l'effetto, in parziale riforma dell'appellata sentenza, dichiara la legittimazione a ricorrere in capo a predetta associazione; - respinge l'appello principale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, e, per l'effetto, conferma, entro tali limiti, l'appellata statuizione di annullamento; [omissis]>> 5. Analisi della decisione Il Consiglio di Stato conferma nel merito la sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa, sezione autonoma di Bolzano, ritenendo illegittimo il provvedimento. In particolare la delibera della Giunta provinciale del 24 ottobre 2011, n. 1618 deve ritenersi viziata da eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e motivazione insufficiente e contraddittoria, oltre che per la violazione dei canoni di proporzionalità ed adeguatezza. 181 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Secondo il Consiglio di Stato in materia di valutazione di impatto ambientale degli impianti eolici si pone il problema di verificare la compatibilità tra le ragioni di tutela dell’ambiente, sottese alla realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili con quelle di tutela del paesaggio, che possono entrare in collisione. Queste ultime del resto si riferiscono a un principio fondamentale della Costituzione (art. 9, secondo comma) e rilevano non solo dal punto di vista storico e culturale, ma anche economico. Sul piano concettuale, la Corte Costituzionale ha precisato che il paesaggio deve essere considerato principio fondamentale, che vale sia per lo Stato che per le Regioni, ordinarie e speciali, Ne consegue che, sul piano della comparazione degli interessi da compiere in sede di valutazione di impatto ambientale dell’impianto eolico è destinato ad assumere un ruolo preminente il valore della tutela paesaggistica, con conseguente sussistenza di un onere motivazionale particolarmente gravoso a sostegno di una VIA ad esito positivo. Ebbene, secondo il Consiglio di Stato nella deliberazione impugnata non è contenuta alcuna motivazione puntuale e concreta che spieghi in modo dettagliato perché dovrebbe prevalere l’interesse alla costruzione dell’impianto. Per tale motivo, il Consiglio di Stato, allineandosi al tribunale di primo grado, ritiene che la delibera provinciale sia illegittima. E’ accolto, invece, l’appello incidentale della associazione straniera OAV avverso il capo della sentenza che escludeva la sua legittimazione a ricorrere nel giudizio di primo grado. In particolare, secondo il Collegio, l’esclusione della società da novero dei soggetti aventi la legittimazione attiva, ai sensi dell'art. 13 della legge 8 luglio del 1986 n.349, non vale a disconoscere il suo carattere di associazione di protezione ambientale necessaria per fondare la legittimazione ad agire in giudizio. Osserva il Consiglio di Stato che la motivazione del Tribunale regionale di giustizia amministrativa deve ritenersi sul punto erronea, in quanto il carattere straniero dell'associazione in questione non può costituire ostacolo a ricorrere avverso un provvedimento amministrativo. La sentenza di primo contrasta con l’art. 2, comma 5, della Convenzione di Arhus, secondo cui si considerano titolari di interessi legittimi le organizzazioni non governative che promuovono la tutela dell’ambiente e che soddisfano i requisiti prescritti dal diritto nazionale. A questo punto il Consiglio di Stato passa a esaminare se il club OAV ha superato indenne la procedura di riconoscimento prevista dal diritto austriaco. La soluzione positiva trova conferma nell’esistenza del decreto di riconoscimento adottato in data 20 aprile 2005 dal Ministero federale per l’ambiente, che vale a configurare l’ente in questione come associazione ambientalista. Il riconoscimento garantisce, altresì, alla associazione il diritto di partecipazione alle procedure di impatto ambientale ed anche il diritto di azione dinanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa. Ciò è sufficiente per identificare tale soggetto come portatore di un interesse qualificato che acquista conseguentemente la relativa legittimazione a ricorrere. Secondo il Supremo Consesso di giustizia amministrativa, dunque, deve, aversi riguardo alla disciplina della legge dello Stato, nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione. Nel caso di specie, l’associazione in questione va certamente identificata come soggetto portatore di un interesse autonomo e differenziato 182 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V avente la legittimazione a ricorrere considerando che la procedura di riconoscimento nel paese di origine le conferisce lo status di associazione ambientalista garantendo, in tal modo, sia la partecipazione alle procedure ambientaliste sia il diritto di azione davanti gli organi di giustizia amministrativa. In accoglimento dell’appello incidentale deve, pertanto, affermarsi la sussistenza della legittimazione a ricorrere in capo all’OAV. 183 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 31. L’intensità del sindacato giurisdizionale sugli atti discrezionali delle autorità indipendenti. Il potere sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in caso di abuso di posizione dominante. Cons. St., sez. II, 21 maggio 2013, n. 2722 8. Il fatto In data 30 giugno 2010, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) sanziona la società Saint Gobain Ppc Italia S.p.A. per abuso di posizione dominante – contrario all’art. 102 TFUE – a danno dell’impresa potenzialmente concorrente Fassa S.p.A., nel mercato geografico rilevante della produzione e commercializzazione del cartongesso. L’Autorità Antitrust ritiene, in particolare, che la predetta società, in virtù del notevole potere di mercato detenuto nell’ambito dell’attività di produzione del cartongesso, abbia attuato una strategia complessa con l’obiettivo di ostacolare l’ingresso sul mercato di un nuovo concorrente. Dalle risultanze dell’istruttoria condotta dall’AGCM emerge, infatti, che la soc. Saint Gobain ha cercato di impedire l’apertura da parte della società concorrente Fassa di un nuovo stabilimento di produzione del cartongesso. Nella specie, il comportamento ostativo posto in essere dalla soc. Saint Gobain si traduce nella intromissione nelle trattative contrattuali intraprese tra la società Fassa e i proprietari dei giacimenti di gesso che la stessa Fassa intendeva acquistare. L’AGCM, dunque, a fronte della gravità e della durata delle condotte abusive sopra descritte, realizzate sin dal 2005, condanna la soc. Saint Gobain al pagamento di una sanzione èecuniaria – pari a € 2.165.787 – e le ingiunge di astenersi dal porre in essere comportamenti analoghi. La soc. Saint Gobain propone ricorso dinnanzi al Tar Lazio avverso il predetto provvedimento sanzionatorio dell’AGCM, chiedendone l’annullamento. Con la sentenza n. 10180 del 2008, il Giudice adito respinge il ricorso, ritenendo pienamente legittimo l’impianto sanzionatorio stabilito dall’AGCM, sotto il profilo dell’individuazione del mercato geografico dominante, della posizione di dominanza nel mercato e delle condotte abusive contestate. La soc. Saint Gobain, infatti, persegue una strategia escludente volta ad impedire, ostacolare e ritardare l’ingresso nel mercato del cartongesso di un nuovo concorrente – nella specie Fassa S.p.A.. La società soccombente, dunque, propone appello dinanzi al Consiglio di Stato ribadendo, principalmente, le medesime argomentazioni difensive eccepite in primo grado di giudizio. Con la sentenza in rassegna, il Collegio conferma quanto già statuito dai Giudici di prime cure circa la legittimità del provvedimento sanzionatorio irrogato dall’AGCM e si sofferma puntualmente sulle problematiche legate all’esercizio – e soprattutto all’ampiezza – del sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo sugli atti delle Autorità amministrative indipendenti. 184 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 9. La decisione Cons. St., sez. VI, 21 maggio 2013, n. 2722 – Pres. Maruotti – Est. De Michele – Saint Gobain Ppc Italia S.p.A. c/ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e altri «[Omissis] Le questioni sottoposte all'esame del Collegio investono un provvedimento sanzionatorio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per abuso di posizione dominante e presuppongono un sintetico richiamo all'ambito di esercizio - ed ai conseguenti limiti - del sindacato giurisdizionale di legittimità sull'operato delle cosiddette Autorità indipendenti. Le Autorità hanno natura amministrativa e sono soggette al principio di legalità ed a quello della riserva di legge per il relativo funzionamento, quest'ultimo caratterizzato da ampi margini di discrezionalità tecnica ed assoggettato alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, prima ex art. 33 L. n. 287 del 1990, poi, con decorrenza 16 settembre 2010, ex art. 133, comma 1, lettera l) del codice del processo amministrativo (c.p.a.), approvato con D.Lgs. n. 104 del 2010. Il sindacato giurisdizionale è contenuto sul piano della legittimità e non anche del merito, tranne che per quanto riguarda le sanzioni pecuniarie, ex art. 134, comma 1, lettera c) del medesimo codice. Circa i limiti dell'ordinario sindacato di legittimità, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere al riguardo quelli riconducibili ai noti profili sintomatici dell'eccesso di potere, che circoscrivono il giudizio sugli atti discrezionali (cfr. in tal senso Cass. civ. SS.UU., 29.4.2005, n. 8882; Cons. St., sez. VI, 21.9.2007, n. 4888, 10.5.2007, n. 2244, e 1.10.2002, n. 5105), in coerenza con le regole tecniche e le competenze scientifiche, che rientrano nel bagaglio di conoscenze specialistiche, proprie di ciascuna Autorità. In ordine all'apprezzamento - condotto in base a dette competenze ed insindacabile nel merito – occorre pertanto un'ulteriore riflessione, intesa a coordinare l'evoluzione giurisprudenziale, in materia di sindacato di legittimità sugli atti discrezionali, con le peculiari esigenze del giudizio su provvedimenti delle citate autorità Garanti. In via generale, infatti, è ormai pacificamente affermata la cognizione piena del Giudice Amministrativo anche in rapporto all'esercizio di discrezionalità tecnica, dovendosi essa esercitare in rapporto a fatti che devono risultare sussistenti, a seguito delle acquisizioni probatorie emerse nel corso del procedimento. In tale ottica - ed in applicazione del principio di effettività della tutela delle situazioni soggettive protette, rilevanti a livello comunitario (quale principio imposto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, promossa dal Consiglio d'Europa nel 1950) - se è vero che il Giudice non può sostituirsi all'Amministrazione, è anche vero che il medesimo Giudice non può esimersi anche dal valutare l'eventuale manifesta erroneità dell'apprezzamento dell'Amministrazione stessa. A differenza di quanto previsto in rapporto alla cosiddetta discrezionalità amministrativa, corrispondente alla scelta della soluzione ritenuta più opportuna, per il soddisfacimento dell'interesse pubblico (adeguatamente bilanciato con ogni altro interesse rilevante), nel caso concreto, ove debba esercitarsi una discrezionalità tecnica l'esercizio del potere può richiedere in effetti non solo una scelta di opportunità, ma anche l'esatta valutazione di un fatto secondo i criteri di determinate scienze o tecniche. Il sindacato di legittimità del giudice, in tale ultima fattispecie, si estrinseca nella 185 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V possibilità di accertare se l'atto si ponga al di fuori dell'ambito di esattezza o attendibilità, non risultando rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia (cfr. Cons. St., sez IV, 13 ottobre 2003, n. 6201). L'indirizzo sopra sintetizzato si è tradotto nelle formule, di norma utilizzate dalla giurisprudenza, secondo le quali l'esercizio della discrezionalità tecnica deve rispondere ai dati concreti, deve essere logico e non arbitrario. L'orientamento giurisprudenziale indicato mira a garantire un giudizio coerente con i principi, di cui agli articoli 24, 111 e 113 Cost , nonché 6, par.1, CEDU. In tale ottica è necessario che la pretesa fatta valere in giudizio trovi, "se fondata, la sua concreta soddisfazione" (Corte costituzionale, sent. n. 63 in data 1 aprile 1982), che il giudice abbia una cognizione estesa a tutte le questioni di fatto e di diritto (cfr. Corte Europea dei diritti dell'uomo, Albert et Le Compte c. Belgio, par. 29, 10 febbraio 1983) e che il controllo giurisdizionale su un atto amministrativo non sia limitato alla compatibilità di esso con la norma attributiva del potere (Corte Europea dei diritti dell'uomo, Obermeier c. Austria, par 70, 28 giugno 1990). Per i provvedimenti delle Autorità Garanti, tuttavia, l'evoluzione della giurisprudenza in materia di sindacato sugli atti discrezionali non può non incontrare una delimitazione almeno in parte diversa, tenuto conto della specifica competenza, della posizione di indipendenza e dei poteri esclusivi, spettanti alle medesime: non è consentito per il giudice l'esercizio di un potere sostitutivo, salvo come già ricordato per le sanzioni pecuniarie, sulle quali è consentito dalla legge un controllo più penetrante; come osservato dalla giurisprudenza, infatti, il giudizio dell'Autorità trova come parametri di riferimento non regole scientifiche non opinabili, ma valutazioni, anche di natura prognostica, a carattere economico, sociologico, o comunque non ripercorribile in base a dati univoci (cfr., per il principio, Cons. St., sez. VI, nn. 2199/2002, 5156/2002, 926/2004, 6152/2005; Cons. St., sez. III, 25.3.2013, n. 1645). [Omissis] Nel merito, va ricordato come l'Autorità Garante della concorrenza e del mercato abbia individuato in determinate attività, poste in essere dalla società Saint Gobain Ppc Italia s.p.a. (già Bpb Italia s.p.a.) un abuso di posizione dominante, contrario all'art. 102 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (Tfue), attraverso una “complessa e articolata strategia globale, volta ad impedire l'ingresso nel mercato del cartongesso dell'impresa potenzialmente concorrente Fassa s.p.a.”. A tale riguardo, la medesima Autorità imponeva alla citata società Saint Gobain di astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quelli oggetto dell'infrazione accertata ed applicava una sanzione amministrativa pecuniaria, pari ad Euro. 2.165.787,00 (Euro duemilionicentosessantacinquemilasettecentottantasette/00). La legittimità del lungo ed articolato provvedimento, col quale la medesima Autorità è pervenuta alle conclusioni sopra riportate, deve, nei termini già in precedenza esposti, essere rapportata ai seguenti parametri: a) corretta rappresentazione dei fatti, in base a valutazione sia degli elementi di prova raccolti dall'Autorità Garante che delle prove a difesa fornite dalle imprese interessate (Cass. civ. SS.UU., 29.4.2005, n. 8882); b) coerenza e attendibilità dell'istruttoria espletata, nonché delle conseguenti iniziative, indirizzate a reprimere le condotte risultate devianti e ad assicurare il ripristino di corrette regole di mercato; congruità e ragionevolezza della motivazione in base a parametri di comune esperienza, con riferimento a tutte le figure sintomatiche di eccesso di potere (Cons. St., sez. VI, 23.4.2002, n. 2199); c) sussistenza e corretta applicazione, o meno, di regole tecniche, la 186 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V cui verifica richieda apposite conoscenze specialistiche, ma - in considerazione della già ricordata, peculiare posizione di indipendenza dell'Autorità Garante - senza alcun potere sostitutivo, ove non esattamente riscontrabili ma frutto di un apprezzamento complesso (con la sola eccezione del sindacato sulle sanzioni pecuniarie, sulle quali è ammesso un sindacato esteso al merito). La disamina condotta in base ai suddetti criteri, ovvero sotto il profilo della corretta acquisizione e della coerente elaborazione dei dati conoscitivi, posti a base del provvedimento impugnato, appare sufficiente per confermare, ad avviso del Collegio, le conclusioni della sentenza appellata, circa la fondatezza dei rilievi dell'Autorità Garante e delle misure conseguenti, risultando il provvedimento sanzionatorio contestato riferibile ad un comportamento articolato, volto in effetti ad eludere le regole concorrenziali del mercato. [Omissis] Deve quindi essere affrontata, con riferimento al quarto motivo di gravame, la problematica sostanziale di sussistenza, o meno, delle condotte abusive oggetto di sanzione. Come già riferito nella parte in fatto della presente decisione, tali condotte si sarebbero concretizzate in interventi di varia natura, indirizzati ad impedire, o quanto meno ad ostacolare, l'entrata di un nuovo concorrente nel mercato del cartongesso. [Omissis] Nella situazione in esame, gli elementi indiziari appaiono, in effetti, numerosi e convergenti, ovvero tali da suffragare l'attendibilità delle motivate valutazioni dell'Autorità, senza trovare adeguata confutazione nelle argomentazioni difensive dell'appellante, tenuto conto delle circostanze oggettive che emergono dagli atti (come suffragate dalla documentazione interna e riservata di Bpb e dalle testimonianze raccolte), nonché in presenza di anche successivi riscontri, come quello riferito al modesto sfruttamento della cava La Pietra, in precedenza sottratta all'acquisto di Fassa. [Omissis] Resta da valutare la congruità della quantificazione della sanzione pecuniaria di Euro. 2.165.787, contestata nel sesto ordine di censure per violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili. Detta sanzione risulta applicata per violazione dell'art. 102 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (Tfue) - come recepito dalla legge 10.10.1990, n. 287 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) con riferimento ad una condotta idonea ad arrecare pregiudizio al commercio tra Stati membri, in quanto limitativa della concorrenza. [Omissis] Anche per l'applicazione della misura sanzionatoria di tipo pecuniario e per la relativa quantificazione, infatti, il provvedimento impugnato risulta ampiamente motivato e coerente, risultando approfondita sia la nozione di gravità della condotta (intesa come strategia globale escludente della concorrenza, da sottoporre a valutazione unitaria), sia la relativa durata (circa cinque anni e mezzo). E' stato, quindi, correttamente rilevato come il complesso di attività poste in essere da Bpb avesse posto "ingenti barriere" all'entrata di nuovi operatori, con "significativo nocumento alle possibilità di scelta ed al benessere dei consumatori, derivante dalla riduzione della concorrenza effettiva e potenziale nel mercato". La gravità della condotta è stata, pertanto, commisurata non solo al riconosciuto danno economico di Fassa (entrata nel mercato con notevole ritardo e a costi maggiori), ma anche all'effetto di deterrenza delle condotte escludenti rilevate per la concorrenza potenziale ("in ragione dell'effetto di monito" su futuri operatori diversi da Fassa), nonché all'indotta contrazione di 187 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V dinamiche innovative nel mercato di riferimento (in quanto una ridotta competitività fra le imprese concorrenti si traduce, inevitabilmente, in minore incentivazione ad investire, per accrescere l'efficienza di ciascun operatore). [Omissis] In tale contesto, il Collegio non ritiene superato il sussistente principio di proporzionalità della sanzione, espressamente richiamato dal regolamento 4064/89CEE ed affermato dalla Corte di giustizia, secondo cui "i provvedimenti che incidono sulle situazioni soggettive degli interessati" debbono essere "proporzionati ed adeguati alla situazione cui intendono porre rimedio, in modo da non imporre misure eccedenti". Quanto sopra sia in rapporto alle disponibilità economiche dell'appellante - quale gruppo di notevoli dimensioni operante a livello internazionale (ferma restando la commisurazione della sanzione stessa alla quota di fatturato, relativo alla parte italiana del mgr) - sia in rapporto alla pluralità ed alla gravità dei comportamenti sanzionati, implicanti anche uso strumentale della Giustizia per finalità diverse da quelle formalmente enunciate (di natura civilistica, o di difesa dell'ambiente). [Omissis] P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello [Omissis]». 188 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 32. Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo favorevole Consiglio di Stato, sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183 4. Il fatto La società Immobiliare Emiliana srl si rivolge nel 1998 al Comune di Como per ottenere il rilascio di una concessione edilizia per la costruzione di autorimesse su tre piani - di cui due fuori terra - in un'area ubicata nel centro storico della città, inclusa nel programma urbano parcheggi (PUP). Il provvedimento concessorio viene rilasciato dall'amministrazione comunale. Tuttavia, su ricorso di un condominio confinante e di un condòmino, lo stesso viene dapprima sospeso con ordinanza del TAR Lombardia – impugnata, ma confermata in appello - quindi annullato con sentenza n. 3415/1999 passata in giudicato, in quanto ritenuto illegittimo a causa del progetto sulla cui base era stato emesso, non conforme alle previsioni normative applicabili. La concessione edilizia, infatti, era stata rilasciata nonostante si basasse su progetti adottati in violazione delle distanze minime dal confine e tra fabbricati, in base ai regolamenti ed agli strumenti urbanistici locali. A questo punto la società propone ricorso al TAR per ottenere il risarcimento del danno che ritiene di aver subito in conseguenza dell'illegittimo rilascio della concessione edilizia; la ricorrente lamenta un pregiudizio derivante dall'aver ottenuto un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, rivelatosi però in un secondo momento illegittimo e, dunque, caducato dal giudice. Viene chiesto il risarcimento tanto del danno emergente - spese di progettazione, spese sostenute in esecuzione di contratti stipulati per la realizzazione dell'opera, stipulazione di preliminari di vendita dei box, spese legali e varie – quanto del lucro cessante, corrispondente al mancato guadagno del corrispettivo dei 28 box che la società è ormai in procinto di costruire. La sezione seconda del TAR Lombardia – Milano, con sent. 5004/2005, respinge il ricorso, ritenendo che non possa configurarsi una responsabilità risarcitoria in capo alla p.a, per le conseguenze dannose derivanti dall'annullamento di un titolo edificatorio, nei confronti di chi ne abbia chiesto il rilascio presentando un progetto non conforme alla normativa edilizia e urbanistica. Il provvedimento, infatti, è risultato non conforme a legge, perché la domanda della stessa società si è basata su ricostruzioni progettuali illegittime. Secondo il TAR il privato che presenti un progetto edilizio, avvalendosi per giunta dell'opera di qualificati professionisti, ha per primo l'onere di verificarne la conformità alla normativa in vigore e non può pretendere di addossare all'Amministrazione gli effetti dannosi da lui stesso originati. Nella motivazione del giudice di primo grado viene posto l'accento sul principio di “autoresponsabilità” di chi chiede alla pubblica amministrazione il rilascio di atti autorizzativi; tale principio viene ricavato sia dall’art. 1227 c.c., ove si esclude il risarcimento dei danni riconducibili al fatto colposo del creditore, sia dall’art. 50 c.p., 189 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V applicabile anche in materia di responsabilità civile extracontrattuale, che esclude l’antigiuridicità dell’atto lesivo derivante dal consenso del titolare del diritto. In sostanza per il TAR la mancata realizzazione delle opere è stata originata non dalla illegittimità della concessione edilizia, ma dall’illiceità intrinseca dell’intervento progettato dalla Società stessa, la quale non ha diritto per questo ad alcun ristoro di un danno non qualificabile come ingiusto. Sulla base di queste considerazioni il giudice afferma che non può ravvisarsi l'elemento soggettivo ex art. 2043 c.c., cioè la colpa; perché questa si configuri, infatti, occorre che ricorra un errore inescusabile nel comportamento del soggetto pubblico, non riscontrabile se il vizio progettuale è addebitabile, ancora prima, al privato. Pertanto, con atto d'appello l'originaria ricorrente si rivolge al Consiglio di Stato, contestando l'erroneità della sentenza di primo grado. 5. La decisione Consiglio di Stato, sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183 - Pres. Pajno - Rel. Tarantino «[Omissis] 1. Preliminarmente, il Collegio rileva che la richiesta ex art. 1338 c.c. non è stata proposta con il ricorso di primo grado e, pertanto, la correlata azione a tutela dell’affidamento non può essere avanzata, peraltro, con semplice memoria, in sede d’appello, restando il giudizio dinanzi a questo Consiglio delimitato in ragione del thema decidendi ritualmente introdotto dinanzi al primo Giudice. 1.1. Del resto, una simile domanda avrebbe sollevato anche un problema in ordine alla corretta individuazione del plesso giurisdizionale competente, atteso che secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, 23 marzo 2011, n. 6596: “La controversia avente ad oggetto la domanda autonoma di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di un pubblico servizio, successivamente annullata dal Tar perché illegittima su ricorso di un altro concorrente, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in giudizio l’accertamento della illegittimità dell’aggiudicazione (che, semmai, la parte aveva interesse a contrastare nel giudizio amministrativo promosso dal concorrente) e, quindi, non rimproverandosi alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti, ma la colpa consistita nell’averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a seguito della gara.”. Ogni eventuale interrogativo sul corretto riparto di giurisdizione appare, però, sopito dalla forza del giudicato, non essendo stato prospettato ritualmente dinanzi a questo Consiglio. Solo incidentalmente può, inoltre, notarsi che l’affidamento per essere ingenerato necessita del decorso di un congruo lasso temporale che in ragione della distanza temporale intercorsa tra l’adozione del provvedimento concessorio e l’ordinanza cautelare di sospensione degli effetti adottata dal TAR per la Lombardia non pare decorso. 190 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 1.2. Occorre, quindi, ribadire che la richiesta risarcitoria avanzata in primo grado ha ad oggetto la lesione giuridica dell’interesse legittimo dell’odierno appellante in relazione al potere amministrativo illegittimamente esercitato. Si verte, in definitiva, in uno di quei casi di danno da provvedimento illegittimo favorevole. L’odierna appellante, infatti, invoca il risarcimento dei danni cagionati dall’adozione di un provvedimento satisfattivo della propria istanza procedimentale, ma illegittimo e per questo caducato in sede giurisdizionale con sentenza divenuta definitiva. 2. In assenza di accertamento in merito alla spettanza del bene della vita oggetto della concessione non vi è lesione dell’interesse pretensivo fatto valere dalla società. Pertanto, il presente appello deve essere respinto. 2.1. Nel percorso di valutazione del danno da lesione di interesse legittimo imputato a provvedimento illegittimo in assenza di una disciplina specifica occorre seguire le coordinate tipiche dell’illecito aquiliano. Pertanto, il primo passo da compiere è quello di verificare se si sia in presenza di un danno non jure e contra jus. È noto, infatti, che nel passaggio dall’art. 1151 del codice civile del 1865 all’art. 2043 del codice civile del 1942 l’ingiustizia non qualifica più il fatto ma il danno, risultando abbandonata un’ottica improntata unicamente sul carattere sanzionatorio della responsabilità extracontrattuale. Ciò nonostante già nell’impero della vecchia disciplina, l’esegesi giurisprudenziale dominante richiedeva che il fatto ingiusto fosse altresì lesivo di una posizione giuridica soggettiva aliunde sancita. Con il passaggio al nuovo paradigma normativo appare chiaro che: a) si abbandona l’idea della centralità della funzione sanzionatoria dell’illecito aquiliano; b) si fa strada l’idea dell’atipicità dei fatti illeciti; c) si inaugura il dibattito verso il riconoscimento di danni non più meramente patrimoniali; d) si sposta l’attenzione dal danneggiante al danneggiato. 2.2. Venendo più da vicino alla nozione di danno attualmente vigente deve rammentarsi come si contrappongano due impostazioni. Secondo la prima il danno è ingiusto se non è giustificato, ossia se è prodotto in assenza di autorizzazione, quale può essere l’esercizio di un diritto o nel nostro caso l’esercizio legittimo di un potere amministrativo. Secondo quest’impostazione l’art. 2043 c.c., paradigma di riferimento anche nell’odierna controversia, rappresenta un sistema autosufficiente nel quale il danneggiante sopporta qualsiasi conseguenza negativa si verifichi nella sfera patrimoniale del danneggiato. Seguendo questa via interpretativa sono risarcibili anche i danni economici puri. Pertanto, in assenza di una norma autorizzatrice il danno è valutato, calcolando la differenza tra l’ammontare del patrimonio del danneggiato prima e dopo il fatto illecito. Quest’approccio ha avuto certamente il merito di contribuire a risarcire il danno rispetto a fatti illeciti nei quali non appariva come immediatamente definibile la posizione giuridica incisa. Nasce in questo modo l’ambiguo danno all’integrità del patrimonio, utilizzato dalla Suprema Corte di Cassazione nel noto caso De Chirico. Quest’impostazione appare, però, non meritevole di condivisione e già superata in relazione al danno dal lesione di interesse legittimo dalla stessa Corte di Cassazione nella celebre sentenza n. 500/1999. A ben vedere, infatti, il “danno” non può essere sine jure, sembrando più consono utilizzare tale locuzione per il “fatto”, potendo quest’ultimo risultare o meno autorizzato. Pertanto, per non tradire la chiara indicazione legislativa l’ingiustizia dovrà anche essere riferita al “danno”, che dovrà presentarsi come contra jus, avendosi in questo modo un doppio giudizio sia sulla condotta del 191 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V danneggiante che sulla lesione di un bene giuridico del danneggiato. Una simile scelta rassicura anche in ordine alla limitazione del potere creativo del Giudice, che troverà nel paradigma dell’art. 2043 c.c. non una clausola generale, ma una norma generale, nel senso che a fronte dell’atipicità dei fatti non jure, dovrà rintracciare comunque un danno contra jus, che sarà comunque tipico, poiché la risarcibilità resterà ancorata alla presenza di una posizione giuridica soggettiva precedentemente riconosciuta dall’ordinamento. [Omissis] 3. Esatte queste premesse la richiesta risarcitoria della Società appellante non può essere accolta, perché il riscontro della pretesa in esame supera solo il primo sbarramento legato all’ingiustizia del danno, ossia quello legato alla presenza di un danno (rectius, un fatto) non jure. Infatti, è stato appurato con sentenza irrevocabile che il potere amministrativo è stato utilizzato in modo illegittimo. L’amministrazione, pertanto, ha posto in essere una condotta non autorizzata. È il secondo passo, invece, a non poter essere compiuto. Non si apprezza nella controversia in esame la lesione dell’interesse legittimo dell’appellante. Infatti, proprio la sentenza invocata da quest’ultimo per provare il fatto ingiusto ha accertato l’assenza di un danno ingiusto, perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo. Tanto che l’amministrazione, qualora avesse posto in essere una condotta jure avrebbe dovuto respingere l’istanza di concessione edilizia. Si tratta, in definitiva, di una conclusione che appare in linea con la direttrice tracciata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 6596/2011, che fa derivare l’assenza di giurisdizione del g.a. dinanzi ad una richiesta risarcitoria per un danno derivato al destinatario di un provvedimento illegittimo favorevole, dalla circostanza che il rimprovero mosso all’amministrazione da parte dell’odierno ricorrente, non ha ad oggetto l’esercizio illegittimo del potere, consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la condotta colposa, consistita nell’avere orientato l’odierna appellante verso comportamenti negoziali, che, altrimenti, non avrebbe tenuto. Non è, in definitiva, riscontrabile nella fattispecie la lesione dell’interesse legittimo azionato dall’odierno appellante. 4. Le suddette considerazioni consentono di tralasciare la delicata questione inerente l’esegesi dell’art. 1227 c.c., giacché si tratta di un passo ancora successivo, che si sarebbe dovuto compiere solo qualora si fosse riconosciuta la sussistenza di un danno non jure e contra jus. Non appare, infatti, utile operare un accertamento sulla valenza causale del comportamento del creditore-danneggiante, qualora si accerti che difetta in capo a quest’ultimo la lesione della posizione giuridica azionata. 5. Il presente appello deve, pertanto, essere respinto e la disciplina delle spese deve ispirarsi al principio della soccombenza nei sensi indicati in motivazione.» 192 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 33. Il risarcimento del danno da ritardo procedimentale Cons. Stato Sez. VI, Sent., 14/11/2014, n. 5600 1. Il fatto Il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) indice, con bando dell'8 aprile 1993, un concorso interno per soli titoli finalizzato all'individuazione di quarantuno funzionari appartenenti al V livello economico, «profilo funzionario di amministrazione», da inquadrare nel IV livello economico del medesimo profilo. L'art. 7 del bando prevede che tale livello professionale sia attribuito ai vincitori «con decorrenza, a tutti gli effetti, dal 1 luglio 1989». In data 25 novembre 2003, il CNR pubblica la graduatoria nell'ambito della quale il sig. S.A. viene collocato all'undicesimo posto; successivamente, tuttavia, lo stesso CNR, con atto del 12 gennaio 2004 prot. n. 1934868, lo elimina dalla graduatoria finale di merito in quanto già cessato dal servizio in data 1 aprile 2002. Ritenendo che l'amministrazione abbia agito in maniera illegittima, il concorrente escluso si rivolge al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, chiedendo l'annullamento dell'esclusione e il risarcimento del danno subito per il lungo tempo trascorso per l'espletamento della procedura concorsuale (undici anni in totale). Il Tribunale amministrativo, con sentenza non definitiva 15 febbraio 2011, n. 1425, declina la propria giurisdizione sulla questione relativa alla progressione in carriera, trattandosi di una progressione orizzontale e non verticale, riconoscendola, invece, in ordine alla richiesta risarcitoria. Con la stessa sentenza chiede all'amministrazione di rivalutare "ora per allora" i titoli del ricorrente per stabilire se lo stesso, qualora il concorso si fosse concluso nei termini previsti, sarebbe risultato vincitore. La decisione del giudizio viene definitivamente emessa con la sentenza 15 maggio 2012, n. 4382. In particolare, il giudice accoglie la domanda di risarcimento del danno da ritardo, basandosi sulla valutazione della documentazione depositata dall'amministrazione: nel verbale del 25 novembre 2003, n. 75 risulta che la commissione aveva collocato il ricorrente all'undicesimo posto. Conseguentemente, il CNR viene condannato a corrispondere al ricorrente una somma pari alle differenze lo stipendio ricevuto dal ricorrente e quanto avrebbe percepito se gli fosse stata riconosciuta la progressione in carriera nel periodo che va dal 1 luglio 1989 al 1 aprile 2002. A tale somma, rileva il Tribunale, deve essere aggiunta la rivalutazione monetaria e gli interessi legali fino al soddisfo. Il CNR, considerando non corretta la pronuncia, propone appello al Consiglio di Stato. 193 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V 2. La decisione Corte cost., Sent., 24-06-2010, n. 226 – Pres. Amirante – Red. Frigo «[Omissis] 1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla sussistenza dei presupposti per la configurabilità della responsabilità del Consiglio nazionale delle ricerche conseguente alla violazione delle norme che impongono il rispetto di determinati tempi per la conclusione della procedura concorsuale. Nello specifico la questione attiene alla sussistenza della responsabilità per avere concluso il concorso, descritto nella parte in fatto, dopo undici anni dalla sua indizione. Ciò avrebbe impedito alla parte privata, resistente nel presente giudizio, di ottenere i benefici della progressione in carriera, in quanto la stessa, prima dell’approvazione della graduatoria, è stata collocata a riposo per il raggiungimento dei limiti di età. 2.– In via preliminare, deve rilevarsi che l’art. 2 bis della legge n. 241 del 1990 prevede che la pubblica amministrazione è tenuta «al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». La giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di chiarire che, affinchè sia configurabile tale responsabilità, devono sussistere tutti i presupposti, oggettivi e soggettivi, della responsabilità dell’amministrazione in quanto «il mero superamento del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno» (Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2014, n. 2964). Elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione, sul piano della fattispecie, sono: i) l’elemento oggettivo consistente nella violazione dei termini procedimentali; ii) l’elemento soggettivo (colpa o dolo); iii) il nesso di causalità materiale o strutturale; iv) il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo al rispetto dei predetti termini. Sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo, così come sopra individuato, deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati. In relazione alla colpa, deve ritenersi che la violazione del termine faccia presumere la sua sussistenza, che può essere superata mediante la dimostrazione di un errore scusabile dell’amministrazione. In particolare, integra gli estremi dell’esimente da responsabilità l’esistenza di: a) contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma; b) una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) una rilevante complessità del fatto; d) una illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (cfr. Cons. Stato, sez. III, 6 maggio 2013, n. 2452; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2013, n. 798; Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1114). In relazione al nesso di causalità, lo stesso, in presenza di vicenda quale quella in esame, deve essere ricostruito valutando se, in applicazione della teoria condizionalistica e della causalità adeguata, è “più probabile che non” che l’omissione della pubblica amministrazione sia stata idonea a cagionare l’evento lesivo (si vedano le argomentazioni contenute in Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2014, n. 2792). 3.– Con un primo motivo, si assume che non potrebbe configurarsi la responsabilità del CNR, in quanto la durata del concorso è dipesa da difficoltà 194 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V organizzative e logistiche, derivanti dalla necessità della previa determinazione della vacanze dei posti disponibili, nonché dal fatto che si sono resi doverosi due successivi annullamenti d’ufficio per «irregolarità commesse nel corso del procedimento». I motivi non sono fondati non potendo quelle dedotte ritenersi idonea cause esimenti. In relazione alle asserite difficoltà organizzative, le stesse sono state genericamente indicate e non supportate da idonea dimostrazione che risultava tanto più necessaria in presenza di una procedura concorsuale per soli titoli senza espletamento di prove scritte e orali. In relazione agli annullamenti d’ufficio, gli stessi, essendo riconducibili all’attività della stessa amministrazione, non possono, per definizione, costituire una causa di giustificazione. 3.– Con un secondo motivo si deduce che mancherebbe un ulteriore presupposto costituito dal possesso della qualifica di dipendente al momento della presentazione della domanda. Il motivo non è fondato per la semplice ragione che la mancanza della qualifica costituisce proprio il presupposto della responsabilità. 4.– Con un terzo motivo si assume che il CNR, in ogni caso, non potrebbe essere responsabile per eventuali comportamenti illegittimi posti in essere dalle commissioni di concorso. Il motivo non è fondato. Le commissioni di concorso sono organi dell’amministrazione, con la conseguenza che l’attività da esse poste in essere è giuridicamente imputabile, anche per i profili di responsabilità, all’amministrazione. La interruzione del nesso di imputazione giuridica si ha soltanto nel caso in cui l’organo ponga in essere fatti di reato o comunque idonei a impedire ogni riferibilità dell’azione all’ente. 5.– Con un ultimo motivo si assume la erroneità della sentenza nella parte in cui non ha proceduto ad una valutazione equitativa del danno parametrata alla «perdita della possibilità di conseguire la superiore posizione». Sotto altro aspetto si deduce la erronea condanna al pagamento di interessi e rivalutazione e non la condanna al pagamento dei soli interessi legali, con decorrenza dal 12 gennaio 2004. Il motivo non è fondato. Agli atti del processo è stato depositato il verbale del 25 novembre 2003 dal quale risulta, in maniera certa, che se l’amministrazione avesse rispettato i tempi di conclusione del procedimento la parte appellata avrebbe ottenuto il riconoscimento della nuova qualifica. La peculiarità della vicenda consegna, pertanto, un quadro in cui il nesso di causalità è ricostruito secondo il criterio della certezza e non della mera probabilità. La qualificazione del comportamento come illecito civile giustifica la condanna dell’amministrazione al pagamento di una somma di denaro che, dovendo essere qualificata come debito di valore, impone, secondo quanto correttamente ritenuto dal primo giudice, il cumulo tra interessi e rivalutazione (Cons. Stato, sez. V, 25 giugno 2014, n. 3220). 6.– In applicazione della regola della soccombenza, l’appellante è condannato al pagamento, in favore della parte resistente, delle spese processuali che si determinano in euro 5.000,00 (cinquemila), oltre accessori di legge. P.Q.M. 195 DA I (LETT. M-Z) GN. CASI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO. MODULI I-II-III-IV-V Il Consiglio di Stato, Sezione sesta, definitivamente, pronunciando: a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata; b) condanna l’appellante al pagamento, in favore della parte resistente, delle spese processuali che si determinano in euro 5.000,00 (cinquemila), oltre accessori di legge Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. [Omissis]». 196