1. Così parlò Aristotele (ipse dixit)

FORZA, VELOCITÀ E ACCELERAZIONE: UNO SGUARDO CONTEMPORANEO AI PRINCIPI DELLA DINAMICA
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ARISTOTELE, GALILEO, NEWTON:
FORZA, VELOCITÀ E ACCELERAZIONE
ANDREA FROVA
Dipartimento di Fisica, Università di Roma ‘La Sapienza’
V’è un concetto che lega i tre grandi pensatori con un ideale filo rosso. Aristotele
scrisse: «La Natura non produce nulla che non sia utile», Galileo: «E sempre gustai
della semplicità e facilità della Natura, che non intraprende a fare quello che non può
essere fatto, non opera con molte cose quello che può con poche», e Newton infine: «La
Natura non fa nulla di inutile, giacché il più non serve, quando basta il meno: essa ama la
semplicità e disdegna il fasto delle cose superflue». E così un altro concetto, che limiterò
all’enuciazione fatta da Galileo: «Val più trovare il vero di picciol cosa che il disputar
lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nessuna». Vediamo in figura
1 i ritratti dei magnifici tre. Un posto di quarto magnifico spetterebbe naturalmente
ad Einstein, che
Figura 1. Aristotele, Galileo Galilei, Isaac Newton.
completerà il discorso sui problemi dell’accelerazione di gravità avviato da Aristotele.
Ma Einstein è degnamente celebrato in altre conferenze, essendo stato il 2005
proclamato anno mondiale della Fisica, in quanto ricorrenza del centenario della
relatività ristretta.
1. Così parlò Aristotele (ipse dixit)
Aristotele non si interessò della fase iniziale di caduta dei gravi, osservandone soltanto
il moto a regime, quando la velocità di caduta diviene costante. Affermò che quanto
più un corpo pesa, tanto più velocemente scende di quota. Generalizzando il discorso
al caso di forze qualsiasi, Aristotele disse che applicando una forza più grande a un dato
corpo gli si imprime una velocità maggiore (una carrozza tirata da due cavalli viaggia
più velocemente che se il cavallo è uno solo). Secondo gli aristotelici, dunque, varrebbe
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PIANETA GALILEO 2005
una legge di diretta proporzionalità tra forza F e velocità v, che matematicamente
potremmo scrivere
v = kF (con k = costante)
Nel caso dei corpi lanciati, Aristotele disse che la spinta del lancio rimane sul corpo
come ‘forza impressa’, esaurendosi gradatamente nel tempo. Se osserviamo la caduta di
un corpo in un mezzo molto denso, ad esempio nell’olio, si può avere effettivamente
l’impressione che le cose vadano in quel modo, ma se il mezzo è poco denso, tipo l’aria,
la caduta è troppo rapida per potersi pronunciare in proposito.
Per due millenni i filosofi peripatetici assunsero le affermazioni di Aristotele come
il Verbo. Qualcuno, ad esempio Filopono, commentatore di Aristotele del VI secolo
d.C., scrisse timidamente: «Lasciando cadere due pesi dalla stessa altezza, uno molto più
pesante dell’altro…, vedrete che la differenza dei tempi di caduta è assai piccola ». Anche
Leonardo da Vinci si pronunciò in maniera simile. Ma l’autorità di Aristotele è così
forte che resiste a tutte le obiezioni.
2. Galileo Galilei e il piano inclinato
Galileo è uno dei primi a farsi beffe delle credenze basate sul dogma e sull’autorità degli
antichi (cosa che, lo sappiamo, pagherà cara). Sui filosofi peripatetici ironizza:
«Mi trovai un giorno in casa di un medico molto stimato in Venezia, dove
alcun i per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder
qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che
diligente e pratico notomista… e mostrando il notomista come, partendosi dal
cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi
distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo
sottilissimo… arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per
filosofo peripatetico… gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i
nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato
alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente
aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che
apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla
per vera».
Circa la caduta dei gravi, la sua rivoluzione anti-aristotelica è preceduta da uno scritto
del 1585 di Giovanni Battista Benedetti il quale (in latino) afferma che, se l’attrito
del mezzo è trascurabile, tutti i corpi cadono nello stesso modo. Ci arriva con un
ragionamento per assurdo di cui Galileo si appropria, esponendolo però in italiano e
in forma più elegante. Riassumendo, Galileo dice: supponiamo per assurdo che, come
asseriscono gli aristotelici, un corpo più pesante arrivi al suolo più presto di uno più
leggero. Allora, se incolliamo i due corpi assieme, il loro maggior peso li farà arrivare a
terra ancora prima. Ma potremmo anche pensare che il più pesante acceleri la caduta
del più leggero, e che nello stesso tempo quest’ultimo agisca da freno sul primo. Nel
qual caso i due
ARISTOTELE, GALILEO, NEWTON: FORZA, VELOCITÀ E ACCELERAZIONE
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Figura 2. L’esperimento “immaginato” di Galileo.
corpi assieme arriverebbero a terra in un tempo intermedio tra quello dell’uno e
dell’altro presi separati. Due verità contrapposte, come illustrato in figura 2, quindi
l’assunto iniziale deve essere errato. Conclusione: sotto l’effetto della sola forza peso
tutti i corpi cadono di moto uniformemente accelerato con identiche modalità.
Invece, in condizioni in cui l’attrito diventa apprezzabile (per esempio dopo un
lungo percorso di caduta), il corpo più pesante arriva a terra per primo perché in
genere ne risente di meno. La previsione di Galileo per un oggetto sferico è semplice
ed elegante. Il peso, forza agente, va con il cubo del raggio; l’attrito, forza resistente,
va invece con il quadrato del raggio, poiché dipende dalla sezione normale del corpo.
Quindi più il raggio cresce, più il peso domina sull’attrito: l’accelerazione tende al
valore ideale dettato dalla gravità e il processo si avvicina alle condizioni di caduta libera
nel vuoto. La descrizione implica quindi una fase di accelerazione iniziale che tosto o
tardi si esaurisce a seconda dell’importanza maggiore o minore dell’attrito.
Galileo suggerisce anche, al fine di risalire al comportamento nel vuoto, di operare in
un mezzo gassoso via via meno denso, in modo da poter estrapolare i dati alle condizioni
di densità nulla (procedura divenuta standard in vari ambiti della fisica moderna). Per
inciso, si può ricordare che l’olandese Stevin già nel 1586 aveva notato una piccola
differenza nel tempo di caduta di due corpi di diverso peso ascoltando il rumore che
producevano cadendo su una tavola di legno da appena 10 m di altezza. La storica
esperienza dei pesi lasciati cadere dalla torre di Pisa, spesso attribuita erroneamente a
Galileo, fu in effetti eseguita da un suo allievo, Vincenzo Renieri, nel 1641, poco prima
della morte del maestro. L’esperienza in condizioni di reale vuoto si può eseguire oggi
in laboratorio oppure sulla luna, come dimostrato dagli astronauti americani per mezzo
di una piuma e di un oggetto pesante.
Il semplice schema in figura 3 suggerisce che cosa succede. Il peso è costante, la
forza d’attrito, che ha segno opposto, cresce linearmente con la velocità di caduta.
Quando la forza d’attrito eguaglia il valore del peso, la forza risultante sul corpo è
nulla, esso smette di accelerare e prosegue la discesa con velocità costante (com’è per
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PIANETA GALILEO 2005
un paracadute). Se il mezzo è assai denso, olio ad esempio, tale condizione terminale
viene raggiunta prestissimo e la velocità di caduta appare quasi subito costante e
proporzionale appunto al peso, come volevano gli aristotelici. In caso contrario, la fase
di accelerazione è importante e va esaminata con la necessaria perizia.
Figura 3. La velocità di caduta di un corpo diviene costante quando la forza resistente
dovuta all’attrito del mezzo arriva a bilanciare la forza-peso.
Poiché la caduta in aria è così rapida da non permettere di seguire nel tempo la fase
di accelerazione iniziale (non va dimenticato che ai giorni di Galileo gli orologi non
esistevano), lo scienziato pisano ebbe la geniale idea di rallentare la caduta facendo
scendere una sferetta lungo una guida inclinata e ben levigata e misurando il tempo
con un ‘cronometro ad acqua’ (cioè pesando la quantità d’acqua sgocciolata da una
bacinella in un bicchiere per la durata del moto della sferetta). Ripetendo la misura
su diverse lunghezze del percorso, arrivò a definire la legge del moto uniformemente
accelerato, in base al quale la velocità cresce linearmente con il tempo e lo spazio percorso
quadraticamente con esso. Scrisse: «moto equabilmente, ossia uniformemente accelerato,
dico quello che, a partire dalla quiete, in tempi eguali acquista eguali incrementi di
velocità». In termini matematici, dunque, non più v = kF alla maniera di Aristotele, ma
invece v = at, con a = accelerazione costante e t = tempo. Illustri scienziati dell’epoca
– Cartesio, Mersenne – si rifiutarono di credere che l’esperienza fosse stata davvero
realizzata, ma oggi diversi studiosi nel mondo sono riusciti a riprodurla esattamente
come Galileo la progettò, incluso l’impiego del cronometro ad acqua. Alle basse velocità
acquisite dalla sferetta l’attrito poteva essere ritenuto trascurabile, quindi Galileo aveva
di fatto stabilito sperimentalmente la legge di caduta libera dei gravi e determinato
l’accelerazione (ovviamente, avendo tenuto in debito conto il fattore pendenza).
Figura 4. Copia della guida inclinata di Galileo presso il Museo di Storia della Scienza di Firenze.
ARISTOTELE, GALILEO, NEWTON: FORZA, VELOCITÀ E ACCELERAZIONE
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Tutto ciò implica che la proporzionalità non sia tra forza e velocità, bensì tra forza
e accelerazione. In assenza di forza risultante non può esservi accelerazione, per cui la
velocità di crociera resta costante (principio di inerzia). Nel caso di una carrozza a cavalli,
l’argomento che aumentando il numero dei cavalli la velocità aumenta è prontamente
rimosso osservando che la velocità di regime della carrozza si ha quando la forza traente
(cavalli) e quella resistente (attrito dell’aria o del suolo) si equilibrano. In altre parole, la
carrozza a regime avanza senza accelerazione, quindi di moto inerziale.
Figura 5. La velocità di crociera si ha allorché la forza trainante
eguaglia quella resistente dovuta ai vari attriti.
Accanto al principio di inerzia, Galileo pone quello di relatività, in base al quale
le leggi che descrivono un fenomeno sono identiche per tutti gli osservatori inerziali,
vale a dire che si trovano in un sistema fermo oppure che si sposta con moto rettilineo
uniforme. Celebre è il suo pezzo descrittivo degli eventi che avvengono nella stanza
sotto coperta di una nave che scivoli sul mare senza sussulti, eventi che si svolgono
esattamente come se la nave fosse immobile.1 Tuttavia, Galileo non dispone degli
strumenti matematici atti a formulare le leggi del moto in forma analitica: ha difficoltà
a definire la velocità e l’accelerazione istantanee, in quanto dal punto di vista dello
sperimentatore qualsiasi misura richiede un intervallo di tempo finito, quindi fornisce
un valore medio delle grandezze cercate.
2. Isaac Newton e i differenziali
Le difficoltà di Galileo vengono superate con l’avvento del calcolo infinitesimale,
dovuto a Newton e indipendentemente a Leibniz, dove viene introdotto il concetto di
differenziale di una grandezza, una quantità infinitamente piccola, ma che non è zero.
Se Δt è un intervallo di tempo finito e lo si suddivide in due intervalli più piccoli, il
differenziale dt del tempo viene definito come il limite cui Δt tende dopo un numero
infinito di suddivisioni del genere. Lo stesso si può dire dello spazio Δx percorso nel
corrispondente intervallo di tempo. Allora dalla velocità media <v> = Δx/Δt si passa alla
velocità istantanea v(t) come limite per Δt che tende a zero:
v(t ) = lim∆t→ 0
∆x dx
=
∆t dt
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PIANETA GALILEO 2005
dove dx/dt si dice derivata dello spazio rispetto al tempo. Per avere l’accelerazionee
istantanea a(t) occorre derivare la velocità rispetto al tempo
dv(t ) d 2 x(t )
a(t ) =
=
dt
dt 2
È ora immediato per Newton ricavare espressioni quantitative per le leggi di
Galileo. Scrivendo l’equazione che prende il suo nome, cioè forza eguale a massa per
accelerazione, si ha
F = ma = m
d 2x
dt 2
che integrata una prima volta dà la velocità istantanea al tempo t (avendo preso la
velocità iniziale eguale a zero)
dx
F
= v = t = at
dt
m
e una seconda volta lo spazio percorso nel tempo t (avendo preso lo spazio iniziale
eguale a zero)
x=
1 2
at
2
dove, nel caso di caduta libera, per l’accelerazione a va presa quella gravitazionale g.
Dall’equazione di Newton seguono subito i principi galileiani di inerzia e di
relatività. Se infatti si prende F = 0, l’accelerazione a è nulla e la velocità si mantiene
costante (moto inerziale). Quanto alla relatività, se un osservatore si trova in un sistema
inerziale avente velocità costante v0, dall’equazione di Newton segue
a′ =
d(v ± v 0 ) dv
=
=a
dt
dt
vale a dire che l’osservatore in moto giudica l’eventuale accelerazione a’ del corpo in
esame esattamente eguale a quella misurata da un osservatore fermo, ossia a.
Infine, l’equazione di Newton ci permette anche di descrivere la caduta di un corpo
in un mezzo con viscosità. Basta affiancare alla forza peso mg una forza di attrito –bv,
dove il meno indica che è una forza resistente, tanto più grande quanto più grandi sono
la velocità v e un fattore b che rende conto della viscosità del mezzo e dall’aerodinamicità
del grave:
mg − bv = ma
Integrando si deduce rapidamente l’espressione
v=
mg
b

 bt  
1 − exp −

 m  
ARISTOTELE, GALILEO, NEWTON: FORZA, VELOCITÀ E ACCELERAZIONE
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il cui andamento è illustrato in modo significativo dalla figura 6
Figura 6. La caduta in un mezzo viscoso non può superare una velocità terminale di saturazione.
L’incremento della velocità nel tempo va scemando fino a che viene asintoticamente
raggiunto un valore limite di saturazione, dopo il quale l’accelerazione cessa e la velocità
si mantiene costante (effetto paracadute). Si vede immediatamente che il valore di
saturazione della velocità è dato da
v terminale =
mg
b
ossia è proporzionale al peso del corpo mg, come aveva sostenuto Aristotele.
E Einstein? Eistein sarà colui che stabilirà il principio di equivalenza tra un sistema
in accelerazione e un sistema soggetto a campo gravitazionale, illustrandolo ai profani
con il celeberrimo esempio dell’ascensore in caduta libera. Con lui nascerà il concetto
di incurvamento dello spazio allorché sono presenti masse atte a creare un campo
gravitazionale. Ma questo è un altro discorso.
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NOTE
1
Dal Dialogo sopra i due massimi sistemi: «Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia
sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi
anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a
goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando
ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte
le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti
entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la
dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi,
come si dice, a pie’ giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente
tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così,
fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante
in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno
di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i
medesimi spazii che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la
poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la
parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla,
per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi fuste situati per l’opposito; le gocciole
cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola
è per aria, la nave scorra molti palmi…»